Luigi Speranza -- Grice e Chiocchetti:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale prammatica – scuola
di Moena – filosofia trentina -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel
Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Moena). Filosofo
trentino. Filosofo italiano. Moena, Trento, Trentino-Alto Aidge. Grice: “I like
Chiocchetti – a surname most Englishmen are unable to pronounce, but cf.
Chumley! – For one, he exapanded, alla Croce on Vico as proposing ‘espressione’
as prior to ‘communicazione,’ as I do – but he went further – he studied the
Latin-language author, and saint, Aquinas, and his ‘modi di significare’ –
Lastly, he expanded on ‘pragmatism’ as the term of abuse it MUST be! Why are
non-philosophers OBSESSED to keep miscalling me a ‘pragmaticist’ who is into
‘pragmatics’ – It’s totally anti-Oxonian – Oxford being the epitome of
aestheticism – to do so! Chiocchetti also played with the abused term,
‘scolastic’: he thought there are two scolastics: the palaeo-scolastici, or
scolastici simpiciter, and the ‘neo-scolastici,’ like his self! He wrote a
little tract on Gentile, who ungently threw it onto the wastepaper basket!” --
Veste l'abito francescano. Conclude gli studi secondari a Rovereto. Durante il
corso di teologia si appassionò agli studi biblici, anche se non gli venne
concessa la possibilità di approfondirli presso l'Istituto biblico francescano
di Gerusalemme e la Facoltà teologica di Vienna. Ordinato sacerdote. Studiò
filosofia a Roma presso il Collegio internazionale di San Antonio. Tornò quindi
a Rovereto per insegnare filosofia presso il liceo interno all'Ordine dei
Minori e iniziò un'assidua collaborazione, su invito di Gemelli, alla Rivista
di filosofia neoscolastica fin dalla sua fondazione. Progettò uno studio
sistematico sulla filosofia di Henri Bergson, interrompendolo definitivamente
per approfondire ulteriormente la sua preparazione filosofica a Lovanio, centro
degli studi neoscolastici. Subito dopo si recò in Germania, a Fulda, per
ascoltare Konstantin Gutberlet, e successivamente a Vienna, dove frequentò come
uditore le lezioni di psicologia di Wundt. Tornato all'insegnamento a Rovereto,
assunse la direzione della Rivista tridentina. Note C. su
siusa.archivi.beniculturali. Faustini,, C., SERBATI e la cultura trentina: un
filosofo ladino tra Trentino ed Europa, Trento, Pancheri. Faustini,, C.: un
filosofo francescano di fronte alle sfide del Novecento: antologia, scritti di
filosofia e cultura, Trento, Pancheri, C. un filosofo francescano tra il
Trentino e l'Europa: atti del seminario di studio promosso dal Museo storico in
Trento, svoltosi a Trento. "Archivio Trentino", Pietroforte, Storia
di un'amicizia filosofica tra neoscolastica, idealismo e modernismo: il
carteggio Nardi-C., Firenze, Sismel Edizioni del Galluzzo, Centi, Un filosofo
francescano C. Trento, Gruppo culturale Civis, Coen, C. in Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
(Dizionario biografico degli italiani) G. Consolati,, C. filosofo trentino
rettore generale francescano e professore di storia della filosofia moderna
alla Università cattolica del S. Cuore, Trento, Saturnia, C. in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C., su
siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze
Archivistiche. Opere di C..Pubblicazioni di C., su Persée, Ministère de
l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation. LE GRANDI
CORRENTI DEL PENSIERO COLLEZIONE DIRETTA DA PICCOLI C. Milano IL 5a PRAGMATISMO
agi E 7 EDIZIONE ATHENA MILANOVia Vigentina' 7-9 s santo, MRETTRI s», è ita,
canina eno er insit) miri iztarta e ea Nihil obstat quominus imprimatur 19
Mediolani, Bernareggi. Nihil obstat quominus imprimatur Mediolani,Mons. Can.
Cavezzali. ALL'AMICO P. ARCANGELO MAZZOTTI CHE NELLA VITA VISSUTA ANCHE PIÙ
TENUE SA CERCARE E COGLIERE LA FILOSOFIA sg ca Ripubblico, a richiesta d'amicì,
in volume questi «saggi» sul Pragmatismo, già pubblicati, parecchi anniì sono
nella Rivista di filosofia Neoscolastica, per chè il Pragmatismo contiene
aspetti di verità che non A vanno dimenticati. Quali siano quest» aspetti verrà
rilevulo nella esposizione che ne faccio seguendo i Uue principali
rappresentanti di esso il James e lo Schiller. f In questa esposizione ho
introdotto solo mulazioni accidentali, più che altro verbali, che mettano
quella corrente nei tempi suoi, già mollo lontani spiritualmente dai nostri.a
E. C. LLINEE FONDAMENTALI DEL PRAGMATISMO. Sommarto. II Pragmatismo.
Pragmatismo e Umanismo. Pragmatismo e conoscenza. Nell' Inghilterra e
nell'America, come è noto, la filosofia ha avulo sempre un carattere
prevalentemente pratico, cioè, ha studiato con particolare predilezione quei
problemi filosofici che si riferiscono alla teologia, alla morale, al diritto e
alle scienze pratiche, in generale; e, anche quando si è sollevata alle più
alte speculazioni, non ha mai perduto il contatto intimo con la vita pratica
«ed è stata più sollecita della ricerca del vero in vista dell'organizzazione
della vita reale, che non dell'astrazione collivata per sè stessa e per la
sodisfazione dello Spirito. Per ciò che riguarda l'Inghilterra basta pensare
alla filosofia di Hobbes e di Bacone, all filosofi cmpirica e crilica di Locke,
alla filosofi naturale di Newton, alle dottrine teologiche dei De Cfr. «Revue
Néo-Scolastique», dove son tiLortate dall'opera: La Philosophie en Amérique del
VAN B CELAERE' (New-York) le parole citate. La «Revue Néo-Sc Stiquen ne di un
amplo riassunto col titolo: Le mouveme hilosophiqgue en Amérique. Vedi anche i
riassunti cli relazioni sullo stato della filosofia contemporanea in InghilMica
in America: « Rivista di Filosofia Neo-Scolastica wu N. IL SEE. Linee
fondamentali sti, alla fase clica del movimento empirico del secolo XVIII,
all'Associazionismo e all'Utilitarismo. Nell'America i primi a interessarsi di
speculazioni filosofiche furono i colonizzatori della nuova Inghilterra, degli
inglesi emigrati, i quali naturalmente portarono al di lù dell'Oceano la
caratteristica della filosofia della madrepatria: l'atteggiamento pratico, che
assunse allora, per speciali circostanze storiche, un carattere religioso. È
vero che, nell’Inghilterra, «una corrente più profonda non ha mai cessalo di
rimontare in senso opposto (alla corrente empirica). Essa si manifesta con
Herbert di Cherbury, con i Platonici di Cambridge, nella scuola scozzese. del
‘senso comune, e apparisce nella sua forma più sorprendente in Berkeley,
fondatore dell'’idealismo inglese; è rinforzata più tardi da Kant, Lichte,
Hegel e Lolze; ma anche questa controcorrente non ha mai perdulo il'carattere
pratico, sperimentale, e tende ad appoggiarsi più volentieri sulla volontà e
sul sentimento e a trascurare le categorie puramenle logiche dell’Idealismo
tedesco » . Lo stesso sì deve dire della filosufia in America. Quando la
rivoluzione americana pose fine al peTiodo coloniale e nel libero paese
cominciarono a manilestarsi varie e nuove correnli filosofiche ppiella del
senso comune, il Trascendentalismo di Kunt e de’ suvi discepoli, specie di
Hegel; l'Idealismo di Berkeley ecc., la filosofia conservò sempre la tendenza
ad avvicinare la speculazione alla vita, a non perdere il contatto con la
realtà, a far risallare il carvaltere pratico dei problemi filosofici. « Negli
scritti, p. es., dei seguaci dell'Idealismo Kanliano non è la critica che tiene
il primo posto, ma la psicologia cosidella scientifica in opposizione alla
psicologia metufisica» . Cfr. in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica » (1 i
Ssunto della relazione del MACHENZIE: La EIA nea in Inghilterra, donde sono
prese le parole citate. Revue Néo-Scolastique », I. c. rat ET tit, 0 ELLI a_n
GI Il Pragmatismo ('S Allualmente i due indirizzi filosofici predominanti nel
mondo inglese-americano sono o erano qualche anno fa il Neo-hegelianismo e il
Neo-volontarismo. Quale dei due trionferà? Se la storia ci può ammaestrare, se
il carattere cinico dei due paesi può servire di fondamento a una previsione,
se, sopratutto, i sc si guì dei lempi sono veridici c intendo la reazione
"i Vivissima contro l'indirizzo Neo-hegeliano e la ten- DI denza della
filosofia contemporanea a dare il valore Li principale della valutazione delle
vedule speculative i al sentimento e alla volontà possiamo applicare anche
all'Inghilterra quello che il Turner scrive dell'America: « È verosimile che il
corso fuluro del pen| siero filosofico non subisca tanto l'influsso dei Neo. hi
legeliani quanto quello dei Neo-volontaristi ». Ebbene, poichè il
Neo-volontarismo americano non è che il Pragmalismo, non sarà senza interesse
lo studiarlo, lauto più che esso non è più limitato a quelle regioni, ma ha
suscitato anni addietro vivo a interesse in lutto il campo filosofico, dove,
accanto e ; ul critici severi, trovò dei caldi ‘ammiratori. 1 suoi nu
espositori cd apostoli più autorevoli ne annunziava-. n° no, con lono da
epinicio, il trionfo sicuro su tutte le filosolie avversarie. Già lo Schiller
aveva annunziato il maturarsi di grandi eventi nel mondo intellettuale à danno
delle antiche forme di pensiero e a tulto vantaggio di una forma nuova. È, come
a sintomi | di un tempo propizio a nuove intraprese filosofiche secondo la
nuova forma, egli guardava con compiacenza al successo che ha avuto l'opera del
Balfour: «Le basi della fede»; alla serie di opere popolari. del James: «Lu
volontà di credere, Immortalità _ mana, Le varie forme della cuscienza
religiosa» | alle letture di James \vard « Naturalismo e agno È | Slicismo», e,
sopratutto, all'esser uscito da Oxforà, «una volla centro di Idealismo, un
manifesto così dace com'è «L’'idealismo personale» dello stesso | Schiller e di
altri membri dell’Università, e ai lavori Linee fondamentali della scuola di
Chicago (alla testa della quale slava è il Prof. Dewey), pubblicali nelle «
Decennial Publica ‘ tions» della Università . i; Quivi afferma pure che il
Pragmatismo «non passa più inosservato: esso ha raggiunto la fase del «batti ma
ascolta!» e quando i falsi concetti, È dovuti a prella mancanza di famigliarità
con la dot- |A trina, saranno dissipati, entrerà in una fase di ulile D
applicazione ». D'allora fino a pochi anni fa, il Pragmatismo s'è * affermato
con sempre crescente energia, suscitando vive polemiche, incontrando simpatie e
disprezzo, seguaci c avversari, così che polè scrivere il James: «Oggi la
parola Pragmatismo empie le pagine delle © riviste filosofiche. E ancora:
«Parecchi indirizzi di pensiero che mancavano di un denominatore comune lo
trovano nella parola Pragmatismo » . Esso ha avuto in tutte le nazioni
rappresentanti di grande valore, fra quali, i principali sono: in America il
James e il Dewey; in Inghilterra Jo Schiller; in Germania il Simmel e il
Jerusalem , in Ilalia gli seriltori del Leonardo, specialmente il Papini; in
Francia, ScHiLcen, IJumanisim, VIII-IX, London, Macmillan 1903. Ri; (9) Der
Pragmatismus. Ein neuer Name fr alte Denkmetho«en, trad, in tedesco dal Prof.
\VILHELM JERUSALEM, Leipzig. Verlag. von Klinkhardt. Di questa traduzione
tedesca mi servo nella esposizione del Pragmatismo. Sì è voluto vedere un
Pragmatista anche nell'Eucken. In s tà il suo «ttiwismo non ha niente a che
vedere col Pragmatsmo, L'Attivismo poggia sopra determinate presupposizioni
metafisiche, mentre il Pragmatismo è puramente empirico; a eno il Pragmatismo
inglese e americano, «Il ripudiare com fa l'Eucken, Ja concezione
intellettualistica della vita, non è una caratteristica del Mo- | | talismo e
di Misticism ca À « n Pragmatismo ma di ogni specie di (OA 2 vrib CE: Il
Pragmatismo . Blondel, Roy, Bergson e molti fra i modernisli più avanzati. Come
si vede, aveva un po' ragione lo Stein quando scriveva: «Abbiamo di nuovo una «
parola d'ordine» filosofica, che è diventola grido di guerra di un nuovo
indirizzo di pensiero, di un movimento filosofico che passa potentemente dall’
America sul vecchio mondo e comincia a incerospare la superficie - delle nostre
acque stagnanti ». Facciamoci a considerare davvicino una tale filosofia,
allenondoci specialmente ai suoi due rappresentanti più illustri: il James e lo
Schiller. gs 2 Il nome pragmatismo viene dal greco pragma che significa azione,
operazione, viene dalla stessa radice che ha dato origine alle parole prassi,
pratico; perciò, più italianamente sì chiamercebhe praticalismo. Jl primo a
introdurlo nella filosofia è PEIRCE [citato da H. P. Grice] nel senso di un
metodo che consiste nel giudicare del valore di una affermazione dalle sue
conseguenze nella pratica, ossia di un metodo che era già stato applicato
dall’empirismo inglese alla valutazione delle conoscerize umane. Ecco in breve
Ja sua dottrina. È un falto psicologico che il dubbio, l'incertezza producono
in noi uno stato di malessere, di irritazione; uno stalo spiacevole insomma,
Per uscirne e noì vogliamo uscirne è necessaria una convinzione, una credenza
in cuì l’attività del pensicro possa riposare: la credenza attutisce le
sofferenze del dubbio. Produrre la credenza è la sola funzione del pensiero: il
pensiero in altività non persegue allro fine che il riposo del pensiero e lo
distinguono profondamente dall'inglese-americano. «Archiv. fur system Philos.»
Egli espose il suo sistema fino dal 1878, ma non fu che | dopo essersi servito
lungo tempo della parola CART EVA nella conversazione, che la stampò nel 1902
in un articolo . | dizionario del Baldwin. Così MARCEL HénerT, Le Pragmatism
Bi. Alcan, Paris. Lan "a IL pragmatismo francese ha peculiarità tutte proprie
che. 2A f 10 Linee fondamentali quindi tutto ciò che non contribuisce alla
formazione della credenza non fa parte del pensiero propriamente detto. La
credenza, poi, ha per fine di produrre un'abiludine alliva, che diventa regola
per fazione. Se le credenze mettono fine allo slesso dubbio, creando la stessa
abiludine e la stessa regola d'azione, non diversificano fra loro. Per
sviluppare, quindi, il senso d'un pensiero non c'è da far altro che determinare
quali abitudini essa produce, poichè il senso d’una cosa consisle semplicemente
nelle abiludini che essa implica. Il caraltere di un'abiludine dipende dal modo
con cui essa ci fa agire in ogui possibile circostanza... e il fine dell'azione
è di condurre a un risultato sensibile. Noi prendiamo, così, il sensibile e il
pralico come base di qualunque differenza di pensiero, per quanto sottile possa
essere. Non v'è nuance di sigmificalo così sottile da non polev produrre una
differenza nella pratica . In allre parole: Il pensiero crea la “convinzione,
la convinzione è regola dell'operare e in tanto vale in quanto ci fa operare;
fine dell’opel'are è il risullato sensibile, pratico: questo, dunque, deve
servirmi di crilerio per giudicare del valore del pensiero, per conoscere con
chiarezza il significato dei concetti. Come render chiare le nostre idec?
Inlerpreliumole dal punto di vista pratico, domandianio ad esse quale
efficienza pralica contengono, quali Sensazioni possiamo aspellarci
dall'oggetto che ci bappresentano, e quali reazioni dobbiamo preparare. La
rappresentazione di questa efficienza pratica, mediaia 0 immediata, costituisce
per noi l'intera rap. presenlazione dell'oggello e in ciò sla tutto il
significalo positivo della rappresentazione. « L'idea di una cosa è l’idea dei
suoi effelli sensibili », dice PEIRCE [citato da H. P. GRICE]. E contradittorio
il dire che si conosce con Così nell'articolo «ITow to make our ideas clear pub
pippoz pt Egnular Science SOA Y >, 1878-XII, e tradotto «Rev HosophiQuew
1879-VII: «( x È ados sansa DI phig TO-VII Comment vendre nos « Revue
philosophique». | IRIS Il Prugmatismo precisione l'effetto di una forza, ma che
non si comprende ciò che è la forza in sè slessa; conoscendo gli effetti della
forza si conoscono tutti i fatti implicili nella affermazione della esistenza
della forza e uon v'è più nulla da conoscere. Come render chiare le nostre
idee? «Pensando », risponde il Des Carles, conducendole alla evidenza della
proposizione: « Cogilo ergo sum ». Agendo, ri sponde PEIRCE [citato da H. P.
Grice]; rendendo esplicita la potenzialità ‘* d'azione che è in esse,
nell'oggetto rappresentato: è ciò che agisce, è distinto ciò che produce
effetti distinti nella vila pralica: dunque al: «Cogito ergo. sum » sì
cosliluisca V« Ago ergo sun ». Tulta la funzione della filosofia è di scoprire
quale differenza definitiva forà a ine 0 a te in definiti istanti della vila se
questa è quella formuia del mondo fosse la vera. 4 Tale è il principio del
Pragmatismo. Rimasto inosservato per venVansi fu mpreso dal James ed appli calo
alla religione , prima, alla conoscenza 10:C Ca nerale poi. D'ullova in por
tanto il nome quanto i principio hanno falto forluna, così che i due leader:
pragmalisti ce no possono dure una esposizione co vaggiosa e abbastanza
sistemalica in due opere ap parse nel niondo anglo-sassone e diffuse
rapidamente fra i cultori di filosofia. “a Per comprendere l'importanza del
principio enun: 3 ciato, ci avverte il James (8), bisogna abiluarsi ad
applicarlo vi casi particolari, come fece con perfetta | chiarezza, senza
nominare il Pragmatismo, l' Osl- wald nelle sue lezioni sulla filosofia della.
nalu -. TTI) 92. Ne Tm una conferenza tenuta nel 1898 davanti alla società. fil
“sofica di Howison nella università di California, Al JAMES il n | me non
Dpince, ma ormai «è troppo tardi per cambiarlo »; egli dice nella prefazione al
« Prugmatismus», Zweite Vorlesung, Linee fondamentali conforme a ciò che egli
stesso scrisse al James: « Tutte le realtà influiscono sul nostro operare c ?
questo influsso è quello che per noi esse significano. - Nelle mie lezioni iv
sono solito domandarmi: in qual differente rapporto starebbe ‘il mondo se fosse
vera questa v quella alternaliva? Se non trovo niente per cui sarebbe
differente, l’alternaliva non ha sensi so » . Che è quanto dire: le opinioni
rivaleggianti, «nel caso. hanno identico significato pratico e non esiste che
un solo significato: il pratico . Ossia: qual'è il valore di un’idea?
Risolvetela in fatti; il valore di questi ‘rappresenta il valore dell'idea. E
poichè i falli in tanto sono in quanto sono da noi csperimentali, il valore di
un'idea mi è dato se la risolvo in terraini di esperienza. Applichiamo, p. es.,
sil principio del Pragmatismo all'idea di sostanza. Una sostanza noi la
conosciamo per i suoi attributi (accidenti) ai quali si riduce tulto ciò che di
essa si può esperimentare: che sotto gli accidenti ci sia o di essi, è
pralicamente indifferente, lanto che, se Dio, lasciando l'ordine degli
accidenti, distruggesse la sostanza, noi non lu potremmo neanche sapere. Se del
legno mi resta la combastibililà e la struttura Vascolare che può imporlarmi
del quid in sè inaccessibile ad ogni forma di esperienza? d Dunque Ja sostanza
come un quid in sè distinto dagli accidenti non ha valore alcuno: per me la so|
Slanza non è che il complesso de' suoi accidenti. L'unica applicazione
pragmatistica dell'idea di soStanza si ha nell'Eucarislia, dove, per il
caltolico non sono gli accidenti che valgono, ma la soslanza del corpo e del
sanguc di G. C. Così la crilica del Berkeley della sostanza materiale è affatto
pragmalîslica, e pragmalistica è la critica del Locke e del l'Hume della
sostanza Spirituale, e, per parte del Bea, o n () P. 29:50. Anche l'OstwaLo è
contato f | dlallo SCHILLEK e dal JAMES; a ragione, secondo SIT RESTRA 3 oro,
secondo il Croce. Cfr. « Critica» A. VI, {. IÎT ; Ibfa. A non ci sia un quid
come soggetto, sostegno, substrato. ià It Se ll Pragmatismo 13 Locke, è
l'autocoscienza, cioè, il fatto che noi, in un dato istante della vita, ci
ricordiamo di quello che eravamo in altri istanti e sentiamo questi istanti
come parli della stessa serie personale di avvenimenti vissuti. Se, nella
ipolesi dei sostanzialisti, Dio ci togliesse l’'autocoscienza, a che ci
gioverebbe la soslanza dell'anima? Ed ecco perchè l'Hume e, dopo di lui, la
maggior parte dei psicologi empirici, negò l’anima addimttura . Altro esempio.
Il teista afferma che il mondo l'ha cercato Dio; il materialista lo dà come il
risultato di forze fisiche, cieche. Ebbene, le due teorie sono identiche, se il
mondo si. considera come un tutto terminato, completo. Poichè «che valore ha
Dio per il mondo, per noi, se Egli non lo può mutare e far procedere di un
passo? Sé il mondo fa lutto quello che Dio fa?» Ma se il mondo non è al termine
della sua evoluzione, allora la questione: «Materialismo e Teismo» acquista una
importanza vitale. La ‘scienza della natura pre“dica che la fine di ogni cosa e
di ogni sistema di cose cosmiche è lragica morte! Tutto sarà come non fosse
slato mai: luomo e il mondo, la virlù e gli ideali, i dolori e gli amori: ceco
l’ultima parola del materialismo! Ma se Dio esisle, se è Dio che dice al mondo
l’ullima parola, allora potrà perire il mondo materiale, ma gli ideali saranno
conservati e lrionferanno altrove. Il Materialismo nega l'ordine morale e
recide le speranze che su quello si fondano; lo Spiritualismo afferma un eterno
ordine morale del mondo e lascia libero spazio alle speranze Dritte Vorlesung,
p. 52 seg. Non per nulla il JAMES ha dedicato il suo libro alla memoria dello
Stuart Mill, confes sando la sua dipendenza da lul; «Alla memoria di Mill, dal
quale ho imparato la prima volta la pragmatica apertura dello spirito e che,
nella mia fantasia, figuro. così. volentieri come il nostro duce, se vivesse al
presente Non per nulla il sottotitolo aggiunto al Pragmatismo suon . uun nome
nuovo per alcune vecchie maniere di pensare», sua: sono, nient'altro, che Je
maniere del vecchio Empirismo inglese, Linee fondamentali dell'uomo . Lo slesso
principio si deve applicare alla questione della finalità nella nalura e della
libera volontà. Dio, finalità, volontà libera, pragmatislicamente hanno un
senso; intelleltualisticamente nessuno . ) x Empirismo, dunque, e Pragmatismo
applicano lo stesso principio, giungendo, naturalmente, alle stesse
conseguenze. Con una differenza però, tiene a dirci il James. I vecchi
empiristi non fecero che un uso frammentario del principio pragmatislico: ne
erano un semplice preludio. Il Pragmatismo rappresenta l'empirismo in una forma
più radicale e meno aperla alle obbiezioni. Esso volta le spalle risoluto, una
volla per sempre, a una mollitudine di abitudini antiqualo, care ai filosofi di
professione: alle astrazioni e alle sottigliezze, alle soluzioni puramenle
verbali dei problemi, alle argomentazioni «a priobi» ai principî fissi, ai
sistemi chiusi, all’assoluto e all'originario, alla vecchia melafisica
intellettualisfica, Insomma, la quale, quando ha dato al princi. pio
dell'universo un nome misterioso: Dio, materia, ragione, assoluto, energia,
crede di possedere il sismficalo ullimo dell'essere e di aver raggiunto il
fermine delle sue ricerche metafisiche 13). L'atteogiamento di opposizione del
Pragmatismo all’intelIeltualismo, alla filosofia dell’assoluto, all'a priori è
dci più decisi . Il Pragmatismo si volge alla realtà, ai fatti, all'agire, alla
forza, è signore della disposizione empirica, ama l’aria libera e le molteplici
formazioni della natura, sì oppone al dogma, alle artificiosità, alla pretesa
di aver raggiunto la verità definitiva (9). Dritle Vorlesung, p. 59 sgg. p. 76.
«Eine andere als dicse praktische. Bedeu tung haben die Worte: Gott, Will Z, MO
ATADen ensfrelheit, Zweck, ùber Zweite Vorlesung, D. 31-33. E Spesso violento
contro i Neo-hegellani. Più che nel James tale violenza apparisce nello
Schiller, il quale si trova di fronte ad un hegeliano Vi gni ig non meno
aggressivo, quale è {l IUid. p. 32. ne 1° MN i 14 PACI ZZZ Il Pragmatismo 15 Il
Pragmatismo è radicalmente empirico e anti intellettualista perchè vuol essere
una dottrina per la vita prima che della vita, un metodo ordinato alla
sodisfazione dei bisogni umani quotidiani. « Esso non ha dogmi, non ha
dottrine, non ha che il suo melodo. Ci fa stornare da ciò che è primo, dai
principî, dulle calegorie, da presupposle necessità, e ci fa volgere lo sguardo
alle cose ullime, ai frutti, alle conseguenze, ai fatti . Perciò non accella
nulla, non ripudia nulla a priori. a “sso chiede a tulte le teorie, a tutti i
sistemi, a sa lulli i concelli: qual'è il vostro valore pratico? siete. utili e
come e quanto siete ulili alla vila pratica, all'adattamento dell’uomo alla
natura e della natura all'uomo? L'uomo ha due grandi bisogni: di fatti e di
principî, di scienza e di religione. Ebbene, quale filosofia si offre all'uomo
per soddisfare a questi suoi bisogni? O l'Empirismo che degrada l'uomo col suo
Materialismo e nega la religione, o il Razionalismo religioso bensi, ma lontano
da ogni contatto col mon- : do, colle nostre gioie e coi noslri dolori e per il
quale le cose reali sono un niente: è questo il dilemma atluale nella filosofia
. ma Il Pragmatismo invece può soddisfare ambedue quei bisogni: può conservarsi
religioso come i si9 slemi razionalistici e può mettersi in intima unione coi
falli (3;. Il Pragmatismo, come dice Papini, si trova nel mezzo delle teorie
come un corridoio in un albergo. In una slanza v'è, forse, un uomo che la-.
vora intento ad uno scritlo ateislico; nella stanza ulligua un allro chiede a
Dio con la preghiera fede «e forza; in una {erza un chimico ricerca le
proprietà dei corpi; nella quarla sì sta abbozzando un sistema Vily] . «Er hat
keine Dogmen und keine Leh ausser . seiner Methode. Die pragmatische Methode
bedeutet. Keineswegs bestimmte Ergebnisse, sondern nur eine orlentie- rende
Stellungnahme ». >» JAMES consacra alla illustrazione di questo dilemma tutta
la prima lettura: «Das gegenwàrtige Dilemma in der Philosophie. Erste
Vorlesung, DD. . o x è Linee fondamentali di metafisica idealistica, nella
quinta un Tizio dimostra la impossibilità di ogni metafisica. E il corridoio
appartiene a tutti. Tutti vi debbono passare se abSE bisognano di una via
praticabile per entrare e per hi uscire ., Così il Pragmalismo è anzilulto un
metodo: il suo fine è di por terminc alle beghe filosofiche presenì lando un
criterio Pratico per giudicare del valore di NY”. lutte Je dotlrine. Il mondo è
una uni B va plicità? Vi domina il fato 0 vi è una volontà libera? È materiale
o spirituale? I giudizi dati in Proposito valgono tanto che niente e le
discussioni sono interminabili. Ebbene, in questi casi il metodo ;
Ppragmatistico consiste nel lenlalivo di interpretare a ognuno di questi
giudizi dalle sue conseguenze prai tiche. Quale differenza pratica risulterebbe
per qualcheduno se fosse vero l'uno o l'altro di quei giudizi? Se nessuna, i
due giudizì opposti si equivalgono r.raicamente e ogni discussione è oziosa :
dove 1.n c'è differenza di Significato pratico non vi può essere differenza di
significato teoretico. Con questo metodo, sempre secondo il James, si sare gli
allriti, attenuare le contese ie intelligenze, riuscire alla concordia e alla
pace, Esso © dunque un mataviglioso eirenicon perchè «non «Vale la pena di
opporre l'una all'altra nel campo «della speculazione due teorie che abbiano le
medesi f me fo eguenze pratiche per tutti e in. tutti i fem- LE Pi» .
.Contrariamente alla vecchia metafisica il Inelodo Pragmalistico non permette
ecc. come lermine ultimo della ‘l'icerca, ma le fa lavorare nella corrente
dell'esperienza: le teorie non sono soluzioni, ma programma per nuovo lavoro;
non risposte definitive, ma strumenti d'azione, ma indice che cj addita i mezzi
per. Ì ) di considerare le parole : È Dio, materia, energia, ty Gazelle
Vorlesung, p. 34, Questi concetti sono SvIluppati specialme t Il Lettura
seconda: « ]J'gs will der Praggn, tall, J ll Pragmatismo?), er Pragpmatismus?
(Cosa vuole “Ri ORANDO, La Mlosoha | «Rivista Rosminiana SERBATI (si veda)» A
Apologetica Moderna] dell'azione e vr » N., not? PO UTNE e ne I Il Pragmatismo
1? k i) | 1 quali le realtà esistenti possono esser mulate e adattate all'uomo
. Il Pragmatismo toglie così alle i leorie la loru rigidezza, le rende
malleabili, le fa la j vovare . Esso si accorda col Nominalismo nello È i
attenersi al parlicolore, con i’Utilitarismo nell’ac- es | cenluare gli oggetti
pratici, col Positivismo nel di-, i sprezzo delle questioni inutili, delle
soluzioni ver- “@ i bali, delle astrazioni metafisiche, di tutto ciò insomma
che non serve all'uomo nella vita reale. Perchè luomo è il centro
dell'universo, afferma l'Uma nismo conlro il Noaluralismo che considera l’uomo
| è. come parte della natura e contro l'Idealismo che lo son subordina ad un
Assoluto. Alla concezione cosmocentrica (Uanlica) e alla teocentrica (la
medioevale) ani deve sosliluirsi l'aniropocentrica. «L'uomo è la misura di
tulle Je cose!» proclama lo Schiller, il neo- È prolagorista, con Prolagora
l’umanista . L'Umanismo consiste semplicemente nel rendersi conto che sono
degli esseri umani coloro ai quali è proposto. il problema filosofico, degli
esseri umani che si sforzio di comprendere un mondo di esperienza umana | coi
mezzi che fornisce lo spirilo umano. Secondo l'Umanisimo sono «il sentimento e
la vo lonlà che custiluiscono l'interesse centrale dell’essere che usa i sensi
e la ragione come suoi strumenti nel mondo esterno. Theorien werden... zu
Werkzeugen », p: 33. Ibid, Macht sie geschmeidig und lisst sie arbeiten n. Fra
V'Umanismo e il Pragmatismo, quale è esposto dal James, c'è differenza poco più
che di nome. Secondo lo Schil«_ ler l'Umanisino è più largo, il suo metodo sì
applica a tutto: i d@ll'etica, all'estetica, alla metafisica, alla teologia,
mentre il Pragmatismo non si applica che alla teoria della conoscenza. In
realtà Je applicazioni che fa lo Schiller del suo metodo, È le sa o le accetta
anche il James, Lo confessa il James stesso, ] P. Al. n° AE , Protagora
l'umanista, è il titolo del Saggiod Gli: Studies in Mumanism. Egli stesso chiam
il suo sistema neo-Protagoreanismo, > o ip”td - Lince fondamentali Perciò
l'Umanismo implica il Volontarismo, ossia la filosofia più autropocentrica che
si possa dare. L’«ago ergo sum», del Pierce può essere sostituito «dal «volo
ergo sum». L'Umanismo è anch'esso un melodo: ciò che lo caratterizza è il suo
alleggiamento benevolo di fronte a tutte le concezioni, purche non si voglia
erigerle a un che di « assoluto ”, ma sì prendano come pure interpretazioni
umane 5, dell'esperienza umana. Non si dimentichi avverte Schiller «che l’uomo
è la misura di tutte le cose, cioè di iullo il mondo dell'esperienza... non si
dimentichi che l'’uomu è il fattore delle scienze che servono aì fini umani» .
Tutto dall'uomo, tutto all'uomo, tutto per l’uomo: ecco l'’Umanismo. Il
Pragmatismo accetta questa dottrina umanistica, e «io dice il James la tratto
sotto il nome di Pragmmalismo » . L’Uinanismo è, per così dire, il soflio,
l'anima che pervade le affermazioni pragma | lisliche: non ha valore che ciò
che ha un significato per l'uomo. La logica finora ha tentalo di essere una
pscudo-scienzu di un, processo non esistente e im| possibile chiamaio pensiero
puro. In nome di essa ci fu comandalo di espungere dal nostro pensiero Ogni
traccia di sentimento, d'interesse, di desiderio © di emozione, come le Diù
perniciose surgenti di ertore. Così la logica fu ridolta ad una pura rappre|
Sentazione sislemalica falsata dal nostro pensare al luale, perchè non si è
voluto osservare che quegli inMussi (sentimento, emozione) sono egualmente
fonle di verità e pervadono tutto il nostro processo co| gilulivo . Poichè «il
Primo passo nella acquisiHumanisme, (Prefazione) p. xx. Lettura ScHirLen,
Humanism, p. X. E allo Sc € dobbiamo principalmente 10 SEITE ELE 0 logico e
gnoseo zione di nuove conoscenze è l'intervento di un postulato emozionale. Non
si può passare dal noto all'ignoto, o, certo, la natura data di un conosciutu
non può formare il a fondamento logico per la inferenza di caratteristiche 0
opposte nel non conosciuto, se non c'entra il deside- |. Ù rio. Come posso, p.
es., inferire dal male che c’è nel ò mondo la necessità dell’esistenza di un
mondo mi: gliore, sc il ragionare come afferma la logica tradizionale è il
prodotto di un pensiero puro non affetto da volizione? «Sollanto se una
trasfigurazione sconosciuta dell'altuale è desiderata, può esser pensata e, in
parecchi casì, ‘rovata. Tutte le concatenazioni di un pensiero puro non
influenzato dall'affetto non potrebbero mai raggiungere e ancor mero
giustificare quella conclusione: per raggiungerla il nostro pensiero deve
ricevere l'impulso ced esser guidato dai suggeri menti della volizione e del
desiderio » . La ragione «pura» e una pretla finzione c una impossibilità si
psicologica; lu strultuva reale della ragione attuale E è essenzialmente
pragmatistica ed è penetrata fino n] nelle midolla (permeated (lhrough and
through) da ulti di fede, da desiderì di conoscere e da volontà di credere, di
non credere, di far credere. E altrove: Dini” La intellezione pura non è un
fatto che abbia luogo | in natura; essa è una finzione logica. Im realtà il * a
nostro conoscere è condotto e guidato, ad ogni passo, dai nostri interessi e
dalle nostre preferenze, dai | Il Praghiatismo / i | nostri desiderî, dai
nostri bisogni e dai nostri fini. x Questi formano il potere movente della
nostra vita intellettuale. « Vi souo ragioni del cuore delle quali la testa non
3: sa nulla , postulati di una fede che sorpassano la È «To attain it, cur
thougth needs to be impelled vi ‘na guided by the promptings of volition and
desiro ». POS) L'aforismo, citato dallo Schiller, è di BIAGIO PASCAL,(Pensées),
LA 4 20 Linee fondamentali intelligenza pura e possiedono una razionalità più
alta che un gretto inlellettualismo non è riuscito a comprendere. L'irrazionale
si trova ad ogni passo, in ogni processo della vita conoscitiva ». La fede «sla
a base di ogni «ragione» e la pervade, anzi la razionalità stessa è il supremo
postulato della fede. Senza fede non c'è ragione; la fede è un ingrediente nel
progresso della conoscenza; realizza sè stessa nella conoscenza che ne
abbisogna e ia aiula alle conquiste fulure. Così sparisce l’antitesi tra fede e
ragione perchè la razionalità pura non esiste . Il carattere leleologico della
vita mentale influenza e pervade le nostre ullivilà cognoscilive più remole.
Questo, secondo lu Schiller, è il pensiero centrale del Pragmatismo: ne dà la
vera definizione . Il pensiero Non è un prosesso aslrallo, ma si svolge in una
- psicologia concrela, è una funzione vitale è perciò finalistica. L'uomo non
pensa per pensare e il Pragmalismo è: «una prolesta sistematica contro
l'ignovanza della finalità nella‘conoscenza » . La volontà, lintenzionalilà è
da per tutto: il Volontarismo si constata nella psicologia, nella logica e
nella metafisica, È questo uno dei lralli caratteristici del Punto di visia
leleologico. Il Pragmatismo si formula da per lutto in funzione della finalili.
La ragione è un'arma nella lolla per l'esistenza cun mezzo per l'adattamento »
. Ne segue che l’uso pratico che ha presiedulo al suo (della ragione) Questi
concetti lo Schiller li ha svolti speci: te i JI S ° seialmenie in un articolo:
NFailh, reason and religion pubblicato SI The Ilibbert Journal. Vi si dice, tra
l'altro, che è base essenziale in scienza e in religione partire da
supposizioni che TS OLolale provate o che non possono provarsi. Così, se ;
Viviaino per fede può anche esser veri r Ralemo pen pata L e esser vero che
cono Mumanism, D. 8. Cfr. anche Stud. in Ium, Stud. in Hum Essay, I et * Èssay,
I $ II È ques a ses sette definizioni che lo Schiller ci dà del PRE Se nite e
collegate l’una con l'altra nei S S b ;3 «I cannot but conceive the Or AR] In
the struggle for existence and tation è. pag. 7, Humanism, reason as being... a
weapon a means of achieving adap à, cea Il Pragmatismo i svolgimento, deve
essersi impresso profondamente nella sua strullura, se pure non l’ha formata da
istinti prerazionali. Una ragione che non ha valore n pratico ai fini della
vita è una mostruosità, una aber razione morbosa, una mancanza di adattamento
che la selezione naturale presto o tardi deve far spari re {1). Quindi, da
questo punto di vista il Pragma lismo polrebbe definirsi: « Una applicazione coscien
le alla epistemologia (0 logica) di una psicologia te < leologica, che, in
ultima analisi, implica una metafisica voloniaristica » . pis TANA Nice di
questa psicologia felcologica applicata alla conoscenza i problemi della logica
devono apparire sotto un aspelto nuovo e si deve dare una imporlanza decisiva
ai concetti di proposito e di fine. Ta conoscenza presuppone essenzialmente uno
sforzo diretto a conoscere, che, come ogni sforzo, è te-: leologico, ispirato
da un bene che si vuol consegnire. SI Non cè conoscenza senza valutazione; la
conoscenza è una forma di malore, 0, in allre parole, un fattore di bene . Lo
aveva cià dello il Lotze, nola lo Schiller. Il | Lofze, come è noto, insegnava
che «la scienza, come TU la logica, che ne è lo strumento, e come la metafisica
che ne è il coronamento, ha il suo fine e la sua giuslificazione nell'elica, e
irova il suo fondamento | slabile e sicuro in quel primo dato originario e di |
Ù conoscenza immediata che è la nostra vita interiore, i col suo ricco contenuto
di sensazioni, rappresenta zioni, sentimenti e tendenze e col suo largo corredo
di forme, calegorie e leggi, da cui non possiamo pr scindere in qualsivoglia
nostra concezione e valut zione» . Mumanism, p. 8. È la settima definizione del
Pragmatismo. Le altre Je AFONSTRIDO parlando della verità e della realtà nel
Pragmatismo. - ae p Humanism, p. 10. Cfr. anche sl quarto «Essay» di questo
volume: Lotze's Monism, D. 62 SE&. i = L, AMBROSI, Per una monografia
italiana sopra Herm otze «La Cultura Filosofica», A. IMI, N. HI, p. 294-295, ai
dui # iii ar E° vee Linee fondamentali Non è qui il luogo di dimostrare che, se
il Lotze ha dei punti di cuntalto con l'Umanismo, egli perè non è un umanista
alla Schiller. La ragione nelle sue esplicazioni molteplici, è una strumento
ordinato ai fini della vita. È questa la concezione strumentalistica della
conoscenza esposta dal Dewey e dallo Schiller e accettata dal James. Essa è un
portato del metodo evolutivo e della concezione biologica della conoscenza.
Darwin con la teoria della «lotta per l’esistenza » e della « selezio“ne
naturale» aveva insegnato «che nulla può susSistere o svolgersi che non abbia
un determinato Significato per l’intera concatenazione della vita ». Scrittori
posteriori (Spencer, Romanes, ecc.) sostennero che lu vita è un continuo
accomodamento alla natura circostante, fisica, sociale, morale. E ora la teoria
della evoluzione è chiamata da molti a spiegare anche il sorgere e il
progressivo. svilupparsi ella vita cognoscitiva e così i principt evolutivi di
cambiamento, di relalività e di movimento sono ipplicali a spiegare l'origine e
‘lo sviluppo del pensiero in generale, il suo carallere, il suo valore, allo 2
Stesso modo che erano già slali assunti a lumeggia- i __Te c spiegare
l'origine, Îo sviluppo, il significato, il Valore della stutlura, degli organi,
di fulte le dif__ Ierenziazioni biologiche. Come in bio non ha valore nè senso
che per la sua ulili dine all’adatlamento dell'individuo condizioni fisiche
circostanti, ha, cioè un valore e un senso puramente Pratico, così in
psicologia quaai 5 ao L'opera principale del Dewey è: Studies 1 Theory bey John
Dewey, with the Cooperation of embe Fellows of the Departement of Philosophy.
Decennial Pubbli1 one of the University of Chigago Second Series vol. XI e»
Peli ha esposto le sue teorie anche in: The esperimentai Pe: # in: eguig otel
Mina (N. S. 59) 1906, Vol. XV Pp. 293-307; din; nd the Criterion uti Of Tdeas
(N Sì 6) "Vol NV she SII for tne Trutt of Ideas (N. S. Lol), Cir. Baowr,
7hioughi and rh; i * AP TS, ggpletaco, p. VILe VII. 11 Salto; Vol. 1:
Functional GI dottrina comuni col Pragmatism DIA ha parecchi puntf Il
Pragmatismo lunque differenziazione : sensazione, coscienza, pensiero ecc.,
trova tutta la sua raison d’étre e la sua giuslificazione nell’uso, nelle
conseguenze, nella efficacia pratica. La questione di valore non si può
scindere dalla queslione di origine e di sviluppo; la considerazione statica
deve dar luogo alla considevazione dinamica e quindi, per ciò che riguarda il
pensiero, la logica formale alla logica funzionale. La concezione biologica
della conoscenza ha fatto un passo innanzi: non ha detto semplicemente :
applichiamo alla psicologia il metodo evolutivo, (il che, per sè, non inchiude
la riduzione della psicologia alla biologia) ma ha detto che « tutti i prodotti
del pensiero teorelico hanno un carattere utilitario » (biologico) «cioè
servono come strumenti al conseguimento di fini essenzialmente biologici,
perchè mirano a dare soddisluzione alle esigenze dell’organismo cioè ai bisogni
della vita» . Questa subordinazione della vita teoretica alla vita pratica è
capilale per il Pragmatismo: nessuna maraviglia quindi se i suoi leaders
l'hanno accettata e fatta oggetto di studi speciali . DEWEY – Grice, The John
Dewey Memorial Lecture, New York --, oltre alla funzione generale della
conoscenza, ha soltoposto ad analisi il suo aspetto tipico: il giudizio; mentre
lo Schiller s'è occupato partico. larmente degli assiomi primi della
conoscenza. S'è veduto in che cosa consiste la concezione strumentalistica 0
umanistica della conoscenza ; in base Baldwin, Op. c. 1. c. passim. È sostenuta
specialmente dall’Avenarius, dal Mach, dal Jerusalem, dall'Ostwald, dal
Petzoldt e dal Simmel. Cfr. le monografie di A. ALIOTTA sull’Avenarius, sul
Mach, e sull Ostwald in «Cultura Filosofica» a. II, n. % a. DI, n. . . Lo
Psicologismo logico dì A. LEVI: Cuit. Fil. a. III, n. 1, 9, 4, specialmente pp.
242-255. Vedi anche dell’Aliotta: /l pragmatismo anglo-americano, « Cultura
Filosofica » A. LEVI, Lo Psicologismo logico, La « Cult. Fil.» a. IMI, pà et
Intendiamoci: hanno accettato la dottrina della subor‘dinazione della vita
teoretica ai fini pratici, in generale, no ai fini biologici esclusivamente, È
24 Lince fondamentali ad essa il giudizio (dal Dewey) è interpretato in termini
di funzione; esso è una armonizzazione di varie parti della esperienza; è uno
sforzo « per determi. nare gli elementi che realmente procedono di conserva e
per respingere quelli che solo si collegano apparentemente »: così esso si forma,
per differenziazione, sotto l'impulso del bisogno di armonia e di unità nelle
esperienze . To Schiller afferma e dimostra, a modo suo, che gli assiomi
fondamenlali della conoscenza o primi princip! (di identità, di contradizione,
del terzo escluso, di causa) sono dei semplici postulati. Un postulato è «una
supposizione, che senza dubbio l’esperienza ha suggerilo ad una mente che
ricercava, ma che non è, nè può essere lenuta come provata, poichè spesso di
poi la si assume solo perchè la desideriaumo, contro tulta l'apparenza dci
fatti» . I postulali sono domande che noi facciamo alla esperienza; processo di
esperimento ordinato a porre il mondo in armonia coi nostri desiderì; sono
perciò un processo di sviluppo non dissimile dalle altre attività e funzioni umane,
derivando dalle esigenze dell’uomo, dai suoi bisogni, dai suoi desiderì, dal
suo volere: sono quindi un prodolto della attività umana voliliva e affelliva.
Noi desideriamo che una cosa sia quello che è, che 4 sia sempre a, d sempre Db,
ecc. perchè diversamente, come polremo conoscere la sua condotta futura
rispetto a noi? e, per conseg&uenza noi desideriamo che nulla venga a
distruggere quella idenlità: così nascono il principio di identità e di
contradizione, che sono due aspelli (poSilivo e negalivo) dello stesso
principio, Noi esigiaMo delie distinzioni precise, delle disgiunzioni complete,
perchè con esse possiamo dominare (assimi- II, passim, Vedi anche N. c. dove si
trovano le parole da’ Personal Idealism « Arioms La Cultura Filosofica » me
citate, Macmiizs o! as Postulales n London, ScHILLER in 3 «The Hibbert Journal»
}, e, Il Pragmatismo lando ed eliminando) il lusso ininterrotto della
esperienza: vogliamo che una cosa sia o non sia: ecco il principio del terzo
escluso. Noi desideriamo di pro- si durre degli avvenimenti utili alla vila e
di impedire i nocivi; per agire abbiamo bisogno di un mondo connesso, ordinato,
postuliamo, cioè, una causa € una ragione sufficiente. In realtà nulla è, tulto
diventa; l'identità perfella non esiste. La enntradizione è pensata
frequentemente contro la grescrizione della legge; l'esperienza non sodisfa le
nostre esi- ae” genze, perchè in essa non v'è una ragione suMceiente, e ve la
poniamo noi. A chi opponesse a questa concezione volontarislica delle leggi del
pensiero, i loro caratteri di universalità e di necessità, lo Schiller risponde
che: «Ia universalità di un postulato deriva dalla sua stessa natura,
inquantochè, quando ci serviamo di una proposizione di cui abbiamo bisogno,
intendiamo di farne uso ogni volta che ci piacerà; la necessità di un postulato
designa semplicemente il bisogno che noi ne abbiamo, ossia... deriva dalle
esìsenze di una volizione intelligente e finalislica; la incapacità di pensare
il contrario di una proposizione si riduce... ad un nostro rifiuto di compiere
un certo atto del pensiero ». Il James accetta e fa sue le dottrine dello
Schiller e del Dewey ce proclama: «Dalla logica scientifica è stala cacciata la
necessità divina, e al suo. posto fu messo l’arbitrio umano ». E altrove: pla
mostri melodi fondamentali di pensare sono invenzioni dci nostri antichissimi
antenati e si sono. potuti conservare attraverso {tutte le esperienze
successive. pe Il James considera gli « Studies in Logical Theory » com |
fondamentali per il Pragmatismo. Cfr. Der Pragmatism Vorwort, XI, AI ve, 26
Linee fondamentali Essi formano ciò che si chiama il senso comune che in
filosofia significa l’uso di certe forme dell’inlelletto e di determinate
categorie del pensiero. Noi pensiamo per calegoric: esse ci sono necessarie per
mettere unità e ordine nella piena confusa, nella Varietà sensibile delle
esperienze, per combinare con meno dispendio di forze possibili le nuove con le
vecchie esperienze, per fare i nostri piani, per conneltere il iontano
dell'esperienza col vicino, per adatlare, in una.parola, la esperienza ai
nostri bisogni dopo averla dominata. E la dominiamo razionaliz- \ zandola. i
«Se fra le impressioni dei sensi e i concetti posè». cai È, t ATI tas siamo
trovare rapporti univoci abbiamo già razionalizzato le impressioni sensibili. I
senso comune > mette questa razionalità nelle esperienze (vollzieht diese
Ralionalisirung) con vna serie di concetti, dei î sà quali i più importanti
sono i seguenti ; 4 = Cosa (in sè) Identità e Diversità Specie Spi- x, rili
Corpi Un lempo Uno spazio Soggello b e ullributo Influsso causale Immagini
fanta- > stiche Realtà . Queste categorie lrovale forse in momenti felici ai
nostri antenati si sono conservale e sono divenule la base del nostro pensiero
per la loro sufficienza a servire ai fini della vita pratica. Ma sarebbe
possibile che calegorie diverse dalle enumerate po_lessero servirci, come
quelle che usiamo ora, alla elaborazione della nostra esperienza. Del resto il
Senso comune non è che una fase della evoluzione dello spirito umano, c,
nonostante che la filosofia _bemipatelica abbia tentato di fissare per sempre
le Sue categorie, concatenandole ordinandole in si _ stema, Mon si può dire,
tuttavia, che la concezione MICCCALVII È a più i DI lipi o fasi di pensiero: il
naturalistico 6 il car a scienza della natura e la filos riti hanno. rotto i
limiti del pensiero ATao CECI Finfte Vorlesung. Con la scienza della natura
cessa il Realismo ingenuo. Le qualità secondarie perdono la loro realtà: non
restano che le primarie. La filosofia critica distrugge lutto: le categorie del
senso comune non significano più nienle di reale. Esse non suno che astuti
provvedimenti del pensiero umano; sono l'unico nostro mezzo per isfuggire alla
inquietudine in cui ci getta l'incessante corrente delle sensazioni . Noi
abbiamo così tre tipi caratteristici e diversi di pensare il mondo: Ugnuno ha i
suoi meriti (il naturalistico, almeno, può vantarsi di aver servito ai fini
pratici quanto il senso comune; si pensi al Galilei, ad Ampere, al Faraday! ìl
critico invece, pur troppo, nun ha dato che soddisfazioni teoretiche, 0 quasi);
nessuno di essi è assolutamente più giusto e più vero degli altri . e; La loro
verità dipende dalla loro utilità nei casi particolari. Questo il Pragmatismo
nel suo metodo e nelle sue presupposizioni gnoseologiche fondamentali: melodo
et presupposizioni che ne costituiscono la vera essenza. Il James dice che un
aspetto essenziale del Pragmalismo è anche la sua leoria genetica della verità
. Lo Schiller, dal canto suo, scrive che: «parallela alla teoria della verità è
quella della realtà », e perciò la trallazione della prima non può andar
disgiunta dalla esposizione critica della seconda . A me pare che tanto l'una
che l'altra, più che dottrine essenziali del Pragmalismo, siano corollari, 0
applicazioni del metodo alle due forme oggettivosoggettiva c oggettiva
dell’essere. E Di queste due applicazioni dobbiamo ora occuparci lrattando
della teoria della verità e della realtà nel pragmatismo. Par Der Pragmatismus,
p. ki: Das wdre das Wesen des Pragmalismus: erstens eine Methode und zweilens
cine. gene tische Wahrhettstheorie », Stud, tn Hum., p. 284, "E lla ate RA
A da LTL Che cosa ci sa dire la filosofia intorno alla condotta? La pone in
allo o in basso, la esalta ponendlola sopra un piedestallo all'adorazione del
mondo 0 | la deprime perchè venga calpestata dalle persone i Superiori? In
allre parole: qual'è, secondo la filosofia. lo relazione della lcoria colla
pratica della vita, della cognizione coll’azione, della ragione teoretica colla
pralica? » . Così comincia lo Schiller il suo primo saggio del volume:
Umanismo, La base È elica dellu metafisica ». E continua: «La dottrina di È,
questo rapporlo coslituisee uno dei capitoli più inbi tricali della storia del
pensiero. Da questo capitolo della storia risulla chiaramente un fatto: che le
prelese delle teorie antagonistiche (leoreticiste e praligra * cisle) sono così
larghe e così insistenti da rendere impossibile ogni compromesso fra loro;
bisogna scepai gliere-fra i due estremi: o la condolta è lutta la vita. i O è
nulla; 0 è la sostanza del tutto, o è la visione dì un sogno: aul Caesar aut
nullus. Noi sappiamo a giù quale dei due estremi abbia scelto il Pragmatisil
smo. Invece di supporre che il pensiero sia altra cosa o dall'azione, esso
tralta il pensiero come una forma di, È condotta, come una parle integrale
della vita attiva. umanism, Invece di considerare i resultati pratici come poco
o affatto importanti, fa dei valore pratico un determinvute della verilà
teoretica. Im una parola: la condotta, in luugo di svanire nella nullità di una
illusione, è ristabilita nel potere di controllo di ogni dominio della vila.
Dal punto di vista pragmatislico della psicologia leleologica, inlcsa come s'è
vedulo, tanto i problemi logici quanio i metafisici si presentano in una luce |
nuova, poichè vien dala una importanza decisiva i | concetti di proposito e di
line. SH Il Pragmalismo è una protesta sistematica contro l'abitudine di
iguorare, neile nosire lcorie sul pensiero e sulla realtà, la finalità del
pensare attuale © i rapporti delle nustre realtà attuali ai fini della vila; è
r'aflermazione delta basc chica della iogica e della id metafisica. « La
valutazione (cologica è una sfera speciale della ricerca clica, € quindi il
Pragmatismo, To con la sua accentuazione della teleologia in ogni (campo del
pensiero, assegna al metodo lipico «della elica una validità metalisica,
alfermando la su preva autorità della concezione etica di bene sopra | da
concezione logica di vero € la metafisica di reale. II bene, il valore pratico
© un determinante essenziale così della verità come della realtà. La condotta è
la sostanza del tulto. La nostra apprensione del reale, la nostra comprensione
delia verità si effet luano sempre in esseri che tendono al consegui mento di
qualche bene: sono penetrate, informate “dalla tendenza a un fine pratico,
dalle esigenze della condotta. pt g 2. Chi studia seriamente i processi
conoscitivi della intelligenza umana viene subilo a trovarsi d fronte al
problema dell'errore. Tulte le proposizioni La teoria della realtà e della
verità logiche hanno l'audace pretesa, senza riserva e senza d riguardi alle
pretese delle altre, di esser vere. Eppure gran parle di esse non sono che
delle menzogne : non sono realmente vere e la scienza deve respingere la loro
pretensione. Per far questo è necessaria una scella di ciò che è realmente vero
dalle verità apparenti: una condanna del falso ed una ricognizione del vero; il
logico, in altre parole, deve valutare le ioro prelensioni di verità . Con qual
crìlevio? Come dislinguere fra proposizioni che pretendono di esser veré c non
sono, e le pretese buone che pussono essere convalidale? Qual'è la nota, il
carattere distintivo della verità? Così si pone il problema crileriologico; e
una teoria della conoscenza che è impolenle a scioglicrio è già condannata (@).
© Quid est veritas? Per verità noi intendiamo una proposizione alla quale è
stato in qualche modo alluccalo (attached) ialtributo «vero» e che,
conse__Suentemento, è riguardala sub specie veri. « La veTila è la lolalità
delle cose alla quale e stato appli«cato o è applicabile questo modo di
lraltamento sia | ©hesi eslenda o meno alla totalità della nostra espe_ Rienza»
. È una qualità di certe rappresentazioni «© precisamente: l'accordo di certe
rappresentazioni con l’oggello {4). È questa la definizione comune che |
accellano, come qualcosa di evidente, intellettualisti * pragmalisti. Il
dissidio fra le due parti comincia Quando si tratta di sapere che cosa
propriamente si Bnifichi «waccordu» e « Oggetto »; ovvero la «realtà » con la
Tuale devono convenire le nostre idee |, Secondo la concezione Opolare | n BRA
{ ot ROIO Popolare l'accordo consiste > In una copia dell'oggetto. Alcuni
idealisti affer ne ue le nostre idee sono vere quando corrispondono. a or
\<iò che Dio vuole che no pensiamo intorno al loro alla /eoria della
&gello, Altri, streltamente fedeli ScHmzLER: Stu Id., Jvta. Essay Y. @
JAMES, Der Pra i o gmatismus, p, i 0 JAMES, Id., Ibid, D 124, VI, Vor], dies in
MHumantsm, D. 3. Essay Il Pragmutismo_ 31 i ì tre idee in copia («copytheory»),
dicono che le nostre in nilo sono vere in quanto corrispondono ai pensieri
elerni dell'assoluto. Vediamo quanto valgano queste concezioni. ; Intanto la
verità assoluta, scrive lo Schiller, non esiste. La storia del pensiero umano è
caratlterizzata dalla inslabilità delle opinioni, dalla mutabilità delle
credenze, dalle vicissitudini della scienza, Insomma. dalla lransitorietà di
ciò che è o passa per verità, Ogni verità umana, com! è attualmente e com'è
stata storicamente, sembra fallibile e transitoria... le verità del passato
sono riconosciute come errori al presente; quelle del presente sono in via di
essere riconosciule erronee in un domani più o meno lontano. Quindi la verità
umana non può affacciare pretese di assolutezza. Per isfuggire allo scetticismo
che sorge nelle anime di fronte alla ininterrotta. rivalutazione e
transvalutazione delle verità, che forma la storia della conoscenza, si è
ricorso ad una verità assoluta trascendente indipendente dalle vicissitudini
della verità umana; la quale verità assoluta si concepisce come un modello da
imitarsi, come una misura per la valutazione delle verità nostre, come una
rocca inespugnabile in cui non può penetrare cangiamento alcuno . i Si slabilisce,
cioè, una distinzione fra verità al luale o umuna e verità assoluta, ideale,
che è posta al di fuori e al di sopra del flusso della realtà. Le nostre verità
sarebbero un riflesso dell’Assolulo, ri . flesso imperfetto, ma valido,
misleriosumente transustanziato per la immanenza in esso dell'Assolulo e per la
partecipazione della sua stessa sostanza. i Mau l'espediente è fulile e
dannoso. | l'utile perchè l'assoluta, eterna verità, rigida e immutabile, non
può discendere dagli eccelsi cieli della logica a trasformare le nostri ‘i Ì
La, e verità e a togliere la transitorietà alle nostre concezioni; la verità
umana, ScuiLLER. Stud. in Hum,, Essay La teoria della realtà e della verità dal
canto suo, non può SORIrare alle prerogative soRraumane dell’Assoluto (i). Se
la verità assoluta non può identificarsi, in qualche modo con la umana, e se la
cognizione umana non può diventare assolula, non può congiungersi con
l'Assoluto, l'Assoluto per nvi non esiste e non può quindi redimere dal ilusso
perpeluo le nostre verita. I che lale unione luon esista, anzi che sia
impossibile, si deduce dal contrasto di caralleri fra la copia (verità umana)
Cc tjuello che dovrebbe essere il suo originale (verità lrascendente). La
verità umana è fluida, non rigida; temporale e lemporanea, mon elerna e
perenne; arbitraria, non necessaria; scella, non inevilabile ; nata, come Afro
dite, di passione e di slancio da un Inare schiumoso di desideri, non puramente
intellettuale e spassionata; incomplela, non perfetla ; fallibile, non inertante
; assorbita nella tendenza di ottenere ciò che ion c uncora compiulo; non beala
nella. sua comiiulezza. Questi caratteri della verità umana risultano dalle
condizioni stesse onde ha origine ogni vetilà. Essa è discorsiva perchè non puo
abbracciare lutta la realtà; © fallibile perchè è ‘essenzialmente parziale €
puo quindi Sempre venir corretla e completala da una cosuizione più vasta.
Invece la verità assolula si estende al lutto e dipende dalla cognizione del
lutto. Li sua ussolulezza si fonda sulla sua onMucomprensività . Se non V'è
conoscenza conmpielamente adeguata all'intero sistema della reallà on vi può
essere verita assoluta . Orbene, la no stra mente è capace di {ale conoscenza?
No. Appunio perchè parziale, la verità umana poggia su dati parziali, è
generala dalle parzialità dell'altenstone selelliva ed'e diretla a fini
parziali. Un abisso Separa le due specie di verità: fra loro non vi può essere
ne Corrispondenza nè interazione . È quindi verità attuale sia in « accordo con
la b RP assurdo che Ju he SCHILLER, 07, cl, 7. E (I Ide TER OD. ci, p, 207, via
{9) Id., 4bid. E SCHILLER, 1a., p. 2, i Le Lia - di asta ideale, eterna,
Irascendente » come pretendono gli assolutisti. be La concezione della verità
assolula è anche perni ciosa. Poichè: o l'uomo percepisce la differenza fra ia
verità assoluta e la relativa o non la percepisce. Nel primo caso egli
disprezzerà le verità umane, 1m. perfette, mutabili, le tratterà come
apparenze, € lo | Scelticismo sarà inevitabile. CIÒ è tanto vero che, anche attualmente,
la linea di divisione. tra questa specie di assolutisti e gli scettici è molto
indecisa: insegni Bradley. Nel secondo caso l'uomo prenderà come assolute anche
le nostre verità. E poichè l’assoluto non soffre aumento nè alterazione, egli
non _ si sforzerà di migliorarla coi suoi sforzi, rigetterà come falso tutto il
nuovo, non vi-sarà progresso alcuno nella conoscenza... ; ecco l’assurdo e con
l'assurdo Ja rovina della teoria della conoscenza. Nel nostro conoscere c'è
aumento, c'è alterazione: e una teoria della conoscenza che non li può
spiegare, anzi li esclude, non ha certo diritto alla nostra véenerazione, e non
ci salverà dallo scellicismo, reso anci ui tabil ; SE ’ «anche du Anevitabile
dalla impossibilità e dal rifiuto di ‘0 FUNe I nostro reale progresso
cognosellivo: ud est verilas? È forse un «accor realtà ; La Accordo » Questa
ipotesi reatitiae csfetto, del fallo. sterno? A LI ‘a dice ancora lo Schiller
ci conduce ad affer pe encore lo ssChil era 5 CIOS alermare degli incredibili
paradossi, con la cha: 1 SE Rc e die n 3 n fis aipendente) è conosciuto. da e
RI » che «eg hipothesi » 16/x trascende SD i E oanseo ALU soggeltivalin ACR BS
È e] | Pragmatismo - 3 x = SONA È [e È |< PRE e %% È Da teoria della verità
e della realtà c) Che noi conosciamo anche questo e cioè che la «corrispondenza
» tra il fallo, quale è in sè stesso fuorì della noslra-conoscenza, e il fatto,
quale appare nella nostra conostenza, è in qualche modo perfelta e completa
{1), il ehe è assurdo, perchè noi non possiamo conoscere indipendentemente da
un lato il pen_ siero, dall'aîtro Voggello esterno. Nè si può dire che la
verilà consista nella « cocrenza sistematica ». Nell’universo non v'è
delermina“zione assolula e perciò la verità c la realtà possono «essere
costruite im diverse maniere, cioè in diversi Sistemi, con diverse «cocrenze »
sistematiche: bisocana lener conto delle possibilità pluralistiche . RR . il
problema si ripresenta: «quale dei sistemi è vero e quale è falso? » Im che
consisle la verità del «sistema coerente? » Dal punlo di visla del
razionalismo, cioè «a priori », on è possibile dare una risposta reale alla
questione; non si può indicare nessun metodo praticabile di ululazione delle
verità (e dei sistemi di verità) se non concedendo alle applicazioni pratiche,
alle con| seguenze, di saggiare la validità delle rappresentazioni (c dei
sislemi di rappresentazioni); se non rica| Noscendo uno stadio intermedio, nel
facimento della s0 pad, fra Ja semplice pretesa (claim) di esser vero e tn
ideale completo di verità assoluta . Il Pragma smo è appunto il tentativo dì
tracciare il modo del > (I) Id, p. 181, Essay Di qui 11 nome di pluralismo
dato a dottrina _pragmatistica della verità e della A ita «ex professo « nella
quarta lezione (del vol. cit.): Etnlett uni Vielheit « Unita e Pluralità. ©
pluralismo è la gucazione Metafisica della realtà come di una molteplicità di
ct Separati, indipendenti. Si divide in matcrialistico (AtoTRIaIDO), in
spiritualistico (Monadologia) è in duatistico (Dua» smo). La concezione pluralistica
è stata poi dal JAMES ulteente svolta nel volume: .1 pluralistic universe,
London, Longman Green, tradotto in f [cato co. Nolo PRI oS Francese da Le BRUN
e pubmar ion I titolo: Philosophie de l'erpérience, Paris, Flam SCHILLER, Stud.
in Hum. facimento aztuale della verità, le maniere attuali di distinzione tra
vero e falso per giungere alle sue generalizzazioni circa il metodo di
determinare la natura della verità : mette in luce, in altre parole, lo sladio
intermedio del divenire della verità, il modo della convalidazione delle
pretensioni di verità. Orbene, come s'è veduto, non si può spiegare il
movimento del pensiero verso qualche cosa senza fare appello a motivi
psicologici: desiderio, sentimento, interesse, attenzione ecc. ; non è
possibile descrivere cosa alcuna in puri termini logici e senza costante
ricorso alla psicologia , ec quindi «i termini ullimi della definizione della
verità sono anzitutto psicologici»; ogni verità attuale è, in primo luogo «un
processo psichico, c, come tale, condizionato dalla varietà degli influssi
psicologici sentimentali e volitivi» . i E così anche i sistemi di verità.
L'esistenza di un numero di giudizì cocrenti connessi in sistema non basta per
avere da noi la ricognizione della verità. li «sistema» per esser vero, deve
anche aver valore ai nostri occhi; la tendenza al «sistema» è parte della
tendenza più vasta all'«armonia attuale », 0 per lo meno ideale, della nostra
esperienza. Il sistema non è semplicemente un tutto di consistenza
logico-formale, ma anche il prodotto di influssi ema<ionali. in vista di
soddisfazioni emozionali. Perciò nessun sistema è giudicato intellettualmente
vero se non è migliore in rapporto alle nostre esigenze di un altro, se non
abbraccia e non soddisfa qualcosa di più che gli aspetti intellettuali astratti
delle esperienza. Pragmatism essays to trace out the actual «making of truth»,
the aciual ways In which discri_minations between the true and the false are
effected, and derives from these its generalisations about the method of determining
the nature of truth? Id., Humanism, Essay p. di. NI Id., ibid. Cir.: Riv di
Filos. Neo-Scol. A. II, N. 2, Specialmente p. 152 Sgg. ScuiLLer, J/umanism.
Essay II, D. . ‘36 La teoria della realtà e della verità Vi sono dei sistemi
che, nonostante la loro coeren za, non hanno valore di verità, perchè non
TiMUON Î no e non risolvono un senso di disaccordo finale nel l’esistenza; tali
sono i sistemi pessimistici ; e n sono delle verità, valutate come tali, per la
loro effi cienza di armonia sebbene non siano connesse in si-| slema . Non si
dimentichi mai ci avverte conti nuamente lo Schiller che la nostra conoscenza
èi maleriata di inleresse, di desideri e di sentimento; che la verità e il
sistema della verità è il prodotto dei mostri sforzi lelcologici . Da ciò
risulla che il prohlema della verità è essenzialmente psicologico, € deve
essere formulato così: « Qual’è la natura psichica della ricognizione della
verità? A qual parte della nostra esperienza è applicata questa ricognizione?»
N Pragmatismo risponde : «La verità è una ferma di valore; la natura psichica
della sua ricognizione è la valutazione » . « La valutazione della nostra
esperienza è un processo naturale ininterrotto in una coscienza normale.
Sponlaneamente, necessariamente noi giudichiamo le cose « buone» e «cat. live
», «belle » e « prulte », «vere» e «false». È l’osistenza di quesl’abito che fa
sorgere le scienze normutive rivolle a dirigere e sistemalizzare le diverse
valutazioni (per esempio «l'estelica » per le valutazioni del «bello» e del «
brutto»; Peolica » per le valutazioni del «buono» e del « cattivo »). Anche la
1d., tDid. «AI pessimismo in filosofia » lo Schiller consacra il IX Essay del
sno /umanism. Anche il pessimismo, come ogni sistenin, è un determinato
atteggiamento di fronte alla grande classe di tiudizi che sono conosciuti come
giudizi di valore a, « La Vila è adeguata all'ottenimento del fine supremo
dell'azione* Se St. essa ha valore, è degna d'esser vissuta; se no, il suo
valore è nullo e non merita d’esser vissuta. Nel priRpanraso abbiamo
l'ottimismo, nel secondo il pesstalsmo LA . Mumanism, D., Specialmente là dove
tratta del ri a e Re ti el rapporto fra logica Humanism, Essay Truth is a form
of a Value ».. Would be no «tru ren o na er at Without valuation there Ri the at
all» tv (4 4umunism, Essay > 7 Il Pragmatismo . 37 logica è una scienza
normativa che ha per fine di regolare e di ridurre a sistema le nostre
valutazioni di vero e di falso. Come in ogni altra classe di valulazioni anche
nella valutazione della verità l'inleresse umano è vitale, il che vuol dire:
che una verità ha conseguenze (ciò che non ha conseguenze è senza significato),
ha una portata sopra qualche interesse umano, e che le conseguenze debbono
valere, debbono essere conseguenze per qualcheduno, in vista di un fine
determinato, cioè, devono essere «buone» e «pratiche ». berciò, a tulle Ie
asserzioni che prelendono di esser vere noi dobbiamo intimare: « Mostrateci che
siet> buone di una bontà pralica, e vi riconosceremo pet tali. Voi non avete
una ragione intrinseca di verità; noi dobbiamo altenerci alle vostre
conseguenze: dal frutto conosceremo l’ albero n. Una asserzione che soddisfa un
interesse umano pratico, che corrisponde al fini pratici dell'uomo è «vera»: è
vero ciò che è praticamente buono; è falso ciò che è praticamente cattivo . 1
predicati «vero» c «falso» non sono in fondo che indicazioni di valore logico,
comparabili come valori, coì valori «elici» ed «estetici». Similmente anche W.
James: «ll Pragmatismo, invece di considerare la verità intellettualisticamenle,
cioè, come un rapporto puramente statico fra rappresentazione e oggetto, si
pone, di fronte ad ogni pretesa di verita, Ie solile domande. Dato che una
rappresentazione 0 un giudizio affaccino la pretensione di verita, noi
chiediamo: Quale diffevenza concreta produce nella vita concreta di un uomo
quel tal giudizio, quella tale asserzione? Come potrà essere vissuta? In che sì
moditicherebbe il complesso dell'esperienza se quel tal giudizio fosse falso
(0. 3 Id., bid. La parentesi è mia |’ (®) Sarebbe meglio dire:
«valutazione-verità », perchè que| Sta fla verita) non è che il processo della
valutazione. Ingl, | «truth-valuation ». Stud. in Hum, p. 5-8: 38 La teoria
della realtà e della verità vero)? Qual'è il valore della verità se noi la
cambia: mo în moncla di esperienza? » ue Per il Pragmatismo porre la questione
è scioglier la: «Sono vere quelle rappresentazioni che possiamo far nostre,
cioè che possiamo far valere, lrasforma re in forza e «verificare», sono false
quelle che non sono suscettibili di lule trasformazione in valore pra tico » .
La verità di una rappresentazione non è una proprietà immobile che le è
inerente: la sua ve rità è un accadimento: una rappresentazione non è vera, ma
divien vera; è un divenire, è il progresso della sua auloverificazione (der
Vorgang ihrer Selb È stbewahreilung); 1 valore della verità non è altro che il
processo del suo farsi valere . E si fa vaÈ: lere, e si verifica con le sue
conseguenze pratiche, con la sua utilità: anzi il farsi valere e il verificarsi
non sono in fondo che queste conseguenze . Dalla definizione della verità come
vulore logico segue che lutte le verità debbono essere verificate. Una
rappresentazione che non vuole o non può sol: tomettersi alla verificazione è
già condannala. Essa | può avere lull'al più una verità potenziale, senza si«|
_°‘’‘00‘gnificalo, inintelligibile o congetturale, e dipendente “fl da
condizioni non uvverate. Per diventare realmente da 3 Der Pragmatismus, VI Vor,
p. 125. < è» « Walre Vorsteltungen sind sotche, die wir uns aneigqneny die
wir gellend machen, in Kraft setzen und verifizierem hònpe; nen, [alsche
Vurslellungen sind solche bei denen dies alles ("g nicht moglich ist»,
1A., IUld., p. 125-126. È il Jaines stesso che n sottolinea. : E lo SCHILIER:
«Che cosa erano le verità prima p di venir scoperte?» La questione è oziosa, Se
«vero» significa «valutato da noi» è naturale che ogni verita diventa vera
quando è scoperta... Noi possiamo concepire tre stadi, mel LA processo della
verità: verità da venir fatta, verità diveniente, i verità fatta. Il processo è
unico e identico per tutte le verità a. Stud. in Huni. JAMES. fui. SCHILLER,
Stud, in Hum. p. 5. Non sono que: Sei in fondo, che formazioni e syolgimenti
del principio del EIKCE. \ È la prima definizione del Pragmatismo, secondo lo.
Schiller: «'The doctrine that lrw{hs are logical values» (Stud in Hum.) p. 5.
Me: ati t 44 vera deve venir dichiarata e provata, e non si dichiara nè si
prova che nell'applicazione, nell'uso che 30. ne fa: la verità di un'asserzione
dipende dalle sue applicazioni . Le verità astralte, come tali, non sono
verità. Perfino le verità aritmetiche derivano il loro esser vere
dall'applicazione all'esperienza. Osservale per esempio ll’ enunciazione
astratta: 22=4. Esso è incompleta. Noi dobbiamo, prima di aderirvi, conoscere a
che cosa si applicano 2 e 4, poichè l’enunciazione non sarebbe ugualmente vera
applicata a due leoni e due agnelli; a due piaceri e due dispiaceri, a due +
due goccie d'acqua, ecc. Così si dica delle verità tutte in generale . Vi sono
delle verità fuori d'uso, e vi sono delle verilà che chiedono d'essere
incarnate nella vita concreta. Finchè non operano nel mondo della esperienza
immediala sono ambigue ; solo la potenza e le conseguenze del loro operare le
tolgono all’ambiguilà mostrandole, con la verificazione esperimenta- M le, vere
o false. Le verità sono regole per l'azione; ma una regola che rimane nei campi
dell’astratto non significa nulla, non regola nulla: il significato d'una legge
sla nelle sue applicazioni ec ogni st gnificato dipende dal proposito , perchè
qualunque applicazione della verità all'esperienza è in istretta connessione
con qualche fine il quale determina ta natura dell'intero esperimento. Per
ragione della dipendenza della logica dalla psicologia, ogni signifi E la
seconda definizione del Pragmatismo Stud. in Hum. p. 9. ; Ria ioè: sono in
potenza alla verità € alla falsità. 0) mind di questo AT delle idee astratte lo
SCHILLER nana consacrato un saggio intero: il V (Stud. in Hum): The ambiguity
of Truth. Secondo SinGWicK_ seguito in questo dallo | ScuiLcer le parole
sot.olincate contengono l'essenza del med todo |pragmatistico, e ne sono la
terza definizione (Stud. in Hum,). Questa defin. del Pragmatismo risulta dalle
due PD denti. ib pi A La teoria della verità e della realtà cato è selettivo e
teleologico: il giudizio logico è «valutazione. Resta da rispondere alla
seconda questione: « A qual parte della nostra esperienza è. attaccata la
ricognizione della verità? » i Re: _Ciot: a che cosu riconosciamo o neghiamo
noi 1l valore di verità? Qualìi sono i principi direttivi nella valulazione
della nostra esperienza? È «vero» ciò che è praticamente buono, sta bene; ma
che cosa chiamiamo noi «praticamente buono? La risposta a quesla questione dice
lo Schiller ci mette nel cuore siesso del Pragmatismo, ci spiega in che senso
il Pragmatismo professi di avere un criterio di verità » . E la risposta non è
diflìcile. Il nostro pensiero tende all’armonia e alla quicte del pensiero, a
ridurre a sistema, con un lavoro di selezione guidala dall’interesse, il
complesso della esperienza, a coordinare, in visla d’un fine, tutti gli
elementi della vilu: quindi è vero, (cioè buono, il che è, per lo Schiller lo
stesso) «ciò che armonizza con le leggi proprie del pensiero e con tulta la
nostra esperienza anteriore » e ci serve di base e di centro vitale per
ulteriori esperienze. È vero ciò che ci fa progredire. Il possesso della verità
non è fine a sè stesso, ma mezzo per la soddisfazione di qualche necessità
della vita . La verità non è altro che la via, per la quale noi siamo condotti
da un frammento dell'esperienza ad allri frammenti che mette conto di far
nostri . La verità è una guida all’azione. Mettiamo ch'io mi trovi sperduto in
una selva în pericolo di morir di fame. Scopro qualche cosa che assomiglia ad
una strada, immagino in fondo ad Cssa una casa; mì melto in viaggio e mi salvo.
La Stud, in Hum, Essay IZumunism. Essay Il Pragmatismo | I rappresentazione
della casa è vera perchè è verifi\i cala dalla sua ulilità; mi salva facendomi
prendere | la strada che vi conduce . Questo semplice e per| severante
carattere di « guida» che possiede e mo| stra una rappresentazione è il vero
prototipo del processo della verità. È vera quando, finche-e in quante conduce
n: e si intende vera di verità reale; potenzialmente è vera la rappresentazione
alla a condur-ve, falsa la inutlu. ’lulto ciò sta bene. Ma un complesso di
valutazioni soggettive, individuali, che sono il prodotto di inte- da ressi
psicologici e mirano ad una soddisfazione s0ggettiva, non può formare che un
complesso di verità soggellive, individuali: la mia esperienza è soltanto n la
miu esperienza; le mie valutazioni sono soltanto valulazioni mie: come si esce
dal soggettivo? non x | siamo in pieno «solipsismo? » No risponde lo eo
Schiller. Nessun protagorcamisla (umanista), facendo na dell'individuale il suo
punto di partenza, intende fili fermarvisi. Egli sa che 1 giudizi individuali
non sono che una piccola percentuale di quelli riconusciuti come vulidi. Sa che
l'uomo è un animale sociale e che la verità è in gran parle un prodotto
sociale. La verità non ‘si salva finche rimane pura valutazione individuale:
Ra. bisogno di una ricognizione sociale, deve trasformarsi in proprietà comune,
E diventa sociale appunto per lu sua utilità ed efficienza. Come
nell’individuo. Anche lo ScuiLLer parla spesso della «con: duciveness a
«proprietà di condurre», come di un criterio di Verità, Le «conseguenze
pratiche» non sarebbero in fondo, che questo « Hinfùhren» che permette poi uni
specie di «previ-. sione » di cio che è utile, Cf, a questo proposito: «La
previstone nella teorin dellu conoscenza » (rinnovamento A. I, Fa‘scicolo II,
1907) CALDERUNI. Vi.Si dice tra l'altro: « Per conseguenze pratiche» vanno
intese le esperienze particolari ‘che la dottrina o l'affermazione in questione
permette di pre«vedere» p. 191. «Esperienze che costituiscono il criterio non |
solo della verità e della falsità ecc. -& Del «solipsismo» lo SCMILLER si
occupa nel Essay (Stud. in Hum.) Absolutism and Solipsism. Per | questione se
«l'empirismo radicale» sia «solipsistico» ctr ournal of Philosophy La leoria
della verità e della realtà Îl criterio dell'uso, della ulilità regola Ie
valutazioni soggellive, consolida e subordina i vari interessi ai fini
principali delia vila, così lo stesso criterio (dellVuso) fa una selezione lra
le valutazioni individuali e cosfruisce, con maleriale delle valutazioni
scelle, la verità oggelliva che ottiene la ricognizione sociale. Ciò che non è
socialmente ulile, elliciente, operativo, presto o lairdi viene eliminato.
L'utilità sociale è così l'ultimo delerminante della verità . Protagora ha
detlo: «L'uomo è la misura delle cose ». 1 commenlatori sì domandano: uomo si
deve intendere in senso individualislico 0 generico? Tutte e due le
interpretazioni sono esatte dice lo Schiller. L'umani smo di Proiagora era
abbastanza vasto per estendersi all'uomo individuale e agli uomini , Egli
riconosce dolie distinzioni di valore fra le diverse percezioni individuali :
fra i giudizi di valore individuali si stabilisce una selezione dei migliori,
che sopravvivono agli altri e si consolidano in grandi sistemi di verilà
oggellive accettabili da tutti . Ed ora SI capisce anche come la verità è fatta
(how truth is made), «come viene prodotla dalle nostre operazioni sui dali
dell'esperienza umana. La conoscenza. cr'esce in estensione e in fidalezza
(trustwartiness) per la fecondità e la buona riuscita del suo funzionamento,
per l'assimilazione e incorporazione di nuovo materiale da parte dei complessi
organici preesistenti di cognizioni. I sistemi (come organismi viventi) sono Im
un conlinuo processo di « auloverificazione » di Humanism. Essay His Humanism
Was Wide enough to em and men», Stud, in Hum., Ess. JI DI 34. RIS a Nel Teeteto
di Platone sì fa dire a Protagora che, se le percezioni di uno non possono
essere più vere di cuelle MATA AliTo possono, però est NOLOrI, Sopra il
giudizio di mo ignorante o rdinario sta È saggio. Cfr.: Stud. in Hum. p° 35,
sgg. melo ASI LUoO Humanism: Fra due teorie rivili noi accettiamo come vera la
migliore, quella che possiede «greater conduciVeness». Con questo criterio
(sclusivamente sì C astronomia copernicana, così semplice troppo complessi. Il
Pragmatismo 49 prova della propria validità dalle conseguenze e dal potere di
assimilare, predire, controllare fatti nuovi . Ma, a simiglianza di quanto
avviene nel processo biologico, così anche qui assimilare significa
transformare. Le verità preesistenti, alla luce delle nuove, per la
compenelrazione delle nuove, assumono un aspetto dillerente e cambiano in
realtà, inIrinsecamente poichè diventano più operalive ed efficienli in causa
della loro maggior coerenza ed organizzazione; ci conducono meglio ai nostri
fini, acquislano maggior capaciià di armonizzare le esperienze future in
reiazione a noi, al nostro interesse e ai nostri desideri . In realtà siamo noi
che facciamo la verità. Dipende da noi l’accettare o il respingere falli nuovi,
muove esperienze: il fattore della sele ‘zione, è il nostro interesse, è la loro
utilità rispetto a noi. È questo processo di fare la verità è continuo,
progressivo e cumulativo. La soddisfazione di un intento conoscitivo conduce
alla formulazione di un altro; una verità nuova diventa presupposizione di
ulteriori imdagini . I così all’indefinito: la conqui sla della verita
assoluta, cioè della verità adeguata ad ognì fine umano non è che un ideale,
com'è pura: mente ideale la verità stabile, immutabile, eterna . Ogni verilà
può esser mulala da una nuova esperienza. La Verità non esiste: esistono le
verità. La Verità con leltera maiuscola è un mito. In realtà esi stono nel
mondo umano soltanto le verità, altrettante quanti sono gli: uomini, cioè le
rappresentazioni e le affermazioni praliche di cose che non sono, ma di
vengono, e divengono per il polere che l'io esercita su di esse, lanto più
eflicace, quanto più, con l’azione esso passa dall'incosciente al consapevole
ed al ri liesso . Stud. in Iuni., «The Making of Truth», VII Ess. 194-195. Id,,
ibid. 23, «A new truth, when established, naturally becomes ti e presupposition
of SUECASE, SSDIora Ono (Id. ibid.) E, 4)Id,, Ess. VIII, par. 8, Pp. | ILEN a
GIULIO VITALI, Note pragmatistiche. (Rassegna Nazio ita le.). de 4h La leorìa
della verità e della realtà Qual'è dunque il senso accettabile della nola
definizione della verilà: «accordo con l'oggelto, con lu realtà? » «La parola
accordo dice James comprende ogni processo mediante il quale da una
tappresenlazione alluale siamo condotti ad un avvehimento fuluro corrispondente
ai nostri interessi v bisogni, cioè utile alla nostra progressiva evoluzioue»
(#). IL nostro dovere, poi, di cercare e di riconoscere la verilà non è che una
parte del dovere geherale di cercare e di riconoscere ciò che torna conto. Il
tornaconto, contenuto nelle idec, è l’unica ragione che ci obbliga di allenerci
ad esse» 3). k lo Schiller: «La risposla alla questione » Che cos'è la verità?
è la seguente: se si ha di mira il fallo psichico della verilà-valutazione, là
verilà può definirsi: «la funzione finale (ullimate) della nostra allività
infellelliva; se si ha riguardo agli oggetti valutati come Veri essa è: quella
manipolazione di essi che lì rende Utili primariamente ad ogni fine umano,
ultimamenle allu perfetta armonia della nostra vita intera che cosliluisce Ja
nostra uspirazione finale. La dottrina della realtà è affine a quella della
verità anzi S’identifica, ìn un certo senso, con essa. ll principio umanistico
di Prolagora è universale: umano genera e informa lutto ciò che è; anzi...j ma
uscolliamo i due leaders del Pragmatismo. Il Pragmalismo segua un passo in
avanli nell'a niutusi della nostra esperienza è, quindi, un prog) sso ln quella
cognizione di noi stessi dalla quale dipende. li-cognizione del mondo. ‘ale
passo in avanti non è Ineno imporlanie di Quello che, nella storia della
filosofia, ha fatto compiere alla questione cpistemolologica la priorità sulla
questione ontologica . Vorles Das Lolnende, das unsere wahren Ideen enthalten,
ist ner DES Grund, der uns verpflichtet uns an sie zu halten» SCHILLER, Humanism
: at loin | + cat Il Pragmatismo Che cos'è la realtà? Così, cioè in lermini
ontologici, era posta ia questione fino a Kant, Ebbene, fino a tanto che non si
melle in chiaro come la realtà possa venire in noi, è impossibile qualsiasi
risposta alla questione; non esisfe, per noi, nessun reale se non in quanto è
conosebile; una realtà inaccessibiie alla nostra cognizione è inutile e quindi
si distrugge. Perciò la vera formazione del problema metafisico è questa: Che
cosu posso io conoscere comc reale? . La dollrina della reallà è condizionala
dalla dottrina della conoscenza; la ontologia suppone come fondamento la
epistemologia: ecco quella che Kant chiamava: «la rivoluzione copernicana in
filosofia ». Orbene, una rivoluzione copernicana compie ora il Pragmalismo
rispello alla formula epistemologica. lisso dice: ta nostra conoscenza non è
una operazione meccanica di intelletto puro. spassionato: i nostri interessi ci
impongono le condizioni del rivelarsi a noi delle reallà. Questa, infalli, ci
rivela soltanto quegli aspelli che sono termine di un nostro desiderio attuale,
di una tendenza a conoscere: tutti gli altri sono per noi inconoscibili e
quindi irreali. BERGSON +- il rappresentante, in Francia, della Philosophie
nouvelle scrive: «La vita esige che noi apprendiamo le cose nel rapporto che
hanno coi nostri bisogni. Vivere consiste nell'agire. Vivere significa
accettare degli oggetti soltanto l'impressione wfile », Ze Itire, Paris, Altan
1908, « Noi cerchiamo fino a qual punto l'oggetto da conoscere è questo o
queto, in qual genere noto rientra, e quale specie di azione 0 di attitudine
dovrebbe suggerirei (Introduction a ta Métapliysigue). Cfr. anche La cultura
dell'anima, Vol. 8. ENRICO RerGSON: Lu filosofia dell'intuizione, trad. del
PAPINI. Il Bergson è pragmatista? Risponda lui stesso: « Bisogna distinguere
due maniere profondamente differenti di conoscere una cosa... la prima si ferma
al relativo, l'altra ragglunge l'assoluto...; quella è l’analisi, la cognizione
per simboli, per concetti, condannata ad aggirarsi unicamente intorno all'og:
getto...; questa è la intuizione, ossia quella specie di simpatia intellettuale
per cui ci si trasporta nell'interno d'un oggetto | per coincidere con ciò che
ha di unico e per conseguenzi d'inesprimibile; con l'assoluto »... «La prima
nasce dalle esigenze della vila pratica e non è filosofica, ma empirica: lil
seconda nasce dall’affrancamento dagli schemi pratici, dal concetti-ctichette
ed è quella per cui è possibile la vera meta 46 La teoria della verità e della
realtà Non cè reale per noi, cioè non è conoscibile, se non ciò che è oggetto
di una nostra tendenza, di un nostro desiderio e volere; e non si desidera, non
sl vuole che il bene. Dal che si inferisce: nè la questio. «me di fatto
(ontologica), nè la questione di conoscen3a (cpislemologica) sono possibili a
considerarsi in(ipendentemente e senza coinvolgere come loro base la questione
di valore (psicologico-etica) . Le nostre | valutazioni pervadono la nostra
esperienza tulla «quanta e si applicano ad ogni falto, ad ogni cognizione.
Perciò la verità della formulazione epistemalogica del problema della realtà è
incompleta finchè «non realizza, tutto quello che è implicito nella cognizione
nostra: cioè il desiderio, la tendenza, l’inteSEEGS 3 La completa il Pragmatismo
così: Che cos'è la realtà per uno che aspira a conoscerla? «Reale» significa:
reale per qual proposito? per qual fine? per qual uso? . È la «volontà di
conoscere » che pons la questione e quindi non potrà venir risolta che in
termini della volontà di conoscere . Ecco la spie| gazione. della diversità di
dottrine che intorno al «reale» ci hanno dato le scienze e le filosofie. La dix
rezione della sforzo determinata dalla «volontà di conoscere» entra come
fattore necessario e isradica IN Di ar v fisica, cioè la cognizione
dell'assoluto » (Ibid.} passim). E ancora: «Il faut s'habituer à penser l’'Étre
directement, sans faire un détour.. Il faut tAcher ici de voir pour voir er non
plus de vor pour agire. (L'Evolutlon creatrice). Bergson riedifica sulla intuizione
il tempio dell'Assoluto che prima aveva fatto crollare dimostrando l'inanità
dell'analist, della cognizione per idee astratte. Poco importa che non ci sia
riuscito. (Cfr.; La filosofia di Enrico Bergson di Gius. PREZZOLINI, Rocca S.
Casciano, Cappelli 1908; ATTOTTA, L'intuizionismo contro la filosofia, La Cult.
Filos., A. TIT, N. TIT ecc.) La distinzione delle due differenti maniere di
conoscere; intuitiva (metempirica) e analitica (empirica) spiega l'apparente
inconciliabilità dei passi citati e d'altri ancora, Z/umanism. Id., Ibil. the
answer comes in terms of the will to know which puts the question il. Il
Pragmatismo urti . bile (ineradicable) in ogni rivelazione della realtà a nol.
i La risposta alle nostre questioni dipende dal loro carattere, ma questo
dipende in tutto da noi. Siamo noi che le poniamo così e così; l'iniziativa è
del tutto nostra. Dipende da noi il consultare l'oracolo della nalura o
l'astenercene; dipende da noi il formulare le nostre domande alla natura. Se la
domanda è falla bene la nalura risponderà; se è fatta male non risponderà, e
noi dobbiamo ritentare la prova. ci Che cos'è dunque la realtà? Procediamo -con
or dine. Vediamo prima di lutto quali caratteristiche at « lribuiscano alla
realtà le scienze. Scienlificamente, cioè, in quanto entra ed è trattata nelle
scienze, la realtà presenta i seguenti caratteri: non è rigida, ma plastica e
capace di sviluppo. non è reale assolutamente e incondizionatamenle, ma
relaliva alla nostra esperienza e dipendente dallo stato della nostra
cognizione) La concezione che noi abbiamo della realtà cambia e perciò: riduce
spesso all'irreale ciò che è slato accettalo lungo fempo come reale. e) Una
«realtà iniziale» (come una «verità iniziale») è reclamala da ogni cosa
sperimentabile: è necessario, CENCI un principio selellivo che ci serva come di
criterio a distinguere fra «realtà iniziale » e realtà reale. M vecchio oracolo
ammonisce: ogni cosa ha due maMichi: bada di prendere quello giusto ». Emerson,
American È Scholar. Rinn. A. (T. Fase. IT, Magia PEZZÈ PASCOLATO. « La natu ta,
quindi non risponde sempre, a nostro piacere :... « Natura Mon nisi parendo
vincitur», ha seritto Bacone ». Si noti bene Questa confessione dei
pragmatisti: vedremo poi se è in corri. spondenza con altre loro asserzioni.
SCHILLER. Stud. in Hum. Essay. Vedremo tto Ja differenza fra realtà «iniziale»
(primaria) e realtà reale: VELA La teoria della verità e della realtà Contro la
dottrina scientifica il Razionalismo afferma: «La reallà è immutabile, è finita
e completa . da tutta VPeternità . Essa è una perehè ha un fine uno, forma un
sistema, narra un'unica storia . La nostra esperienza della realtà è mulevole
come la nostra cognizione della verità, non perchè verità e realtà divengano,
mutino, ma perchè la esperienza dell'una e la cognizione dell'altra sono
processi psichici: siamo noi che mutiamo 0). Verilà e Realtà sono indipendenti
da noi: noi le scopriamo, conoscendo, non le fucciamo. La realtà è-stalica,
rigida, uon migliorabile; è e sarà quello che è stata; non diviene 4). Il
Pragmatismo si pone dal punlo di vista delle scienze. Per csso la reallà
assoluta è futile e dannosu come la verilà assoluta per le medesime ragioni. Lu
concezione della realtà assoluta non entra nelia nostra cognizione attuale
della realtà ; non e conoscibile, il che è quanto dire: non esiste. Non esiste
la realtà: csistono le realtà; cioè le nostre esperienze, che crescono e
decrescono. Fingiamo che le realtà ora conosciute e accetlate siano un milione
: tsse non esauriscono tulle ie possibilità dell'univerSO: VI possono esistere
accanto ad esse allri dieci milioni, capaci di essere scoperti e
riconosciuti-come lalî se noi applichiamo certi esperimenti che sono in mostro
potere: molle realtà in potenza, cioè irreali, al presente, possono venir
realizzale dai nostri sforzi E viceversa: molle delle realtà conosciute possono
benissimo, prima 0 poi, essere dichiarate irleali e rigellale . Non v'è nulla
di assolutamente posto. La realtà come la verità, diviene senza posa. La natura
James SCHILLER. Stud. in Juri, VITI D, Stud. in Mum. È lui che sottolinea. iii
Sali Il Pragmatismo delle cose non è delerminata ma determinabile come quella
dei nostri simili. Prima del nostro esperimento su di essa è indeterminata non
solo per la nostra ignoranza (soggettivamente), ma da ogni punto di vista, cioè
anche realmente (oggellivamente); si determina sotto i nostri esperimenti come
il carattere umano. La nozione del «fatto in sè », come quella della «cosa in
sè, è un anacronismo filosofico. Noi chiediamo allo Schiller: su che cosa
facciamo i nostri esperimenti se la reallà non c'è e se è di pendente da noi?
Schiller risponde: Noi ammelliamo bene, a guisa di postulato, una base iniziale
di fallo, come condizione dei nostri esperimenti , ma quesla prima base è affatto
indelerminala e plaslica: può divenlare tullo quello che nvi vogliamo che essa
divenli {8). Fra le infinile possibilità noi possiamo scegliere e realizzare la
migliore . Noi chiediamo ancora: «qual'è la natura delia realtà iniziale prima,
della base di fatto dei nostri esperimenti? » E come può ammetterla il
Pragmatismo se essa sfugge alla nostra esperienza, se non è conoscibile?»
Schiller risponde: «La difficoltà di concepire nel Pragmalismo l’accellazione
del falto come base non dev essere traltala come obbiezione ai metodo prag=*
matico, ma come un mezzo per mettere in rilievo lulto il suo significato. Dalla
pertrallazione di essa potrebbe ricever luce la distinzione importante tra
realtà che è «fatta» soltanto per noi, soggettivamente, cioè «scoperta », e ciò
che noi supponiamo che venga «fatto » real Humanism, p. 12 in nota Stud. in
Mum. vp. 428-XIX. x EMERSON scrive: «Com'era plastico e fluido nella mano di
Dio, così Il mondo è in mano nostra». Queste parole sem: brano un commento alle
parole dello Schiller: « Noi possiamo quanto può Dio nello schema
intellettualistico di Leibniz». «E il nostro dovere e il nostro privilegio di
cooperare nella formazione del inondo », ibid. Stud. in Hum. mente,
oggettivamente, in sè. Che noi facciamo tale dislinzione è chiaro, ma perchè la
facciamo? Se tanto ìl soggettivo come l’oggellivo « facimento della rcalla»
{making of reality) sono il prodotto dello slesso processo cognoscitivo, sotto
l'impulso degli sforzi soggellivi, come può sorgere o mantenersi, da ullimo, quella
distinzione? Ebbene: anzi tutto è chia «ro che l'accellazione del metodo
pragmatico nè ci ; costringe ad ignorare quella distinzione, nè ad affer i mare
«the making of reality » in senso oggettivo. Sia È può benissimo concepire quel
facimento come pura| mente soggettivo, solo in rapporto alla nostra coquizione
della realtà e punto in relazione alla sua esistenza abituale. Il Pragmatismo
non fa della melafisica, ma della epistemologia: si può essere pragmualisli in
epistemologia e realisti in metafisica. Sia che si ammetta, sia che si neghi
che la realtà è fatta da noi anche oggettivamente resta sempre vero che sono
necessari i nostri sforzi per iscoprire la ‘vcealtà, che i nostri desideri, i
nostri interessi deb è bono anticipare le nostre «scoperte» e farci la via id
esse e che, perciò, la nostra concezione del mondo .clipende sempre dalla
nostra selezione soggettiva di Giò che cì inleressa di scoprire nella tolaliltà
dell’esi stenza . },Noicì proponiamo i nostri fini, noi scegliamo i noSti
mezzi; noi foggiamo «cause» ed «effetti» nel Jlusso omogenco degli eventi . Per
noi la realtà iniziale è pura potenzialità, come la. verità iniziale è «Je»
{materia prima) di tullo | ciò che è deslinalo a diventar reale . È un concetto
# Ride: un: punlo, di appoggio, e di partenza delia ; U.C0E e; è la possibilità
indeterminata di tutto cio che sarà, di lutto ciò che noi facciamo, co
nuscendo: ogni realtà attualmente riconosciuta si., È Il Pragmatismo deve
concepire come evoluta dal processo e nel pro: cesso conoscitivo nel quale ora
la osserviamo e come destinata ad avere una storia . Per la teoria praginalica
della conoscenza i principî iniziali sono lelteralmente dei semplici termini @
quo, scelti variamente, arbilrariamente, casualmente, nella speransa e nel tentativo
di avanzare verso qualche cosa di meglio . lullo ciò che è, è reale. Bisogna
distinguere fra vealtà «primaria» (primary reality) e reallà reale (real
realtty). La realtà primaria è semplice domanda di divenir reale: è la realtà
non veryicata © compele anche alle «apparenze ». Non c'è distinzione nè
criterio di distinzione a priori fra apparenza e realtà. La distinzione sorge
soltanto quando la mente, mossa dall'interesse, dal desiderio di operare su di
essa passa a controllarla . La reallà «primaria » che risponde alle noslre
domande interessate diventa realla «reale»; quella che non risponde ad esse si
manifesta come apparenza. La realtà reale non è che la realtà primaria passata
a traverso il fuoco del criticismo esperimentale e promossa a un grado superiore.
I poiche gli interessi crescono. e variano continuamente e i propositi sono
continuamente difterenziati, anche la realtà « reale » cresce in complesstla,
viene dillerenziala in serie, le serie si ordinano in sistemi, i sistemi
vengono coordinati e- subordinati fva loro . E così all'inciciimto. Il processo
della nostra co-, suizione della realtà (= della nostra creazione delle reullà)
si estende dal caos assoluto fino alla saddisfuzione assoluta. Watever [sic]
is, is «real» ls what we begin with,.«real» reality which has survived the fire
of criticism and been promoted to superior rank. Le conseguenze provano la
realtà come provano e fanno la verità, SCART ROTA À ge La teoria della verità e
della realtà La realtà è plastica. Forse la lasticilà del reale dipende anche
da una vena di indeterminazione, di libertà che corre per l'universo: questo
giustifica il nostro trattamento delle idee come di forze reali e Passerzione
cho il nostro fare la verilà è necessarlamenle il /ure ia realtà . Conoscendo
facciamo la verità e la realtà. Neila elaborazione connoscitiva. della nostra
esperienza «reallà» e «verità» crescono pari pussu . Realtà significa « realtà
per noi» precisamente come verità è «verità per nol». Noi assumiamo come
«reale» e accettiamo come « fatto » ciò che giudichiamo come « Vero » . E il
vero è il bene, l'ulile; l'elica, dunque, è la base della melafisica e della
logica. È il James: Keallà è ciò di cui le nostre verità debbono dar ragione,
debbono controllare. Da queslo punto di visla la corrente delle nostre
sensazioni costituisce la prima parte della realtà. Esse ci sono imposte, ci
vengono non si sa donde. Non abbiamo nessun controllo sulla loro natura, sul
loro ordine e sulla loro quantità. Esse non sono nè vere nè false, ma
semplicemente sono. Sollanto ciù che noi diciamo di esse, i nomi che diamo
loro, le teorie intorno alla loro natura, al loro essere, ai loro rapporti
possono essere veri o falsi. Il secondo elemento della realtà è costituito dai
rapporli tra le sensazioni e le immagini loro nella 4 Siamo in piena metafisica
e come! Non solo la livertà è nel reale ina anche la cognizione. « L'usare e
l'essere usato implicano «conoscere a cd cssere conosciuto («to use and to be
used includes to know and to be know. La nozione della materia morta non trova
più favore nella scienza moderna Bul is not this sheer hylozolsm?2 Non importa:
l'umanismo è largo: non indietreggia davanti alle parole « ilozoisino » 0 «
panpsichismo » posto cne siano utili alla interpretazione del basso (inferiore)
in termini del superiore, « Sebbene non sia che un metodo, tuttavia esso
inclina a questa 0 et quella metafisica secondo che meglio corrisponde a’ suoi
canoni fondamentali, Stud, in Hun, JAMES vr arde è RS | eee VI Il Pragmatismo
nostra coscienza. Di essi alcuni sono variabili e accidentali; p. es. quelli di
spazio e di tempo, altri sono sempre uguali a sè slessi ed essenziali perchè si
fondano sulla intima natura degli oggetti corrispondenti. Gli uni c gli altri
di questi rapporli vengono percepili immedialamente: sono «falli ». Tultavia la
spe cie di falli più importanti per la teoria della conoscenza è l'ullima,
perchè comprende le relazioni e- sas terne, le quali vengono apprese
ogniqualvolta gli Da i oggelli sensibili sono messi in rapporto fra loro e |
debbono essere sempre riconosciute dal pensiero logico-matematico: Il ferzo
elemento della realtà consta delle verità È antecedenti che debbono esser prese
in considerazio- es ne in ogni nuova ricerca: questo elemento ci oppone | molto
minore resistenza degli altri due: finisce quasi ty sempre col cederci il
passo. i Ora, sebbene questi elementi della realtà siano un po’ fissi,
tuttavia, operando in essi godiamo di una cerla libertà. Le sensazioni, p. es.,
sono, è vero; il loro essere non dipende da noi; però dipende da noi, dal
nostro interesse di rivolgere l’attenzione a queste più tosto che a quelle;
dipende da noi di tener + a conto di alcune e di tralasciare le altre; dipende
da noi di dare, nei nostri giudizi, una importanza decisiva alle prime 0 alle
seconde . LS Noi leggiamo le stesse cose diversamente secondo il punto di vista
da cui le guardiamo. La battaglia di Waterloo è considerata come riltoria da un
ingle‘se, come sconfitta da un francese. Così l’ottimista. legge nell'universo
la parola « vittoria», il pessimi. Id., îbid, Come? tra le verità antecedenti
vi sono ancl le relazioni elerne fondate sull'intima struttura dell'oggett mi
cedono il passe anche queste? Ma il loro valore non è i discutibile? non
formano esse la struttura del nostro pensiero? ‘Non deve riconoscerle sempre il
pensiero logico-matematico? À parte questa incoerenza, è certo che il James non
sl pre «senta con le audacie quasi spavalde dello Schiller: a vol sembra di
trovarsi, leggendolo, davauti a un realista e intel | lettualista autentico.
Cfr. « Revue Néo-Scholastiguev, Vol. 15, «Bulletin d’Epistemologie. = James,
pers i: La teoria della verità e della realtà È, sta la parola «sconfitta». «La
esistenza della real- © tà appartiene (ad essa) ma il contenuto suo dipende
dalla nostra scelta, e la scelta dipende da | noi» . La realtà è muta. Le
sensazioni dei rap (SAh porli loro non ci dicono niente intorno alla propria
natura: siamo noì che parliamo per loro. Noi rice 2 viamo il blocco di marmo,
ma siamo noi che vi scol piamo la statua. Giò vale anche per le parli « eterne
» della reallà. Noi scompigliamo le nostre percezioni Mei rapporli inlrinseci e
le ordiniamo a nostro pia . cere; le classifichiamo in serie, le raggruppiamo
in classi, consideriamo ora l'una ora l’altra come fondamentale, finehè le
nostre credenze formino quei sistemi di verilà che conosciamo solto il nome di
logica, di geometria, di aritmetica. Im ognuno di quesli ‘sistemi la forma e
l'ordine è evidentemente opera (umana . È difficile parlare di una realtà
indipen «| ‘dente dal nostro pensiero. Essa si riduce al concetto di ciò che è
già nel campo dell’esperienza, ma non è | @ncora denominato, oppure
all'assolutamente mulo, o a, un limite puramente immaginario della nostra
coscienza . Ad ogni modo è inaccessibile, inaffer | rabile: quando crediamo
d’'averla còlla noi ci troviamo lra Je mani un semplice surrogato, una crea .
lura del pensiero umano anteriore che ce l'ha rega lala per il noslro uso e
consumo . La corrente delle sensazioni c'è, chi lo nega? Ma ciò che noi di ciamo
di quel flusso è creazione nostra dal principio sino alla fine. Noi condensiamo
la corrente plastica | în cose, a nostro capriccio: noi creiamo i soggetti e 1
predicali*dei nostri giudizi veri e falsi: tutto cià «che è, è frutto della
nostra elaborazione. «Il mondo «| non è come vogliono i razionalisti l'edizione
in (1 1a. dbig. « Die Existenz der Wirklichkeit gehòrt ihr, aber hr Inhalt
hingt von der Auswal ‘ RO vahl, und die Auswahl hangt Ia., ivia. Il Pragmutismo
folio infinita, l'edizione di lusso elernamente complota che le coscienze
individuali non riescono a decifrare nella sua interezza e rifanno in lante
piccole edizioni finite, piene di errori di stampa, più o meno deformate e
mutilate; ma è un’edizione non ancora perfetta, che viene completandosi a poco
a poco specialmenle per l’attività degli esserì pensanti » . E questi la
stampano nelle loro edizioni; la plasmano nei loro schemi connoscitivi, in
mille modi diversi, secondo i loro diversi fini. E quei modi son lutti veri,
hanno tutti lo slesso valore di verità se rispondono al fine per il quale
furono elaborati. L'anatomico con sidera l'individuo come un organismo: la sua
realtà sono i suoi organi ; l'istologo vede in esso un comples- È so di
cellule, il chimico un insieme di molecole . Il n numero 27 si può considerare
come la terza potenza di 3, come il prodotto di 3 e 9; come la somma di 26 + 1,
come 100 73, ecc. ecc. Noi siamo creatori nel 0, conoscere come nell’operare.
Il mondo aspetta la sua forma _finale dalle nostre mani, Così il Pragmatismo
apre nuovi orizzonti alla forza divino-creatrice delPuomo ; così il pensatore è
rivestito di dignità LI nuova piena di responsabilità. 6 i Noi «solleviamo ad
altezze nuove la realtà pree- » sistente » se sappiamo credere, agire, lottare:
la fede ci fa salvi, ci porla alla conquista dell'universo, ul niglioramento
progressive della realtà La no: stra sorle è nelle nostre mani! Lungi da noi il
fatalismo, il quielismo, l’indifferentismo: la vita è un ar: cobaleno: vi
troviamo tutti i colori, a nostro grado: la noslra azione ve li crea. a VP
Cfr.: La cultura filosofica, N. 2, Pi 124, > dove ho tolta la traduzione
delle parole qui citate. . Ù La frase è di PAPINI, der Fiihrer der
italienischen Pragmatisten » come lo chiama il JAMES. NP». int Le parole sono
prese dall'EuckeN ima non si ha alcuna e) citazione di opera; EUCKEN parla di
una « Erhohung des vorge i fundenen Dascins. ine. , James, p. 170 sgg.
SCHILLER: «like a rainbow Life glitters ti în all the colours». /fum,, \?,
uindi, o uomini, imparale a conoscere voi stesvi consapevoli delle vostre
vocazioni; inallargate le vostre finalità: sollevatevi i | dominazione in
dominazione; sappiate volere e sappiate creder?, cioè uermare con tutto il
vostro essere che le cuse stanno realmente come voi le poele, © le cose vi
ubbidiranno, e la fede \} farà salvi, ioè vi permetterà di conseguire i. fini
della vostra esistenza. Sappiate che dopo lutto la verità non esiste in sè; ma
parlate, pensale, agile come se real ente fosse tal quale voi la vedete, voi
non servi, na padroni suoi © suoi fallori» . Questa è lu dottrina della realtà
sostenuta dal agmalismo. LA RELIGIONE ‘NEL PRAGMATISMO Sommario: x l. Le
preoccupazioni etiche e religiose. L'esistenza di Dio. Il concetto di Dio. \ 4.
Religione e religioni. Esporre con una certa ampiezza le dottrine pragmaliste,
senza fare un posto speciale al modo con cui in esse sono presenlali e risolti
i problemi religiosi, sarebbe una mancanza grave. Chi ha studiato o lello con
amore, le opere al meno le principali dello Schiller e del James, sa “che,
allraverso ad esse, si sentono passare, come n fremito, più o meno
distintamente, due preoccu| pazioni; luna, più generale, che tulto pervade,
tulto “colora, tulto fondamenla: la preoccupazione etica: l’altra, più
speciale, che nasce dalla prima come condizione necessaria o postulato del
coronamento dei valori e delle esigenze eliche: la preoccupazione religiosa
(I). È vero che questa (la religiosa) nello Schiller non è così intensa e così
manifesta come nel James; lo Per questo io credo che, se si può e si deve
parlare di nn pragmatismo religioso (e così pure di uno epistemologico,
metafisico ed estetico) come di un complesso di applicazioni del principio del
Peirce alla religione (alla metafisica cecc.), non si può invece parlare di un
pragmatismo etico, come di lina specie 0 soltospeci® del pragmatismo: Tutto il
pragmaismo è etico: l'etica è alla base della epistemologia, della mea Lab
della SESLIgione °, della IOICUCE Di quest'ultima non È ames e Jo Schiller non
se ne son Ù A articolare, Il non ne sono occupati La Religione nel Pragmatismo
Schiller il véro filosofo del pragmatismo, sebbene meno popolare del James ha
lavorato sopratlulta a stabilire e consolidare la base stessa dell’edificio: il
carattere, cioè feleologico-morale di ogni nostra attività e di ogni prodotto
dell’altività umana: tuttavia sono numerosi i saggi nei quali egli si occupa
ex-professo, più o meno largamente della religione, V, e da per tulto si sente
che per lui la religione vale. - Del resto: non ci dice lui stesso,
espressamente, che il pragmatismo «non è soltanto un movimento che riguarda un
insieme di dottrine tecniche intorno al 7 problema della conoscenza, ma anche
un tentativo di determinare i rapporti tra «fede, ragione e reli . gione?» .
Quanto ai James è nolo per la sua stessa confessione che la prima applicazione
da lui falla del principio del Peirce fu un'applicazione ai problemi KS.
religiosi . Ed è noto del pari che, dal giorno del ; suo primo discorso
pragmatista all'Università di Ca È lifornia (1898) fino all'opera: « A
_Pluratistic Univer| Sen, attraverso la «Volontà di credere», « Le varie forme
dell'esperienza religiosa» e «Pragmatism », lulte le volte che gli si presentò
l'occasione, ha posto \ e risollo, a modo suo, i più fondamentali tra i pro- i
blemi della religione. Il James fu un? anima carat- leristicamente religiosa.
Dice di lui il Boutroux: Egli ebbe da suo padre una tenerezza intima per il
inisticismo del grande pensalore svedese Swedlenborg, il principio del quale
era la relazione tra’ gli esseri terrestri e le potenze spirituali. Questa
«dottrina Swedenborshiana. circola traverso tutta la opera del James» . Egli
lrovava «la forza e lu pace del cuore e dello spirito nella fedeltà alla
crcdenza che fuori del mondo del nostro «pensiero co: Sciente ve ne sono altri,
ai quali noi allingiamo le energie capaci di arricchire e di trasformare la no-
Studies in Humanism, Essay XVI, p. Pragmatismus. BOUTROUX, IV. James (Rev. d 5,
Db, isa Metaph. et de Morale, SEE.culi Il Pragmatismo stra vila» . «Chi sa
scriveva egli, conchiudendo un’opera classica sulla religione se la fedeltà di
ogni uomo alle sue umili credenze personali non possa aiutare Dio stesso a
lavorare più efficacemen{e ai deslini dell'universo? » . Aggruppo l'esposizione
intorno a questi tre punti: Esistenza di Dio; Concelto di Dio; Religione e
Religioni. Cominciamo con James, La storia della filosofia è in gran parte la
storia del conflitto dei temperamenti umani, Ogni filosofia è l’espressione, il
riflesso del carattere intimo dell'uomo, la traduzione in idee del
lemperamento; ogni intuizione dell'universo (We/lanschauung) è nè più nè meno
che un complesso di reazioni del carattere umano assunte, o a propria insapula,
o deliberatamente, in faccia alla realtà . Questo spiega il sorgere dci sistemi
e il batlagliare continuo dei filosofi. Noi possiamo distinguere due principali
tipi spirituali d'uomini aventi caralterisliche affalto diverse: l'uomo dalla
(empra tenera (lender-minded) e l'uomo dalla tempra dura (tough-minded), cioè
il tipo simpatico c il cinico . Mettele questi due tipi profondamente diversi
in faccia all'universo e chiedele loro una dottrina: avrele da una parle il
malerialismo sensualista, con lutto il suo contenuto di scetticismo e di
pessimismo, come traduzione del temperamento rude e cinico; dall’altra lo
spiritualismo con contenuto ottimistico, quale espressione deì tipo dalla
tempra tenera. L'antagonismo di queste due dottrine, il contrasto dei due
lemperamenti malcrialistico e spiritualisti co assumono tulto il loro speciale
rilievo di opposizione davanti al problema dell’esistenza di Dio. Il
L'Expérience religleuse, p. 436. /ui, p. 437. : Li Mi JAMES, Der Pragmatismus,
I Vorl. p. 3-6; 4 Pluralistio. ; Universe, p. 20 Der Pragmatismus, p 7: A
Plural. Univ. La Religione nel Pragmatismo complessa delle cose che vediamo,
che esperimentia. mo e che abbiamo convenuto di chiamare « mondo » sono il
prodotto della materia o di Dio esistente fuori e sopra la maleria? «La materia
produce tulte le cose 0 e'è anche un Dio?» . Ecco il problema. Il quale non
sarà risolto mai e la storia è là a dimostrarlo in base alle vuote, astratte e.
sottilissime discussioni sull'essenza intima della materia € sui suoi caratteri
osservabili o su pretese visioni htelleltualistiche de! Dio che è in questione
. Ogni speculazione è impotente di fronte al materialismo ateo a dare una
solida base razionale alla religione: i due grandi (entativi sistematici di
dimostrazione dell’esistenza di Dio il teismo scolasti ‘co e l'idealismo
trascendentale hamno fallito al loro scnpo. Tulli conoscono gli argomenti
classici della filosolia Scolastica. Ebbene, Hume, col cacciare per sempre la
causalilà dal mondo fisico, ha reso impossibile ogni inferenza dal creato a una
causa prima; del resto l'idea di causa è troppo oscura per servire di
fondamento a tutta una teologia. Dopo Hume, Kant ha dimostralo che, Dio,
l'immortalità e la liberlà, non avendo alcun contenulo sensibile, sono parole
vuole di-senso dal punto di vista della conoscenza (corica, e ha fatla
giustizia una volta per sempre della vecchia leologia, che ora non regna che
nel volto e non è difesa che da qualche ritardatario. Il darwinismo ha dato il
colpo di grazia alla prova per mezzo delle sue cause finali. L'ordine e il
disordine che noi troviamo nel mondo non sono che invenzioni umane: chiamianio
ordine ciò che corrisponde a un nostro ideale, disordine ciò che se ne I metodo
praginalista in: Saggi pragmatisti, p. 15 (traduzione PAPINI). Occorre far
notare che questa visione degli ontologi non è da confondersi con la ?n!uizione
del sentimento, intuizione sorda e vivente, della «philosophie nouvelle»? Vedi:
PIAT, Insuffisance des Philosuphies de l'Intuition, p. 129, Sg. Il Pragmatismo
61 allontana . Finalmente il pragmalismo, cacciando dal mondo la necessità logica,
ha tollo ogni sperana di una soluzione per coucetti del problema in questione,
di modo che le prove dell’esistenza di Dio non sono valide che per coloro che
già credono in Dio i e debbono trovare degli argomenti per difendere tale 3 3 i
A “precredenza . ; L'idealismo trascendentale non è più felice nel suo SG
tentativo di dare una base solida alla fede: vedremo quali assurdilà sono
implicite nel concetto di una coscienza concrela infinita che sarebbe l'anima
de! x - inondo: vedremo a che si riduce l'Assoluto. e «E allora? Quale altra
via rimane aperta per risol vere il problema? Già nell'opera : La volontà di
credere, il James assegnava ai molivi emozionali un valore definitivo, nel casu
che l'intelletto non polesE se offrire delle ragioni sulficienti per l'adesione
a i doltrine di caraltere religioso. La via è aperta: metliamoci in essa. La
questione: « Dio esiste? »per il pragmatismo si risolve in questa, più
determinata e più chiara: «Quali conseguenze pratiche importa (| per la reallà,
per noi, l'esistenza di Dio?» Se prali= camente, cioè dal punto di vista del
criterio della uti.lita pratica, la negazione dei malerialisti vale quanlo
l’allermazione dei leisti, le due teorie sono equivalenti in lutto poichè delle
teorie non esiste che il di lato e il valore pratico (9). 7 | Ebbene, la
questione se il mondo sia creazione di Dio o prodotto delle forze materiali può
essere conpe sideralo da un doppio punto di visla: relrospettivo + e
prospettivu. lFingiamo che il mondo sia completo. ti ed evoluto in tutte le sue
partì (punto di vista retro| spettivo). Esso non sarebbe che una somma di ri
sultali buoni e caltivi, dalla quale è escluso. qualun Jaars, L'Expérience
religicuse, D. 418 (in nota), p ce 369-331. ia a JAMES, L'Erpérience
reliyicuse: « Pour celui qui déjà croit en Dieu ces arguments sont solides...
La On {ltoure... des arguments pour défendre ces croyances le doit les trouver
». : di Ò NI Vol., p. 59; L'Experience JAMES, Der Prugmatismus, religlouse. INA
La Religione nel Pragmatismo que aumento e qualunque alterazione. Da un mondo
lale noi non avremmo nulla da sperare e nulla da temere, perchè il potere
creativo, qualunque fosse slato, si sarebbe esaurito tutto in quello che è, che
è irrevocabilmente, in tulle le sue particolarità: uno dono che ci è stato dato
e che non può essere ripre- ì so. Orbene, in lale ipotesi, «quale sarebbe il
valore «di Dio, sc ci fosse con la sua opera compiuta e ìl suo mondo già
trascorso? » . Egli non varrebbe niente più del suo mondo; da lui, come dal suo
mondo, non avremmo nulla da sperare e nulla da lemere, poichè egli, secondo
tale ipolesi, nulla potrebbe togliere 6 aggiungere a ciò che è. A un Dio simile
noi saremmo riconoscenti per quello che ha fallo, non per altro. lì ora
prendiamo l'ipotesi contraria, che, cioè, le parlicelle di materia, seguendo le
loro «leggi» polessero fare lullo quello che, nell’ipotesi precedente Da fatto
Dio: saremmo noi loro meno riconoscenti che a Dio? «In che soffriremmo noi
mancanza se lasciassimo cader: l’ipotesi di Dio e facessimo responsubile la
sola maleria? Come, essendo l'esperienza definitivamente cd irrevocabilmente
ciò che è sfata, “polvebbe la presenza di Dio in essa renderla più vivente e
più ricca al nostro sguardo?» « Chiamiamo materia la causa del mondo e non
leviamo neppure una parle di quelle che lo compongono; nè, sc chiamiamo Dio la
causa, esse aumentano ». Dunque «materia e Dio significano precisamente la
stessa | cosa, cioè il potere, nè più né meno, capace di fare | questo mondo
celerogeneo, imperfello e tuttavia ter| Minato », e perciò «la dispula tra il
materialismo e il leismo diventa, in questo caso, oziosa e insignifiante». Se
la presenza di Dio «non porta un giro v lin risultato differente all'insieme
del mondo, non Ù può certumente accrescerne la dignità; nè gli (al: RE TIE
JAMES, 12 metodo pragmatista, in Saggi È : MES, li SI, gi pragmatisti, x D.
15-17. Noto una volta per sempre che le Datore Calo da 3 Saggi pragmatisti, e
messe tra virgolette sono della traduzione | del PaPINI e del LruNarbo, Jl
PAPINI ha tradotto IL Metodo | pragmatista dall'inglese, James, 0 Metodo Prag
matista; Dì mus) ip, 06 g Dp. ; Der Pragmatis: mondo) verrebbe nessuna
indegnità se Dio non hi fosse e se gli atomi rimanessero 1 soli attori ch È
scena» . È saggio colui che volta le spalle a siffat‘la inulile discussione . 3
‘Meltiamoci ora a considerare il mondo da un punto di visla prospellivo;
poniamoci « questa volla nel inondo reale in cui viviamo, mondo che ha un
fuluro, che è tullavia incompleto. In questo mondo non finilo l’allernativa di
«ma lerialismo o teismo è intensamente pratica». Essa si può formulare così:
«In qual modo il programma della nostra vila è allo a variare, secondo che si
considerano i fatti dell'esperienza come configurazioni di atomi senza finalità
(materialismo), oppure come dovuli alla provvidenza di Dio?» (teismo). È vero
che in questo mondo non finito la materia fa prati camente lutto ciò che può
far Dio, che essa equivale u Dio, che Dio è superfluo e cessa ogni legiltima
richiesta della sua esisienza? E vero che «la materia, di cui paria Spencer,
per la quale si compie il proi cesso dell'evoluzione cosmica, è veramente un
prin| cipio di perfezione infinita quanto Dio? ». (8) Vediamo. Secondo il
materialismo e la sua « teoria dell'evoluzione meccanica, le leggi della
distribuzione della materia e del moto» sono rivolte incessante_Inente al
disfacimento del mondo, «a dissolvere tutte le cose che hanno falto evolvere ».
Così il Balfour cl rappresenta l’ullimo previdibile stato dell'universo quale
ce l'ha dalo la scienza evoluzionista: «Le eNergie del nostro sistema si
consumeranno ; la gloria del: TR cselrata, e la terra, inerle e desolata, a
disturbato 1a oltre la razza che per un momento E SS GLILI a sua soliludine.
L'uomo cadrà nel EF va suoi pensieri periranno. La inquieta a.. le «azioni
immortali » moriranno, e l'ai More, più forte che la morte, sarà come se non
foss mai slalo. Nè vi ‘'à Il i i sli se 1 sarà nulla che sia meglio o peggio i
fu) d04, DD. La Religione nel Pragmatismo per lulto ciò che il lavoro, il genio,
la devozione e la sofferenza dell'uomo avranno fentalo di effettuare durante
età innumerabili » . Dunque la sorte ulti ma di ogni cosa e di ogni sistema di
cose cosmicamente evolute è tragedia. Nulla rimarrà di ciò che è slalo: non
un'eco, non una memoria: la rovina sarà universale. È si noti: « questa rovina
e tragedia finale sono nell'essenza del materialismo scienlifico. Le forze più
basse, e non le più alte, sono le forze eterne o quelle che sopravvivono ultime
nel solo ciclo di evoluzione che noi possiamo definilivamente vedere. Ma se Dio
esiste, i risultati pratici dell'evoluzione dlel mondo saranno ben altri. « Un
mondo che conlenga un Dio che dica l’ullima parola, può bensi arderè o
ghiacciare, ma però noi pensiumo che Egli pensa sempre ar vecchi ideali e ne
assicura che alriveremo a goderne; perciò il naufragio e la dissoluzione non
sono mai assolulimente finali. Ml bisogno di un ordine morale eterno è uno dei
più profondi bisogni del noslro cuore. Qui giacciono i significati reali del
materialismo e leismo...; matlcrialismo signitica Ja negazione del. l'ordine
morale eterno e l'esclusione delle speranze ultime; il teismo significa
l’afiermazione di un elerno ordine morale e dà libero corso alla speranza.
Un'altra conseguenza pralica di grande importan: za deriva dalla affermazione
feislica: il sentimento d'intimità col mondo. I mulerialismo con la sua visione
impersonale dell'universo ci pone di fronte a una realtà muta, in: differente,
brutale che distrugge via via ltutlo ciò che crea, senza curarsi del bene e del
male, e dei bisogni umani. I bisogni umani! Ma che cosa è ma l'uomo per il
quale si dovrebbe avere dei riguardi: L'individualità di ciascuno di noi è come
una BalFOUR, The Fondalions of Belie{ (Le basi della fede) p. 30, citato dal JAMES
in; Meludo praymatista, pp. 21-22, in. Der Pragmalsmus, JAMES, IL Met. Pragm.,
p. 22; Der Pragmat,, D. 66. Zuî Il Pragmatismo = rrasca, 7 are in burra sopra:
unt ma senza trequi epolto;che Loano È AESLLUSRANO FOT sj venti e le onde c
iizoirenomoni Uasc due i i non siamo che degli €} gli eventi . Come otza (dol
flusso irresistibile deG Letta così falla? È Si simpatia e amore per o a senoi
mettiamo 6, invece, nelle cose 0 MIO a esse ci appariscono n Dio una som
idenzar allora. lime al nostro cuo| ù calde, viù vicine a e voni saremo più
estra"o pensiero : e al Nostro La non lo saranno a noi. Ri Mg ici co ce
eciesse: ‘agmalistico sì polrebbe dire Da un punto di vista DER fra il
maferialismo e il le la differenza che passa fra de senlire i no: CE "nali
el concepire e sentire ; O spiritualismo) nel concepire : I ROGIE BLOGO SÌ
differenza sociale. £ i rapporti col mondo è una eee iamo malerialisti, noi
dobbiamo DR È SIGrgnn {ra socio, il mondo, difidenti e USE E guardia che non ci
GU slringorit Spiritualisli noi possiamo fidare li, S SECOLI Nexbitualisti SIAE
n ere fidenti sulla nostra " tai Ise peosstere ident so utile, che on ai
Rostri bisogni emozionali, che ci fa ‘Procedere coraggiosi nelle nostre
esperienze sulla Tealtà nella speranza che ln realtà risponda alle do mande che
le rivolgiamo, è una Sani UerisUca della | Verità, noi dobbiamo concludere che
il (eismo è vero © il materialismo è falso. Vi sonoaltre ragioni che
autorizzano a tirare conclusione in favore dell’esistenza di Dio. Se Dio, Egli
produce differenze prati porti call'universo; se c'è un Dio, renze « nella
sorte finale del mondo : lo. Ma possiamo dire d questa c'è un che nei nostri
lap questo s'è vedu i produca differ . Ina durante tutto il ere che l’esistenza
di Mella sorte finale do» Ammetl ì, L'Expérience religieuse, D. >, Il Metodo
pr agmut.,; 4 Pluratistie Univer Il Met. Ppragm. Egli produce diffe È più: se
c'è un Dio noi possia-. no aspellarci che egl enze non solo, | corso del monDio
non possa a 66 La Religione nel Pragmalismo cangiar nulla nella nostra
esperienza non è affermare ‘l’inverosimile? «il vero significato di « Dio » sla
appunto in quelle differenze che debbono essere ammesse nella nostra
esperienza, ove il concello sia ve“ro. Ebbene queste esperienze esistono cd
hanno un ‘intlusso polente sul sentimento e sulla condolta. La Z esperienza
fisica, o percezione degli oggetti esterni, e la esperienza psicologica pura c
semplice limitata alla tà percezione deil'io, non colgono la realtà tolale e
pie‘q namente reale, e non sono le uniche forme di espericoza: ve n'è una
terza: l’esperienza religiosa che (ci dà una massa di esperienze concrele
affalto originali. «Se voi chiedete cosa sono queste esperienze vi dirò che
sono conversazioni coll’invisibile, voci e visioni, risposte fl preghiere,
mutamenti di cuore, Ta liberazioni da paura, influssi di speranza, assicura
zioni di appoggio, ogni qual volta certe persone si mettono in una cerla
attitudine interna, con certi modi appropriati. Il potere viene, va e si perde,
e può esser trovalo soltanto in una certa direzione determinata, proprio come
se fosse una cosa concreta e maleriale» xl}, Vedremo più sotlo perchè
praticamente parlando è cosa di poco momento che il Dio della teologia
sistemalica esista o non esista; «ma se il Dio di queste particolari esperienze
è falso, è una cosa lerribile per quelli la cui vita è poggiata su tali
esperienze. Concludendo: «la controversia teislica assume un lreniendo
significato se noi la saggiamo coi suoi re; sultati nella vita attuale » . Il
naluralismo, il posiARI livismo e l’agnosticismu possono cominciare con
culusiasmo il lavoro rude della vita, ma liniscono fatalmente nella tristezza e
nello scoraggiamento inerte. Se invece, come afferma il teismo, la nostra vita
‘cosciente di lutti i giorni fa parte d'un universo morale, armonivso, elerno;
se ognuna delle nostre sofl a O TAES: ALI relty., ). AMES, Mel. pragm. Sono
appunto queste | ‘esperienze che formano Ìl tema e l RA) ci CRA la e la materia
di: L'Experience /£ Metod. Pragni. a N ll Pragmatismo 67° ferenze ha la sua
ragion d'essere e il suo valore; se il cielo sorride alla terra e se gli dei
vengono a visitare gli uomini; se la fede e la speranza sono come l'atmosfera
della nostra anima, allora la nostra vila scorre abbondante © colorita in mezzo
a grandiose prospellive i Possiamo tirar subito una conseguenza importanle dal
punto di vista pragmatlistico ; la speculazione èimpotente a condurci a Dio;
noi affermiamo la grande probabilità della sua esistenza in base alle
conseguenze pratiche, all'utilità reale, in contanti, che derivano
dall'accettarlo come esistente. Naturalmente, e lo vedremo sotto, il
pragmatismo non può darci più che una probabilità. Lo Schiller con lo stesso
metodo giunge alle stesse conseguenze. Col James egli rigetta le prove
tradizionali dell'esistenza di Div e fa una guerra spietata alla
identificazione con Dio dell’Assoluto degli idealisli trascendentali. Per lui
la comune insufficienza delle prove tradizionali sta nella loro astrattezza.
Esse, infatti, sono applicabili alla concezione di un universo qualsiasi, non
ul nostro mondo particolare. Per esempio: l'argomento cosmologico inferisce Dio
dal fatto che vi è eausazione in astratto; l'argomento fisico-teleologico è
costruito arguendo, in maniera affatto generale, dall'ordine un ordinatore .
Ebbene questi argomen ‘li non provano nulla perchè vogliono provar troppo. Dal
momento che si possono applicare ad'ogni solta di mondo, buono o cattivo che
esso sia, ne segue che la divinila inferita con questa specie di argomentazioni
è affatto indifferente al contenuto del mondo, al bene e al male che esso
racchiude: è un Dio amorale, che si può inferire così bene da un universo
ollimo come da uno pessimo. La inferenza di Dio dal mordo sarebbe ugualmente
buona nel Cielo e nel l'inferno, Ecco perchè tutti i lonlativi di ascrivere a
Dio attribuli morali sono condannati a ;certo insuc 30. JAMES, L'Experionce
religieuse. Se il | cesso. Trascurando gli aspetli morali del nostro mondo come
si può giungere a un principio morale gli esso? Ebbene, non è di codeste prove
che noi abbiamo bisogno; non chiediamo una prova dell'esistenza di Dio che sia
valida per ognì universo pensabile, mù per il nostro mondo aituale, che tenga
conto del contenuto concreto, reale delle cose che noi: esperimenliamo; ci
occorre un Dio il quale ci dia sicurezza, che nel nostro mondo vi è un polere
capace e disposto a dirigerne il corso . È È Il dialogo: Gods and Priestes (Dei
e Sacerdoti) è lullo una critica birichina degli argomenti razionali (teorici)
dell’esistenza di Dio. Dice Filono: «Mi pare che Vesislenza degli Dei si possa
inferire dall’esistenza dei sacerdoli, poichè, se gli dei non ci fossero, e che
ci starebbero a fare i sacerdoli? » Un argomenlo puerile, a dir poco, come si
vede. Eppure Anlinoro risponde: «Questo argomento è... migliore della più parte
di quelli dei teologi » . Più oltre Antinoro dice: .« Finchè il Dio ignoto non
è desideralo è incomoscibile » . Noi sappiamo che « inconoscibile », per
l’umanismo, vuole dire «non-esistente ». Ma dunque il nostro desiderare, volere
Iddio è creare, fare Iddio? Senza dubbio: «il desiderio fa reale l’irreale n. «
Gli dei sono reali in quanto responsi ideuli ai reali bisogni umani, che ci
funno realmente agire» . Dio 6 un postulato della fede ed è delia stessa nalura
dei postulati della scienza , cioè una supposizione uli- SCHILLER, Humanism.,
Ess, 1V, « Lotze's Monism »; p. 82. = lo non posso indugiarmi a esporre
largamente le teorie religlo5e dello SCHILLE", come ho fatto col JAMES: un
articola non basta a ciò, Del resto non è neanche necessario, perchè lo
SCHU.LER, quando pula di religione. si appoggia spesso al JAMES, €,
sostanzialmente, lo riproditeo ScHiLLER, Studies in Humanism, Essay.The gods
nre real as the ideal responses to real human needs, which really move us,
Studies in Humanism, p. 136. Lo ScHILLER cita qui: La tolontà di credere del
James, = "i si » etiam Lu e e ir__nnnn_nn_ RPEI EN oli Pragmulismo le, una
domanda di qualche cosa che corrisponda alle esigenze dell'uotno e mella
armonia in una speciale sfera di esperienze. L'uomo fa la verilà e la realtà,
come s'è veduto: È è vero e reale ciò che opera e in quanto opera; la soslanza
è allivilaà, e l'attività non esiste se non come attività per noî. La domanda
di Dio non è la domanda di un essere lrascendente, ma di uno perfezioÈ nante la
esperienza nostra . Perciò la questione: LI, Dio esiste? significa: Qual'è il
valore per noi del conX cetto di Dio? | siecome le concezioni di Dio sono mol|
le, qual'è il valore di esse, 0 dei varì tipi ai quali lulte sì possono ridurre?
E qual'è il migliore fra i concetti di Dio? $ 9. Nella filosofia spiritualisla
noi troviamo due specie di (eismo in senso largo: il leismo dualistico, o
teismo propriamente detlo, e il leismo monistico o panteislico. Il primo è la
elaborazione teologica della filosofia scolastica, il secondo è proprio
dell’idealismo posl-kanliano, 0 idealismo assoluto, o idealismo simpliciter,
che si voglia chiamare . Esponianoli brevemente ed esaminiamone il valore alla
luce del pragmatismo. >» Il'ieisino scolastico insegna che Dia è la Causa
Prima, la quale differisce tolo genere dalle sue creature. La sua essenza è di
essere a sé. L'ascità è la fonle di ltulli gli altri allributi metafisici:
necessità e assolutezza, immaterialità e semplicità, infinità e personalità metafisica,
ecc.; e degli attribuli morali: sanlità e onvipolenza, onniscienza e giustizia,
im mutabilità e amore, ecc. . Ebbene, applichiamo a ScuuLer, ivi.
Considerazioni simili a quelle del James contro ia visione materialistica della
vita nol troviamo li Humanism, Ess..: «The ethical significance. of immortality
». Vi dintostra che la vita non è degna d'esser "vissuta se non sono
conservati i valori ideali. JAMES, A Pluralistic Universe pp. 23-24; Der
Pragmalismus, VIII Vorl. p. 192. a JAMES, L'Expérience Reltgieuse, pp. 371-376;
Saggi pragmat., IL metod. pragm. ar La Religione nel Pragmatismo RO T questi
attributi di Dio il principio del Pierce ec vedreL mo che fra essi ve n'ha di
più e di meno importanti. i Infatti, dal punto di visla pragmalistico che divenN
gono gli altribuli metafisici di Dio, distinti dai suol attributi morali? Quali
effetti possono produrre sulla nostra condotta? Che cosa importa per la vita
del. l'uomo che Dio sia a sè, che Dio basti a sè stesso, che Dio non appartenga
et nessun genere ecc. ecc.? «Come può mai l'« aseità » di Dio loccarmi
inlimamente? Quale speciale cosa posso io mai fare per adattarmi alla sua «
semplicità? n «O come devo de terminare lu mia condotta da qui innanzi se la
sua «felicità» è assolutamente completa?» Anche quan‘do di quesli attributi ci
si desse una dimostrazione logica rigorosa noi dovremmo confessare che essi non
hanno senso, 4 poichè sono lontani dalla morale, lontani dai bisogni umani .
Non è così degli attribuli morali. Essi risvegliano il limore e la speranza e
sono il sostegno dell’anima. Se Dio è santo non può volere che il bene; se è
onnipotente ne può assicurare il trionfo; con la sua onniscienza ci vede nelle
tenebre; per la sua iustizia, Egli punisce le nostre colpe anche segrete. ègli
è tulto amore, dunque perdona; è immutabile e quindi possiamo contare sul suo
amore. i Iddio, nella creazione, si è proposto come fine la manifestazione
della sua gloria; « questo dogma ha certamente una qualche elficace connessione
pratica ©. colla vila, 0, meglio, Phu avula per l'enorme influen| za che ha
esercitato sulla storia ecclesiastica e per ? ripercussione sulla storia degli
Stati curopei» . Cerlo, quest'ullimo dogma, connesso con la concezione
monarchica del mondo, di una divinità con la sua corle e le sue pompe non
corrisponde più alla nostra mentalità, ma gli aliri attributi hanno un valore
religioso anche attualmente. Sc la teologia scolastica JAMES, L'Excpérience
religieuse, DD. 375 S86.: Il Metod. Pragm. JAMES, L'Expérience religicuse, p.
376; Il Metod. Pragm.. i LA 4 s = lì Pragmalismo 1 polesse stabilire in modo
irrefutabile che Dio li pos- e) siede (gli attribuli morali}, darebbe una base
solida si alla religione. Ma, come per l’esistenza di Dio, cusì 19 per gli
allribali morali essa ba fallito nel tentalivo sl {lo Schiller ce ne ba detto
il percl®). Si può provare d storicamente che essi non hanno mai convertito
nes- È suno. Provatevi a dimostrare, scolasticamente, a uno | che dubita della
bontà di Dio, che Dio è buono per- ì chè non vi è non-essere nella sua essenza!
Quegli ni altribuli hanno valore non perchè e in quanto sono dedolti, dalla
scolastica, a filo di logica da certi du (erminali concetti o calegorie, ma
perchè e in quanto ur; eccilano in nvi la risposta di qualche sentimento at- A
livo e fanno appello a qualche particolare condotta = da seguire» , non quindi
in base a speculazioni, | Pi ma per la loro efficacia pratica. |, V'ha di più.
La concezione leistica (scolastica) dipingeudo Dio e la sua creazione come
distinti l'una dall'altra, anzi come affatto diversi, mette il soggello umano
fuori di ogni contatto con la più profonda realtà dell'universo. Dio è separato
dal mondo e dal- . l'uomo. Fra l’uomo e Dio vi è connessione o rappot= in - lo
unilaterale, non reciproco. La sua azione può toccarci, si afferina, (conte
possa toccarci è un misleto) ma Lui non può essere affetto dalla nostra
reazione. Il rapporto fra noi e Dio non è sociale: i due terni. | ni sono
separali da un abisso (8). Dio non è cuore del nostro cuore, ragione della nostra
ragione, ma nostro maestro e giudice, ll nostro dovere inorale è di obbedire
ineccanicamente a’ suoi comandi, di aderire pussivamente alle verità che non
noi faccia > mo, ma che esistono per sè, « by (iod°s grace QI CE ‘ decrec» .
Ebbene, lutto questo meccanismo LEO= N logico, che ha parlato così vivamente
all’animo dei nostri antenati, con la sua limitata elà del mondo, | con la sua
creazione dal nulla, con la sua moralità ta W) JAMES, L'Erper. relig., DD.
JAMES, IL Met. pragm., PD. 26 . Ca ye 2 JAMFS, A Plural. Univ.,7. “i James, «Ad
Plural. Univ. 72 La Religione nel Pragmalismo giuridica ed escatologica, col
suo gusto per le ricompense e le punizioni, col suo considerare Dio cone un
Jlegisialore esteriore, suona così vecchio al piu di noi come se si trattasse
di una religione selvaggia di stranieri. Le ampie vedute aperte
dall’evoluZionismo scientifico e lo marea monlanie degli ideali delia
democrazia sociale hanno cambiato il tipo del la nostra menlalità, e il vecchio
leismo monarchico è vielo e fuori di moda. IL posto del divino nel mondo
dev'essere più organico G più intimo. Un creatore esteriore e lc sue
islituzioni pussono essere professale ancora, verbalmente, nella Chiesa in
formule che sopravvivono grazia aila loro inerzia, ma la vila è lontana da esse,
non lano più adito nei nostri cuosti . Quel magnifico uomo nou naturale che è
il ‘Dio del teismo non cì soddisfa più; è solto il livello delle idee morali
correnti e perciò condannato dall’'alinosfera morale regnante, divenula per noì
indi. spensabile. I frulli che un tal Dio ha dato ai nostri avi hanno perduto
ogni valore per noi, le idee morali e sociati nostre ci costringono, sc abbiamo
bisogno di Dio, a foggiarcelo in corrispondenza alle aspirazioni e agli ideali
del lempo nostro . Ed ecco che l'anima contemporanea ha veduto la possibilità
di una più intima Weltunschauung; la visione panteislica di un Dio immanenfe
come sostarza inlima del mondo, e il mondo come parle di quesia profonda
realtà. Questi concezione hu assunto due forme diverse: la monistica e la
pluralislica . pp. 29-30. Lo stesso pensiero è espresso più largamente in:
L'Eaperience reliyteuse, Qhap. IN: Critique de la Saintele, pp. 250-284 La
frase è dell'Arzold. Cir: A Plural. Univ., JAMES, L'Ewper. relig. Si è detto
che”il Dio tiel tolsmo è rigettato dal JAMES semplicemente perchè così porta la
moda, Intendiamoci; se per ni0da si vuol significare «il complesso delle idee
morali e delle forme sociali» di una data epoca, l'osservazione è giusta; se
per moda s'intende quella brutta cosa che tutti conoscono, non credo che sia
esatto il dire chè il James giudica di Dio in base ad essa. Cfr.. L'Erpér,
relig., 1. c. JAMES, LI Plural. Uniw., pp. 30-31. Secondo il monismu la
sostanza umana (e mondia- ©. le) si identifica bensì con Ja divina, ma non
diventa veramente tale che nella forma della totalità. Lo spirito finito non ha
realtà che neila comunione con lo pi spirito Assoluto; cioè ìl divino esiste
autenticamente È solo quando è esperimentato nella sua assoluta l0 rà lalità.
Pev il monista essere significa due cose: se si È predica delle cose finite
significa: essere un oggetto Ì dell’Assoluto; se si predica dell’Assoluto
stesso vuol i dive: essere il pensamento dell'insieme degli oggetti. LvAssolulo
ci Îa pensandoci, precisamente come noi, nei sogno, facciamo gli oggetti
sognandoli, o, in una storia, i personaggi immaginandoli. Mondo e assojulo sono
la stessa cosa espressa con nomi diversi: pensiero e pensato (Gedanke und
Gedachleg s – cf. Grice, SIGNIFICARE E SIGNIFICATO – SEGNARE E SEGNATO –
Meinung – ge-meint). Quale grandiosa concezione nella sua terribile unità!»
esela: ma il James . Quale intimità fra il mondo e 1 ASsolulo! > Ma, pur
troppo, a un esame diligente questa 31 LI St x. milà ci apparisce illusoria e
materiale; in realtà il divino è affatto estraneo al mondo come nel teismo
monarchico . E in vero: per lassolulisla noi, POSI ad uno ad uno nella nostra
finilezza empirica non abbiamo nessun rapporto con l'Assoluto; per far (parle
di esso dobbiamo perdere l'essere nostro individnale con la sua limitatezza e
coi suoi difetti. L'AsEa solulo è noì e lutte le allre apparenze, ma non è I
nessuno di noi in quanto fali, poichè nel tutto TION x siamo « trasformati»
diventiamo altra cosa. Dio quaFat: tenus infinilus est è altro da Dio, qualenus
humanam wr mentem conslituit ha scritto lo Spinoza, il primo ; grande
assolulisla . La vera conoscenza di Div = serive l'Hegel comincia quando
conosciamo che le cose, quali ci si mostrano immediatamente, non han: ‘no
verilà . L'Assoluto secondo il Taggarl non è processo, ma stato immobile: il
movimento JAMES, Zbta. James, A Plural. Univ., Di. » DI art ri È aaa” ul = Pa.
ASTRA La Religione nel Pragmatismo il cangiamento sono assorbiti nella sua
immutabili È i come forme di mera apparenza . Che cosa più DA estranea a noi di
un essere che non è nè intelligenza nè volontà, nè una persona, ne una
collezione di persone, nè vero, nè bello, nè buono nel senso che noi diamo a
queste parole? come scrive BRADLEY [citato da Grice, Prolegomena]. Che cosa
facciamo di questo mostro metafisico incapace: di odiare e di amare, di
soffrire e di desiderare? L’Assoluto non può essere personale nel senso
ordinario della parola; dunque non può interessarsi delle persone: la sua
relazione con ess? è tutt'al più una relazione di inclusione, puramente logica,
quindi, non morale . Io non posso avere nè cuore nè pensiero per un essere che
nulla ha comune con me; se Lui nella sua inerte auto-beatlitudine non
s’inleressa di me come posso io interessarmi di Lui? = Non solo l'Assoluto non
è un principio morale, ma non ha neppur valore scientifico. Per aver valore
scientifico dovrebbe essere un aiuto alla comprensione intellettuale
dell'Universo. Ebbene Esso non è la ragione suprema ed ullima di ogni cosa in
par ; ticolare (e l'universo si compone di cose particolari) > appunto
perchè è la ragione esplicativa di ogni cosa î in generale; e qual'è il valore
di una spiegazione gemerale che non spiega nulla in particolare? . È, come si
vede l'applicazione all’Assoluto dell’astrat lezza dei concetti con i quali sì
prova, in teologia, 2 che Dio esiste e se ne deiermina l’essenza, secondo lo
Schiller. s JAMES, Ivi; SClilLLER, Stud, i D p o i ud. in Hum. Essay XII,
passim; JAMES, 0p. cit. pp. 47-48; SCHILLER, iul, p. 286 g. e: (Essr IV, pagine
111-140. IDRA RRE JAMIS, ©p. cut., avi,; SCHILLER, Ess. JV. ScHILLER® Stud. in
Hum,, D. | James, A _Plural Univ., p. id; SCHILLER, Stud. in Hum. bp,; « If th»
One is neither of these {hings (beautiful and | good), I will not worship it.
nor call it Good. If it is indifferent to 9ur Gocd, I am indifferent to its
existence n. SCHI,LER, Stud, in IHum., p. 25). db Ît Pragmatismo Ti) Ma c'è di
più. Uno dei problemi che ha maggiormente alfalicalo il pensiero umano è il
problema del î male, il più fondamentale e il più pressante dei problemi
religiosi. Esso ha un lalo teorico e uno pratico. Il teorico si formula: «
Com'è possibile il male?» Il prutico: « Come liberarci dal male? » Il primo sor
ge dall’impossibilità di conciliare la bontà di Dio. con la sua onnipolenza e
con la sua infinità. Se Dio è il tutto, la perfezione assoluta, senza
limitazione nè possibilità di limiiazione, donde il nale? Se Dio è onnipotente
perchè non trionfa del male, di tulru il male? . li panteismo assolulista ci
dice che la periezione di Dio è la sorgente delle cose; ebbene, guardate: il
primo altu di questa perfezione è la spa ventevole imperfezione di tutto il
finito sperimenta bile. Come mai la perfezione dell’assoluto, richiede 7 queste
schifose forme di vita che troviamo nella realtà? Ecco il problema che nessun
assolutista € . nessun infiniusta potrà maì risolvere. Negarlo nou è
risolverlo. Lire, come fa l’assolutismo, che la impertezione del tuito non è
che apparenza, una illusione degli esseri finiti, che il maligno non esiste 0 è
assorbito con Dio nella sintesi superiore dell’Assoluto, ecc., ecc., non è
risolvere, ma ingarbugliare il problema. Il male c è è noì vogliamo
liberarcene. L ìl problema pratico si presenta: « Come scemulti | x la quantita
del male che è nel mondo? ». Il lato pratico del problema, chie è il solo
veramente importante, non ha sensu per l'assolulista: tutto ciò che è, è
necessariamente come apparenza dell’Assoluto : ogni cosa l determinata nel suo
essere e nel suo divenire; ia connessione fra le cose è assoluta, ogni evento è
determinato da lulti gli eventi . Non esi lai” sad SCHILLER, po 287-258. nati
James, 1 Pturat. Univ. , Una simile domanda è rivolta dal James al teismo
creazionista del Leibniz (e si può | rivolgere ad ogui specie di creazionismo).
Vedi: A «Plural. Univ.. « Perchè Dio crea liberamente questo mondo imperfetto,
e non si contenta di contemplarlo nello schema ideale perfetto? James, 4
Plural. Univ. La Religione nel Pragmatismo ioni; i é che stono possibilità di
nuove connessioni; non vi è c ; DE ‘possibilit: quela che s’identitica Son IP
DESeRa silà. L’indelerminatezza del reale e la bo. FR na sono chimere. Ecco a
che conduce. la Assoluto. Eibovo queste terribili accuse ACCIAIO deil’Assolulo
noi ci aspettiamo di NEdSri dan nato alla irrealtà dal metodo PrOgmal sa MEO
amet no RO . Dal punto di vista intel: ì es , E ris : CRA gua SelSsolnio Do i
SA ISRUIL SDOlai elipotesi RO se l'Assoluto rende dei serDi all'uomo. Orbene,
quantunque l'Assoluto sia e non possa essere il Dio della religione popolaure ordinaria
e non si debba confondere col Dio del Cristianesimo c della Lcologia ortodossa
ne vedremo più sotto il perchè tuttavia è stalo e può essere il Dio di una
certa classe. d'uomini, che in Lui solo trovano la pace. Ciò che sembra
logicanente assurdo c impossihi può essere dimostraio in q non le dice Schiller
ualche modo con una fede eroica e palelica, Non v'è materiale così poco
proInettente che non possa divenire il fondamento di una veligione. Non' vi
sono conclusioni così bizzarre che non possano essere accellale con fervore
religioso. Non vi sono desideri così assurdi Ia cui soddisfazione non possa
essere riguardata come un atto di cullo . Perciò l’assolulo può esistere ed
esiste come Dio se ha una reale iniluenza s ulla vita umana, se è qual“ehe cosa
di vitale e di valutabile pragmalicamente. Ebbene, la storia delle religioni ne
ha dimostrato l'utilità. Vi sono unime che hanno bisogno di una sicurezza
assoluta che l'esito del mondo sarà buono, che l'universo non audrà in isfacelo
sotto il COZZO Zut; Der Pragmatismus, Vorl., ASSI, SCHILLER, S/ud. in Ilum. Iîì
Pragmatismo Ti degli clementi instabili e fortuiti; lale sicurezza non può
aversi che ammettendo un'assoluta necessità e una interna coerenza del mondo,
una determinazione a priori del futuro. Vi sono anime che provano un sentimento
d’orgoglio al pensiero di essere una parle, una «manifestazione », un «veicolo»
o una ripreduzione della Mente Assoluta . Vi sono quaggiù anime stanche,
accasciate sotlo il peso del male, incapaci di trovare in sè stesse la forza di
vincerlo; la loro vita si sfascia ed hanno bisogno di risolversi nell’Assolulo,
come una goccia d'acqua nel mare. Noi tutti abbiamo dei momenti in cui
aspiriamo al Nirvana, alla liberazione di noi stessi dalla esperienza finita.
Questo stato è proprio degli Indiani, dei Buddisti e dì certi temperamenti
mistici ai quali è conforto ed ebbrezza il sapere « che tutto è necessario ed
essenziale, anche l’uomo col cuore e con l’anima ammalati: che tutto è uno in
Dio e che in Dio lullo è buono. che in que-. slo mondo di apparenze, qualunque
sia il nostro successo, siamo sempre dei miserabili. Vi è dunque un istinto
dell’Assoluto. L’Assoluto può servire all'uomo, e perciò, nonostante le sue
assurdilà, il pragmatismo lo rispetta ci dicono a una voce il James. e lo
Schiller poichè gli istinti umani sono preziosi © sacri e tutto ‘ciò che opera
è vero finchè opera. IL’Assoluto è salvo sotto le grandi ali della
misericordia... del pragmatismo., Il quale pragmatismo inclina tuttavia ad
un'altra concezione del mondo e quindi di Dio. L’'Assoluto mena necessariamente
all’indifferenlismo e al quielismo; non è uno sprone al lavoro audace dei forti
che non rifuggono dal male della vita ma lo affrontano pur nel dubbio di
trionfarne, esso è per le anime un oppio spirituale; è il Dio dei deboli, degli
stan- JAMES, Mer Praymatismus, VITI Vorl., passim; SCHILLER, Stwal. in Mum.,
JAMES. Numerosi esempi di questo singolare stato d'anicao ha offerto il James
in: L'Expér. relig.,JAMES, Der l'ragmat.; SCHILLEK, op. c., p. YI. fo) La
Religione nel Pragmatismo chi ; il pragmatismo non può accertarlo. Si è
aCcusato il pra matismo di irrceligione; @ torto però. Non è a credere che la
dottrina pragmalista, rigeltando VAssoluto e il Dio del teismo monarchico,
neghi che il mondo contenga in forma di coscienza qualcosa di più grande e di
meglio che la nostra coscienza. Forse che la nostra fede istintiva in esseri
superiori, il nostro persistente rivolgersi verso una società divina non è che
una illusione patetica di anime incorreggibilmente sociali e immaginative? .
No, l'ipotesi di Dio è vera, perchè ha una eMceacia reale; per quanto possano
essere gravi le difficoltà che le si oppongono, l'esperienza dimostra che essa
opera. Il problema di Dio consiste in questo: come elaborare l'idea di Dio in
muniera di farla entrare in accordo con le allre verità operative? , Ebbene, è
logicamente possibile di credere in esseri sovrumani senza punto identificarli
con l'Assoluto. Il con_celto dell’Assoluto sta in funzione del monismo
idealistico ; il concetto pragmalista di Dio sla in funzione del pluralismo: è
la forma pluralistica del panteismo religioso. Il pluralismo in quanto ha
rapporto con la religione ammette col monismo la immanenza di Dio nel mondo,
come vita e sostanza profonda delle “cose, sostanzialmente identica con la vita
e con l'essere più vero dell'uomo , ma differisce inconciliabilmente dal
monismo negli svolgimenti ulteriori della lesi unica. Per il pluralismo la vera
realtà delle cose è la loro individualità. Il mondo è collezione, non unità.
Ogni JAMES, iui. Jimes, Her Praugmal, Anche lo Sc È Ste 4 DI È 162, A o
SCHILLER prois contto LASERSA CIFITTRLIEIONO fatta alle nuove dottrine f adley,
Cfr: Stud. in Mum., D. 195. Per Îl res della citazione, vedi; A Plural, Unlv..
Per E Jamrs, ber Pragmat., James, A Plarai. Univ, Schiller parla del
Pluralisino in generale in: Stud. in Human D ; vl ROSSO alla sfuggita in altri
luoghi per la relazione del. pluralismo con l'Umanismo, vedi. Humanism, PI LA
SE cosa pensabile, per quanto vasta e inclusiva, ha un ambiente esteriore: non
è mai (ullo-inclusiva (AU inclusive). Nessuna inchiude lulte le cose
assorbendone la realtà tutta, nessuna domina su tutte. Men{re la realtà del
monismo è caratterizzata dalla All form (formia del tutto o dell'uni-tulto), quella
del pluvalismo è caratterizzata dalla Zach-form (forma del le individualità o
distributiva, come altrove la chiama il James): è la forma dataci dalla
esperienza iminediata. Il mondo pluralistico è piuttosto una repubblica
federale che un impero, un regno. L'unione delle cose singole atomi e unità
spirituali non è compenetrazione di tulte in ognuna, non è il tipo del la
unione monislica della tosalità-unità (Alleinheit), non è complicazione
universale, ma contiguità, continuità, concatenazione di individui; è il lipo
di unione synechislica , quindi vi è dislinzione e indipendenza. Perciò nessun
centro di coscienza, nessuna azione puo lutto abbracciare: qualche cosa sfugge
sempre e non può mai essere ridotta all'unità to) Non c'è un'assoluta unità causale
del mondo; non cè un'assolula unila generica; non e'è un'assoluta unità
teologica e morale; non c'è un’assolula unità estetica, non c'è un’assolula
unità noelica attuale JAMES, A Plural Univ.. Il synechismo è quella tendenza
del pensiero filosofico che fa dell’idea di continuità una delle più Importanti
in filosofia. Il continuo è inteso come qualens cosa le di cui possibilità di
determinazione sono inesavribiti. Oltre questo synechismo che è metafisico ve
n'è uno epistemologico, cioè la concezione della verità sistematica come
gradualmente approssimabile, ma non mai interamente taggiunsipilo dal pensiero.
I.'uomo tende a una interpretazione scinpre più razionale e coupleta
dell'universo, ma ogni fase del processo conoscitivo non è che una
razionalizzazione parziale della realtà. CIr. l’arucolo del PrRcE Pragmatism
nel ictionary of Philosophy del Bal&win. Secondo il Peirce il | Pragmatismo
è parte deila dottrima più larga del synechismea. (Credo che il nemne sia del
Peirce). Cfr. la bellissima opera Thegries of Knowledge, del P. WALKER S. T.,
TLongmans, Londra: da essi ho prese queste cliazioni n proposito del
symechismo, dal La Religione nel Pragmalismo dell'universo . Vi sono «reali
possibilità, reali indelerminazioni, reali incominciamenti, reali finì, roali
mali, reali crisi, reali catastrofi e reali scompi . Nel mondo accanto
all'ordine vi è il Cso ne, accanto al sapere, vl è l'ignoranza, accanto a bello
il brutto, accanto al bene il male: non vi è dunque perfetta, unità, ma
molteplicità reale neil unità imperfetta. Forse l’unità perfetta non vi sarà
mai; forse non potranno essere liberate dalla disgregazione e dal disordine che
certe parli del mondo, quelle alle quali si estende la nostra allivilà uni
ficatrice. Ad ogni modo la piena unità, se sarà possibile, nella ipotesi
pluralista non è al priucipio ma alla fine, non un primo ma un ultimo ; la
salute ogni salule, anche ia parziale non è necessaria, certa a priori, ma solo
possibile. Nella concezione assolulista il fondamento della realtà è l’unità statica;
nella pluralista sono delle possibilità, pure possibilità. Il pragmatismo
riconosce un valore reale alla prima, ma preferisce la seconda, come più in
armenia col suo temperamento, poichè essa è alta a suscitare nel nustro spirito
un numero maggiore di esperienze future e sprigiona in noi determinate
allivilà. Il suo effetto sull'uomo non è il quielismo, 1a il lavoro strenuo,
poichè com’essa insegna, da lui {dall’uomo) dipende la vittoria sul male:
vittoria possibile a prezzo di lotta contro i pericoli e la resi stenza della
realtà ad essere redenta è unificata. Così il jvagmatismo tiene Ja via di mezze
fra l'ollimismo per il quale la salvezza del mondo e dell’uomo è “sicura e il
pessimismo per il quale ogni salute anche parziale è impossibile. Il pragmatismo
è meliotristi: per esso il fuluro sarà di più in più migliore del vresente come
il presente è migliore del passato. E la possibilità anzi la probabilità della
salvezza per JAMES, Mer Pragmatismus; A Puwal. Univ. specialmente Zesi. JAMES,
Will to Believe, p. IX { Schiller: In Huinanism, pagina SI p, Gitato dallo
Schiller JAMES, Der Pragmatismus. i mo. il Pragmatismo 8 ja liberazione dal
male e per la diminuzione della moltiplicità non unificata aumenta in
proporzione del numero e della bontà delle forze iiberatrici. Vi sono delle
forze sovrumane che lavorano e lottano con noi? Allora la incertezza della
salute è ridoita di mollo; possiamo sperare che l'esito del mondo sarà buono.
Qui si mostra in tutto il suo valore reale l'ipolesi di Dio; per questo gli
uomini religiosi del tipo pluralistice hanno sempre credulo in Lui . Ma chi
accelta il pluralismo ed ha bisogno di forze sovrumane , deve elaborare il
concello di queste in modo da accordarlo con le esigenze e con le verità
operative di tale dollrina. Quindi: la realtà divina (o le lealtà: vedremo più
sotto se al singolare o al plurale) deve coesistere con lulte le altre realtà
individuali inferiori, non assorbirle;j deve lasciar sussistere le possibilità,
le indeterminazioni, la libertà e quindi la incerlezza del futuro; dev'essere
personale al iagdo nostro, poichè diversomente ci è impossibile 1 mità con
essa: in una parola: può e deve esSIRO più grande di noi, ma ron infinita, più
potente RT Ta Tio onnipotente. Noi non sappiamo che Alon Si Di s7ranico alla
nostra natura; noi vo: FTT ESAC sla intimo a ciò che è umano in Tondo dr 5 amen
e umano, al mondo in quanto è ONT sperienza. Noi e il mondo di cui siamo Perche
Dig SO nel tempo e abbiamo una storia; RSA la f apporti reali, non puramente
astratCES col mondo deve esistere nel tempo e una storia, deve quindi escludere
la staticità È RE Der Pragmat.. IESUe i celli accetta il pluralismo con tutti i
suoi pericoli e Îlifmonda Fuso 4 se la sente di lottare du solo per rendere
Riones E TERE RMS: tali uomini non hanno bisogno ui reliTenero » che pool
temperamento diameualmente opposto «al tieni Ja SR dsc lAssuluto. Come si vede,
il pragmatismo sulla AT i mezzo che è la via aurea perchè conta a dleì
temperamenti umani. I più degli sono dai i . I pi egli uomini : si EONANO I
SIANZA dei due temperamenti opposti: a questi mamente ul tipo meltorislico del
telsmo, Pragmatismo PEPE], Pg ASS RE. I RARE 1 pragmatismo È s2 La Religione
ne,” ed avere Un ambienté esiratemporale dell'Assolulo esterno come noi.
essere, IN una arola, uno degli euch, UD mombro del mondo pluralistico, una
conti nuazione di esso . i ; Uno o più? Monoteismo 9 polteismo? Si può con:
cepire Dio monoteisticamente e politeisticamente dice il James purchè sj
ammetta la sua finità; è Vunica via per sfuggire a tutti gli assurdi e gli
1nconvenienti che por sè l Assoluto . Tuttavia il pragmatismo inclina
evidentemente al politeismo, alla concezione di diversi del, ognuno dei quali
Ss! occupa di una frazione dell'universo; © di una gerarchia di coscienze
inferiori che vanno dalla c0d una suprema, senza soluzione scienza della razza
® | i a non è infinita perchè di continuità; © la suprem infir ‘sintesi di
coscienze finite ; © è dice il Boutroux ‘un sostituto pragmatistico dell'Uno
astratto degli idealisti; in essa € per essa le coscienze inferiori possono
entrare in relazione fra loro, amarsi e comprendersi : sla qui il suo valore
pratico. Tanto James come Schiller tengono molto a rovarci che la loro
concezione del divino sì accorda perfettamente con la religione pratica, con la
esperienza religiusa dell'uomo ordinario, e con la teolo ia orlodossa non
inquinata dal veleno monistico. Ne Jehova dell'Antico Testamento nè il Padre
Celeste del Nuovo hanno nulla di comune con l'Assojulo se non questo, che lutti
e tre sono più grandi dell'uomo. Difficilmente io posso concepire qualche fn 9”
cosa di più diverso dall'Assoluto del Dio di David 0 JAMES, A putrat, Univ.,
DI. JAMES. ) È la teoma di Fechner che il JAMES €S sone nella IV Let ‘tara del
suo: 4 Plural. Unw.: "Concerning. Fechner 0 oo : ì questa coscienza
feclneriana « esistente dietro le quinte ; da È del mendo» e non ienulicabilc
con l'Assoluto dei ° rascendentalisti, il James sveva già pirlato in una
conferenza « sull'im- i Saggi “Pragmatisti: « L'ime | i | mortalità dell'anima,
Cfr: (mortalità dell'anima », Di JI. Il Pragmatismo di Isaia. Il loro Dio è un
essere essenzialmente finito nel cosmo; vi ha un'abitazione e attaccamenti
locali e personali. La coscienza religiosa ordinaria postula un Dio parziale,
un Dio che ci soccorra e simpatizzi con noi poveri framinentli finiti del tutto
. In nessuna religione il Divino, il principio dell'aiuto e della giustizia, è
riguardalo come onnipolente in pratica. Il politeismo originario dell'umanità
si è svolto solo imperfellamente e oscuramente nel monoteismo. E il monoteismo
stesso, in quanto è veramente una religione e non il tema di conferenze
universitarie, ha sempre vedulo in Dio nient’allro che un aiuto, un primus
int:r pares in mezzo alle altre potenze che presicdono alla storia del mondo e
la formano. Il teisimo pratico e popolare è sempre stato piu o meno francamente
un pluralismo, per non dire un politeismo. Cioè, il leismo volgare si adatta a
un universo risullante di più principì indipendenti gli uni dagli altri, purchè
gli sì permetta di credere che il principio divino (dal quale viene l’aiuto)
sia il principio supremo, al quale gli altri sono subordinati . E vero che
questo Dio e rivestito anche dal volgo, come dai filosofi, di qualcuno di
quegli attributi melafisici che abbianìo così severamente giudicali. È «unico
», è «infinito »; l'idea che possano esistere -più dei finiti nn è neanche
discussa. Ciò si spiega dal falto che il popolo s'inchina davanti alla autorità
dei filosofi amanti di unità e dei mistici inclinati al monoteisra9». In reullà
la credenza religiosa è semplicemen'e la fede in qualche cosa di più grande in
cui si può trovare la liberazione dal male. I bisogni pratici e le esperienze
(i; James, A Plural. Univ. SQUILLER, Stud. in Zum., Schiller aveva difesa. e
svolta la idea di un Dio finito gia In: Riddles of the SpIinz Cfr.: Le Dieu
fini (par Dessoulavy), Rev. de Fhilos. Scun LER, Stud, in IHum. TAMES, Der
Pragmat., p. 192. JAMES, L'Expér. relig., Chap. V, p. pormi T u
oei”niuocoenau<{iite0tt@ en TEZZE RR a ge 84 La Religione nel Pragmatismo
dell'anima religiosa NOn esigono altra credenza che esta: esisle per ogni
individuo una porsnza supe: riore et lui, e a lui favorevole, alla quale può
\.nirsl perchè parlecipa della sua stessa nabvura. Per suscitare la confidenza
dell’uomo pasta che quel potere sia assai grande, sia più grande dell'io
cosciente, non è necessario che sia infinito © unico. Si potrebbe conceirlo
come Un “ jo» più grande € più divino, del quale io attuale non sarebbe che
l'espressione in piccolo: Puniverso spirituale sarebbe allora Vinsienic di
questi «io» più 0 meno comprensivi, ma non la uniti ussoluta. Questa specie di
politeismo è sempre stata la religione del popolo e 10 è ancora . La credenza
opolare “ ammette ì miracoli e le direzioni provVIdenziali; non prova nessuna
difficolià @ mescolare il mondo ideale è il mundo reale, i supporre che le
polenze spirituali intervengano nel gioco delle forse tisiVide che a
determinarne gli avvenimenti particolari ». Qui sta il vero valore di Dio o del
Divino e ì praginaUusti sì schierano tra i difensori di questo sopraunatutali.
smo. Il soprannaturaUsino grossolano? Si, dice il Ja mes; e io sono persuaso
che questa è L'ipotesi che sodita disfa un più gran numero di legittime
aspirazioni del cuore e dello spirilo: per questo il pragmatismo la fa sua, ed
anche perchè è mirabilmente confermera da ai cerle esperienze religiuse. Quelli
che le hanno provate st Riti sanno che nol abillamo in un ambiente spirituale
invisibile, donde ci viene l’aiuto; che la nostra anima è misteriosamente una
con un'animu più vasta di cul noi siamo gli strumenti. Niente ci forza a
credere che uesta anima sla intinita, perfetta: l'ipotesi più naturale e più
probabile è ammettere che VI ha un Dio, ina finito, sia in potere 0 in sapere 0
nell'uno e neli'al- } tro. 1:4% (i) gas, L'Erpér. relig., DD, 7 i, JAMES, LED.
, dove si trovano le parole sottoli î neate da ine; A piurat. Univ., PD. 308,
gli. A_PAE: 125 è più Da categorico. DOpu aver dgto ragione 2 Giovanni Mul il
quale DI aveva detto che bio non può essere oggetto di religione ine L che non
gli si toglie la onnipotenza, aggiunge: To credo che : unicamente un Dio finito
è degno di questo nome, appunto perche, per lui, Dio è e dev'essere il Dio
della religione.bd mici dissi a = o Ie Les E così è sciollo il problema del
male. Im questa concezione Dio non è responsabile dell’esistenza del male, non
lo sarebbe nemmeno se il male non dovesse mai esser vinto, Nel mondo
panteistico, come s’è veduto, il male, come ogni altra reallà, deve avere il
suo principio in Dio: e la bontà di Dio, che è essenziale assolutaumente alla
religione dice lo Schiller come sì salva? Ebbene ammettiamo che fin
dall'origine il mondo è un insieme di principî distinti, che il male non è
parte essenziale, ma un elemento indipendente e la bontà di Dio è salva: il
problema teorico del male èsciolto. E col leorico anche il pratico. Se tullo
ciò che è, è essenziale, come parte dell'Assolulo, il male è indistruttibile;
se invece è elemento non appartenente alessenza della realtà, noi possiamo
sperare di poterÌ lo espellere (il male) presto 0 tardi . Perciò lutte a le
forme di teologia, eccettuata quella più filosofica che ee ha subito l'influsso
degli assolutisli, concepiscono di fulto il male come dovuto a un potere che
non è Dio e ne è in qualche modo indipendente: è denominato variamente:
materia, volontà libera, o il diavolo. La onnipotenza di Dio dei teologi non è
quella dell’Assoluto: essa è dipendente da necessità metafisiche . HE
Concludendo: In questa concezione di Dio elaborala col criterio del valore
pratico sulle rovine della critica. È dell'Assoluto e del leismo scolastico e
in armonia col si pluralismo, abbiamo tutto ciò che corrisponde alle. 4
esigenze umane del divino; è salva la libertà dell'uomo: è dato un fondamento
alle sue speranze è al suoi desideri di salule ed è resa possibile la massima.
intimità fra il mondo c Dio: intimità di sentimento e intimità morale, cioè la
vera religione, che tanto ha operato e opera sulla condotta. : Noi chiediamo ;
« Di che natura sono le reallà spl TOA = L'Expér. relig., Chap. V, D. . . “A
ScHILLer, Stud, in Mum.; JAMES, 4 Plural. Uniw,, La Religione nel Pragmatismo;
P, rituali più alte? » « Io l’ignoro » risponde il James . Chiediamo ancora: ‘
esistenza di Dio è un puro "contenuto soggettivo, ovvero è oggettiva?
Poichè am mettiamo bene che l’azione di Dio, nell'esperienza re| ligiosa, è
reale, che ha un'efficacia reale e che tutto | accade come Se una forza
sopramondana agisse direttamente sul mondo dell'esperienza umana ; am mettiamo
bene che l’esistenza di Dio ha un reale valore pratico quando è affermata con
fede, specialmente coloso com'è quello del pluralismo ; in un mondo peri ina
noi sappiamo dal James stesso « che certi oggetti ovocano in nol delle reazio
uramente intellettuali pr C i C î ‘così 0 più forli che gli oggetti sensibili o
reali . Ora è precisamente questo che domandiamo: le realtà sovraumane hanno
un'esistenza oggeltiva, indipen dente per sé dalla nostra esperienza
soggettiva, 9 in dipendente solo perchè noi, con Patto di [ede, V'alfer miamo
lale? e TS il pragmatismo questa domanda non ha sen -S0; richiamiamoci alla
mente la sua dottrina della verità, della realtà e della conoscenza. Una
dottrina che nega il valore rappresentativo dei concetti e professa il
nominalismo; che dichiara di te abbandonare la logica francamente, recisamente
© irrevocabilmente» non può condurre che all'agnoslicismo e allo scetticismo. È
Ben poco ci rimane da dire dell’applicazione pragmalistica del criterio delle
conseguenze alla reli gione dopo quanto siamo venuti esponendo fin qui. Che
cos'è la religione? È assai probabile che nen e che quindi è impossibile
definirla. « Religione » non designa un principio unico, ma piuttosto una
collezione: non v'è un'emozione religiosa elementare, come L'Expér. relig., D.
136. James, L'Erper. relig.. D., Zut, p. 45. ù A_Plur, Univ. arriveremo mai a
scoprire “ l'essenza della religione »- Il Pragmatismo non esistono nè un
oggelto religioso nè un atto religioso specificamente determinati. Se è
impossibile dare una definizione astratta della essenza della religione non è
però impossibile delimitarne il campo e inchiudere in una formula i lraiti
caratteristici empimci délla religione. Una divisione salta subito agli occhi:
tra istituzioni religiose (o religioni stabilite) e religioni individuali (o
personali). La religione stabilita è un insieme di istituzioni, di cerimonie,
di riti, di sacrifici propiziatori, di dogmi, di organizzazione del clero; si
può definirla: un'arte pratica di assicurarsi il favore della divinità, La
religione personale è la vita interio re dell'uomo religioso; gli atti che essa
produce sono personali, non rituali ; l'individuo sbriga da sè i propri affari
con la divinità ; e la chiesa coi suoi preli, coi suoi sacrumenti e con tutti i
suoi intermediari passa in ultima linea. Si può definire: «le impressioni, i
sentimenti, gli atli dell'individuo preso isolatamente in quanto si considera
in rapporto con ciò che gli apparisce conie divino » , comunque poi s'intenda
questo divino: come legge dell'universo, come anima del mondo o come un Dio
personale. Parliamo anzitutto del valore della religione in senso personale e
poi del valore delle religioni o istituzioni religiose. Per quanto grande sia
la differenza con cui l'elemento religioso si combina nell'uomo con gli altri
elementi del pensiero, anzi, per quanto diverso sia il principio stesso
religioso nella molteplicità delle sette, dei credo, e dei tipi religiosi , noi
possiamo affermare che le credenze più caratteristiche della vita religiosa
sono: 1.° Il mondo visibile non è che una parte d'un universo invisibile e
spirituale, dal quale viene lutto il suo valore. 2.° Il fine dell'uomo è
l'unione intima, armoniosa con questo universo. James, L'Expér. relig., D.
2427. « Nous entendrons exclusivement par le divin une réalité première de
telle nature que l'individu se sent obbligé de prendre vis-A-vis_ delle une
attitude solennelle et grave, en Jaissant de coté tout blasphème et toute
plaisanterie. Son io che sottolineo. JAMES, L'Expér, relig., P. 406, tas dee
tie. nea 880. La Religione nel Pragmatismo La preghiera, cioè la comunione con
lo spirit dell'universo sio esso un Dio 0 solamente una ; legge è UV atto che
non resta senza effetto: ne i risulla un influsso di energia spirituale che può
mo“A ‘ dificare in una maniera sensibile (anto i fenomeni materiali quanto
quelli dell'anima . (ei Nella valutazione di queste credenze il criterio non
sarà, naluralmente, un sistema speculativo o {eologico, ma i frutti, le
conseguenze pratiche : dal frutto . sì conosce. l'albero. E poichî nella
religione il sentimento vi ha la parte fondnmentale, vediamo qual'è il valore
affettiva della religione. Tolstoi ha detto che Ja religione fa vivere gli
uomini. Il sentimento veligioso è uneccitazione giocunda, un'espansione
dinemogenica che tonifica e rianima la potenza vitale: aggiunge n valore nuovo
alla vita, c agli oggetti più ore inart un fascino e uno splendore insolili. Se
la religione non avesse che questo valore soggettivo, IR non fosse che una serie
di fenomeni psichici, senza } $ nessull contenuto intellettuale, vera 0 falsa
che cessa RAI fosse, nol sarebbe meno una delle funzioni biologi UU: che più
importanti della specie umana; ciò che ha SRO, fatto dire al Leuba che il fine
della religione non è Dio, ma la vita, una vila più larga, più ricca: Dio 2:
non si conosce, non si comprende, Ma si sfrutta . Ma la religione ha anche
un'immensa fecondità pratica sociale. II frutto della vila religiosa è la
santità, che inchiude in sè tutto ciò che di meglio ci abbia dato la storia. La
santità ha avulo bensì delle manifestazioni ché la coscienza moderna non può
acceltare, ma VE n'ha di quelle e SONO più numerose che ci rivelavo nei santi
dei precursori © dei creatori. La sanlità accresce nel mondo în somma di
energia mora: le, di bontà, d'armonia, di felicità. La santità con la AMES,
405. Nol sappiamo già a quale fra le varie convezioni «el divino il pragmatismo
dà la preferenza e per quali ragioni. Citato dal JAN:S, D.: «Il ne faut Pas
dire que l’on connalt Dieu, cu qu'on Je comprend; ll faut dire que l'on s'en
serta, sua forza d'animo, col suo amore eroico pei miserabili più ributltanti,
col suo spirito di. sacrificio, è un fallore essenziale del benessere sociale.
La religione è la condizione necessaria di certi effetti, la «fonte dei quali
nè l'individuo nè la società hanno saputo trovare altrove: il disinteresse,
l'energia, la perseveranza. : 2 BAR Olire questo valere affettivo, o biologico,
indivi duale e svciale, la religione ha anche un valore inlelleltuale? Questa
questione si divide in due dice il James: «Solto la moltitudine delle credenze
vi sono delle affermazioni comuni? » E: «sono vere tali affermazioni?» La
risposta alla prima questione è affermativa: in tutte le religioni vi sono due
stali »- . d'anima identici: il sentimento d’inquietudine che <S in noi c'è
qualche cosa che va male, e il sentimento che noi siamo salvati dal male
entrando in rapporto con esseri superiori con qualche cosa più yrande di noi:
lotta e liberazione: ecco la sintesi della religione personale e il perchè del
suo immenso valore sulla vita. Ma che cos'è questo qualche cosa di più grande?
È reale o immaginario? Come possiamo en{rare in rapporto con lui? Qual'è,
insomma la verità della religione? Xispondeve a quesle questioni impiicile
nelia se-. conda è costruire delle sopracredenze (surcroyances) individuali e
collettive, tutte buone se aiimentano il nucleo vitale della religione. Vi
possono essere e vi sono di fatto tante aggiunte individuali alla credenza
unica quanle sono le anime o i lipi religiosi , Il «rapporto col divino potendo
essere, o essere inter{ pretato come rapporto o morale o fisico, o rituale, «Si
capisce come possano nascere delle costruzioni 7A _ losofiche e leologiche
delle quali abbiamo visto Valore e anche come sorgano le Chiese. James, e con
lui, naturalmente, più o meno tuil SA JAMES, L'Expérien. relig.) JasrEs, Ci è
nota la sua croyance. 0% ‘La Religione net Pragmatismo pragmalisti non ama a
dir poco le Chiese, con la loro organizzazione, coi loro. dogmi, con le loro
tradizioni, perchè in esse è uccisa la vita inte AQ ogni modo e dogmi e culto e
mi debbono es: sere giudicati daì frutti individuali e social, e i frutti della
vita religiosa sono sommessi alla giurisdizione del buon sense e dei pregiudizi
filosofici e istinti morali dice allrove . Ed essendo questi pregiu‘dizt,
questi istinti e questo buon senso frutti, essi stessi, dî una. evoluzione
empirica incessante, anché le idee religiose si andranno incessantemente
modificando. Dal giorno che ìi frutti di una data forma religiosa perdono ognì
valore, dal giorno che la vec chia credenza è in contraddizione con un nuovo
ideale; dal giorno che la ragione la dichiara lroppo puerile, troppo assurda o
troppo immorale essa cade trascinando, nella sua caduta, il Dio creato
dall'uomo per «servirsene. E noi confessiamo che in i una dottrina interamente
antropocentrica, nella quale l'uomo è la misura di iulte le cose, cioè, le esi
È enzo, i desideri e gl’interessi umani nel modo che s'è veduto, lutto ciò è logico
©... anche utile, fino et un certo punto. Ed è naturale che il pragmatismo
crede di fare un mondo di bene alla religione € alle religioni. Ci dice
Schiller: Il pragmatismo jo uma nist,0) ha dimostrato che la volontà di credere
sta. ulla base, non solo della religione, ma di qualunque - gpecie di inferenza
0 di atto razionale, e che, quindi, la sfera dei iudizi di valore non è
coestensiva solo | |» alle verità religiose, ma a qualunque verità: la fede i
lia così cessato dì essere un ‘avversario e un sosli- i futo della ragione ed è
diventata un suo costitutivo | essenziale. Come potrà la ragione contestare la
validità della dor: L'Erpér. relig. Pel «s î actetta: Pel «servirsene» cita
ancora il Lepba L lì Pragmatismo dI fede, se la fede è essenziale alla sua
stessa validità? E altrove: « Tutte le religioni (concrete) possono profillare
dell’atteggiamento di simpatia che l'umanismo assume davanti agli istinti
religiosi della nalura umana e verso le evidenze e i metodi delle religioni. 1l
pragmatismo, affermando il fatto religioso e il suo valore sulla base
dell'esperienza interiore e dei risultati individuali e sociali, rende vani gli
altacchi razionalistici e mette la religione al sicuro dalle confutazioni
dialettiche. Il pragmatismo inol(re, come si è mostrato un eccellente «
eirenicon » tra le dottrine filosofiche, apparirà un «eirenicon» non meno
efficace tra le religioni. Non è vero che lutte operano (in senso pragmatista)
in una cerchia più o meno vasta? Ma allora esse sono identiche nella loro parle
veramente vilale, attiva: e che importa sc differiscono teoricamente? Terzo
beneficio: il: pràgmalismo libera, così, le religioni da ciò che vi è in esse
di non-funzionale, dalle incrostazioni parassilarie ed csiziali, e, per tal
modo, le rinvigorisce. Che cos'è la parte non-funzionale della religione? È il
suo lato teologico . 18 qui una tirata contro i sistemi teologici, contro le
infiltrazioni della metafisica greca nel « Credo atanasiano » e contro
l’identificazione di Dio con «l'Uno». Già! La conclusione possiamo accettarla
anche noi, ma basandola su fondamenti affutio diversi da quelli del
pragmatismo: «La reli- 5 gione più vera è quella che proclama una vita mi- $,
gliore e la promuove. ; Stud. in Hum. ScurLrer: Stud. in Hum. ,..(8ì E la
conclusione dell'Essay, XVI: Fatt, Reason and Ri ligion in: Stud. in Humarism:
«the truest reli tons that Which issues in and fosters the best life», Rd A eri
della Logica formale nella con= S 1. Caratt { 2. La validità formale. cezione
di Schiller. gi. Schiller sotto il nome di « logica formale» inchiude e
condanna non solo quella che da al tri è designata col nome di logica
formalistica mn anche la logica formale propriamente detta, e, criticando e
condannando quella, presume di aver criticato e condannato anche questa, cioè,
in blocco, . tulla la logica tradizionale e classica, alla quale dovrà
sostituirsi la logica psicologica, 0 psicologistica, cioè quel complesso di
leggi o regole o norme del pensiero che risultano dall'analisi psicologica del
pensiero, ossia dalla considerazione dei processi del pensiero, non in una
pretesa forma di esso di materia idel concetto, del giudizio, del raziocinio
con: siderati astraltamente nella loro forma verbale di temine, proposizione €
sillogismo considerai9 esso pure, a sua volla, astrattamente), ma nel loro
sorgere e syolgersi allraverso la fitta rete psichica di Fferessi, di desideri,
ecc. : la logica dello psicologi smo e della forma speciale di esso offertaci
dal pragmatismo, insomma. Una logica et posteriori risut SCHILLER. Formul
Logic. A sclentifle and s0cial Problem. > Un yol, Macmillan and 0.9, London.
stinta dalla | er selezione, non a priori, una logica, pare, SOA sì, ma indotta
in base a postulati, non dedotta. Il pensiero puro, così come la forma pura del
pensiero non esistono; quindi ogni logica è necessariamente empirica nella sua
origine e nel suo valore. E così con la logica sillogislica è condannata anche
la logica del concello col solo semplicismo che abbiamo imparato a conoscere
altre volte nello Schiller. Ma, evidentemente, prima di condannare in blocco,
bisogna vedere se tra la logica formale e formalislica c'è idenlità, o se non
c’è invece una diiferenza radicale che impone una pertraltazione a parle e
radicalmente diversa di quelle due discipline. La logica formale vera è la
dottrina della forma unica del pensiero: il concelto, come sintesi di
individuale c come concelto universale contro, come scienza del concetto puro.
Per essa la forma verbale in cui si suole incarnare generalmente il concetto
non ha nessun valore logico e si guavda bene dal cousiderane le distinzioni
verbali come distinzioni conceltuali 0 l’identità di forma verbale come
identità concettuale. La logica forinalislica invece, trasporta nei concetti le
qualità e le distinzioni dei termini, trasporta nei giudizi le modalita e le
specie delle proporzioni, lrasporta nei raziocinì le figure e ì modì dei
sillogismi: anzi la distinzione stessa delle forme logiche in concelti, giudizì
e raziocini è nient’allro che una proiezione di forme verbali nell’altivita del
pensiero. Perciò la logica formalistica qua talis, non ha valore speculativo
(logico in senso vero), ima solo empirico © UCSCLILLvo; ci dà, Massunti, con
piu o meno pretese (il copielezza, i modi piu consueti dei quali l'uomo 51
serve nel suo discorrere, nell'esposizione e ncila a discussione delle idee; è
un'arte in senso di tecnica, 9 meglio, è una collezione (non connessione) delle
forme del discorso empirico umano, una specie di leltorica 0 grammatica messa a
servizio non del parlur bello ma del parlur giusto. Può essere ed è fino a un
certo punto praticamente utile come tutte le discipline descriltive assunte a
discipline nurmative d universale, come storia o guidizio sintetico, a priori,
. DA | Sèhiller e la logica formale e precettistiche, ma non ha valore
speculativo, ron ci dè, anzi ci nastonde la forma intima. del pensiero
necessario € unico, © SÌ contenta di offrire! le forme esteriori, arbitrarie è
quindi componibili € combina: bili all'infinito. I Jo Schiller na un buon gioco
a mostrare il caraltere arbitrario di questa logica, la astrallezza di essa, la
îmulilità e perfino il danno non leggero che essa può anrecare allo sviluppo
Serio delle scienze © della mente individuale. Ha ragione lo Schiller: « IL îs
nol .? ossible t0 abstract {rom the aclual use of the logical | material and lo
consider forms ol lought @ 4 Ihemselves, voilout incurring thereby a total
loss, 1’ hi nol only of Wrui, but also of meaning ”. i s 2. Ma con ciò non si è
déito che ba ragione @ | ‘non riconoscere altre logica ché que:lu psicolugica,
| tutt'altro. Oltre la logica formalistica (0 tormale cu- | mè la chiama
erroneamente lo Schaller), c'è la logica i formale vera secondo la quale la
maleria è fusa nel la forma, poichè per èssa la forma logica, concel‘tuale,
sintesi di materia e forma, di pensiero e lup ‘esentazione: è forma Non
astratta me concrela ; e tulto il pensiero reale storico perchè appunto sun: f
(esi univarsale individuale: è il razionale-reale, il fl concetto.È Dio ci
salvi dalla logica psicologica 0 psicologistica! Poichè in essa, oltre che non
trovare nulla di # meno arbitrario che nella logica forinalistica non sì ì
trova neanche quella apparenzà di necessità e di asSolutezza che la logica
tradizionale ci oifre, sia pure solto una forma astratta e verbalistica. Finchè
non si accetta e non SÌ capisce la logitù del concetto puro e semplice, ogni
tentativo di riforme logiche sarà nulla più che un saltare dall'arbiltàrio
all’avbitrario, dall'astratto ali’astratto e un aggiungere al mele nuovo male o
una forma nuova del male. L per yitenere questo scopo non mette certo conto di
scrivere un grosso libro come questo. Sé lo Schiller avesse rinesso bene su
quelli che lui ritiene e sono i due caratteri fondamentali della 1oMl
Praqmalismo' gica formalistica e cioè: I° la credenza che sia possibile
considerare la «validità formale» come una cosa a parle e indipendente e
astrarre dalla verità «materiale »; 2° la credenza che sia possibile trattare
la iogica senza riguardo alla psicologia e di aslrarre dal contesto atluale in
cui le asserzioni sorgono, tempo, luogo, circostanze, Scopo, personalilà, ecc.
e se avesse poi esaminato con più spassionatezza la logica del concetto-sloria,
non avrebbe forse futto giustizia sommaria di lutta la logica tradizionale cd
avrebbe trovato che parecchie delle sue critiche sono state già fatte da altri,
i quali non senlirono però il bisogno di sostituire, come fa lui, le elichelte
psicologiche alle elichette della logica formalistica. In questo libro c'è
molto del buono anche perchè dai principio alla fine corre nelle pagine una
domanda sempre crescente di concretezza ce, anzi, pare a volte che lo Schiller
abbia colto il centro della critica e della ricostruzione. Purtroppo i:
pregiudizi pragmalislici gli impediscono di assurgere ad un punto di vista
superiore; anche lui, pur nella lotta contro gli schemi e !e elichetle,
maneggia schemi ed etichette; meno mole, anzi molto bene che, da buon
pragmatisla, ne è consapevole.:= et | La reazione contro l'intellettualismo.
Verità e ‘utilità. Del pragmatismo non si parla più che com di un indirizzo di
ricerche e di asserzioni, che ha avi | {fo il suo proverbiale quarto d'ora di
celebrità pei scomparire per sempre e senza visibili influssi sullu svolgimento
complessivo ulteriore del pensiero. Nata da une reazione all'intellettualismo
razionalislico ed empiristico, che non sapevano valutare l'attività de:
soggetto nella creazione del mondo del pensiero € della vita; allermalosi come
volontarismo ceudemo:; nistico o come filosofia dell'azione utilitaria, non ha
sapulo nè volulo evilare, con una doverosa distin: zione dì logica e
psicologia, lo scoglio terribile dellà formula protagorica: l’uomo è la misura
di tutte lt cose ed'è finito nello agnoslicisnio e nello scellici sino, È
inulile she ci ripetiamo. Iidotla la filoso; fia a un prodolto dell'individuo,
© ad espressioni del la nostra soggellività volitiva e i giudizi scientifici
speculativi a semplici giudizi morali; negala la pos sibilità di raggiungere
l'assoluto, la ragione intima immanente e ascendente dell'essere o del divenire
con l'affermazione della universale soggettività e Ie ‘natività; posto
l’utilitarismo a base di ogni costruzio: ne concelluale e considerati, quindi,
i concetti com‘ funzioni dell'interesse individuale, 0 tutt'al più s0 ciale, il
pragmatismo si risolve logicamente in uni rinunzia a fi osofare. Può essere
metodo per sè, I i UT Il Pragmatismo : i lla vita colta non filosofia sc
IRRMIgSORE E So nella sua razionalità e nei s o ve omalismo profes E, infatti,
come s'è veduto, 1 flo: esso non ha sa di essere semplicemente ua Coe etodo
WNGNan: dog int aa istcao mon è forse una dottrina? Magli vamestto he riassume
il meNon è una dottrina la formula c arsi tutte todo pragmatistico: « Sono er 6
da acco utili le neri SAS SIE n è forse implicito alla svitaza in: ilitari ico
e, insieme, il n più Sconto no leorecot È esp ducslo ab: Dima definito, credo,
Felino due aspetti più es ziali la teoria pragmati nd AR Sa CLES Della quale
non è qui il luogo di TISIRLS estesamente il valore storico. Possiamo dire il
nos D pensiero in due parole: il pragmatismo è andato all'eccesso opposto nella
sua reazione all intellettualismo, perchè ha negato addirittura il concetto
come tale, ogni concello, rendendo, con ciò stesso, vano, perchè senza
fondamento, la Rane buona . dell'indirizzo, quella che, purificata di tutto
l’utilitarismo + materialistico che troppo spesso la intorbida, si può
esprimere nelle parole evangeliche: Dai frutti conoscerete l'albero. L'utilità
nel senso spirituale altissimo della parola è un aspetto della verità: la
verità eleva, la verità libera, la verità sacrifica. Ma, non dimentichiamolo
mai, una dottrina non è vera, a propriamente parlare, perchè e in quanto è
utile, ma è utile perchè‘vera. La verità metafisica e logica di una idea e di
un Sistema d’idee è il fondamento di tutti gli altri attributi dell'idea e del
sistema e di tutte le loro corrispondenze alle esigenze etiche dell'uomo. Yogi
Pragmatis Rimandiamo alle seguenti pibliografie: The Pych Zev. Parini, Saggì
pragmatisti, R. Carabba, Lanciano; SPIRITO, Il pragmatismo nella Jilosofia
contemporanea, Firenze, Vallecchi Sinvio TISSI, Nota bibl. al vol. su James,
Milano,. Ed. Athena | Segnaliamo poi, nella ricchissima bibliografia
dell’argomento oltre ui molti scritti segnalati occasioalmente nelle note le
seguenti opere: G. VAILATI, Scritti, Firenze, Secher; Papini, Sul Pragmatismo,
Milano, Libr. Ed. Milanese (ripubblicato da Vallecchi); M. CALDERONI è G.
VAILATI, IL $ pragmatismo, Lanciano, R. Carabba, SPIRITO, ; M. CaLpeRONI, Scritti,
a cura di O. CAM7 Cna, con pref. di G. PAPINI, Firenze, «La Voce», INDIVISUO
LINEE FONDAMENTALI DEL PRAGMATISMO. Il Pragmatismo anglo-americano. Pragmatismo
e Umanismo.Pragmatismo e conoscenza. LA TEORIA DELLA VERITÀ E DELLA REALTÀ. La
condotta. La dottrina dolla verità. La dottrina della realtà. LA RELIGIONE NEL
PRAGMATISMO. Lo preoccupazioni etiche e religioso. L’esistonza di Dio. Il
concetto di Dio.Religione e Religioni. SCHILLER E LA LOGICA FORMALE.Caratteri
della logica formale nella concozione dello Schiller. La validità formale Ù 5 5
9 - VALUTAZIONE CRITICA. La reazione contro l’intellettualismo. Verità e
utilità. È. NOTA BIBLIOGRAFICA. I MAESTRI DEL PENSIERO. VOLUMI CHE INIZIANO LA
COLLEZIONE i) ei n VALENTINO PICCOLI À {Bi: INTRODUZIONE DELLA FILOSOFIA. ROTTA
PAOLO ROTTA. ARISTOTELE BERKELEY | IALENTINO SETCOO LI ! TAROZZI PLATONE LOCKE
| S: PICURO. LAMANNA AAA ° "KANT RUIZ na LOTINO MAGGIORE FICHTE HQ C.
AGOSTINO MIGNOSI E. C. SCHELLING AQUINO MAGGIORE | C. HEGEL i S. FIDANZA Big ni
x TISSI c ARTESI O SCHOPENHAUER i Fa PAOLO. ROTTA E. MOTOMIL MI o SPINOZA
STUART MILL “50 »ALENTINO PICCOLI E. MORSELLI Î Y MIENIINO PICCOL CUORSEI È
Pubblicati: P. ROTT _ SEINOZS x ì. MiGGIONE HEGE ZINI =. 2 SoioFENnAUER LAMANNA
KA MAGGIORE FIGI TITE . C. S. TOMASO VICO "TISSI _ GATESIO MORSELLI. COMTE
BOT. ARISTOTELE. SCHELUINO IRINA Kc} fe3: Emilio Chiocchetti. Chiocchetti.
Keywords: prammatico, Grice: “In Italy, just to know that a philosopher has a
religion orientation disqualifies as a philosopher, and that is at it should.
The keyword is: anti-Popish, Vico, Croce, estetica, Aquino, Gentile,
Neo-Scolastica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiocchetti” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Chiodi:
l’implicatura conversazionale dell’esistenti – scuola di Corteno Golgi –
filosofia bresciana – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Corteno
Golgi). Filosofo bresciano. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Corteno
Golgi, Brescia, Lombardia. Grice: “I like Chiodi; for one, he plays, somethings
rather sneakily, with the Italian language as Heidegger played with the German
language: Heidegger is able to play with Latinate versus Germanic words: tat
(deed) versus fakt. The Italians only have ‘fatto’ and this leads Chiodi to
restrict ‘fatto’ to ‘tat’ and invent ‘effetto’ for ‘fakt!’ – “But other than
that he was a genius!” Frequenta le scuole elementari al paese natio e le medie
inferiori e superiori a Sondrio sotto la guida di Credaro, che lo avvia allo
studio della filosofia. Dopo aver conseguito l'abilitazione magistrale si
trasferì a Torino, dove si laureò sotto la guida di Abbagnano. Nell'anno
successivo ottenne la cattedra di storia e filosofia del liceo classico
Giuseppe Govone di Alba, dove insegnò/ Qui entrò in contatto con Cocito, del
quale divenne intimo amico, ed ebbe tra i suoi allievi Fenoglio. Questi
ricorderà più volte nei suoi scritti i due insegnanti, con i loro nomi o con
pseudonimi; Chiodi diventerà così, nel romanzo Il partigiano Johnny, il
personaggio di Monti. Grazie ai suoi
contatti con Cocito, fervente comunista e antifascista, C. entra far parte di
una formazione partigiana Giustizia e Libertà col nome di battaglia di “Piero”.
Venne catturato dalle SS italiane, assieme ai suoi compagni, e deportato in un
campo di prigionia a Bolzano, quindi a Innsbruck. Aiutato dal comandante del
lager e da un medico, ottenne il visto di rimpatrio. Era alla stazione di
Innsbruck diretto a Verona. Il 3 ottobre, verso sera, giunse nell'albese. Qui
riprese la sua attività di partigiano, ora sotto il nome di battaglia di
Valerio, mettendosi a capo, nelle Langhe, di un battaglione della CIII Brigate
Garibaldi intitolato al suo collega Cocito, impiccato dai tedeschi a Carignano
(località pilone Virle), insieme ad altri patrioti. Narrò la propria esperienza
di lotta, di prigionia e di guerra civile nel libro scritto in forma diaristica
e pubblicato dall'ANPI, Banditi, uno dei primi memoriali di deportati politici
italiani. Dopo la liberazione di Torino,
C. torna ad Alba. Si trasfere come
insegnante al Liceo di Chieri e poi al Liceo Alfieri del capoluogo piemontese. Ottenne
la libera docenza e fu incaricato e poi titolare della cattedra di Filosofia
della storia alla Facoltà di Lettere e filosofia a Torino. L’Accademia
Nazionale dei Lincei gli assegnò il premio del Ministero della Pubblica
Istruzione per la filosofia e negli fu conferito il Premio Bologna. Alla ristampa di Banditi C. premise questa
avvertenza, poi conservata nelle edizioni successive: «La presente ristampa si
rivolge particolarmente ai giovani, non già per far rivivere nel loro animo gli
odi del passato, ma affinché, guardando consapevolmente ad esso, vengano in chiaro
senza illusioni del futuro che li attende se per qualunque ragione
permetteranno che alcuni valoricome la libertà nei rapporti politici, la
giustizia nei rapporti economici e la tolleranza in tutti i rapportisiano
ancora una volta manomessi subdolamente o violentemente da chicchessia». Raccolse grande stima ed affetto tra suoi
allievi, che ne conservano tuttora il ricordo di un grande Maestro, limpido
esempio di tolleranza e serenità di giudizio.
Attività filosofica L'attività filosofica di C. si concentra
specialmente sull'Esistenzialismo, riletto in chiave positiva. La maggior parte
delle sue opere è dedicata a Heidegger.
Egli è il primo traduttore in italiano di “Essere e tempo.” Proprio a C.
si deve la definizione della terminologia heideggeriana in italiano, divenuta
poi abituale tra gli studiosi. Valga un caso per tutti: la traduzione di “Dasein”
come “esserci”, capolavoro di sintesi ed efficacia, spesso e volentieri non
ancora raggiunta in questo specifico caso in altre lingue. Al filosofo tedesco
dedica anche, ovviamente, diversi saggi: L'esistenzialismo di Heidegger,
L'ultimo Heidegger, Esistenzialismo e fenomenologia. È, inoltre, traduttore di
L'essenza del fondamento e Sentieri interrotti. A Kant dedica, invece, La
deduzione nell'opera di Kant e ne tradusse la Critica della ragion pura e gli
Scritti morali. È infine da ricordare il suo interesse per Sartre, del quale si
occupa nell'opera Sartre e il marxismo.
L'esperienza partigiana rimase sempre una pagina fondamentale nella vita
di C.i, per cui il valore della libertà occupa sempre il primo posto. Non è un
caso che Fenoglio fa rivolgere da parte di Monti, nel Partigiano Johnny,
proprio questo ammonimento ai giovani partigiani di Alba: «Ragazziteniamo di
vista la libertà». La sua unica opera narrativa, Banditi, ricca di valore non
solo storico e morale ma anche letterario, è stata definita da Lajolo «Il più
vivo, più semplice, più reale di tutta la letteratura partigiana» (L'Unità) e
da Fortini “un capolavoro.” Ci sono dei tratti straordinari, nel tragico come
nel comico». Opere C., Banditi, con
introduzione di Beccaria, Torino, Einaudi, C., Esistenzialismo e filosofia
contemporanea, Cambiano, Pisa, Edizioni della Normale, Deportati Politici
Italiani, su restellistoria.altervista.org. C., Banditi, Torino, Einaudi,
Conoscere la Resistenza, Milano, Unicopli, Resistenza italiana Deportati
politici italiani Esistenzialismo Heidegger Opere di C.,. Biografia di C. nel sito dell'Associazione
nazionale partigiani d'Italia, su anpi. Centro Studi Fenoglio C., su
centrostudibeppefenoglio.Antifascismo Filosofia Filosofo del XX
secoloPartigiani italiani Corteno Golgi TorinoBrigate Giustizia e
LibertàDeportati politici italiani. Chiodi. Keywords: esistenti, nulla
annhihila, Kant imperative, counsel of prudence, rule of ability, practical
reason, existentialism, Heidegger, greatest philosopher, maxim universality,
maxim universability. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiodi” – The
Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Chitti:
l’implicatura conversazionale – scuola di Citanova – scuola di Macerata –
filosofia maceretese – filosofia marchese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Citanova). Filosofo
marchese. Filosofo italiano. Citanova, Macerata, Marche. Grice: “I like Chitti;
not so much for what he philosophised about – law and law and law – but the way
he corresponded with Say – a French philosopher – on the lack of an adequate
philosophical vocabulary in Italian to express Aristotle’s principles of
oeconomia!” Fervor, temperanza e, ingegno finissimo fanno di lui uno di quegli
filosofi che sono atti egualmente alla filosofia ed all'azione. Figlio di Giuseppe, avvocato e giudice alla
Gran Corte Criminale di Reggio. Partecipa a Napoli, col padre ed i fratelli,
alla rivoluzione. In seguito alla capitolazione del Forte Castel Nuovo, ripara
in Francia. A Parigi, termina gli studi giuridici e strinse amicizia con molti
patrioti del tempo. Ferdinando I delle
Due Sicilie Tornato a Napoli, esercita in città la professione di avvocato e difese
Casalnuovo (l'odierna Cittanova) contro la feudataria del luogo, la principessa
di Gerace, davanti alla regia commissione feudale. Fattosi un nome come
avvocato, dopo la restaurazione ha la nomina di segretario generale al
Ministero di Grazia e Giustizia del Regno. A Napoli sposa la figlia di Hipman,
un capo dipartimento di uno dei Ministeri del Regno. Coinvolto nella rivolta
contro Ferdinando I organizzata dai sottotenenti Morelli e Silvati, e quindi
privato della carica ed esiliato. Passa un periodo a Londra, e tenta di
ritornare a Napoli, ma ha l'inibizione ufficiale a rientrare nella capitale.
Anda a Firenze e di lì a poco, chiamato da amici, si reca a Bruxelles. In Belgio da lezioni di diritto pubblico e di
economia sociale, ottenne la carica di segretario della Banca Fondiaria e si
fece un nome. Il governo belga gli confere la licenza di professare Economia
Sociale, e tenne quattro letture pubbliche nel Museo di Bruxelles. Le sue
quattro letture sono intitolate da lui stesso «Corso di Economia sociale»,
compendio delle sue vaste vedute e della sua non comune cultura sull'argomento.
Pubblica altre saggi ed in seguito alla fama acquisita, il governo belga gli
conferì la carica di professore alla facoltà di diritto dell'Bruxelles. In
Belgio pubblica la maggior parte dei suoi saggi e strinse amicizia con GIOBERTIi,
che lo define valente economico. Nonostante la revoca dell'esilio, non torna a
Napoli ma rimane in Belgio. Altre saggi: “Trattato di economia politica o
semplice esposizione del modo col quale si formano, si distribuiscono e si
consumano le ricchezze; seguito da un'epitome dei principi fondamentali
dell'economia politica di Giovanni Battista Say” (Napoli, Stamperia del
Ministero della Segreteria di Stato). Ermenegildo Schiavo, Four centuries of
Italian-American history, Vigo Press. The New York Herald morning edition mercoledì.
New York Daily Times pag. 4 Daily Free
Democrat. The American almanac and repository of useful knowledge, Center for
Migration Studies Special Issue: Four Centuries of Italian American History Wiley
Online Library Vincenzo De Cristo, Prime
notizie sulla vita e sulle opere di C. Economista, Prem. Tip. e Lib. Claudiana,
Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Per una rassegna delle interpretazioni dell’azione
economica corporativa si veggano i nostri : Lineamenti di politica
economica corporativa. Catania, Studio Editoriale Moderno, Sono ivi ricordati i
contributi più notevoli, teorici e descrittivi, nel campo dell’azione
economica corporativa. Si vegga pure il nostro studio : « Homo Oeconomi-
cus » e Stato Corporativo in : Giornale degli Economisti. Riportiamo qui la
bibliografia essenziale dei contributi italiani allo studio dell’economia
corporativa, tralasciando di segnalare gli studi, numerosi, di carattere polemico
e giornalistico, ma privi di consapevolezza scientifica e, spesso,
deformatori della stessa realtà politica corporativa : Alberti M. :
L’Homo Oeconomicus e V Esperienza Fascista in Giornale degli economisti, Arias
G. : L’Economia Nazionale corporativa, Roma, Libreria del Littorio, idem. idem.
Economia Corporativa, Firenze, Poligrafica Universitaria, Amoroso L. e
Stefani A. : Scritti cit. ; Arena C. : Scritti, cit. ; Benini R. ;
Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di teoria della politica economica, in
« Giornale degli Economisti ». Classifica le varie politiche economiche.
Carattere di quella corporativa: autogoverni economici particolari, con
il compito di emanare misure rispondenti, nei rami particolari, alla
politica economica generale emanante dal governo economico centrale. Le
corporazioni sarebbero gli autogoverni economici particolari). Bruguier
G. : A proposito di interventi statali, in «Archivio di studi corporativi »,
Pisa; Borgatta G. : Prefazione al nostro volume av. cit. : Lineamenti di
politica economica corporativa; Carli F. : Teoria generale della economia
politica nazionale, Milano, Hoepli, e dello stesso: Le crisi economiche
delV ordinamento corporativo della produzione, in « Atti del II Convegno
di studi sindacali corporativi», Ferrara; Chessa: Caratteri e forme delT
attività economica, in «Rivista di Politica economica » Secondo questo
autore J economia corporativa non è altro che un’ economia di
complessi economici, che dev’ essere studiata nella sua realta concreta,
prescindendo da erronee identificazioni dell individuo con la società e
di questa con lo Stato). Dello stesso autore: Vecchio e nuovo
corporativismo economico in «Saggi di Storia e Teoria economica, in onore
di Prato», Torino, In questo studio l’autore conclude che il corporativismo
italiano pur traendo alcuni suoi elementi dalle teorie enunciate dal Genovesi,
dal Bastiat e dal List si differenzia da queste in quanto che inquadra le
sue idee in una concezione piu larga, che non tiene solo conto degli
interessi dei singoli, ma anche di tutta la collettività nazionale,
che per essere sempre più aderente ai bisogni ed agli interessi della
Nazione, viene organizzata gerarchicamente dallo Stato); Degli Espinosa A.: La
forma e la sostanza della economia corporativa, Firenze Poligrafica
Universitaria; Del Vecchio G.: Teoremi economici deW ordinamento
corporativo. Comunicazione alla XIX riunione della «Società pel Progresso
della Scienza», riassunta in « Lo Stato »; Einaudi L. : Trincee
economiche e corporativismo in « La Riforma Sociale », ; e dello stesso:
Corporazione aperta in «La Riforma Sociale » Fanno M. scritto cit.;
Fasiani M.: Contributo alla teoria delVuomo corporativo, in « Studi
sassaresi », ; Ferri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di vista
economico, Padova, CEDAM, Fovel M.: Economia e corporativismo, Ferrara,
S.A.T.E. e dello stesso: La rendita e il Regime Fascista, Milano, Ediz.
dei « Problemi del Lavoro», Politica economica ed economia corporativa, Ediz.
«Diritto del lavoro»; Camera corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara;
Fossati A.: Premesse per lo studio di ima economia e di una pplitica economica
corporativa, in : « Rivista di Politica Economica », (Ritiene questo A. che tanto la
politica economica corporativa, quanto l’attività corporativa come
condotta ipotetica degli individui dei gruppi animati di una coscienza
corporativa sono teorizzabili: il secondo per definizione, e in tanti
modi quanti significati vogliano attribuirsi alla coscienza corporativa
(all’autore parendo il più adatto perchè conforme alle direttive del
Regime quello che ha a base 1 interesse della Nazione, ossia il massimo
benessere individuale compatibile col benessere della Nazione); ed il primo,
quando le norme abbiano sufficiente chiarezza (univocità) e costanza da
consentire una costruzione logica di conseguenze possibili. Purché non si
mescolino precetti e teoremi, e peggio, non si confondano gli uni con gli
altri, è perfettamente legittimo fare della economia corporativa una «
economia » astratta, trovare il nocciolo razionale del concreto empirico).
Gobbi U. : Il procedimento sperimentale della economia corporativa, « Giornale
degli economisti»; Galli R. : Corso di economìa politica, Firenze,
Poligrafico Universitario, e dello stesso: Corso sulle imprese
industriali, Firenze, Poligrafico Universitario; Jannaccone P.: La
scienza economica e Vinteresse nazionale (Discorso tenuto
all’inaugurazione dell’anno accademico della R. Università di Torino, e dello stesso : Scienza, critica e realtà
economica, in « La Riforma Sociale »; Lanzillo A.: Studi di economia applicata,
Padova, Cedam, e dello stesso A.: Il contenuto dell’ economia
corporativa, Rivista Bancaria, ed Economia corporativa e politica economica,
Giornale degli Economisti; Lo Stato come fattore di produzione, Rivista
Bancaria (Lo Stato come inserzione di volontà nell’ attività
economical. Anche Ettore Lolini, a parte la sua antipatia per la
scienza economica tradizionale e la notevole incomprensione degli economisti
ortodossi i quali riescono interessanti a seguire non come simpatizzanti delle
idee liberali o di altre tendenze, ma come scienziati dell’economia, riconosce
che per dare un carattere di socialità, che concili l’interesse privato
con quello sociale o nazionale, alla economia privata, non è necessario
giungere alla totale abolizione dell’economia privata ed alla
identificazione dell’ economia pubblica, come ha fatto Spirito, il quale
col porre erroneamente al centro dell attività economica umana la
produzione e non lo scambio non ha visto che nello scambio si ha la
sintesi dell’ interesse individuale e dell’ interesse sociale, perchè
nello scambio, mentre l’interesse è individuale, il risultato è sociale. Per
eliminare del tutto, come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico
dei valori economici ed il movente egoistico dei fatti economici e
identificare F iniziativa economica privata coll’iniziativa economica
pubblica o statale, bisognerebbe trasformare la psicologia umana, abolire la
personalità economica umana e con essa tutte le diff erenze di bisogni,
di desideri e di gusti che esistono ed esisteranno sempre fra gli uomini,
differenze che costituiscono la base dello scambio e la molla del
progresso economico e che nessun sistema di economia socialista è mai
riuscito a sopprimere. Il porre a fondamento dell’economia corporativa
la produzione e quindi l’organizzazione e la gestione economica della
produzione invece dello scambio, inteso nel senso della ripartizione del
prodotto di ogni grande ciclo produttivo fra tutti i fattori della
produzione mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del lavoro,
del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli intermediari,
porta a delle conseguenze pratiche fonda- mentali per la definizione dei
fini e delle funzioni della Corporazione. Nel primo caso, infatti, si
dovrebbe giungere alla Corporazione organo di gestione economica col
passaggio di tutta l’iniziativa economica privata alla Corporazione e con la
conseguente trasformazione di tutta l’economia privata in economia pubblica.
Nel secondo caso, invece, la Corporazione non assumerà la direzione della
gestione economica della produzione, ma avrà la funzione economico-sociale di
eliminare il classismo o particolarismo economico, di impedire che uno o più
fattori della produzione si facciano la parte del leone nei confronti con gli
altri fattori e di adeguare l’andamento dei prezzi al produttore con quello dei
prezzi al consumatore. Cfr. di questo A.: Il problema fondamentale dell’economia
corporativa, Critica Fascista; Masci F.: scritti cit. e: Saggi critici di
teoria e metodologia economica, Catania. Sono raccolti con lievi
modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni C.: A proposito
di un tentativo di teoria pura del corporativismo, in « Fiamma italica »,
e dello stesso: Strumenti teorici di corporativismo, in Giornale
degli economisti, (in questi
scritti il Pagni critica a fondo la costruzione teorica corporativa del Fovel.
Contro questi si schiera anche Bru- guier nello scritto sopra citato ed
anche noi nei nostri scritti av. cit. Contra anche Arias ed altri);
Sensini G.: L’equazione dell’equilibrio economico nei regimi corpo-
rativisti, in «Lo Stato; Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in
«Educazione Fascista », e, dello stesso : Economia corporativa e agricoltura,
in Atti del Convegno di studi sindacali e corporativi», Ferrara; Spirito
U.: La critica dell’economia liberale, Milano, Treves, dello
stesso: I fondamenti dell’ economia corporativa, Milano, Treves, e
Capitalismo e corporativismo, Firenze, Sansoni. L’interesse suscitato
degli scritti filosofici di questo A. sono dovuti a ragioni di carattere
esclusivamente polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane
filosofo. Nella critica all’economia liberale, infatti non fa che
ripetere, con sintesi brillante, quanto è stato detto dai seguaci della
scuola storica tedesca e dagli istituzionalisti americani contro la economia
liberale. È confusa la scienza economica con la praxis dei governi
liberali e demoliberali. Nella critica al capitalismo non fa che
ripetere, in linea essenziale, quanto il Sombart ha espresso nella sua
opera monumentale sul capitalismo e quanto altri economisti contemporanei
hanno scritto contro il sistema capitalistico, e che l’A. si guarda
bene dal ricordare. Nè è fatta alcuna discriminazione, fra
capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare che m Italla 11
capitalismo è, appena, al suo inizio. Nei tentativi di costruzione
teorica del corporativismo fascista tiene conto, in particolare delle
dichiarazioni della Carta del Lavoro che rincalzano la propria tesi
per Ja quale vede la soluzione corporativa n clini entità assoluta
tra Stato ed individuo che riecheggia il pensiero di Hegel e di
Marx. Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione teorica la quale e
apparsa a sfondo social-comunista per l’ammis- sione della corporazione
come proprietaria. Propugna, inoltre, 1 A. il partecipazionismo operaio,
altro espediente vecchio e già discusso ampiamente nei tempi passati. Ma,
con buona volontà, si può Scorgere nel sistema di Spinto anche un
liberalismo assoluto per cui dopo aver letto gli scritti di questo A. del
corporativismo si riuscirà a capire meno di prima. E non m tenrnamo quii
su altri grossolani errori espressi dall A. nel campo delle realizzazioni
pratiche corporative, come per es. su quelle in cui consiglia per il
nostro Paese una industrializzazione ad oltranza, la emissione di
prestiti esteri, una politica commerciale che sara forse realizzata, ecc
(Tutte queste idee sono espresse nel voi.: Capitalismo e Corporativismo,
Sansoni, Firenze). Contra a Spirito, si vegga: Arias, cit.,
Jannaccone, cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso cit.. Vinci, appresso
citato, ed i seguenti scritti. CROCE (si veda), L’economia filosofata e
attualizzata, Critica; Galli, Sull’identità dell’individuo con lo stato, La
Vita Italiana; (jANGEMI L. : Individuo e Stato nella concezione
corporatina, m «Atti del Secondo Convegno di Studi Sindacali e Corporativi,
Ferrara; Brucculeri: L economia corporativa, in «La Civiltà Cattolica», e dello
stesso: Crisi e capitalismo, nella stessa rivista, etc. Cesarini-Sforza in un
lucido scritto: Individuo e Stato nelle Corporazioni (Archivio di Studi
Corporativi) mostra come la formula dell identità è chiarissima nel
pensiero dei socialisti e dei liberali. L’individualismo moltiplicando le
sue forze non rinuncia ad essere sè stesso. Il grande significato
del Corporativismo è la disciplina economica nazionale. Con il
Corporativismo si passa dal soggettivismo all’oggettivismo. Alla organizzazione
professionale è affidata, sopratutto la oggettivazione delle scelte
economiche. Il nuovo modello della realtà economica non potrà non
essere anch’eseo, naturalistico e deterministico: non c’è scienza senza
determinismo. Caratteristica delle concezioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per
es. nello Stato Corporativo non vi saranno più disoccupati!).
La nostra divergenza ideale con l’economia degl’idealisti non va
assolutamente confusa con le invettive di quei messeri interessati ad un
intervento che oggi chiedono e ieri respingevano, nè con le
interpretazioni di coloro che hanno gli occhi sulla nuca!
Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii della Scienza Economica
e l’economia corporativa («Rivista di Politica Economica»). M. rifiuta 1
identificazione fra Stato e Individuo. Integrando e correggendo le
opinioni di Arias e Fovel considera l’economia corporativa come una
economia non euclidea. Papi, Un principio teorico dell’economia
corporativa, Giornale degli Economisti, e più diffusamente in Lezioni di
Economia Generale e Corporativa», Gedam, Padova. (P. ritiene che il
sistema corporativo si possa considerare come lo strumento capace di
assicurare le imprese contro i (risdhi extra-economici (guerre, crisi,
scioperi, etc.). Rossi, Economia e Finanza. Chiarifica il concetto
di concorrenza e mostra i caratteri della teoria dell’equilibrio economico
generale. L’ordinamento corporativo traduce nel diritto positivo un
complesso di norme di diritto naturale, che presiedono al fenomeno sociale
della ricchezza. Ne risulta un diritto corporativo, definizione giuridica della
libertà economica c e sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e
la figura dell’uomo corporativo si risolve nell’uomo economico libero.
L’economia corporativa importa la penetrazione nell’organismo produttivo di un
sistema organico, razionale di politica economica. L’economia corporativa
risolve il contrasto fra l’essere e il dover essere della vita economica.
Dover essere: razionalità (teoria economica pura), eticità (politica
economica). Le forze direttrici corporative devono fornire al dinamismo
economico il volano regolatore). Vinci F.: Il corporativismo e la scienza
economica (Rivista Italiana di Statistica, etc.. Questo A., conscio
delle interdipendenze fra i vari fattori di produzione e fra le varie imprese e
delle condizioni di concorrenza mondiale, ha dimostrato che la «
disciplina unitaria e l’autodecisione, ove conducesse fino ala determinazione
delle produzioni e dei consumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni
dell’uria o dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti reciproci,
non solo fra due o tre, ma fra tutte le Corporazioni, imponendo al Consiglio
Nazionale delle Corporazioni un continuo, pericoloso compito di revisione
e di conciliazione in base a valutazioni complicatissime, a criteri di
difficile determinazione oggettiva. Sulla Finanza Corporativa.
Si espressero anni addietro a favore del contingente: Griziotti,
Finanza di guerra e riforma tributaria, in «La Riforma Sociale. Contro
il contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Finanze, Torino. Ed
oggi, a favore del contingente (citiamo gli scritti più seri): Benini,
loco cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa, Echi e Commenti,
e dello stesso: Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in «
Atti del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara;
Bonanno: L’extra-individualismo nelle entrate del bilancio dello Stato, «
Dir. e prat. trib. »e dello stesso: Lo Stato corporativo e la sua
finanza, Diritto del Lavoro; Uckmar : Ordinamento Corporativo e
ordinamento tributario, Relazione al I Convegno nazionale di Studi
Corporativi», Roma, e dello stesso: Verso una revisione corporativa della
pubblica finanza, Diritto del Lavoro, Roma; Riforme tributarie e
Stato corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma, ; Finanza corporativa,
in « Diritto e Pratica Tributaria. Roma, ed infine, sempre dello stesso:
Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in Atti del II Convegno
di Studi Sindacali e Corporativi, Ferrara. Fra questi autori la corrente
radicale trova favorevoli Benini, Bonanno e Montemurri. Uckmar
ritiene che la finanza sia individualista e perciò la vorrebbe riformata in un
senso meno individualista, ma nei suoi studi esprime delle proposte che
trova consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente, che
riconoscono doversi inserire nell’ordinamento corporativo anche la finanza allo
scopo di raggiungere quei fini che gli conferiscono caratteri
fascisti. Sono contro D’Alessio, in un suo articolo: Evasione
fiscale e riforma tributaria, Augustea, e Genco («Comunicazione al II Convegno
di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara) i quali vorrebbero arrivare all’abolizione
o per lo meno alla riduzione degli organi finanziari statali ed
alla loro sostituzione con le Corporazioni! Uckmar, contingentista
moderato, riconosce che il potere impo- sizionale tributario spetta allo
Stato. Quest’autore quindi può inscriversi fra i fautori di una finanza
coordinata all’ordinamento corporativo, ma è lontano dalle Improvvisate e
rivoluzionarie trasformazioni. La finanza oltre a presentare un contenuto
politico, riveste un contenuto tecnico con il quale male si accorda la
improvvisazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddi- stazione di
essere considerati rivoluzionari al cento per cento, mentre agli altri
rimarrà la soddisfazione di non avere incoraggiato i salti nel buio che
in materia finanziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e perciò si
ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non meno
rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano i ce piu radicali. Il
tempo sarà giudice sereno fra tanto contendere. Ricordiamo i seguenti
scritti fra i tanti che accolgono, con moderazione, una riforma
tributaria in ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino Ca-
Problemi di Finanza, Torino, Giappichelli; Scandali: E.: Imposizione tributaria
e Stato Cor- porativo in « Echi e Commenti », e dello TTr- A
r-,ane r e in «Giustizia tributaria»,; Gangemi L-
rinanza Corporativa, in « Rivista di Politica Economi- Stato
C e dell ° stesso: La finanza nello Stato Corporativo, Commercio, Roma, £
r” cernii in «Rivista di Politica Economica» (e una carica a
fondo contro la funzione graduale, ransitona e limitata del contingente
come è propugnata da Montemurri e dal Cardelli il quale ultimo ha
espresso la sua tesi in Il Commercio)i Toselli Colonna: Teoria e problemi
della- economia finanziaria corporativa, Alessandria Colombani (è questa una
diligente rassegna dei problemi corporativi della finanza). Infine, si
segnala 1 eccellente studio di Borgatta: Le funzioni WaC “ f *’ in « Lo
Stato », febbraio e CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t SCÌCnZa delle fi nanze
’ Padova, CEDAM) non sembra opportuno affidare all’Associazione Sindacale
la ripartizione degli oneri tributari a gin associati. Le associazioni
sindacali, probabilmente « non sarebbero neppure molto disposte ad
assumersi tali compiti, ohe spesso non sarebbero neppure in grado
di svolgere efficientemente data la limitatezza e l’inadeguatezza dei mezzi che
hanno a propria disposizione, anche a prescindere dal giusto timore dei
dirigenti di potersi creare m tal modo animosità lesive di quella
compattezza dell’Associazione Fascista, che costituisce uno dei suoi
requisiti più essenziali in relazione ai fini propostisi dal nostro
legislatore. Un chiarimento sulla tesi riformista di Benini. La ritorma
propugnata da questo autore (studio cit.), per quanto riguarda
l’imposizione diretta, è vasta e coraggiosa: due tipi di imposte dirette,
proporzionali, l’una sul reddito totale di famiglia, l’altra sul
patrimonio-. Senza dubbio, la scienza finanziaria ed il
procèsso evolutivo della legislazione fiscale degli Stati moderni
pongono in evidenza i tributi globali e personali come il fondamento di
un corretto sistema di imposizione diretta in luogo delle imposte reali
imperfette e causa di sperequazioni gravi ed inevitabili. Il nostro sistema
attuale è fondato appunto sui tributi reali, integrati da una imposta
personale, la complementare, che con i procedimenti fatti approvare dal
Ministro Jung presenta una struttura che le consente di assolvere agli
importanti suoi compiti. Ma, appunto perchè la riforma proposta dal
Benini muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro sistema d’imposizione
diretta, sono necessari, per giungere ad essa, lunghi e ponderati studi
sulla entità, sulla composizione, sulla distribuzione e sul
raggruppamento dei redditi, sulla organizzazione tecnica della nuova
amministrazione; sopra tutto occorre, per concepire ed attuare una
riforma così vasta e complessa che le condizioni dell’economia nazionale e
della pubblica finanza entrino in un periodo di sufficiente tranquillità e
stabilità. Tutte cose queste di cui il Benini è consapevole. Un
posto a parte tiene Griziotti il quale fra le due opposte opinioni che
esiste una finanza corporativa oppure il contrario che questa non esiste
sostiene una terza e differente che trova riscontro nei seguenti
scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche nello Stato
Corporativo fascista, Il Diritto del Lavoro); Idee generali sulla
trasformazione del nostro sistema tributario, esposte al Primo Convegno
di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del Consi. glio Prov.
dell’Economia di Pavia; Le finanze pubbliche e l’ordinamento corporativo,
in « Economia », N. 6 del 1930. Il Griziotti, se non erriamo, desidera un
sistema di imposte congegnate in modo da rispettare le esigenze della
produzione. Vuole un sistema tecnico e razionale che sodisfi anche i criteri
della giustizia nella ripartizione dei carichi pubblici. Rico-
Gangemi, Dottrina Fasciata ed economia. nosce che l’opera del primo
periodo della finanza fascista ha tenuto conto delle esigenze della
produzione. Queste idee evidentemente indicano in Grìzìotti un
fautore della finanza corporativa. Dove il nostro non ci trova
consenzienti è nei dettagli (ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva
delle rendite e dei sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il
discorso. Secondo un distinto allievo del Griziotti, il
Pugliese (La Finanza e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati
Moderni, Padova, GEDAM) « Nello Stato Corporativo l’economia continua a
basarsi fondamentalmente sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè
alcuno dei principi che reggono l’economia capitalista viene
apriosticamente ripudiato: ma vi si aggiunge un elemento che è quello del
controllo sociale che, sulla iniziativa privata e sul suo svolgersi,
viene attuato dallo Stato. Nello Stato corporativo anche la
politica finaziaria deve necessariamente seguire le direttive, che non
coincidono nè con quelle del sistema liberale-capitalista (benché ad esse
siano assai più vicine) nè con quelle del sistema collettivista.
Essendo l’imposta uno dei principali strumenti di cui lo stato
qualora rispetti il principio della proprietà privata si può valere, per intervenire nel campo
dell’economia, individuale, è logico che ad essa faccia più largo ricorso uno
Stato, che ha per principio l’intervento, ogni qualvolta l’interesse
nazionale lo richieda. E essenziale rilevare che nel sistema
corporativo, mutano fondamentalmente i modi dell’azione statale:
mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si propone fini di benessere e
prosperità, che vengono attuati mediante la protezione di tutte quelle
forze individuali che si dimostrano utili a tale intento, lo Stato
corporativo, oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa esso
stesso agente diretto e primario per l’attuazione degli scopi suddetti, non
solo proteggendo e favorendo le forze utili' ai propri fini, ma facendosi
iniziatore dei provvedimenti atti ai dirigere le forze individuali
all’obbiettivo prefisso. Non possiamo chiudere questa nota senza
ricordare il contributo che, anche in questo campo ha dato Maffeo
Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in « Politica »,
maggio-giugno 1933, scritto che i nuova- tori sistematici ed i creatori
di schemi astratti farebbero bene a leggere ed a meditare se veramente
sono, come si ritengono, difensori dell’interesse nazionale. Luigi
Chitti. Chitti. Keywords: economia sociale, economia politica, l’economia
filosofica d’Aristotele, econnomia corporativa. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Chitti” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Ciarlantini:
implicatura tachigrafica – la scuola di Bologna -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Bologna). Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Bologna, Emilia-Romagna.
Parole tra realta e fantasia. Metodo tachigrafico. Il tempo a san Giacomo e uno
di accesissima ricerca metodologica su ogni fronte: Agostino e
l'occasione e la scusa. Ma in realtà C. si interessa di altro: di arrivare alla
costituzione delle parole – Grice, “Utterer’s meaning, sentence meaning, word
meaning” – an essay of mine whose title I find it difficult to recall on
occasion --, di conoscere la struttura profonda del nostro parlare. E cambia e
ricambia metodo di indicizzazione, impiegando un sacco di tempo. Alla fine un
saggio e pronto e sono maturi anche due frutti non preventivati: l'invenzione
di un metodo d’implicatura tachigrafica, a metà tra la stenografia e la prattica
normale, basato principalmente sulla notazione della radice delle parole (“shag”)
con qualche aggiunta per riconoscere la parola stessa (“shaggy”: l’unico
esempio dato da Grice, “Fido is shaggy, a hairy-coated dog” in Utterer’s
meaning, sentence meaning, and word meaning”. Il principio basilare è che
comunque ogni parola – e. g. ‘shaggy’ --, anche abbreviata, deve essere
riconoscibile sempre – Grice da l’esempio di “and” turnd into “&” and still
carrying the same implicatures --, in maniera il più possibile univoca, o
nella sua scrittura o nell'insieme del contesto – Grice: “He was caught in the
grip of a vice”. E poi la teoria di spiegazione universale – alla Fichte
-- del linguaggio.*Perché*, quando parliamo, abbiamo associato certi suoni a
certe cose, sensazioni, azioni, mentre in altre culture – pensasi a Roma antica
-- e in altri tempi si sono associati altri suoni, alle allegatamene stesse
cose? Da questa domanda di fondo è scaturita la teoria di C., scritta e
descritta nel libretto "Parola tra realtà e fantasia. Appunti di
metodo" (Ponti, Bologna). Tra l'altro ho qualche rimorso di coscienza
verso Ponti, un editore in via Bassi. Perché gli lasciai sempre credere che è
un professore di non so quale scuola, e lui li pubblica il saggio convinto che
frotte di filosofi sarebbero venuti a comperarlo. Nei fatti tutti questi filosofi
non esistevano – cf. Grice, “Vacuous Names” -- e non vennero – as Marmaduke
Bloggs never attended the Merseyside Geographical Society’s party in his honour
after allegedly having climbed Mt. Everest on hands and knees, but being an
invention of the journalists --, e lui si rende conto di questo lentamente. Una
decina di anni dopo dal segretario della sua piccola editrice li venne a C. la
proposta di acquistare tutte le copie invendute e C. adesso ne regala una a
qualcuno ogni tanto. C'è anche inserito il suo metodo per imparare a suonare la
chitarra, e altre ricerche di metodo. Ma la teoria di spiegazione universale
del linguaggio vuole tanto riprenderla e proporla a più vasto raggio. È una
teoria e come tale ha bisogno nella pratica di essere testata, sperimentata e
provata. Ma se è vera, anche soltanto un po', puo rivoluzionare tante cose
nella nostra vita. Se è vero, ad esempio, che uno tende ad usare i suoi
(“shaggy”) che sono dettati dal suo stato d'animo (“hairy-coated”), e tende ad
associare le parole, che pure ha a disposizione da un patrimonio CONDIVISO o
non – il deutero-esperanto di Grice --, secondo come le vive in quel momento,
potremmo arrivare, analizzando scientificamente milioni d’elementi, a dare una
qualche valutazione sulla veridicità o meno della testimonianza di una persona,
per esempio in giudizio. Comunque a parte questo, la comprensione della
fonetica in questo modo ci fa capire ad esempio l'evoluzione di un radicale (“shag”)
passando da un popolo all'altro, l'associazione di suoni e rumori a parole (“shaggy”
– cf. Grice, “Utterer’s meaning, sentence meaning, word meaning” – pirot –
“which we know karulise elatically” -- del vocabolario, e la storia delle
parole stesse (Grice: “Would discs still be called discs if they come in
square?”. Per esempio C. e convinto che la lettera "u" per noi
significhi una sfumatura di "profondità, mistero, consistenza di un
soggetto, che desta meraviglia e a volte smarrimento", mentre per i latini
– o romani -- la "u" era meno misteriosa, anzi indicava l'essere
nella sua qualità di "stato", di permanenza, di substrato delle cose.
Così, per noi, "Uomo" è anzitutto sensazione di PROFONDITà personale,
laddove per i latini o romani "homo" è più espressione di forza
("O") accompagnata da esclamazione di meraviglia ("H"). Cf.
J. L. Austin on sound symbolism, and sp- spit, speranza. Queste sono allora le suoi
ricerche e quello che face nella quiete di san Giacomo, CTTC
continua il suo indice di Agostino e termina il suo saggio. Ed e allora che
concepe il disegno di fare un dizionario etimologico – alla maniera di CROCE,
“Dizionario etimologico” -- della lingua italiana. L'ha cominciato da tanto
tempo, ma chissà se e quando lo portera a termine. Primo Ciarlantini.
Ciarlantini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ciarlantini”.
Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Cicerone:
la semiotica -- l’implicatura conversazionale di Marc’Antonio – scuola di Ponte
Olmo -- scuola d’Arpino – scuola di Frosinone – scuola di Roma -- filosofia
romana – filosofia lazia -- filosofia italiana -- Luigi Speranza – (Italia). Filosofo italiano. Ponte Olmo, Abbazia
di San Domenico, Arpino, Frosinone, Lazio. Ciceronian implicaturum: Grice: “One
has to be careful: an Italian philosopher might argue that Cicerone ain’t
Italian, but Roman! – so the keywords: ‘filosofo italiano’ ‘filosofo romano’ –
matter!” Grice: “However, whatever the discussion, provided Cicerone IS
discussed by this or that undeniable *Italian* philosopher is enough to provide
us with some nice secondary literature!” – Grice: “As an example, I would
mention the two-volume of the ‘Storia della filosofia’ – if you check for the
“Roman chapter,” it’s mainly all about Cicerone – with some footnote to
Lucrezio and Aurelio!” – Grice: “Recall that Roman-Roman philosophy is pretty
recent: due to the embassy by the three Greek philosophers who arrived in Rome
in 183 a. u. c., and – philosophy then became the pastime of the leisurely
class, notably the Scipioni!” -- della
cultura greca, attraverso la sua opera i Romani poterono anche acquisire una
migliore conoscenza della filosofia greca. Tra i suoi maggiori contributi alla
cultura latina, vi fu la creazione di un lessico filosofico latino: Cicerone si
impegnò, infatti, a trovare il corrispondente vocabolo in latino per ogni
termine specifico del linguaggio filosofico greco. Tra le opere fondamentali
per la comprensione del mondo latino si collocano, invece, le Lettere/Epistulae
(in particolar modo, quelle all'amico Tito Pomponio Attico) che offrono
numerose riflessioni su ogni avvenimento, permettendo così di comprendere quali
fossero le reali linee politiche dell'aristocrazia romana. C. occupò, per molti anni, anche un ruolo di
primaria importanza nel mondo della politica romana: dopo aver salvato la
repubblica dal tentativo eversivo di Lucio Sergio Catilina (e aver così
ottenuto l'appellativo di pater patriae, padre della patria), fu un membro
eminente della fazione degli Optimates. Infatti, nelle guerre civili, difese
strenuamente, fino alla morte, una repubblica giunta ormai all'ultimo respiro e
destinata a trasformarsi nel principatus augusteo. C. nacque a Ponte Olmo, in
prossimità del fiume Fibreno accanto al comune di Arpinum (area attualmente
occupata dall'Abbazia di San Domenico. Gli Arpinati ricevettero la civitas sine
suffragio nel IV secolo a.C. e i pieni diritti di cittadinanza nel 188 a.C.; in
seguito, la città ottenne anche lo status di municipium.[5] La lingua latina
era in uso già da lungo tempo[6]; tuttavia, ad Arpino, era diffuso anche
l'insegnamento della lingua greca, che l'élite senatoriale romana preferiva
spesso a quella latina, riconoscendone la maggiore raffinatezza e
precisione.[7] L'assimilazione, da parte dei Romani, delle comunità italiche
vicine a Roma (avvenuta tra il II e il I secolo a.C.), permise a C. di
diventare scrittore, statista e oratore.
C. apparteneva alla classe equestre (la piccola nobiltà locale) e, anche
se lontanamente imparentato con Gaio Mario (il corifèo dei Populares durante la
guerra civile contro gli optimates di Lucio Cornelio Silla[8]), non aveva alcun
legame con l'oligarchia senatoriale romana; era dunque un homo novus. La
famiglia era composta dal padre Marco Tullio C. il Vecchio, uomo colto ma di
origine sconosciuta; dalla madre Elvia, di nobile casato e integri costumi[9] e
dal fratello Quinto. Il cognomen Cicero
è il soprannome di un suo antenato abbastanza noto per un'escrescenza carnosa
sul naso (presumibilmente, una verruca) che ricorda un cece -- cicer, ciceris è
il termine latino per cece. Quando Marco presenta, per la prima volta, la
propria candidatura a un ufficio pubblico, alcuni amici gli sconsigliarono
l'utilizzo del suo cognomen ma egli rispose che «avrebbe fatto sì che esso
diventasse più noto di quello degli Scauri e dei Catuli. céce e cécio nap. cecere, ven.
cesere, c. ciciru, sard. cixiri; prov. cezer; fr. ceire; ted. kicher
(pruss. kockers ¡sello): dallat. cicer (= ciR-crR) - acc. ciCEREM - che
il Curtius deriva dalla ra KAR esser duro, onde il sser. KAR-EAR-duro e
come sost. osso ed anche pisell KHAR-AS duro, ruvido, KAR-AKA noce cocco o il
gr. KAR-KAROS duro e come s stant. pisello (cfr. Ardito). - Ad altri il vece
sembra affine al lat. cicus involuca del seme dei frutti (cfr. Chicco), ovyero
gr. KEKis escrescenza. - Specie di legun in torma di granello alquanto appuntat
che secco indurisce assai e si mangia cott Deriv. Cecerèllo; Ceciarollo;
Ceciato. Cfr. G cèrbita; Cicérchia; ¿cerone.Studi Fanciullo che legge C. di Vincenzo Foppa,
Collezione Wallace di Londra. C. si rivelò subito un fanciullo dotato di una
straordinaria intelligenza (tanto da distinguersi, a scuola, dai propri
coetanei) che gli fece accumulare fama e onore.[11] Il padre, auspicando una brillante carriera
forense e politica per i figli, li condusse a Roma dove Marco venne introdotto
nel circolo dei migliori oratori (e protettori della sua famiglia): Lucio
Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore; Crasso ebbe particolare influenza su C.
che lo considerò sempre un modello di oratore e di statista. A Roma, poté anche
formarsi nella giurisprudenza, grazie alla scuola di Quinto Mucio Scevola[12].
Tra i suoi compagni, ci furono anche Gaio Mario il Giovane, Servio Sulpicio
Rufo (destinato a divenire un celebre avvocato, nonché, uno dei pochi che C.
considerò superiori a sé stesso) e Tito Pomponio (che prese poi il cognomen di
Attico, dopo una lunga permanenza ad Atene, e che divenne intimo amico di C.;
infatti, gli scrisse in una lettera: «Sei per me come un secondo fratello, un
alter ego al quale posso dire ogni cosa»[13]).
In questo periodo, C. si avvicinò anche alla poesia[14]: in particolare,
si cimentò nella traduzione delle opere di Omero e dei Fenomeni di Arato (opere
che, in seguito, influenzarono le Georgiche di Virgilio). Particolarmente attratto dalla filosofia,[15]
alla quale avrebbe dato grandi contributi (tra i quali, la creazione del
vocabolario filosofico in lingua latina), nel 91 a.C. incontrò, assieme
all'amico Tito Pomponio, il filosofo epicureo Fedro in visita a Roma; entrambi
ne rimasero affascinati ma solo Pomponio rimase, per tutta la vita, seguace
della dottrina epicurea. Tra il 79 e il 77 a.C., conobbe il maestro di retorica
Apollonio Molone[16] (che istruì, pochi anni dopo, anche Gaio Giulio Cesare) e
l'accademico Filone di Larissa che esercitò su di lui, un'influenza profonda:
infatti, era a capo dell'Accademia di Atene che Platone aveva fondato circa
trecento anni prima; di conseguenza, grazie a lui, C. assimilò la filosofia
platonica, tanto che arrivò spesso a definire Platone come il proprio dio (pur
rigettando la sua teoria delle idee).
Poco tempo dopo, C. incontrò Diodoto, esponente dello stoicismo; tale
movimento era già stato precedentemente introdotto a Roma, dove aveva ricevuto
larghi consensi grazie all'enfasi posta sul controllo delle emozioni e sulla
forza di volontà (in linea con gli ideali romani). C. non adottò completamente
l'austera filosofia stoica ma preferì uno stoicismo modificato; in seguito,
Diodoto divenne un protetto di C., dal quale fu ospitato fino alla
morte[15]. Cursus honorum Prime
esperienze Il sogno di infanzia di C. era quello di "essere sempre il migliore
ed eccellere sugli altri", in linea con gli ideali omerici: infatti,
desiderava dignitas e auctoritas, simboleggiati dalla toga pretesta e dalla
verga dei littori; c'era un solo modo per ottenerli: percorrere i gradini del
cursus honorum. Nel 90 a.C., tuttavia, era ancora troppo giovane per approdare
a qualsiasi carica del cursus honorum ma non per acquisire l'esperienza
preliminare in guerra che una carriera politica richiedeva. C. servì sotto Gneo
Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della guerra sociale
sebbene non provasse alcuna attrazione per la vita militare dato che si sentiva
un intellettuale (infatti, molti anni dopo, scrisse al suo amico Attico che
stava raccogliendo statue marmoree per le ville di C., "Perché mi spedisci
una statua di Marte? Sai che io sono un pacifista!"[17]). L'ingresso di C. nella carriera forense
avvenne ufficialmente nell'81 a.C. con la sua prima orazione pubblica, la Pro
Quinctio, per una causa in cui ebbe come avversario il più celebre oratore del
tempo, Quinto Ortensio Ortalo. Ma il suo vero esordio nell'oratoria a carattere
politico (almeno secondo le testimonianze scritte pervenute), si ebbe con la
Pro Roscio Amerino che conserva molto di scolastico nello stile
esuberante[18][19]: nell'orazione, difese, con successo, un figlio
ingiustamente accusato di parricidio, dimostrando grande coraggio
nell'assumersene la difesa (il parricidio era, infatti, considerato tra i
crimini peggiori a Roma) mentre i veri colpevoli erano sostenuti dal liberto di
Silla, Lucio Cornelio Crisogono. Se Silla avesse voluto, sarebbe stato fin
troppo facile eliminare C., proprio alla sua prima apparizione nei
tribunali. Lucio Cornelio Silla C.
divise le sue argomentazioni in tre parti: nella prima, difese Roscio e tentò
di provare che non era stato lui a commettere l'assassinio; nella seconda,
attaccò quelli che avevano realmente commesso il crimine (tra cui, anche un
parente dello stesso Roscio) e dimostrò come l'assassinio favoriva più loro che
Roscio; nella terza, attaccò direttamente Crisogono, affermando che il padre di
Roscio fosse stato assassinato per ottenere i suoi terreni a un prezzo
conveniente, una volta messi all'asta. In forza di queste argomentazioni,
Roscio fu assolto. Per sfuggire a una
probabile vendetta di Silla[20], tra il 79 e il 77 a.C., C. si recò,
accompagnato dal fratello Quinto, dal cugino Lucio e probabilmente anche
dall'amico Servio Sulpicio Rufo, in Grecia e in Asia Minore[21]:
particolarmente significativa fu la sua permanenza ad Atene dove incontrò
nuovamente l'amico Attico che, fuggito da un'Italia sconvolta dalle guerre, si
era rifugiato in Grecia; Attico, in seguito, divenne cittadino onorario di
Atene e poté presentare a C., alcune tra le più importanti personalità ateniesi
del tempo. Ad Atene, inoltre, C. visitò quelli che erano i luoghi sacri della
filosofia, a cominciare dall'Accademia di Platone (di cui era allora a capo
Antioco di Ascalona). Di quest'ultimo, C. ammirò la facilità di parola, senza
tuttavia condividerne le idee filosofiche (ben differenti da quelle di Filone
di Larissa, delle quali era convinto ammiratore[22][23]). Dopo un breve
soggiorno a Rodi, dove conobbe lo stoico Posidonio, tornò in Grecia (dove fu
iniziato ai misteri eleusini, che lo impressionarono molto) e dove poté
visitare l'Oracolo di Delfi; in quell'occasione, domandò alla Pizia in quale
modo avrebbe potuto raggiungere la gloria ed ella gli rispose che avrebbe
dovuto seguire il suo istinto invece dei suggerimenti che riceveva[24]. Ingresso in politica Busto di C. Tornato a Roma dopo la morte di
Silla, C. iniziò la sua vera e propria carriera politica, in un ambiente
sostanzialmente favorevole: nel 76 a.C., dopo aver pronunciato la celebre
orazione Pro Roscio comoedo, si presentò come candidato alla questura, la prima
magistratura del cursus honorum.[25] I questori, eletti per un massimo di venti
membri, si occupavano della gestione finanziaria o assistevano propretori e
proconsoli nel governo delle province. Eletto alla carica per la città di
Lilibeo (l'odierna Marsala), nella Sicilia occidentale, svolse il proprio
lavoro con scrupolo e onestà (tanto da guadagnarsi la fiducia degli abitanti
del luogo). Durante la permanenza in Sicilia, visitò la tomba di Archimede a
Siracusa: grazie al suo interesse per l'uomo, sono state rinvenute alcune
importanti informazioni sullo scienziato (in particolare, per quanto riguardi
il suo planetario). Al termine del
mandato, i siciliani gli affidarono la causa contro il propretore Verre,
colpevole di aver tiranneggiato l'isola nel triennio 73-71 a.C.[26][27]. C.
raccolse le prove della colpevolezza, pronunciò due orazioni preliminari
(Divinatio in Quintum Caecilium e Actio prima in Verrem) e l'ex-governatore,
attaccato da prove schiaccianti, scelse l'esilio volontario[28]. Le cinque
orazioni preparate per le successive fasi del processo (che costituiscono
l'Actio secunda), furono pubblicate in seguito e costituiscono un'importante
prova del malgoverno che l'oligarchia senatoria esercitava a seguito delle
riforme di Silla. Attaccando Verre, C. attaccò la prepotenza della nobiltà
corrotta ma non l'istituzione senatoria stessa (anzi, fece appello proprio alla
dignità di tale ordine affinché ne estromettesse i membri indegni). Acquisì,
inoltre, un enorme prestigio perché a difendere Verre era Quinto Ortensio
Ortalo, considerato il più grande avvocato dell'epoca[29]:
"sconfitto", Ortensio dovette accettare che il suo posto venisse
preso da C. (il quale, si guadagnò il titolo di "Principe del Foro");
nonostante l'episodio, tuttavia, i due oratori strinsero, in seguito, un buon
legame di amicizia (infatti, proprio a Ortalo che elogiò anche nel Brutus, C.
dedicò un'intera opera non pervenuta, l'Hortensius). A Roma, l'oratoria e l'attività forense erano
uno dei principali mezzi di propaganda per i politici emergenti, poiché non
esistevano documenti scritti di argomento politico (con l'eccezione degli Acta
Diurna che, però, godevano di scarsa diffusione). Contro C., tuttavia, rimaneva
la diffidenza dei nobili verso gli homines novi, accresciuta dal fatto che
l'ultimo homo novus ad acquisire rilevante peso politico fosse stato un
concittadino dello stesso C., Gaio Mario. Tuttavia, anche lo stesso Silla,
fiero oppositore di Mario, aveva preso alcuni provvedimenti che permettevano e
facilitavano l'ingresso degli equites nella vita politica, dando così a C. la
possibilità di raggiungere le vette del cursus honorum. Il successo ottenuto da quelle orazioni (che
vennero poi chiamate Verrine), anticipatrici dei principi di un governo umano e
ispirato a onestà e filantropia, portò C. in primo piano sulla scena politica:
nel 69 a.C., venne eletto alla carica di edile curule[30] e, nel 66 a.C.,
diventò anche pretore con una elezione all'unanimitàL. Nello stesso anno,
pronunciò il suo primo discorso politico, Pro lege Manilia de imperio Cn.
Pompei, in favore del conferimento dei pieni poteri a Pompeo per la guerra
mitridatica; in quell'occasione, Pompeo era appoggiato dai cavalieri,
interessati alla rapida risoluzione della guerra in Asia, mentre gli era
contraria la maggioranza del Senato[32]. Il motivo dell'impegno di C. in una
causa ostile all'alta aristocrazia (che, d'altronde, era restìa ad accoglierlo
tra le proprie file) stava probabilmente nell'importanza che essa aveva per i
pubblicani (titolari degli appalti pubblici e della riscossione delle imposte)
e gli affaristi, minacciati nei loro interessi da Mitridate VI. La provincia
dell'Asia Minore, minacciata dal sovrano del Ponto, era, infatti,
particolarmente attiva dal punto di vista dell'economia e del commercio. Consolato
C. denuncia Catilina, affresco di Cesare Maccari a Palazzo Madama in
Roma che raffigura C. mentre pronuncia una delle orazioni contro Catilina Nel
65 a.C. C. presentò la candidatura al consolato. Nel 64 venne eletto console
per l'anno successivo (ossia il 63 a.C.). La sua posizione venne illustrata dal
fratello Quinto in un'opera (di dubbia attribuzione: la scrisse lo stesso C.?),
Commentariolum petitionis, scritta per consigliarlo nella campagna elettorale.
Per un gioco delle classi, C. risultò eletto con il voto di tutte le
centurie.[33] Assieme a lui risultò eletto il patrizio Gaio Antonio Ibrida, zio
di Marco Antonio, futuro triumviro e acerrimo nemico dell'arpinate, accusato
dallo stesso C. (In toga candida, orazione - pervenutaci in condizioni
frammentarie - tenuta in Senato come candidato poco prima delle elezioni del
64) di essere collusore di Lucio Sergio Catilina.[34] La fiducia riposta in C.
dalla classe equestre venne ripagata già all'inizio del consolato con la
pronuncia di quattro orazioni (De lege agraria) contro la proposta di
redistribuzione delle terre del tribuno Publio Servilio Rullo.[35] Durante il proprio consolato C. dovette
contrastare il tentativo di congiura messo in atto da Catilina. Questi era un
nobile impoverito che, dopo aver combattuto insieme a Silla e aver completato
il cursus honorum, aspirava a diventare console. Catilina si candidò a console
tre volte e tre volte venne fermato con processi dubbi o con possibili brogli
elettorali e infine ordì una congiura per rovesciare la repubblica.[36]
Catilina contava soprattutto sull'appoggio della plebe, a cui prometteva
radicali riforme, e sugli altri nobili decaduti, ai quali prospettava un
vantaggioso sovvertimento dell'ordine costituito, che lo avrebbe probabilmente
portato ad assumere un potere monarchico o quasi, inoltre sembrerebbe fosse
stato supportato politicamente da Gaio Giulio Cesare che venne però tenuto
fuori dallo stesso C. e non ebbe conseguenze.[37] Venuto a conoscenza del
pericolo che la Repubblica correva grazie alla soffiata di Fulvia, amante del
congiurato Quinto Curio,[38] C. fece promulgare dal Senato un senatus consultum
ultimum de re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si
attribuivano, come era previsto in situazioni di particolare gravità, poteri
speciali ai consoli.[39][40] Sfuggito poi a un attentato da parte dei
congiurati,[41] C. convocò il Senato nel tempio di Giove Statore, dove
pronunciò una violenta accusa a Catilina, con il discorso noto come Prima
Catilinaria[42][43], che si apre con il celebre incipit (LA) «Quousque tandem abutere, Catilina,
patientia nostra?» (IT) «Fino a quando,
Catilina, abuserai della nostra pazienza?»
(Marco Tullio C., Catilinarie I,1)
Catilina, visti i suoi piani svelati, fu costretto a lasciare Roma per
ritirarsi in Etruria presso il suo sostenitore Gaio Manlio, lasciando la guida
della congiura ad alcuni uomini di fiducia, Lentulo Sura e Cetego.[44][45] Grazie alla collaborazione di una delegazione
di ambasciatori inviati a Roma dai Galli Allobrogi, C. poté però trascinare
anche Lentulo e Cetego davanti al Senato: gli ambasciatori, incontratisi con i
congiurati, che avevano dato loro documenti scritti in cui promettevano grandi
benefici se avessero appoggiato Catilina, furono arrestati fittiziamente e i
documenti caddero nelle mani di C.. Questi portò Cetego, Lentulo e gli altri
davanti al Senato, ma nel decidere quale pena dovesse essere applicata, si
scatenò un acceso dibattito: dopo che molti avevano sostenuto la pena capitale,
Gaio Giulio Cesare propose di punire i congiurati con il confino e la confisca
dei beni. Il discorso di Cesare provocò scalpore, e avrebbe probabilmente
convinto i senatori se Marco Porcio Catone Uticense non avesse pronunciato un
altrettanto acceso discorso in favore della pena di morte. I congiurati furono
quindi giustiziati, e C. annunziò la loro morte al popolo con la formula: (LA) «Vixerunt» (IT) «Vissero» (Marco Tullio C.) poiché era considerato di cattivo auspicio
pronunciare la parola "morte" (ed espressioni di significato affine
come "sono morti") nel foro. Catilina fu poi sconfitto, nel gennaio
62, in battaglia assieme al suo esercito.
C., che non smise mai di vantare il proprio ruolo determinante per la
salvezza dello Stato (si ricordi il famoso verso di C. sul suo consolato:
Cedant arma togae, trad: "che le armi lascino il posto alla toga [del
magistrato]"), grazie al ruolo svolto nel reprimere la congiura, ottenne
un prestigio incredibile, che gli valse addirittura l'appellativo di pater
patriae. Nonostante ciò, la scelta di autorizzare la condanna a morte dei
congiurati senza concedere loro la provocatio ad populum (ovvero l'appello al
popolo, che poteva decretare la commutazione della pena capitale in una pena
detentiva) gli sarebbe costata cara soltanto pochi anni dopo. Durante la guerra civile Dal primo
triumvirato alle Idi di Marzo Gaio
Giulio Cesare (Musei Vaticani) A seguito del riemergere dei contrasti tra
senatori e populares, e dell'accordo tra Cesare e Pompeo ai danni
dell'oligarchia senatoria, C. fu messo da parte. L'ultima possibilità di
rientrare nel gioco politico gli fu offerta nel 60 a.C. dai tre più potenti
uomini del momento, ovvero Pompeo, Cesare e Crasso, alla conclusione
dell'accordo per il primo triumvirato: essi chiesero a C. di appoggiare la
legge agraria a favore dei veterani di Pompeo e della plebe meno abbiente. C.,
tuttavia, rifiutò non solo per non apparire un traditore dell'aristocrazia, ma
anche per l'attaccamento all'ordine legale e sociale di cui gli ottimati si
proclamavano difensori.[46] Dopo questo
rifiuto e la costituzione del primo triumvirato, C. si tenne fuori dalla
politica ma ciò non bastò a salvarlo dalle vendette dei populares: all'inizio
del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro, nemico di C. per un
precedente processo per sacrilegio,[47] fece approvare una legge con valore
retroattivo che condannava all'esilio chiunque avesse mandato a morte un
cittadino romano senza concedergli la provocatio ad populum. Si trattava, in
realtà, di un'abilissima mossa politica di Cesare (che per l'appunto prima di
partire per la Gallia attese che C. fosse fuggito da Roma) che, attraverso il
suo alleato Clodio, eliminava così dalla scena politica uno dei suoi avversari
più tenaci, che avrebbero potuto osteggiarlo durante la sua ascesa al potere. C.
fu dunque processato per la sua condotta durante il processo ai Catilinari
Lentulo e Cetego[48] e costretto all'esilio. Lasciò Roma la notte tra il 19 e
il 20 marzo di quell'anno e si recò a Vibona, sperando di portarsi in Sicilia,
ma il pretore Virgilio - benché suo vecchio amico - non glielo consentì: in
effetti l'isola distava da Roma meno delle 500 miglia prescritte dal bando e
pertanto C. optò per la città di Brindisi, dove soggiornò tredici giorni negli
orti di Lenio Flacco prima di salpare per Durazzo. In più occasioni nei suoi
scritti l'oratore loda l'ospitalità e l'amicizia dei brindisini e della
famiglia di Lenio Flacco. Nei mesi dell'esilio C. non si diede pace, implorando
le sue conoscenze perché favorissero il suo ritorno. Clodio, però, fece
approvare anche una serie di altre leggi che prevedevano che C. non si potesse
neppure avvicinare al confine dell'Italia, e che le sue proprietà venissero
confiscate[49] In realtà la villa sul Colle Palatino fu addirittura distrutta,
e una sorte simile toccò poco dopo a quelle di Formia e di Tusculum[50][51].
Nel 57 a.C. la situazione a Roma migliorò, allorché i nobili e Pompeo posero un
freno alle iniziative di Clodio Pulcro: C. poté dunque rientrare in Italia e,
proveniente da Durazzo, giunse nuovamente a Brindisi - come narra lui stesso -
il 5 agosto: nel porto oltre ai suoi familiari e la figlia Tullia che
festeggiava il compleanno, c'era anche Lenio Flacco; le accoglienze tributate
al retore furono raddoppiate dal fatto che nella città quel giorno ricorreva
anche l'anniversario della deduzione a colonia.
Tornato a Roma riprese la sua lotta contro il tribuno della
plebe[52][53]. Simpatizzante degli optimates per via anche della sua personale
amicizia con Milone, uno dei capi della fazione, tenne tre orazioni in difesa
di tre optimates. Nel 56 a.C. C. pronunciò l'orazione Pro Sestio in cui
allargava il suo precedente ideale politico: l'alleanza tra cavalieri e
senatori a suo avviso non era più sufficiente per stabilizzare la situazione
politica. Occorreva, quindi, un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi
alla sovversione tentata dai populares: tale proposta prende il nome di
consensus omnium bonorum. Sempre lo stesso anno tenne l’orazione Pro Caelio con
cui C. si trova a difendere Marco Celio Rufo dall’accusa di tentato
avvelenamento della sua amante, Clodia (sorella del tribuno della plebe Clodio
Pulcro e identificata dagli studiosi come la Lesbia di Catullo). Nonostante la
donna venisse dipinta come colei che per prima aveva tentato di uccidere
l’amante in quanto avversario politico del fratello le accuse erano
inconsistenti e C. spiegò il gesto compiuto da Marco Celio Rufo come un errore
di gioventù. Nel 55 a.C. scrive In Pisonem, orazione contro il governatore di
Macedonia Lucio Calpurnio Pisone, suocero di Cesare. Patrizi e plebe si
scontravano con l'uso di bande armate, e in uno di questi scontri, più
precisamente sulla via Appia, Milone, organizzatore delle bande dei possidenti,
uccise il tribuno Clodio.[54][55] Al processo per omicidio, tenutosi nel 52
a.C., C. difese Milone improntando la sua orazione sulla differenza tra
tirannicidio e omicidio; in questo caso sarebbe stato tirannicidio e per tanto
giustificabile. Ma, non riuscendo a pronunciare il suo discorso con la giusta
forza per il clamore della folla e per il timore che gli incutevano i
partigiani di Clodio nel foro, Milone venne condannato all'esilio a Marsiglia
(una versione della Pro Milone venne pubblicata solo successivamente, dando
modo di verificare come fosse un'orazione tra le più abili e sottili sul piano
giuridico). Il mondo romano allo
scoppio della guerra civile (1 gennaio 49 a.C.). Sono inoltre evidenziate le
legioni distribuite per provincia Dopo essere stato nominato augure nel 53 a.C.
al posto di Crasso,[56] nel 51 a.C. come proconsole si recò in Cilicia,[56]
proprio mentre i rapporti tra Cesare e Pompeo si inasprivano. Durante il
soggiorno lontano da Roma, i pensieri dell'oratore furono rivolti alla minaccia
della guerra civile. Tornato in patria, non cessò di invitare le parti alla
moderazione ed alla conciliazione, ma i suoi inviti caddero nel vuoto anche a
causa del fanatismo che spingeva Pompeo all'intransigenza nei confronti delle
richieste di Cesare. Quando Cesare varcò il Rubicone, C. cercò di
accattivarsene il favore, ma poi decise ugualmente di lasciare l'Italia per
unirsi a Pompeo.[57][58] Sbarcò, dunque, a Dyrrachium, ma, raggiunti i
Pompeiani, si accorse di quanto le speranze che egli riponeva in loro quali
salvatori della repubblica fossero infondate: ognuno di loro era lì non in
difesa degli ideali, ma soltanto per tentare di trarre profitto dalla guerra.
Dopo la grande vittoria di Cesare nella battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., C.
decise di tornare a Roma, dove ottenne il perdono dello stesso Cesare nel 47
a.C.[59] C. rivelava nelle sue opere ed
in lettere ad amici come Cornelio Nepote, riguardo alla personalità di
Cesare: «Non vedo a chi Cesare debba cedere
il passo. Ha un modo di esporre elegante, brillante ed anche, in un certo modo
si pronuncia in modo elegante e splendido... Chi gli vorresti anteporre, anche
tra gli oratori di professione? Chi è più acuto o ricco nei concetti? Chi più
ornato o elegante nell'esposizione?»
(Svetonio, Vite dei Cesari, Cesare, 55.)
La speranza di C. di collaborare al governo di Cesare venne troncata
dalla piega assolutistica e monarchica presa dal potere[60]. L'oratore si
ritirò, iniziando la stesura di opere di carattere filosofico ed oratorio. A
questo si aggiunse il divorzio dalla moglie Terenzia e la morte della figlia
Tullia, seguita dalla separazione dalla seconda moglie Publilia, una
giovinetta. Quando Cesare fu ucciso, il
15 marzo del 44 a.C., a seguito della congiura ordita da Marco Giunio Bruto e
Gaio Cassio Longino, per Roma, e per lo stesso C., si avviò una nuova fase
politica, che avrebbe avuto termine solo con l'avvento dell'impero. L'opposizione ad Antonio e la morte C. non
fu, certamente, colto di sorpresa dall'assassinio, da parte dei Liberatores, di
Giulio Cesare: era sicuramente al corrente della congiura che si andava
tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori, pur manifestando una
grande ammirazione per l'uomo che era destinato a divenire il simbolo stesso
della congiura, Bruto. E lo stesso Bruto, infatti, con il pugnale sporco del
sangue di Cesare ancora in mano, additò C. definendolo l'uomo che avrebbe
ristabilito l'ordine nella repubblica.[61]
Scrisse a Lucio Minucio Basilo, uno dei cesaricidi, una lettera per
congratularsi dell'assassinio di Cesare:
(LA) «Tibi gratulor, mihi gaudeo; te amo, tua tueor; a te amari et, quid
agas quidque agatur, certior fieri volo.»
(IT) «Con te mi congratulo, per me sono contento; ti sono vicino, ho
cura delle tue cose; ti chiedo di volermi bene e di farmi sapere che cosa fai e
che cosa succede.» (C., Ad Familiares,
vi, 15) La data della missiva non è
conosciuta, ma viene solitamente ritenuta vicinissima o coincidente alla
congiura.[62] L'espressione «quid agas quidque agatur» la indicherebbe[62] come
scritta prima che C. si recasse al Campidoglio, dove i cospiratori avevano
trovato rifugio dopo l'assassinio, asserragliati nel tempio capitolino e
protetti dai gladiatori di Bruto.[63] C.,
infatti, tornò ad essere anche di fatto uno dei maggiori rappresentanti della
fazione degli optimates, mentre Marco Antonio, luogotenente e magister equitum
di Cesare, prendeva le redini della fazione dei populares. Antonio tentò di
fare in modo che il senato decidesse di organizzare una spedizione contro i
Liberatores (che intanto si erano trasferiti nella penisola balcanica), ma C.
fu promotore di un accordo che, assicurando il riconoscimento di tutti i
provvedimenti presi da Cesare nel corso della sua dittatura, garantiva
l'impunità a Bruto e Cassio.[64] Poco dopo, i due, assieme agli altri
congiurati, fuggirono verso la penisola ellenica.[65] Statua di Augusto comunemente detta Augusto
di Prima Porta, custodita ai Musei Vaticani. Tra C. ed Antonio, comunque, i
rapporti non erano dei migliori, e i due, d'altra parte, si trovavano
all'esatto opposto in ambito politico: C. era il difensore degli interessi
dell'oligarchia senatoriale, convinto sostenitore della repubblica
monopolizzata dai ricchi, mentre Antonio avrebbe voluto fare suoi i progetti di
Cesare ed assumere gradualmente un potere monocratico.[66] Intanto, un'altra
figura si andava affermando dal nulla nel panorama politico di Roma, la figura
del giovane Ottaviano (destinato a diventare Augusto), pronipote di Cesare e
suo erede designato nel testamento.[67][68] Ottaviano decise di adottare una
politica filosenatoriale, senza mostrare nessuna volontà di imitare le mosse di
Cesare. C., allora, si schierò ancora
più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede politico di
Cesare, e come uomo mandato dagli dèi per ristabilire l'ordine.[69] C. sperava,
infatti, nell'affermazione di un giovane princeps in re publica che, assistito
da un membro del senato di grande esperienza, come lo stesso C., riportasse la
pace e riformasse la repubblica.[70] Iniziò, inoltre, tra il 44 a.C. e il 43
a.C., a pronunciare contro Antonio una serie di orazioni, note con il nome di
Filippiche in quanto richiamavano quelle omonime pronunciate da Demostene
contro Filippo II di Macedonia. Intanto, Antonio, nella volontà di condurre una
nuova guerra in Gallia per accrescere il proprio prestigio, decise di marciare
contro Decimo Giunio Bruto Albino, governatore della Gallia Cisalpina, e lo
assediò nella città di Modena. Qui Antonio fu però raggiunto dagli eserciti
consolari guidati da Aulo Irzio, Gaio Vibio Pansa e dallo stesso Ottaviano, che
lo sconfissero.[71] Tornato a Roma,
Ottaviano si trovò nella situazione di dover scegliere tra il totale abbandono
della politica cesariana, che avrebbe tenuto in vita l'agonizzante repubblica,
e l'allontanamento dal Senato, al quale rischiava di asservirsi totalmente.[72]
Scelse di proseguire almeno in parte la politica cesariana, e costituì, assieme
ad Antonio e a Marco Emilio Lepido, il secondo triumvirato, un accordo politico
secondo il quale i tre uomini avrebbero dovuto compiere una profonda opera di
riforma della repubblica.[73] C. fu costretto ad accettare che sarebbe ora
stato impossibile attuare il suo piano di un princeps, ma non per questo ritirò
le severe accuse rivolte ad Antonio nelle Filippiche. Quest'ultimo, allora,
nonostante la fievole opposizione di Ottaviano, decise di inserire C. nelle
liste di proscrizione, decretando, così, la sua condanna a morte.[74] C. lasciò allora Roma e si ritirò nella sua
villa di Formia, che aveva ricostruito dopo gli episodi legati a Clodio. A
Formia, però, fu raggiunto da alcuni sicari inviati da Antonio, che, aiutati da
un liberto di nome Filologo,[75] poterono trovarlo fin troppo facilmente. C.,
accortosi dell'arrivo dei suoi assassini, non tentò di difendersi, ma si
rassegnò alla sua sorte, e venne decapitato. Tale località prese il nome di
Vindicio (dal latino "vindicta", vendetta), attuale frazione di
Formia.[76] Una volta ucciso, per ordine di Antonio, gli furono tagliate anche
le mani (o forse soltanto la mano destra, usata per scrivere ed indicare
durante i discorsi), con cui aveva scritto le Filippiche,[77] che furono
esposte in senato insieme alla testa, appese ai rostri che si trovavano sopra
la tribuna da cui i senatori tenevano le loro orazioni, come monito per gli
oppositori del triumvirato.[78][79] (LA)
«Prominenti ex lectica praebentique immotam cervicem caput praecisum est. Nec
satis stolidae crudelitati militum fuit: manus quoque scripsisse aliquid in
Antonium exprobrantes praeciderunt.»
(IT) «Sporgendosi dalla lettiga ed offrendo il collo senza tremare, gli
fu recisa la testa. E ciò non bastò alla sciocca crudeltà dei soldati: essi gli
tagliarono anche le mani, rimproverandole di aver scritto qualcosa contro
Antonio.» (Livio - Ab Urbe condita
libri, CXX - cit. in Seneca il Vecchio, Suasoriae, 6,17) (GRC) «Αὐτὸς δ' ὥσπερ εἰώθει τῇ ἀριστερᾷ
χειρὶ τῶν γενείων ἁπτόμενος, ἀτενὲς ἐνεώρα τοῖς σφαγεῦσιν, αὐχμοῦ καὶ κόμης
ἀνάπλεως καὶ συντετηκὼς ὑπὸ φροντίδων τὸ πρόσωπον, ὥστε τοὺς πλείστους
ἐγκαλύψασθαι τοῦ Ἑρεννίου σφάζοντος αὐτόν. Ἐσφάγη δὲ τὸν τράχηλον ἐκ τοῦ
φορείου προτείνας, ἔτος ἐκεῖνο γεγονὼς ἑξηκοστὸν καὶ τέταρτον. Τὴν δὲ κεφαλὴν
ἀπέκοψαν αὐτοῦ καὶ τὰς χεῖρας, Ἀντωνίου κελεύσαντος, αἷς τοὺς Φιλιππικοὺς
ἔγραψεν. Αὐτός τε γὰρ ὁ Κικέρων τοὺς κατ' Ἀντωνίου λόγους Φιλιππικοὺς ἐπέγραψε,
καὶ μέχρι νῦν Φιλιππικοὶ καλοῦνται.»
(IT) «Ed egli, come era solito, toccandosi le guance con la mano
sinistra, impassibilmente rivolse lo sguardo ai sicari, ricoperto dal sudore e
dalla capigliatura e disfatto nel volto dalle preoccupazioni, tanto che i più
si coprirono il volto mentre Erennio lo uccideva. E fu ucciso mentre sporgeva
il collo dalla lettiga, quando quello che trascorreva era il suo
sessantaquattresimo anno. E, per ordine di Antonio, tagliarono la sua testa e
le sue mani, con le quali aveva scritto le Filippiche. C. stesso infatti
intitolò Filippiche le orazioni contro Antonio e tuttora sono chiamate
Filippiche.» (Plutarco, Vite parallele,
Vita di C., 48, 4-6) Una volta sconfitto
Antonio, Ottaviano scelse Marco, figlio di C., come collega per il consolato, e
proprio Marco comminò le pene ad Antonio, facendone abbattere le statue e
decretando che nessun membro della gens Antonia avrebbe più potuto essere
chiamato Marco.[80] Plutarco racconta
che quando, tempo dopo, insignito del titolo di Augusto, Ottaviano trovò un nipote
che leggeva le opere di C., gli prese il libro, e ne lesse una parte. Una volta
che glielo ebbe restituito, disse: "Era un saggio, ragazzo mio, un saggio,
e amava la patria".[81] Vita
privata Matrimoni C. probabilmente sposò Terenzia all'età di 29 anni, nel 77
a.C. Il matrimonio - di convenienza - fu piuttosto armonioso per 30 anni.
Terenzia era di famiglia patrizia ed era una ricca ereditiera, entrambi fattori
particolarmente importanti per il giovane ambizioso che era C.. Da Terenzia C.
avrà due figli: Marco Tullio C., che come il padre diventerà un politico a
Roma, e Tullia o «la dolce Tulliola», come appunto viene descritta da C. in una
delle sue innumerevoli lettere; che sposò prima con un Pisone Frugi e poi in
seconde nozze con Publio Cornelio Dolabella dal quale divorzierà perché il
padre sosteneva la fazione degli ottimati mentre Dolabella era luogotenente di
Cesare, infine morirà molto giovane all'età di 34 anni. Una delle sorelle o
cugina di Terenzia era stata scelta come vergine Vestale, il che costituiva un
grandissimo onore. Terenzia era una donna dal carattere forte e prese parte
alla carriera politica di suo marito più di quanto permise a lui di prenderne
negli affari di famiglia. Non condivise, tuttavia, gli interessi intellettuali
di C. né il suo agnosticismo. C. lamenta a Terenzia in una lettera scritta
durante il suo esilio in Grecia che «...né gli dei che Lei ha adorato con tale
devozione né gli uomini che io ho servito hanno mostrato il più piccolo segno
di gratitudine nei nostri confronti».[82] Terenzia era una donna devota e
probabilmente piuttosto materialista.
Alla fine del 47 a.C. o all'inizio del 46 a.C. C. ripudiò Terenzia.[83]
I motivi del distacco sono ignoti, ma C. accusò la moglie di averlo trascurato
durante la guerra, di non essere neppure venuta ad accoglierlo al suo ritorno e
di avergli restituito la casa gravata di forti debiti.[84] Verso la fine del 46 a.C. C. sposò Publilia,
giovane e ricca fanciulla orfana di padre, che viveva sola con la madre.[85]
Secondo Terenzia (che accusava Publilia di essere la causa del suo divorzio),
la giovinezza della fanciulla avrebbe causato l'innamoramento di C., mentre
secondo Tirone, liberto dell'oratore, dietro la decisione ci sarebbe stato il
desiderio di usufruire dei beni della giovane[86]; C. peraltro era già stato nominato
tutore di Publilia, e ne amministrava le ricchezze.[87] Poco dopo il
matrimonio, Tullia, figlia di C., morì di parto.[88] Egli rimase fortemente
colpito e nel luglio del 45 a.C., mentre gli amici gli recavano conforto,
decise di ripudiare Publilia colpevole di essersi rallegrata della morte di
Tullia, dopo soli sette mesi di matrimonio.[89]
Il divorzio dalla storica consorte Terenzia e le seconde nozze con
Publilia, destinate anch'esse alla rottura, resero C. oggetto di feroci
critiche, come quelle rivoltegli da Antonio nelle repliche alle
Filippiche. Entrambe le mogli di C.
morirono in tardissima età, cosa insolita per quei tempi (Terenzia addirittura
centenaria; in quanto a Publilia, era ancora viva durante l'impero di Tiberio,
avendo sposato in seconde nozze il console Gaio Vibio Rufo, secondo quanto
afferma Cassio Dione). Prole È
universalmente noto l'amore di C. per la figlia Tullia, sebbene il matrimonio
con Terenzia, da cui lei era nata, fosse stato un matrimonio di convenienza.
Tullia era l'unica persona che C. non criticò mai. La descrive così in una
lettera al fratello Quinto: «Com'è affettuosa, com'è modesta, com'è
intelligente! Quando lei si ammalò improvvisamente nel febbraio del 45 a.C. e
morì, dopo che era sembrato che potesse guarire, dando alla luce un figlio, C.
scrisse ad Attico: «Ho perso l'unica cosa che mi legava alla vita».[17] Attico invitò C. ad andarlo a trovare nelle
prime settimane dopo la morte di Tullia per poterlo consolare. Nella grande
biblioteca di Attico, C. lesse tutto quello che i filosofi greci avevano
scritto circa il superamento del dolore, «...ma il mio dolore sconfigge ogni
consolazione».[90] Cesare e Bruto gli spedirono lettere di condoglianze, e così
fece anche il suo vecchio amico e collega, l'avvocato Servio Sulpicio Rufo.
Questi spedì una lettera che in seguito è stata molto apprezzata, piena di
riflessioni sulla fugacità di tutte le cose.
Dopo un po', C. decise di abbandonare ogni compagnia per ritirarsi in
solitudine nella sua villa di Astura, appena acquistata. Si trovava in un bosco
solitario, ma non lontano da Napoli, e per molti mesi non fece altro che
camminare per il bosco, piangendo. Scrisse ad Attico: «Io mi immergo là nel
bosco selvatico e fitto la mattina presto, e vi soggiorno fino a sera».[17] Più
tardi decise di scrivere un libro per insegnare a se stesso come superare il
dolore; questo libro, intitolato Consolatio, fu estremamente apprezzato in
antichità (in particolare da Sant'Agostino), ma sfortunatamente è andato
perduto, e ne restano solo pochi frammenti. In seguito C. progettò anche di far
erigere un piccolo tempio alla memoria di Tullia, la "sua
incomparabile" figlia, ma poi non portò a termine il progetto, per ragioni
ignote. C. sperava che il figlio Marco
scegliesse di diventare filosofo come lui, ma era un'aspettativa priva di basi:
Marco, per conto suo, desiderava intraprendere la carriera militare, e nel 49
a.C. si unì a Pompeo ed al suo esercito, e partì con loro per la penisola
ellenica. Quando nel 48 a.C., dopo la disastrosa sconfitta dei pompeiani a
Farsalo, Marco si presentò a Cesare, questi lo perdonò. C., allora, non perse
tempo, e lo mandò ad Atene a formarsi nella scuola del filosofo peripatetico
Cratippo, ma Marco, ben distante dall'occhio vigile del padre, passò il tempo a
mangiare, bere e divertirsi, seguendo le lezioni del retore Gorgia. Dopo l'assassinio del padre, Marco si unì
all'esercito dei Liberatores, guidati da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio
Longino, ma dopo la sconfitta nella battaglia di Filippi, nel 42 a.C., fu
perdonato da Ottaviano. Questi, infatti, sentendosi in colpa per aver permesso
che C. fosse inserito nelle liste di proscrizione del secondo triumvirato,
decise di favorire la carriera del giovane Marco. Quest'ultimo divenne, dunque,
augure, e fu poi nominato prima console nel 30 a.C. assieme allo stesso
Ottaviano, e poi proconsole in Siria e nella provincia d'Asia. L'umorismo ciceroniano [91] Vedendo un busto marmoreo che raffigurava suo
fratello Quinto, uomo di bassa statura, C. osservò: "Che strano! Mio
fratello è più grande quando è mezzo che quando è intero" Anche il marito
della figlia non era alto, e vedendolo indossare l’armatura e le armi di
legionario C. chiese ai presenti: "Chi ha legato mio genero alla
spada?". Un certo Vibio Curione aveva il vezzo di abbassarsi l'età e C.:
"Ma allora quando andavamo a scuola insieme non eri ancora nato?".
Saputo che Fabia Dolabella asseriva di avere trent’anni, C. assentì: "È
vero! Sono vent’anni che glielo sento dire." C. non aveva nobili natali
per cui il patrizio Metello Nepote lo derideva, durante le udienze in
tribunale, chiedendogli chi era suo padre. Ma C.: "Per quanto ti riguarda,
invece, tua madre ti ha reso difficile rispondere a questa domanda!" Ad un
avversario disonesto che lo attaccò in Senato domandandogli: "Perché abbai
tanto?", C. rispose: "Perché vedo un ladro!" C. politico Lo stesso argomento in dettaglio: Pensiero
politico di C.. Busto di C. (LA)
«Potestas in populo, auctoritas in senatu»
(IT) «Il potere è del popolo, l'autorità del senato» (Marco Tullio C., De Legibus,3,12) Come uomo politico, C. è sempre stato
bersaglio della critica di antichi e moderni. Le accuse mossegli vanno
dall'incoerenza alla vanità, alla poca lungimiranza. Ma la sua conduzione
oggettivamente può essere giustificata se la si contestualizza nella politica
del tempo, fatta in un mobile gioco di accordi e conflitti tra gruppi di potere
e famiglie nobili, che sfruttavano le etichette di partito per mire
personali. «C. era attaccato al governo
repubblicano per tradizione e per ricordo, rammentando le grandi cose che esso
aveva fatto e a cui egli, come molte altre persone, doveva le sue dignità, il
suo grado sociale e il nome. Non poteva dunque pensare a rassegnarsi così
facilmente alla sua caduta, anche se la libertà effettiva non esisteva più a
Roma, e non ne restava che l'ombra. Non bisogna biasimare coloro, come C., che
vi s'attaccano e fanno sforzi disperati per non lasciarla perire, poiché
quest'ombra, questa apparenza li consola della libertà perduta e infonde loro
qualche speranza di riconquistarla. Questo era ciò che pensavano i Romani che,
come C., dopo matura riflessione, senza entusiasmo, senza passione, e senza
speranza, andarono a raggiungere Pompeo»; questo è ciò che Lucano fa dire a
Catone in quei versi ammirevoli che esprimono i sentimenti di tutti coloro che,
senza nascondere la triste condizione della Repubblica, si ostinarono a
difenderla fino alla fine: «Come un padre, che ha or ora perduto il figlio,
prova una sorta di piacere a dirigere i riti funebri, accende con le sue mani
il rogo, non lo lascia che a malincuore e il più tardi possibile, così, Roma,
io non t'abbandonerò prima di averti tenuta morta tra le mie braccia. Io
seguirò fino alla fine il tuo solo nome, o libertà, anche quando non sarai più
che un'ombra vana».[92] Preoccupazione
costante di C. fu la difesa dello status quo e dei diritti della grande
proprietà latifondista, desideroso soprattutto di acquisire presso i notabili
romani il credito necessario per entrare a far parte della classe dirigente.
Egli si adoperò quindi per la conservazione del potere e dei privilegi di cui
godeva la classe degli optimates, secondo una formula che, in sostanza,
significava sicurezza e tranquillità (otium) per tutti i possidenti, e che
implicava che il potere (dignitas) rimanesse nelle mani di un'oligarchia. Il
suo preteso desiderio che in questa élite si entrasse per "merito" e
non per nascita, quand'anche non lo si voglia meramente intendere come un
sottinteso riferimento alle sue vicende personali, rimase comunque
un'astrazione teorica, un'utopia, anche per l'assenza, allora come oggi, di una
vera modifica nel tessuto politico e sociale della Repubblica.[93] C. fu, inoltre, sostenitore dell'ideale
politico della concordia ordinum (intesa tra il ceto equestre e senatorio
divenuta poi concordia omnium bonorum, ovvero concordia di tutti i cittadini
onesti), e la esaltò, in particolare, nella quarta orazione contro Catilina:
allora, per la prima volta nella storia tardo repubblicana, i senatori, i
cavalieri ed il popolo si trovarono d'accordo sulle decisioni da prendere,
decisioni dalle quali dipendeva la salvezza dello stato. C. auspicava che la
concordia potesse durare per sempre, pur capendo che essa era nata, in quel
particolare frangente, solo per la pressione emotiva: d'altronde, la concordia
non faceva leva su un particolare progetto politico, ma solamente su motivi di
carattere sentimentale ed economico.[94]
C. filosofo Per le opere, vedi l'apposita sezione La filosofia prima di C. Ritratto di C. C. fu il primo degli autori
romani a comporre opere filosofiche in latino: ne andava, infatti, molto fiero,
ma si scusava, allo stesso tempo, di aver dedicato alla filosofia così tanto
tempo. Alcuni, infatti, ritenevano che fosse disdicevole per un uomo romano
dedicarsi alla filosofia, altri pensavano che comunque non bisognasse dedicarle
più di un certo tempo. Altri ancora, infine, erano convinti sostenitori della
totale superiorità della filosofia greca e consideravano per l'appunto solo le
opere greche degne di essere lette.[95] C.
era però convinto che, se i Romani si fossero dedicati seriamente alla
filosofia, avrebbero allora raggiunto le stesse vette dei Greci, che già
avevano eguagliato nella retorica. Ma il gusto per le speculazioni filosofiche
era totalmente estraneo alla società romana: il vir era, d'altronde, un uomo
d'azione. I Romani conobbero la filosofia grazie al contatto con i Greci, ma
consideravano inutile, se non addirittura deleteria, una vita spesa alla
continua ricerca di un sapere che non portava nessuna gloria alla patria né
alcuna ricchezza. Il Senato arrivò, infatti, addirittura ad espellere dall'Urbe
i filosofi ateniesi che vi erano giunti in visita nel 155 a.C., Carneade,
Diogene e Critolao.[95] La stessa
nobilitas senatoriale non voleva, poi, che il popolo e i giovani si
interessassero alla filosofia (che avrebbe prodotto in loro un certo amore per
l'otium, allontanandoli dalla vita reale), ma furono costretti ad ammettere che
nessun uomo degno di tale nome poteva restare estraneo a questa scienza. I
senatori decisero di richiamare a Roma i filosofi che avevano scacciato per
prendere da loro delle vere e proprie lezioni di filosofia, vietando, comunque,
loro di insegnare la filosofia pubblicamente. Persino Marco Porcio Catone,
fiero oppositore della penetrazione della cultura greco-ellenistica a Roma,[96]
studiò la filosofia greca, come tutti gli esponenti dell'oligarchia senatoriale
del tempo.[95] A riscuotere un
istantaneo successo a Roma fu lo stoicismo, ma presto ad esso si unirono le
altre dottrine, i cui esponenti arrivarono "in massa" a Roma nel
corso del I secolo a.C. In poco tempo, dunque, la situazione aveva subito un
totale ribaltamento e non esisteva più uomo estraneo alla filosofia.[95] Formazione filosofica di C. C. non si
comportò diversamente dai suoi contemporanei, ma, almeno in gioventù, studiò la
filosofia convinto che si trattasse esclusivamente di un valido supporto per la
retorica: iniziò a comporre opere filosofiche, infatti, soltanto in tarda età,
quando solo la composizione, appunto, poteva essere l'impiego del suo tempo
libero. Nella filosofia C. cercò e seppe trovare la consolazione di cui aveva
bisogno, il rimedio somministratogli dall'antica saggezza.[95] Da giovane, C. studiò d'impulso
l'epicureismo, dottrina che aveva avuto numerosi discepoli anche a Roma, tra
cui Amafinio, Cazio e Lucrezio. In principio, C. fu, infatti, allievo di
filosofi epicurei, quali Fedro e Zenone. Più tardi, sotto l'influsso di altri
maestri, abbracciò, almeno in parte, lo stoicismo, ma non ne fu mai un convinto
sostenitore: come altri al suo tempo, elaborò una personale fusione tra le due
filosofie, in modo eclettico.[95] Mostrò, tuttavia, forti preferenze per la
dottrina accademica insegnatagli da Filone: la teoria del probabilismo e del
verosimile si adattavano perfettamente ad una personalità quale quella di C., a
cui si addiceva perfettamente anche l'elevazione morale dello stoicismo. Questa
particolare mescolanza fra più filosofie fu la vera filosofia di C..[95] Opere
Marci Tullii Ciceronis Opera Omnia, 1566 Scritti filosofici Frontespizio di una stampa del De officiis;
Christopher Froschouer, 1560 Le opere filosofiche di C. costituiscono
un'importante fonte su teorie filosofiche ellenistiche poco documentate
direttamente. In particolare gli Academica sono una testimonianza essenziale
sullo scetticismo della media Accademia. In molti casi C. traduce per la prima
volta in latino termini filosofici greci.[97] Ad esempio i termini probabile e
probabilità, usati con leggere varianti in tutte le lingue occidentali per
indicare concetti filosofici e scientifici, traggono il loro significato
attuale dalla scelta di C. di tradurre con il latino probabilis il termine
πιθανὸς (pithanòs), nel senso in cui esso è usato da Carneade.[98] Il De re publica e il De legibus, e la
traduzione del Timeo e del Protagora contribuirono a diffondere a Roma il
Platonismo.[99] Panoramica alfabetica di
tutte le opere filosofiche Academica priora (prima stesura dei libri sulla
dottrina della conoscenza dell'accademia platonica). Catulus (Dialogo), la
prima parte dell'Academica priora, perduto. Lucullus (Dialogo), la seconda
parte dell'Academica priora, conservato. Academici libri oppure Academica
posteriora (versione tarda del trattato sulla dottrina della conoscenza
dell'accademia platonica, in quattro libri). Cato Maior de senectute
("Catone il censore, sull'anzianità"). C. immagina Catone il Censore
all'età di 84 anni ed esprime la sua nostalgia del buon tempo antico, quando a
Roma l'uomo politico eminente poteva mantenere prestigio e autorevolezza fino
alla più tarda età. Consolatio: una consolazione a sé stesso scritta alla morte
dell'amata figlia Tullia, in cui C. esorta a considerare la caducità di ogni
cosa e l'importanza della filosofia. L'opera è andata perduta. De Divinatione
("Sulle profezie"): Quest'opera, probabilmente la più originale tra
tutte quelle composte da C., mette in luce un'opinione molto esplicita sulla
fiducia che bisogna riporre nell'arte aruspicina. Sebbene discuta anche delle
opinioni stoiche al riguardo, si nota che C. tratta gli argomenti con la
dimestichezza di chi ha potuto osservare da vicino il funzionamento della
religione romana (nelle vesti di augure), e può trarne un lucido giudizio, che
non può non essere negativo. Da quest'opera e dal terzo libro del De natura
deorum i primi cristiani attinsero argomenti per combattere il politeismo. De
finibus bonorum et malorum ("Sui confini del bene e del male"). È un
dialogo in cinque libri che si pone il problema di cosa sia il sommo bene,
tenendo in considerazione le due filosofie antiche stoica ed epicurea che,
rispettivamente, lo classificavano come virtù e piacere. De Fato ("Sul
Fato"), giuntoci non integralmente. Viene argomentata la dottrina
provvidenzialistica degli stoici. De natura deorum ("Sull'essenza degli
dei"): Il De natura deorum fu scritto nel 44 a.C., subito prima della
morte di Cesare, ed inviato a Bruto. C. orchestra una conversazione tra un
epicureo, Velleio, uno stoico, Balbo, ed un accademico, Cotta, che espongono e
discutono le opinioni dei vecchi filosofi sugli dei e sulla Provvidenza.
L'ateismo dissimulato di Epicuro viene confutato da Cotta, che sembra rappresentare
lo stesso C.. Cotta prende, poi, la parola, per confutare anche il pensiero
stoico riguardo alla Provvidenza. Se C. respingeva con certezza il parere degli
epicurei al riguardo, non possiamo, invece, sapere con altrettanta certezza
cosa pensasse della religiosità dello stoicismo: le parole di Cotta,
pervenuteci, tra l'altro, solo in parte, non contengono nessuna riflessione
dello stesso C.. Si è però ipotizzato che C. abbracciasse almeno in parte il
probabilismo accademico, sebbene suoi ammiratori fossero invece convinti che si
fosse allontanato del tutto dallo scetticismo. Comunque, è importante il poter
constatare l'estrema discrezione dell'atteggiamento di C.: egli è persuaso che
il culto nell'esistenza degli dei e nella loro azione sul mondo debba
esercitare una profonda influenza sulla vita, e che è, dunque, di un'importanza
fondamentale per il governo di uno stato. Esso deve, perciò, essere mantenuto
vivo nel popolo. Sono il politico e l'augure che parlano. C. non trova gli
argomenti degli stoici molto convincenti, e li confuta per mezzo di Cotta.
Infine, si dice incline a credere che gli dei esistano e che governino il
mondo: lo crede, perché è un'opinione comune a tutti i popoli. Questo"
accordo" universale equivale per lui ad una legge della natura (consensus
omnium populorum lex naturae putanda est). In quanto alla pluralità degli dei,
sebbene non si esprima categoricamente su questo punto, sembra che non ci
creda, o per lo meno che, come gli stoici, consideri gli dei come nient'altro,
per così dire, che le emanazioni del Dio unico. Concepisce poi questo Dio unico
come uno spirito libero e privo di qualsiasi elemento mortale, all'origine di
tutto. Non risparmia, invece, i racconti mitici del politeismo greco-romano;
schernisce e condanna le leggende comuni a tutti i popoli. Era soprattutto
questa parte dell'opera, il terzo libro, ad affascinare i filosofi del XVIII
secolo: non era difficile mettere in luce gli aspetti ridicoli della religione
popolare, e si può dire che anche al tempo di C. ciò era diventato un luogo
comune filosofico. Gli uni, respingendo con disprezzo queste favole, che
giudicavano grossolane, respingevano anche ogni credenza; gli altri adottavano
la dottrina stoica. A C., invece, l'esistenza degli dei appariva come necessaria:
tutti i popoli credevano, e di conseguenza credeva anche lui. Pressappoco nello
stesso modo, C. analizza, poi, il tema dell'immortalità dell'anima, prendendo
in prestito molte delle opinioni espresse a questo proposito da Platone.[100]
De officiis ("Sui doveri"): Il De officis, che - pare - fu scritto
dopo la morte di Cesare, nel 44 a.C., è l'ultima opera filosofica di C., che la
dedicò al figlio Marco, che si trovava ad Atene. L'opera, ispirata ad un lavoro
dello stoico Panezio, è divisa in tre libri: il primo tratta di ciò che è
onesto, il secondo di ciò che utile, ed il terzo traccia una comparazione tra
utile ed onesto. Nell'opera, C. non fornisce profonde spiegazioni con rigore
scientifico, ma enuncia una serie di ottimi precetti, indispensabili per fare
di un uomo un buon cittadino romano, ligio ai suoi doveri e dunque in grado di
vivere nell'ottica della virtus. Hortensius: sorta di protrettico ovvero
esortazione alla filosofia, modellata su un'analoga opera perduta di
Aristotele. Come testimoniato dal proemio al II libro del De divinatione, in
essa appariva Quinto Ortensio Ortalo, il quale svalutava l'attività filosofica;
contro questa tesi si pronunciava C.. L'opera fu assai apprezzata
nell'antichità, specie da Agostino; essa è andata perduta e gli unici frammenti
pervenutici provengono da citazioni che ne fa appunto Agostino. Laelius seu de
amicitia ("Lelio" o "sull'amicizia"). Paradoxa Stoicorum
(Teoremi di spiegazione dei paradossi etici della scuola degli stoici): Si
tratta di esercitazioni di casistica oratoria, spesso giudicate di basso
livello dalla critica. Tusculanae disputationes ("Conversazioni a
Tusculum"): Le Tusculanae disputationes furono composte nel 45 a.C., sotto
la dittatura di Cesare, quando Catone Uticense era già stato costretto al
suicidio e la repubblica aveva, in fin dei conti, cessato di esistere. Il
dittatore si era dimostrato clemente, ma aveva dato a intendere agli
intellettuali che non avrebbe accettato una loro "insubordinazione":
a C., che aveva scritto un libro in memoria di Catone, Cesare aveva risposto
con l'Anticato ("Anticatone"), in cui criticava l'illustre morto,
mostrando quale sarebbe stato il suo atteggiamento verso gli oppositori. Per C.
la situazione era davvero complicata: sua figlia Tullia era appena morta, e la
vita politica aveva perso ogni senso. L'oratore decise dunque di ritirarsi
nella villa di Tusculum, particolarmente amata da Tullia, dove si dedicò allo
studio della filosofia. Gli argomenti delle disputationes rispecchiano dunque
il suo stato d'animo: cos'è la morte? Cos'è il dolore? C'è un modo per
alleviare le afflizioni dell'animo? Cosa sono le passioni? Come si deve
confrontare il saggio nei confronti di questi elementi turbatori della propria
imperturbabilità? Infine: cos'è la virtù? Basta a rendere felice una vita? Tra
le ultime riflessioni ve n'è anche una a proposito del suicidio, inteso come
mezzo per eludere la morte. C. tratta questi temi con il suo solito stile
eloquente, ma vi si intravede un forte senso d'impotenza: è evidente che il suo
pensiero è sempre rivolto, nonostante tutto, a Roma ed alla politica. De re
publica ("Sulla repubblica"), sul modello della Repubblica di
Platone. De legibus ("Sulle leggi"): Il De legibus fu composto
probabilmente nel 52 a.C., dopo che C. era stato nominato augure. Si tratta di
uno scritto che può considerarsi complementare del De re publica, del quale
ricalca pregi e difetti: non è un lavoro puramente filosofico, né un semplice
trattato di giurisprudenza, ma piuttosto un compromesso tra le due scienze. Nel
primo libro, ispirato all'omonima opera di Platone e al trattato Sulle leggi di
Crisippo, C. dimostra con una grande elevazione di pensiero e di stile
l'esistenza di una legge universale, eterna, immutabile, conforme alla ragione
divina, che si confonde con lei. Proprio la ragione divina, infatti,
costituisce il diritto naturale, che esisteva prima di tutti gli ordinamenti.
Dopo quest'avvio, C. passa all'analisi delle leggi in rapporto alle varie forme
di governo, così come farà, molto tempo dopo, Montesquieu. Non avendo a
disposizione altra repubblica all'infuori di quella romana, C. non immagina
leggi diverse da quelle romane: esse sono le leggi perfette. Terminata
l'analisi, C. si limita, nel secondo libro, ad enunciare le poche che possono
essere considerate imperfette, soprattutto tra quelle che regolano il culto.
L'attenta analisi delle consuetudini religiose appare, alla luce della data di
pubblicazione, come un'attenta manovra di propaganda, con la quale C. appare ai
suoi concittadini come uomo ben degno della carica sacerdotale che gli è stata
affidata. Nel terzo libro, di cui sono andati perduti alcuni passi, C. analizza
la natura e l'organizzazione del potere, il carattere delle diverse funzioni
dello stato e l'antagonismo salutare che deve esistere tra le forze che lo
costituiscono. Queste domande, di interesse generale così vivo poiché toccavano
direttamente il problema della libertà politica, avevano un'importanza considerevole
per i contemporanei di C.. Quale doveva essere la parte dell'aristocrazia o del
senato, e quale quella del popolo nel governo della repubblica? Non era lontano
il tempo in cui Cesare avrebbe dato la risposta definitiva a questo quesito, e
tutti coloro che presagivano ciò che sarebbe accaduto tentavano di rafforzare
l'autorità della nobilitas e del senato. Nell'opera, il fratello di C., Quinto,
è fortemente contrario al tribunato della plebe, carica che ritiene
potenzialmente troppo pericolosa: C., pur discostandosi dalle opinioni del
fratello, riconosce il pericolo che il tribunato della plebe costituisce per il
mantenimento della calma e della pace. Possediamo solamente i primi tre libri
del De legibus: ce n'erano probabilmente sei. Il quarto era dedicato all'esame
del diritto politico, il quinto al diritto criminale, il sesto al diritto
civile. Si trattava di opere particolarmente preziose, perché C. non ha mai
trattato altrove gli stessi argomenti. Non dimentichiamo che i trattati De re
publica e De legibus furono scritti in un'epoca durante la quale la
costituzione romana era ancora in piedi, prima della guerra civile e la fine
dell'antica libertà. Questa circostanza spiega il carattere dei due lavori:
sono al tempo stesso libri teorici e pratici, ed anche tecnici. Dopo l'avvento
di Cesare, l'elemento speculativo dominerà nella filosofia di C., che infatti
fuggirà la vita pubblica per ritirarsi nella contemplazione.[101] Orazioni C. mentre pronuncia un'orazione in Senato.
Particolare, Cesare Maccari, 1882-1888, Villa Madama, Roma. (LA) «In principiis
dicendi tota mente atque artubus contremisco.»
(IT) «All'inizio di un discorso mi tremano le gambe, le braccia e la
mente.» (Marco Tullio C.) C. è certamente il più celebre oratore
dell'antica Roma. Nel Brutus egli ritiene completato con se stesso (non senza
un certo fine autocelebrativo) lo sviluppo dell'arte oratoria latina, e già da
Quintiliano la fama di C. quale modello classico dell'oratore è ormai
incontrastata. C. ha pubblicato da sé la maggior parte dei suoi discorsi;
cinquantotto orazioni (alcune parzialmente lacunose) sono state rinvenute nella
versione originale mentre circa cento sono conosciute per il titolo o per
alcuni frammenti. I testi si possono dividere tra orazioni pronunciate di fronte
al Senato (o al popolo) e tra le arringhe pronunciate in qualità di -
utilizzando termini moderni - avvocato difensore o pubblica accusa, nonostante
anche questi ultimi abbiano spesso un forte substrato politico come nel
celeberrimo caso contro Gaio Verre (unica volta in cui C. compare come
accusatore in un processo penale). Il suo successo è dovuto alla sua abilità
argomentatoria e stilistica, che si sa adattare perfettamente all'oggetto
dell'orazione e al pubblico,[104] soprattutto alla sua tattica astuta, che si
adatta di volta in volta al particolare uditorio, appoggiando appropriatamente
diverse scuole filosofiche o politiche, al fine di convincere il pubblico
contrario e raggiungere il proprio scopo.
Tecniche di memorizzazione Per memorizzare i suoi discorsi C. utilizzava
una tecnica associativa che venne chiamata tecnica dei loci o tecnica delle
stanze.[105] Egli scomponeva il discorso in parole chiave e parole concetto che
gli permettessero di parlare dell'argomento desiderato e associava queste
parole, nell'ordine desiderato, alle stanze di una casa o di un palazzo che
conosceva bene, in modo creativo e insolito. Durante l'orazione egli immaginava
di percorrere le stanze di quel palazzo o di quella casa, e questo faceva sì
che le parole concetto del suo discorso gli venissero in mente nella sequenza
desiderata. È da questo metodo di memorizzazione che derivano le locuzioni
italiane "in primo luogo", "in secondo luogo" e così
via. Panoramica alfabetica di tutte le
orazioni De domo sua ad pontifices ("Sulla propria casa, al collegio
pontificale", 57 a.C.): arringa pronunciata per uno scopo particolare:
durante l'esilio di C. il suo avversario Clodio aveva consacrato una parte
della proprietà di C. sul Palatino alla dea Libertas; C. dichiara questa
consacrazione invalida per ottenerne la restituzione. È da tale contesto che
nasce la locuzione Cicero pro domo sua. De haruspicum responsis ("Sul
responso degli aruspici", 56 a.C.): Clodio redige un passo sulla
profanazione di alcune reliquie durante una perizia degli aruspici sul terreno
di C. sul Palatino e chiede la demolizione di una casa di C. ivi in
costruzione. Contro questa ed altre accuse C. si rivolge con un appello al
Senato, nel quale spiega, che la maggior parte delle accuse di Clodio si basano
su indagini dolosamente carenti. De imperio Cn. Pompei (De lege Manilia)
("Sul comando di Gneo Pompeo (sulla legge Manilia)", 66 a.C.),
orazione di carattere politico pronunciata di fronte al popolo in occasione
dell'attribuzione, effettuata su proposta del tribuno della plebe Gaio Manilio,
a Gneo Pompeo di poteri speciali per la conduzione di una campagna militare
contro il re del Ponto Mitridate VI. De lege agraria (Contra Rullum) I–III
("Sulla legge agraria (contro Rullo)", 63 a.C.): orazione pronunciata
durante l'anno di consolato, tenuta in Senato (I) e davanti al popolo (II/III);
un quarto dell'orazione è stato perduto. De provinciis consularibus
("Sulle province consolari", 56 a.C.), orazione pronunciata in senato
riguardo alle province consolari romane. De Sullae bonis ("Sui beni di
Silla", 66 a.C.). Divinatio in Caecilium ("Dibattito contro
Cecilio", 70 a.C.), dibattito riguardo all'assunzione del ruolo di
accusatore nel processo contro Verre. Quinto Cecilio Nigro fu sotto Verre
questore in Sicilia e presentò la propria candidatura nel ruolo di accusatore.
Per C. egli era infatti invischiato nelle macchinazioni di Verre. In L.
Calpurnium Pisonem ("Contro Lucio Calpurnio Pisone", 55 a.C.),
orazione d'accusa politica contro Lucio Calpurnio Pisone Cesonino. In Catilinam
I–IV ("Contro Catilina I-IV" ovvero "Le Catilinarie", 63
a.C.), orazioni contro Lucio Sergio Catilina: i discorsi del 7 e dell'8
novembre 63 a.C. pronunciati di fronte al Senato (I) e al popolo (II); i
discorsi della scoperta e della condanna dei seguaci di Catilina, del 3
dicembre di fronte al popolo (III) e del 5 dicembre di fronte al Senato (IV) In
P. Vatinium ("Contro Publio Vatinio", 56 a.C.), orazione accusatoria
contro P.Vatinio riguardo all'interrogatorio nel processo contro P.Sestio. In
Verrem actio prima ("Prima accusa contro Verre", 70 a.C.), orazione
accusatoria nel processo contro Verre, accusato di concussione (crimen
pecuniarum repetundarum) In Verrem actio secunda I–V ("Seconda accusa
contro Verre I–V", 70 a.C.), questi cinque discorsi non sono mai stati
pronunciati a causa dell'esilio volontario di Verre, ma vennero comunque
pubblicati in forma scritta. Oratio cum populo gratias egit
("Ringraziamento al popolo", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro
che hanno appoggiato il ritorno di C. dall'esilio, e gli hanno permesso il
rientro nella vita politica. Oratio cum senatui gratias egit
("Ringraziamento al senato", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro
che in Senato hanno appoggiato il ritorno di C. dall'esilio, e gli hanno
permesso il rientro nella vita politica. Philippicae orationes I – XIV
("Le filippiche"), orazioni contro Marco Antonio. Pro M. Aemilio
Scauro ("In difesa di M. Emilio Scauro", 54 a.C.), orazione
pronunciata nel ruolo di difensore di Marco Emilio Scauro. Pro T. Annio Milone
("In difesa di Tito Annio Milone", 52 a.C.), orazione difensiva,
originariamente diversa dalla versione pubblicata, non sortì il proprio effetto
in quanto la curia era assediata dai fedeli della fazione clodiana. Dopo
l'esilio di Milone subirà profonde modifiche per essere pubblicata quale ci è
pervenuta: la più bella orazione di C.. Contiene tra l'altro la celebre
citazione "Inter arma enim silent leges" Pro Archia ("In difesa
di Archia", 62 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore del
poeta antiochiano Aulo Licinio Archia. Pro Aulo Caecina ("In difesa di
Aulo Cecina", 69 a.C./ca. 71 a.C.), orazione tenuta per il querelante in
un processo civile per un'azione di rivendicazione. Il fondamento giuridico è
l'interdetto de vi armata (rimedio del possessore contro lo spossessamento
violento). Sostenitore della parte avversa è Gaio Calpurnio Pisone; entrambe le
parti fanno ricorso manifestamente all'autorevolezza del giurista Gaio Aquilio
Gallo. Pro M. Caelio ("In difesa di M. Celio", 56 a.C.), orazione
pronunciata nel ruolo di difensore. Pro A. Cluentio Habito ("In difesa di
Aulo Cluenzio Abito", 66 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di
difensore. Pro G. Cornelio ("In difesa di Gaio Cornelio", 65 a.C.),
orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro L. Cornelio Balbo ("In
difesa di Lucio Cornelio Balbo", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo
di difensore. Pro P. Cornelio Sulla ("In difesa di Publio Cornelio
Silla", 62 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Marco
Fonteio ("In difesa di Marco Fonteio", 69 a.C.), orazione pronunciata
nel ruolo di difensore. Pro Q. Ligario ("In difesa di Quinto Ligario"
46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Quinto Ligario,
indirizzata a Cesare in quanto dittatore. Pro Marco Marcello ("In difesa
di Marco Marcello", 46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore
di Marco Marcello, indirizzata a Cesare in quanto dittatore. Pro muliere
Arretina ("In difesa di una donna di Arezzo", 80 a.C.), orazione
pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Lucio Murena ("A favore di
Murena", 63 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore in un
processo di corruzione elettorale. Pro Gneo Plancio ("In difesa di Gneo
Plancio", 54 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro
Publio Quinctio ("In difesa di Publio Quinzio", 81 a.C.), il più
antico discorso giuridico tradizionale di C. a favore del querelante in un
processo civile. Oggetto del contendere è la legittimità dell'azione di
sequestro preventivo eseguita dal convenuto Sesto Nevio contro il cliente di C.
Publio Quinto. Difensore della parte avversa è Quinto Ortensio Ortalo, giudice
è Gaio Aquilio Gallo. Pro C. Rabirio perduellionis reo ("In difesa di Gaio
Rabirio, colpevole di alto tradimento", 63 a.C.), orazione pronunciata nel
ruolo di difensore. Pro Rabirio Postumo ("In difesa di Rabirio
Postumo"), 54 a.C./53 a.C. oppure 53 a.C./52 a.C.), orazione difensiva
pronunciata nella fase pregiudiziale del processo contro Aulo Gabinio a causa
di concussione nelle province. Verte attorno alla presenza di
"bustarelle" in connessione con la reintegrazione al trono d'Egitto
di Tolomeo XII Aulete. Pro rege Deiotaro ("In difesa del re
Deiotaro", 45 a.C.), orazione in difesa del Re Deiotaro, rivolta a Cesare
Pro Sex. Roscio Amerino ("In difesa di Sesto Roscio da Amelia", 80
a.C.), orazione di difesa, è la prima arringa di C. in un processo per
omicidio. Sesto Roscio era accusato di parricidio. Durante la guerra civile un
parente si era impossessato del patrimonio del padre di Roscio e ora cercava di
assicurarsi il maltolto, il quale apparteneva ai legittimi eredi del deceduto. C.
ottenne l'assoluzione. Pro Q. Roscio Comoedo ("In difesa dell'attore
Quinto Roscio", circa 77 a.C. o 76 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo
di difensore. Pro P. Sestio ("In difesa di Publio Sestio", 56 a.C.),
orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Titinia ("In difesa di
Titinia", 79 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Marco
Tullio ("In difesa di Marco Tullio", 72 a.C./71 a.C.), orazione
pronunciata nel ruolo di difensore. Pro L. Valerio Flacco ("In difesa di
Lucio Valerio Flacco", 59 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di
difensore. Miniatura quattrocentesca del
De oratore. Scritti di retorica Lo
stesso argomento in dettaglio: Retorica latina. Così come per C. è difficile
distinguere tra vita ed opere, così in particolare differenziare tra scritti
filosofici e retorici è sì pratico e chiaro, tuttavia non rappresenta
pienamente la concezione e l'opinione di C.. Già nella sua prima opera
conservata (De inventione I 1-5) chiarisce che la sapienza, l'eloquenza e
l'arte del governare hanno sviluppato un legame naturale, che indubbiamente ha
contribuito allo sviluppo della cultura degli uomini e che dev'essere
ristabilito. Egli ha in mente quest'unità come modello ideale sia negli scritti
teoretici sia anche nella sua propria vita activa al servizio della Repubblica
- o almeno è così che egli ha voluto idealizzare e vedere la propria
realtà. Perciò non è affatto
sorprendente se C. ha sviluppato i suoi scritti filosofici con i mezzi della
retorica e strutturato le sue teorie della retorica su principi filosofici. La
separazione tra sapienza ed eloquenza C. l'addossa alla "rottura tra
linguaggio e intelletto" compiuta dalla filosofia socratica (De oratore
III 61) e tenta attraverso i suoi scritti di "risanare" questa
frattura; e quindi per una migliore attuazione la filosofia e la retorica
secondo lui devono essere dipendenti l'una dall'altra (v. p.e. De oratore III
54-143); C. stesso dichiara che "io sono diventato un oratore non nelle
scuole dei retori ma nei saloni dell'Accademia": con ciò allude alla sua
formazione sulle dottrine della Nuova Accademia di Carneade e Filone di
Larissa, suo maestro. Panoramica
alfabetica delle opere sulla retorica pervenuteci Brutus: il libro dedicato a
Marco Giunio Bruto venne scritto all'inizio del 46 a.C. e tratta, nella forma
di un dialogo tra C., Bruto ed Attico, la storia dell'arte retorica romana fino
a C. stesso. Dopo un'introduzione (1-9) C. inizia un confronto con la retorica
greca (25-31) e sottolinea che l'arte oratoria poiché è la più complessa di
tutte le arti solo tardi giunse alla perfezione. Mentre ritiene gli antichi
oratori romani appena mediocri, parla di Catone come base della propria
esperienza. Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore, entrambi protagonisti
del De oratore, sono dettagliatamente confrontati (139 e ss.). Dopo
un'escursione sull'importanza del giudizio del pubblico (183-200) e una
riflessione sull'oratore Ortensio (201-283), C. respinge fermamente il modello
dell'Atticismo (284-300). L'opera culmina in confronto tra l'arte oratoria di
Ortensio e di C. stesso, non senza una notevole dose di autocelebrazione
(301-328), egli infatti presenta se stesso come il punto d'arrivo di un
processo di sviluppo dell'arte oratoria. Punto principale dell'opera è la
critica alla diffusione nello stile neoattico, a cui anche il giovane Bruto
appartiene, difendendo il suo stile, assai più ricco e magniloquente, dalla
critica di essere un esempio dello stile asiano. De inventione:
("L'invenzione retorica"): sviluppato tra l'85 a.C. e l'80 a.C.
questo è il primo di due libri di una descrizione globale della retorica, mai
completata. C. rinunciò a completarla, per dedicarsi ad una più accattivante
rappresentazione nel De oratore, e tuttavia l'opera servì, nonostante il
carattere frammentario, come testo d'insegnamento fino al Medioevo. La parte
completata tratta nel primo libro dei concetti principali della retorica (I
5-9), la dottrina dell'insegnamento della retorica in riferimento ad Ermagora
di Temno (I 10-19) nonché il ruolo dell'oratore (I 19-109); il secondo libro
tratta delle tecniche d'argomentazione, soprattutto nelle arringhe giuridiche
(II 11-154) nonché brevemente delle orazioni di fronte al popolo (II 157-176) e
in occasione di celebrazioni (II 177-178). Le dichiarazioni di C. per quanto
riguarda il contenuto dell'opera presentano molte somiglianze con la Rhetorica
ad Herennium, ma per lungo tempo erratamente ritenuta sua, cosa che ha portato
a numerose discussioni tra gli studiosi riguardo al rapporto tra le due opere.
Entrambi gli scritti sono all'incirca dello stesso periodo e si basano
direttamente o indirettamente sulle medesime o su affini fonti greche. Inoltre
c'è una notevole somiglianza letterale in alcuni periodi, cosa che suggerisce
probabilmente anche una comune fonte latina, forse originata da un comune
insegnamento dottrinario che ha mediato il preponderante contenuto di origine
greca. De optimo genere oratorum ("Sulla miglior arte
dell'oratoria"): questa breve opera, scritta probabilmente nel 46 a.C. o,
secondo altri pareri, già nel 50 a.C., è un'introduzione alla traduzione delle
orazioni di Demostene ed Eschine, per e contro Ctesifonte. L'introduzione verte
soprattutto sugli atticisti romani, all'incirca con le stesse argomentazioni
dell'Orator. La traduzione comunque non ci è pervenuta, e non è chiaro se C.
l'abbia mai effettivamente completata. L'autenticità dell'opera è stata più
volte messa in discussione, ma oggi è per lo più accettata. De oratore
(Sull'oratore): la più importante opera sulla retorica di C. non dev'essere
confusa con l'opera quasi omonima Orator. È un'opera composta nel 55 a.C. in
forma di dialogo, così come per il Brutus. I protagonisti stavolta sono Lucio
Licinio Crasso e Marco Antonio, esempi, secondo C., dei più grandi oratori
della generazione precedente. Nel I libro è Crasso (portavoce di C.) ad esporre
la tesi principale dell'opera ossia che il buon oratore deve avere
un'approfondita conoscenza dell'argomento di cui vuole trattare, osteggiando la
concezione di alcuni retori greci che ritenevano sufficiente una formazione
basata su regole, tecnicismi ed esercizi per affrontare qualsiasi discorso. Il
II libro tratta invece delle "parti" in cui si suddivide la retorica,
cioè l'inventio, la dispositio e la memoria; nel III libro si parla dello
stile, cioè l'elocutio, e dell'actio, cioè il modo in cui l'oratore deve
comportarsi durante l'orazione. Il de oratore è considerata l'opera di C.
scritta con più cura formale e per questo motivo è sempre stata utilizzata e
studiata come modello primo dello stile ciceroniano. Orator ("L'oratore"):
Venne scritta nell'estate del 46 a.C. ed è anche questa dedicata a Marco Giunio
Bruto e descrive un modello ideale del perfetto oratore, riprendendo molti dei
temi già trattati nel De oratore. Contrariamente alla disputa di quel tempo tra
gli atticisti, che - come Bruto - pretendono dall'oratore uno stile sobrio e
preciso, e gli asiani, che prediligono uno stile molto ricercato e
magniloquente, C. ritiene che il perfetto oratore, come Demostene, deve
dominare tutti gli stili e saper passare da uno all'altro con naturalezza. Per
questo motivo bisogna dedicarsi soprattutto alla formazione filosofica: solo
così potranno svolgere i tre compiti dell'oratore: probare, delectare, flectere
(dimostrare, divertire, convincere), i quali vengono bene ordinati e descritti
(76-99). C. parla anche qui brevemente dell'inventio (44-49), della dispositio
(50) ma tratta soprattutto dell'elocutio (51-236), soffermandosi sulle figure
retoriche e sulla costruzione ritmica del periodo. Partitiones oratoriae
("Partizione dell'arte oratoria"): Quest'opera venne scritta nel 54
a.C., quando il figlio di C., Marco, stava studiando la retorica, ed è ideata
come una sorta di 'catechismo', trattando la teoria della retorica, soprattutto
con divisioni schematiche, nella forma di domanda e risposta tra padre e
figlio. L'originalità di C. in quest'opera spicca molto meno, a causa dello
stile molto semplice e delle poche novità introdotte. I Topica (44 a.C.):
scritti nel corso del viaggio in Grecia, su sollecitazione dell'amico Trebazio,
trattano della dottrina dell'inventio divulgata da Aristotele, ovvero l'arte di
saper trovare gli argomenti. In questa produzione retorica vengono considerati
i luoghi (topoi) come ottimo spunto per ogni genere di argomento ed
utilizzabili per qualunque disciplina (poesia, politica, retorica, filosofia,
ecc.) Opere perdute Tra le opere tardive di C. si possono annoverare scritti
consolatori, contributi alla storiografia, poesie (alcune anche sul suo periodo
di consolato) e traduzioni. Queste opere sono per la maggior parte perdute.
Delle poesie ci rimangono comunque svariate citazioni anche in altri lavori
dello stesso C.. Questi frammenti dimostrano l'influenza di uno dei più
importanti poeti latini, Catullo e di altri neoterici. Panoramica alfabetica delle opere poetiche ed
epico-storiche di C. Alcyones: epillio composto da C. dopo il 92 a.C. nel quale
veniva cantato il mito di Alcione e del marito Ceice. Dato che questi si
paragonavano a Giove e Giunone per la loro ricchezza, sfarzosità e potenza, gli
dei fecero fare loro naufragio durante un tragitto in mare. Dato che Ceice morì
nella tempesta, Alcione si lasciò annegare per il dolore, così Giove tramutò
entrambi i defunti in uccelli alcioni. Aratea: libera traduzione giovanile dei
Fenomeni celesti del poeta ellenistico Arato di Soli. De consulatu suo:
poemetto autobiografico composto da C. tra il 60 a.C. e il 55 a.C. in cui si
parla dell'ascesa al consolato dell'autore e della sua vittoria nel processo
contro Lucio Sergio Catilina. De temporibus suis: altra opera autobiografica
perduta scritta nel 54 a.C. in cui C. celebrava i suoi interventi migliori
durante il consolato. Epigrammata ("Epigrammi"): componimenti
satirici scritti da C. quando aveva circa vent'anni. Stando alle testimonianze
di Quintiliano, l'opera era di genere comico e ironico e trattava di vari
argomenti fantastici e reali. Līmōn: il titolo deriva dal sostantivo greco
Λειμών, "prato"; ciò sottolineava il carattere variegato dell'opera,
un poema in esametri in cui venivano trattati diversi argomenti letterali e
sociali. Infatti una testimonianza di Svetonio riporta un giudizio severo
dell'autore riguardo a un'opera del commediografo Terenzio. Marius: poema
epico-storico in cui C. parla delle imprese del console Gaio Mario. L'opera è
importante per il passaggio dell'autore dal genere alessandrino a quello
storico mescolato alla poesia, cioè epico. Nilus: opera quasi sconosciuta. Si
pensa che C. l'abbia scritta per lodare le qualità del fiume Nilo dell'Egitto.
Pontius Glaucus: componimento in stile alessandrino di C.. Scritto circa nel 93
a.C., l'opera trattava del mito di Glauco, il quale dopo aver mangiato un'erba
afrodisiaca dai poteri magici, si trasformò in un animale marino. Tymhaeus:
vasti frammenti del lavoro compiuto sul Timeo di Platone, che C.
presumibilmente non ha mai pubblicato, preparando semplicemente abbozzi di
traduzione. Uxorius: opera nota quasi esclusivamente attraverso il titolo, che
significa Il marito devoto (alla moglie); si ritiene avesse argomento leggero e
carattere scherzoso, se non apertamente comico. Epistolario Edizione delle Epistole agli amici, Venezia
1547 Le epistole di C. furono riscoperte da Petrarca e dal cancelliere e
umanista Coluccio Salutati. Complessivamente furono ritrovate circa 864
lettere, delle quali una novantina furono scritte da corrispondenti, e ciò
inizialmente provocò un grande entusiasmo, temperato successivamente dal fatto
che l'immagine che traspariva di C. non era quella dello strenuo eroe difensore
della Repubblica, come si era sempre dipinto nelle sue opere e nelle sue
orazioni, ma una versione molto più umana, con le sue debolezze e i suoi
aspetti meno retorici, ma certamente affascinanti nella loro genuinità. Le epistole furono raccolte e archiviate dal
segretario di C., Tirone, fra il 48 e il 43 a.C. Si dividono in 4
categorie: Epistole agli amici
(Epistulae ad familiares) (16 libri) Epistole al fratello Quinto (Epistulae ad
Quintum fratrem) (3 libri) Epistole a Marco Giunio Bruto Epistole ad Attico
(Epistulae ad Atticum) (16 libri) Memoria Presente in tutto il Medioevo, il
ricordo di C. fiorì durante il Rinascimento[107]; Giovanni I di Brandeburgo
principe elettore del Brandeburgo nel XV secolo, venne ricordato, dopo la sua
morte, con l'appellativo di C., proprio a causa della sua eloquenza. Negli Stati Uniti d'America vi sono ben
quattro città cui è stato dato il nome "Cicero" in onore di Marco
Tullio C.. Inoltre l'espressione latina Cicero pro domo sua viene utilizzata
per descrivere chi parla sostenendo il proprio tornaconto, ma che maschera più
o meno bene il fine del suo discorso come perorazione per altra causa. Essa
deriva da un'orazione tenuta da Marco Tullio nel 57 a.C. per ottenere la
restituzione della propria casa, requisitagli durante l'esilio.[108] Il nome di C. è diventato un'antonomasia per
indicare la guida che accompagna i turisti nella visita a monumenti e luoghi
illustrando loro ciò che stanno visitando.[108] Parimenti con il nome C.
vengono identificate le marche da bollo, di diverso valore (e colore), ma tutte
riportanti l'effigie del busto di Marco Tullio C., da apporre agli atti
giudiziari, il cui ricavato alimenta il Fondo di previdenza degli avvocati. Note
^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., 2, 1. ^ Dionigi Antonelli,
Abbazie, prepositure e priorati benedettini nella diocesi di Sora nel Medioevo,
Pontificia Università Lateranense, Roma, Loffredo, S. Domenico di Sora e i
luoghi natali di C., Tipografia dell’Abbazia di Casamari, Veroli Narducci Rawson, p. 1. ^ Rawson, Rawson, Plutarco,
Vita di C., 1, 1. ^ Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di
C., 3, 2. ^ Rawson, pp. 14-15. ^ Plutarco, Vita di C., 2, 3. Rawson, p. 18. ^ Plutarco, Vita di C., 4,
5. C., Lettere ad Attico ^ Plutarco,
Vita di C., 3, 5. ^ Rawson, p. 22. ^ Plutarco, Vita di C. Haskell, p. 83. ^
Plutarco, Vita di C., 4, 1-2. ^ Rawson Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C.
Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., . ^ Plutarco,
Vita di C., 7, 8. ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., 9, 1. ^
Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. lutarco, Vita
di C., Sallustio, De Catilinae coniuratione, 5 ^ Plutarco, Vita di C.,
Plutarco, Vita di C. Sallustio, De Catilinae coniuratione, 29,2 ^ Plutarco,
Vita di C., Sallustio, De Catilinae coniuratione Sallustio, De Catilinae
coniuratione, 31,6 ^ Plutarco, Vita di C. Sallustio, De Catilinae coniuratione,
32,1 ^ Plutarco, Vita di C., Rawson, p. 106. ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco,
Vita di C. Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Haskell, p. 201. ^
Plutarco, Vita di C. Haskell, p. 204. ^ Plutarco, Vita di C. Rawson, Plutarco,
Vita di C., Plutarco, Vita di C. Everitt, Plutarco, Vita di C., Svetonio, Vite
dei Cesari, Gaio Giulio Cesare, 9. ^ C., Seconda Filippica Frank Frost Abbott, Commentary on Selected
Letters of Cicero, Preface, section 1, su www.perseus.tufts.edu. URL consultato
il 9 marzo 2023. ^ Appiano, Guerra civile Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita
di C., 42, 5. ^ Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., Svetonio, Vite dei
Cesari, Augusto 83,2 ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco,
Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C.,
Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita
di C., Seneca il vecchio, Suasoriae, trascrizione di un frammento di Tito
Livio, Ab Urbe condita libri, 120 ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. C.,
Lettere ai familiari ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., 41, 3. ^ C.,
Lettere ad Attico,12,18b,2 ^ Plutarco, Vita di C., 41, 4. ^ Plutarco, Vita di C.
Plutarco, Vita di C., 41, 7. ^ Plutarco, Vita di C., C., Lettere ad Attico Boldrer,
Oratoria e umorismo latino in C.: idee per l’inventio tra ars e tradizione -
Oratory and Latin Humour in Cicero: Inventio between Ars and Tradition, in
Ciceroniana Lucano, Pharsalia, II,300 ^ Risari, E. Lo scontro politico: i
"populares", in C., Le Catilinarie, Mondadori ^ E. Risari, L'ideale
politico: la "concordia ordinum", in: C., Le Catilinarie,
Mondadori L. Perelli, Il pensiero
politico di C.. Tra filosofia greca e ideologia aristocratica romana. ^ Tito
Livio, Ab Urbe condita libri Vedere: Claudio Moreschini, "Osservazioni sul
lessico filosofico di C.", Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe
di Lettere e Filosofia, e Alain Michel, "Cicéron et la langue
philosophique : problèmes d'éthique et d'esthétique", in: La langue
latine, langue de la philosophie, Actes du colloque de Rome (17-19 mai 1990),
Rome : École Française de Rome Le notizie riguardanti le opere di C. sono
tratte dalle opere stesse ^ La Bottega dei Traduttori, Traduttori del passato: C.
e la traduzione nel mondo antico, su La bottega dei traduttori, 21 dicembre
2023. URL consultato il 1º marzo 2024. ^ Perelli Perelli, p. 149. ^ Rawson, p.
303. ^ Haskell C., Orator ^ Janet Coleman, Ancient and Medieval Memories:
Studies in the Reconstruction of the Past, Cambridge C. C., L'Epistole di M.
Tullio C. scritte a Marco Bruto, Aldus, 1556. URL consultato il 9 marzo 2023. ^
Virginia Cox, John O. Ward (eds.), The Rhetoric of Cicero in Its Medieval And
Early Renaissance Commentary Tradition, 2006.
Voce de: Il Vocabolario Treccani, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana, vol. I, 1997 Bibliografia Fonti primarie Per le opere dello stesso C.
si vedano le apposite sezioni Appiano di
Alessandria, Historia Romana, pp. De Bellis Civilibus. ((EN) The Roman History
traduzione in inglese su LacusCurtius). Cassio Dione, Historia Romana. ((EN) Roman History traduzione in inglese su
LacusCurtius). Plutarco, Vitae parallelae, Vita Ciceronis. Lives traduzione in inglese di John Dryden). Sallustio,
De Catilinae coniuratione. The War With Catiline traduzione in inglese di John Carew Rolfe. Svetonio,
De Vita Caesarum, pp. libri I-II. (EN)
The Lives of the Twelve Caesars —
traduzione in inglese di John Carew Rolfe. Fonti secondarie G. Boissier, C. e i
suoi amici (Cicéron et ses amis), traduzione di Carlo Saggio, BUR Canfora,
Giulio Cesare. Il dittatore democratico, Laterza, Cox e John O. Ward (a cura
di), The Rhetoric of Cicero in Its Medieval and Early Renaissance Commentary
Tradition, Leiden, Brill, Everitt, Cicero. A turbulent life, Londra, John
Murray Fezzi, Il tribuno Clodio, Laterza, Fraschetti, Augusto, Laterza Fruttero,
Franco Lucentini, La morte di C., Nuovo Melangolo Gibbon, Declino e caduta
dell'Impero Romano, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1986, ISBN
88-04-34168-8. Pierre Grimal, C., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1986;
altre ediz.: Garzanti, Milano, 1987 e successive rist.; Il Giornale, Milano De
Caria Francesco, "C., Cato Maior 79-81 e Senofonte Ciropedia VIII 7,17 e C.
Cato Maior 59 e Senof. Oec. IV 20-25", in "Rivista di cultura
classica e medioevale Haskell, This Was
Cicero: Modern Politics in a Roman Toga, New York, Alfred A. Knopf, 1942.
Kazimierz Kumaniecki, C. e la crisi della Repubblica romana, Centro di Studi
Ciceroniani, Roma Lepore, Il princeps ciceroniano e gli ideali politici della tarda
Repubblica, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli, 1954 Ettore
Lepore, Il pensiero politico romano del I secolo, in Arnaldo Momigliano; Aldo
Schiavone (a cura di), Storia di Roma. Vol. II/1, Torino, Einaudi Marchesi,
Storia della letteratura latina, Principato, Narducci, C.. La parola e la
politica, Bari, Laterza, Narducci, Eloquenza e astuzie della persuasione in C.,
Firenze, Le Monnier, 2005, ISBN 88-00-81505-7. E. Narducci, Introduzione a C.,
Bari, Laterza, Perelli, Il pensiero politico di C.. Tra filosofia greca e
ideologia aristocratica romana, La nuova Italia Perelli, Storia della
letteratura latina, Paravia, 1969, ISBN 88-395-0255-6. (EN) E. Rawson, Cicero,
A portrait, Allen Lane Rawson, L'aristocrazia ciceroniana e le sue proprietà,
in Moses I. Finley (a cura di), La proprietà a Roma, Bari, Laterza, 1980. D. L.
Stockton, C.. Biografia politica, Milano, Rusconi Stroh, C., Bologna, Il Mulino
Traina, Marco Antonio, Laterza, Utcenko, C. e il suo tempo, Editori Riuniti. J.
Vogt, La repubblica romana, Bari, Laterza, 1975. P. Zullino, Catilina,
l'inventore del colpo di stato, Milano, 1985. Filosofia (EN) Raphael Woolf,
Cicero, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy,
Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università di
Stanford. (EN) Edward Clayton, Cicero, su Internet Encyclopedia of Philosophy.
Logica e Retorica nelle Opere Filosofiche di C., su historyoflogic.com.
Bibliografia delle Opere Filosofiche di C., su historyoflogic.com. Altri
progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Marco
Tullio C. Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua
latina dedicata a Marco Tullio C. Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene
citazioni di o su Marco Tullio C. Collabora a Wikiversità Wikiversità contiene
risorse su Marco Tullio C. C. su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Francesco Arnaldi, C., Marco
Tullio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, C.,
Marco Tullio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,
2010. Modifica su Wikidata C., Marco Tullio, in Dizionario di filosofia,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana C. su sapere.it, De Agostini. Modifica su
Wikidata (EN) John P.V. Dacre Balsdon e John Ferguson, Cicero, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (EN) Marco
Tullio C., in Jewish Encyclopedia, Funk and Wagnalls. Modifica su Wikidata (EN)
Marco Tullio C., su Internet Encyclopedia of Philosophy. Modifica su Wikidata
(EN) Marco Tullio C., su The Encyclopedia of Science Fiction. Modifica su
Wikidata Marco Tullio C., su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Modifica su
Wikidata Opere di Marco Tullio C., su Liber Liber. Modifica su Wikidata (LA)
Opere di Marco Tullio C., su Musisque Deoque. Modifica su Wikidata (LA) Opere
di Marco Tullio C., su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Opere di
Marco Tullio C. / Marco Tullio C. (altra versione) / Marco Tullio C. (altra
versione) / Marco Tullio C. (altra versione) / Marco Tullio C. (altra versione)
/ Marco Tullio C. (altra versione) / Marco Tullio C. (altra versione) / Marco
Tullio C. (altra versione), su MLOL, Horizons Unlimited. Modifica su Wikidata
(EN) Opere di Marco Tullio C., su Open Library, Internet Archive. Modifica su
Wikidata (EN) Opere di Marco Tullio C., su Progetto Gutenberg. Modifica su
Wikidata (EN) Audiolibri di Marco Tullio C., su LibriVox. Opere riguardanti
Marco Tullio C., su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata (EN)
Bibliografia di Marco Tullio C., su Internet Speculative Fiction Database, Al
von Ruff. Modifica su Wikidata (EN) Marcus Tullius Cicero, su Goodreads. Modifica
su Wikidata (FR) Bibliografia su Marco Tullio C., su Les Archives de
littérature du Moyen Âge. Tulliana - C. e il pensiero romano, su tulliana.eu,
Sito ufficiale della Società Internazionale degli Amici di C.. The Latin
Library:Tutte le opere di C., su thelatinlibrary.com. (EN) Opere di C.: testi
con concordanze e liste di frequenza, su intratext.com. Woolf, C., in Zalta, Stanford
Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information, Stanford.
Harald Thorsrud, Cicero: Academic Skepticism, su Internet Encyclopedia of
Philosophy. Principali edizioni digitalizzate (LA) Marco Tullio C., Epistolae.
[Antologia], [Milano], [Antonio Zarotto], [1480]. URL consultato l'8 aprile
2015. (LA) Marco Tullio C., Epistolae, Lutetiae, Ex officina Iacobi du Puys,
sub signo Samaritanae, è regione collegii Cameracensis Marco Tullio C.,
[Opere]. 1, Parisiis, Ex officina Iacobi du Puys, sub signo Samaritanae, 1566.
(LA) Marco Tullio C., [Opere]. 2, Lutetiae, Ex officina Iacobi du Puis, sub
signo Samaritanae, è regione collegii Cameracensis, 1565. (LA) Marco Tullio C.,
Orationes, Lutetiae, Ex officina Iacobi Dupuys è regione collegii Cameracensis
sub Samaritanae insigni Marco Tullio C., Orationes (antologie), Mediolani,
Regiis typis Opere di Cícero presso la Biblioteca Nazionale del Portogallo
Predecessore Fasti consulares Successore Lucio Giulio Cesare Gaio Marcio Figulo
63 a.C. con Gaio Antonio Ibrida Decimo Giunio Silano Lucio Licinio Murena C. V
· D · M Guerra civile romana V · D · M
Guerra civile romana V · D · M Poeti epici antichi V · D · M Plutarco
Grottaferrata Portale Antica Roma Portale Biografie Portale Età augustea Portale Filosofia Portale Letteratura Portale Lingua latina Portale Politica: accedi alle voci di
Wikipedia che trattano di politica Wikimedaglia Questa è una voce in vetrina,
identificata come una delle migliori voci prodotte dalla comunità. Voci in
vetrina in altre lingue Voci in vetrina in altre lingue senza equivalente su
it.wiki Categorie: Avvocati
romaniPolitici romani del I secolo a.C.Scrittori romaniScrittori Nati ad Arpino
Morti a Formia Marco Tullio C.Consoli repubblicani romani TulliiPolitici
assassinati Personaggi citati nella Divina Commedia (Inferno) Senatori romani
del I secolo a.C.Personaggi legati a un'antonomasiaGiuristi
romaniAuguriAforisti romaniPersone legate ai Misteri
eleusiniDecapitazioneStudiosi di traduzioneRetori romani[altre] . L'interesse
per la problematica semiotica nel mondo ro mano fa parte di quel processo di
costante e progressiva ac quisizione del patrimonio culturale greco, che
inizia nel III secolo a.C. Ma, nel passaggio dal mondo greco a quello ro mano,
il paradigma semiotico abbandona il campo della fi losofia in senso stretto,
per installarsi, in maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia
la conoscenza attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole
postaristoteliche, il modello stesso della conoscenza in generale e, a partire
dagli stoici, aveva trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica,
una delle branche più astratte della filosofia, in quanto sotto partizione
della stessa logica. Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente
orientati in direzione pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del
paradigma se miotico, ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più
congeniali, del dibattito politico e giudiziario, dibattito de stinato a
essere condotto con gli strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi
conto, nel modo più chiaro, del cambiamen to di prospettiva, basta mettere a
confronto l'atteggiamento di Aristotele con quello di C. nei riguardi della
retori ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un suo
importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema dei
segni; ma, come era già avve202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi analitici,
aveva tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella dei tipi di
sillogismo. Cosi fa cendo, aveva indicato un percorso ben preciso: la logica
stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de vono rimanere un
punto di riferimento anche quando l'inte resse si sposta, come nel caso della
retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni referenziali
a quelli efficaci . In C., e in genere nella trattatistica retorica roma na,
si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori ca non occupa più
il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al contrario, è la
filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui scopo è quello
di contri buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è l'elo quenza
l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del De oratore
(Il, 159-160) mostra abbastanza chia ramente l'opinione di C. circa i rapporti
tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene detto che i
dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma non di
produrne. In effetti, per C. la retorica costituisce il "corona
mento" della filosofia, dalla quale non può essere dissociata (De orat.,
III, 59-61), e non deve essere considerata una tec nica capace di aggiungere
un'espressione elegante a un pen siero già formato. Come mettono bene in luce
Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in C. agisce un principio,
sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se si parla bene, si pensa
anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramente bene se non quando si
parla ve ramente bene. Tuttavia la retorica, indiscutibilmente, presenta anche
un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra che essa è organiz zata secondo
due tipi di assi. Il primo concerne i tipi di di scorso: il discorso dei
tribunali (giuridico); il discorso del l'assemblea (politico); il discorso
delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo riguarda le parti della
retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono essere messi in atto per
strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri cerca degli argomenti);
dispositio (ordinamento di quel che 9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 203 è
stato trovato); elocutio (resa degli argomenti in forma or nata); memoria
(procedimenti mnemotecnici); actio (recita zione del discorso: gesti e
dizione). La problematica riguardante il segno si colloca nel cuore della
inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove che convincano
l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato. Le prove, in
retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e si
inseriscono nel pro gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo dei
due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro gramma è il
commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio
o sulla sua forza proba toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia,
come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare
l'espressione "prova" per indicare le probationes (pfsteis)
retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno tazione scientifica la
cui assenza appunto definisce le "pro ve" retoriche. Tuttavia, un
merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di
dare una classifi cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza
argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni
autore ha assolto in ma niera particolare, proponendo una classificazione che
non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi
paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li nee secondo le quali i tre
grandi autori della trattatistica re torica romana, cioè Cornificio (autore
della Rhetorica ad Herennium), C. e Quintiliano, ricostruiscono nelle
rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia scuno secondo
diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una
documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati
del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium, attribuita un tempo a C.
sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi asse
gnata a Cornificio (Calboli: 1969). 204 9. RETORICA LATINA La
problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della
constitutio coniecturalis dove, per verifica re se sia stata commessa o no una
determinata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la col
pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret tamente a cui i segni
devono rimandare non è il fatto o rea to, che è ovviamente noto, ma l'agente
responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un
certo fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed
è ben illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi
reso conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla
spada. Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma
insanguinata. Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del
fratello con la spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la
verità per congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione
nell'esempio Oa colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può
scaturire da una intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La
retorica antica, come ha sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una fiducia
incrollabile nel metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo e
l'ametodico non portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti
pico procedimento diairetico, suddivide lo stato congettura le in sei parti,
sei diverse vie per arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità),
conlatio (confronto), signum (pro cedimento indiziario), argumentum (segno),
consecutio (conseguenza), adprobatio (conferma). Troviamo qui una terminologia
in parte familiare, in quanto probabile può essere considerata la trasposizione
la tina di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci solo a questi due
casi. Ma i contenuti delle espressioni latine so9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM no
completamente difformi dalle corrispondenti nozioni greche. Infatti il
probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che era utile commettere il
crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da comportamenti di tale
turpitudine" (Il, 3), defi nizione nella quale non rimane molto
deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è connessa alla
caratteriz zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se [l'accu
satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem pre stato avaro,
se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto congenito
con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla sua
ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di
"movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento
indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che
serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione
(del crimine)" (II, 6). Non ritro viamo nemmeno qui la nozione greca di
smeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia
ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico struire il fatto
scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine
separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di
por tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il
segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la
sua definizione non è ancora molto elo quente ("Argumentum è ciò
attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e
con un so spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci
tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe nomeno
percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile direttamente; la sua
struttura è quella in ferenziale, espressa da un periodo ipotetico:
"Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per gonfiore o lividezza,
significa che è stato uc ciso da una dose di veleno" (Il, 8); se si trova
del sangue sulle vesti dell'imputato, se è stato visto sul luogo del delit to,
significa che egli è colpevole (ibidem) ecc. Caratteristicamente l'argumentum
viene suddiviso in tre tipi, in relazione al rapporto temporale (anteriorità,
con temporaneità, posteriorità) che si instaura fra antecedente e conseguente
del segno; classificazione, questa, che risale al la retorica prearistotelica
(si trova a esempio nella Rhetori ca ad Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e
giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le reazioni fisiche non controllabili
Un'altra nozione interessante è quella di consecutio, che Calboli mette in
relazione ai sjmptoma della terminologia medica. Si tratta, come dice
Cornificio, dei "segni (signa) che solitamente presentano i colpevoli e
gli innocenti" (II, 8), come, a esempio, che l'imputato, quando si è
giunti a interrogarlo, "sia arrossito, sia impallidito, ab bia titubato,
sia caduto in contraddizione, si sia smarrito, abbia fatto qualche promessa,
che sono segni di coscienza non tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle
reazioni fisi che non controllabili, dei segni involontari che possono ve
nire messi in relazione, in maniera abbastanza codificata, con degli stati
d'animo (come il senso di colpa). Questi se gni, per quanto non siano
facilmente dissimulabili, sono pe rò manipolabili a livello di
interpretazione: infatti l'avvoca to difensore può intervenire sulla loro
presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è turbato per la gravità del
pe ricolo e non per la coscienza della colpa; d'altro canto, l'ac cusatore
può intervenire sull'assenza di segni di tal genere sostenendo che l' imputato
aveva a tal punto premeditato la cosa da presentare la massima sicurezza,
ragione che rende l'assenza di turbamento "segno di sicurezza, non d'inno
cenza" (ibidem). probabile causa - vita conlatio alii nemini bonum -
neminem alium potuisse slgnum occasio - spes per- ficiendi spes celandi l
argumentum consecudo adprobatio - praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD
HERENNIUM Come si può vedere, il procedimento indiziario che viene messo in
atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari li velli: (i) innanzitutto, ci
sono i segni della premeditazione. che nella tassonomia di Cornificio sono
distribuiti tra il probabile, la conlatio (che consisteva nel dimostrare che
l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e possibilità di commettere il
delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci sono i segni delfatto stesso,
che sono rappresentati dagli ar gumenta: essi mettono in relazione diretta
l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è quella sorta di
segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal comportamen to
dell'imputato osservato in un momento diverso e succes sivo rispetto a quello
dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente la classificazione
della materia congetturale effettuata da Cornificio con il se guente schema
(Curcio 1900): - locus - tempus - spatium - consequens Se
messa a paragone con quella della Retorica aristoteli ca, la classificazione
di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non saldamente fondata.
Tuttavia, con temporaneamente, appare molto più aderente alla materia instans
conscientiae - signe confidentiae - signa innocentiae 208 9.
RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non priva di una logica inter
na nel suo seguire i segni deli'imputato in un percorso che parte dal momento
precedente il crimine e culmina nel pro cesso . Cornificio discute anche della
forza argomentativa dei se gni, quando propone di organizzare in una struttura
logica gli argomenti trovati. E, a questo proposito, nota che ci so no dei
segni che non garantiscono nessuna certezza come a esempio: uoeve aver
partorito, poiché porta in braccio un bimbo piccolo", oppure: "Dal
momento che è pallido, deve essere ammalato" (Il, 39). Come si può notare,
si tratta di segni che corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi
non sono sicuri perché, a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma
anche una quantità di altre cose. Quello che è però interessante è che
Cornificio non li rifiu ta, ma sottolinea un loro valore argomentativo nel
caso che compaiano in gran numero ("se però vi si aggiungono an che tutti
gli altri, tali segni hanno un certo peso per accre scere il sospetto). C. C.
affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della
sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere che
parlano dei se gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di
questo ambi to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente
centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore,
I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una
problematica a carattere so cio-politico, volta a definire la figura
deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione
rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut to ciò
che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso
anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto
trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo
di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini
di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i
personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le
Partitio nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate
dalla caratteristica di prendere in considerazio ne e di sistematizzare la
gran massa delle nozioni che com pongono l'apparato tecnico della retorica. Un
limite di que ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del
procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa rossismo, come nel
De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica.
Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli
spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno.
9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di C.
e con densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a
Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro vino riprodotti alcuni
aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In
particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an
tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata
l'attenzione verso i segni involontari (l'im pallidire, l'arrossire, il
balbettare dell'imputato) come indi zi di colpevolezza. Infine compare la classica
divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi
noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto
con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni
proposta da Cice rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap
pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar gomentazione),
cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per
confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa
che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in
maniera RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra
in . un mo do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44).
Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in
questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è
stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato)
rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già
aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili ter ostendens) e
un'inferenza necessaria (necessarie demon strans) . I segni necessari sono
così definiti. Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi
né essere pro vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono
esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se
respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., l, 86). Come
C. spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il
conseguente sono legati da una re lazione inscindibile (cum priore necessario
posterius cohae rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non
necessario viene poi cosi defini to: "Probabile è poi ciò che suole
generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé
qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De
inv., l, 46). Con questa definizione C. mette in evidenza due caratteri: (i)
quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da
Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi
due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos:
"Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del
giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di
generalizzazio ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet.,
1357 a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari,
era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv., 9.2 C. 21 1 I, 47),
che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2.
1 .2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar tizione
dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi le), ali'iudicatum
(giudicato) e al comparabile (paragonabi le). Se le ultime tre nozioni
appaiono distinte in base a crite ri estrinseci (e scompariranno nelle
trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni
abbastan za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no
stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri vato dal fatto
stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può
averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più
sicura" (De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il
pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si
vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e
generalmente non vo lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio
nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra
il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei
calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine,
vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso.
Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo sta nel De inventione
(cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae
sono un'opera della tarda matu rità di C., nella quale la classificazione
della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al
trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da
quella dei modelli greci e viene completa mente latinizzata. In secondo luogo
gli indizi (qui chiamati argumentatio
necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi nione
positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl)
non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono un
ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos
sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub
sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat, quod ex ipso profectum
est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio/ l
"signum erodibile indicBtLm comparabile /
Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo ghi
estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche",
titechnol) e "luoghi intrinseci'' (corrispondenti alle "prove
tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e
che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi
estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche
quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi
sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è
sicuramente un residuo di una concezione orda lica e antichissima
deli'amministrazione della giustizia; tut tavia è anche un indizio di un
continuo riaffiorare del para digma divinatorio all'interno dei fatti
semiolici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati. Né
questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura
greca, si ricorderà L,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così
si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze
umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi
anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza Il verisimile e il
segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti
intrin seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau sa
congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i
verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici delle
cose). Il verisimile, come dice C., è "ciò che accade per lo più"
(Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo
particolare". Questo tipo di segno corri sponde ali'eik6s aristotelico,
di cui ha il carattere probabili stico e generalizzante. La nnta propria rei
viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e
indica una cosa certa, co me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si
tratta, evi dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche
dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman da alla nozione di
fdion smeion (segno proprio). Per Ari stotele il segno proprio era la
caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i
leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per
le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat tere di necessità e
si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui
rimanda (Philod., De si gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono,
poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali 214 9. RETORICA LATINA
vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti,
imbarazzo, alterazione del colorito, discor so contraddittorio, tremore, gli
indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni
delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). C.
non definisce QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni
avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte ristica condivisa anche dai
signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli
argumenta di Cor nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti
se i vestigiafacti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae
rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa
sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma
nemmeno le caratteristi che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda
alla cate goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto
dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (1 14), dove
ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono
definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente,
caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma
mentre Aristotele condannava i smefa da un punto di vista episte mologico per
la loro insicurezza, C. è pronto a rico noscerne l'efficacia qualora si
presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi
schematizzare la classificazione cicero niana nelle Partitiones oratoriae
(cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la
retorica giudiziaria alla divina zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si
avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente
accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una
distinzione tra aspetti che sono eminente mente congetturali e altri aspetti
che sono invece naturali o trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue
- uccisione· es.: •adolescenza inclinazione alla libidine coniecturs - l -
verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt
certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla
dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu rali) e prove extratecniche
corrisponde la distinzione tra di vinazione artificiale (basata
sull'interpretazione e sulla con gettura) e divinazione naturale. Infine, come
C. pole micamente rileva (De div.), i segni della divinazione sono talvolta
interpretati in maniera diametralmente oppo sta, proprio come avviene nel
processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due
interpretazioni di verse ed entrambe plausibili. Ma C. apprezza i metodi
deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti
della di vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet tuali
della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi losofia greca, a
fondamento razionalistico, e contempora neamente impegnato in politica, sente
l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di
cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica
tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere
conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la superstizione, invece,
costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco
credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per ché non venga
limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica.
216 9. RETORICA LATINA C. affronta questi argomenti nel De natura deo rum, nel
De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in
forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte
divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione
all'esistenza degli dei. Le osservazioni di C. contro la teoria soste nuta da
Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e
propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in
negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione
"artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come
fon te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu nicazione
divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata ri. Ma, a seconda dei due
specifici tipi di divinazione, il pro cesso comunicativo si struttura in modo
differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui
l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica
professionale di decriptazione, demandata a specia listi, ciascuno esperto in
un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et
fu/gurum (inter preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti
del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in terpretes
sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed
estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità
si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui
l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si
basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine
stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di
cau se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come
fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è
conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è
prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista
l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo
srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete
sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini,
attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si
ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però
arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas
cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con
nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul la iteratività.
Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi
futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione
"naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito
naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma
derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso
la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di
preveggenza derivan ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e
quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo
secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri patetiche (Dicearco e
Cratippo vengono esplicitamente no minati, De div., II, 100), secondo le quali
l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta
da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo,
partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in
questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:
218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro
.... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni
divinatori Le obiezioni che C. muove ai sostenitori della divi nazione si
basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la
quale C. nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere
semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se gni non siano
veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti
rispetto a dei conse guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli
presunti della divinazione, C. istituisce un paragone tra le tecniche
scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica
previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i
casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre
le pratiche pro fessionali adottano una vera e propria metodologia che
comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div.), le prati che divinatorie si basano
sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa
avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade
re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il
codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza
statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip pocratici
tendevano a distinguere la propria scienza profes sionale dalla divinazione e
dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). C. poi si sbarazza in
termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della
divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma
ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista
semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso
diametralmente opposte (De div.); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di
falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso
a quello individuato come segno prodigio so, ma a ben diverse cause naturali
(De div.); l'interpretazione avviene a
posteriori e così toglie ogni ne cessità di rapporto tra antecedente e
conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata
da ra gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div.,
II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del regime
politico dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re torica divenisse
inutilizzabile come mezzo di agitazione po litica e sociale: per questo, da
strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita C., era divenuta so
prattutto materia teorica. In questo quadro Quintiliano è colui che espone i
principi dell'arte retorica nella maniera migliore e più completa di chiunque
altro e contemporanea mente registra il processo di cadaverizzazione che l'elo
quenza stava subendo. Nella sua Institutio oratoria tratta un programma
completo del ciclo educativo del perfetto orato re, in cui la competenza
semiotica ha una posizione di rilie vo. Gran parte degli elementi che
compongono l'opera di Quintiliano hanno indiscutibilmente una pertinenza semio
tica; ma nella lnstitutio è presente anche una sezione speci ficamente
dedicata ai segni, come era ormai consuetudine per ogni trattato di retorica.
Vaie anche nel caso di Quintiliano la considerazione fatta a proposito degli
altri trattatisti di retorica, e cioè che la ri flessione sul segno è
saldamente inquadrata all'interno del l'ottica giuridica con cui viene
trattata la materia. I segni in fatti fanno parte delle probationes
artificiales, cioè delle RETORICA LA... INA prove che l'abilità (ars)
dell'oratore saprà trovare per far assolvere o condannare un imputato. D'altro
canto, le pro bationes inartificiales sono quegli elementi che derivano
dali'esterno del processo e vengono consegnati ali'oratore insieme al suo
dossier. Il seguente schema ne mostra l'inventario completo: 9.3. 1
Orientamento della retorica di Quintiliano probstiones (prove) i n a rt i
f i c/i a l tJ s praejudicia (pregiudizi) rumores (voce pubblica) tormenta,
quaesita ( inter rogatorio sotto tortura) tabulae (scritture, atti, contratti
ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia (testimonianze) a rtificisles
formale Va pure detto che la retorica di Quintiliano, accanto a un orientamento
giuridico, ne presenta anche uno fortemente teorico, che tende a inquadrare la
materia il più possibile in termini logici e formali (anche se è stato rilevato
che Quinti liano non si trova del tutto a suo agio in questo campo) (Kennedy).
Così tutti e tre i tipi di prove tecniche (signa, argumenta, exempla) vengono
inquadrati in un reticolo di relazioni lo giche vicine al genere
deli'implicazione, ovvero del rappor to "se p, allora q". Infatti il
meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di fatto) argumentum (prova di
ragionamento) exemplum (esempio) ed epistemologico QUINTlIANO 221 delle
prove deve assumere una forma logica che coincide con uno dei seguenti quattro
tipi: (i) il concludere dalPesse re una cosa che un'altra non sia (p-+ - q)
("È giorno, dun que non è notte"); (ii) il concludere dall'essere
una cosa che un,altra sia (p-+q) (''Il sole splende sulla terra, dunque è
giorno"); (iii) il concludere dal non essere qualcosa che qualcos'altro
sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi è giorno"); (iv) il concludere dal non
essere qualcosa che un'altra sia ( -p-+ - q) ("Non è un essere razionale,
quindi non è un uomo") (lnst. Or.). Analizzati ali'interno di questa
griglia, i segni tendono a configurarsi come degli antecedenti rispetto a dei
conse guenti; nozione, questa, che Quintiliano non ha bisogno nemmeno di
rendere esplicita, in quanto attinta direttamen te dalla tradizione della
retorica e della logica greca. Dallo stesso ambito, del resto, verranno attinti
anche molti esem pi, tra cui l'ormai celebre "Se una donna ha partorito,
si è unita con un uomo", che, più o meno variato, ritorna in tutti i
trattatisti del segno. Come Aristotele, a cui fa costante riferimento,
Quintilia no è orientato verso un'ottica epistemologica, piuttosto che di
calcolo logico: ciò che lo interessa è soprattutto la possi bilità di
acquisire una conoscenza a partire da un segno. Scrive Eco (1984: 38) a questo
proposito: "Aristotele, inte ressato ad argomentazioni che in qualche
modo rendessero ragione dei legami di necessità che reggono i fatti, poneva
distinzioni di forza epistemologica tra segni necessari e se gni deboli. Gli
stoici, interessati a puri meccanismi formali dell'inferenza, evitano il
problema. Sarà Quintiliano, inte ressato alle reazioni di un'udienza forense,
a cercare di giu stificare, secondo una gerarchia di validità epistemologica,
ogni tipo di segno che in qualche misura risulti 'persua sivo' ". A
proposito del carattere persuasivo dei signa, Quintilia no fa una precisazione
preliminare: i signa hanno molto in comune con le prove extratecniche, in
quanto, a esempio, una veste insanguinata, le grida o i livori non vengono esco
gitati dali'arte deli'oratore, ma gli vengono consegnati nel dossier. Inoltre,
se esi rimandano a un significato inequivocabile, scompare la possibilità di
argomentazione; se, in vece, essi sono ambigui, non sono delle prove ma
necessita no essi stessi di prove (lnst. or.). Per questa ragione i segni
devono essere divisi innanzitut to in necessari e non necessari. I signa
necessaria sono quelli che, come dice Quintiliano, "aliter se habere non
possunt" (lnst. or.), cioè sono degli antecedenti che rimandano in maniera
necessaria a dei conseguenti, e vengono messi in corrispondenza con i tekmria
della tradizione greca. Si tratta di segni insolubili (alyta smefa), ovvero
legati inscindibilmente ai conseguen ti. L'informazione che se ne ricava è
sicura e incontroverti bile . La furia classificatoria, tipica del mondo
antico, porta inoltre Quintiliano a sottoclassificare questo tipo di segni in
base al fatto che i loro conseguenti siano individuabili nel tempo passato
("Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo"), nel presente
(''Se soffia un forte vento sul ma re, si formano su di esso le onde"),
nel futuro ("Se uno è stato ferito al cuore, morirà") (lnst. or., V,
9, 5). Questi segni vengono, poi, sottoposti anche a un altro ti po di
classificazione basata sul criterio di reversibilità dei termini: ci sono
relazioni segniche, come "Se vive, respira", che mantengono la
relazione di necessità anche invertendo antecedente e conseguente: "Se
respira, allora vive"; ma vi sono anche relazioni segniche in cui la
reversibilità non è possibile, come in "Se cammina, si muove",
"Se ha partori to, si è unita con un uomo", "Se è ferito al
cuore, morirà", "Se si è raccolta la messe, si è seminato",
"Se è stato ferito dalla spada, ha una cicatrice" (lnst. or., V, 9,
7). Quintilia no sembra sollevare qui il problema della
"conversazione" (antistréphein), che per Aristotele (An. Pr., 70 b,
32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè dell'"esserci un unico
segno di un'unica cosa". QUINTllANO 9.3.3 I segni non necessari 223
I signa non necessaria, che Quintiliano mette in corri spondenza con gli
eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei fatti su cui vi è comunemente
accordo, quelli che, se condo Eco (1984: 40), potendo essere altrettanto
convincen ti di un segno necessario, dipendono dai codici e dalle sce
neggiature che una certa comunità registra come "buone". Quintiliano
ne distingue tre tipi fondamentali, in base al l'intensità del legame che si
stabilisce fra antecedente e con seguente: firmissimum (sicurissimo),
corrispondente alla norma statistica, come "Se sono genitori, amano i
propri fi gli"; propensius (molto probabile), come "Se uno sta bene
in salute, allora giungerà fino al giorno successivo"; non re pugnans
(non contraddittorio), cioè non contrastante con il senso comune, come "Se
c'è stato un furto dentro la casa, allora è stato fatto da chi era in
casa". Nessuna di queste inferenze presenta un grado di certezza
accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos sono essere molto
efficaci, soprattutto nel caso che si pre sentino in gran numero avvalorandosi
a vicenda (lnst. or., V, 9, 8), poiché ricostruiscono una tessitura isomorfa a
quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali Nel contesto dei
signa non necessaria (lnst. or.) Quintiliano parla del signum senza altra
determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e vestigium, sia con
il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga considerato una categoria autonoma
rispetto alle due prece denti (segni necessari e verisimiglianze), come del
resto av veniva nella fonte aristotelica, o se Quintiliano consideri analoghi
eik6ta e smeia. Nella seconda ipotesi si potrebbe parlare di un vero e proprio
errore di Quintiliano, come fa Cousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri
un sinonimo l'espressione vestigium e ricorra all'esempio del sangue che
permette di scoprire l'uccisione, spinge a stabilire un parallelo con i
vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39) cice roniane, dove compariva
lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva, della abituale categoria
degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, ferite ecc.) (lnst. or., V, 9, I
l) percepibili sensorialmente. Quintiliano li definisce come quelli "attraverso
cui si comprende un'altra cosa, (per quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9),
sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di significazione, che
parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella precedente categoria
(quella dci signa non necessa ria == eik6ta) venivano classificati fatti o
proprictfi che forni vano un'informazione non sicura, perché non convalidabile
dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente
sicuro che arriverà a domani); nella cate goria dei signa sono classificati
fatti che sono insicuri per ché ambigui (una macchia di sangue su una veste
può ri mandare tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare
del sangue di una vitti1na durante un sacrifi cio). La classificazione,
allora, dovrebbe essere così formu lata: necessaria relazione necessaria tra
a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita
con un uomo· l ------- signa non necssaria verisimiglianze non
conva!idabili scienti ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà
fino al g iorno successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se
macchia di sangue, allora omi cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega
anche come mai Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di
verisimiglianza (e non si gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora
e che 9.3 QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma
non necessari, Er magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché
vaga nei boschi con i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti liano ha una
certa riluttanza a considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto
deboli come elementi pro banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo
come se gno, temo che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si
traggono da un fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano
allo stesso modo dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la
condizione tipica della semiotica giuridi ca, in perenne dialettica tra la
forza oggettivamente proba toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di
fare un uso persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica
semiotica generale, non c'è al cun problema a considerare come segni
"tutte le conseguen ze che si traggono da un fatto". Le proprietà
che l'enciclo pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono
tutte, a buon diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno
poi le relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella
forza probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono
i casi in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un
poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente
intuito dalla retori ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da
Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer
tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura
li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco mandando, nel
secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a
vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin guaggio
Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa
saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una
altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di
lin guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande
importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte
dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il
trattato giovanile De dialectica: in esso sono riassunti molti dei principali
temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi pio che la conoscenza è,
in linea generale, conoscenza attra verso segni (Simone). Ma vari elementi
differenziano l'impostazione agostinia na da quella stoica. In primo luogo,
infatti, gli stoici, racco gliendo e formalizzando una lunga tradizione di
origine so prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni
(smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la
cicatrice che rinvia a una precedente feri ta. Agostino, invece, per primo
nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali
come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le
espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene rale segno tutto ciò
che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De
Magistro). STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici
avevano individuato nell'e nunciato il punto di congiunzione tra il
significante (semaf non) e il significato (semain6menon), elemento che comun
que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve ce, individua nella
singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento
in cui significante e signifi cato si fondono, e considera questa fusione un
segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda to che
le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si gna] e che non può essere
segno ciò che non significhi [si gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso
di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro
le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una
teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il
lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione.
Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere
psicologistico (i si gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale
(passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov; Markus). 10.1 n triangolo
semiotico e la stratificazione ter minologie& È del resto con l'analisi
della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed
è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni
terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che
possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con cetti di significato,
significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o
il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la
parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente,
anche dal punto di vista della trasposizio ne linguistica, al /ekt6n stoico),
definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In
terzo luo228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la res, che viene definita come
un og getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op pure
che sfugge alla percezione (De dialect., cap. V). È così possibile ricostruire
il triangolo semiotico nei se guenti termini: dicibile vox articulata (o
sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere
di designazione, oltre che da quello della signifi cazione. Questo lo spinge a
elaborare un'ulteriore suddivi sione terminologica in corrispondenza dei due
aspetti che può assumere il referente di una parola: (i) può infatti avve nire
che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica
nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora
prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire che la parola, intesa co
me combinazione del significante e del significato, abbia come referente una
cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio),
nel qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che,
come ha osserva to Baratin ( 198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione
tra la teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di uno
sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (si gnificante articolato,
ma senza essere necessariamente por tatore di significato) ha subìto nel corso
degli studi lingui stici antichi. RELAZIONE D'EQUIVALENZA E
D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa
to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano i grammatici
alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis come
"la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci),
a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al
tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come
portatrice di un significato (in contrappo sizione alle lettere e alle sillabe
che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta
un sen so completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e
nunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che
quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet tanti solo
all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce
decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La
parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere
compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come
"ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi bile,
presenta anche qualche cosa alla percezione intellet tuale (animus)"
(ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im plicazione Ponendo
l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione
platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico,
prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag gio; per
Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è
direttamente percepibile, ovvero dell'es senza della cosa. Ma mentre nel
Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto
iconico (pe raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino
tale rapporto - configura subito come una rela zione di significazione: il
nomt "significa" una cosa (nozio230 10. AGOSTINO ne equivalente a
quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino
propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune modificazio
ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle
teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti no il rapporto tra le
espressioni linguistiche e i loro conte nuti era stato concepito come una
relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere
epistemologico e ri guardava la possibilità di lavorare direttamente sul
linguag gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin
guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta zione del reale (per
quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui
esso rin via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui
il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla
conoscenza del secondo. Eco ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti
tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra ti da
uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello
equazionale: onIE=>c m_E:! c
dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J
"implica" e == "è equivalente a". In Agostino
l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e
senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic tio, che è
rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u nione, o prodotto
logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che
diviene segno di qualcos'al tro (livello ii). 10.3 UNmCAZIONE
DELLE PROSPETI Conseguenze dell'unificazione delle prospet tive La prima
conseguenza dell'unificazione agostiniana, co me sottolinea Eco (1984: 33), è
che la lingua comincia a tro varsi a disagio all'interno del quadro
implicativo. Essa in fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo
strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere
rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio,
nelle classificazioni della retorica greca e roma na. Infatti l'implicazione
semiotica era aperta alla possibili tà di percorrere l'intero continuum dei
rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto
Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare
rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un
"sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun que altro
sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della
lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e
che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui
stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec cellenza. Ma
quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto
culminante, si è ormai venuto a per dere il carattere implicativo, e il segno
linguistico si è cri stallizzato nella forma degradata del modello
dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito
come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante
conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione
della dia lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto ché
il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce pito nei termini
dell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente responsabile della
conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di
segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra
implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di cui esse
sono segno. Tutta la grande tradizione serniotica, del resto, convergeva nel
considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla
conoscen za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è
allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag
gio fornisca o meno, di per se stesso, informazioni sulle co se che significa.
Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del carattere
informativo dei segni linguistici nel De Magistro. L'opera, in forma di dialogo
tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni
del linguaggio: in· segnare (docere) e richiamare alla memoria (commemorare),
sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con temporaneamente
informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la
presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima
parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente
quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono
le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose,
senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda
parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente
la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in
sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca si: il primo caso
è quello in cui il locutore produce un se gno che si riferisce a una cosa
sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per
se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da
Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota,
non permetterà di comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa
effettua; il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si
rife risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno
COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE in questa evenienza si potrà parlare di un
vero e proprio processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude
invertendo il rapporto cono scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è
necessario co noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire
che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co sa che informa sulla
presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente
platonica, e a es sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual
mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente
della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è
necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma
se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci
permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle
cose puramente intelligibi li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino
individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla
rive lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga ranzia
tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con
questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio
è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno
rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi
mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo, ci
spingono a cercare (De Mag.). Espressione e comunicazione del verbo inte riore
In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da
un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel
De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo
interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani mo. In
effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola
o di un segno sensibile, per poter 234 10. AGOSTINO provocare nell'anima
dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre
parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura
prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle
lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan do ha bisogno di
essere espresso e portato alla comprensio ne dei destinatari. Il verbo
interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una
conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è
determinato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza.
Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo
è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni
del simbolismo univer sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo.
Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia rezza è il carattere
comunicativo della semiologia agostinia na, che è individuabile anche nello
schema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza
potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore
pensato proferito sa pere 10.6 Le classificazioni È comunque
innegabile, come sottolinea Simone, che se la semiologia agostiniana presenta
un aspet to "teologico", connesso al problema del verbo divino, tut
tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet to laico, che prende
in considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di
quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si
dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana, l . 2. 3. 4. 5.
secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni
naturali/segni intenzio nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni
conven zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra slato
secondo la natura del designato: segno/cosa LE CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte
più tarde), ma che ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e
sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino
sottopone la nozione di se gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino
giustappone quel lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene
ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non è però del
tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una
classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è
possibile ricostruire tale classifica zione ordinandola secondo uno schema
arboriforme (Ber nardelli 1987), secondo il modello dell'albero di Porfirio
(Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La classificazione di Agostino non è
totalmente a inclu sione, come tende a essere quella porfiriana; e si può
osser vare che se venissero sviluppati i rami collaterali, si vedreb bero
comparire, una seconda volta, alcune categorie elenca te sotto il ramo
principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei sulla strada di una
classificazione inclusiva da ge nere a specie quando definisce la relazione
tra nome e paro la come "la stessa che c'è tra cavallo e animale" e
includen do la categoria delle parole in quella più ampia dei segni (DeMag.,
4.9). genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME -- segno udibile di cose
(funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma, fluvius) differenze
significanti qualcosa verbale (voce articolata) differenze ( s i g n i fi
c s b i l i s l non significanti nome in senso particolare
non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.) altra parte del
discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno udibile di segni
udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili ( virtus)
SIGNIFICANTE delle .. AES" LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1
"Res" e "signa" La prima relazione interessante è quella
tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in cose e
segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co me ontologica,
bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono delle res e l'uomo
è libero di as sumere come segno una res che fino a quel momento era
sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita in
termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio ho
chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni di
qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il bestiame" (De doctr.
Christ.). Ma, immediatamente dopo, cosciente del la pervasività dei processi
di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle
acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra
sulla quale Giacobbe riposò la sua testa (Gen.); né quella pecora che Abramo
immolò al posto di suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste
tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e
godere (jrul) (De doctr. Christ., l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran
sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere a qual cos'altro; le
cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se
stesse (Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome
per le cose che non sono usate come segni, ma sono signifi cate attraverso
segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche
quest'ultime possano essere assun te con funzione significante. Dopo aver così
articolato i rapporti tra segni e cose, Ago stino propone questa definizione
di segno nel De doctrina Christiana. Il segno è una cosa (res) che, al di là
dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente
(in cogitationem) qualcos'altro". 238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni
verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui
re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia
verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di
Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De
doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari
tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se gni, di cui
ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole;
ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei
segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del
linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale
carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni.
I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce zione Una classificazione
incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di
percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini
si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla
vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al tri sensi" (De
doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci
sono quel li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi cali,
come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi
dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con
l'udito, in una posizio ne dominante, anche le parole: "Le parole, in
effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione
dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester nare"
(Dedoctr. Christ.). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i
cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban diere e
le insegne militari, le lettere. LE CLASSIFICAZIONI Infine vengono presi
in considerazione i segni che riguar dano altri sensi, come l'odorato (l'odore
dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca
ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri sto e fu
guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data"
Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro
albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa
naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né
desiderio di si gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi,
come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ.). Ne sono esempi anche
le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano,
inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli definiti, Agostino
dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente
interessato ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono anche i
segni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che
tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto
possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e
pensano" (De doctr. Christ.). Gli esempi sono soprattutto i segni
linguistici umani (le pa role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa
classe an che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il
gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una
marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali
tra i segni natu rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva
"naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono
i "segni convenzionali", come Markus aveva suggerito (e come del
resto era sta to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges).
I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel
Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na 240 10. AGOSTINO ben precisa
intenzione comunicativa (De doctr. Christ.). È del resto il carattere
intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli
emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que sta
intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46),
porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico
generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o
meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi
in corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di
un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come
cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi
illimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della
semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si
può stabi lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat
tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce zione semantica che
si avvicina al tipo della "semiosi illimi tata" di Peirce. Come ha
rilevato anche Markus, il significato di un segno, per Agostino, può essere
stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi;
attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite
astensione (De Mag., III e VII). Questa concezione del significato si rende
possibile sol tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale
del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno.
La teoria semiologica ago stiniana si apre così, come ha messo in evidenza
Eco, verso un modello "istruzionale" della descrizione semantica. Se
ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad
Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe
relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto di otto segni, dei
quali, appunto si cerca il significato. SEMIOSI ILLIMITATA L'indagine
comincia da l si l, di cui si riconosce che espri me un significato di
"dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che non si è trovato un
altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si
passa, poi, a lni hi/1, il cui significato viene individuato come
!'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una
cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il
significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa rebbe
equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e
argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha
bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l
significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe
rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica
contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a qualcosa che non
esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso
virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è
ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni negozianti
provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco
(una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni
contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di versi (ma
tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La
struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti
x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni
tanto al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva,
è proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale che
la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni
semiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come
potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca
attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è
ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice
a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in
generale, è possibile, però, rilevare una connes sione storicamente
documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti colare del segno. A
esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno
implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi
eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in
cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di
Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C.
la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona
(1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri
cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che
"la scrittura cu neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso
il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3
Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu rioso
notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios
(''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era
clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera
morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un
trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi,
come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca
pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero
(1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle
fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie
contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio. Si potevano contare oltre cento oracoli per
tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti
tavolette. 244 NOTE CAPITOLO 2. 1 Infatti da un'analisi del vocabolario
dell'azione oracolare compiuta da Crahay
risulta che alcuni vocaboli presentano il testo della rivelazione come
un segno, molto spesso un segno anticipatorio, in quanto orientano l'azione
verso l'avvenire. Tra questi si ricordino i due verbi smafno e prosmafnO (cioè
"informare in anticipo con segni") e l'ag gettivo di origine verbale
pr6phanton che esprime l'idea di un'informazio ne prima del fatto. 2 Ciò è
tanto più evidente se si opera un confronto con civiltà come quella
mesopotamica che mettevano la divinazione al centro della vita pubblica
(Vernant 1974) e ne estendevano il modello formale anche a tutti gli altri
ambiti culturali (a esempio, alla medicina e alla giurisprudenza). 3 Cfr .
anche //., I I I, 277 . Per i passi citati sono utilizzate, nel corso del
l'intero testo, traduzioni correnti, talvolta parzialmente modificate. 4
Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86): "The lord, who has the
oracle in Delphi, l neither discloses nor hides his thought, l but indica tes
it through signs". s Infatti la divinazione è indissolubilmente legata ad
Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato alla sapienza. La sapienza del dio
è totale e simul tanea e non ha bisogno di essere frammentata in parole.
Tuttavia agli uo mini egli concede, invece, solo la frammentazione della
parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quanto in essa la sapienza
divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone
ritiene essere l'essenza stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244
a-c) l'etimolo gia di mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro
che la sapienza vista dal l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry (1950) per la
presenza di possibili procedi menti anche di cleromanzia (divinazione
attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi
fenomeni naturali potevano perdere il carattere di ca sualità ed essere
sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come av veniva nel caso
dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni dati dallo stormire del
vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il
tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un
gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per
una disamina generale e approfondita dei vari ti pi di divinazione i testi
basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8
"Lobo", "vescichette" e "porte" erano i termini
tecnici designanti par ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione
prendevano come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia
anima/ium, l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della
consultazione oracolare ci sono note attraverso un cer to numero di iscrizioni
epigrafiche, provenienti principalmente da Delfi e da Dodona; cfr.
Parke-Wormell e Fontenrose. Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla
nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava, come
vedremo NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del
dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine,
l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine
"modo", poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un
unico meccanismo, ma di una galassia di procedimenti espressivi molto
eterogenei, che vanno dalla banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo
scambio di prospetti va (metalogismi) ecc. L'espressione "modo"
enigmatico fa naturalmente riferimento alla categoria di modo simbolico
elaborata da Eco. Pur troppo non è qui possibile usare direttamente quella
categoria perché essa, pur avendo molti punti in comune con questa che qui
proponiamo, se ne discosta per la presenza di alcuni caratteri specifici
(rapporto stretto tra si gnificante e significato, nebulosa di sensi multipli
tendenzialmente coesi stenti ecc.) che qui non si ritrovano. È un peccato,
perché ci sarebbe sem brato appropriato definire "simbolico" il modo
di parlare del dio. 1 1 Il meccanismo retorico dell'enallage ricorda il
meccanismo oracolare usato dalla Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio
(Aen., VI): la sa cerdotessa di Apollo scrive le varie parti del responso su
delle foglie, se guendo l'ordine sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia
quelle fo glie al vento, che scompiglia l'ordine precedente, creandone un
altro, in cui i riferimenti incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e
difficile l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due
attributi antitetici della li ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia
benigna ed esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche);
l'arco, quella maligna e deva stante. Del resto l'etimologia stessa del suo
nome suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente",
ed è sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove
le sue frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli). Per
una nozione complessa e articolata della nozione di "verità" nel
mondo antico, si veda Detienne. In particolare, sulla concezione di a/theia
come "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune al
poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne.
D'ora in avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H.
Naturalmente, per una documentazione completa sulla medicina gre ca,
dovrebbero essere prese in specifica considerazione almeno anche le opere di
Galeno; tuttavia queste ultime, appartenendo a un'epoca molto più recente e
attingendo a una tradizione filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva
già portato molto avanti lo studio sul segno, si situano in parte al di fuori
del discorso che stiamo svolgendo . Rimandia mo, comunque, a Manuli (1980). 2
La massiccia attribuzione dei trattati di medicina. NOTE 3 Si possono
distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto il
gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter ne, il libro II
delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar caica del
trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato
di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della
medicina (Di Benedetto). In secondo luogo, un gruppo di trattati in cui
appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me todologici della
medicina. Vegetti ha proposto di definire convenzionalmente "pensiero
ippocratico" queJJo che da questi ultimi ri sulta (indipendentemente dal
fatto che essi siano attribuibili a molti autori e probabilmente tutti diversi
dali'lppocrate storico vissuto tra il 460 e il 370 a.C.). Questi testi,
collocabili cronologicamente nella seconda metà del V secolo a.C., sono: Antica
medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4 Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s
Cfr. Vegetti; Vegetti. Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la
medicina ippocrati ca non arriverà mai a essere sperimentale in senso
compiuto. 7 Per le traduzioni ci atteniamo al criterio di usare versioni
correnti, tal volta apportandovi delle modifiche. 8 Solo più tardi, con la
Scuola di Alessandria, sarà stabilita una distin zione fornaie tra anamnsis,
relativa ai fenomeni collocati nel passato, diaghnOsis, ovvero individuazionc
dello stato presente, e pr6ghnOsis, cioè previsione deJJ'andamento futuro della
malattia; cfr. Di Benedetto-Lami (1983: 166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche
Grmek (tr. it.). Si deve poi segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il
prefisso pro-, unito ai verbi di "dire", con il significato di
"pubblicamente ", anziché con un si gnificato di
"anticipazione". a.C . a lppocrate avviene nell'ambito della
biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr. Di Benedetto (1986: 81).
prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male sacro, Le epidemie l e
III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella testa, Le articola
zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.). 10 In certi casi, il
vocabolario usato per indicare la previsione medica ri calca queJJo della
divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si dice che è compito
del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi pro cessi
relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale la pena
sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica, animistica e
demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds (1951); Lloyd
(1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento magico e catartico
era già stata fornita dagli studi del Rohde (tr. it.). Diog. Laert., Vitae,
VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di sfug gita, che il carattere molto arcaico
della concezione espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame
coinvolto nelle stesse vicende della comunità umana: c'è la rappresentazione di
una comunità agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile;
cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio assolutamente analogo a questo si trova
nel cap. 21 del = NOTE trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si
confuta, usando i1 modus tol /ens, la tesi secondo cui l'impotenza che
colpisce certuni degli Sciti sia do vuta a causa divina, in quanto colpisce i
ricchi (che vanno a cavallo, essen do questa, per l'autore, la causa della
malattia) e non i più poveri. Se fosse di origine divina, continua l'autore,
colpirebbe indifferentemente tutti. 1"' Si pensi a questo proposito
all'indebolimento dei sensi durante il son no di cui parla Platone nel Timeo e
a1la diminuzione dei turbamenti nell'aria che rende possibile il sorgere dei
sogni secondo Aristotele (De di vinatione per somnum) . •s Per la nozione di
"omomaterico", Eco (1975:
295): per "omoma tericità" si intende il fenomeno per cui
"l'oggetto, visto come pura espres sione, è fatto della stessa materia
del suo possibile referente. anche
Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983). 17
Vegetti; Manuli. 18 Sull'abduzione si vedano Thagard; Proni (1981); Eco
(1983); Bonfantini-Proni; Bonfantini; Peirce; Eco. Di Benedetto (1986) ha messo
in luce, in maniera molto convincente, i rapporti tra i moduli espressivi di
presentazione della malattia nella medi cina greca e quelli dei trattati
mesopotamici ed egiziani; anche Di Be
nedetto-Lami . Campbell Thompson. 2 1 Per questa nozione, Conte.
Hjelmslev. Arist., An. Pr., Il,
70 a-b; Rhet., Arist., Rhet., l, 1358 a,
36 e sgg. 3 Arist., De int.,16a; An.Pr.,11,70a-b. "' Su questa
nozione Di Cesare. s Eco.
Heinimann. 7
Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco. Emerge qui, per quanto
nebulosamente, il tema della doppia articola zione del linguaggio umano, che
verrà poi sviluppato in epoca contempo ranea da André Martinet (1960). 9 Anche
se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica
(1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti mema come
sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici 248 NOTE
(Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi
smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel
secondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente
"neces sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..non
necessario" (mè anankafon) (Rhet.). 1 1 Lo stesso punto di vista e la
stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica. 12
Quanto al carattere di confutabilità di questo tipo di segno, Aristote le così
commenta l'esempio dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi smo
che si sviluppa attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu tabile
(ljsimos), senza eccezione. In realtà, quando i termini si comporta no come si
è detto sopra, non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida
è pallida, e se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà
necessario che questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a,
34-37). 1 Dei segni quello necessario è la prova, quello non necessario non ha
un nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le
proposizioni da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è
tale è la prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la
proposizione enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie
ne dimostrata e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar (prova) e pé ras
Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet.). Si deve tuttavia
segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di stinzione
tra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questi
termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza
distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un
terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; Le Blond. Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!. Arist., An. Post. È del resto sulla base
delle immagini prodotte nella mente dagli oggetti esterni, in particolare su
certi tipi di immagini, chegli stoici chiamano ka talptikaì phantasfai, che
viene basato il "criterio di verità", cioè "ciò a cui ci
atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose
determinate sono vere ( = sono il caso) e certe altre sono false ( = non sono
il caso)" (Sext. Emp., Adversus Mathematicos, VII, 29); Mi gnucci; Sandbach; "The crite rion
of truth" di Rist. anche Sext. Emp.,
A dv. Math. 1 Si deve sottolineare che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo
/éghein. 6 Diog. Lart., Vitae;
Long Sext. Emp., Adv. Math., VIII,
11-12. 8 Sext. Emp., Adv. Math., VIII,
70. 9 Diog. Lart., Vitae, Vll, NOTE 249
A questo proposito si ricorderà che, come sostiene Diogene Laerzio (Vitae), gli
stoici distinguevano tra il "proferire" (prophéresthal), che
consisteva nel puro emettere dei suoni, e il "dire" (léghein), che
consisteva nel fare ciò in modo da significare (sma{nein) lo stato delle cose
in mente; anche Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 80. Long sostiene di preferire, per lekt6n, la traduzione "what is
said" rispetto a quella propo sta da Mates e dai Kneale, "what is
meant", in quanto la prima è più gene rale e permette al lekt6n di essere
interpretato come avente funzione tanto logica quanto grammaticale. 4 Si deve
tuttavia sottolineare che vi è una tradizione, risalente al Crati lo
platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale a dire "questo è il
suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sesto dovrebbe essere
compreso nei termini di una proposizione implicita come "'Dione è il nome
di costui" oppure "Questo è Dione"; Long. ..s I lekta venivano classificati dagli
stoici in completi e incompleti; cia scuno dei due tipi dava luogo a una
sottoclassificazione, anche molto com plessa, che non prenderemo qui in
considerazione; si veda a questo proposito Mates. Mates: Mates infatti
concepisce i lekta come signi ficato delle parole e avvicina la loro
definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di intension di Carnap. 1 Zeller. 12
Bréhier. 13 Mignucci (1965: 96).
14 Una definizione del criterio di verità la fornisce Sesto (A dv. Math.):
"Ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no
e che certe cose determinate sono vere e certe altre sono false". Sul
problema del criterio di verità, Rist;
Sandbach; Mignucci anche Adv. Math., VIII, 245-257. 18 Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda, a proposito
di questa questione terminologica, la esaustiva 1 Platone, Th.; Soph. In effetti il discorso
interno, endiathetos /6gos, a differenza delle espressioni emesse materialment,
prophorikòs 16gos, è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo
dagli animali. Dice infatti Sesto (Adv. Math., VIII, 275-276): "(Gli
stoici) dicono che l'uomo differisce da gli animali irrazionali a causa del
discorso interno, non a causa di quello pronunciato, in quanto corvi,
pappagalli e gazze pronunciano suoni arti colati"; anche Pohlenz trattazione di Conte, curatore
dcll'edizione italiana dei Kneale. 20
Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la
dimostrazione in quanto al genere è, a quel che pa250 NOTE re, un
segno"; anche Adv. Math., VIII,
180. 22 Il testo del De signis, con traduzione inglese, è contenuto in Ph . e
E.A. De Lacy (1978). 21 Sext. Emp., Adv.
Math., VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp. Pyrrh., II, 97. 2' Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 145; Hyp.
Pyrrh., II, 98. 26 Sext. Emp., Adv.
Math., VIII, 146; Hyp. Pyrrh., Il, 98. 27
anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale tripartizione verrà
esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il capitolo relativo. 29 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153.
30 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 154. 11 Sext. Emp., Adv. Math. Al di là del carattere
pole mico, l'osservazione di Sesto è interessante perché, citando
"medici" e "fi losofi", fissa i due punti estremi di un
ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione di tale
interesse da parte dei medici (come, poi, di mostrano anche i numerosi esempi
di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio sistematico
del segno da parte dei filosofi. 12
Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13
Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., . 34
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1'
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 249-250; Hyp.
Pyrrh., Il, 106. 37 Sext. Emp., Adv.
Math., VIII, 250-251. 11 Sext. Emp.,
Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39 Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui
prenderemo in consi derazione solo i primi tre criteri, perché il quarto
sembra avere un'origine diversa dalla scuola megarico-stoica. 4() Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv.
Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie interpretazioni del
condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere in considerazione.
Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a), dei Kneale e di
Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in una successione cronologica e
teo rica. "2 Phil., De signis,
XIV, 11-14= 19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai paragrafi del
testo greco, sono messi in correlazione con il segno " = " ai
capitoli della traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3 Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 275-276; 287. Goldschmidt (1953: 79 e sgg.); Verbeke
(1978: 401-402); Manuli (1986: 262). ..s Sul rapporto tra filosofia e
divinazione, Verbeke (1978: 402) osserva molto opportunamente che per gli
stoici il filosofo "est le médecin de cet organisme vivant qu'est le
monde; il est aussi une sorte de prophète, un de vin, un exégète, un interprète
des signes qu'il observe". 46 Cic.,
De divinatione. 49 Sext. Emp.,
Adv. Math., Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 140; Adv. Math., Sext. Emp., Adv.
Math., VIII, 180: "D'altronde anche la dimo strazione è, in linea
generale, un segno, giacché essa è considerata come di svelatrice della
conclusione". 1 Il testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro
ercolanese 1065, è ora disponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy
(1978); d'ora in poi citeremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa
è dedicato il prossimo capitolo. 2 Diog.
Laert., Vitae, X, 31; ancheEpic.,
EpistulaadHerodo tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi
K.D.), XXIV. 3 Phil.,Designis,fr.l. "
Diog. Laert., Vitae, X, 33; Epic., Nat., fr. 4, col. III, in Arrighetti
(1960: 296-297). Long (1971 b: 1 14) sostiene che un simile rap porto tra
linguaggio e pro/essi è presupposto anche nella Ep. Hdt., 37-38. Diog. Laert., Vitae, Epic., Ep. Pyth., Epic., Ep. Hdt., Diog. Laert., Vitae, Sext. Emp., Adv. Math., Diog. Laert., Vitae, Diog. Laert., Vitae, Epic., Ep. Hdt., Epic., Ep. Hdt., 48. 1" Sext. Emp., Adv. Math., Epic., K.D., XXIV.
16 Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7
La congettura semiotica è espressa dal verbo smeiolJ (Ep. Hdt., 38) e prende la
forma dell'induzione nella teoria epicurea. Il sostantivo da esso derivato,
smeilJsis, non direttamente attestato negli scritti di Epicuro, avrà ampio
spazio nel trattato di Filodemo. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 21 3-214. 19 Come
vedremo nel prossimo capitolo, il criterio della "non incompa
tibilità" con i fatti conosciuti è centrale nella teoria dell'inferenza
come è esosta nel De signis di Filodemo. °
Diog. Laert., Vitae, X, 33. 21
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut., Adversus Colo tem, 1119f.
22 Si deve segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema
semantico in Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo
trattato qui e recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco,
sostenendo che non esiste nella filosofia linguistica epicurea un livello
spe252 NOTE cifico del "significato" in termini intensionali. 23 Sedley; il testo di Sedley in parte si
discosta da quello di Arrighetti. Come veniva evitato, nel Crati/o platonico,
tanto da Cratilo quanto da Socrate.
capitolo relativo a Platone in questo libro. 26 Plat., Crat., 421 d, 435 c; Sedley. La data di composizione del trattato,
che è controversa, oscilla tra il 542e il 40 a.C.; De Lacy. Il titolo greco, essendo il testo in
parte corrotto, è frutto della congetura di Gompers; altre congetture sono
state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nella sua versione latina De
signis; De Lacy. Nella prima sezione
vengono riportate le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella
seconda viene esposta la versione di Bromio del l'enumerazione e confutazione
di Zenone degli argomenti contro l'inferen za empirica; nella terza viene
riportata l'enumerazione di Demetrio di La conia degli errori comuni degli
antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda
lista degli errori degli oppositori, è anoni ma, ma, con molta probabilità, è
anch'essa da attribuire a Demetrio. ..
Marquand; Deledalle. Phil.,
Designis, coll.VIII,32-IX,3= cap.13). Il riferimentobi bliografico al trattato
di Filodemo è dato in maniera duplice, indicando prima la colonna e il numero
delle righe del testo greco del papiro, poi il numero del capitolo
corrispondente nella traduzione inglese effettuata dai De Lacy. 6 Come è a più
riprese ribadito anche nella terza sezione che riporta il pensiero di
Demetrio; col. , 13-25 = cap. 45, e col.
, 12-24=cap. 57. 7 col.,1-15=cap.18. 8
col. I, 1-12 9 col. I, 12-16=cap.
2. 1° col.. 11 In Peirce, del resto, c'è
a proposito dell'icona anche un'interessante considerazione (sulla possibilità
che l'oggetto del segno iconico esista o non esista), la quale sembra
riproporre, in epoca contem poranea, una tematica simile a quella stoica ed
epicurea circa la distinzione dei segni in propri e comuni: "Un'Icona è un
segno che si riferisce all'Og getto che essa denota semplicemente in virtù di
caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che
un tale Oggetto esista ef fettivamente, sia che non esista. È vero che, a meno
che vi sia realmente un tale Oggetto, l'Icona non agisce come segno". =
cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19. NOTE 12
Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro. col. col. III, 4-8= cap. 5. 1 col. = cap. 6. 16
coli., 35 -, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle obiezioni stoiche sono,
nella sezione di Zenone, alle coli. , 4 · XVII, 28 = capp. 23-24, e, nella
sezione di Bromio, alle coli. , 28 - XXIII, 7=cap. 38. 18 col. , 3-7=cap. 24. 19 Una discussione
attribuita ai "dogmatici" sul problema della defini zione come
combinazione di attributi, a esempio "animale", "mortale",
"ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico,
Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. , 1 1-28 = cap.
24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A coli. , 37 -
XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll. , 13 - ,
8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col., 6-9=cap. 41. 29 La
tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda antichità le de finizioni
vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di Galeno: "animali
razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac. Hipp. et Plat., IX, 3); e
quella di Sesto Empirico: "animale razionale mortale, provvisto di intelli
genza e razionalità" (Adv. Math.). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr.
1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18 Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. , ,
13=Cfr.coli.,32-I,3= cap.35. coli., 35 - , 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.).
Groupe . col . col. col . col. col. , 5-7 = cap. 52., 11-15=cap. 52. XXI, 27-29
= c, 27-31 =, 23-29=. A questo proposito C. parla di "regolarità della
ragione" (ratio et constantia) contrapposta alla "sorte"
(fortuna) (De div., I l, 1 8) In altre opere, al posto di dicibile troviamo
l'espressione significatio; a esempio in De Magistro. 2 Si deve notare che
Agostino adopera l'espressione verbum in due sen si: (i) uno tecnico e
specifico, che è quello dell'uso metalinguistico della pa rola; (ii) uno
generale, che corrisponde alla nozione ampia di "parola", co me
"segno di ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso
dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come
composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto
dalla definizione del cap. V da De dialectica: Quel che ho detto dictio è una
parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti
conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo
per mezzo della parola [di cibile]". La dictio, inoltre, "non
procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si
ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo sizionali,
come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij Les Storcien.s et
leur logique, Actes du Colloque de Chan tilly, Vrin, Paris Al, D.J. The
Philosophy ofAristotle, Oxford, Ox ford (tr. it. La filosofia di Aristotele,
Lampugnani Nigri, Milano, AMANDRY, La mantique apollinienne à Delphes. E5sai
sur lefonction nement de roracle, Thèse (Bibliotèque des Écoles Françai ses
de Athènes et de Rome), Paris Oracles, littérature et politique", in Revue
des études an ciennes, 61, 1-2, pp. 400-413 AllENs, Aristotle's Theory of
Language and Its Tradition. Benjamins, Amsterdam-Philadel phia AlusTOTELE
Opere. I. Organon (trad. di G. Colli), Einaudi, Torino ARluGHEITI, Epicuro. Opere,
Einaudi, Torino AVl BELLOSO, I. 1984 "Le discours divinatoire", in
Actes sémiotiques – Bulletin. BARATIN Origines stolciennes de la théorie
augustinienne du signe", in Revue des études latines, BARATIN,
M.-DESBORDES, L'analyse linguistique dans l'antiquité classique, 2 voli.,
Klincksieck, Paris BARNES, J.-BRUNSCHWIG, J. et alii 1982 Science and Speculation.
Studies in Hellenistic theory and practice, Cambridge University Press,
Cambridge BARTHES, L 'ancienne rhétorique", Communications, 1 6 ( tr . it
. La retorica antica, Bompiani, Milano, BARTHES, R.-MARTY, Orale/scritto",
in Enciclopedia, Einaudi, Torino, BARTHES, R. -MAURIÉS, p. 1981
"Scrittura", in Enciclopedia, Einaudi, Torino, BELARDI, w. 1975
l/linguaggio nella filosofia di Aristotele, K.Libreria Editri ce, Roma
BENVENISTE, Le vocabulaire latin des signes et des présages", in Le vo...
cabulaire des institutions indo-européennes Il. Pouvoir, droit, religion, Les
Éditions de Minuit, Paris (tr. it . Il voca bolario delle istituzioni
indoeuropee, Einaudi, Torino, BERNARDELLI, Teorie del segno in S. Agostino,
Università di Bologna, manoscritto BERREITONI, Il lessico tecnico del I e III
libro delle Epidemie ippocrati che", in Annali della Scuola Normale
Superiore di Pisa, BLOCH, Les prodiges
dans l'antiquité classique, Paris(tr.it.Prodigi e divinazione nel mondo antico,
Newton Compton, Roma, 1 976) BOCHENSKI, Ancient Forma/ Logic, North-Holland,
Amsterdam 1956 Formale Logik, K. Alber, Freiburg (tr. it. La logicaforma le,
voli. 2, Einaudi, Torino, 1972) BoiSACQ, Dictionnaire étymologique de la langue
grecque, C. Winter, Heidelberg BoNFANTINI, Pragmatique et abduction", in
Versus, BoNFANTINI, M.A.-PRONI, L'abduzione, numero monografico di Versus, 34
BoNoMI, La struttura logica de/ linguaggio, Bompiani, Milano BoiTERO,
Symptomes, signes, écritures", in J.-P. Vernant (ed.), Di vination et
rationalité, Seuil, Paris (tr. it. Divinazione e ra zionalità, Einaudi,
Torino, BoucHÉ-LECLERQ, Histoire de la divination dans /'antiquité, 4 voli.,
Paris BoURGEY, L. 1953 Observation et expérience chez /es médecins de la
collection hippocratique, Vrin, Paris 1955 Observation et expérience chez
Aristote, Paris BRATESCU, Éléments archa"iques dans la médecine
hippocratique", in La Collection hippocratique et son role dans l'hf.stoire
de la médecine, "Colloques de Strasbourg, Brill, Leiden, La théorie des
incorporels dans /'ancien stolcisme, Vrin, Paris BRISN, Du bon usage du
dérèglement", in J.P. Vernant, Di vination et rationalité, Seuil, Paris
(tr. it. Divinazione e ra zionalità, Einaudi, Torino, Bmtv, R.G. (ed.) 1961
Sextus Empiricus, Against the Logicians, The Loeb Classi CALABRESE, Lineamenti
per una storia delle idee semiotiche", in O. Ca labrese-E. Mucci, Guida
alla semiotica, Sansoni, Milano CALABRESE, 0.-MUCCI, E. 15 Guida alla
semiotica, Sansoni, Milano CALBOLI, Cornifici, Rhetorica ad C. Herennium,
Patron, Bologna CAMBIANO, Storiografia e dossograjia nella filosofia antica,
Tirrenia Stampatori, Torino CAMPBELL THOMPSON, R. 1937 "Assirian
Prescriptions for the Head", in The American Journal of Semitic Languages
and Literatures,CAllDONA, Antropologia della scrittura, Loescher, Torino
CARLIER, Divinazione", in Enciclopedia, Einaudi, Torino, CARNAP, Meaning
and Necessity, The University of Chicago Press, BllÉHIER, E. cal Library,
London Chicago (tr. it. Significato e necessità, Laterza, Bari, La logica
stoica in alcune recenti interpretazioni", in CELLUPRICA, v. chos, CoLLI,
La nascita della filosofia, Adelphi, Milano La sapienza greca, vol. l o,
Adelphi, Milano CONTE, Premessa del curatore" alla traduzione italiana di
W .C. e M. Kneale, The Development of Logic, Clarendon Press, Oxford, 1962 (tr.
it. Storia della logica, Einaudi, Torino) Fenomeni di fenomeni", in G.
Galli (ed.), Interpretazione ed Epistemologia, Atti del VII Colloquio sulla
Interpreta zione, Macerata, Marietti, Torino, CoNTE, La pragmatica
linguistica", in C. Segre (ed.), Intorno alla linguistica, Feltrinelli,
Milano, CORTASAS, Pensiero e linguaggio nella teoria stoica del lekton",
in Ri vista di Filologia, l06, pp. 385-394 CousiN, Études sur Quintilien I et
II, Boivin and C., Paris CRAHAY, La littérature oraculaire chez Hérodote, Liège
et Paris 1974 "La bouche de la vérité", in J.-P. Vernant, Divination
et rationalité, Seuil, Paris (tr. it. Divinazione e razionalità, Einaudi,
Torino, 1982, pp. 217-237) ClIS, C. 1 987 Aspetti semiologici latini tra C. e
Quintiliano. A Ila ricerca del paradigma indiziario, tesi di laurea, Bologna
CROOKSHANX, F.G. 1923 "L'importanza di una teoria dei segni e di una
critica del linguaggio nello studio della medicina", in C.K. Odgen I.A.
Richards, The Meaning of Meaning, Routledge and Kegan Paul, London (tr.
it. Il significato del significato, Il Saggiatore, Milano, CuRc1o, Le opere
retoriche di C., Acireale (rist. "L'Erma" di Bretschneider, DE LACY,
Meaning and Methodology in the Hellenistic Philosophy", in The
Phi/osophical Review, DE LACY, The Epicurean Analysis of Language", in
American Jour nal ofPhilology, Piato", in T.A. Sebeok, Encyclopedic
Dictionary oj Semiotics, Mouton/de Gruyter, Berlin-New York-Amster dam, DE
LACY, PH. ed E.A. 1938 "Ancient Rhetoric and Empirica! Method", in
Sophia, Philodemus: on Methods of Inference, Bib1iopolis, Napoli DEL CORNO,
Mantica, magia, astrologia", in M. Vegetti (ed.), Ilsapere degli antichi,
Boringhieri, Torino, DELCOURT, L'oracledeDelphes,Payot,Paris DELEDALLE, G.
DELEUZE, G. 1969 Logique du sens, Les Éditions de Minuit, Paris (tr. it. Logi
ca del senso, Feltrinelli, Milano, 1975) DE MAURO, Introduzione alla semantica,
Laterza, Bari 1971 Senso e significato, Laterza, Bari Que1le philosophie pour
la sémiotique peircienne? Peirce et la sémiotique grecque", in Semiotica,
Plato 's Sophist. A Philosophical Commentary, North-Hol DE RuK, L.M. land,
Amsterdam-Oxford-New York DETIENNE, M. 1963 De lapensée religieuse à
lapenséephilosophique. La notion de Dafmon dans le pytagorisme ancien, Les
Belles Lettres, Paris 1967 Les maitres de la vérité dans la Grèce archafque,
Maspero, Paris (tr. it. I maestri di verità nella Grecia arcaica, Later za,
Roma-Bari, DETIENNE, M.-VERNANT, Les ruses de l'intelligence - La métis des
Grecs, Flamma rion, Paris (tr. it. Le astuzie dell'intelligenza nell'antica
Grecia, Laterza, Bari, DI BENEDETTO, Tendenza e probabilità nell'antica
medicina greca", in Cri tica storica, Il medico e la malattia, Einaudi,
Torino DI BENEDETTO, V.-LAMI, Ippocrate. Testi di medicina greca, Rizzo1i,
Milano DI CESARE, La semantica nella filosofia greca (pref. di T. De Mauro),
Bulzoni, Roma Il problema logico-funzionale del linguaggio in Aristotele",
in J. Trabant (ed.), Logos Semantikos I, de Gruyter, Berlin-Gredos, Madrid, pp.
21-30 DIELS, H.-KRANz, DieFragmentederVorsokratiker,Weidmann,Berlin(tr.it. I
Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari, DILLER,Opsis adlon ta
phainomena", in Hermes, DINNEEN, An Introduction to Genera/Linguistics,
Holt, Rinehart and Wiston, New York (tr. it . Introduzione alla
linguistica ge nerale, Il Mulino, Bologna, 1970) Dooos, The Greeks and the
lrrational, University of California Press, Berkeley-Los Angeles (tr. it. l
Greci e /,irrazionale, La Nuova Italia, Firenze, 1978) DUBARLE, Logique et
épistémologie du signe chez Aristote et chez les Sto"iciens", in E.
Jo6s, La Scolastique, certitude et re cherche: en hommage à Louis-Marie Regis,
Bellarmin, Montréal, DUCHROW, Signum und superbia beim jungen Augustin",
in Revue des études augustiniennes, Eco, Segno, ISED1, Milano Trattato di
semiotica generale, Bompianit Milano "Corna, zoccoli, scarpe. Alcune
ipotesi su tre tipi di abdu zione", in U. Eco-T.A. Sebeok (eds.), Il
segno dei tre, Bompiani, Milano, pp. 235-261 Semiotica efilosofia del
linguaggio, Einaudi, Torino "Aristotle: Poetics and Rhetoric", in
T.A. Sebeok (ed.), Encyclopedic Dictionary ofSemiotics, Mouton/de Gruyter,
Berlin-New York-Amsterdam, Latratus canis'\ in Micro Mega, Eco, U.-LAMBERTINI,
R.-MARMO, C. -TABARRONI, On Animai Language in the Medieval C1assification of
Signs "t in Versus, EDELSTEIN, Piato's Seventh Letter, Brill, Leiden
ENGELS, La doctrine du signe chez Saint Augustin"t in Studia Pa tristica,
V I, pp . 366-373 EvANs-PRITCHARP E.E. 1937
Witchcraft,Orac:'sandMagieamongtheAzandetOxford (tr. it. Stregoneria,
oracoli e magia tra gli Azande, Angeli, Milano, FAOOT, Medicina e
probabilità", in Kos, l, l, pp. 24-31 F'EIUU, S. 1916 "Saggio di
classificazione degli oracoli", in Athaeneum, FESTA, lframmenti degli stoici antichi, Laterza,
Bari FLACELIÈRE, Le délire de la Pythie est-il une legende?", in Revue des
Études Anciennes, FONTENROSE, The Delphic Oracle. lts Responses and Operations,
with a Catalogue of Responses, University of California Press, Berkeley-Los
Angeles-London FREGE, G. 1892 "Ober Sinn und Bedeutung", in
Zeitschriftfur Philosophie undphilosophische Kritik (tr. it."Senso e
denotazione", in A. Bonomi, ed., La struttura logica de/ linguaggio, Horn
piani, Milano, FiuEDRICH, Entzifferung verschollener Schriften und Sprachen,
Sprin ger-Verlag, Berlin (tr . it . Decifrazione delle scritture e delle
lingue scomparse, Sansoni, Firenze, FROHN, Hippocrates", in T.A. Sebeok
(ed.), Encyclopedic Dictio nary ofSemiotics, Mouton/de Gruyter, Berlin-New
York Amsterdam, GENEITE, Mimologiques. Voyage en Cratylie, Seuil, Paris
GERNET, Anthropologie de la Grèce antique, Maspero, Paris (tr. it. Antropologia
della Grecia antica, Mondadori, Milano, GLIDDEN Epicurean Semantics", in
Syzttesis. Studi sulrepicurei smo greco e romano, offerti a Marcello Gigante,
Gaetano Macchiaroli, Napoli, GOLDSCHMIDT, Le système stofcien et l'idée de
temps, Vrin, Paris GOLTZ, Studien zur altorientalischen und griechischen
Heilkunde, Wiesbaden GRAESER, The Stoic Theory of Meaning", in J.M. Rist
(ed.), The Stoics, University of California Press, Berkeley (Cal.), GRIMALDI,
Semeion, Tekmerion, Eikos in Aristotle's Rhetoric", in American Journal
ofPhilology, GRMEK, Les maladies à l'aube de la civilisation occidentale,
Payot, Paris (tr. it. Le malattie all'alba della civiltà occidentale, Il
Mulino, Bologna, GRMEK, M.D.-ROBERT, Dialogue d'un médecin et d'un philologue
sur quelques passages des Épidémies VII", in R. Joly (ed.), Corpus Hip
pocraticum, "Actes du Colloque Hippocratique de Mons, Mons, GROUPE
Rhétorique générale, Larousse, Paris (tr. it. Retorica gene rale. Le figure
della comunicazione, Bompiani, Milano, HALLER, Untersuchungen zum
Bedeutungsproblem in der antiken und mittelalterischen Philosophie",
in Archiv fur Begriff sgeschichte, HALLIDAY, Greek Divination. A Study of /ts
Methods and Principles, Argonaut. lne., Chicago HANKE, Weltrings 'sEMEION' in
der aristotelischen, stoischen, epikureischen und skeptischen
Philosophie", in Kodikas/ Code, HEINIMANN, F. 1945 NomosundPhysis.
HerkunftundBedeutungeinerAntithe se im griechischen Denken des 5.
Jahrhunderts, Friedrich Reinhardt, Base) HERZFELD, Divining the Past", in
Semiotica, Divination", in T.A. Sebeok (ed.), Encyclopedic Dictio- nary of
Semiotics, Mouton/de Gruyter, Berlin-New York Amsterdam, HURST, lmplication,
Mind, IRIGOIN, J. 1983 "Préalables linguistiqu:!s à l'interprétation des
termes te chniques attestés dans la collection hippocratique", in F. Lasserre-Ph.
Mudry (eds.), Formes de pensée dans la Co/ lection Hippocratique, "Actes
du l V Colloque international hippocratique (Lausanne 21-26 sept. 1981)",
Droz, Genève, pp. 173-180 IRWIN, Aristotle's eoneept of signification", in
M. Schofield-M. Nussbaum (eds.), Language and Logos. Studies in ancient Greek
philosophy presented to Owen, Cambridge University Press, Cambridge, JACKSON,
The Theory of Signs in St. Augustine's De doctrina Chri· stiana", in Revue
des études augustiniennes, JAEOER, Paideia.
DieFormungdesgriechischenMenschen,de Gruy ter, Berlin-Leipzig (tr. it.
Paideia. La formazione dell'uo mo greco, La Nuova Italia, Firenze, JOLY, Un
peu d'épistémologie historique pour hippocratisants", in M.D. Grmek,
Hippocratica, "Actes du Colloque hippocratique de Paris (4-9 sept.
1978)", Éditions CNRS, Paris, KENNEDY, Quintilian, Twayne, New York
KERÉNYI, Problemi intorno alla Pythia", in Apollon, Dilsseldorf (tr. it.
in Atti del Convegno su "L'infallibilità: i suoi aspetti fi losofici e
teologici", Roma, KNEALE, The Development of Logic, Clarendon Press,
Oxford (tr. it. con una "Premessa" di A.G. Conte, Storia della
logica, Einaudi, Torino, 1972) KltETZMANN, History of Semantics", in
Encyclopedia ofPhilosophy (P. Edwards ed.), The Macmillan Company and The Free
Press, New York, Piato on the correctness of names", in American Philoso
phica/ Quarterly LABAT, R. 1948 Manue/ d'épigraphie akkadienne. Signes,
Syllabaire, Idéo grammes, Pane Geuthner, Paris, Traité akkadien de diagnostics
et de pronostics médicaux, Paris-Leiden LANATA, Medicina magica e religione
popolare in Grecia fino all 'età di lppocrate, Edizioni dell'Ateneo, Roma
LANZA, Scientificità della lingua e lingua della scienza in Grecia", in
Belfagor, Lingua e discorso neii,Atene delleprofessioni, Liguori, Na poli 1983
"Quelques remarques sur le travail linguistique du méde cin", in F.
Lasserre-Ph. Mudry (eds.), Formes de pensée dans /a Collection Hippocratique,
"Actes du IV Colloque international hippocratique (Lausanne, Droz, Genève
LEAR., Aristot/e and Logica/ Theory, Cambridge University Press, Cambridge LE
BLOND, Logique et méthode chez Aristote. Étude sur la recherche des principes
dans la physique aristotélicienne, Vrin, Paris LESZL, W. 1985
"Linguaggioediscorso",inM.Vegetti(ed.),//saperedegli antichi,
Boringhieri, Torino, LICHTENTHAELER, "En 1981 comme en 1948: relations de
causalité expérimen tales et analogies hippocratiques", in F.
Lasserre-Ph. Mu dry (eds.), Formes de pensée dans la Col/ection Hippocrati
que, "Actes du IV Colloque international hippocratique (Lausanne, Droz,
Genève, LIEB, H. 1981 "Das 'semiotische Dreieck' bei Ogden und Richards:
eine Neuformulierung des Zeichenmodells von Aristoteles", in Jtirgen
Trabant (ed .), Logos Semantikos l, de Gruyter, Ber lin-Gredos, Madrid, LITÉ,
Oeuvres complètes d'Hippocrate, Adolf M. Hakkert, Am sterdam LIVERANI, M. 1963
Introduzione alla storia deJrAsia anteriore antica, Centro di Studi Semitici,
Roma LWYD, Grammar and Metaphysics in the Stoa", in A.A. Long (ed
.), Problems in Stoicism, The Athlone Press of Univer sity of London, London,
LLOYD, Early Greek Science. Thales to Aristotle, Chatto and Win dus, London
(tr. it. La scienza dei Greci, Laterza, Bari) Magie, Reason, Experience.
Studies in the Origin and Deve lopment of Greek Science, Cambridge University
Press, Cambridge (tr. it. Magia, ragione, esperienza. Nascita e forme della
scienza greca, Boringhieri, Torino, 1982) LoNO, Language and Thought in
Stoicism", in Long, Problems in Stoièism, The Athlone Press of University of
London, London, Aisthesis, Prolepsis and Linguistic Theory in Epicurus",
in Bulletin of the lnstitute of Classica/ Studies of the Univer sityofLondon,
LoNo, Problems in Stoicism, The Athlone Press of University of London, London
LoNIE, The Hippocratic Treatises "On Generation •, "On the Natu re
of the Chi/d", .,Diseases IVU, Walter de Gruyter, Berlin New York LoRENZ,
K.-MI1TELSTRASS, On Rational Phi1osophy of Language: the Programme in Plato's
Cratylus Reconsidered", in Mind, LoTMAN, Ju.M.-UsPENSKu, Tipologia della
cultura, Bompiani, Milano Lucci, Filodemo di Gadara e la 'Logica'
epicurea", in Elenchos, L'orizzonte linguistico del sapere in
Aristotele e la sua tra LUOARINI, L. sformazione stoica", in //pensiero,
l.UKASmWICZ, Aristotle,s Syllogisticfrom the Standpoint ofModern For ma/
Logic, Oxford University Press, Oxford MALONEY, G.-FROHN, Concordantia in
Corpus Hippocraticum!Concordances des oeuvres hippocratiques, voli. 1-V,
Olms-Weidmann, Hil desheim-ZOrich-New York MANE1TI, Cicero ", in Sebeok, Encyclopedic
Dictionary of Semiotics, Mouton/de Gruyter, Berlin-New York-Amster dam,
Quintilian", in T.A. Sebeok (ed.), Encyclopedic Dictio nary of Semiotics,
Mouton/de Gruyter, Berlin-New York Amsterdam, MANuu, MARKUS St. Augustin on
Signus", in Phronesis, MARQUAND, A. 1883 "The Logic of the
Epicureans", in Studies on Logic by Members of the Johns Hopkins
University, Boston, pp. l-Il Medicina e antropologia nella tradizione antica,
Loescher, Tori no "Medico e malattia", in M. Vegetti (ed.), Il sapere
degli an tichi, Boringhieri, Torino, Traducibilità e molteplicità dei
linguaggi nel Deplacitis di Galeno", in G. Cambiano (ed.), Storiografia e
dossografia nellafilosofia antica, Tirrenia Stampatori, Torino MARTINELLI,
Sulla semiotica epicurea. Il uve signis di Filodemo e la po lemica contro la
scuola stoica, Università di Bologna, ma noscrit to MARTINET, É/éments
de linguistique générale, Armand Colin, Paris (tr. it. Elementi di linguistica
generale, Laterza, Bari, MATES, Diodorean lmplication", The Philosophical
Review, Stoic Logic and the Text of Sextus Empiricus", in Ameri can
Journal of Philo/ogy, Stoic Logic, University of California Press, Berkeley-Los
Angeles-London M E LAZ OZ, La teoria del segno linguistico negli Stoici",
in Lingua e Stile, MIGNUCCI, Il significato della logica stoica, Patron,
Bologna 1966 "L'argomento dominatore e la teoria dell'implicazione in
Diodoro Crono", in Vichiana, MoRPuRoo-TAGLIABUE, Linguistica e stilistica
di Aristotele, Edizioni deli'Ateneo, Roma MoRRow, Studies in the P/atonie
Epistles, Bulletin 43, University of Illinois Urbana, Illinois MtilER, An
Introduction to Stoic Logic", in Rist, The Stoics, University of
California Press, Berkeley-Los Ange les-London 0EHLER, Aristotle", in
T.A. Sebeok, Encyc/opedic Dictionary of Semiotics, Mouton/de Gruyter,
Berlin-New YAmsterdam, PAGLIARO, Nuovi saggi di critica semantica, D'Anna,
Firenze-Messina "Il problema del
segno nella filosofia antica", in Filosofia del linguaggio, Edizioni
deli'Ateneo, Roma La parola e l'immagine, Edizioni Scientifiche Italiane, Na
poli PARKE, H.W. 1967 The Oracles of Zeus: Dodona, Olympia, Ammon, Black well,
Oxford PARKE, H.W.-WORMELL, The Delphic Oracle,
Oxford PARKER, R. 1983 Miasma: Pollution and Puriflcation in Early Greek
Reli gion, Clarendon, Oxford PEIRCE, Collected Papers, Harvard University
Press, Cambridge -58 (Mass.) Semiotica. l fondamenti della semiotica cognitiva
(M.A. Bonfantini - L. Grassi - R. Grazia, eds.), Einaudi, Torino Le leggi
dell'ipotesi (M.A. Bonfantini - R. Grazia - G. Pro ni, eds.), Bompiani, Milano
PELLEGRINI, Le système divinatoire astrologique: la temporalité en que
stion", in Actes sémiotiques-Bulletin, PÉPIN, SYMBOLA, SEMEIA, OMOIOMATA.
A propos de De Interpreta tione et Politique, in Aristo teles - Werk und
Wirkung. Band l. Aristoteles und seine Schule, W. de Gruyter, Berlin, PINGBORG,
J. 1975 "Classica) Antiquity: Greece", in T.A. Sebeok (ed.), Cur
rent Trends in Linguistics, Mouton, L'Aia-Pari gi, PLEBE, Introduzione alla logica formale,
attraverso una lettura lo gistica di Aristotele, Laterza, Bari Pom.ENZ, Die
Stoa, Vaudenhoeck und Ruprecht, Gttingen (tr. it. La Stoa, Nuova Italia,
Firenze) 272 RIFERIMENTI BffiLIOGRAFICI PRANTL, Geschichte der Logik im
Abendlande, S. Hirzel, Leipzig PRETI, Sulla dottrina del smeion nella logica
stoica", in Rivista critica di storia della filosofia, PRIETO, L.J.
Pertinence et pratique. Essai de sémiologie, Éditions de Mi nuit, Paris (tr.
it. Pertinenza e pratica, Feltrinelli, Milano, PRON1, Genesi e senso
dell'abduzione in Peirce", in Versus, RAMAT, Gr. hieros, scr. isirah e la
loro famiglia lessicale", in Die Sprache, 8 REGENBOGEN "Eine
Forschungsmethode antiker Wissenschaft", in Quel len und Studien zur
Geschichte der Mathematik, l, 2, Ber fin, pp. 132-182, ora in Regenbogen, 0.,
Kleine Schriften, C.H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung, Mtinchen, REY, Théories
du signe et du sens, 2 voli., Klincksieck, Paris 1984 "What does semiotic
come from?", in Semiotica RIST, J.M. 1969 Stoic Philosophy, Cambridge
University Press, Cambridge 1972 Epicurus. An Introduction, Cambridge
University Press, Cambridge RlsT, J.M. The Stoics, University of California
Press, Berkeley-Los Angeles-London ROBERT, F. 1983 "La pensée
hippocratique dans les Épidémies", in F. Las serre-Ph. Mudry (eds.), Formes
depensée dans la Collection Hippocratique, "Actes du IV Colloque
international hippocratique (Lausanne, Droz, Genè ve, ROHDE, Psyche.
Seelencult und Unsterblichkeitsglaube der Griechen, Freiburg (tr. it. Psiche.
Fede nell'immortalitàpresso i Greci, Laterza, Bari) RoMEo, "Heraclitus and
the Foundations of Semiotics", Versus, Ross, Aristotle, Methuen, London
(tr. it. Aristotele, Feltrinelli, Milano) Roux Delphes. Son oracle et ses
dieu.x, Belles Lettres, Paris Russo, A. Sesto Empirico, Contro i logici, Laterza,
Bari SANDBACH Phantasia Kataleptike", in Long Problems in Stoicism, The
Athlone, London, "Ennoia and Prolpsis in the Stoic Theory of
Knowledge", in Long, Problems in Stoicism, The Athlone Press of the
University of London, London, SANTA.MBR.OGIO, Minima Methodica", in Kos,
SAUSSURE, Cours de linguistique générale, Payot, Paris (Mauro, Corso di
linguistica generale, Laterza, Bari) ScHIMIDT Stoicorum Grammatica, Adolf M . Hakkert,
Amsterdam SEBEOK Contributions to the Doctrine of Signs, Indiana University,
Bloomington (tr. it. Contributi alla dottrina dei segni, Fel trinelli, Milano,
The Sign and lts Masters, University ofTexasPress,Austin SEBEOK Encyclopedic
Dictionary of Semiotics, Mouton/de Gruyter, Berlin-New York-Amsterdam SEDLEY
"Epicurus, On Nature, Book XXVIII", in Cronache Erco lanesi, On
Signs" in J. Barnes-J. Brunschwig et alii (eds.), Science and Speculation.
Studies in Hellenistic theory and practice, Cambrige University Press,
Cambridge, SIMONE"Semiologia agostiniana", in La cultura, SISSA, G.
1981 "La Pizia delfica: immagini di una mantica amorosa e bal
samica", in Aut Aut, Il segno oracolare, una parola divina e
femminile", in F. Baratta-F. Mariani (eds.), Mondo classico. Percorsi
possi bili, Longa, Ravenna, TAYLOR, A.E. 1912 "The Analysis of EPISTEME
in Plato's Seventh Epistle", in Mind, XXI, pp. 347-370 THAOAR.D, Semiotics
and Hypothetic Inference in C.S. Peirce", in Versus, TmvEL, Le 'divin' dans la collection
hippocratique", in La Collec tion Hippocratique et son role dans l'histoire
de la médeci ne, "Colloque de Strasbourg, Brill, Lei den, pp. 57-76
TuoMPsoN, R.C. 1923 Assyrian Medicai Texts, Oxford TODOROV, T. 1977
Théories du symbole, Seuil, Paris (tr. it. Teorie del simbo lo, Garzanti,
Milano, 1984) 198.5 "À propos de la conception augustinienne du
signe", in Re vue des Études augustiniennes, VANCE, E.
"Augustine", in Encyclopedic Dictionary of Semiotics, in T.A. Sebeok,
Mouton/de Gruyter, Berlin-New York Amsterdam, pp. 62-64 vANCE STAIANO, Medicai
semiotics: Redefining and Ancient Craft", in Semiotica, VEGETTI
"Teoria ed esperienza nel metodo ippocratico", in // Pensie- ro,
Nascita dello scienziato", in Be/fagor, 6, pp. 641-663 1979 Il coltello e
lo stilo, Il Saggiatore, Milano 1983 Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere
antico, Il Saggiato re, Milano VEGETTI, Opere di lppocrate, Utet, Torino
VERBEKE, La philosophie du signe chez les Stolciens", in A.A. V.V., Les
Stofciens et leur logique, Actes du Colloque de Chan tilly, Vrin, Paris
VERNANT, La divination. Contexte et sens psychologique des rites et des
doctrines". in JournaldePsychologie normale etpatho /ogique,
luglio-settembre, pp. 299-325 VERNANT, Parole et signes muets", in Vernant
(ed.), Divination et rationalité, Seuil, Paris (tr. it. Divinazione e
razionalità, Einaudi, Torino) VERNANT, Divination et rationalité, Seuil, Paris
(tr. it. Divinazione e razionalità, Einaudi, Torino) VIANO, Studi sulla logica
di Aristotele: l'orizzonte linguistico della logica aristotelica", in
Rivista critica di storia della filoso fia, "La dialettica di
Aristotele", in Rivista difilosofia, La dialettica stoica", in
Rivista di filosofia, VOLLI, U. 1979 La retorica delle stelle, L'Espresso
Strumenti, Roma WALD "Le rapport entre signum et denotatum, dans la
conception d'Augustin", in S. Chatman-U. Eco-J.M. Klinkenberg (eds.), A
semiotic landscapelpanorama sémiotique, Mou ton. The Hague-Paris-New York,
WEINOARTNER, "Making Sense of Cratylus", in Phronesis, 15, pp. 5-25
WENSKUS, o. 1983 "Vergleich und Beweis im 'Hippokratischen Corpus' ",
in F. Lasserre-Ph. Mudry (eds.), Formes de pensée dans la Collection
Hippocratique, "Actes du IV Colloque interna tional hippocratique
(Lausanne)", Droz, Genève WELTRING, Das SEMEION in der aristotelischen,
stoischen, epikureischen und skeptischen Philosophie, Hauptmann, Bonn (ried. in
Kodikas/Code, 9, 1-2, 1986, pp. 39-1 18) ZELLER, Philosophie der Griechen in
ihrer geschichtlichen Entwick- -68 lung, Fues's Verlag, Leipzig, Marcus
Tullius, Roman statesman, orator, essayist, and letter writer. He was important
not so much for formulating individual philosophical arguments as for
expositions of the doctrines of the major schools of Hellenistic philosophy,
and for, as he put it, “teaching philosophy to speak Latin.” The significance
of the latter can hardly be overestimated. Cicero’s coinages helped shape the
philosophical vocabulary of the Latin-speaking West well into the early modern
period. The most characteristic feature of Cicero’s thought is his attempt to
unify philosophy and rhetoric. His first major trilogy, On the Orator, On the
Republic, and On the Laws, presents a vision of wise statesmen-philosophers
whose greatest achievement is guiding political affairs through rhetorical
persuasion rather than violence. Philosophy, Cicero argues, needs rhetoric to
effect its most important practical goals, while rhetoric is useless without
the psychological, moral, and logical justification provided by philosophy.
This combination of eloquence and philosophy constitutes what he calls
humanitas a coinage whose enduring
influence is attested in later revivals of humanism and it alone provides the foundation for
constitutional governments; it is acquired, moreover, only through broad
training in those subjects worthy of free citizens artes liberales. In
philosophy of education, this Ciceronian conception of a humane education
encompassing poetry, rhetoric, history, morals, and politics endured as an
ideal, especially for those convinced that instruction in the liberal disciplines
is essential for citizens if their rational autonomy is to be expressed in ways
that are culturally and politically beneficial. A major aim of Cicero’s earlier
works is to appropriate for Roman high culture one of Greece’s most distinctive
products, philosophical theory, and to demonstrate Roman superiority. He thus
insists that Rome’s laws and political institutions successfully embody the
best in Grecian political theory, whereas the Grecians themselves were
inadequate to the crucial task of putting their theories into practice. Taking
over the Stoic conception of the universe as a rational whole, governed by
divine reason, he argues that human societies must be grounded in natural law.
For Cicero, nature’s law possesses the characteristics of a legal code; in
particular, it is formulable in a comparatively extended set of rules against
which existing societal institutions can be measured. Indeed, since they so
closely mirror the requirements of nature, Roman laws and institutions furnish
a nearly perfect paradigm for human societies. Cicero’s overall theory, if not
its particular details, established a lasting framework for anti-positivist
theories of law and morality, including those of Aquinas, Grotius, Suárez, and
Locke. The final two years of his life saw the creation of a series of dialogue-treatises
that provide an encyclopedic survey of Hellenistic philosophy. Cicero himself
follows the moderate fallibilism of Philo of Larissa and the New Academy.
Holding that philosophy is a method and not a set of dogmas, he endorses an
attitude of systematic doubt. However, unlike Cartesian doubt, Cicero’s does
not extend to the real world behind phenomena, since he does not envision the
possibility of strict phenomenalism. Nor does he believe that systematic doubt
leads to radical skepticism about knowledge. Although no infallible criterion
for distinguishing true from false impressions is available, some impressions,
he argues, are more “persuasive” probabile and can be relied on to guide
action. In Academics he offers detailed accounts of Hellenistic epistemological
debates, steering a middle course between dogmatism and radical skepticism. A
similar strategy governs the rest of his later writings. Cicero presents the
views of the major schools, submits them to criticism, and tentatively supports
any positions he finds “persuasive.” Three connected works, On Divination, On
Fate, and On the Nature of the Gods, survey Epicurean, Stoic, and Academic
arguments about theology and natural philosophy. Much of the treatment of
religious thought and practice is cool, witty, and skeptically detached much in the manner of eighteenth-century
philosophes who, along with Hume, found much in Cicero to emulate. However, he
concedes that Stoic arguments for providence are “persuasive.” So too in
ethics, he criticizes Epicurean, Stoic, and Peripatetic doctrines in On Ends 45
and their views on death, pain, irrational emotions, and happiChurch-Turing
thesis Cicero, Marcus Tullius ness in Tusculan Disputations Yet, a final work, On
Duties, offers a practical ethical system based on Stoic principles. Although
sometimes dismissed as the eclecticism of an amateur, Cicero’s method of
selectively choosing from what had become authoritative professional systems
often displays considerable reflectiveness and originality. “Cicero = Tully” Grice: “Actually, ‘Cicero’
and ‘Tully’ mean different things! ‘Cicero’ is more of a description than a
name!” La morte di C.. Cicero proscribed by the triumvirate. Cicero killed by
Marco Antonio, one of the three ‘vires’, along with Ottaviano. Cicero offered
his hands, with which he had written the Filippiche. His head and hands were
displayed at the Senate. The Romans never quite liked him because he was only a
provincial nobility and never displayed courage. C. affronta e sviluppa la
problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica:
le opere di argomento retorico; e le opere che parlano dei segni divinatori.
Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambito – le opera de
argomento retorico --, possiamo osservare che l'interesse per il concetto di segno
non è ugualmente centrale in tutte queste opere. Infatti, da una parte, ci sono
il “De oratore”, I'”Orator”, il “Brutus”, il “De optimo genere oratorum” -- che
affrontano una problematica a carattere socio-politico, volta a definire la
figura dell’oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua
posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo. In queste opere
tutto ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica -- e
con esso anche la problematica sul concetto di segnio e di prova indiziaria)
appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si configura come
un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora
solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona
o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il “De inventione”,
le “Partitiones oratoriae” e i “Topica”, opere molto diverse tra loro, ma
accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazione e di
sistematizzare la gran massa delle nozioni che compongono l'apparato tecnico
della retorica. Un limite di queste opere, in generale, è rintracciabile nella
minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il parossismo,
come nel “De inventione”, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione
teoretica. Tuttavia è proprio all'interno di queste opere che è dato
rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria
ciceroniana del segno. Il “De inventione” condensa l'ampia tradizione retorica
che dal Liceo giunge fino a Ermagora -- è quindi naturale che al suo interno si
trovano riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in
quell'ambito si sedimenta. In particolare, è presente la concezione del segno
in forma proposizionale, come antecedente p che permette discoprire un
conseguente q. Viene poi confermata l'attenzione verso il segno involontario --
l'impallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato -- come indizio di
colpevolezza. Infine, compare la classica divisione del indizo secondo la sua
relazione temporale con il fatto criminoso -- anteriorità, contemporaneità,
posteriorità. Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche
dire che la classificazione del segno proposta da C. è in larga misura diversa
da quelle precedenti. Essa appare infatti all'interno della teoria dell’
“argumentation”, cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte
delle prove per confermare una certa tesi. L'argomentazione sembra essere
qualche cosa che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in
maniera probabile – “probabiliter ostendens” -- ), o la dimostra in un modo
necessario – “necessarie demonstrans” -- De inv. Anche se non viene usato il
normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio
il meccanismo del segno. Infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che
viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a
questo punto, la distinzione, già aristotelica, tra una forza argomentativa
debole – “probabiliter ostendens” -- e un'inferenza necessaria – “necessarie
demon strans”. Il segno necessario e così definite. "Viene dimostrato in
modo necessario ciò che non può verificarsi né essere provato diversamente da
come viene detto.” Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo.”
“Se respira, è vivo” – “Se è giorno, c'è luce” -- De inv., l, 86. Come C.
spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il
conseguente sono legati da una relazione inscindibile – “cum priore necessario
posterius cohaerere videtur” -- De inv., l. 86. Il rapporto di rinvio *non*
necessario viene poi cosi defini to: "Probabile è poi ciò che suole
generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé
qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" -- De
inv., l, 46. Con questa definizione, C. mette in evidenza due caratteri: quello
probabilistico e quello doxastico. Il primo di questi e da Aristotele
attribuito peculiarmente all'”eikos” -- verisimile. E infatti i primi due
esempi sono di un tipo che Aristotele classifica come “eikos”. “e è madre, ama
suo figlio” – “Se è avido, non fa gran caso del giuramento.” (De inv.). In essi compare anche il tipico
rapporto di generalizzazione che per Aristotele definine il verosimile -- Arist.,
Rhet.. C'è però un terzo esempio. "Se c'era molta polvere nei calzari, era
sicuramente reduce da un viaggio" -- De inv.- che non sembra dello stesso
tipo, ma è più vicino al semeion aristotelico. La categoria di “signum”, poi,
compare come una sottopartizione del segno non necessario, accanto al “credibile”
-all’ “iudicatum” e al “comparabile.” Se le ultime tre nozioni – credibile,
iudicatum, comparabile -- appaiono distinte in base a criteri estrinseci (e
scompariranno nelle trattazioni successive), il “signum” corrisponde a una
categoria di fenomeni abbastanza particolare. "Segno è ciò che cade sotto
qualcuno dei nostri sensi e indica (significa) un qualcosa che sembra derivato
dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il
fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una
conferma più sicura" -- De inv., I, 48. Ne sono esempi: "il
sangue", "il pallore", "la fuga", "la
poivere". Si tratta, come si vede, dell’indizio, inteso come fenomeno percepibile,
scarsamente codificato e generalmente non volontario. Qui sono presentati in
una forma non proposizionale. Ma niente vieta che venga sviluppato in
proposizio ni, come dimostra il caso dell’indizio "polvere":
"Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un
viaggio". L’indizio, infine, venne suddiviso secondo la nota relazione
temporale con il fatto criminoso. Nelle “Partitiones oratoriae”a
classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità.
Innanzitutto la terminologia viene completa mente latinizzata. Dall’altre,
l’indizio -- qui chiamato “argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero
solet fiori élut quod in opi nione positum est") es.: ..
"pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaia come
sottopartizione di un'altra categoria. Il concetto asume un ruolo autonomo.
(·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se
ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et
quiddam sig nificat, quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue",
·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio---signum erodibile indicBtLm
comparabile / -- --. Infine, viene accettata la distinzione aristotelica tra
"luoghi estrinseci" -- corrispondenti alle "prove
extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' -- corrispondenti
alle "prove tecniche", éntechno1’ -- che venne criticata nel “De inventione”
(Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei “Topica”. È curioso notare come tra i
luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane,
anche quelle divine: gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di
sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è
sicuramente un residuo di una concezione ordalica e antichissima
deli'amministrazione della giustizia. Tuttavia è anche un indizio di un
continuo riaffiorare del paradigma divinatorio all'interno del fatto semiotico,
anche quando ormai il segno si e completamente “laicizzato”. Né questo è
un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura, si
ricorderà L,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si
esprime: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane
l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche
dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno
caratteristico. Il segno umano e invece trattato come un argomento intrinseco,
in particolare tra quello che riguarda lo stato di causa congetturale. La
congettura può essere tratta da due tipi di segni: il verisimilie e la nota propria
rei ( Il verisimile, come dice C., è "ciò che accade per lo più"
(Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo
particolare". Questo tipo di segno corrisponde all’”eikos” aristotelico,
di cui ha il carattere probabilistico e generalizzante. La “nota propria rei” e
definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una
cosa certa, come il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evidentemente,
del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso
dell'aggettivo “propria”, che rimanda alla nozione di fdion semeion -- segno
proprio. Per Aristotele, segno proprio e la caratteristica specifica di un
certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità,
segno del coraggio (An. Pr.). Il segno proprio ha puo carattere di necessità e
si define come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui
rimanda (Philod., De signis). Ci e, poi, il “vestigium facti,” dei
quali venneno dati questi esempi -- "un'arma, macchie di sangue,
grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor so
contraddittorio, tremore, gli indizi materiali della premeditazione, le
confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Pari. or., 39). C. non define QUf)tO tipo di segni, se non
dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratteristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, ed agli argumenta di Cornificio (Rhet. adHer., II,
8). I commentatori si sono chiesti se i vestigium facti e più in relazione con
il segno necessario (nota propria rei) o con il verisimile) (Crapis 1986:
61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la
necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degli ultimi. È plausibile
che essa corrisponda alla categoria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai
tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle “Partitiones oratoriae” (1
14), dove ricorrono esempi analoghi, il vestigium facti (chiamato lì anche signum)
vennne definiti come “consequentia”, cioè inferenze che si traggono dal
conseguente, caratteristica che define appunto, per Aristotele, il segno non
necessario. Ma mentre Aristotele condanna i smefa da un punto di vista epistemologico
per la sua insicurezza, C. è pronto a riconoscerne l'efficacia qualora si
presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Molte cose collegano la
retorica giudiziaria alla divinazione. Innanzitutto, il fatto che entrambe si
avvalgano del segno per arrivare alla conoscenza di un fatto non direttamente
accessibile alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una
distinzione tra aspetti che sono eminentemente congetturali e altri aspetti
che sono invece naturali o trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue
- uccisione· es.: •adolescenza inclinazione alla libidine · coniecturs
-verisimilie (quod plerumque rta notse proprise rerum (quod numquam alrter frt
certumque declarat) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla
dicotomia retorica tra prove tecniche (o congetturali) e prova extratecnica
corrisponde la distinzione tra divinazione artificiale (basata sull'interpretazione
e sulla congettura) e divinazione naturale. Infine, come C. polemicamente
rileva (De div., II, 55), il segno della divinazione e talvolta interpretati in
maniera diametralmente opposta, proprio come avviene nel processo, in cui
l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni diverse
ed entrambe plausibili. Ma C. apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria,
mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della divinazione. In linea,
infatti, con un vasto gruppo di intellettuali della sua epoca, educati ai
metodi di indagine della filosofia a fondamento razionalistico, e contemporaneamente
impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra
religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La
religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai
fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello
stato stesso. La superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi
spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere
respinta, anche per ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel
suo impegno di gestione della repubblica. C. affronta questi argomenti nel
De natura deorum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que
st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello
Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che
legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di C. contro
la teoria sostenuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché
costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e
contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. Secondo la
teoria di Quinto, gli dei si pongono come fonte dell'informazione e come
emittenti nei processi di comunicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono
i destinatari. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il processo
comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla “divinatio
artificialis”, in cui l'interpretazione del segno è legata a un'ars, ovvero a
una tecnica professionale di decrizione, demandata a specialisti, ciascuno
esperto in un settore: extispices -- esaminatori delle viscere --, interpretes
monstrorum et fu/gurum (interpreti dei fatti prodigiosi e dei fulmini),
augures -- interpreti del volo degli uccelli --, astrologi -- interpreti delle
stelle --, interpretes sortium -- interpreti delle combinazioni di tavolette
mescolate in un'urna ed estratte a caso. In tale divinazione, l'informazione
proveniente dal divino si materializza prima di tutto in una sostanza
espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto
semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo
sono dati dalla teoria, di origine del Portico secondo cui tutti i fenomeni
sono legati tra di loro in una catena di cause ed effetti, senza soluzione di
continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il logos divino e costituisce il fato (heimarméne),
non è conoscibile per intero da parte degl’uomini, dato che l'onniscienza è
prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza
di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una
gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre
quantoprimaèaccaduto"(De div.).Questofasìche gli uomini, attraverso
l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si ripetono e, pur
non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne
gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem).
Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle connessioni passate, si crea
un vero e proprio codice basato sul la iteratività. Si può schematizzare così
il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla
iterattività. Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in
quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto
da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un
segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivanti da
invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il
palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è
quello delle teorie del Liceo (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente nominati,
De div.), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale col divino, una
volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che
la legano al corpo, partecipa direttamente del divino. Il ruolo del codice è in
questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: emittente
divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano. Le obiezioni che C.
muove ai sostenitori della divinazione si basano su argomenti specificamente
semiotici. La tesi generale, mediante la quale C. nega valore alla divinazione,
è che essa non ha veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa
interpreta come segno non e tale, ovvero che non si comporta veramente come d’antecedente
rispetto a di conseguente. Per distinguere un segno vero rispetto a quello presunti
della divinazione, C. istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come
la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino
e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione
del futuro a partire da certi indizi. Ma, mentre le pratiche professionali
adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars),
ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De
div., II, 14), le prati che divinatorie si basano sul "capriccio della
sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue
prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade re" (De
div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice
(anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il
caso è del resto la stessa con cui i medici ippocratici tendevano a
distinguere la propria scienza professionale dalla divinazione e dalla
medicina magica (Antica medicina). C. poi si sbarazza in termini razionalistici
della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe
appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e
insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono altri gravi difetti che la
divinazione presenta dal punto di vista semiotico. Le interpretazioni di uno
stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div., Il, 83). Si
verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente,
per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio
so, ma a ben diverse cause naturali (De div.). L'interpretazione avviene a
posteriori e così toglie ogni necessità di rapporto tra antecedente e
conseguente (De div.). In certi casi l'interpretazione è motivata da ragioni
di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74).Grice:
“Most English gentlemen knew Cicero via the Macmillan’s Loeb Classical Library,
a book fit for the gentleman’s pocket! One at a time, since there are quite a
few volumes dedicated to Cicero! Mr Chips makes fun of the revised
pronounciation, /kikero/!” Grice: “Cicero was quite confused, sexually. His
favourite target of attack was Marcantonio, which paid him good, since
Marcantonio sent someone to cut his hands (‘for all the dirty lies you wrote
about me’). He accuses Marcantonio of various things which did not fit Cicero’s
ideal of VIRTUS – virtus is what modern scholars refer to as ‘masculinity’ if
you look for it in keywords – or even better masculinities in the plural. The
sexuality side to the masculinity was of little importance to the Romans and
Cicero – the ‘masculinity’ side WAS. Cicero’s main classification is between
ROMAN MEN and future Roman men. A Roman man is aged 20+ (has already dedicated
his first beard to the gods), and obviously freeborn. Freed citizens do not
count since a lot of calamities could have occurred to these ‘freed’ men BEFORE
becoming free. So, even though, while becoming free they attained the rights of
the Roman man, they were yet considered NON-MAN by the Roman man. The FUTURE
man is a Roman male under 20. They were considered sacred. The erotic pleasure
a ROMAN man wanted to find he could rely on two very practical institutions –
one was that of SLAVERY. A male slave was used as recipient of sexual desire.
The ROMAN man’s desire and his satisfaction counts, but he cannot pretend that
his SLAVE’s does – by definition, a slave does not have a will – or he would
not be a slave. Slave he has become by the circumstances, not by will, and if
this ‘job’ included in the job description that of satisfy a Roman man’s
desire, it was the job description of a job he never applied to. The other very
useful institution was that of the PROSTIBULUM. The Roman man distinguishes
lexically between MERETRICX, a female prostitute, and a PROSTIBULUM. There is
some overlap here. While a ROMAN MAN could have passed as a prostitute, there’s
no reason why he should. OH THE OTHER HAND, a slave could be put into
prostitution by a pimp – so slave – nonliberus – and prostibulum were not
exclusionary. Again, in the case of PROSTIBULUM, it would be idiotic of the
Roman man to pretend that the desires of the PROSTIBULUM counted. They were
there to please. Brothels – there was one called Ganymede, in Ostia – quite
popular, next to a latrine – had all the amenities of bedrooms, locked doors,
etc.. WHAT MATTERED to the ROMAN man was that his REPUTATION OF VIRTUS – or
masculinity as self-control – kept untouched, so that the receptive role in the
sexual act would have no witnesses if it occurred at all. Cicero was well aware
of all this. But it would be idiotic to focus just on CICERO. The keyword
should be ROMAN MASCULINITIES, and Ancient Rome. In this way, we can cover the
periods of the archaic regal period, the republic – Cicero and Cesare – and the
Empire. When it comes to professional philosophers one has to be careful in
that they were a breed apart. They catered to the very elite, so their views
did not represent ‘popular’ morality. Roman law is another trick. Cicero
mentions a law against ‘stuprum’ – which is best understood as ‘stuprum’
against any of the two sexes. The evidence for the philosopher should include
visual, and literary. Virgil and his national epic count large – and the
Hellenistic references he makes to Ganymede and his Niso ed Eurialo being
erastes and eromenos would be understood to his audience. And so would
Hadiran’s affair with this foreigner (a replica of the Ganymede myth – and
Cicero calls Marcantonio a ‘ganymede’ --. Like Zeus, Adrian was the MASCULINE
VIR VIRTUOUS, dominant and controlling. Like Ganymede, Antinous was the
foreigner subservient!” Manetti has explored the semiotics of CICERO in some
detail. In general, he approaches first CORNIFICIO, who is the author of a
treatise on rhetoric for long attributed to Cicero. The semiotic of Cicero is
lawyer-based. His idea is that if x, y.
x is a sign of y. y is the cause of x. x is the effect of y. He is
interested in semiotics as part of the analytica – or demonstration which is
not necessary. It is interesting to compare Cicero’s semiotics with one by this
Spaniard, Quinitilian. Quintilian, possibly a homosexual, had an obsession with
what signs qualify as naturally meaning that the person is a homosexual. He
said there were none. It is in this discussion that semiotics works. Grice:
“Cicero was quoted twice at the Mostra augustea della romanita – a sentence,
and Svetonio’s description of the birth of Augustus under his consulship.” A
topic of analysis if ‘natura’. There are natural tendencies in man. And some
which are CONTRA NATURAM. Oddly, semioticisans like Cicero and Quintilian refer
a lot to these ‘contra-naturam’ conventions – or non-naturale. Grice: “Austin
liked Cicero because he made ordinary Latin into extraordinary philosophese!” Il
C. di Rensi. Spero enim homines mtellecturos quanto sit omnibus
odio crudelitas et quanto amori probitas et clementia. C. Cassio in
Cic., Ad farri. XV, 14 C. Renisi . Vita parallele,li
due filosofi 4 C. era vicino ai sessantanni, quando lo
Stato legale romano, che già precedentemente aveva subito terribili scosse, ma
che mediante una saggia riforma avrebbe potuto rinvigorirsi sul suo
stesso tronco senza frattura o soluzione di continuità, riceveva da Cesare il
colpo di grazia... Non è più necessario rivendicare la
grandezza di C. contro le denigrazioni del Mommsen e di altri due o
tre storici tedeschi (I). Egli non era una ràbula e un politico
superficiale. Bensì un uomo di Stato dallo sguardo ampio e sicuro,
nel cui animo si radicava e viveva di vita vigorosissima tutta la grande
tradizione politica romana, Una bella e vivace confutazione del Mommsen
si può leggere nel saggio di A. Horncffer, Cicero und die
Gegenwarl, contenuto nel volume Das Klassische Ideal (Lipsia, Klinkhardt,
1909). L' Horneffer però rivendica solo il valore di C. come
epistolografo e oratore, non come filosofo. e pur senza che l’animo servilmente vi
soggiacesse, ma, anzi, insieme, con la chiara coscienza della nuova
direzione che quella tradizione doveva prendere, e della misura e forma in cui
doveva prenderla, per svilupparsi fecondamente e superarsi vivificandosi.
Accanto a ciò, mente che s’era impadronita di tutta la più alta cultura
dell'epoca : Demostene e Platone insieme pel suo paese, come
riconosce Wilamowitz-Moellendorf Accanto a ciò, una squisitissima
sensibilità artistica e una passione vivacissima per le cose d’arte ;
basta vedere quanto “ vehementer , com’egli stesso dice, attendeva che
Attico gli mandasse sculture ed oggetti artistici greci: “genus hoc est
voluptatis rneæ (Ad Att.) ; e basta aver letto attentamente
le sue orazioni e aver scorto il perfetto senso d’arte con cui sono
costruite e che vi circola. Accanto a ciò, infine, una sensibilità in
generale per le cose, le persone, gli eventi, gli affetti, così moderna,
che in lui, nella sua pronta e multiforme impressionabilità,
ritroviamo interamente noi stessi : e il suo dolore erompente e
pieno di accenti passionali per la morte della figlia Tullia, è il
palpito d’un cuore dei nostri tempi. Uomo, in una parola; assolutamente
completo. Platon. Un filosofo di così sottile e sicuro buon gusto e di
cosi grande penetrazione storica (e particolarmente Il rimprovero che gli
si fa di debolezze e incertezze è uno dei soliti rimproveri che gli eroi
di poltrona hanno quasi sempre occasione di rivolgere al grande che si è
trovato a dover davvero vivere avvolto da un gigantesco turbine di
avvenimenti, e che nemmeno se fosse stato mille volte più grande poteva
abbracciarne tutte le fila, come è invece agevole a quelli che non fanno
se non pacificamente rileggerli nel loro tranquillo gabinetto venti
secoli dopo. Egli non fu debole ed incerto nè nella repressione della
congiura di Catilina, nè nella lotta per la salvezza della costituzione
contro il cesarismo rinvelenito da Antonio, lotta che chiuse cosi
gloriosamente la sua carriera mortale. Le sue incertezze di altri momenti
sono unicamente frutto della sua profonda moralità. Perché l’uomo
fondamentalmente morale e intelligente, in mezzo a cataclismi enormi che
travolgono gli individui come fuscelli, quali quelli in cui C. si
trovò, mentre non può operare contro coscienza, e per questa, che
pure sarebbe l’unica via possibile, salvarsi o tornare a grandeggiare, però
avverte anche i pencoli micidiali a cui espone sè ed 1 suoi operando
secondo coscienza : e la condotta risultante è necessariamente quella che
tracciano le fluttuazioni di tale angoscioso conflitto
interno. circa la storia romana) come Montesquieu ne dà questo
giudizio. Ciceron, selon moi, est un des plus grands espnts qui aient
jamais été (Pensées diVerses), Ab illis est periculum si peccare, ab hoc si
recte fecero, nec ullum in his malis consilium periculo vacuimi
inveniri potest {Ad Att, X, 8). Quando
i frangenti in cui un uomo si trova realmente a vivere sono davvero
quelli così delineati, si può domandarsi se sia umanamente possibile la
rettilineità che esigono da lui coloro che poi spulciano comodamente gli
eventi della sua vita. Sicuro e diritto, in tali circostanze, è l'uomo
amorale che non sente scrupoli : il cinico ed elegante arrivista
Celio Rufo, che a C. da questo consiglio {Ad. Di'». Vili, 14): “ Suppongo
che non ti sfugga come nelle discordie politiche interne gli uomini
debbano seguire, finché si lotta senz’armi, la parie più onesta, ma la
più forte quando vengono in gioco guerre ed eserciti, e stabilire che è
migliore ciò che è più sicuro (Celio
Rufo, del resto ottimo scrittore, tanto che per molti umanisti ed altri
dotti è ancor oggi il miglior modello di stile). Ma C. era un uomo di
coscienza. Questa soltanto, non la sua incapacità mentale, la causa
della sua rovina. Egli era andato con Pompeo, non già sedotto
dalla speranza della vittoria, ma quando la causa di costui era ormai pressoché
perduta e con la piena nozione di tale condizione di cose, e mentre
Cesare, Antonio, Celio, per cercar di trattenerlo almeno neutrale, gli
facevano offerte larghissime : secuti non spem, sed officium {Ad Div.). Vi era andato essendo
consapevole, non solo dell’inettitudine e impreparazione di Pompeo e di
quelli che erano con lui, ma altresi del fatto che poco o nulla c era da
sperare da essi circa la restaurazione della legalità, animati come costoro
erano da propositi di persecuzione sillana (Ad Att.; Ad D/v.), e
chiaro ormai essendo che dai pompeiani non meno che dai cesariani
non si pensava che a far man bassa dello Stato: “ regnandi contendo est »
(Ad Att.), “ dominatio quaesita ab utroque est, non id actum beata
et honesta civitas ut esset. Vi era andato straziato dall’ idea d una
guerra civile e unicamente in obbedienza a considerazioni d ordine
morale. E’ la coscienza che ci costringe, scrive ad Attico (X,8), a
staccarci da Cesare più ancora se vincitore che se vinto, per non essere
solidali con ciò che seguirà alla sua vittoria, stragi, estorsioni,
violenze “ et turpissimorum honores, et regnum non modo Romano homini,
sed ne Persae quidem cuiquam tolerabile Era andato da Pompeo, senza
illusioni e speranze, unicamente per senso del dovere. Sed
valuit (scrive più tardi a Cecina) apud me plus pudor meus quam timor ;
veritus sum deesse Pompeii saluti, cum ille aliquando non defuisset
meae. ltaque vel officio, vel fama bonorum, vel pudore victus, ut in fabulis
Amphiaraus, sic ego prudens ac sciens, ad pestem ante oculos
positam sum profectus (Ad Div.). Egli sapeva cioè di andare alla
rovina e vi andò in obbedienza a yu principio d'onore (pudor) e di
gratitudine, per quel poco che Pompeo aveva fatto onde richiamarlo
dall’esilio. “ Pudori tamen malui famaeque cedere quam salutis meae rationem
ducere riconferma a M. Mario. E ritornando più tardi in una lettera
a Torquato, che aveva anch’egli seguito la parte pompeiana, su
quell’episodio a entrambi comune, sente di poter ricordare in cospetto al
correligionario politico nec nos victoriae praemiis ductos patriam olim et
liberos et fortunas reliquisse, sed quoddam nobis officium iustum et pium
et debitum reipublicae nostraeque dìgnitati videbamur sequi, nec cum
id faciebamur tam eramus amentes ut explorata nobis esset victoria.
Ne è questa un’opportunistica configurazione postuma della sua condotta di quel
tempo. Basta percorrere la sua corrispondenza con Attico (suo amico intimo e
suo editore, uomo consumato nell’ impresa di tener il piede in più
staffe e nella difficile arte di conservarsi amici i vincitori senza inimicarsi
i vinti) per constatare che tale veramente, cioè il senso del
dovere, era il nobile sentimento da cui fu mosso. Officu me deliberalo cruciat,
cruciavitque adhuc ; cautior certe est mansio ; honestior existimatur
traiectio (Ad Alt.). E quando Pompeo è pressoché spacciato e stretto da
tutte le parti, e C. è ritornato in Italia, egli si cruccia proprio
di questo suo atto da cui gli sarebbe derivato vantaggio e che poteva
quindi essere reputato abile, e si rammarica di non essere stato con
Pompeo sino alla fine; “ numquam enim illus victoriae socius esse volui ;
calamitatis mallem fuisse (Ad
Att.). Il principio, insomma, che in un’altra posteriore
circostanza, piena di pericoli mortali, nella sua lotta contro
Antonio, egli enuncia a Planco così : “ mihi maximae curae est, non de mea
quidem vita, cui satisfeci vel aetate vel factis vel gloria, sed me patria
sollicitat ( Jld Dio.), questo è il principio che domina costantemente nell’animo
di C., insieme con l’insormontabile ripugnanza, o meglio con 1’
impossibilità, di venir meno al rispetto verso se stesso. Allorché,
essendo Cesare incontrastato padrone, l’accomodante Attico gli dà
il consiglio di obbedire ai vincitori, “ non mihi quidem (egli risponde)
cui sunt multa potiora (Ad
Att.). Certo, un uomo mosso prevalentemente da sentimenti di tale natura,
nelle tragiche vicende pubbliche da cui si trovò avvolto C., va al fondo.
Resta a vedere se ciò sia un indice di inferiorità o se non lo sia
piuttosto quel successo che è raggiunto (e la cosa è facile) in grazia
dell’assenza di tali sentimenti, della mancanza d’ogni freno etico, dell
insensibilità ad ogni scrupolo di coscienza, della nessuna riluttanza a violare
cinicamente ogni principio di diritto e di morale. Nè r uomo che aveva
cominciato la sua carriera attaccando coraggiosamente nell’orazione prò
Roselo un favorito potentissimo di Siila, era un pavido. Dimostrò
ancora di non esserlo e nel suo consolato e nell’ultima fase della sua vita.
L’apparenza di timidità da lui talvolta offerta, deriva da ciò che
egli, come disse di sè, si preoccupava grandemente dei pericoli nella
rappresentazione e raffigurazione mentale anticipata di essi, non già che
titubasse poi ad affrontarli nella realtà. Quintiliano narra : “ Parum
fortis videtur quisbusdam : quibus optime respondit ipse, non se timidum
in suscipiendis, sed in providendis periculis. E’ press’a poco ciò che egli
scrive a Toranio: mi accusavano di essere timido, “ eram piane,
timebam enim, ne evenirent, quae acciderunt
; mi dicevano timido, “ quia dicebamus ea futura, quae facta
sunt (Ad Dio.). Nè è giusto accusarlo
di non aver saputo intuire con chiarezza le situazioni e di essersi per
questa deficienza di sguardo gettato a corpo perduto a combattere
per soluzioni che la realtà escludeva. È questa la solita iniqua condanna
che ì posteri, aggiungendosi ai contemporanei nell’incensare i vincitori
e nel dare il calcio dell’asino ai vinti, pronunciano contro colui
che difese la causa rimasta storicamente soccombente. Quasiché il fatto che una
causa sia rimasta storicamente sconfitta dimostri anche che era giusto e
logico che essa lo fosse ; quasiché il mero fatto, il fatto del successo,
sia anche verdetto di giustizia e logicità ; quasiché assai spesso la
causa storicamente prostrata non sia quella che avrebbe dovuto
vincere. Che la cosa stia così nel caso di C., lo dimostra il fatto che
la causa da lui combattuta e che vinse costituì la rovina della vita
di Roma : basta per accertarsene constatare che nella stessa nostra
memoria di posteri la vita di Roma resta chiaramente presente e attira la
nostra appassionata attenzione appunto sino ad Augusto; ci
rimangono ancora come appendice già torbida i primi imperatori ; poi
tutto ci si confonde dinanzi in un lungo stato comatoso chiazzato di
continui sussulti sanguigni, in cui (se non siamo storici di professione) non
distinguiamo piu ne nomi, nè persone, nè eventi, di cui non ricordiamo,
nè c’importa ricordare, più nulla. Si rammenti come, per es., scorgeva
Roma Massimo d’Azeglio. “ Fra tutti gli Stati dell’antichità è Roma
quello che ho in maggior stima, fino all’epoca dei Gracchi, intendiamoci
! lo ammiro que’ tempi durante i quali dominò la legge ; durante i quali
le più bollenti passioni agitate dai più vitali interessi, non cercavano
altr armi nè altre vittorie che un voto ne’ Comizi . E poco prima :
Se è giusto e vero il principio fondamentale delle Società moderne,
essere la legalità di un governo dipendente dalla volontà del popolo che
vi è governato, vorrei sapere se 1’umanità consultata avrebbe ne’ tempi
dei Romani votato [Nemmeno i mezzi che egli aveva messo in opera per
sostenere la causa che soccombette, soo inadeguati. Tutto, invece, egli aveva
provvisto ; tutto quanto era necessario perchè essa vincesse: aveva
cercato di assicurare ad essa l’appoggio e la fedeltà dei maggiori
personaggi militari e politici ; aveva costituito e messo in campo
eserciti poderosi ; con la sua parola teneva altissimo il tono
morale del popolo all’ interno. Se la causa non vinse, lo si deve, non a
un fato storico, a condizioni incoercibili insite nella realtà e
sfuggite allo sguardo di C., o al logos immanente nella storia ; ma
unicamente a due o tre puri casi, che potevano accadere diversamente e in
tal modo rovesciare la situazione. Dice in qualche luogo Rosmini
che “ uno de’ mezzi, co’ quali 1’ uomo può sciogliere la propria mente da
molti pregiudizi e da’ legami delle consuetudini sensibili, si è
l’esercitarsi a considerare le cose non solo come sono, ma come
potrebbero essere. Se vogliamo applicare questo precetto al periodo di
storia in discorso (come Renouvier in Uchwnie l’ha applicato in modo
grandemente interessante a tutta la storia occidentale dagli Antonini in
poi), scorgeremo agevolmente che due o tre futili casi, per
l'impero (Miei Ricordi, Barbera). Antologia Pedagogica a cura di G.
Pusinieri, Rovereto, Mario] i quali fossero avvenuti diversamente,
sarebbero bastati a cambiare del tutto la faccia delle cose; se, p.
e., Lepido non avesse tradito, o se un giavellotto l’avesse ucciso quando egli
si mosse per portar soccorso ad Antonio ormai disfatto, se Planco
non avesse fatto il doppio giuoco, ciò sarebbe bastato per far di C. il capo
dello Stato romano, e perchè egli occupasse nella politica di Roma
d’allora, e nella storia, il posto d’Augusto. E quanto lo Stato romano e
la posterità sarebbero stati più fortunati se il potere fosse venuto in
mano ad un uomo di rettitudine profonda e di vivo senso del diritto e del
dovere, come C., anziché ad un uomo la cui bassezza d animo è provata
luminosamente dal fatto che, avendo cominciato ancora puer o adolescens,
come sempre C. lo chiama, (sed est piane puer n \Ad Att. XVI, 11), ad
essere qualcosa solo per 1 appoggio datogli appunto da C. e con lo strisciarsi
umilmente ai suoi piedi (“a me postulat primum ut clam conloquatur mecum
Capuae vel non longe a Capua ducem se profitetur nec nos sibi putat
deesse oportere ; binae uno die mihi
litterae ab Octaviano; “ deinde ab Octaviano cotidie litterae, ut
negotium susciperem, Capuani venirem, iterum rem publicam servarem » ;
mihi totus deditus; “ nobiscum hinc perhonorifice et amice
Octavius Ad Jltt. XVI, 8, 9, 11,
XIV, 11, 12), non si trattenne dal sacrificare ad una propria maggiore
ascesa la vita di colui che l’aveva sorretto nei suoi primi passi. Uomo
egli, si, veramente, pusillanime, che vinse le guerre solo per
mezzo dei suoi generali e specialmente di Agrippa , e non aveva il coraggio di
presentarsi nel campo se non dopo che Agrippa gli annunziava la vittoria
(Svet. Aug. 16). Fondamentalmente istrione e poseur come risulta dal
fatto, narrato da Svetonio (Aug. 84), che non comunica mai nemmeno con
sua moglie senza scrivere prima e leggere ciò che voleva dire, nonché
dall’altro, sempre narrato da Svetonio, che egli amava stilizzare a
particolare espressività e luminosità i suoi occhi, “ quibus etiam
existimari volebat inesse quiddam divini vigoris, gaudebatque
[Octave lui [a Sesto Pompeo) fit deux guerres laborieuses ; et
après bien de mauvais succès il le vainquit por i’habilité d’Agrippa... Je
crois qu’ Octave est le seul de tous les capitaines romains qui ait gagné
1 affection des soldals en leuv donnant sans cesse des marques
d’une làcheté naturelle
(Montesquieu, Grandeur et Dócadence des Romains. Tanto Cesare
quanto Augusto avevano l’abitudine di citare dei versi delle Fenicie
di Euripide. E la citazione che l’uno e l’altro aveva scelto è
rivelatrice del loro rispettivo carattere. Cesare amava citare i versi
524-525 : “se c' è un caso in cui sia bello violare il diritto, è quando
lo si viola per conseguire la tirannide citazione signifìcatiice dello
spirito violento e illegale. Augusto amava citare il verso 559: è
meglio per un generale procedere al sicuro (àacpaÀr/c) che essere ardito
(ihf aouc) ; citazione significatrice
della vigliaccheria (cfr. Cicer. De Off. Ili, 21, 82 e Svetonio Aug.] si
qui sibi acrius contuenti quasi ad fulgorem solis vultum summiteret e
infine in modo palmare dalle parole (“ ecquid iis videretur mimum vitae
commode transigisse ) e dalla citazione greca richiedente 1 applauso per la
commedia ben riuscita, con cu; egli chiuse la sua esistenza (ib. 99).
Uomo che desta particolare antipatia precisamente in grazia del suo
proposito di moralizzare la vita romana ; perchè niente è più ripugnante
del dissoluto che si da il compito di costringere gli altri alla virtù e
posa a restauratore della morale pubblica ; e Augusto aveva cambiato tre mogli
prendendo 1 ultima al manto sotto ì suoi stessi occhi, conducendola con
sé in un altra stanza donde era ritornata spettinata e con gli orecchi
rossi, e poi introducendola in casa propria incinta d’un altro; aveva
commesso le oscenità che narra Svetonio, irripetibili, tranne forse una
: “ adultena quidem exercuisse ne amici quidem negant; e dopo ciò
faceva udire le parole ammonitrici di vita austera e imprendeva a
ricondurre i costumi alla prisca severità (I). La scandalosa condotta di
sua figlia e di sua nipote, che condusse [A cool head, an unfeeling
hcart, and a cowardly disposition, promtcd finn al thè age of nmeieen, to
assume thè maske of hypocrisy, which he never afterwards laid
aside. With thè saine hand, and proba’bly with thè same temper, he signed
thè proscription of Cicero and thè pardon of Cinna. His virtues, and even
his vices, were artifìcial
(Gibbon, Decime and Fall] all’esilio di entrambe, e di Ovidio complice o
pronubo, dimostra che nella sua famiglia stessa si aveva il senso netto
del come si poteva prendere sul serio una riforma morale che pretendeva
attuare un individuo di siffatta ìndole e di siffatti precedenti. Non
ostante che all’epoca del trionfo di Cesare si avvicinasse alla
sessantina, C. non. era uomo che non sapesse comprendere i tempi.
Li comprendeva benissimo, più profondamente e sapientemente di Cesare e
di Ottavio. La sua mente era in pieno vigore. Subito dopo quell epoca
egli poteva scrivere quei suoi libri di filosofia che suscitarono
l’ammirazione dei contemporanei e furono e saranno letti con entusiasmo o
rispetto da tutte Coglie veramente nel segno Aurelio Vittore :
Cum esset luxuriae serviens erat eiusdem vitii severissimus ultor,
more hominum, qui in ulciscendis vitiis, quibus ipsi veliementer indulgent,
acres sunt . (cap. 1). E s. può dire d. lui quel che il Boissier dice di
Domiziano : 1 ar malheur, ce prince si sevère pour les defauts des
autres, etait luimème très vicieux. 11 avait fait des lois rigoureuses
contre l’adultere et il vivait publiquement avec sa mèce, la bile
de Titus, qu’ il avait enlevée à son mari et dont il causa la mort en
essayant de la taire avorter. Ce contraste etait choquant, et il n’
ignorait pas qu’on en etait indigne (Tacite] le generazioni successive (I). Poco
più oltre egli svolgeva anzi la sua azione politica più abile, più
decisa, piu energica e più importante, e, insieme, con le filippiche
raggiungeva un’altezza da lui ancora non tocca nella forma d’arte che gli
era propria : “ divina chiama
giustamente un giudice certo non facile, Giovenale (X, 125), la
seconda di esse. La sua idea di portare alla luce del mondo
politico, sotto la sua direzione, il pronipote e figlio adottivo di Cesare,
ancora ragazzo (aveva appena diciannove anni), accordandogli anche onori
che a molti parevano eccessivi, e di riuscire così giovandosi del nome di
Ottavio a far rientrare il ribollente partito cesariano nell’ordine
costituzionale e a dominare in tal modo una siInazione difficilissima, era una
idea geniale, abilissima, da politico grandemente avveduto, l’unica
(I) Sull immensa influenza esercitata da C. sui a t“ di
tutti ' tempi ' veg § asi ‘'furiente r “, Z r fe,v C f er, 0 o ™ Wandel
dcr Jahrhunderte I d-' P r a ' ed ;. lj^ 9 ) Strachan-Davidson
nella sua Vita di C. ( Heroes of thè Nations Series ) dice
giustamente che se si dovesse decidere quale degli scrittori antichi
maggiormente influì sul mondo moderno, la decisione sarebbe,n favore di
Plutarco e C. hrasmo, scrivendo ad un amico, diceva che, se da
giovane aonr enVa rf matUra era andato sempre più
apprezzando C.. Ld è proprio giusto il noto giu d. Z .o di
Quintiliano : “ Ille se profecisse sciat, (e s. può aggiungere: tanto
gusto letterario, quanto in retti Jne etico-politica) cui Cicero valde
placebit. G. Sensi . y ita paratiti « di due fila.ofi ] idea
che in quel terribile cataclisma poteva dar buoni frutti. Non è sua colpa
se 1 idea non riuscì, e proprio sopratulto per la perfidia senza
scrupoli del futuro Augusto. Per quanto avveduto e grandemente
intelligente, un uomo di Stato fondamentalmente onesto come C., non fa
entrare nel suo giuoco la supposizione di una perfidia enorme, di
gran lunga travalicante la media nequizia umana, come fu quella di Augusto; nè
si può accusarlo di incapacità se non ve la fa entrare, e se essa
gli si rizza impensatamente dinanzi mandando a picco i suoi piani più
accortamente e sapientemente elaborati . Fra il 4 1 e il 40 a. C.,
cioè all’età di circa sessantaqualtro anni, C. assume risolutamente, nel
momento più pieno di vicissitudini e pericoli, la parte di leader del
Senato e del popolo romano, come egli stesso scrive a Cornificio, “ me
principem Senatui populoque romano professus sum (Ad Dio. Xll, 24 2)
; spiega un’attività prodigiosa, tanto verso gli eserciti quanto
rispetto alla situazione interna, per dirigere (I) Giustamente
Platone osserva (Rep.) che le persone oneste sono facili ad essere
ingannate dai malvagi perchè non hanno in sé il modulo dei
sentimenti di costoro (fire oòv. s'/ovre? èv éaotoT; ^ 7
iapaos'y|J.axa óp. 0 i 07 ia{H) tot; nove^oi?) ; mentre però il malvagio,
abilissimo nel suo comportamento coi malvagi, resta ingannato quando tratta coi
buoni, perchè, giudicando da se, e ignorando le indoli onesti, vede
dappertutto inganni (àruaT&v Tiapà xaipòv xaì àYVOtòv uytè; fjU'o;)] la
lotta contro Antonio ; getta di nuovo, attesta scrivendo ancora a
Cornificio, 1 fondamenti dello Stato con la prima Filippica: “ fundamenta
ieci reipublicae (Ad D/v. XII,
XXV, 1); e al giocondo Peto conferma quanto abbia fatto, quanto faccia e
come ritenga che se dovesse in tale sua azione perdere la vita l’avrebbe
spesa bene ; “ sic tibi, mi Peto, persuade, me dies et noctes mini
aliud agere, nihil curare, nisi ut mei cives salvi liberique sint :
nullum locum praetermitto monendi, agendi, providendi : hoc demque animo
sum, ut si in hac cura atque admistratione vita mihi ponenda sit,
praeclare actum mecum putem (Ad T)iv. IX, XXIV, 3). “ In questi primi
mesi del 43, C. fu veramente il princeps, ch’egli aveva idealizzato
nel De republica : consigliere, esortatore, ispiratore del Senato, dei
consoli, dei governatori delle provincie
. Non è questa la condotta d un uomo le cui facoltà spirituali
siano illanguidite. Ma, sopratutto, a prova della sua esatta
comprensione dei tempi, basta ricordare come la riforma che occorreva allo
Stato romano, pessimamente attuata, secondo attestò la susseguente vita
F, Amateli, C. (Bari, Laterza).
Jamais C. n a joue. un plus grande róle politique qu à ce moment ;
jamais il n’a mieux mérité ce nom d’homme d Etat que ces ennemis lui
refusent (Boissier, Crcéron et ses amis]
dell’Impero, da Cesare e da Augusto, fosse stata prospettata per primo da
C. nel De Repubblica. L’introduzione, cioè, d’un nuovo e più fermo
principio d’autorità sotto forma di un rector rerumpublicarum d’un “
moderator reipublicae d’un “ princeps civitatis » (De Ti,ep.).
Senonchè C., con molto maggior senso della necessaria continuità di
sviluppo dello Stato romano e con molta maggior disinteressata cura di
esso, non intendeva che questa riforma dovesse rivolgersi a distruzione
della costituzione esistente, bensì che dovesse ingranarsi in essa e
formarne un naturale complemento e uno svolgimento spontaneo e logico ; “
homines non tarai commutandarum quam evertandarum rerum cupidos , egli
giudica i cesariani .(De Off.), mentre per lui la costituzione
romana, come esattamente nota lo Zielinski, è “ capace di ogni progresso
in quanto questo conducesse all’accettazione e allo sviluppo di
idee feconde (fordeTnder), non di idee distruttive. La differenza tra il modo
con cui egli concepiva la riforma e il modo con cui la attuarono Cesare
ed Augusto è si può dire scolpito dalle seguenti sue due proposizioni: “
me nunquam voluisse plus quemquam posse quam universam rempublicam (jdd Div.); “ ego sum, qui nullius vim
plus valere volui, quam honestum otium. Ovvero: la differenza tra la concezione
ciceroniana del princeps e la pratica applicazione fattane da Cesare è
resa nel bell’ emistichio con cui Lucano descrive il modo di operare di
quest’ultimo : gaudens viam fecisse ruina. Basta riflettere a tutto ciò per
scorgere tosto che non solo la mente di C. era nel suo pieno
vigore, ma altresì la sua comprensione dei tempi (se per questa
s’intende, non già furbesca valutazione personalmente opportunistica
delle circostanze, ma avvertimento delle necessità profonde che ad un
dato momento si presentano nella vita sociale e politica d’un paese) era
perfetta. Il * ‘ sovversivismo di
Cesare è provato dal dolore che per la sua morte manifestarono sopratutto
gli Ebrei (“ qui etiam noctibus continuis bustum frequentabant
Svet, Caes.), cioè precisamente coloro che nel seno nello Stato romano,
da essi violentemente odiato, costituivano la catapulta diretta a farlo
saltare, e che, sotto la veste del Cristianesimo, a farlo saltare
effettivamente riuscirono. Si può anzi con sicurezza dire che l’impero romano
si deve agli ebrei, perchè furono i loro lunghi tetri lamenti
intorno al cadavere di Cesare che suscitarono nella plebaglia quella sommossa
per e attorno al rogo del dittatore, la quale fece prender nuova forza al
cesarismo. “ É noto come per la commozione popolare che lo straziante
rito ebreo provocò colle sue lugubri lamentazioni orientali, se ne
ingenerò quel tumulto che doveva mutare la faccia de! mondo, mandando in
fumo i diplomatici accordi con Bruto e Cassio, che dovettero fuggire in
Illirio : sicché ne vennero le lunghe guerre civili e l’Imperio di
Augusto (Ottolenghi, Voci JOriente, Lugano] Mente possente, senso
politico sicuro, comprensione dei tempi piena. Non si può dunque attribuire a
deficienze intellettuali il modo con cui C. valutò Cesare e il movimento
da costui capeggiato. Egli non vide certamente Cesare come la sua
figura si è plasmata nella storia, che corona con eternità d’ apoteosi
tutto ciò che ha trovato in ogni presente la consacrazione del bruto
successo di (atto. Lo vide come glielo presentava la realtà immediata. Lo
vide come lo vide Catullo: Pulcre convenit improbis cinaedis,
Mainurrae pathicoque Caesarique ; E questo Caesar era proprio Caio Giulio
Cesare e quel Mamurra (da Catullo soprannominato Mentula) il suo generale
del genio. A permettere al quale di “ mangiare (il verbo si usava anche in latino con
questo preciso significato) milioni su milioni, il commovimento politico
aveva principalmente servito. Doveva essere una cosa nota a tutti, se
Catullo la mette correntemente in versi: Cinaede Romule, haec videbis et
feres ? Es inipudicus et vorax et aleo. Eone nomine, imperator
unice, Fuisti in ultima occidentis insula. Ut ista
vostra diffutata Mentula Ducenties comesset aut trecenties ?] Cinaede
Romule Romolo debosciato, impudico, vorace e giuocatore : cosi Catullo vede
Cesare. E press’a poco così lo vede C. Egli non scorge Cesare,
quale il fanatismo interessato dei seguaci e poi gli storici l’hanno costruito:
gli storici, i quali (in generale) non fanno mai altro se non aggiungere,
per supino servilismo postumo, la loro adulatrice consacrazione al
successo di fatto e di solito non osano mai, per la paura di passar per
“singolari,,, sviscerare il clamoroso successo di fatto ottenuto da un “
grande nella età in cui visse, mettendone coraggiosamente in luce
le vere molle, spessissimo casuali, o basse, o vili, ma sempre invece per
essi è “ grande colui che nella sua epoca le circostanze, o la
perfidia, o i misfatti hanno portato in alto. Si vous avez une vue
nouvelle, une idée originale, si vous présentez !es hommes et les choses
sous un aspect inattendu, vous surprenez le lecteur. Et le lecteur n’aime
pas à ótre surpris. Il ne cherche jamais dans une histoire que les
sottises qu’ il sait dejà. Si vous essayez de l’instruire, vous ne ferez
que l’humilier et le fàcher. Ne tentez pas de l’éclairer, il criera
que vous insultez à ses croyances... Un historien originai est 1
objet de la défiance, du mépris et du dégoùt universels». Questo è
l’abituale comportarsi degli storici, secondo la satira, aggiustatissima,
che ne schizza A. France (L’ ile des Pingouins, préf.). Ci sarebbe solo
da aggiungere che spesso il servilismo degli storici verso i personaggi della
storia che scrivono serve al loro servilismo verso i personaggi della
storia che vivono. C. vede Cesare muoversi davanti ai suoi occhi,
nella vita vera, non nella luce abbagliante del mito. Esso gli appare
screditato, corrotto, senza senso di morale nè privata nè pubblica, uomo
la cui vita, i cui costumi danno la certezza che si condurrà male :
e sopratutto la danno la gente che lo circonda. “ O Dii, qui comitatus !
in qua erat area scelerum! scrive ad Attico, dopo uno dei suoi
abboccamenti con lui. Egli sa che Cesare aveva cominciato a costruirsi la
sua potenza accaparrandosi e tenendo alle proprie dipendenze i
manigoldi audaci e bisognosi. Egli scorge ( I ) Nell'
interessantissima antologia di pagine storiche di Chateaubriand, testé
pubblicata dall’editore Tallandier sotto il titolo Scénes et portrails historiques,
si legge. Tout personnage qui doit vivre ne va point aux générations
futures tei qu’ il était en réalité : a quelque distance de lui, son
epopèe commence : on idéalise ce personnage, on le transfigure ; on lui
attribue une puissance, des vices et des vertus qu’ il n’eut jamais ; on
arrange les hasards de sa vie, on les violente, on les coordonne à
un système, Les biographes répètent ces mensonges ; les peintres fixent
sur la toile ces inventions et la posterité adopte le fantóme. Bien fou
qui croit à l’histoire. L’histoire est une pure tromperie . E
Montesquieu, dal canto suo aveva già osservato : “ Les places que la
posterité donne sont sujettes, corame les autres, aux caprices de la
fortune ( Grandeur et décadence des Romains. Habebat hoc omnino Caesar:
quem piane perditum aere alieno egentemque, si eumdem nequam hominem audacemque
cognorat, hunc in familiaritatem libentissime recipiebat (Fi/. Il,] radunata attorno a Cesare tutta la gente
equivoca e sospetta, violenta e disperata, tutte le anime dannate, vexu
(<x (Ad Att.), “ omnes damnatos, omnes ignominia affectos, omnes
damnatione ignominiaque dignos, omnem fere inventutem, omnem illam
urbanam et perditam plebem (Ad Att.),
tutti i giovani circa i quali pensava che “maximas republicas ab adolescentibus
labefactas,, (De Seti. VI), tutti coloro ch’egli chiamava « perdita
iuventus » (Ad Att. VII, 7) e poc’anzi « barbatuli iuvenes, grex Catilinæ,
«feccia di Romolo, i precursori di quella che poi Giovenale denomina
«turba Remi; cosicché, egli scrive ad Attico, intorno a Cesare è
raggruppato tutto il canagliume della penisola, « cave autem putes
quemquam hominem in Italia turpem esse, qui hinc absit; osservazione
identica a quella che è costretto a fare il cesariano Sallustio: “
occupandae reipublicae in spem adducti homines, quibus omnia probo ac
luxuria polluta erant, concorrere in castra tua,, (De Rep. Ord.). Come
Catullo, C. vede con disgusto i cesariani ormai dominatori darsi al
lusso ed al fasto, giuochi, cene, delizie, mentre Balbo (altro
comandante del genio di Cesare e sua longa manus in Roma) si costruisce
dei palazzi, “quae coenae? quae deliciae? at Balbus aedificat (Ad
Att.), e Antonio scorrazza l’Italia confi) Val la pena di riportare tutto il
passo perchè esso ducendosi dietro in una lettiga aperta la sua
amante in un’altra sua moglie, septem praeterea coniunctæ lecticæ
amicarum sunt an amicorum ? l^/JJ
Att. X, IO) (I). Tutto ciò desta in C. una nausea invincibile: “ nosti
enim non modo stomachi mei, sed etiam oculorum, in hominum inso- contiene
un’osservazione di indole psicologica e morale eternamente vera e colta
da C. dalla vita stessa che lo circondava : “ At Balbus aedificat ; tl
yàp «ÒTfij péÀst ; Verum si quaeris, homini non recta sed vuluptaria
quaerenti nonne [kfifwTai ? Cioè: “
Balbo pensa a costruirsi palazzi. Che importa a lui di tutto ciò ? E
in verità, se a un uomo non sta a cuore la dignità e la coscienza, ma
solo il suo interesse, fa bene a far così : può dire ho vissuto La
ributtante figura d’Antonio risalta scolpita non solo nelle lettere di C.,
ma, più ancora nelle Filippiche (v. specialmente FU. He. 18 e s.). Pagine
che stanno a dimostrare una volta di più come, in una situazione politica
tirannica ed eslege, anche persone notoriamente turpi possano salire ai
più alti gradi, perchè il controllo dell opinione pubblica e la
possibilità di censure sono soppresse dalla forza e la gente costretta al
silenzio. Non ostante, in un primo
tempo C., usando l’avveduta prudenza dell’uomo politico, aveva cercato di
persuadere quasi amichevolmente Antonio a rimanere nell'orbita
della legge. Ciò con la Fil. I, di cui è il caso di citare le seguenti
righe : “ Sin consuetudinem meam, quam in republicam semper habui, tenuero, id est,
si libere, quae sentiam, de republica dixero; primum deprecor ne
irascatur, deinde, si haec non impetro, peto ut sic irascatur, ut civi]
lentium indignitate, fastidium™ (Ad T)iv.] Quanto a Cesare, egli è per C. “
hominem amentem et miserum che non ha mai conosciuta neppur l’ombra
dell'onestà, che considera la tirannide come il maggior dono degli Dei, (Ad
Alt. VII, 1 1 ), capace di ogni scelleraggine, “ omnia taeterrime
facturum, uomo del quale “ vita, mores, ante facta, ratio suscepti
negotii, sodi fanno ritenere che non
potrà comportarsi se non “perdite,, (ib. IX 2 A, alias 2, § 2 e s.) La
sua condotta sarà anche resa peggiore di quel che per l’indole di
lui sarebbe, dal fatto che il vincitore nella guerra civile deve pur
contro sua volontà operare ad arbitrio di coloro che l’hanno aiutato a
vincere. “ Omnia (scrive a Marcello) sunt misera in bellis
civilibus ; sed miserius nihil, quam ipsa victoria : quae etiamsi ad
meliores venit, tamen eos feroLa stessa ripulsione, e per la stessa ragione,
Filippo destava in Demostene. È circondato (egli dice) da ladri, da
adulatori, da gente che si abbandona a immoralità che non oso neanche ripetere
(01. 11, 19). E Demostene si illudeva che anche perciò Filippo sarebbe caduto.
Geloso e ambizioso com' è (egli dice) allontana gli uomini di valore, che
gli danno ombra ; gli uomini assennati e morigerati, che sono rivoltati dalle
sue immoralità (àxpaafav xoO pioti -/.al xal xopSaxia|jioOs)
sono da lui cacciati e ridotti a nulla, TrapEwaHa'. xal sv Ò'jSevò;
s!va'. |ispei (ib. 18). Ma pur troppo i fatti hanno sempre provato che è
vana speranza contare che queste ragioni facciano cadere un uomo dal potere.
L’esigenza morale non trova sanzione nella storia e nella politica.]ciores
impotentioresque (più sfrenati) reddit ; ut etiamsi natura tales non
sint, necessitate esse cogantur ; multa enim victori eorum arbitrio per
quos vicit, etiam invito, facienda sunt (Ad Div. IV, 9). E su
questo stesso pensiero insiste anche con Cornificio (Ad ©iv. Xil, 18) : “ Bellorum
enim civilium hi semper exitus sunt, ut non ea soium fiant, quae velit
victor, sed etiam, ut iis mos gerendus sit, quibus adiutoribus sit parta
victoria . La situazione scaturita dalla vittoria di Cesare appare a C.
un mostruoso sfacelo dell’eticità pubblica. “ Tutto allora in Roma
precipitava a rovina, religione, costumi, esercito, cittadinanza, popolo,
senato, magistrati, privati ; e in quel rovescio d’ogni cosa umana e
divina, poneva i fondamenti sanguinari la tirannia degli imperatori . C. vede come non appena Cesare, annientati
i suoi avversari, e rimasto solo sulla scena politica, ha messo
violentemente le mani sullo Stato, e in Il modo genuinamente
italiano di considerare Cesare è quello che un veramente grande italiano,
il Carducci, ci presenta nei due sonetti II Cesarismo, che
cominciano con le parole, estremamente significanti e pregnanti,
Giove ha Cesare in cura. Ei dal delitto Svolge il diritto, e dal misfatto
il fatto. Entrambi i sonetti mentano di essere attentemente letti,
con la nota al v. 14 del secondo, che li accompagna. BARZELOTTI (si veda),
DELLE DOTTRINE FILOSOFICHE NEI LIBRI DI C.] seguito a ciò “ omnia delata ad
unum sunt (jdd Div. IV, 9) al
punto che Cesare redige in casa sua, a suo libito, quelli che devono
apparire come senatusconsulta (Ad Div.), si formi un’atmosfera di falsità,
di servilismo, di adulazione universale, tanto da parte di privati quanto di
enti pubblici, cosicché non si distingue più il sentimento sincero
dalla simulazione, “ signa perturbantur, quibus voluntas a simulatione
distingui posset « (Ad Att. Vili, 9);
quell’adulazione e quel servilismo, che, diventati poi a poco a
poco oramai di rito, Lucano, più tardi sotto Nerone, stigmatizza con magnifici
versi, facendone risalire 1' inizio appunto al dominio di Cesare :
V Cette abjection de la patrie releva I’ àme de C. par l’indignation et
par la honte. La victoire de Cesar, au lieu de l’en rapprocher, l’en
éloigna. Le succès, qui est la raison du vulgaire, est le scandale des grandes
àmes (Lamartine, C., Calmati-Levy). È un saggio, poco conosciuto, in cui
Lamartine, in forma simpaticamente piana e scevra da ogni
erudizione, presenta, nella sua nobile luce, e con accenti assai
elevati, la figura di C.. Ne vogliamo, a conferma di precedenti
osservazioni, estrarre ancora due passi. “ Les ambitieux, les factieux, les
séditieux, les corrupteurs et les corrompus, la jeunesse, la populace et la
soldatesque, les barbares mèmes enrólés dans les Gaules, étaient
avec Cesar. “ Coriolan... n’avait rien fait de plus monstrueux...
et cependant l’histoire a flétri Coriolan et a déifié Cesar. Voilà la
justice des hommes irréfléchis, qui prennent le succès pour juge de la
moralité des événements (154).] Namque
omnes voces, per quas iam tempore tanto Mentimur dominis, haec primum
repperit aetas. Qua, sibi ne ferri ius ullum, Caesar,
abesset, Ausonias voluit gladiis miscere secures,
Addidit et fasces aquilis et nomen inane Imperii rapiens signavit
tempore digna Maestà nota (I). C. vede come, appena risultò
che Cesare era saldamente stabilito al potere, non solo i “sovversivi ma
anche gli “ ottimati le vecchie figure V. 386, —Si avverte che la
parola “ imperium qui non significa il nostro “ impero ma “ officio pubblico legale Lucano vuol dire
che Cesare copri l’usurpazione, assumendo falsamente il semplice nome d’un
officio pubblico legale. Come è noto, è sopratutto col nome di
potestà tribunicia che ( usurpazione si effettuò. Nel libro, ricco di
dottrina e di acume, di G. Niccolint, Il Tribunato della Plebe (Hoepli, 1932)
si mostra che 1’impero si costitui deformando e nell’ istesso tempo
assorbendo la potestà tribunicia. « L'impero non era, in ultima
analisi, che il trionfo della democrazia [più esatto sarebbe dire :
demagogia], e se chi aveva fondato il suo potere sul partito democratico,
non poteva abolire la pericolosa magistratura, non gli restava che
appropiarsela nella sua sostanza, se non nella forma esteriore... Cosi la
temuta magistratura, nata per difendere la libertà del popolo, che
conteneva perciò elementi di sovranità atti a svilupparsi in
tirannide... costituiva ora l’essenza del potere civile del monarca
» (pag. 1 59). — 11 contegno adulatorio e vilmente opportunistico
comincia con gli uomini il cui prototipo è Attico. “ C’est assurément ce
qui nous répugne le plus dans sa vie ; il a mis un empressement fàcheux à
s’accomoder au regime nouveau
(Boissier, Cicéron et ses amis.] politiche, abili a restar sempre a
galla, “ huic se dent, se daturi sint , sia pure perchè
terrorizzati, sebbene essi ora dicano che lo erano quando ossequiavano
Pompeo (Ad Alt.); come essi se^ venditant
a lui, mentre i'municipi fanno di lm vero Deum (ib. Vili, 16), e il grosso del
pubblico sta inerte, passivo, indifferente, non pensa che alla propria
tranquillità (“ otium ), non rifiuta, come non ha mai rifiutato, nemmeno
la tirannide dummodo otiosi essent, non si occupa che dei campi,
delle ville, dei quattrini, nihil prorsus aliud curant nisi agros, nisi
villulas, msi nummolos suos (ib.
Vili, 13) ; atonia che si aggravo ancora più tardi quando diventava
po^ tenie Antonio : “ mihi stomachi et molestiae est populum
romanum manus suas non in defendenda YA/I own, " plaudendo
consumere (Ad Att. AV| . lU- Ma questa prosternazione e adula (I)
Anche qui si riscontra un parallelo nella potente e \ ibrante invettiva
di Demostene per l’inerzia dei Greci del suo tempo. Non e senza ragione
(egli dice) che i Greci una volta avevano a cuore la libertà e ora
invece hanno a cuore la servitù. Gli è che allora (prosegue) vi
iTera^ C ° Sa 'vi Persian ° e fece
la Grecia def rarH mVlnC |! bl 6 “ T* ® “ mare : ed era la
fermezza (Filla 36 C 37ìT 81 asciavano corrompere e comprare
uiterr di bene ** Gr “ j .',, 1 era un tempo non avere
fil ventre el’ ^ “7 qUa 'Ì la misura della felicità e il ventre e 1
inguine (xig yaatpl jisxpoOvtsc xaì iole V ' l0X ° tS Tr ' v £tJ
°aqtovtav) l a libertà fu bevuta alla ] zione universale, questo continuo
panegirismo ormai diventato di prammatica, non è, per C., se non
un’universale falsificazione di coscienza, quella stessa per cui più
tardi egli osservava che i cittadini gementi sotto l’oppressione avevano
dato a Cesare colpevole dell’ orrendo parricidio della patria il titolo
di parens patriae : “ potest cuiquam esse utile faedissimum et
taeterrimum parricidium patriae, quamvis ìs, qui se eo abstnnxerit, ab
oppressi civibus parens nominaretur ?,, {De Ojf. Ili, 83) . Questa
situazione che fa fremere d’orrore C. (2), nella quale egli trova che non c
e salute di Filippo e di Alessandro. E, data questa vostra
viltà e servilità, (dice altrove) è mutile che speriate nella malattia o
nella morte di Filippo : anche se muore, vi creerete tosto voi stessi un
altro Filippo, "ay^Éu; upet; gxepov OIXiotvov Tìsir/ae-re (Fil.). In
questo stesso luogo, volendo C. dimostrare che l'utile e il giusto non
possono distinguersi, scrive fra l'altro : « Hanc cupiditatem [quella di
Cesare di voler dominare tirannicamente la patria] si honestam quis
esse dicit, amens est ; probat enim legum et libertatem mteritum,
earumque oppressionem taetram et detestabilem glonosam putat ». Come,
aggiunge, può essere ciò utile all usurpatore? Anche i re legittimi hanno
avversari ; « quanto plures ei regi putas, qui exercitu popuh romani
populum ipsum romanum oppressisset ? Ricco com’era d’un pathos etico
affine a quello di Kant, si intuisce chiaramente dalle sue lettere e dai
suoi scritti che egli sentiva profondamente, come il filosofo
tedesco, che il “ dovere relativo alla dignità dell umanità in noi, e che
è per conseguenza un dovere verso noi piu posto“ non modo pudori,
probitati, virtuti, rectis studiis, bonis artibus, sed omnino Iibertati
ac Dh - V. 16), gli appare sopraia!, basata sulla menzogna e
sul falso, perchè sotto 1 adesione, 1 adulazione, l’apoteosi che
l’atmosfera ufficiale orma, impone, circola larghissimamente quel
malcontento e quell’esecrazione generale verso ì distruttori dello Stato
legale, che egli constatava già precedentemente quando essi avevano
iniziata tale loro opera di demolizione (“ sumiTITJm odium omnium
hominum in eos qui tenent omnia ; mutationis tamen spes nulla Ad Alt. Il, 22).
Questa esecrazione generale, sotto le parvenze dell’ossequio più profondo, s’è
ora concentrata in Cesare, il quale, dopo poco tempo di dominio, ormai
in realta persino “ egenti ac perditae multiludini in odium
acerbissimum venerit. Invero, Cesare stesso sapeva d’essere odiato e di
dover esserlo, sopratutto per la posizione di superiorità e
distanza, così urtante al senso cittadinesco romano, che egli aveva finito per
prendere : dopo la sua uccisione, Mazio racconta a C. che
stess., può esprimersi in modo più o meno chiaro nei seguent, precetti:
non siate schiavi degli uomini: non permettete che, vostri diritti siano
impunemente calpestati (Dottr. della
Virtù). Che è, del resto, il precetto evangelico : \ii) r £veafre SotW.c-
àv&pdmwv (1, SU V1 ’ 2 ' 3 1 t V Xeu ^ e P t( É Xptaxòs
UylCWXw!]) ^ ” 4Xlv tu r» G. Reati . Vita parallele di due
filosofi avendo dovuto una volta Cesare far fare anticamera a quest
ultimo, aveva detto : se un uomo come C. deve attendere per essere
introdotto da me e non può a piacer suo parlarmi, “ ego dubitem
quin summo in odio sim ? (Ad Att.
XIV, 1 e 2) (I). A proposito dell’uccisione di Cesare. Vi sono
molti i quali pensano che perchè Bruto era stato « perdonato » da
Cesare e poi anzi « beneficato », egli dirigendo « il tradimento e
l’uccisione del suo benefattore », abbia dato « perfido esempio di cuore
ingrato e irreverente » (Corradi). Questa opinione è la tipica prova della
completa mancanza d’ogni senso di ciò che è diritto. Proprio il
fatto che Cesare gli aveva * perdonato », doveva essere per Bruto
una giusta ed onesta ragione di più per abbonirlo. Bruto aveva preso le
armi contro Cesare in difesa dello Stato legale : dunque conforme al
diritto. Decidere sul suo caso, condannarlo od assolverlo, spettava alle
autorità legali (Senato), non a un individuo. Il solo fatto che non già
le leggi o le autorità legalmente costituite, ma l’individuo
Cesare, potesse a suo beneplacito interrompere o far proseguire i
processi, ordinare condanne o assoluzione, assolvere Bruto, « perdonare »
a Bruto (quasiché condannare od assolvere, e, peggio, « perdonare »,
supposto si trattasse di delitto, fosse di competenza d’un individuo, e
quasiché questo stesso fatto non comprovasse lo sfasciamento dello
stato legale compiuto da Cesare) era una ragione di più per avversare e
condannare legittimamente l’uomo e il sistema, e per ricorrere ad ogni
mezzo onde liberarsene. — Che, per citare un altro fatto, onde far
ritornane Marcello dall esilio ì senatori abbiano dovuto pregare un
individuo, gettarsi ai piedi d un individuo, dell' individuo Cesare,
è un fatto che doveva legittimamente suonar condanna per [Era,
insomma, la situazione che un filologo italiano contemporaneo descriveva di
recente crn tutta esattezza così : “ La crescente potenza di
Cesare, il quale, dopo la funesta giornata di Farsalo, erigendosi a signore
assoluto, e sopprimendo la libertà della vita politica di Roma, aveva,
per primo, inaugurato la lunga e mostruosa serie degli
questo individuo, che si sovrapponeva in tal guisa alle leggi : condanna,
anche quando « perdonava », perchè precisamente così dimostrava che
dipendeva, non più dalle leggi assolvere o condannare, ma da lui
perdonare o no. Piena ragione ha Seneca quando in un capitoletto
pieno di considerazioni interessanti circa l’atto di Bruto, dice
che egli non aveva ragione di gratitudine verso Cesare, perchè
questi non aveva acquistato il diritto di fare il bene se non violando il
diritto e perchè chi non uccide non arreca un beneficio, ma si astiene da
un maleficio : in ius dandi beneficii iniuria venerai; non enim servavit
is, qui non interficit, nec, beneficiun dedit, sed missionem » (De
Benef.). Del pari piena ragione ha C., il quale, ad Antonio, che gli
rinfacciava come un benefizio usatogli di non averlo ucciso al suo sbarco
a Brindisi, rispondeva : questo è lo stesso beneficio di cui potrebbe
vantarsi un assassino per non aver ucciso taluno : quod est aliud
beneficium latronum, nisi ut commemorare possint iis se dedisse vitam,
quibus non ademerint ? » (Fil. II, C. 111). E si noti ancora che Seneca e
Lucano, vivendo entrambi alla corte di Nerone, il quale, pure, era della
casa Giulia, poterono il primo dare a Bruto la massima delle lodi
facendo dire da Marcello a sè stesso : “ tu vive Bruto miratore contentus (Ad Helviam), il secondo dipingere nel
suo poema con smaglianti colori di grandezza morale “ magnanimi pectora
Bruti. ] imperatori romani ; la viltà degli adulatori, che
disertavano il partito dei vinti per quello più vantaggioso dei vincitori ; le
mene degli ambiziosi, che, r er trar partito dalle circostanze ad
accumular potenza e ricchezze, pullulavano su su dal fondo di quella
corrotta società, come marcida fungaia dal fondo d’un’ acqua stagnante ;
le crudeltà dei prepotenti, che volevano, anche a mezzo di violenze e di
sangue, aprirsi un varco nella folla dei concorrenti a quella specie
d’albero della cuccagna ch’erano le usurpazioni dei poteri dello
Stato con le loro mille seduzioni e promesse di dominio e di saccheggio
dei beni pubblici e privati ; il vivo cordoglio e l’abbandono sconsolato
in cui vivevano, nell’esilio volontario o non volontario, le anime dei virtuosi
e degli onesti, fautori del partito repubblicano ; tutto insomma
contribuiva a mostrare l’immagine dell’irreparabile catastrofe...
Anziché assopirsi, cresce a dismisura nelle classi non mai dome nel loro
caratteristico orgoglio, il malcontento per il nuovo regime... La miseria
intanto cresce spaventosamente in Roma e nella provincia ; lo spettro della
fame s’aggira nelle campagne desolate e incolte dell’ Italia ; le
classi medie e il popolino sono ridotti alla miseria ed alla
disperazione... Torme di miserabili si vedono per ogni dove languire
d’ozio e di fame (I) U.
Moricca, Introd. a C. De Finibus, Torino, Chiantore,. Ora, tanto
appare a C. falsa e menzognera la situazione che egli è certo che non può
durare. La maschera di clemenza di Cesare e le sue bugie circa la
restaurazione finanziaria (divitiarum in aerario ) sono cadute; è
impossibile che egli e i suoi, non d’altro capaci che di scialacquare,
riescano ad amministrare soddisfacentemente le provincie e lo Stato ; cadranno
da sè, per gli errori propri, “ per se, etiam languentibus nobis,,, “
aut per adversarios aut ipse per se, qui quidem sibi est
adversarius unus acerrimus ; questa
tirannide non può reggere sei mesi, “ iam intelliges id regnimi vix
semenstre esse posse. Probabilmente, ciò di cui C. avrebbe
sopratutto incolpati i cesariani è che essi cadevano in quell’errore che il
Romagnosi descrive così : “ La temerità e l’intolleranza sono i vizi che
sogliono guastare questo procedimento [inventivo dell’ incivilimento). Si pecca
di temerità allorché si tentano innovazioni o rifiutate dalla natura o
non preparate sia nei fondamenti, sia dal tempo. Si pecca d’intolleranza
allorché si vuole seminare e raccogliere ad un sol tratto, e però si passa ad
infierire contro attriti che da se stessi vanno cessando in forza della
riforma fondamentale già praticata. Siate severi nel mantenere la giustizia, e
nel rimanente lasciate operare il tempo sul fondo ben disposto. 1 vostri
stimoli artificiali, le vostre correzioni minute, invece di giovare
nuociono, invece di affrettare ritardano; e se per caso avrete un
frutto precoce, ne avrete mille falliti » {Dell’ Indole e dei Fattori
dell’ Incivilimento, Avvertimento finale). Auree parole d’uno dei nostri
massimi pensatori politici, che andrebbero anche oggi meditate e tenute
presenti. Alle] Tale previsione di C. andò incontro ad nna smentita
colossale. Quella “ divinatio
dell’andamento degli eventi che egli, ricavatala dallo studio e
dalla pratica, aveva la coscienza di possedere ( 1 ), qui gli fallì del tutto.
E' vero che Cesare quali vanno accostate, sempre ad illustrazione del
sentimento politico, che, in quelle perturbate circostanze, si
sprigionava vivo in C., le seguenti: “ guai a quel popolo, nel quale,
spento il punto d’onore, non prevalgono che poteri individuali! (/,/. di Ciò. FU Giurispr. T e °
r \. P \ 1,1 C - 1V ): nonché la sua affermazione dei diritti dell uomo,
da lui chiamati originaria padronanza naturale di ogni individuo. Quelli che
vennero appellati diritti dell'uomo formano appunto il complesso di
questa originaria padronanza. L’indipendenza, la libertà 1 eguale
inviolabilità e il diritto di difesa e di farsi render ragione, sono
tutte condizioni di questa originaria padronanza (Lett. a G. Valeri). Cu, quidem
divinationi hoc plus confidimus, quod ea nos mhil in his tam obscuris
rebus tamque perturbatis umquam omnmo fefellit. Dicerem, quae ante futura
dixissem, ni vererer ne ex eventis fìngere viderer. Ad Dio.Exitus, quem
ego tam video animo, quam ea quae ocuiis cemimus. Ad Dio.Tamquam ex
aliqua specula prospexi tempestatem futuram (Ib. IV, 3). Questa sicura previsione
degli eventi, questo sicuro presentimento, C. lo possedeva in effetto.
Anche nella circostanza suaccennata egli prevedeva giusto, preveveva cioè
quello che tutto faceva ritenere dover accadere. Se i fatti si
svolsero in senso del tutto opposto alla sua previsione, si può, in
un certo senso, dire che ebbero torto i fatti, non C. Cioè che la realtà è
irrazionale e casuale, e che mai vi tu un periodo di storia che sia stato
come quello irrazionale e casuale.] è ucciso poco dopo e probabilmente lo
fu quando e perchè divenne chiara a tutti l’impossibilità in cui
egli era di dominare la situazione, di riordinare cioè seriamente lo Stato e di
soddisfare insieme le brame dei suoi seguaci , cosicché Mazio — uno dei
pochi cesariani onesti, che, come risulta da una sua nobilissima lettera
(Ad T)iv. XI, 28), non aveva sfruttato Cesare vivo, e che gli
rimase fedele anche morto, e anche durante quel momento in cui, subito
dopo l’uccisione del dittatore, il cesarismo sembrava crollato e i
cesariani in pericolo diceva, deplorandone la morte: che catastrofe
! non c’è più rimedio ; se lui, con 1’ ingegno che aveva, non trovava la
via d’uscita, (exitum non reperiebat), chi la troverà ora ?,, (Ad Att.
XIV, I ). Ma dopo la morte di Cesare, come appunto prevedeva Mazio le
cose finirono per peggiorare rapidamente. Anche C. è costretto a
constatarlo. Il tiranno perì (egli dice) ma vive la tirannia (Ad
Att.); Va però tenuta presente anche la profondissima osservazione
di Montesquieu : « Il étoit bien difficile que Cesar pùt défendre sa vie
; la plupart des conjurés étoient de son parti ou avaient été par lui
comblés de bienfaits : et la raison en est bien naturelle. Ils avoient
trouvé de grands avantages dans sa victoire : mais plus leur
fortune devenoit meilleure, plus ils commen 9 oient à avoir part au
malheur commun : car, à un homme qui n’ a rien, il importe peu à certains
égards en quel gouvernement il vive » (Grandeur et décadence cfr.
XI). ] d siamo liberali dal re dai regno (yìj Di,. ’ /aj' fi marzo
non consolano più come pnma (Ad AH.): " stolta L iZZ Martmrum
consolano, animis usi sumus virilibus cooubs puenbbus ; excisa est arbor,
non avulsa i, fi ; e st . a ‘° Iasc,al ° vi vo in Antonio 1 erede del regno
(ih. XIV, 21); si poteva con piu libertà parlare contra illas
nefarias partes xiv r vivo che non ucci - tó ' X V ’ 1
: lnfine crebbe meglio che Cesare vivesse ancora “ nonnumquam
Caesar desiderandus. Infatti, la situazione era diventata quale la descrive ad
Attico così • “ S ed vides magistrati ; si quidem illi magistratus';
vides tyranni satellites m impems ; vides eiusdem exercniis ; vides in
latere veteranos. In conseguenza il sistema di governo che C. prevedeva
non poter durare un semestre, durò invece, continuamente aggravandosi o
peggiorando per quattordici secoli, cioè per quanto visse l’impero
bizantino. Ma la fallacia di questa previste la torio
all. mente di C.. E' la fallacia propria delle menti profondamente
razionali, che hanno una fede inconcussa nella ragione ; e la mente
di C. era appunto secondo la felice dennizione che ne dà Io Zielinski, un
“ Aufkàrungsvers tand» (I). A codeste menti è impossibile (I) O. c.
P . 147. ammettere che la mostruosità, l’irrazionalità, l’assurdo vengano a
tradursi permanentemente nel fatto, si facciano solida e stabile realtà.
"Ciò è assurdo, quindi è impossibile
; questo è per siffatte menti un canone assolutamente
insopprimibile, sradicando il quale essa sentirebbero di strappar le
proprie medesime radici. A cagione della stessa forza della loro
compagine razionale, è ad esse impossibile riconoscere che il fatto che
una cosa sia assurda non impedisce menomamente che essa divenga
realtà e che anzi quasi sempre nella storia umana avviene che ciò che
all’ inizio la mente scorgeva come cosa “ assurda », “ pazzesca ,
implacabilmente ciò non ostante si realizza. Come buon platonico C. non
poteva a meno di essere fermamente convinto che oòx eattv Sit àv xij
|a£r;ov xoótotj xaxòv TTaìfoi y) Xóyou? (juar^aag (Fed. 89 d.). Nel
logos egli aveva indefettibile fede. Egli scorgeva dietro a sè, fin dove
1 occhio della memoria poteva giungere, soltanto governo di popolo.
Questo era per lui una conquista permanente» della civiltà, la civiltà
stessa, la civiltà che non può perire. Con tale forma di governo il suo
spirito si era immedesimato ; essa faceva parte essenziale della sua coscienza
d uomo, formava il cardine su cui poggiava tutta la sua vita spirituale.
Pensare che tale [Che tale stato d'animo fosse non solo “
ciceroniano ma “romano,,, emerge anche
da ciò che l’indignazione per la caduta di quella forma di governo
si formi potesse crollare e permanentemente scomparire, era come pensare
che potesse precipitare tutto ciò che si è sempre visto stabile, la
terra, il sistema solare, ciò che è l’incarnazione di un’eterna legge
della natura. Sempre gli uomini quano si sono trovati in una fase di
cangiamento analoga a quella in cui si trovò C. e tanto più
quanto più la loro mente era fortemente razionale hanno emesso la
medesima errata previsione di lui ; ciò è assurdo, quindi impossibile,
quindi non può durare. prolunga sino in S. Ambrogio, in cui, da signore romano
d antica razza quale era, la romanità viveva ancora, “ Hic erat
pulchemmus rerum status, nec insolescebat quisquam perpetua potestate,
nec diuturno servitio frangebatur. Nemo audebat alium servitio premere,
cuius sibi successuri in honorem mutua forent subeunda fastidia; nemini
labor gravis quem dignitas «ecutura relevaret. Sed postquam dommandi
libido vindicare coepit indebitas et ineptas nolle deponere potestates...
continua et diuturna potentia gignit msolentiam. Quem invenias Hominem
qui sponte deponat impenum et ducatus sui cedat insigne, fiatqe volens
numero postremus ex primo ? {Hexameron,
XV). ... osa et nota : lo
stesso errore, la stessa illusione— nobilissimo errore ! —
troviamo, come già si e rilevato, in Demostene, il dramma della cui vita
fa esattamente riscontro a quello di C.. Anche Demoj. en e . p - e - ne,,a seconda Olintiaca prevedeva
che la potenza di rilippo era alla fine ; npÒQ a ùvfjv tfy.ec ~riv
teXsut^v t« «payiiax aòttji (§ 5). E questa previsione era per lui
principalmente fondata appunto sul fatto che una potenza costrutta sulla
malvagità non può durare. Oò yàp gcmv, ] Il dramma, terribile dramma,
della vita di C., è appunto questo. II dramma dell’uomo oìjy.
laxiv, u> àvopEg ’Avrjvatoi, àSixoùvta -/.al èruopxoOvxa xa: ^£'joÓ|ìsvov
Sóvajuv j3ej3aiav XTiqaaad’at... xwv jrpà^ewv xàg àp%à<; xxl xàg
ÒTtofliaeig àX^S-sT; xa’. òtxaiag Etvai /tpcaTjxei (§ 10). E nemmeno
dieci anni dopo Filippo trionfava definitivamente a Cheronea. Ad
ogni momento troviamo questi pensieri nelle orazioni di Demostene, che
perciò sono cosi istruttive circa le illusioni in cui il « razionalismo »
induce gli uomini. Ma neppure la battaglia di Cheronea guarì Demostene
dal1 illusione. Plutarco narra che quando Filippo fu assassinato,
Demostene comparve nell’assemblea, raggiante, tpatSpòg, splendidamente
vestito, incoronato : con la morte dell’uomo, secondo lui, la costruzione
improvvisata ed effimera doveva certo crollare. E quando Alessandro si
fece avanti a sorreggerla Demostene rideva di quel ragazzo imbecille,
ndsioa xai |ia T txT)V (Plot., Dem. § 23). Ma la costruzione
fondata sulla perfidia, e che perciò, secondo Demostene, non poteva
reggersi, sboccò invece nel trionfo addirittura fantastico ottenuto
appunto da Alessandro. Gli uomini non possono rassegnarsi a credere che
una politica malvag-a possa ottenere un successo duraturo, che il male
trionfi permanentemente. Pur troppo, invece, è questa una pia
illusione; e le cose vanno precisamente cosi. E gli astrattisti, 1
« razionalisti », gli spiritualisti, non sanno ricavare dal male che
sotto ì loro occhi permanente trionfa, neppure quell unico bene che vi si
potrebbe ricavare : quello cioè di essere definitivamente istrutti dell
andamento assolutamente arazionale, alogo, ateo, del mondo e della vita.
Chiusi nel loro mondo dei meri concetti, è a quelli e alle deduzioni da
quelli che continuano a credere, anziché aprire gli occhi ai fatti. <
Sapiunt alieno ex ore petuntque res ex auditis potius quam sensibus ipsis
» (Lucr.). che con disperazione vede rovinare intorno a sè senza
possibilità di salvezza il mondo civile di cui la sua più intima vita
stessa era intessuta, il mondo razionale e trionfare
ineluttabilmente, in causa impia, victoria etiam foedior ( T)e Off. 11, c. Vili), l’ingiustizia
ed il male, una forma di mondo umano impensabile assurda,,. 11
dramma della coscienza eticamente desta che vede con orrore ciò che essa
giudica aberrazione morale e iniquità acquistare ufficialmente il
carattere di nobiltà, grandezza, elevazione, e avviarsi a restare
definitivamente sotto questo aspetto nella storia. Quando si fa a poco a
poco chiaro nella mente di C. 1 ineluttabilità dell’evento, quando
egli è ormai costretto a vedere che non c’è più speranza, a domandarsi: “
quae potest spes esse in ea republica, in qua hominis
impotentissimi (violento) atque intemperantissimi armis oppressa
sunt omnia ? (Ad Div. XI); quando deve
constatare che “ tot tantìsque rebus urgemur, nullam ut allevationem
quisquam non stultissimus sperare debeat
(Ad Div.), il suo strazio non ha confini- Ciò che già
precedentemente, quando tale condizione di cose si delineava, egli
cominciava a sentire, civem mehercule non puto esse qui temporibus his
ridere possit (Ad. Div.), diventa
ora il suo stato d’animo permanente. La vita non ha più sorriso : “
hilaritas illa nostra erepla mihi omnis est. Il suo grido è quello del
coro degli Spiriti nel Fausi. Du hast zerstòrt Die
schòne Welt Mit màchtiger Faust ; Sie stiirzt, sie
zerfàllt ! Ein Halbgott hat sie zerschlagen ! Wir
tragen Die Triimmern ins Nichts hinuber Und
kiagen Uber die verlorne Schòne. Questo dramma strappa a C. espressioni
di dolore profondamente dilacerante. E la sua corrispondenza è forse la
lettura più viva che l’antichità e probabilmente la letteratura d’ogni
tempo ci offra, appunto perchè, come in nessun altro scritto, vi si
scorge con l’immediata evidenza della vita vissuta e quasi vedessimo la
cosa svolgersi giorno per giorno sotto i nostri occhi, come sotto
quel dramma sanguini il cuore d’un uomo. Certo anche la terribilità
della sua rovina personale affligge gravemente C.: “ natus enim ad
agendum semper aliquid dignum viro, nunc non modo a gendi
rationem nullam habeo, sed ne cogitandi quidem (Ad Div.) ; ed egli ha ragione di
deplorare di essere stato travolto proprio nel momento in cui avrebbe
potuto e dovuto, cogliendo il frutto dell’opera della sua vita, toccare
l’apice della sua carriera. Omnis me et industriae meae fructus et
fortunae perdidisse. “ Casu nescio quo in ea tempora aetas nostra
incidit, ut cum maxime florere nos oporteret, tum vivere edam
puderet. Certo anche la rovina che incombe sulla sua famiglia e
specialmente sulla sua figlia lo tortura. “ Quibus in miseriis una
est prò omnibus quod istam miseram patre, patrimonio, fortuna omni
spoliatam relinquam (Ad Att.). Ma ciò che forma il crepacuore di C.
non è la sua situazione personale, bensì il baratro in cui è precipitato
lo Stato.' “ Sed tamen ipsa republica nihil mihi est carius (Ad
Dio.). Ego enim is sum, qui nihil umquam mea potius, quam meorum civium
causa fecerim. Ma ora ? “ Ego vero, qui, si loquor de re publica, quod
oportet, insanus, si, quod opus est, servus existimor, si taceo,
oppressus et captus, quo dolore esse debeo ?
(Ad Att.). Due sono sopratutto le note in cui erompe 1
espressione di questo suo strazio. In primo luogo, andarsene, andarsene
dovunque, pur di non veder più simili cose: “ evolare cupio et aliquo
pervenire ubi nec ‘Pelopidarum nomea nec facta audiam egli ripete
con un tragico antico (Ad Att.); “ ac mihi quidem iam pridem venit in
mentem bellum esso aliquo exire, ut ea quae agebantur hic, quaeque
dicebantur, nec viderem nec audirem (Ad
‘Dio. ); longius etiam cogitabam ab urbe discedere, cuius iam etiam nomen
invitus audio. Tu mi sembravi pazzo (scrive a Curio) quando abbandonasti
Roma per la Grecia, ora veggo che sei “ non solum sapiens, qui hinc
absis, sed etiam beatus : quamquam quis, qui aliquid sapiat, nunc
esse beatus potest ? (Ad Db.). E’
il desiderio che si fa strada persino nei suoi trattati, p. e. nelle
Tusculane, dove parlando di Damarato. Io giustifica cosi : num stulte
anteposuit exilii libertatem domesticae servituti ? O, se andarsene
non si può, almeno ritirarsi in solitudine : “ nunc fugientes conspectum
sceleratorum, quibus omnia redundant, abdimus nos, quamtum licet, et saepe soli
sumus (De Off.). In secondo
luogo, morire. “ Perire satius est, quam hos videre (Jd Db.) < Mortem] quam etiam beati
contemnere debebamus, propterea quod nullum sensum esset habitura (I),
nunc [Che cosa pensi intimamente C. della vita futura, risulta, non
già dal quadro, avente scopi puramente estrinseci, che traccia nel
Somnium Scipionis. ma dalla sua corrispondenza Oltre il passo sopra
ricordato, e due altri, (Ad Dw.) ricordati più innanzi, basterà
citare: « Fraesertim cum impendeat, in quo non modo ^ or,*. verum finis
etiam doloris futurus sit » (ib. Vi, 4). E anche in altre opere di C.
questo suo vero pensiero si manifesta. Cosi nelle Tusculane: Mors.
aeternum nihil sentienti receptaculum ». Cosi in Pro Marcello c Q uo d
(la fine) cum venit, omnis voluptas preterita prò mhilo est, quia postea
nulla est futura» Cosi in Pro Cluentio (cap. LXI § 171): «quid ei
tamdem almd mors eripuit, praeter sensum doloris ?] sic affecti, non modo contemnere debeamus,
sed etiam optare » ( ib. V. 21); la filosofia sembra <
exprobrare quod in ea vita maneam, in qua nihil insit, nisi propagatio
miserrimi temporis > ; non si sa < si aut hoc lucrum est aut
haec vita, superstitem reipublicae vivere >; « nam mori millies praestitit
quam haec pati > (Ad. AH.) ; « eis conficior curis, ut ipsum
quod maneam in vita, peccare me existimem > (Ad Div. IV. 13); « mortem cur
consciscerem causa non visa est, cur optarem, multae causae > (ib.
VII, 3). In uno spirito, così profondamente romano, cioè volto all’attività
pratica e civica, la desolazione dello Stato faceva spuntare questo
pensiero : « Ipsi enim quid sumus ? aut cum diu haec curaturi sumus ? »
(jdd Att. XII, li); * quid vanitatis in vita non dubito quin
cogites > (Ad Div.). Cosi, pur nell'atto che prevede la prossima
caduta del cesarismo, dice. Allo stesso modo la pensava Cesare, il quale nel
discorso, riferito da Sallustio, da lui tenuto in Senato circa la
pena da darsi ai complici di Catilina, si oppose alla pena di morte
appunto perchè con questa cessa la coscienza e quindi ogni male : « Eam
cuncta mortalia dissolvere ; ultra neque curae neque gaudio locum esse»
(Cat. LI). Va però notato che C. dà un’altra interpretazione a
questo punto del discorso di Cesare. Cesare cioè era contrario alla pena
di morte. Egli « intelligit, mortem a diis immortalibus non esse supplici
causa constitutam, sed aut necessitatem naturae, aut laborum ac
miseriarum quietem esse » (In S. Catilinam).] id spero vivis nobis fore ;
quamquam tempus est nos de illa perpetua iam, non de hac exigua
vita cogitare » (Ad. Att.). E il pensiero della morte come unico scampo e
rifugio viene a grandeggiargli dinanzi in modo, che bene spesso lo
vediamo insinuarsi anche nei suoi scritti teorici : così, p. e., nel
proemio del terzo libro del De Oratore: sed 11 tamen rei publicae casus
secuti sunt, ut mihi non erepta L. Crasso a dis immortalibus vita, sed
donata mors esse videatur > (IH, 2); e così nelle Tusculane : « multa
mihi ipsi ad mortem tempestiva fuerunt, quam utinam potuissem obire !
nihil enim iam acquirebatur, cumulata erant officia vitae, cum fortuna bella
restabant. Morte per sè, morte per coloro che amiamo ; questo soltanto è
ciò che lo « status ipse nostrae civitatis » ci costringe a desiderare
: « cum beatissimi sint qui liberi non susceperunt, minus autem
miseri qui his temporibus amiserunt, quam si eosdem, bona, aut denique
ahqua republica, perdidissent... non, mehercule, quemquam audivi
hoc gravissimo, pestilentissimo anno adolescentulum aut puerum mortuum,
qui mihi non a Diis immortalibus ereptus ex his miseriis atque ex
iniquissima conditione vitae videretur > (Ad Div.V. 16).
Ne solo nell animo di C. il trovarsi « in tantis tenebris et quasi
parietinis rei publicæ induce il desiderio di sfuggire a questo sfacelo
con la morte ; ma tale sentimento era certo diffuso. Nella bellissima
lettera con cui G. Renai • Vita parallele di due filosofi] Servio
Sulpicio cerca di consolare C. per la morte della figlia, 1 argomento
principale che egli fa valere e, nelle circostanze presenti, “ non
pessime cum iis esse actum, quibus sine dolore licitum est mortem cum
vita commutare e che Tullia visse
finché visse lo Stato, “una cum republica fuisse (Ad Dio.) ; al che C. dolorosamente
risponde che l’attività pubblica lo consolava dei dolori domestici,
l’affettuosa intimità con la famiglia delle traversie pubbliche, ma
ora “ nec eum dolorem quem a re publica capio domus iam consolari potest,
nec domesticum res publica. Ed anche in Catullo, il disgusto invincibile
suscitatogli dai “ turpissimorum honores , disgusto che faceva gemere dal
suo canto C., cosi ; “ o tempora ! fore cum dubitet Curtius consulatum
petere ? (Ad Att. XII, 49, e circa
Vatinio II, 9) suscita 1’ aspirazione alla morte (LII) : Quid
est, Catulle ? quid moraris emori ? Sella in curulei struma Nomus
sedet, Per consulatum peierat Vatinius ; Quid est,
Catulle ? Quid moraris emori ? Donde attinge C. qualche conforto in
questa immensa iattura ? Non dal foro che egli (interessante confessione)
dichiara di non aver mai amato e nel quale del resto oggi non c’è più
nulla da tare : “ quod me in forum vocas, eo vocas, unde, etiam
bonis meis rebus, fugiebam : quid enim mihi cum foro, sine iudiciis, sine
curia ? (Jld Jltt. XII, 21). Era
il momento in cui i vincitori della violenta lotta politica, giravano per
Roma baldanzosi ed allegri, e i sostenitori dello Stato legale,
battuti, erano melanconici : “ Mane salutarne domi et bonos viros multos sed
tristes, et hos laetos victores, qui me quidem perofficiose et
peramenter observant {Ad Div.).
Due di essi, anzi, Irzio e Dolabella, si erano messi a prender
lezioni d’eloquenza da lui, o forse, con questo pretesto, lo
sorvegliavano per conto di Cesare. Anche queste lezioni recano a C. qualche
sollievo {yld Di\>. IX, 18). In maggior misura, egli ne ricava dal far
udire, quando e come era possibile, qualche parola di ammonimento.
Così, pur avendo risoluto di non più parlare in Senato, allorché
sulla universale istanza di questo, Cesare amnistia Marcello (che non
aveva fatto nessun passo per essere richiamato e sembrava non
desiderarlo e che fu, del resto,
assassinato da un suo impiegato nel momento in cui stava per partire alla
volta di Roma), C. prende la pa (0 La voce dei gaudenti sfruttatori di
situazioni immorali rinfaccia sempre a coloro che le condannano, come un
torto, di essere afflitti o melanconici. Cosi quella voce si fa udire,
secondo Seneca : c Istos tristes et superciliosos alienae vitae censores,
suae hostes, publicos paedagogos assis ne feceris » (Ep.). ] rola per
ringraziare il dittatore ; ma sa anche attraverso i ringraziamenti esporgli il
parere più libero e ^coraggioso che forse mai Cesare abbia sentito.
“ Quodsi rerum tuarum immortalium (egli ha 1 ardue di significargli) hic
exitus futurus fuit, ut devictis adversariis rem publicam in eo
statù relinqueres, in quo nane est, vide quaeso, ne tua divina
virtus admirationis plus sit habitura quam glonae . (Pro Marc. Vili). Tu
devi, egli incalza, preoccuparti della vera gloria, del giudizio che
daranno i posteri sulle tue azioni, saper considerare ciò che tu fai, non
cogli occhi abbacinati dei contemporanei, ma con quelli di coloro che
giudicheranno le cose a distanza, nell’avvenire. Se tu non avrai
ristabilito la vera legalità nello Stato, tu sarai certo sempre ricordato, ma
non con giudizio concorde : “ erit inter eos etiam, qui nascentur,
sicut mter nos fuit, magna dissensio, cum alii laudibus ad caelum res tuas
gestas efferent, alii fortasse ahquid requirent, idque vel maximum, nisi
belli cmlis incendium salute patriae restinxeris, ut illud fati fuisse
videatur, hoc consilii. E questo un nobilissimo linguaggio da
cittadino onesto e d’animo forte ; linguaggio che, bisogna
riconoscerlo, Cesare sa ascoltare, come altri e ben più vivaci attacchi
contro di lui, con tolleranza ed equanimità, “civili animo,, (Svet,,
Caes., 75). Anche C. nella sua corrispondenza talvolta constata che
Cesare andava orientandosi a mitezza. P. e.:] L intolleranza, 1 oppressione, 1
uso del potere per far tacere censure al detentore di esso, e
persino per impedire di rispondere agli attacchi, comincia con
Augusto ; ed è ciò che fa uscire Asinio Pollione (lo stesso, alla nascita del
cui figlio il servile Virgilio, pronto a vendersi a tutti i potenti e
a prostituire poi il suo genio a colui che tra questi occupa nella
storia per bassezza e nequizia uno degli nam et ipse, qui plurimum potest,
quotidie mihi delabi ad acquitatem et ad rerum naturam videtur Ad Dio. VI, 10!, Che cosi fosse (ed è
la stessa cosa che accadde con Augusto) è naturale, perchè, se un uomo
non è straordinariamente perverso, il suo grande successo e trionfo
personale lo rende incline alla benevolenza verso gli altri, a diffondere
anche intorno il sentimento di felicità che il successo gli dà. Solo un
uomo dal cuore fondamentalmente malvagio nel suo più pieno e grandioso
trionfo, quando ogni cosa gli va a seconda, diventa sempre più duro
e crudele, e non è pago se non condisce quel trionfo col darsi la
sensazione di poter a suo beneplacito tormentare, perseguitare, far soffrire
altri uomini. Tale era Siila, secondo le parole che Sallustio mette in
bocca ad Emilio Lepido : Cuncta saevus iste Romulus, quasi ab externis
rapta, tenet, non tot exercituum clade neque consuhs et aliorum principum, quos
fortuna belli consumpserat, satiatus : sed tum crudelior, curri plerosque
secundae res in miserationem ex ira vertunt (Hist. Fragni.). Raramente, si, ma però
talvolta avviene che un uomo, favorito dalia più straordinaria fortuna, diventi
sempre più bramoso di far del male agli altri. “ Felicitas in tali
ingenio avaritiam, superbiam ceteraque occulta mala patefecit (Tac., Hist.] Itimi posti, Ottavio, dedica la
sconciamente cortigiana e piagg.atr.ee Egloga) nell’elegante
epigramma, riportato da Macrobio (Satura II 4) che non si può più
scrivere dove in risposti si può proscrivere : temporibus triumviralibus
PoIIio cuna fescenmnos,n eum Augustus scripsisset, ait: g
taceo ; non est emm facile in eum scribere qui potest proscribere
(2) Più ampio conforto ricavò C. dagli studi, bbene una volta
fuggevolmente accenni che forse senza la sua cultura sarebbe più atto a
resistale! exculto emm animo nihil agreste, nihil inhuma- Si vegga
nel libro diV. Alfieri D»/ p •, » I J1 '> e la dimostrazione che questa
viltà ha in Virg.ho guastato l’arte. “Quella parte divTna e ha per
base il vero robusto pensare e sentire tm-,1 niente manca in VIRGILIO (si
eda) (L.) “ V -esse avuto
nell’animo quella P napesco, assai maggiore sarebbe stato egli
stesso e quindi assai maggiore il suo libro (L. II C VI • vegga anche il C. Vili) E
il Canti 1 . Ci j ;•, C S ‘
uh. ed. I. 582 n 94.«V- r ÌU '. Sorla de S^ Italiani, V l D VIRGILIO
(si veda) si lascia traricchire anche Boissier, Lopposition sous tes
Césars p. I3Ì” RnU 1 j- qUe f°, . t epigramma ’ senza citare la
fonte il Les e Rom P - r0ba . b,,mente a memor ia, la seguente
versione: Les Komains disaient avec raison qu’ il est rare mi’ num est .
(Ad Alt.) ; e sopratutto dallo studio della filosofìa, la passione per la
eguale '’quotidie ita ingravescit, credo et aetatis maturitate ad
prudentiam et his temporum vitiis, ut nulla res alia levare animum
molestiis possit. (Ad Dio. IV, 4).
Le sue lettere di questo periodo sono piene delle sue attestazioni che
non vive se non negli studi filosofici e non trae conforto che da essi.
Ad aumentare questo conforto, ad aiutarlo a stornare il pensiero dalle
calamita dello Stato, s aggiunge la sua attività di scrittore. Sono questi gli
anni della sua intensa e feconda produzione filosofica. Nisi mihi
hoc venisset in mente, scribere ita nescio quae, quo verterem me non
haberem (Jld Alt.) Equidem credibile non
est, quantum scribam die, quin etiam noctibus, nihil enim sommi. “ Nullo
enim alio modo a miseria quasi aberrare possum. Vero è che le
afflizioni e le ìnquietitudmi, I incertezza dell’avvenire, derivanti dal
pessimo andamento degli affari pubblici, non permettono piena pace
nemmeno nello studio : Utinam quietis temporibus, atque aliquo, si
non bono, at saltem certo statu civitatis, haec inter nos studia exercere
possemus ! Però, appunto in tali
circostanze, “ sine his cur vivere velimus ?
(Ad Dio. IX, 8). Così nascono i trattati di filosofia di C., circa i
quali si cita sempre per aiutare a deprezzarli la fuggevole frase “
sono copie cascatagli dalla penna
scrivendo al suo amico e certo come convenzionale espressioni
t Xlì Vf fr ° nte j 1Iammiraz ' on e di lui (Ad X ’ ’ ma 51
dimentica di affrontare tale fra e con le sue numerose e consuete
esternaziom dalle quali risulta che ben altra era la stima ch’egli
off" 3 de ‘ pr0pr ;. scrltti ' “ Res difficiles (ib. XII 38) egli dice di star
scrivendo ; quanto alle Jìc G Q rto -5 C ° nVInt,° “ U ‘, Ìn f3lÌ 8 enere
ne aVud, cos quidem simile quidquam
le chiama “ argutolos libros
^ XIli.Y 8,00^ XIII 19? ac n ra ? posset supra ”
r/4. ); 1 libri del De Oratore gli sono “ ve hementer probati (ib.)
e così il De Finibus ib ?AJ ÀI XvT i, soddisfa Attico
bl v ’ im7 e M) e l0ra,OT L'P'a (M AA- ( eSpnme anehe,a sua Propria
soddisfazione per queste due opere ; » mihi vakle pbcent,
maHem tibi dice dei libri, perduti d! Giona (Ad Ali). In particolare, i|
e sua opere filosofiche le Tusculane, che facilmente si prendono
per un mero esercizio letterario, sono invece un libro profondamente
vissuto, rampollato da a tragica realtà di vita i cui C." si
dibatteva e che come tale, come idoneo cioè a fornir conforto e forza in quelle
circostanze doveva essere generalmente sentito, e certo da Attico
se C. gl, scrive : “ quod prima disputatio Tuscu ana te confirmat, sane
gaudeo : neque enim ndhim est perfugium aut melius aut paratius (XV, 2 e
v. anche XV, 4). Bel libro, che in ogni epoca, nelle medesime circostanze
da cui esso è nato, è servito allo scopo per cui era stato scritto
: “die Eroica der romischen Philosophie come con calzante espressione lo
definisce lo Zielinski. Ma il supremo conforto di C. è un
altro. Esso consiste non tanto nell’ immergersi nella filosofia come
un’occupazione mentale opportuna a distornare il pensiero da quello che
poi Lucano, il grande poeta anticesariano, definirà “ ius sceleri
datum, quanto nel rivivere in sè i concetti della filosofia come atti a fornire
forza d'animo per affrontare e sopportare le sciagure derivanti da una
situazione politica e sociale particolarmente triste : filosofia cioè non come
“ostentationem scientiae, sed legem vitae
( Tusc.). Anche in lui, per usare l’espressione di cui poi
si servì Marco Aurelio zi 5 óypaia. Giustissimamente Moricca. Saremmo
forse anche noi tentati di ritenere l’operetta tulliana un’amplificazione
rettorica, se non pensassimo che quelle parole... furono scritte per una
generazione d’uomini... nelle cui orecchie esse... andavano diritte al cuore
. Un libro di morale dell’epoca di C. è da considerarsi non come una
fredda e vuota argomentazione rettorica bensi come un’eco squillante
delle voci del passato, che sale dalle tombe e vince i secoli. Secondo il
testo di Trannoy, Les Belles Lettres. bisogno di vivere tali precetti A' i,•
. ventar succo e sangue e il f T l d ‘ faHl dl gere a ciò, C. Lnl
f" 0 S ° rZ ° per 8 iun ' maniera singola,«sima, scnVoSo^v"' 0
i'I “ na consolazione a se stesso “ D • Un ^ ro dl profecto anfe me
TeZ. ^Z 'T consolarer ; que m librum jf . me per i‘ tera s serint
librari; affirmo tibi^nuLm” 3 " 1 S ‘,^'P' esso talem ; totos die® U
c °nsolationem quid, sed t n^sper 1 C ;,b ° 5 T“ qU ° proflci
™ XII 14) p t,sper im P e dior, relaxor
(Ad 4tt 'a ll'Tlzr ™ di r'* d«e meditazioni morali!^
e8mam0 le Mslre '4«fr-r v lLStó et,r°d servire 4 stoicismo,
di cui poi in,CaZI ° ne Pra ' ÌCa de,, ° e d oppressivi, uomm Lme° Tm
"p" ^ tehi vid.o Prisco fornirono ° Peto ed EI ’
e che successivamente si anc ° Ta p ‘ù insigni, .1 hiosofo :z :L: r,
ai ^ cristiano, il sacerdnie • ’ p ° SCIa> n el mondo
ci i,Tat' e ' x:; a ” d f « molti tenevano costantemente in d
m ° nre ’ anZI rettoredi coscienza e confortatore, iHoro ZofoOX. Plauto,
fatto morire da Neron» • mi istanti assistito e confortato dai “ / V ‘
ene " ei 3U0 ' u,tl Cerano e Musonio (Tac., Ann. XwTv)), Trlse^’’] O
Socrates et socratici viri ! (esclama C., qui, veramente riguardo a traversie
di carattere privato). Numquam vobis gratiam referam Un immortales quam m
ihi ista prò nihilo,, (Ad Alt. XIV, 9). Attico (egli scrive al suo
liberto e segretario Tirone) mi vide agitato, crede che sia sempre lo stesso,
“nec videt quibus presidii philosophiae septus sim (Ad Div.). La disperata e rovinosa
condizione dello Stato “ quidem ego non ferrem nisi me in philosophiae
portum contulissem (ib. VII, 30). “
Equidem et haec et omnia quae homini accidere possunt sic fero ut
philosophiae magnam habeam gratiam, quae me non modo ab sollecitudine
abducit, sed etiam contra omnes fortunae impetus armat, tibique idem
censeo faciendum, nec, a quo culpa absit, quidquam m malis numerandum (Ad Di\>.) E noi vediamo
veramente questo pensiero centrale dello stoicismo, cioè lo sforzo di
distornare il proprio interesse da ogni cosa esteriore per concentrarlo
unicamente nel nostro comportamento, e m ciò trovare appagamento e pace
(questo, come si può chiamare, ottimismo della disperazione, che e
il solo che resta nei momenti di maggiormente infelici condizioni
esterne, perchè vuole appunto, riconoscendo tale inguaribile infelicità,
trovare an Demetrio: e Seneca dice di Cano. dato al supplizio da
Caligola, “ prosequebatur illuni Losophus suus (De Tranq. An.). man phi- ] cora
una tavola di salvezza), vediamo questo pensiero centrale dello stoicismo
svelarsi sempre più chiaro agli occhi di C. e proprio come postogli
innanzi delle circostanze di fatto. “ Sic enim sentio, id demum, aut
potius id solum esse miserum quod turpe est
(Ad Att. Vili, 8 e v. anche X, 4). “ Video philosophis placuisse iis
qui mihi soli videntur vim virtutis tenere, nihil esse sapientis
praestare nisi culpam (Jld Dio. IX,
19). Cogliamo il procedere di questa appassionante tragedia, per cui un
uomo di indole ilare e disposto a gioire delle cose, degli spettacoli
naturali, delI arte, della letteratura, delle relazioni sociali, delI attività
pubblica e anche della ricchezza, è, a poco a poco, dal rovinio politico,
risospinto entro se stesso e costretto a vedere e cercare la felicita
soltanto nel proprio retto comportarsi. Le meditazioni filosofiche
(scrive a Varrone) ci recano ora maggior frutto “ sive quia nulla nunc in
re alia acquiescimus, sive quod gravitas morbi tacit, ut medicmae egeamus
eaque nunc appareat, cuius vim non sentiebamus cum valebamus (Ad r
i0 ’ IX> 3 \ Naturalmente con questo alto sentimento a cui C. è ora
pervenuto, il pensiero della morte, qui fonte anchesso di consolazione e forza,
viene a intrecciarsi. “ Nunc vero, eversis omnibus rebus, una ratio
videtur, quicquid e veni t ferre moderate praeserlim cum omnium
rerum mors sit extremum magna enim consolatio est cum recordere
etiamsi secus acciderit te tamen recta vereque sensisse (Ad Div.). “ Nec
enim dum ero angar alia re, cum omni vacem culpa ; et si non ero,
sensu omnino carebo (ib. VI, 3) Il
crollo dello Stato è cosa gravissima, “ tamen ita viximus et id aetatis
iam sumus, ut omnia quae non nostra culpa nobis accident, fortiter ferre
debeamus (Jld Div.). E tali
pensieri, tali alti ed austeri conforti ed incoraggiamenti, i grandi spiriti
di quel periodo si scambiavano tra di loro, prova, sia di quanto il
dolore per la catastrofe dello stato era largamente sentito, sia dell’estensione
che a lenimento di questo dolore siffatto ordine di pensieri allora
aveva preso. È la genuina visuale stoica a cui i nefasti avvenimenti
politici ha tutti guidati. Non aliundo pendere, nec extrinsecus aut bene aut
male vivendi suspensas habere rationes (Ad Div.). Se C. ad ogni momento ripete
di sè quidquid acciderit, a quo mea culpa absit, animo forti feram (Ad
Div.), nec esse ullum magnum malum praeter culpam. Sed tamen vacare culpa
magnum est solatium. Se per sè pensa -- fortunato, quam existimo levem et
imbecillam, animo firmo et gravi, tamquam fluctum a saxo frangi
oportere. Se l’esperienza di quella dolorosissima fase lo fa approdare
alla definitiva conclusione che -- in omni vita sua quemque a recta
conscientia transversum unguem non oportet discedere (Ad Att.) — queste
sono amici, « a Lucccio humanas
contemnentem et opule Cont r 7 c g
vi {Ad0 7 casu, et
deiicto h Z,n non aP r l “ 1U,piludi ”' non veri (ih V |7) ’ M a i ° rum ln,una
commo Pme.;/ cu,pl'ai picca,tT'° ; " “ÌJ digni et Ss
TstrrdublteTo; ea maxime conducant ! P ° SSimus) : e a Torquato ‘ ‘ f T
Tectl8s (A. praesertim quae
absit a ancora a Torauato “
P ) e delio Stato) vereor ne I ^ n 3 ' (,a rovina teperiri,
praete, i|| am q “ a TtaMa"e“ “ P °7 “r: e, atque
noTZIt,» questi sentimenti ogni IralToìtTd' !“l “ 7 ° a
anch’egli aveva bisogno ’’No|!\e oh 7 ? scrive Sulpicio in morte di
Tullia) Cicerón 1 et eum aui a Ine ' '-',cer
°nem esse ' 3l,,S COnsuer,s Praecpere et dare conIli silium quae
alns praecipere soles, ea tute tibi subirne, atque apud animum propone;
vidimus aliquotiens secundam pulcherrime te ferre fortunam fac ahquando
intelligamus adversam quoque té aeque ferre posse. Dalle lettere di C. si
potrebbe così ricavare un antologia di massime di vita stoica da servire
efficacemente in ogni tempo al ripresenarsi di analoghe circostanze (e tale è
forse sopratutto la ragione per cui queste lettere suscitarono in ogni
tempo I ammirazione, anzi il culto di nobili animi), pm efficacemente ancora
che non i suoi trattati, come le Tusculane e il De Officiis, ove
egli dava sistemazione teorica alle medesime idee 1 qual, però appunto
perchè non contengono se’ non quelle dee morali che, suscitate in C.
dalle vicende di ogni giorno, riempiono la sua corrispondenza, ci si
ridimostrano, non mere esercitazioni letterarie, ma anzi libri cresciuti su
dalla vita vera e scritti col sangue che le ferite inferte da
questa facevano stillare dal suo cuore. « Herzenphilosophen > chiama
giustamente C. lo] Plutarco racconta (Oc 49) che un giorno OTTAVIANO
essendosi accorto che un suo nipote scorgendolo nascondeva impaurito un libro
sotto la oga, glielo prese, e visto che era di C. ne lesse un
tratto, poi lo reshtui al ragazzo, dicendo • uomo dotto e amante della
patria, Xó r,o : *vl' ?. «rat, io T,o £ *«l Tardo (come al so’
hto) riconoscimento del meriti di colui che egli aveva raggirato,
tradito, abbandonato al carnefice Ma C. e qualcosa di più. Spirito
altissimo e st'anzetn m n “'T'? 1 "” da »! le circoero \ j " 6 r 1 ' **' vivere, espres.
sero, m ragione di tale sua sensibilità, una soma d dolore
enorme, egli seppe da questa esperienza d, dolore trarre un-espenenza
morale di elevazione e di purificazione del dolore stesso nel fuoco
della filosofia intesa come via, di cui molti e b dTrendl' '
aPaC '' QUeS '° * P a,ll “ la "”ente ciò che rende appassionatamente
attraente la sua grande figura alla quale veramenle-secondo un
penTero che trova eco sino m Giovenale (Vili, 243)-e
Roma' ltf !a " “ u la 8erva arl “lazione lo dava Sr p
a,t a, a, ' ebl> ' a,hibl,Ì, ° N di ' P ad Sed Roma parentem, Roma
patrem patriae C.m libera dixit. Platone Ultime pubblicazioni
dello stesso Autore Pesco Piente Fu, un [Mi|an0i CogliariJ. f?
Ap ° r ' e Jella R'Hgiont [Catania, - Etna 1 Motwl Spirituali Platonici
[Milano, Gilardi e Noto] nSTT, d ' W Jr aZl0nalim0 |N«poli.
Guida], Materialismo C c0 [R om ., CaS a Pagine di Diario : Scheggio
[Rieti, Biblioteca Editr.J, Cicute [Todi, Atanórj. Impronte
[Genova, Libt. Ed. Italia] Sguardi [Roma. La Laziale], Scolli
[Torino, Montes, 1934], Imminenti : Critica deir Amore e del Lavoro
[Catania. Critica della Morale [Catania, “ Etna ..Etna. Achilli,
A., et al. 2007. "Mitochondrial DNA variation of modern Tuscans supports
the Near Eastern origins of Etruscans." American Journal of Human Genetics
80:759-68. Adams, Douglas Q. 1988. Tocharian Historical Phonology and
Morphology: New Haven: American Oriental Society. - 1999. A Dictionary of
Tocharian B. Amsterdam: Rodopi. Adams, D(ouglas] Q. and J. P. Mallory,
eds. 1997. The Encyclopedia of Indo-European Culture. London: Dearborn.
-, eds. 2006. The Oxford Introduction to Proto-Indo-European and the
Proto-Indo-European World. Oxford: Oxford University Press. Adams, J. N.
1977. The Vulgar Latin of the Letters of Claudius Terentianus (P. Mich. VIII,
467-72). Manchester: Manchester University Press. Wackernagel's Law and
the Placement of the Copula esse in Classical Latin. PCPhS Supplement 18.
Cam-bridge: Cambridge Philological Society. Wackernagel's Law and the position
of unstressed personal pronouns in Classical Latin." Transactions of the
Philological Society 92:103-78. .
1996. "Interpuncts as evidence for the enclitic character of personal
pronouns in Latin." Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik
Bilingualism and the Latin Language. Cambridge: Cambridge University Press. ..
2007. The Regional Diversification of Latin 200 BC-AD 600. Cambridge: Cambridge
University Press. Adiego Lajara, Ignacio-Javier. 1992. Protosabelio,
Osco-Umbro, Sudpiceno. Barcelona: Promociones y Publicaciones
Universitarias de Barcelona. .
1993. Studia Carica: Investigaciones sobre la escritura y lengua carias.
Barcelona: Promociones y Publicaciones Universitarias. . 1999. "Sobre la correptio iambica del drama
latino arcaico." In Estudios de métrica latina, ed. Jesús Luque Moreno and
Pedro Rafael Díaz y Díaz, 1:55-67. Granada: Universidad de Granada. . 2001. "Lenición y acento en
protoanatolio." In Anatolisch und Indogermanisch: Akten des Kolloquiums
der Indoger-manischen Gesellschaft, Pavia, 22.-25. September 1998, ed. O.
Carruba and W. Meid, 11-18. Innsbruck: Institut für Sprachen und Literaturen
der Universität Innsbruck. The
Carian Language. Leiden: Brill. Agostiniani, Luciano. 1977. Iscrizioni
anelleniche di Sicilia: Le iscrizioni elime. Florence: Olschki.
Contribution à l'étude de l'épigraphie et de la linguistique étrusques." LALIES
11:37-74. . 1992b. "Les parlers indigènes de la
Sicile prégrecque." 11:125-57. .
1995. "Sui numerali etruschi e la loro rappresentazione grafica."
AION(ling) 17:21-65. . 1997.
"Sul valore semantico delle formule etrusche 'tamera zelarvenas' e 'tamera
Sarvenas." In Studi linguistici of-ferti a Gabriella Giacomelli dagli
amici e dagli allievi, [ed. Amalia Catagnoti et al.], 1-18. Padua: Unipress. La defixio di carmona (Siviglia) e lo sviluppo
dei nessi consonantici con /j/." In Italica Matritensia: Atti del IV
Convegno SILFI: Società internazionale di linguistica e filologia italiana
(Madrid, 27-29 giugno 1996), ed. Maria Teresa Navarro Salazar, 25-35. Florence:
Cesati. . 2003. "Le iscrizioni di Novilara."
In I Piceni e l'Italia medio-adriatica: Atti del XXII Convegno di studi
etruschi ed italici, Ascoli Piceno, Teramo, Ancona, 9-13 aprile 2000, 115-25.
Pisa: Istituti editoriali e poligrafici internazionali. Ahlquist, Helge. 1909.
Studien zur spätlateinischen Mulomedicina Chironis. Uppsala: Berling Albright,
Adam. 2005. "The morphological basis of paradigm leveling." In
Paradigms in Phonological Theory, ed. Laura Downing, Tracy Alan Hall, and
Renate Raffelsiefen, 17-43. Oxford: Oxford University Press. Allen, W.
Sidney, 1953. Phonetics in Ancient India. London: Oxford University
Press. 1973. Асселі ad Rhyriam: Prosodic Features of Latin and Greek. A
Stady in 'Tneury and Reconstruction. Cambridge: Cambridge University Press. 1978, Vox Latina: A Guide to the Prononciarion
of Classical Latin. 2nd ed. Cambridge: Cambridge University Press. 1987. Vax Grueca: A Guide to the Prominciation
of Classical Greek, 3rd ed. Cambridge: Cambridge University Press. Alvar,
Manuel, A. Lorente, and G. Salvador. Atlas linguistico y etnográfico de
Andalucia. Granada: Universidad de Granada, Consejo Superior de
Investigaciones Cientificas. Alvar Ezquerra, Manuel. 1999. Atíns
lingiistico de Castilla y León. Valladolid: Junta de Castilla y León,
Consejeria de Educación y Cultura. Alvarez Rodríguez, Adelino,
2001. El futuro de subjantiva: Del lurin al romcnce. Málaga: Analecta
Malacitana. Amadasi Guzzo, Maria Giulia. 1990. Iscrizioni fenicie e
puniche in ftait Rome: Libreria dello Stato. Andersen, Paul Kent. 1983.
Word Order Typology and Comparative Constructions. Amsterdam: Benjamins. André,
Jacques, 1978. Les mats à redoublement en latin. Paris: Kliocksieck.
Anglade, Joseph. 1921. Grammaire de lancien provenptl, ou ancienne langue doc.
Paris: Klincksieck. Anteiter, Peter, and Erzsébet Jerem, eds. 1999,
Studia celtica et indogermanica: Festschrift für Wolgang Meid zum 70. Geburtstag,
Budapest: Archaeolingua. Antonsen, Elmer H. 1975, A Concise Grammar of
tire Oider Runic buscriptions. Tübingen: Niemeyer. Anttlia, Raimo. 1972.
An Entrocluction to Historical and Comparative Lingwistics. New York:
Macmillan: Arad, Maya. 2003, "Locallty constraints on the
interpretation of roots: 'The case of Hebrew denominal vers."
Natural Language and Linguistic Theury 21:737-78. Arapojanni, Xeni,
Jöeg Rambach, and Louis Godart, 2002. Kavkania: Die Ergetnisse der Ausgrabung
von 1994 muf dem Hilgel von Agrilitses, Mainz: von Zabern. Arce-Arenales,
Manuel, Melissa Axelrod, and Barbara Fox, Active voice and middle
diathesis." In Fox and Hopper 1-21. Arena, Renato, Iscrizioni
greche arcaiche di Sicilia e Magna Grecia. Milan: Cisalpino-Goliardica.
Arias Abellán, Carmen. 2002. "Les dérives latins en -arius." In
Kircher-Durand 2002, 161-84. -, cd. 2006. Latin vulgaire, latin tardif
VII: Actes du Vilême Colloque international sur le latin vulgaire et tardif. Seville:
Universidad de Sevilia. Arnold, The teratination -ersis." Clussical
Revlew 3:201-2. Aronofi, Mark 1994. Morphology by Itself Stems and
infiectional Classes. Cambridge, MA: MIT Press. Aronoff, Mark, and
Kirsten Fudemao. 2005. What is Morphology? Malden, MA: Blackwell. Aruma,
Peetec, Ursiavische Grammatik: Binführung in das vergleichende Studium der
slavischen Sprachten. Heidelberg: Winter. Ascoli, Zur lateinischen
Vertretung der indogermanischen Aspicaten" Zeitschrift für
vergleichende Sprachforsching 17241-81, 321-53. - 1873. "Saggi
ladini" Archivio giottologico italiano Attenni, Luca, and Daniele Maras.
Materiali arcaici dalla collezione Dionigi di Lanuvio ed il più antico
alfabetario latino." Studi etrusciti Aura Jorro, E 1985-93. Diccionario
micénico. Madrid: Consejo Superior de Investigaciones Cientificas, Instituto
de Piblogia Bader, Françoise, 1962. La furmation des composés
nominaux du latin. Paris: Belles Lettres. -, ed. 1994. Langues
insio-européennes. Paris: Centre national de la recherche scientifique. Bakker,
Egbert, 1994. "Voice, aspect and Aktiansart: Middle and passive in Ancient
Greek." In Fox and Hopper 2347. Bakkum, Gabriel Cornelis Leonides
Maria, 2009. The Lutin Dialect of the Ager Faliscus: 150 Yeirs of Scholership.
University of Amsterdam. Amsterdam: Amsterdam University Press. Baldi, Remarks
on the Latin r-form verbs" Zeitschrift für vergleichende Sprachforschung
The Foundatians of Latin, Berlin: de Gruyter. Balles, Die lateinischen
Adjektive auf -idus und das Calandsystem" In Tichy, Wodtko and Irslinger
Latein, Altgriechisch. Vol. 1 of Nominale Wortbildung des Indogermonischen in
Grundzigen: Die Wortili- dungsinuster augewähiter indogermanischer
Eincelsprachen, ed. Rosemarie Lahr. Hamburg: Kovne. Ballester, Xaverio,
1996. Fonemática del latin clísico. Zaragoza: Departamento de Ciencias de la
Antigüedad. Fonemática de /u/ en latin." Faventia La tipologia y la
fonologia latina." In IX congreso español de estudios clásicos, ed.
Francisco Rodriguez Adra-dos, 33-20. Madrid: Sociedad española de estudios
clásicos. Bammesberger, Alfred. 1984. Lateinische Sprachwissenschaft.
Regensburg: Pustet. Der Aufban des germanischen Verbalsystems. Heidelberg:
Winter. Die Morohnlogie des urgermanischen Nomens,
Heidelberg: Winter. , ed. 1998.
Baltistik: Aufgaben und Methoden, Heidelberg: Winter. Altenglisch eard/eart
"(thou) art" und Johannes Schmidts Beitrag zur Erklärung des verbum
substantivum im Germanischen." In Lochner won Hüttenbach Languages in
Preitistoric Europe. Heldelberg: Winter. Bandelt, Hans-Jürgen. 2004. "Etruscan
artifacts" American Joursal of Human Genetics Mosaics of ancient
misachonrial DNA: Positive indicators of nonauthenticity European Journal of
HHuman Genetics Barber, Eltzabeth Wayland. 1999. The Mummies of Drümchi.
New York: Norton. Barrack, Charles. 2002. "The giattalic theory
revisited: A negative appraisal" Indogermanische Furschunger The glottalic
theory revisited. Part 2: The typological fallacy underlying the glottalic
theory? Indogermanis che Forschnangen 108:1-16. Bartholomac, Christian.
1979. Altistnisches Wörterbuch. Berlin: de Gruyter. A reprint of the 1904
original plus the 1906 suppiement. Bartoli, M. G. 1906. Dus
Daimatische: Altromanische Sprachweste von Vegla bis Ragusa and ire Stellung in
der Apennino-Balkanischen Romania Vienna: Holder. Bartonik, Antonin.
2003. Hundbuch des mykenischen Griechisch. Heidelberg: Winter. Barwick,
Carolus. 1964. Flavii Sosipatri Charisti Artis Grammaticae Libri V. 2nd ed.
Reprint of 1925 edition with ad. denda and corrigenda by E. Kähnert. Leipzig:
Teuhner. Battisti, Carlo, and Giovanni Alessio, 1950-57. Dizionario
elizologico italiano. Florence: Barbèra. Bauer, Charles Francis. 1933.
The Latin Perfect Endings -ere und - erunt. Philadelphia: Linguistic Society of
America. Bechtel, Friedrich. 1921-24. Dis griectischen Dialekte. Berlin:
Weidmann. Beekes, Comparutive Indo-European Linguistics An Introduction.
Amsterdam: Benjamins. - 2002. "The prehistory of the Lydians, the
origin of the Etruscans, Tray and reneas. Bibiothes Orientalis Belardi, Walter,
1994. Prohio storico-politico della lingua e della letteratura ladina. Rome:
Calamo, Beltrán Cebollada, José Antonio, 1996. El itinitivo de narración en
latin: Nueve valoración del irfinitivo de narración en lutir en el
periodo comprendido entre Plauto y Tácita, Zaraguza: Universidad de
Zaragoza. Benedetti, Marina. I composti radicali latini: Ename storico e
comparativo. Pisa: Glardini. 1995.
Le consonanti dopo -au- fra lenizione e rafforzamento: Un capitolo di fonetica
storica latina e romanza. Pisa: Istituti editoriali e poligrafici internazionali.
, 1996. "Dittonghi e geminazione
consonantica in latino: Un caso di deriva." Studi e suggi linguistici La
distesi nella terminologia antica e moderna." In Dal 'paradigma alla
parola: Riflesioni sul metalingua-gio della linguistica. Alti del comegno,
Udine-Gorizia, 10-11 febbraio 1999, ed. Vincenzo Orioles, 209-34. Rome: Calamo.
2002. "Radici, moefemi nominali e verbali:
Alla ricerca dell'inaccusatività indoeuropea" Archivio giottolegico
ital-dano. Bennett, Charles. Syntax of Early Latin. 2 vals. Boston: Allyn et Bacon.
Benveniste, Emile, 1935. Origines de la formation des nums en indo-caropéen.
Paris: Maisonneuve. ,
1948. Noms dagent et noms daction en indo-européen. Paris: Maisonneuve. , 1949, "Sur quelques développements du
parfait indo-européen." Archivam Linguisticum Génitif et adjectif en
latin." Studi Clasico. "Active and middle voice in the verb." In
Problems in General Lingwistics, trans. Mary Elizabeth Meek, 145-51. Coral
Gables, FL: University of Miami Press. Originally published in Journal de
psychologic Bernard, Emanuei. 1960, Die Thesis der Priposition in lafeinischen
Verbalkamposita. Winterthur: Keller. Bernardi Perini, Giorgio, 1974. Due
problemi di fonetica latina. Rome: Atenco. Berlocci, I congiuntivi del
tipo (ne) atrigas in latin arcaico." Atti dell'stituto Venelo di scienze,
lettere al arti, Classe di scienze monali, lettere ed arti
164:243-86. Bertolotti, Rosalinda, 1958. Saggio sulla etimologia popolare
in latino e nelle lingue rounanze. Milan: Paideia. Bettini, Maurizio,
1990. "La correptio lambica." In Metrica dlessica e lingwistica, ed.
Raberto Danese, Franco Gori and Cesare Questa, 263-409. Urbino Quattro
Venti.Bhille, Frédérique. 1990. Les emprunts du latin eu grec: Approche
phonétique, Vol. 1, Istroduction et consomantisme. Louvain:
Peeters. 1991. "Existait-ll une diphthongue vi en
latin?* In Lingwistic Sincies on Latin: Selected Papers from the 6th
International Colloquiion on Latin Linguistics (Budapest, 23-27 March 1991),
ed. Joszef Herman, 3-18, Amsterdam: Benjamins. 1995. Les emprunts du latin au grec: Approche
phonétique. Vocalisme et couchisions. Louvain: Peeters. Blake, Barry Case. 2nd
ed. Cambridge: Cambridge University Press. Blänsdorf, Jürgen, ed. 1995.
Fragmenta poetarum Latinorion epicarm el lyricorum practer Ennizm et Lacilum,
3rd ed. Stuttgart: Teubner. Blaylock, Curtis. 1965. "The
monophthongization of Latin AE in Spanish." Romance Philology
18:16-26. Bobaljik, Jonathan David, Forthcoming. "On comparative
suppletion." bobaljik.uconn.eda/files.html. Boldrini, Prosodie und
Metrik der Rinser. Trans. Bruno W. Haupili. Stuttgart: Teubner. Bolelli,
Tristano. 1941. "Le voci di origine gallica del Romanisches erymologisches
Wörterbuch di W. Meyer-Lübke" Ltalla dialettale Le voci di origine gallica
del Romanisches etymulogisches Würterbuch di W. Meyer-Lübke: Continuione"
L'ltalia dialettale Bonfunte, Giuliano. "Ideas on the kinship of the
European languages.* Cahiers d'histeire mondiale 1:679-99. Boanet, Le
latin de Gréguire de Tours. Paris: Hachette. Bopp, Franz. 1820.
"Analytical comparison of the Sanskrit, Greek, Latin and Teutonic
languages." Annals of Oriental Literature Bourciez, Edoward Eugène Joseph,
1967. Eléments de linguistique ramane. Paris: Klincksieck. Boutkan, Ditk.
1996. A Concise Grammar of the Old Frisian Dialect of the First Riastring
Manuscript. Odense: Odense University Press. Boutkan, Dirk, and
Suerd Michiel Siebings. Old Frisian Etymological Dictionary, Leiden:
Brill. Boyce, Bret, 1991, The Language of the Freedmen in Petronius' Cena
Trimalchionis. Leiden: Brial. Bramanti, V. 1970. Filippo Sassetti:
Lettere da vari puesi, 1570- 1588. Milan: Longanesi. Bräuer, Herbert.
1961-69. Slavische Sprachwissenschaft. Berlin: de Gruyter. Braune,
Wilhelm, and Frank Heidermanns. 2004. Gothische Grammatik: Mit Lesesticken und
Wörterverzeichnis. 20th ed. rev. by Frank Heidermanns. Tübingen:
Niemeyer. Braune, Wilhelm, and Ingo Reiffenstein. 2004. Althochdeunche
Grammatik. 15th ed. rev. by Inge Reiffenstein. Tubingen: Niemeyer.
Breyer, Gertraud. 1993. Etruskisches Sprachgut im Lateinischen unter Ausschluss
des spezifisch onomastischen Bereiches. Louvain: Pecters. Briquel,
Dominique, 1992. "Le problème des origines étrusques." LALJES
11:7-35. Bribe, Claude, 1991. "Le phrygien" In Bader Briche, Claude, and Anna Panayotou. 1991.
"Le thrace" In Bader 1994, 181-205. Broughton, The Magistrates
of the Roman Republir. Vol. 1. New York: American Philological
Association. Brugmann, Kari. 1878. Preface to Morphologische
Untersuchangen auf dem Gebiete der indogermantischen Sprachen, by Hermann
Ostholf and Karl Brugmann. Heidelberg: Hirsel. Zur Gechichte der
labiovelaren Verschlusslaute im Griochischen." Berichte der Königlich
sächsischen Gesell-scheft der Wissenschuften, Philoingisch historische Kiasse
47.3:32-56. . 1897-1916. Grundriss der vergleichenden
Grammatik der indegermanischen Sprachen. 2nd ed. 5 vols. Strassburg. . 1901. Kuzze vergleichende Grammatik der
indogermunischen Sprachen. Strassburg. . 1906. Grundriss der vergieichenden Grammatik der indogermanischen
Sprochen. Vol. 2, Part 1: Lehre von den Wort-formen und ikrem Geinauct. 2nd ed.
Strassburg: Trübner. 1925. Die
Syntax des dinfachen Satzes im indogermanischen. Berlin: de Gruyter. Brunner,
Karl. 1965, Altenglische Grammarik. 3rd ed. Tubingen: Niemeyer. Back, C.
D. 1913, "Hidden quantities again." Classical Review A Gramur of
Oscan and Umbrian. 2nd ed. Hoston: Ginn. . 1948. Comparative Grammar of Greek and Latin. 4th printing, Chicago:
University of Chicago Press.The Greek Dialects. Chicago: University of Chicago
Press. Busa, Roberto, 1988. Totius latinitatis lemmata. Milan: Istituto
Lombardo, Accademia di scienze e lettere.Butler, Jonathan Lowell, 1971, Latin
-inus, -ing, -inus and -ineus: From Profo-indo-European to the Romance
Lan-guages. Berkeley: University of Califoenia Press. Butt, Miriam. 2006.
Theories of Gase. Cambridge: Cambridge University Press. Bybec, Joan,
Revere Perkins, and William Pagluca, 1991. The Bruittion of Grammar: Tense,
Aspect, and Modalty in the Languages of the World. Chicago: University of
Chicago Press. Calabrese, Andrea, 2003. "On the evolution of the
short high vowels of Latin into Rocnance" In Romance Linguistice Theory
and Acquisition, ed. Ana Teresa Pérez-Leroax and Yves Roberge, 63-94.
Amsterdam: Benjamins. Calboli, Gualtiero, ed. 1990. Latin vulgaire, Jatin
tardif Il: Actes da Ième Colloque international sur le latin vulgnine at
lardif, Bologne, 29 ani-2 septembre 1988. Tubingen: Niemeyer. -, ed.
2005. Papers on Grammar. Vol, 9, Latina Lingwa! Proceedings of the Twelfth
International Collogium on Latin Linguistics (Bolognd, 9-14 Juse 2003). Rome:
Herder. Callebat, Louis, ed. 1995. Latin vulguire, latin tardif IVi Actes
du de Collague international sur le latin vindgaire el tandic Caen, Endesheim:
Olms-Weidmann. Camodecz Tabular Pompeionae Sulpicioram: Edizious critio
dellarchivio poteolano del Sulpicit. Rome Quasar. Campanile, Enrica,
1961. "Elementi dialettali nella fonetica e nella-morfologia del
latino" Studi e saggi linguistici Due studi sul latino volgare."
E'ltalia dialettale I latino dialettale" In Caratteri e diffusione del
latino in età arcaica, ed. E. Campanile, 13-24. Pisa Glar-dini. 1999. "Sai presenti proterodinamici
dell'indocuropeo." In Saggi di lingwistica comparativa e ricostriczione
culturale, ed, Maria Patrizia Bologna et al, 339-43. Pisa: Istituti editoriali
poligrafici internazionali. Campbell, Alistair. 1959, Old English Grammar,
Ohdord: Clarendon. Reprinted with corrections 1962. Campbell, Lyle. 2004,
Historical Linguistic An Introduction. 2nd ed. Cambridge, MA: MIT Press.
- Forthcoming, "Why Sir Willam Jones got it all wrong, or Jones' role in
how to establish language familics." In Festschrift/Menorial Volume for
Larry Thask, ed. Joseba Lakarra. Candrea, L. A. and Ov. Densusianu, 1914.
Dicfionarul etimelogic al limbii romane: Elementele latine. Bucharest:
SeecaJum. Cannon, Garland, 1990. The Life and Mind of Oriental Jones: Sir
William Jones, the Father of Modern Linguistics Catabridge: Cambridge
University Press. Cano, Rafael, ed. 2005. Historia de la lengua españcla.
2ud ed. Barcelona: Ariel. Cariton Introduction to the Phonological
History of the Slavic Langriages Columbus: Slavica. Carruba, Obofrio,
1970. Das Pulaische: Texte, Grammatik, Lexikon. Wiesbaden: Harrassowitz.
Casretto, Antje. 2004. Nominnie Wortbikhung der gotischen Sprache: Die
Derivation der Substantive, Heldelberg; Winter. Castellanti, Arrigo,
1962. "La diphsongaison des eet o ouverts en italien" In Actes du X°
Congres incrnational de linguistique et philologie romanes, ed. Georges Straka,
951-64. Paris: Klincksieck. Catford, A Practical Introduction do
Phonetics. 2nd ed. Oxford: Clarendan. Cavenaile Corpus Papyrorum
Latinarum. Wieshaden: Harrassowitz. Ceccarelli, Lucio. 1999. "Note
sull'Endsilbenkürzung in Plauto." In Estudios de métrica latina, ed. Jesús
Luque Mareso and Pedro Rafaei Diaz y Diaz, 1:181-201. Granada:
Universidad de Granada. Chantraine, Pierre, 1933. La farmation des noms
en grec ancien. Paris: Champion. Reprinted in 1979 (Paris: Klincksieck). Grammaire homérique. 2 vols. Paris:
Klincksieck. 1999. Dictionaire étymologigue de la langue
greoque. 2nd ed. Paris: Klincksieck. - Cheung, Johnny, 2006. Etymological
Dictionary of the Iranian: Verb. Leiden: Brill. Christidis, A.-F, ed. 2007. A
History of Ancient Greek: From the Beginnings te Late Antiquity. Cambridge:
Cambridge University Press. Christol, Alain. 1991. "Lexical
consequences of a phonetic law (*eye > 8) in Latin verbs." In New
Studies in Latin Linguistice: Selected Papers from the 4th International
Colloquium on Latin Lingwistics, Cambridge, April 1987, ed. Robert
Coleman, 49-62. Amsterdan: Benjamins. - 1996, "Te rhotacisme"
Latomus 55:806-14. 2005, "Subjonctif latin (-s-) et futur indien
(-sy-)." In Calboli 2005, 1:25-36. Chung Transderivational
relationships in Chamorro phonology. Language 59-35-66.Churchill, J. Bradford.
2000. Dice and facie: Quintilian Eistitutio Orutoria 1.7.23 and 9,4.39."
American Journul of Philolagy Cignolo, Chiara, ed. 2002. Terentiani Mauri de Litteris
de Syllabis, de Metris, Hildesheim: Olms. Cioranescu, Alexandru. 2001.
Dictionarui etimologic al limbii romane. Bucharest: Sacculum. Translated from
Tudora Sandru-Mehedingi and Magdalena Popescu-Marin, Diccionario etamológico
nomano (La Lagana, Canarias: Uni-versidad de La Lagana, 1954-66). Clackson,
James. 1994. The Lingwistic Relationship between Armenian and Greek. Oxford:
Blackwell. The word-order pattern magna cum laude in Latin and
Sabellic" In Penney Indo-European Linguistics: An Introduction. Cambridge:
Cambridge University Press. Clackson, James, and Geoffrey Harrocks. 2007. The
Blackwell History of the Latin Langwoge. Malden, MA: Blackwell, Cohn, Abigail
C., and William H. Ham, 1999. "Temporal properties of Madurese consonants:
A preliminary report." In Selected Papers from the Eighth International
Conference on Austronesian Linguistics, ed. Elizabeth Zeitoun and Paul Jen-kuei
Li, 227-49, Taipel: [Institute of Linguistics, Academia Sinical- Coleman,
Hobert. 1971. "The monophthongization of lae/ and the Vulgar Latin vowel
system." Transactions of the Philological Sociely Greek influence on
Latin syntax." Thansactions of the Philoiogical Society 1977:101-56. , 1990. "Dialectal variation in Republican
Latin, with special reference to Pracnestine" Proceedings of the Cambridge
Philological Society 216c1-25, Collart, Jean. 1960. "A propos des études
syntaxiques chez les grammairiens latins." Rulletin de la Finculé des
lettres de Strashug Reprinted in Collart 1975b, 195-204. , 1978a. "Doeuvre grammaticale de
Varron." In Collart 1978b, 4-21. ed. 1978b. Varron, grammaire entique el stylistique latine. Paris:
Belles Lettres. Colanna, G. 1994. "Inediti, Lazio, Ager Signinus."
Studi Etruschi 60:298-301. Comric, Bernard, 1976. Aspect. Cambridge:
Cambridge University Press, 1985,
Tense. Cambridge: Cambridge University Press. 1993. "Typology and reconstruction" In
Historical Lingwistics: Problents and Perspectives, ed, Charles Jones, 74-97.
London: Longman. Comrie, Bernard, and Greville G. Cosbett. 1993. The Slavunic
Langwages. London: Routiedge. Consejo Superior de Investigaciones
Cientificas, 1962. Arlas lingístico de la Península Ibérica. Madrid: Consejo
Superior de Investigaciones Cientificas. Conway, Robert S. 1893. "On
the change of d to I in Halic." Indogermanische Forschangen
2:157-67. Cooper, Frederic Taber. 1895. Word Formation in the Roman Sermo
Plebeius: An Historical Srady of the Devciopment of Vocabulary in Vinigar and
Late Latin, with Special Reference to the Romance Languages Boston: Ginn.
Cooper, Guy L. III. 1972. "In defense of the special dual feminine forms
of the article and pronouns to. taiv, Tata, raura, KTA. In Attic Greek."
Transactions of the American Pitilological Association Corbett, Greville G.
1991, Gender. Cambridge: Cambridge University Press. - 2000. Number,
Cambridge: Cambridge University Press. Cordes, Gerhard. 1973.
Aitniederdeutsches Blensentarbuch: Wort-und Lautichre. Heidelberg:
Winter. Corominas, Joan [Joan Coromines), 1980. Diccionario crítico
etinológico castellano e hispinico. With the collaboration of José A.
Pascual. Madrid: Gredos. - 1991. Diccionari elimologic i complementari de
la Hengua catalana. With the collaboration of Joseph Galsey and Max Cahner.
Barcelona: Curial Edicions Catalanes. Corriente, Poesia dialectel árabe y
romance en Alandalis: Cejeles y xarajat de muwaiahat. Madrid:
Gredos. Cortelazzo, Manlio, Michele Cortelezo, and Paolo Zoll. 1988.
Dizionario ctimologico della lingua italiano. 2nd ed. Balogua:
Zanichelli. Courtney, Edward. 1995. Misa Lopilaria: A Selection of Latin
Verse Inscriptions. Atlanta: Scholars Press. Courtois, Christian, et al.
1952. Tablettes Albertini: Actes privés de lépoque wandale (fin du V. siècie).
Paris: Arts et métiers graphiques. Cousin, Jean. 1951. Bibliographie
de la langue latine, Paris: Belles Lettres. Cowgill, Greek où and
Armenian oc." Langwage 36:47-50. -, 1970. "Italic and Celtic
superlatives and the dialects of Indo-European" In Indo-Europen and
indo-Europeans: Papers, ed. George Cardona, Henry M. Hoenigswald, and Alfred
Sena, 113-53. Philadelphia: University of Pennsylvania Press. 1973. "The source of Latin stäre."
Journal of Indo-Europein Stadies The origins of the Insular Celtic conjunct and
absolute verbal endings" In Rix The source of Latin vis 'thou wilt"
Die Sprache The personal endings of theratic verbs in indo-European." In
Grimmutische Kategorien: Funktion und Ge-schichte. Akten der VII. Fachnogung
der Indogermanischen Gesellschaft, Berlin, 20.-25. Februar 1983, ed. Bernéried
Schierath, 99-108, Wiesbaden: Reichert. PIE "dugo "two in Germanic
and Celtic, and the nom-acc. dual of non-neuter o-sters" Milnchener
Studien zur Sprachwissenschaft 46:13-28. 1987. "The second plural of the Umbrian ver"
In Festschrift for Henry Hoenigswald on the Occasion of His Seven- fieth
Birthday, ed. George Cardona and Norman H. Zide, Tübingen: Narr. ,The cases of Germanic pronouns and strong
adjectives" In The Collected Writings of Warren Comgill, ed. Jared S.
Klein, Ann Arbor: Beech Stave, Crespo, Emilio, and José Luis Garcín Ramón, eds
1997. Berthold Delbrück y la sintaxis indoeuropea hay: Actas del Coloquio de la
Indogermanische Gesellschaft, Madrid, 21-Madrid: UAM; Wiesbaden: Reichert. Cristofani,
Mauro, 1996. "Sulla dedica di Pyrgi." In Alle soglie della dessicità:
Il mediterraneo tra tradizione e lanovazi. ane. Studi in anore di Sabatino
Moscati, od. Enrico Acquaro, Pisa: Istituti editoriali e poligrafici
inter-nazionali. Crookston, 1. Comparative constructions." In Concise
Escyclopedia of Grammaticul Categories, ed. Keith Brown and fim Miller,
76-81, Amsterdam: Elsevier, Cugusi, Paolo. 1992, Corpus epistularum
latinarum papyris tabulis ostracis servatarum. Florence: Gonnelli. Cuny,
Indo-curopéen et sémitique" Revue de phométique Cupaiuolo, Fabio, Bibliografia
delia lingua latina, Naples: Leffredo Bibliografia della metrica latina.
Naples: Loffredo., Rassegna bibliografica di studi di lingua latina
(1992-2003), Bolletino di studi latini Dahl, Osten. 1985. Tense and Aspect
Systems. Oxford: Blackwell, Darms, Schwüher und Schwager, Hahn und Fuhre
Die Vedahl-Ableitung in Germanischen. Munich: Kitzinger. De
Bernardo Stempel, Patrizia. 1999. Nominale Worthildung des älteren Irischen:
Stammbildung und Derination. Tübingen: Niemeyer. Kernitalisch,
Latein, Venetisch: Ein Btappenmodell" In Lochner von Hüttenbach et al.
2001, 47-70. Debrunner, Albert. 1954. Altindische Grammatik. Die
Nominalsufixe. Göttingen: Vandenhoeck et Raprecht. De Coene, Italo-Celtic
after W. Cowgill." Bulletin of tine Board of Celtic Srudies
27:406-12. Delatte, L., et al. 1981. Dictiornaire fréquentiel et index
inverse de la langue latine, Liège: L.A.S.L.A. Delamarre, Dictionnaire de
la langue garloise: Une approche linguistique du viena celtique
concincetal 2nd ed. Paris: Errance. Delbrück, Berthold.
Vergleichende Syntax der indogermanischen Sprachen. Strassburg Trühner. Val.
1 1893, vol. 2 1897, vol. 3 1900 = vols. 3-5 of the first edition of
Brugmann and Delbrück's Grundriss der vergleichenden Grammatik der
indogermanischen Sprachen. del Tutto, Loretta, Aldo Luigi Prosdocimi, and
Giovanna Rocca. Lángua e cultura intorno al 295 a.c. tra Roma e gli italici del
nord. In La battaglia del Sentino: Scontro fra nazioni e incontro in una
nazione, ed. Diego Poli, Rome: Calamo. De Marinis, Rafface C., and
Giuseppina Spadea, I Liguri: Un antico popolo curopeo tra Alpi e
Mediterraneo. Milan: Skira. De Martino, Marcello. 2000. "1
suoni di L ed L.L latine secondo i grammatici detà imperiale: Un tentativo di
'revisione" Inalogermavische Forschurgen I suoni di Led LL latine
secondo i grammatici d'étà imperiale: un tentativo di revisione: Il." Indogermanische
Forschumgen de Melo, Wolfgang David Ciriko. The type fitxo in Plautus and
Terence" Oxford University Working Rapers in Linguistics, Philologs
and Phonefics 7:163-80. ,
3005. "The sigmatic subjunctive in Plautus and 'Terence" In Calboli
The Barly Latin Verb System: Ardhaic Forms in Piatus, Terence, and Beyond.
Oxford: Oxfard University Press.Demiraj, Bardbyl. 1997.Albanische Etymologien:
Untersuchungen zum albanischen Erbwortschatz. Amsterdam: Radopi. Demiraj,
Shaban. 1993. Historische Grammatik der albanischen Sprache. Vienna:
Österreichische Akademie der Wissenschaften. De Nigris Mores, Sugli
aggettivi latini in -ax." Acme: Annali della Pacoltà di Lettere e
Fllosofia dell'Università degli Stadi di Milano, Derksen, Rick, 2008. Elymological
Dictionary of the Slavic Inferited Lexicon. Leiden: Brill. de Saussure,
Ferdinand, 1878. Mémoire sur le système primitif des voyelles dans les langues
indo-europdennes. Leipzig: Teubner. -, 1909. "Sur les composés
latins du type agricuin." in Melanges offerts à Louis Mavet, 459-71.
Paris: Hachette. Re-printed in Recueil des publications scientifiques de
Ferdinand de Saussure, 583-94. Geneva: Sonor, 1922. De Simone, Carlo,
1968-70. Die griechischen Entlehnungen im Etruskischen. Wiesbaden:
Harrassowitz Iscrizione
messspiche della grotta della poesia." Annali della Scola normale
superiore di Pisa, Etrusco Emscie Mezendie." Antiguité classique I Tirreni
a Lemnos." Studi Etruschi 60:145-63. De Simone, Carlo, and Simona
Marchesini 2002. Monomenta linguae Messapicae. Wiesbaden: Reichert. de Vaan,
Michiel, 1997 [2000). Heview of V. Blabek, Numerais: Companative-Etymolagion!
Analyses of Numeral Systems und their Implications (Saharin, Nubion, Figyption,
Berber, Kartvelian, Uralic, Altaic and Indo-European Languages) (Broe:
Masarykova Univerzita, 1999). Die Spnache 39:239-44. , 2003. The Avestan Vowels, Amsterdam: Rodopi. , 2004. "Narten' roots from the Avestan
point of view" In Per aspera ad asteriscos: Studia Indogermanica in
honorem Jens Elmegänd Rasmussen sexogenarif Idibus Miartits anno MMIV, ed. Adam
Hyllested et al., 591-99. Inusbruck: Institut für Sprachen und Literaturen der
Universität Innsbruck. 2008.
Etymological Dictionary of Latin and the Other alic Langwages. Leiden: Brill.
Devine, A. M., and Laurence ID, Stepbens, 1977, Two Studier in Lafin Phonalogy:
Saratoga, CA: Anma Libri. ,
1980. "Latin prosody and meter: Brevis breviens." Classical Philology
75:1-42-57. , 1994. Tie Prosody of Greek Sprech. New York:
Oxford University Press., 2006. Latin Word Order: Structured Meaning and
Information. Oxford: Oxford University Press. Devoto, Glacomo, 1929,
"Italo-greco e italo-celtico" En Salloge linguistica dedicata alla
memoria di Graziadio Isaia Ascoli nel primo cenfenario delia nascite,
Tarin: Chiantore. → 1991. Storia detta lingun di Rama. 2nd ed. Bologna: Cappell.
Heprint of 1944 edition with a new preface by A. L Prosdocimi. de
Vries, Jan. Aitnondisches etymologisches Wörterbuch. 2nd ed. Leiden:
Brill. Dickey, O dee ree ple: The vocative problems of Latin words ending
in-eus." Glotta Diels, Paal, Alzkirchenslavische Grammatik, mit einer
Auswahl von Texten und einem Wörterbuch. Heidelberg: Winter.
Dietrich, A. 1852. 'Zur Geschichte des Accents im Lateinischen."
Zeirschrift für Vergleichende Sprachforschung 1:543S6. Di Giovine, Srudio
sul perfetto indoeuropeo, Vol, 2, La posizione del perfetto all'interno del
sistersa verbale indocurapea. Rocne: Dipartimento di stadi glottoantropologici
dell'Università di Roma "La Sapienza". Il perfetto indoeuropeo
tra endomorfismo e esomocásmo." In Penney 2004, 3-17. d'Ovidio, F.
1858. "Spigolature romanze dalle pagine d'un latinista." Archielo
glottologico italiano 10:413-46. Dressier, Wolfgang, 1965. "Die
Funktion des historischen Infinitlys im lateinischen Verbalsystem."
Kratyias 10:191-6. Drexler, Hans. 1964. "Prokeleusmatische Wörter
bei Plautus und Terenz" Bollettina del cominato per la preparazione
delledizione nazionale dei classici greci e latini, N.S. fasc. 12, Accademia
dei Lincei, Roma, 3-31. Driessen, C. Michiel. 2On the etymology of Lat.
fivus." In Sprachkantakt und Sprachwandet Akten der XI. Fachtagung
der indogermanischen Geseilschaft 17.-23. September 2000, Halle an der Sanie,
ed. Gerhard Meiser and Olav Hackstein, 39-64. Wiesbaden: Reichert. Duarte
i Montserrat, Carles, and Alex. Alsina i Keith. 1981-86. Gramática histórica
del catald. Barcelona: Curial. Duhois, Laurent. 1989-2008. Inscriptions
grecques dinlectales de Sicile: Contribution à litude du vocabulaire grec
colomial. Rome: Ecole française de Rome. - 1995. Inscriptions greoques
dialectales de grande Grèce. Geneva: Droz. Duhoux, Yves. 1983.
Introduction aux dialectes grecs anciens: Problèmes et méthodes, recueil des
textes traduits. Louvain-la-Neuve: Peeters.2006. "La lettre 4 en
arcadien archaique." Kadmos 45:2-68. Duhoux, Yves, and Anna Morpargo
Davies, 2008. A Composion to Linear 9; Mycendeun Greek Texts and Their
Warld Louvaln-la-Neuve: Pecters. Dunkel, George E. 1979.
"Reciprocus und Verwandtes" Indegermanische Forschangen
84:181-95. , 1987. "Heres, portal: Indegermanische
Richtersprache." In Festschrift fur Henry Hoenigowald ou the Orcasion ef
His Seventieth Birthday, ed. George Cardona and Norman H. Zide, 91-100.
Tübingen: Narr. -, 2000. "Latin verbs in -igüre
and-igüre." In Lochner von Hüttenbach et al. 2000, 87-99. 2006. "On the 'thematicization' of Latin
sum, volo, eo and edo" In Jasanoff et al. 1998, 83-100. Dupraz, Emmanuel.
2002. "Sur la préhistoire des infinitifs présents passifs en latin."
Bulletin de la Société de linguisligue de Paris Les nominatifs masculins
pluriels thématiques en -es du latin républicain." Revue de philologie
78.239-55. Durante, Marcello 1981. Dal latino all'italano moderno: Soggio
di storia linguistica e culturale. Bologna: Zanichelli. Dybo, V. A. 1961.
"Sokraßdenie dolgot v kelto-itabjskix jazykax i ego anadenie dija balto-slavjanskoj
i indocvropejakoj akcentologii" Vaprosy slavjanskogo jazykoznanija
5.9-34 Fckert, R., Elvira-Julia Bukerkwite, and F. Hinze, 1994. Die
kalrischen Sprachen: Eine Einführung. Lelpeig: Langen-scheidt. Edwards,
G. Patrick, 1971, The Language of Hesiod in Its Trnditional Context. Oxford:
Blackwell. Eichenbofer, Wolfgang 1999. Histurische Laulehre des
Bündnerromanischen. Tübingen: Francke. Eichner, Heiner. 1973, "Die
Etymolugie von beth. mehur"" Minchentr Studien zur Surachwissenschaft
Die Vorgeschichte des hethitischen Verbalsystems." In Rix Das Problem des
Ansatzes eines urindogermanischen Numerus "Kollcktiv'
('Komprehensiv)" In Gramma- tische Kintegorien: Funktion un Geschichte.
Akten der VII. Fachtagung der Indogermanischen Geselschaft, Berlin, 20.-25.
Februar 1983, ed. Bernfried Schlerath, 134-69. Wleshaden:
Reichert. Reklameiamben aus Roms Königszeit, 1." Die Sprache
34:207-38 Finhauser, Eveline, ed. 1992. Lieber freund.: Die Briefe
Hermars Osthoffs an Karl Brugmann, 1875-1901. Trier: Wissenschaftlicher
Verlag. Elbourne, Paul, 1998. "Proto-Indo-European voiceless
aspirates" Historische Sprachforschung Plain volceless stop plus laryngeal
in Indo-European." Historische Sprachforschung Aspiration by Is/ and
devoicing of mediae aspiratae" Historische Sprachforschung Elock, W. D.
1975. The Romance Langugges. 2nd ed. rev. by I. Green. London: Faber et Fober.
Endzelins, Lettische Grammatik. Heidelberg: Winter. Janis Endzelins
Camparative Phanology and Morphology of the Baltic Languoges. Trans, William R.
Schmal-stieg and Benjamins fegers. The Hague: Mouton. Engelbrecht, Aug.
Godf. 1884. "Beobachtungen über den Sprachgebrauch der lateinischen
Komiker" Wiener Studien 6:2:6-48. Ernoat, Alfred. 1909. Les
éléments dialertaux du vocabulaire latin. Paris: Champion. . 1929. "Les éléments étrusques da
vocabulaire latin" Bulletin de la Société de lingistique de Paris. 1946. Philologica. Vol. 1, Paris: Klinckslock , Les adjectifs larins en -osus et en -ulentus.
Paris: Klincksieck. , Recueil de
textes latins archaigses. 4th ed. Paris: Klincksieck. , Notes de philologie latine. Geneva: Droz. 1989. Morphologie historique de latin. 1th ed.
Paris: Klincksieck. Emout, Alfred, and Antoine Meillet. 1985. Dictionnaire
étymologique de la langue latine. 4th ed. Paris Klincksieck. Emoul,
Alfred, and François Thomas Syntaxe Latine. 2nd ed. Paris: Klincksieck.
Erast, Gerhard, et al, eds. 2003. Romanische Sprachgeschichte: Ein
internationales Handbuch eur Geschichte der 7o-manischen Sprachen - Histoire
lingwistique de la Romania: Maruel international d'histoire lingwistique de la
Rama-mia. Val. 1. Berlin: de Gruyter. Erteschik-Shir, Nomi, and Tom
Rapoport, eds. 2005. The Syntax of Aspect. Oxford: Oxford University Press
Eska, Joseph, 1995a. "The linguistic position of Lepontic" In
Proceedings of the Twenty ourtit Armal Merting of me Herkriey Lingwistics
Society, ed. B. K. Bergin, M. C. Plauché, and A. C. Bailey, Berkeley»Berkeley
Linguistics Society ,
PIE "p 7a in Proto-Celtic." Mänchener Studien zur Sprachwissenschaf
5863-30. , 2007. "Bergins Rule: Syntactic diachrony
and discourse strategy" Diachronica Review of Jordân Cólera Zeitschrift
für celtische Phulologle 56: 194-9.Eska, Joseph, and Rex Wallace, Remarks on
the thematic genitive singular in Ancient Italy and related matters"
Inconfri linguistici Venetic consonant stem dative singulars in -12" Stufi
Etruschi. Euler, Welfram. Oskisch-Umbrisch, Venetisch und Lateinisch:
Grammatische Kategorien zur Inneritalischen Sprachverwandtschaft" In
Oskisch-Umbrisch: Texte und Grammatik. Arbeitstagung der Indogermanischen
Gesellschaft und der Società Italiana di Glottologia vom 25, bis 28. September
199] in Freibung, ed, H. Rix, 96-105. Wies-baden: Reichert. Brans, D.
Simon. A Grammar of Middie Welsh. Dublin: Dublin Institute for Advanced
Studies. Ranciallo, Anticipazioni romanze nel latino pompeiano"
Archivio giottologico italiano Fernández Gonzalez, José Ramón, 1985, Gramática
histórica provenzal. Oviede Universidad de Oviedo. Fernández Martinez,
Concepción, Limites precisos de la aspiración inicial en latin." Habis
Ferreiro, Manuel, Gramática histórica galega. 4th ed. Santiago: Laiovento
Finzi, Gli statuti della repubblica di Sassari." Archivio storico sardo
6:1-48. Fisiak, Jacek, ed. 1976. Recent Developments in Historical
Phonology. The Hague: Mouton. Flach, Dieter and Andreas Flach. Das
Zwölfgegesetz: Leges XII Tabularum. Darmstadt: Wissenschaftliche
Buchgesellschaft. Flemming, Edward. 2003. "The relationship between
coronal place and vowei backness" Phanology A phonetically-based model of
phonological voisel reduction." weh.mit.edu/-leming/www/paper/vowel-red/pdf.
Flobert, Pierre. Les verbes déponents latins, des origines à Chariemagne.
Paris: Belles Lettres. La réalité phonologique de /g*/ en latin" In
Etudes de lingwistique générule et de linguistique latine affertes en hommage a
Guy Serbat, professeur émerité d ('Université de Paris-Sorbonne par ses
collègues et ses dieves, Paris: Société pour l'information grammaticale. Review
of Reichler-Beguélin 1986. Revue des études latines Lapport des inscriptions
archaiques à notre connaissance du latin prélittéraire" Latamais Fügen, T.
1997. "Der Grammatiker Consentius" Glorta 74:164-92. Forssman,
Berthold. 2001. Lettische Grummatik. Dettelbach: Röll. Fortson, Benjamin
W. IV. Hiltite juwalas." Die Sprache Linguistic and cultural notes ob
Latin Ionias and related topics" In Indo-European Perspectives, ed.
Mark R. V. Southern, Washington, DC: Institate for the Study af
Man. The origin of the Latin future active participle." In Nussbaum
Langwage and Rhytion in Piantes: Synchronic and Diachronic Studies. Berlin: de
Gruyter. Indo-European Language and Culture: An
Introduction. 2nd ed. Malden, MA: Wiley-Blackwell. , Forthcoming a, "Ileary eyes and ladles of clay:
Two liquid Sabellicisms in Latin." Glotta , Forthcoming b. "Reconsidering the history of
Latin and Sabellic adpositional morphosyntax." American Journal of Ploiner
Fortson, Benjamin W. IV, and Rex Wallace, 2003. "A word-final prop voel in
colloquial Latin?" Glotta Fax, Barbara, and Paul 1. Hopper, eds. 1994.
Voice: For and Punction. Amsterdam: Benjamins. Fraenkel, Eduard. 1925.
"Zum Texte römischer Juristen." Hermes Si dis placel." Studi
italiani di filologia classica Fraenkel, Benst. Litauisches etymologisches
Wärterbuch. 2 vols. Heidelberg: Winter. Friedrich, Johannes, Hettisches
Fementarbuch. 2nd ed. Heidelberg: Winter. Frisk, Hjalmar: 1960-72.
Griechisches elymologisches Wörterbuch. 3 vols. Heidelberg: Winter, Fruyt,
Problèmes métiodologiques de dérivation di propos des suffixes latinas en
...cus. Paris: Klincksieck Funaioli, Hyginus [= Gino). 1907. Grammaticae
Romance frogrienta. Leipzig: Teubner. Gacbel, R. E. 1982. "The
varied use of -es and -is for the accusative plural of i-stern wurds in
Vergil's Geongics. Letomuns 41:104-31. Gaide, Françoise. 1988. Les
substantifs masculins latins en 0)6, ..(i)onis. Louvain: A.N.R.I: Galdi,
Giovanbattista. 2004. Grammatica delle iscrizioni latine dell'impero (province
orientali): Morfosintassi nominale. Rome: Herder. Gallée, Johan
Hendrik, and Heinrich Tiefenbach. 1993. Altsächsische Grumumatik. 3rd ed. rev.
by Heinrich Tiefenbach Tübingen: Niemeyer. Gamkrelidze, Thomas V.
and V. V. Ivanor. Sprachtypologie und die Rekonstrulction der
gemeinindogermantschen Verschbüsse," Phonetica Garcia Castiliero, Carlos. 1998,
"Irlandés antiguo ferar, umbro ferar y las desinencias medias indoeuropeas
de tercena persona." Veleia La formarión del tema de presente
primario osco-umbro. Vitoria-Gasteix: Universidad del Pais Vasco,
Servicio Editorial/Euskal Herciko Unibertsitaten, Argitalpen
Zerbitzua. García González, Uso de 1 longa en los diplomas militares de
CIE. XVI (c. 50 D. C.-300 D. C.)." In Aclas del VIII Congreso
español de estudios clásicos, 1:519-25. Madrid: Ediciones clásicas.
Garde, Paul. 1976. Mistoire de l'accentuation slave, Paris: Institua détades
staves. Gartett, Andrew, and Patricla Statin. 2001. "The origin of
the Latin frequentative" Manuscript, University of Califar: nin at
Berkeley. Gartner, Theodor. 1883. Ractoramanische Grammatik. Hellbronn:
Henniger. Geldner, Karl. 1951-57. Der Rip- Veda. Cambridge: American
Oriental Society. Gerschner, Robert. Die Deklination der Nomina bel
Plautus. Heidelberg: Winter. Giacalone Ramat, IMPLICATURA: I DERIVATI
LATINI IN -TURA, Rendiconti dell'Istituto Lambardo Probleme der lateinischen
Wortbildung: Das Suffix-tira." In Rix Giacomeli, Roberta, 1979.
"Written and Spaken anguage in Latin-Falican and Greck-Messapie." Journal
of indo Erropean Studies 7:149-75. Giannini, Stefania, and Giovanna
Marotta, 1999. Fra grammatica e pragmatica: La geminazione consonantica in
fatino, Pisa: Giardini. Gianollo, Chiara. 2005. "Middle voice
in Latin and the phenomenon of split intransitivity. In Calboli Gilliéron,
Jules, and Ed |mond) Edmont. Atlas linguistique de la France, Paris
Champion. Gimson, A. C., and Alan Cruttenden. 2001. Ginsons Provunciation
of English, 6th ed. rev. by Alan Cruttenden. London: Oxford University
Press. Gippert, Jost. 1997. "Laryngeals and Vedic metre" In
Lubotsky Ein Problem der indagermanischen Pronominalflexion." In Per
aspera ad asteriscos: Studia indogermanica in honorem Jens Elmegand Rasmussen
sexagenarii latibus Martits anno MMIV, ed. Adam Hyllested et al., 155-65.
Innsbruck: Institut für Sprachen und Literaturen der Universität
Innsbruck. Godel, Hobert, 1961. "Sur l'evolution des voyelles brèves
latines en syllabe intéricure" Cahiers Ferdinand de Sanssure An
introduction to the Study of Classical Armenian, Wiesbaden: Reichert. Goold,
Catullus 3.16." Phoenix 23:186-203. Gordon, Arthur E. 1973. The
Letter Nates of the Latin Alphabet, Berkeley: University of California
Press. Gradenwitz, Laterculi vocum latinarum: Voces Latinas et a fronte
et a tergo ordinandas. Leipzig: Hirzel. Grandgent An Outline of the
Phonology and Morphology of Oli Provenpai, Hoston: Heath. Grassi,
Herbert. 2005. "Bine littera Claudiana am Magdalensberg. Zeitschrift für
Papyrologie und Epigraphik 153:2412. Grassmann, Hermann. 1996. Wörterbach
zu Rig-Vesia. 6th ed. rev. by Maria Kozlanka. Wiesbaden: Harrassowitz.
Gratvick, Terence: The Brothers. 2nd ed. Warminster: Aris et Phillips.
Green Language and History in the Early Germanic World. Cambridge: Cambridge
University Press. Grevander, Sigfrid, 1926. Untersuchungen zur Sprache
der Malomedicina Chironis. Lund: Gleerup. Guastella, Gianni. "La
voce della dita: Ritmo, lingua e metro nella versificazione degli scenici
latini arcaici." Quaderni urbnati di cuitura classice Guenter If
Gersanic stops isberited a voicing contrast, why is what we find today an
aspiration contrast?" In New Insights in Germanic Lingwistics, ed.
Irmengard Rauch and Gerald F. Carz, 1:101-21. New tark: Lang
Gusmani, Roberto, 1964. Lydisches Würterbuch. Heidelbeng Winter. Gussenhoven,
Carlos, 2004. The Phonology of Tone and Intunation. Cambridge: Cambridge
University Press. Gvozdanovié, Jadranka, ed. 1992, Eudo-Europein
Numerals. Berlin: de Gruyter. Heckstein, Olax, 1997, *Probleme der
homerischen Formeniehre 1" Minchener Studien zur Sprachwissenschgt
57:1946. -2002. "Uridg. *CH.CC» "C.CC." Historische
Spracyorschung 115:1-22. Hajnal, Ivo, 1992. "Homerisch dépoç,
'Hepißo und ipi: Zur Interrelation von Worthedeutung und Lautform."
Historische Sprachforschung Die Twesis bel Homer und auf den mykenischen Linear
B-Tafein: Ein chronologisches Problem." In Indo-European Perspectives
Studies in Honour of Ansa Morpergo Duvies, ed. J. HL. W. Penney, 146-78.
Oxford: Oxford University Press. Hale, Mark. 1987. Studies in the
Comparative Syntax of the Oldest Indo-Iranian Languages. Harvard. Notes
on Wackernagels Law and the language of the Kigreda" In Studies in Memory
of Warren Cawgill (1929-1985), ed. Calvert Watkins, 38-50, Berlin: de
Gruyter. Diachronic syntax." Syntax Historical
Linguistics: Theory and Method. Malden, MA: Blackwell. Hale. William Gardner,
and Carl Darling Buck, A Latin Grammar, Boston: Ginn: Reprinted University of
Alabama Press, Hall, Robert A. Jr. 1946. "Classical Latin noun
inflection." Classical Philology Hamp, Eric. 1972. "Palaic
ba-a-ap-na-n3 'river'." Mänchener Srudien zur Sprachwissenschaf
3035-7. Handford, S. A. 1947. The Latin Subjunctive: Its Usage and
Development from Plantus to lacitus, London: Methuen. Hanson, Kristin,
and Paul Kiparsky, A parametric theoty of poetic meter." Langwrage
Hanzikovd, Ludmila, ed. 1989-. Erynologicky stovik jazytt staroslovinsktho.
Prague: Academia. Harris, Alice C., and Lyle Campbell, 1995, Historical
Syntax in a Cross-linguistic Perspective. Cambridge: Cambridge University
Press. Harris, Martin, and Nigel Vincent, eds. 1988. The Romance
Languages. New York: Routledge. Hartmann, Review of P. von Bradke,
Beitrige zur Kenretnis der vorhistorischen Entwickelung unserer Sprachen
(Giessen: Ricker). Deutsche Literaturzeitung 11:1831. Hartmann, Markus.
Die frühlateinischen Inschriften und ihre Datierung: Bremen: Hempen.
Haspelmath, Verbal noun or verbal adjective? The case of the Latin gerundive
and gerund." Arbeitspapiere, Institud für Sprachwissenschaft der
Universität zu Kain. Neue Folge From resultative to perfect in Ancient
Greek" In Nuevos estudios sobre construcciones resultativos, ed. José Luis
Iturrioz Lera (Función, Guadalajara: Centro de Investigación de Lenguas
Indigenas, Haudry, Jean. 1981. "La derivation en
indo-européen." Linformation grammaticale Hawkins, John David. Corpus of
Hieroglyphic Luwian Inscriptions. Berlin: de Gruyter. Hehl, Die Formen
der lateinischen ersten Deklination auf den Inschriften. Tübingen:
Heckenhauer. Heidermanus, Frank. 1993. Etymologisches Wörterbuch der
germanischen Primäradicktive. Berlin: de Gruyter. 2005. Bibliographie zur
indogermanischen Wortforschung: Wortbildung. Etymologie, Onomastologie und
Leba-wortschichten der alten und mudernen indogermanischen Sprachen in
systematischen Publikarionen ab 1800. Tubin-gen: Niemeyer. Henning, W. B.
1948. "Oktô(u)." Transactions of the Philological Society
1948:69. Herman, Jozsef, ed. 1987. Latin vulgaire, latin tardif: Actes du
fer Colloque internationale sur le latin vulgaire et tardif (Pécs).
Tübingen: Niemeyer. La conscience linguistique de Grégoire de Tours"
In Petersmann and Kettemann, 31-48. 2000.
Vulgur Latin. Trans. by Roger Wright. University Park, PA: Pennsylvania State
University Press. Hettrich, Heinrich. Die Entstehung des lateinischen und
griechischen Acl." In Rekonstruktion und relative Chronologie: Akten der
VII. Fachlagung der Indogermanischen Gesellschaft, Leiden, 31. August-4,
September 1997, ed. Robert Beckes, Alexander Labotsky, and Jos Weitenberg,
221-34. Innshruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck. 1993. "Nochmals zu Gerundium und
Gerundivum." In Indogermanica et Haliar: Festschrift für Helmut Rix zum
65. Geburtsfog, ed. Gerhard Meiser, 190-208. Innsbruck: Institut für
Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck. , 1997. "Syntaktische Rekonstruktion bei Delbrück
und heute: Nochmals zum lateinischen und griechischen AcL" In Crespo and
García Ramón 1997, 219-38. Hettrich, Heinrich, and Jeong-Soo Kim, eds. 2002.
Indogermanische Syntax: Fragen wnd Perspektiven. Wiesbaden:
Reicbert. Hinton, Leanne, Jobanna Nichols, and John J. Chala, eds. 1994.
Sound Symbolism. Cambridge: Cambridge University Press. Hock, Hans
Henrich. 1986. Principles of Historical Linguistics. Herlitt de Gruyter.
Morphology and f-apocope in Slavic and Baltie" In Proceedings of the
Bighteents UCLA Indo-Esropern Con-ference, Los Angeles, Nov. 3-4, 2006, ed.
Karlene fones-Bley, Martin Huld, Angela Della Volpe and Miriam Robbins Dexter,
Washington, DC: Institute for the Study of Man. 2009. "my > (*)ny in Greek and Italie Common
innovation, parallel development, or fortuitous similarity?" Studies in
the Lingwistic Sciences Illinois Working Papers 81-93.Hockett, Charles 1955. A
Manual of Phonology. Baltimore: Waverly: Hoenigswald, Enrico [Henry
Hoenigswald). 1937. "Su alcuni caratteri della detivazione e della
composizione nomsnale indoeuropea." Rendiconti dell Istitido Lombardo,
Lettere, ILs. A note on Latin prosody: Initial s impure after short vowel"
Transactions of the American Philological Association ".P and
liqald," Classical Quarterly Silbengrenze und Vokalschwächung im Lateinischen"
In Panagl and Krisch 1992, BI-5. Holmann, Ein grundsprachliches
Possessivsuffix" Miänchener Studien zur Sprachwissenschaft 6.35-40.
- 1976. "Das Kategoriensystem des indogermanischen Verbums" Mänchentr
Sendien zur Sprachwissenschaff 28:1941. Reprinted in Ausatze zur indoiranistik,
ed. Johanna Narten, 2-523-540. Wiesbaden: Reichert. -, 1992. Aufsütze zur
Indoinusistik, ed. Johanna Narten. Vol. 3. Wiesbaden: Reichert. Hoffmann,
Kari, and Bernhard Forssman. 2004. Avestische Lant- amd Flexionsiehre, 20d ed.
innsbrucke Inistitut für Sprachen und Literaturen der Universität
Innsbruck. Holiner, Harry A. Ir. and H. Craig Melchert. 2008. A Gnommar
of the Hätite Language. Part 1: Reference Grammar. Part 2: Tutorial. Winona
Lake: Eisenbrauns. Hofnann, J. B., and Anton Scantyr, 1965. Lateinische
Syntax und Stylistik. Munich: Beck. An updated Italian translation of the
stylistics section of this book was published as Siistica latins, ed. Allonso
Traina, trans, Camillo Neri, updated by Kenato Oniga, revisions and indices by
Bruna Fieri (Bologna: Patron, 2002). Hogg, A Gnommar of Old English.
Oxford; Blackwell. Only vol, 1 on phonology has been published so
far. Hollifeld, [Patrick) Henry, 1985. On the phonological development of
monosyllables in West Germanic and the Germanic words for 'who' and 'so.
Indogermanische Forschingen 90:196-206. Holthausen, Ferdinand, 1921.
Aitsächsisches Elementarbuch. 2od ed. Heidelberg: Winter. Holtz, Louis.
1981. Donat et la tradition de Tenseigument grammatical: Etude sur lArs Donati
et sa difiacion el édition critique. Paris: Centre national de la recherche
scientifique. Hooker, J. T. 198D. Linear B: An Introduction. Bristol:
Bristol Classical Press. Hopper, Paul J. 1973. "Glottalized and
murmured occlusives in IE." Glossa 7:141-66. Horrocks, Geoffrey,
1981. Spuce and Time in Homer: Prepositional and Adversial Particles in the
Greck Epic. New York: Агла. Greek: A History of the Language and its
Spenkers. London: Longman. Householder, Fred W. 1947. "A descriptive
analysis of Latin declension" Word 3:48-58. Liescu, Maria, and
Werner Marogut, eds. 1992. Latin vulgaire, intin tandif III: Actes du Illême
Colloque international sur le latin vulguire et fardif (Innsbruck, 2-5
September 1991). Tobingen: Niemeyer. Ile-Svitye, V. M. 1979, Nominal
Accentuation in Baltic and Slavic, Translated by Richard L. Leeds and Ronald F.
Feldstein. Cambridge, MA: MIT Press. Iverson, Gregory K., and Joseph C.
Salmous. 1992. "The phonology of the Proto-Indo-European root structure
constraints." Lingua jaberg, Kari, and J. Jud, 1940. Sprach- und Sachatlas
Auliens und der Südschweiz Zofngen: Ringier. Jacksan, Kenneth Hurlstone.
1953. Language and History in Early Britain: A Chronological Surwey of the Brittonic
Languages, First to Twelth Century A.D. Edinburgh: Edinburgh University
Press. Jacobs, Haike. 2003. "Why preantepenultimate stress in Latin
requires an OT-account." In Development in Prosodic Systems, ed.
Paula Fikkert and Haike Jacobs, 395-418. Berlin: de Gruyter. Jakobson,
Roman. 1960. "Why 'mama' and 'papa?" In Perspectives in Psychological
Theory: Essays in Honor of Heinz Werner, ed. Bernard Kaplan and Seymour Wapner,
21-9, New York: International Universities Press Jamison, Stephanie W, 1983, Function
and Form in the -áya-Formations of the Rig Veda and Atharv Vedt.
Göttingen: Vandenhoeck et Ruprecht. . 1988. "The quantity of the outconie of vocalised
laryngesls in Indic." In Die Laryngahheorle amd die Rekoristruktion des
indogermanischen Laut und Formengstems, ed. Alfred Bammesberge, 213-26.
Heidelbeng: Winter. , 1991. Ihe
Ravenous Fyenas and the Wounded San: Myth and Ritual in Ancient India. Ithaca,
NY: Cornell Liniversity Press. 2002.
"Rigvedic sim and im." In Indian Lingwistic Studies Festschrift in
Honor of George Cardon, ed. Madhav M. Deshpande and Peter E. Hook, 290-312.
Delhi: Motilal Banarsidass. JasanofE, The Germanic Third Weak Class."
Langiage Gr. appro, lat, ambo et le mot indo-européen pour Tun et l'autre"
Bulletin de la Société de lingristique de Paris The position of the -bi
conjugation." In Hethitisch und Indogermanisch: Vergleichende Studien zur
histo-rischen Grammarik und zur dialergeographischen Stellung der
indogermanischen Sprachgruppe Airkleisusiens, ed. Erich Neu and Wolfgang Meid,
79-90. Innsbruck: Institut für Sprachrissenschaft der Universität
Innsbruck. Stadive and Middie in Indo-European. Innsbruck:
Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck. 1980. "The nominative singular of a-stems
in Germanic." In American Indian and Indo-European Studies: Papers in
Honor of Madison S. Recier, ed. Kathryn Klar, Margaret Langdon, and Shirley
Silver, The Hague: Mouton. A
rule of final syllables in Slavic." Journal of Indo-European Studies The
sigmatic sorist in "Tocharian and Indo-European" Tochurian and Indo
European Sindies The origin of the Italic imperfect subjunctive"
Historische Sprachforschung The ablaut of the root aorist optative in
Proto-Iedo-Europcan." Münchener Studien zur Sprachwissenschaft The
Brittanic subjunctive and future" In in hanorem Hoßper Pedersen: Kallogeu
der Indogermenischen Gesellschaft vom 25, his 28. März 1993 in Kopenhagen, ed,
Jens Elmegird Hasmussen, Wiesbaden: Rei-chert. Gathic Avestan cikoitarad" In Lubotsky An
Italo-Cellic isogloss The 3pl. mediopassive in "-atro" In Festschrift
for Eric Hamp, ed. Douglas Q, Ad-ams, 1:146-61. Washington, DC: Institute for
the Study of Man. , 2003. Hittite and the lsdo- European Verb.
Oxford: Oxfard University Press. Plus
ça change..: Lachmann's law in Latin" In Penney Notes on the internal
history of the PIE optative" In East and West: Papers in indo-European
Linguistics, ed. Brent Vine and Kazubiko Yoshida, 47-68. Bremen: Hempen. . Forthcoming a. "The origin of the Latin
gerund and gerundive" In A Festschrift in Honor of Michael Filler, ed.
Harvey Goldhlatt and Nancy Shields Kollmann, Cambridge, MA.
www.poople.fas.harvard.edu/-jasanoff/publica- tions html. Forthcaming b. **-bi, *-#is, "ois: Following the
trail of the PIE Instrumental plural." In Isternal Recoustruction in
Indo-European: Methods, Results, and Problems, Section Papers from the XVIth
Eufernational Conference on Historical Linguistics, University of Copeningen,
21th-15th August, 2003, ed. Jens Elmegird Rasmussen and Thomas Olander.
Jasanoff. Jay, H. Craig, Melchert, and Lisi Oliver, ods, 1998. Mir Curad:
Staulies in Honor of Calvert Watkins. Innsbruck: Institut für
Sprachwissenschaft der Univerität Innsbruck. Jespersen, Otto. 1922. Langmage:
Is Nature, Devslopment, and Origin. London: Allen et Unwin. Jiménez
Zamudio, Rafael, En torno a devas cornisces sacrum (CIL F+975 =)* Emerita
53:277-83. Jones, The Works of Jones. [Ed. janes. London: Robinson. Jordán Cólera,
Carlos, 1998. Eutroducción al Celtibérico. Zaragoza: Ediciones del Departamento
de Clencias de la Anliguedad, Area de Filologia Griega, Universidad de
Zaragoza. Celtibérico, Zaragoza: Area de Filología Griega, Departamento de
Ciencias de la Antiguedad, Universidad de Zaragoza. Joseph, Brian, and
Richard Janda, eds. 2003, Handbook of Historical Linguistics. Malden, MA:
Blackwell. Joseph, Brian, and Rex Wallace, Latin sum/Oscan sim, sins,
esam." American Journal of Philelogy On the problematic fil variation in
Faliscan." Glotta Is Faliscan a local Latin patois?" Diachronica
Socially determined variation in Ancient Rome" Language Variation and
Change 4:105-19. Kager, René. 1995, "The metrical theory of word
stress." In The Handbook of Phonological Theory, ed. John A. Goldsmith,
367-402, Cambridge, MA: Blackwell. Kajanto, firo, 1965. The Latin
Cognomina. Helinki: Keskuskirjapaino. Reprinted Ronse. Bretschaeider, Karulis,
Konstantins, 1992. Latvies etimologlas vindnica. Riga: Avats. Kaster,
Robert A. 1988. Guardlions of Language: The Grammarian and Sociery in Late
Antiquity Berkeley: University of California Press. Kastner, Wolfgang,
Die griechischen Adjektive zweier Endunger auf-oc, Heidelberg: Winter.
Katitic, R. 1976. Ancient Langunges of the Balkans. The Hague: Mouton.
Katz, Joshua T: 1998. Topios in Endo-European Fersonal Promouns Harvard
University. Testimonia ritus Italici: Male genitalia, solemn declarations,
and a new Latin sound law." Harvurd Studies in Classical Pliology
Kavitskaya, Darya. Compensatory Lengthening: Phanetics, Phonology, Llachrony.
Nee York: Routledge. Kazavis, Gergios N. (Tepyc N. Kateßrs), 1940.
Nisyrau laographika [Nicupou Agoypagia]. New York: Divry. Keilius,
Henricus (Heinrich Keil], GRAMMATICI LATINI Leipzig: Teubner. Keller,
Otto. 1891. Lateinische Volksetymciogie wond Verwitnates. Leipzig:
Teuhner.Kemmer, S, 1993. The Middle Voice. Amsterdam: Benjamins.
Kenstowicz, Michael, 1991, "Enclitic accent: Latin, Macedonian, Italian,
Polish." In Certamer Phonologicum IF: Papers from the 1990 Cortona Phanology
Meeting, ed. Pier Marco Bertinetto, Michel Kenstowicz, and Michele
Loporcano, Turin: Rosenburg &- Seller. Kent, THE SOUNDS OF
LATIN: A DESCRIPTIVE AND HISTORICAL PHONOLOGY, Baltimore: Linguistic Society of
America. Old Persian 2nd ed. New Haven: American Oriental Society.
Keat, Roland G., and Edgar H. Sturtevant, 1915. "Elision and biatas in
Latin prose and verse." Transactions of the American Philological
Ascociation 46:129-55. Kessler, Brett. nd. "On the phonological
nature of the Proto-Indo-European laryngeals" spell,psychology
wusil. edu/~bkessieri. Keyser, The origin of the Latin minverals 1
to 1000" American Journal of Archacalogy Kieckers, Ernst. 1930.
Historische lateinische Grammatik, mit Berücksichtigung des Vilgirlateins und
der romanischen Sprachen. Munich: Hucher. Kim, Ronald. 2000a.
"Reexamining the prehistory of Tocharian B 'ewe." Tocharian and
Indo-European Studies To drink in Anatolian, Tocharlan, and
Proto-Indo-European" Historische Sprachforschung Tocharian B dem « Latin
vénitt Szemerényis Law and *& in PIE root aorists" Münchener Studien
zur Sprack-wissenschaft On the historical phonology of Ossetic: The origin of
the oblique case suffix." Journal of the American Oriental Society,
Kimball, Sara 5. 1999, Hittite Historical Phonology. Innsbruck: Institut für
Sprachwissenschaft der Universität Jansbruck Kiparsky, Phonological
Ghange. MIT: Aspect and
event structure in Vedic." Yearbook of South Asian Langnages and
Linguisties The Vedic Injunctive: Historical and synchronic implications"
The Yearbook of Sauth Asian Languages and Linguistics
stanford.edu/-kiparsicy/Papers/injanctie.articepdf. . 2006. "Amphichronic linguistics vs, evolutionary
phonology: Theoreticul Linguistics Kircher Durand, Chantal, Grammaire
fondamentale du latin, Création lexicale: La formation des noms par
dérivation suffixale. Louvain: Pecters. Klaiman, Grammation/ Voice.
Cambridge: Cambridge University Press. Klein, Hans-Wilhelm, ed. 1968. Die
Reichenaver Glossen. Part 1, Binieitung, Text, voliständiger Index und
Konkondanzen. Munich: Hueber. Klein, The contribution of Rigvedic
Sanskrit to Indo-European syntax" In Crespo and Garcia Ramón
Teaching Indo-European." Diachranica, Klingenschuit, Gert. 1975.
"locharish und Urindogermanisch" In Rix Zur Etymologie des Lateinischen."
In Maythofer et al. Das aitarmenische Verbum. Wiesbaden: Reichert. The lateinische Nominalflexion." In Panagl
and Krisch Kloekhorst, Alwin, 2008. Elymological Dictionary of the Hatite
Inherited Lexicon. Leiden: Brill. Knoppers, Gary: 1992. "The god in his
temple: The Phoenician text from Pyrgi as a funerary inscription." Journal
of Near Bastern Studies 51:105-20. Kobayashi, Masata. 2004.
Historical Phonology of Oli Indo-Aryan Consonants. Tokya: ILCAA. Kahm,
Aitiateinische Forschungen. Leipzig: Reisland. Kartlandt, Frederik: Greck
numerals and PIE glottalic consonants" Münchener Studien zur
Sprachwissenschaft Proto-Indo-European glottalic stops: The comparative
evidence." Folia Linguistica Historica 6:183-201. Krahe, Hans, and
Wolfgang Meid. Germanische
Sprachwissenschaft. 7th ed. Berlin: de Gruyter. Kramer, Historische
Grammatik des Dolomitemladinischen: Lartichrz. Gerbrunn bel Würzburg: Leh, Die Verwendung des Apex und P. Vindob, L. 1
c" Zeitschrift fir Papyrologie und Epigraphik Etymologisches Wörterbuch
des Dolomiteniadinischen. Hamburg: Buske. Krause, Wolfgang. 1968. Handbuch des
Gotischen. 3d ed. Munich: Beck. Die Sprache der urnordischen
Runeminschrißen. Heidelberg: Winter.Krause, Wolfgang, and Werner Thomas.
Tocharisches Elementarbuch. Vol. 1. Heidelberg: Winter. Kroch Syntactic
change" In The Handeook of Contemporary Syriachic Thoory, ed. Mack Baltin
and Chris Collins, Malden, MA: Blackwell. Kruschwitz, Peter. 2004.
Römische Inschriften und Wackernagels Gesetz. Heidelbeng: Winter. Kühner,
Raphael, and Bernhard Gerth. Ausfüherliche Grammatik der griechischen Sprache.
Part 2: Sataleine. 3rd ed. Hanover: Haha. Kühner, Raphael, and Carl
Stegmann, 1955. Ansführiiche Grammarik der lateinischen Sprache. Part 2: Suralehre.
3rd ed. rev. by Andreas Thierfelder, 2 vols. Leverkusen: Gottschalk. An index
locorum was published by Gary S. Schwarz and Richard L. Wertis as index
locorum zu Kühner-Sleymann "Satzlehre', Darmstadt: Wissenschafliche
Buchgescllschail, 1980. Kulper, Notes on Vedic noun inflexion."
Mededelingen der Koninklike Nederlandse Akndemie wan Wetenschappen Kümmel,
Martin Joachim. 2000. Das Perfekt im Indoinänischen: Eine Unterstchung der Form
and Funkrion einer er erbien Kategorie des Verbus und ihrer Welterendwicklung
in den altindoiranischen Sprachen. Wiesbaden: Rei-chert. - 2002.
Konsonanterwande: Bausteine zu einer Typologie des Launwandels und ire
Konsequenzen für die ver- gleichtende Rekonstruktion. Wiesbaden:
Reichert. Kurylowicz, Jerzy: 1927a a indo-européen et h hittite" In
Symbolae granumaticae in honorem Joannis Rozwadowski, 95-101. Cracow:
Drukarnia Uniwersytetu Jagiellorskiego. An English translation by Axel Holvoet
is available in The Young Kurylowicz, ed. Wajciech Smoczynski, 5-16
(Cracow: Puligrafix, Les effets du 2 en indo-iranien." Prace Pilologicane
An English translation by Axel Holoct is available in The Young Kurylowicz, ed.
Wojciech Smoczynski, 17-58 (Cracow. Poligrafix, A remark on Lachmannis
Law." Harvard Stalies in Classical Philology 72:295-9. Kurz, Josef, ed.
1958-97. Slovnik jazyka starosiovensktho. Lexican linguas palacoslovenicat.
Prague: Ceskoslovenské akademie ved. Lahiri, Aditi, and B. Elan
Dresher. 1999. "Open syllable lengtbening in West Germanic." Langunge
75.678-719. Lambert, Pierre-Yves, 2003. La langue gralnise: Description
linguistique, commentaire d'inscriptions choisies. 2nd ed. Paris:
Frrance. Lamberterie, Charles de, 1992. "Introduction à l'armenien
dassique" LALIES). Langlois, Pierre. Les formations en -bundus:
Index et commentaire." Revue des étades latines Langsions, D. R. 2000. Medical
Latin in the Roman Empire. New York: Oxford University Press. Lass,
Roger. 1994. Old English: A Historical Linguistic Companion. Cambridge
Cambridge University Press. LaurentPast Participles from Latin to
Romance. Berkeley: University of California Press. Lausberg, Heinrich.
1963-72. Romanische Sprachwissenschuft. Berlin: de Gruyter. Lazzarini,
Maria Letizia, and Paolo Poccetti, 2001. Liscrizione palecitalica da Tortona.
Il mondo enotrio tra V e IV secolo a.C: Atti dei seminari napolefani, ed.
Maurizio Bugno and Concetta Masseria, Naples: Loltredo. Lazzeroni,
Romane. 1996. "Antila, I dittonghi, e la cicata: Una riposta." Studi
e sagri lingristici La quarta declinazione latina: Genere grammaticale e
organizzazione dei paradigmi." Archivio glottologico italiano Isaccusatività
indocuropea e alternanza vedica." Archivio giottologico italiano 89.1-28. Lease,
Emory B, 1904. "Contracted forms of the perfect in Livy""
Classical Review Lee, Charmaine. Linguistica romanzza. Rome: Carocci.
Lehiste, Ilse. The timing of utterances and linguistic boundaries" Journal
of the Acoustical Society of America 51:2018-24. Lehmann, Op the
Latin of Clandius Terentianus (P. Mich. VIII. 467-472). Cuadernos de
filologia clásica Latin syllable structure in typological
perspective." In Calboli Lehmann, Winfred P. 1974. Proto-so-European
Syntax Austin: University of Texas Press. . 1986. A Gothic Etymological Dictionary. Leiden:
Brill. Theoretical Bases of indo-European Linguistics.
London: Routiedge. Lejeune, Michel, 1971. Lepontica. Paris: Belles
Lettres. 1972. Phonétigue kistorique du mycénien et du
grec ancien. Paris: Klincksieck. Manuel
de la langue vénite. Heidelberg: Winter. , 1982. "Venetica XVIII: Dans la plus ancienne épitaphe atestine,
vinetikaris ou vineti karis!" Latomes 41:732-42. 1938, Recueil des inscriptions gauloises, Vol. 2, part
I: Textes gallo-étrusques: Textes gallo-latins sur pierre. Paris Centre
national de la recherche scientifique. . 1990. "Notes de linguistique
Italique X: 'Bois" disait ce Sicule: 'je hoirai' répuad ce Falisque."
Revie des études latines Le nom de mesure Airpa: Escal lexical" Revue des
études grecques 106:1-11. Lepschy [Lepscky], Giulio C, 1962. "Il probiema
delfaccento latino" Annali della Scuola normale superiore di Plus,
lettere, Leskien, Die Bildung der Nomina im Litanischen. Berlin: Hirzel.
. 1990. Handbuch der althugarischen (alrkirchsivischen) Sprache, 10th ed. ter.
by Johannes Schrüpfer. Heidelberg: Winter. Leumann, Manu, 1917. Die
lateinischen Adjektiv auf -lis. Strassburg: Trübner. Das fat. Suffix -dneus" Indogermanische
Forschurger Die Adjektiva auf - Icius. In Kleine Schriften, [ed. Heinz Haffter,
Ernst Risch, and Walter Riegsl. 3-35, Zürich: Artemis. Originally appeared in
Giotta Lateinische Laut und Formenlehre, Vol, 1 of Lateiniche Grunmatik by Manu
Leumann, I. B. Hofmann, and Anton Seantyr. Munich: Beck. Levente, László
2002. •"The quantity of final - In the nominative-accusative of
Latin U-stem neuter nouns" Acta Antiqua Hungarica 42:133-40.
Lewis, Henry, and Holger Pedersen. 1961. A Concise Comparative Celtic Grammar.
3rd ed. Göttingen: Vandenboeck et Ruprecht. Lincoln Theorizing Myth
Narrative, Ideology, and Schoiarship, Chicago: University of Chicago
Press. Lindeman, Fredrik Otta, 1965. "La lal de Sievers et le début
du mot en indo-européen." Norsk Thisskrift for Sprogviderskap Intruduction
to the "Laryngenl Theory" Innsbruck Innsbrucker Beiträge zur
Sprachwissenschaft. Revised version of 1987 edition (Oslo: Norwegian University
Press). Lindner, Thomas. 1996. Lateinische Komposita: Ein Glossar
vornehmlich zum Wortschatz der Dichtersprache. Innsbruck: institut für
Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck. Lateinische Komposita:
Morphtologische, historische und lexikalische Studien. Innsbruck: Instätut für
Sprachen und Literaturen der Universität Innsbruck. Lindner, Thoass, and
Oniga Zur Forschungsgeschichte der lateinischen Nominalkomposition. Per
una storia degli studi sulla composizione nominale latina." In Calboli
Lindsay, W. M. 1892. "Ueber die Versbetonung vin Wörtern wie facilius' in
der Dichtung der Republik" Philologus 51:364-74. , 1894, The Latin Langoge: An Historical
Account of Latin Sounds, Stems, and Flexions, Oxford: Clarendon. , 1913. Sexti Pompei Festi De verburum
siguificats quae supersunt cum Panit epitome. Leipzig: Teubner. 1922, Early Latin Verse. Oxford: Clarendon. , 1930, Festus. Pp. 71-467 of Glossaria Latina
dussu Academiae Britannicas edita IV (Placidus, Fesrus), ed. J. W. Pirie and W.
M. Lindsay, Paris: Belles Lettres, 93-467. Reprinted Hildesheim: Olms, 1965,
with indices by A. Thier-felder. Liver Rätoromanisch: Eine Einführung in das
Bindnerromanische. Tübingen: Narr. Llvingston, Ivy. 2004. A Linguistic
Commentary on Livins Andronkws. New York: Routledge. Lloyd, Albert, and
Otto Springer: 1988- Etymologisches Wörterfnech des Arlochdeutschen, Göttingen:
Vandenhoeck et Ruprecht. Lloyd, Paul M. 1993. Del latin al español.
Trans. by Adelino Alvarez Rodriguez, Madrid: Gredos. Lochner von
Hüttenbach, Fritz Freihert, Michaela Ofitsch, and Christian Zinko Jahre
Indogermanistik in Graz (1873-1996): Forschtung und Lehre. Grax:
Universitätsbibliothek. Lofstedt, Bengt. 1967. "Bemerkungen zut
Adverb im Lateinischen." Indogermanische Forschungen 72-79-109.
Lofstedt, Einar. Philologischer konmenter zur Peregrinatio Actherlae:
Ustersuchungen zur geschichte der latei-mischen sprache. Uppsala: Almgvist et Wiksell.
[An Italian translation by Paolo Pieroni with updated bibliography and notes
was published as Commento filologico aila Perigrinatio Aetherioe: Ricerche sulla
storia della lingue latina, Bologne: Pitron, Sywfaction: Studien und Beiträge
zur historischen Syntax des Lateins. Vol. 2. Lund: Gleerup. • 1942.
Symactica: Shedien und Beiträge zur historischen Syntax des Lateins, Lund:
Gleerup. 1939. Late Latin, Oslo: Aschehoug: Cambridge, MA: Harvard
University Press. 'There is a 1980 Italian translation by Glovanni Orlandi with
updated bibliography: Il latino tardo: Aspetti e probiemi, Brescia:
Paideía Lomanto, Valeria, and Nino Marinone, eds. 1990. Index Grammaticus:
An Index to Latin Grammar Texts. Hildesheim: Olms-Weidmann. Lombard,
Alf. 1936. Einfinitif de narration dans les langues romanes. Uppsala: Almqvist
et Wiksells. La Monaco, Francesco, and Piera Molinelli, eds. 2007.
LAppendix Probi: Nuove ricerche, Florence: Gallazzo. Loporcaro, Michele,
2005. "La sillabazione di muta cum liquida dal latino al romanzo." In
Latin et langues ramanes: Mtudes de linguistique offertes à József Herman
à l'occasion de son 80ème anniversaire, ed. Sándor Kise, Luca Man-din, and
Giampaolo Salvi, 419-30. Tübingen: Niemeyer. L'Appendix Prohl' e la
fonologia del latino tardo" In La Monaco and Molinelli 2007, 95-124.
Larenzo, Ramon. 1968. Sobse croeologia do vocabultrio galego-portugues
(Anotapies ao Dicionario etimoligico de Juse Pedro Machado), Vigo:
Galaxia. Lottner, Ober die Stellung der Italer innerhalb des
indoeuropäischen Stammes" Zeitschrift far vergieichende
Sprachfurschung 7:18-49, 161-93. Lubotsky, Alexander, ed. 1997. Sound Law
and Annlogy: Papers in Hanor of R. S. P. Beckes on the Docasion of His
60t Birthday, Amsterdam: Rodopi - 2000. "Indo-Aryan
'six." In Lochner von Hüttenbach et al. Lucchesi, Elisa, and Elisabetta
Magni, 2002. Verchie e nuove (in)certezze sul Lepis Satricanus, Pisa:
ETS. Lodtke, H. 1962. "Zar Ausspeache von Lat. /al und /a/, Glotta
Lahr, Rosemarie, 1993. Zur Unstrukturierung von agenshaltigen
Sachverhaltsbeschreloungen in Komplementfunktion, dargestellt an
altindogermanischen Sprachen." Historische Sprachforschunger Lani, Old
Church Slavonic Grammar. 7th ed. Berlin: de Gruyter. Luque Moreno, Jesis.
2006. Accentus (ПО2016): El canto del lengunje. Representación de los
prosodemas en la escridura alfabética. Granada: Editorial Universidad de
Granada. Macdonell, Arthur Anthony, 1910. Vedic Grammar, Strassburg:
Trubner. A Vedic Grammar for Students. Oxford: Clarendon. Machado,
José Pedro. 1987. Dicionário etimológico da lingra portuguesa con a mais antiga
documentapio escrita e comhecide de maitos das vocabules estudiados. Lishon:
Horizonte Maiden, Martin. 1995. A Linguistic History of Italian, London:
Longman. Perfect pedigree: The ancestry of the Aromanian conditional"
In Cajord University Working Papers in Lin-guistics, Philolog: and Phonetics,
ed. Ashdowne and Finbow Oxford: [Facuity of Lin- guistics, Philology and
Phonetics). Maltby, Tiballas and the language of Latin elegy. In Aspects
of the Language of Latin Poetry, ed. J. N. Adams and R. G. Meyer, New
York: Oxford University Press. Malsahn, Melanie, Das lemnische Alphabet:
Eine digenständige Entwicklung" Studi Etruschi On the ablaut of the root
aorist in Greck and Indo-European." Historische Sprachforschung
Manessy-Guitton, Jacqueline. 1963. Recherches sur les dérivés nominaux à bases
sigmatiques en sanscrit et en latin. Dakar: Université de Dakar.
Mancini, Marco. Isidoro di Siviglia e la questione degli cositoni in
latino" In Scribthair a cinm -oguie: Scritti im memoria di Enrico
Companile, ed. Riocardo Ambrosini, Maria Patrizia Bologna, Filippo Motta and
Chatia Orlandi, 2:547-63. Pisa: Pacini. Dilatandis litteris': Lino studio su C. e la proaunzia
'rustica" In Studi linguistici in onore di Roberto Gusmani, ed. Raffaella
Bombi et al., Alessandria: Orsa. Pra latino dialettale e latino preromanzo:
Fratture e continuità." In La preistoria dellitaliano: Alti della Tavola
rotonda di linguistica storica, Università Ca' Foscuri di Venezia, ed. Jizsef
Herman and Anna Marinetti, Tübingen: Niemeyer. Agostino, i grammatici e il vocalismo del latino
d'Africa. Rivista di linguistica Una testimonia di Consenzio sul namerale
'trenta' in latino volgare." in Roma et Romania: Festschriß filr Gerhard
Ernst zun 65, Geburtstag, ed. Sabine Heinemann, Gerhard Bernhard, and Dieter
Kattenhusch, Tübingen: Niemeyer. Manczak, Wisold, 1999. "Opinion de Robert
Murray et Naomi Cull sur lorigines des langues romanes" In
Petersmann and Kettemann, Grec oûc" Glotta Maniet, Albert. Plante,
lexique inverse, listes grammaticales, relevis divers. Hildesheim: Olms.
MareS, De litterarum latinaram nominihus." Wiener Studien, Marichal,
Robert, Les graffites de La Grufeseque. Paris: Centre national de la recherche
scientifique. Les ostraca de Bu Njew. Tripoli: Grande Jamahira arabe,
libyenne, popalaire et socialiste, Eépt. des antiqui-Mariner Bigorra, 5, Las cinco
declinacionas latinas en dos fases de la historia de la lingística. Hidinantica
3:407-14. Marinetti, Anna, Le iscrizioni sudpicene. Florence:
Olschki. Venetico Acquisizioni e prospettive" In Protostoria e storia
del "Venetorum Angulus": Atti del XX Convegno di studi etruschi ed
italici, Portograro, Quarto d'Altina, Este, Adria, Pisa: Istituti editoriali e
poligrafici internazionali. Mariotti, Italo, ed. 1967. Marii Victorini
Ars Grammatica: introduzione, testo critico e commento. Fiorence: Le Monnier.
Marolta, Giovanna, The Latin syllable" In The Syllable: Views and Facts,
ed. Harry van der Hulst and Nancy Ritter, Berlin: de Gruyter. Marouzeau,
Quelques aspects de la formation du lutin litéraire. Paris: Klincksiock
Marstrander, Cari, 1929. "De funité italo-celtique Norsk Zidskrift fur
Sprogwidenckep Martinez. Javier, and Michiel de Vaan. Introducción al Avéstico.
Madrid: Ediciones Clisicas MartzlofE, Vincent. Les thèmes de présent dans
lépigraphie italique et on larin archaique. Université Lumière-Lyon
1l. Matasovic, Kanko, 1997, Knutka poredbenopovijessa gramarika
latinstogo jezika, Zagreb: Matica arvatska. Uses and misuses of typolagy in Indo-Buropean
linguistics" In Lochner von Hüttenbach et al. Etymological Dictionary of
Proto-Celtic: Leiden: Brill. Mather, Que modo inciendi verbi composita in
pracsentibas temporibus enuntiaverint antiqui et scripserint."
Harward Studies in Classical Philingy Matras, Varon. 2002. Romani: A Linguistic
Istroduction, Cambridge: Cambridge University Press. Matthews,
Morphology. 2nd ed. Cambridge: Cambridge University Press. Matzinger,
Joachim. Zu armenisch mck wir." Historische Sprachforschung Messapisch und
Albanisch" iternational Journal of Diachronic Linguistics Untersuchungen
zum altermenischen Nomen: Die Flexion des Substantivs. Detelbachc Röll . Der altalbanische Text Mösuame e Krishtere
(Dottrina cristiana) des Leke Matröngw von 1592: Eine Einfüh-rung in die
albanische Sprachwissenschaft. Dettelbach: Roll. Maychofer, Manfred, Supplement
zur Sammlung der alpersischen Inschriften. Vienna: Österreichische
Alademic der Wissenschaften. , 1986. Indogermanische Grammatik. Vol. 1, Lastiehre. Heidelberg:
Winter. , Blymologisches Würtertruch des
Alrindoarischen. Heideberg: Winter. Mayrhofer, Manfred, Martin Peters, and
Oskar I. Pfeiffer, eds. 1980. Lautgeschichte wud Etymologie: Akten der
VI. Fachtogung der Indogermanischen Geselischaft, Wien, Wiesbaden: Reichert.
Mazzini, "Ii manuale di storia
della lingua latina" Paideia McAlpin, David W. Velars, uvulars, and the
North Dravidian hypothesis" Journal of the Americon Oriental Society
McCone, Kim 1991. The Indo-European Origius of the Old Irish Nasal Presents,
Subjunctives and Futures Innshruck: Institut für Sprachwissenschaft der
Universität Innsbruck. Towards a Relative Chronology of Ancient and
Medieval Celtic Sound Change. Maynooth: Department of Old Irish, St. Patrick's
College. The Early Irish Verb. 2nd ed. Maynuoth: An
Sagart. , 2005. A First Old trish Grammar and Reader,
Incinding an Introduction to Middle irlsh. Maynooth: Department of Old and
Middle Trish, National University of Ireland. McManus, Damian. A Guide to Ogum.
Maynooth: An Sagart. McNeal How did Pelasgians become Hellenes? Herodotus
Milnois Classical Stadies Meier-Brügger, Michael, 1980. "Lateinisch
audire/oboedire Etymologie und Lautgeschichte" In Maychafer et al,
Griecitische Sprachwissenscheft. Berlin: de Gruyter. Humerisch appou(Sic), mykenisch d(uJuan(phi)
und Verwandtes" Glotta Eudo-Еиторем Lingwistics. Trans by Charles
Gertmenian. Berlin: de Gruyter. Meillet, Antoinc. De l'expression de Faoriste
en latin." Revue de Philologie De quelques emprunts probables en gres et
en latin" Mémoires de la Societe de linguistique de Paris Sur le sulfixe
indo-européen "-nes-" Mémoires de la Société de linguistique de Paris
Les noms du 'feu' et de l'eau' et la question du genre" Mémolres de la
Société de lingristique de Paris Les dialertes indo-européens. 2nd ed. Paris:
Champion. The first edition was 1908, There is a 1968 English translation by
Samuel N. Rosenberg, The Indo-European Dialects (University, AL: University of
Alabama Press). Esquisse d'une grammaire comparée de l'arménien
dassique. 2nd ed. Vienna: Pp. mékhitharistes. Introduction à lêtude comparative des langues
indio-curupéennes 8th ed. Paris: Hachette. Aperçu d'une histoire de la langue grecque. Avec
bibliographie mise à jour ef complétée par Oliver Masson. Paris: Klincksieck. Le slave commun. 2nd ed. Avec le concours de A.
Vaillant. Paris: Champion. Esquisse
d'une histoire de la langue latine. 2th ed. Paris: Klincksieck. Only the
bibliography has been updated Meillet, Antoinc, and joseph Vendryes. Traité de
grammaire comparée des langues classiques. 5th ed. Paris: Champion. Meiser,
Gerhard. 1986. Lautgeschichte der umbrischen Sprache. Innsbruck: Institut für
Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck. 1993. "Uritalische Modussyntax: Zur Genese des
Konjunktiv Imperfekt" In Oskisch-Umbrisch: Texte und Gram-matik. Arbeitstagung
der Indogermanischen Gesellschaft und der Società Italiona di Giottologia vom
25, bis 28. September 1991 in Freiburg, ed. Helmut Rix, 167-95. Wieshaden:
Reichert. , Das Gerundivum im Spiegel der italischen
Onomastik." In Sprachen und Schriften des antiken Mittelmeer-muns:
Festschrift für Jürgen Untermann zon 65. Geburtshgg, ed. Frank Heidermanns,
Helmut Rit, and Elmar Scebold, 255-68. Innsbruck: Institut für Sprachwissenschaft
der Universität Innsbruck. ,
1998. Historische Laur- und Formenchre der lateinischen Sproche. Darmstadt:
Wissenschaftliche Buchgesellschaft. 2003a.
Veni, vidi, vici: Die Vorgeschichte des lateinischen Perfekrsystems. Munich:
Beck. 2003b. "Lat mando, mandi "kaue."
In Linguistica é storia, Sprachwissenschaft ist Geschichte: Scritti in onore di
Carlo De Simone, ed. Simona Marchesini and Pacio Pocoetti, Pisa: Giardini.
Meisaner, Torsten. 2006. S-stem Nouns and Adjectives in Greek and
Proto-Indo-European: A Diachronic Study in Wind Formation. Oxford: Oxfoed
University Press. Melchert, H. Craig. 1987. "Proto-Inde-European
velars in Luvian" In Studies in Memory of Warren Congill (19291985), ed.
Calvert Watkins, 182-204. Berlin: de Gruyter. Cuneiform Lavian Lexicon,
Chapel Hill: self-published. Available online at
www.linguistics.uck.edu/peuple/ Melchert/webpage/LUV1.EX.pdf. , 1994a. Anatolian Historical Phonology.
Ansterdam: Rodopi. The feminine
gender in Anatolian." In Früh, Mittel, Spätindogermanisch: Aeten der IX.
Fachtagung der Indogermanischen Geselischaft vom 5, bis 9. Oktober 1992 in
Zibrich, ed. George Dunkel et al., Wiesbaden: Reichert. , Hittite arki-'chant, intone vs. arkiowa-'make a
plea." Journal of Cuneiform Studies 50-45-S1. Hittite nominal stems in -anzan-" In
Indogermanisches Nomen: Derivation, Flexion und Ablaut. Akten der Arbeitstagung
der Indogermanischen Gerellschaft = Society for indo-Europenn Studies = Sociêté
des études indio-européennes, Freiburg, 19, bis 22. September 2001, ed. Eva.
Tichy, Dagmar S, Wodtko, and Britta Irslinger, Bremen: Hempen. , ed. 2003b. The Lulans. Leiden: Brill. . PIE thom' in Caneiform Luvian?" In
Proceedings of the Fourteent Annual UCIA Eudo-Earopean Carfer-ence, Los
Angeles, November 8-9, 2002, ed. Karlene Jones-Bley et al, Washington, EXC:
Institute for the Study of Man. 2004.
A Dictionary of the Lycian Language. Ann Arbor: Beech Stave. 2005. "Indo-Baropean linguistics: A 19th century
science in the 21st century." Collitz Lecture, presented at the Linguistic
Society af America Institute, Cambridge, M.A, Greek mdlybdos as a loanword from
Lydian." In Hitlites, Greeks and their Neighbors in Anatolla, ed. Billie
Collins et al. www.linguistics.ucla.edu/people/Melchert/recent_papers.html.
Mellct, S, M. D. Joffre, and G. Serbat, 1994. Grammaire fondamentale du Latin:
Le signifié du verbe. Louvain: Pecters. Menéndez Pidal, Ramón. 1962.
Manual de gramática histórica española. 11th ed. Madrid: Espasa Calpe, Mercado,
Angelo. 2006. The Latin Saturniun and Italic Verse. UCLA. peopleucsc
edu/-anmercad/research.htmi#Discertation. Mesa Sanz, El desco y el
subjuntivo: Andlisis de los actas de habia y e valor "aptalivo" en
lengra latina. Alicante: Universidad de Alicante. Mester, R. Armin, 1994.
"The quantitative trochee in Latin." Natural Language and Linguistic
Theory 12:1-61. Meyer-Labke, W. 1920. Einführung in des Sinditam der
romanischen Sprachwissenschaf. 3rd ed. Heidelberg: Winter, - 1935.
Romanisches etymologisches Würterbuch. 3rd ed. Heidelberg Winter.
Mikalson, Ennius' usage of is ea id." Hatvard Strafies in Classical
Philology Miller, D. Gary. Latin Suffixal Derivatives in English and Their Eudo
European Ancestry, Oxford: Oxford University Press. Miranda, E., ed.
1990-. Iscrizioni greche d'halia: Napol, Rome: Quasar. Moll, F. de B.
Gramática histórica catalana Madrid: Gredos. The Catalan translation, Gramárica
histárica catalana (Valencia: Universitat de Valencia) is
unchanged. Moller, Review of Friodrich Kluge, Beitnäge zur Geschichte der
germanischen Compugation (Strassburg: Trübner). Englische Studien
Mommsen, Die unteritalischen Dialekte. Leipzig: Wigand Moralejo, Notación
de la aspiración consondatica en el latér de la República: Testimorios
epignificas datadas. Bologna: Compositori. Morani, Moreno 1986. "Un
problema di grammatica Latina: Laccusativo plurale del teri in «42" AUti
del Sodalicio Giostologico Milanese Introdiczione alia linguistica
intina. Munich: LINCOM Europa. Mocetti, Luigi. inscriptiones Graecue
Urbis Romae. Rome: Istituto Italiano per la Storia Antica. Morgenstierne,
Georg, 1983. "Hemerkungen zum Wort-Akzent in den Gathas und im
Paschto." Mänchener Stadien zur Sprachwissenschaft Morpusgo Davies, Ninefeeuth-century
Linguistics. History of Lingwisties, ed. Giulio Lepechy: London:
Longman. Morris Jones A Weish Grammaz, Historical and Componalive:
Phanclogy and Accidence. Oxford: Clarendon. Mayse-Faurie, Le drefa:
Langue de Lifou (Tes Loynuté), Phonologis, marphologie, syntaxe. Paris
Sociêté détudes linguistiques el antropologiques de France. Mras,
"Assibilierung und Palatalisierung im späteren Latein." Wiener
Studien Muljacit, Das Dalmatische: Stadien zu einer untergegangenes Spruche.
Cologne: Böblau. Muller, Jean-Claude 1986. Early stages of language
comparison from Sassetti to Sir William Jones Kratylos Muller-Wetzel,
Martin. 2001. Der lateinische Konjunklin: Seine Einheit als deiktische
Kategorie. Eise Erklärung der modalischen Systeme der klassischen Zeit.
Hildesheim: Olins-Weidmann. Narten, Zum proterodynamischen
Wuraciprisens" In Protidinam Inaiar, Inauian, and Indo-Europous Sradles
Presented to Franciscus Bernardus Jacobus Kulper on His Sixtieth Birthday, ed. Heesterman,
G. H. Schokker and V. L. Subramoniam, The Hague: Mouton. Nedoma,
Robert, 1995, Die Inschriß auf dem Helm B von Negau: Möglichkelten und Grenzen
der Deutung nonditlischer epigraphischer Denkondler, Vienna:
Fassbaender. Neri, I sostantivi in -u del goticos Morfologia e preistaria.
Innsbruck: Institut für Sprachen und Literaturen, Abteilung
Sprachwissenschaft. Riflessioni sull'apofonia radicale di proto-germanico
"nami" 'nome." Historische Sprachforschung Niedermann, Max,
1899. "Studien zur Geschichte der lateintschen Woribildung." Indogermanische
Forschungen Prècis de phonétigue historique de Intin. 4th ed. Paris:
Klincksleck. Nieto Ballester, E. Remarques sur le prétenda datif
singulier en 4 dans le latin archaique" Indogerimanische Forschungen
Nikolaey, K dejstviju zakona Rixsa v drevnegredeskom jazyke" In Hydá
mánasa: Stornik statej k 70-letjo s0 dnjo rodderija professora Leonarda
Georgievida Gertsenderga, ed. N. N. Kazanskl, Saint Petershurg-Nauka
Noreen. Adolf. 1904. Altschwedische Grammatik, mit Ebuschluss des Algurnischen.
Halle: Niemeyer. Alisländische und altnorwegische Grammatik (Laut- und
Flexionslehre) anter Berlicksichtigung des Urnardischew. Halle: Niemeyer.
Nussbaum, Ennian Laurentis Terra" Harwind Studies in Clasical Philology
Studies in Latin noun formation and derivation: Y in Latin denominative
derivation" En Indo-European Studies II, ed. Calvert Watkins,
Linguistics, Harvard, Caland's
Law and the Caland System, Harvard, Head and Horn in Indo-European. Berlin: de
Gruyter. Five Latin verbs from a root "leik-" Harvind Studies in
Classical Philology Latin dolom, auritus, acutus, avitus: Four of a kind?"
Paper presented at the 15th East Coast Indo-European Conference, Vale
University, The Saussure Effect' in Latin and Italic." In Lubotsky More on
"decasuntive" nocinal stems." Paper presented at the 17th East
Coast Indo-European Conference, The University of North Carolina at Clapel
Hill, Two Studies in Greek and Homeric Lingwistics, Göttingen: Vandenboeck et Ruprecht.
, Severe problems" In Jasanoff et al. JOCIDUS:
An account of the Latin adjectives in -idus" In Compositiones
indogermanicae in memoriam Jochem Schindler, ed. Heiner Elchner and Hans
Christian Luschützky, Prague: Enigma. A benign interpretation." Paper presented at the 22nd East Coast
Indo-European Conference, Harvard Cool *-Ed-: The Latin friged and Greek
alynown, tein, and plysavoc types" Paper presented at the East Coast
Indo-European Conference, Virginia Tech, Latin present stems in -sa-: A
possibly not so minor type" Paper presented at the Kyoto Indo-European
Conference, Kyoto Verim Docenti: Sradies in Historical and Indo Eirobean
Lingwistics Presented to Jay H. Jasanoff by Sti-dents, Colleagrets, and Friends
Ann Arbor: Bosch Stave. Natting, The ablative gerund as a present participle"
Classical Journal Nyman, Latin -la 'nom. pl: as an Indo-European reBex"
Glorta Nyrop, Kristaffer. 1913-67. Grammatre historique de la langue française.
Vol. 1, Histoire externe de la langue et la phonétigur, Sth ed. rex. by I
Laurent, Morphologie, La formation des mots, 2nd ed. rev. by K. Sandfeld,
Semantique, La syntaxe; noms et pronoms, La syntaxe; verbes, particules, la
proposition, 1930. Copenhagen: Gyldendal. Oettinger, Norbert. 1997.
"Grundsitzliche Oberlegungen zum Nordwest-Indogermanischen" Encoutri
linguistici Zum nordwest-indogermanischen Lexion: Mit ciner Bemerkung zum
hethitischen Genitiv aaf-L"In An-reiter and Jerem Die Stammbildung des
hethitischen Verbuns. 2nd ed. Dresden: TU Dresden. Neuerung in Lexikon und Worthildung des
Nordwest-Indogermanischen." In Bammesberger Chals, The phonetics of sound
change." In Historical Linguistics: Problems and Perspectives, ed.
Charles Jones, London: Longman. Phonetics and historical
phonology" In The Fiandbook of Historical Linguistics, ed. Brian D. joseph
and Richard I. Janda, 669-86. Malden, MA: Blackwell. Olander, Thomas, The
dative plural in Old Latvian and Proto-Indo-Furopean." Infogermanische
Farschunger Oliver, Revilo P. 1966. "Apex and Sicilicus" America
Journal of Philology Olsen, Birgit Anette. 1988. The Prato-Indo-European
Instrument Nown Suffix *-tom and its Variants, Copenhagen:
Munksguard. The Now in Biblical Armenian: Origin and Word-formation, with
Special Emphasis on the indo-European Heritage. Berlin: de Gruÿter.
Oniga, I COMPOSTI NOMINALI LATINI: UNA MORFOLOGIA GENERATIVA, Bologna:
Patron. "Lapofonia nei composti e l'ipotesi dell'
intensità iniziale in latino (con aleune consequenze per la teoria dell'ictus
metrico) In Metrica classica e linguistica, ed. Roberto Danese, Franco Gori and
Cesare Questa, Urbino: Quattro Venti. 2003. "La sopravvivenza di lingue diverse del latino neil'italia di
eti imperiale" Lexis Osthaff, Hermann. Das Verbum in der
Nominalcomposition im Deutschen, Griechischen, Slavischen und Romanischten.
Jena: Costenoble. Paden, Introduction to Old Cecitan. New York: Modern
Language Association of America. Palmer, Prank R. 2001. Mood and
Modality. 2nd ed. Cambridge: Cambridge University Press. Palmer, Leonard
R. 1961. The Latin Language, London: Faber and Faber. Panagi,
Prisuppositionen und die Syntax der lateinischen Komparation." Salzburger
Beitrage zur Linguistik Zu den Formen auf -mint im lateinischen
Verbalsystem." In Flarilegium lingwisticum: Festschrift für Wolf. gung P.
Schwid zum 70. Gehurtsfog ed. Eckhard Eggers et al., Frankfurt am Main: Lang.
Panagi, Oswald, and Thomas Krisch, ed. 1992. Latein and Indugermanisch: Akten
des Kollogniums der Indagerna-nischen Gescilschaft, Salzburg Innshruck:
Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck. Parker, The
Relative Chronnlogy of Some Major Latin Sound Changes. Yale, Latin siso » sero
and related rules." Glotta Parsons, A new approach to the Saturnian verse
and its relation to latin prosody." Transactions of the American
Piafiologioni Association Patri, Sylvain. Observations sur la loi de
Winter" Historische Sprachforschung Paul, Hermann. Prinzipien der
Sprachgeschichte. 5th ed. Halle: Niemeyer.-Podersen, Holgez. La cinquieme
déclinaison latine. Copenhagen: Höst. The Discovery of Language:
Lingwistic Science in the Nineteenth Century, Translated by John Webster
Spargo. Bloomington: Indiana University Press. Pellechia, M., The mystery
of Etruscan origins: Novel clues from Bos taurus mitochondrial DNA."
Procentings of the Roym Society: Bialugical Sciences Pellegrini, Giovan
Battists. Alcune osservazioni sal 'retoromanzo" Lingwistica (Ljubljana)
Pellis, Ugo, et al. Ariante linguístico italiano. Rome: Istituto poligrafico e
Zecca dello Stato. Penney. Indo-Europens Perspectives: Studies in Honour
of Davies. Oxford. Penny, A History of the Spanish Langnage. 2nd ed
Cambridge Cambridge University Press. Perrot, Les dérives latins en - men
et -mentum. Paris: Klincksieck Peters, Attisch hiêmi." Die Sprache
Unfersuchungen zur Vertretung der Endogermanischen Laryngule in Griechischen. Vienna:
Osterreichische Akademie der Wissenschaften. Tin tiefes Problem." In Compositiones
inslogermanicoe in memoriam jochem Schindler, ed. Heiner Eikhner and Hans
Christian Luschützky, Prague: Enigma. Gallo-Int.) marcasior." In Anreiter and Jerem Petersmann, Hubert.
1973. "Zu Cato de agr. 134,1 und den frübesten Zeugnissen fir den Ersatz
des Nominativs Piuralis von Substantiven der 1. Deklination durch Formen
auf-as" Wiener Studien Petersmann, Hubert, and Rudolf Kettemann, eds,
1999. Latin vulgaire, latin tardif Vi Actes dur Ve Colloque international
sur le latin vulgeire et tandif. Heidelberg: Winter.
Petit,Lituanien." LALIES Suc- eu groc ancien: La famille du promom
néfléchi. Linguistique grecque et comparaison indo-curopéenne. Louvain:
Poeters. Apophonie et catéguries grammaticales dans les
langues baltiques. Louvain: Peeters. Pfister, Max. 1979-. Lessico etimologico
italiano. Wiesbaden: Reichert. Pianezzola, Gli aggetivi verbali ir
-hundus. Florence: Sansoni. Pinault, Introduction au tokharien"
LALIES Chrestomathie takharienne: Textes et grammaire. Louvain: Peeters.
Pinkster Latin Synslux and Semantics. London: Routiedge. Pironz, Il ruovo
Pirona: Vocabolario frisiano. Udine: Bosetti. Pirson, J. 1906.
"Mulomedicina Chironis: La syntaxe du verbe" In Restschrift zum XII.
allgemeinen deutschen Neuphilologentage in München, Pfingsten, 1906, ed. E.
Stolireither, Erlangen: Junge. Pisani, Vittore, Storie di parole,"
Archivio glorrologico italiano. "7 da e in latino?" Die Sprache
26:185-6. Poccetti, Etrusco Feluske = Faliscus? Note sull'iscrizione
della stele arcaica di Vetulonia." Studi etruschi Poccetti, Paolo,
Diego Poli, and Carlo Santini, UNA STORIA DELLA LINGUA LATINA: FORMAZIONE, USO,
COMUNICAZIONE, Roma: Carocci. Pakorny, Julius. 1959 69. Indogermanisches
erymologisches Wörterbuch. Bern: Francke. Paljakov; Oleg. 1995. Das
Probem der Buito-slavischen Sprachgemeinschef. Frankfurt am Main: Lang.
Pope, Mildred Katharine, 1952. From Latin to Modern French. 2nd ed. Manchester:
Manchester University Press. Porzio Gernis Contributi metodologici allo
studio del latinó arcalco: La sorte di M e D finali." Memorie della
Accademia Nacionale dei Lincei, Cl. di Sc. morali, storiche e filologiche, Gli
clementi celtici del latino." In I Ceiti d'halia, ed. Enrico Campanile,
Pisa: Giardini. Rosner, The Romance Languages, Cambridge: Cambridge
University Press. Postgate, ]. P. Operatus and operari." Jauznal of
Philology Poucet, Tarigine sabine de la commutatio du -d- en -t, un mythe
linguistique?" Antiguité dassique 35:140-48. Poultney The Bronze
Tables of Iguviam. Baltimore: American Philological Association. The
language of the Northern Picene inscriptions" Journal of Indo-Baropean
Studies Powell, A new text of the Appendix Probi." Classical Quarterly
Prinz, Zur Entstehung der Prothese vor s-impurum im Lateinischen." Glotta
Probert, Philomen, On the prosody of Latin enclitics." Ofand University
Working Pupers in Lingristics, Filologx and Phonetics Prokosch, Eduard. 1939. A
Comparative Germanic Grammar. Philadelphia: Linguistic Society of
America. Prosper, Manca Maria. 2002. Lenguas y religiones prerromunas del
occidente de la Peninsuia Ibérica, Salamanca Universidad de Salamanca Fuelma,
Mario, Nachtrag zu spectrom: Bin beues Wortzeugeis" Museum: Heiveticum
Puhvel, Hirtite Etymological Dictionary. Berline de Gruyter. Latin faror:
Help from Hitite" In Jasanoff et al. Pultrovi, Lucie, 2005. The Vocalism
of Latin Medial Syllables. Prague: Univerzita Karlova v Praze, Nakl.
Karolinum. Purnelle, Gérald. 1995. Les usages des graveurs dans la
notation d'upsion et des phonèmes aspirés Le cas des antiroponymes grecs dans
les inscriptions latines de Rame. Geneva: Druz. Puscariu, Sextil.
Etymologisches Würterbuch der nmänischen Spruche. Heidelberg: Winter. Die
romänische spraches Ihr wesen und ihre volkliche prägung. Trans. Heinrich Kuen.
Leipzig: Harrassowitz. Quellet, Henri. 1969. Les dérivés latins en -or:
Etude lexicographique, statistique, morphologique et sémantique. Paris:
Klincksieck. Questa, Cesare. La metrica di Píauto e di Terenzio, Urbino:
Quattro Venti. Quirk, Ronald J. 2006, The Appendix Probi: A Scholar's
Guide to Text and Context. Newark, DE: de la Cuesta. Ramat, Anna
Glacolone, and Paolo Ramat, eds. 1998. The Indo-European Langsages. London:
Routledge. Rasmussen, Jens E. 1994. "Miscellaneous morphological
problems in Indo-European languages Ill: Arbejdspapiner udsendr of
testitut for Lingvistik, Kaberhavs Universilet Studien zur Morphophonemik der
indogermanischen Grundsprache. Innsbruck: Institut für Sprachwissenschaft der
Universität Innsbruck , The origin
of the Latin gerund and gerundive" Copenhagen Working Papers in
Linguistics, Against the assumption of an 1! ""*ctures rule." In
Proceedings of the Twelfth Arenal UCLA Indo-European Conference, ed. Martin
Huld et al., Washington, DC: Institute for the Study of Man. Rauch, Irmengard,
The Old Saxon Language: Grammar, Epic Narrative, Linguistic Interference. New
Yorie Tang. Reichelt, Hans. Awestisches Flementarbuch. Heidelberg:
Winter. Reichenkron, Historische latein-altromanische Grammatik. Wiesbaden:
Harrassowitz. Reichler-Béguelin, Marie-José, 1986. Les noms larins du
type mêns: Erude morphologique, Brussels: latomus. Renou, Louis.
Grammarie sanscrite. 3rd ed. Paris: Maisonneuve. Reypulds, Elinor, Paula
West, and John Coleman. Proto-Indo-European 'laryngeals' were vocalie."
Diachronica Rheinfeldes, HL. Altfranzösische Grammatik. 5th ed. Munich:
Hueber. Ricken, Elisabeth, 1999. Untersuchungen zur nominaien
Stammbildung des Hethrinschen. Wiesbaden: Harrassowitz Tat. egt führte,
itc-l 'warf" and h.-luw. INFRA a-ka 'unterwarf." In Nussbaam, Riggsby,
Andrew M. Elision and hiatus in Latin prose" Classical Antiquity Kinge, On
the Chronology of Sourd Citages in Tocharian. Vol. 1, Fram Prufo-Indo-European
to ProtoTocharian. New Haven: American Oriental Society, On the origin of 3pl. imperative-vcov." In
Festschrif far Eric Hamp, ed. D. Q. Adanis, Washington, DC: Institute for the
Study of Man. A Lingwistic History of English. Froms
Proto-indo-European to Prodo-Germanic. Oxford: Chdord Uni-versity Press. A sociolinguistically informed solution to an
old historical problem: The Gothic genitive plural," Transactions of the
Philological Society, Old latin - mind and 'analogy. In Nussbaur Risch, Ernst.
Der Typus parturise im Lateinischen." Indogermanische Forschungen
Wartildung der homerischen Sprache. 2nd ed. Berlin: de Gruyter. 1981. Gersndivum und Gerundion: Gebrauch im
klastschen und älteren Latein, Eatstehung und Vorgeschichte. Berlin: de
Gruyter. Gab es im Latein ein Neutrum Singular
nudinson?" In Sprachwiserschafiliche Porschungen: Festschrit fr Johann
Knabloch zum 65. Geburtstag am 5. Januar 1984 durgebracht von Freunden and
Kollegen, ed. Hermann M. Olberg and Gernot Schmidt, 329-38. Innsbruck: Institut
für Sprachwissenschaft der Universität lansbruck: Risselada, Rodie. 1993.
Emperatives and Other Directive Expresions in Latin: A Study in the Pragmatics
of a Dead Language. Amsterdam: Gichen. Kitter, R.-P. 1996.
introducción al armenio antiguo. Madrid: Ediciones Clásicas. Kix, Helmut,
Sabini, Sabeili, Samnium: Fin Beitrag zur Lautgeschichte der Sprachen
Altitaliens." Beitnäge zur Namenforschung, Die lateinische Synkope
als historisches und phonologisches Problem." Kratylos Reprinted in Strunk
Fexion und Wortbildung: Akzen der V. Fachtagung der Indogermanischen
Gesellschaft, Regenshung, Wiesbaden: Reichert. Das keltische Verbalsystem auf dem Hintergrund des
indo-iranisch-griechischen Rekonstruktionsmodella" In Indugermanisch und
Keltisch: Kalloguiren der Indogenmanischen Gesellschaft am 16. und 17. Februar
1976 in Bonn. Vortnüge, ed. Karl Horst Schmidt, Wiesbaden: leichert. Review of M. Lejeune, linthroponymsie osque
(Paris: Belles Leitres, 1976). Kratyios Pyrgi-Texte und etruskische
Grammatik." In Akten des Kolloquiams zum Thema "Die Göttin von Pyrg!:
Archolgische, lingwistische, und religionsgeschichrliche Aspekte (Tubingem,
16.-17. Jantar 1979), [ed. Aldo Neppi Modona and Friedhelm Prayon], Florence:
Olschki. Rapporti onomastici fra il panteon etrusco e
quello romano." In Gli etruschi e Roma: Arti del'incontro di studio in
onore di Massimo Pallottina, Rona, 11-13 dicemöre 1979, [ed. G. Caloana et
al.J. 104-26. Rome: Bretach-neider. Das
letzte Wort der Duenos-Inschrift." Mänchener Studien zur
Spruckwissenschaft Die Endung des Akkusativ plural commune im Oskischen."
In O-o-pe-ro-si: Festschrift für Emast Risch zum 75, Geburtstag, ed. Annemarie
Etter, 583-97. Berlin: de Grayter. Tat,
patronus, matrona, colonus, pecumia." In Indogermanic Europsed:
Festschrift fior Wolfgang Meid zum 6) Geptetstag am 12.11.1989, ed. Karin
Heller, Oswald Panagi, and Johann Tischler, Gra: Instirut fir Sprachwissenschaft
Graz. , Etruskische Texte: Editio Minor. In
collaburation with Gerhard Meiser. Tübingen: Narr. "Etrusco un, sme, un he, tibi vos' e le preghiere
del rituali paralleli nel Liber Linteus." Archeologia dassica Üridg
&'esio- in den südindogermanischen Ausdricken für 1000" In Studia
etymologica indocuropaca memorine A. J. van Windekens (1915-1989) dicata, ed.
I. Isebeert, Louvain: Department Orientalistiek. , Historische Grammutik des Griechische. 2nd ed.
Darmstadt: Wissenschafliche Buchgesellschatt. 1995a. "Einige lateinische Präsensstammbildungen
zu Set-Wurzeln. "In Karylowicz Memorial Voltane, etl. Wojciech Smncayiskt,
1:399-408, Cracow: Uiniversitas. -.
1995b. "Griechisch ¿xiorauar: Morphologie und Etymologie" In Verbe ef
Structurne: Festschrift fier Klaus Strunk zum 65. Geburtstag, ed. Heinrich
Hettrich et al, 237-47. Innsbruck: Institut für Sprachwissenschalt der
Universität innsbruck. Oskisch
bravús, oskisch uruvi, lateinisch urvum und 'europäisch' brave." Historische
Sprachforschug 108:84-92 .
1995d. "Il latino e l'etrusco" Eulopia Reriew of Schriiver 1991.
Kratylos Germanische Runen und venetische Phonetik." In Vergielchende
germanische Philologie und Skandinavistit: Festschrift fir Obnar Werner, ed.
Thomas Birkmann et aL. 231-48, Tübingen: Niemeyer. Ratisch und Etruskisch.
Jansbruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck. La
scrittura e la lingua." In Gli etruschi: Una nuova inmagine, ed. Mauro
Cristofani, Florence: Martello. Sabellische Texte: Die Texte des Oskischen,
Ursbrischen, ind Südpikenischen. Heidelberg: Winter, Ausgliederung und Aufgliederung der italischen
Sprachen." In Bammesberger I nomi delle figure dei miti greci nelle lingue
dell'#alia antica: The first traces of Achilles and Hercules in Latin." In
Penney Lehnbezichungen zwischen den Sprachen Altitaliens" in Sprachkontakt
und Sprachwandel: Akten der XI. Fachlagung der indogermanischen Gesellschuft, Halle
an der Suale, ed. Gerhard Meiser and Olav Hackstein, 559-72. Wiesbaden:
Reichert. Roberts, lan. Dinchronic Syntax. Oxford: Oxford University
Press. Robinson, Old English and Its Closest Relatives: A Survey of the
Farliest Germanic Languages. Stanford: Stanford University Press.
Rohifs, Vom Vulgürlatein zum Aitfranzösischen: Einführung in das Studium der
alfranzüsischen Sprache. Tübingen, GRAMMATICA STORICA DELLA LINGUA
ITALIANA E DEI SUOI DIALETTI, Turin: Einaudi. Fonetica, Morfologia, Sintassi e
formazione delle parole trans. PERSICHINO (vedasi) trans. FRANCESCHI (vedasi) Franceschi and
Fancelli., Die Sonderstellung des Rätoromanischen" In
Raetia Antiqua et Moderna: W. Theodor Elwert zum 8D. Ge- burtstag, ed. Günter
Holtus and Kurt Bingger, Tubingen: Niemeyer. Romero, Joaquin, n.d.
"Temporal reduction effect in diachronic change: Rhotacism." Abstract
avallahle at www.zas.
gwa-berlin.de/events/phon_interfaces/abstracts/romero.pdf. Ross, Alan S.
C. and Jan Berns, Germanic" In Ino-Europenn Numerals, ed. Jadranka
Grazdanovié, 555-715. Berlin: de Gruyter. Rassler, Die lateinischen
Reliktwörter in Berberischen und die Frage des Vokalsystems der
afrikanischen Latinität" Belträge zur Namenfarschung, Rothe,
Wolfgang, Einfübrung in die historische Laut und Formeniehre des Ramänischen,
Halle: Niemeyer. Russell, Paul. Recent work in BRITISH LATIN, Cambridge
Medieval Celtic Stadies 9:19-29. Sabanéeva, M. K. 1995. Essai sur
lévolution du subjonctif latin: Probièmes de la modalité verbale, Louvain:
Peeters. Sadovski, Velizar: Dvaniva, tatpurusa and bahuvriai: On the
Vedic sources for the names af the compound types in Pánini's
grammat" Transactions of the Philological Society 100:351-402.
Salarewicz, Le rhotarisme latin. Vilnius: Naklad Towarzystrez Przyjaciol Nauk
ve Wilnie. Historische lateinische Grammatik. Halle: Niemeyer. Lingristic Studies. The Hague: Mouton. Note sur
le developpement de i devant ube voyelle en Latin." Eos Salvi, Giampaolo,
1997, 'Cola e clitici in latino," Palimpszeszt 8.
irodalom.elte.hu/palimpszeszt/08_szam/06.htm. Sanz Ledesma, Manuel El
albanés Gramática, historia, textos. Madrid: Ediclones Clásicas. Sblendorio
Cugusi, I sostantivi latini in -tudo. Bologna: Patron. Scarlata,
Salvatore, Die Wurzelkomposita im &g-Veda. Wiesbaden: Reichert.
Schad, Samantha, A LEXICON OF LATIN GRAMMATICAL TERMINOLOGY, Pisa: Serra.
Schafiner, Stefan, Das Vernersche Gesetz und der innerparadigmalische
grammatische Wechsel des Urgerna-mischen im Nominalbereich. Innsbruck: Institut
für Sprachen und Literaturen der Universität Innsbruck. Scharfe, Hartmut.
The Vedic word for 'king?" Journal of the American Oriental Society
Scheid, Commentarit Fratrum Arvoliun qui supersuni: Les copies épigraphiques
des protocoles annacis de la confrérie arvale, 21 au-304 ap. J.-C. Rome Ecole
française de Rome, Soprintendenza archeologica di Roma. Schindler,
Jochem, Das Wurzelnomen im Arischen und Griechischen. Ph.D. diss.,
Julius-Maximilians-Universität zu Würzburg-, Lapophonie des noms-racines
indo-européens" Bulletin de la Société de linguistique de Paris
Bemerkungen zur Herkunlt der Idg. Diphthongstämme und zu Eigentümlichkeiten
ihrer Kasusformes." Die Sprache Zum Ablaut der neutralen s-Stämme des
Indogermanischen.* In Rix Lapophonie des thèmes indo-européens en rin"
Bulletin de la Société de lingwistique de Paris Notizen zum Sieversschen
Gesetz." Die Sprache Zur Herkunft der altindischen cvl-Bildungen" In
Mayrhofer et al. Alte und neue Fragen zum Indogermanischen Nomen (erweitertes
Handout). In in honorem Hoiger Pad-ersen: Kalloguium der Indogermanischen
Geseitschaft vam 25. bis 28. März 1993 in Kopenhagen, ed. Jens Elmegärd
Rasmussen, Wiesbaden: Reichert. Schmidt, Gernot. 1978. Stamumbilduny wnd
Flexion der indogermanischen Personalpromnina. Wicsbaden: Harras50Wit
Schmidt, Jobannes. Die griechischen ortsadverbia auf -ui -vc und der
interrogativstamm ku. Zeitschrift für vergleichende Sprachforschung
Schmidt, Keltisches Wortgut im Lateinischen." Glotta Schmitt, Einführung
in die griechischen Dialchte, Darmstadt: Wissenschaftliche
Bochgesellschalt. Compenditm linguarm iranicarsan. Wiesbaden: Reichert. , The Bisitan Inscriptions of Darias the Greal:
Old Persian Text. Londoa: School of Oriental and African Stud-tes. , Grammarik des Klassisch-Armenischen mit
sprachverglechenden Erländerungen. Innsbruck: Institat für Sprachwissenschaft
der Universitat Innsbruck. Schmitz, Philip C. 1995, "The Phoenician text
froen the Etruscan sanctuary at Pyrgi" Journal of the American
Oriental Society Schneller, Christian, 1870. Die romanischen
volksmundarten in Südtirol, noch ihrem zusammenhange mit den romanischen und
germanischen sprachen etymologisch and grammarikalisch dargestellt. Vol. 1.
Gera: Amthor. Schrifver, Peter. The Reflexes of the Proto-indo-Eurapean
Laryngenis in Latin. Amsterdam: Rodopi. , Studies in British Celtic Historical Phonology.
Amsterdam: Rodapi , Studies in the History of Ceitic Pronouns and
Partides. Maynooth: Department of Old Trish, National Uni-versity of ireland. , The Chateaubleau tile as a link between Latin
and French and between Gaulish and Brittonic" Études cel. tiques Athematic
1-presents: The Italic and Celtic evidence" Incantri lingwistici Revien of
Meiser Kratylos Schröder, Eingführung in das Studium des Rumanischen:
Sprachwissenschaft und Literaturgeschichte. Berlin: Schmidt.
Schrodt, Richard, 1976. Die germanische Laudverschiebung und ihre Stellung im
Kreise der indogermanischen Sprachen. 2nd ed. Vienna:
Halosar. Althochdeutsche Grammatik: Syntax. Tübingen: Niemeyer.
Schuhmann, Roland, Zur deminutiven Funktion des "-lo-Suffixes in
Substantiva." In Tichy. Wodtko and Irslinger Schultz-Gora, Oskar.
Alprovenzalisches Elementarbuch 4th ed. Heidelberg: Winter. Schulze,
Wilhelm. 1887. "Etymologische Miszellen." Zeitschrift für
verglekchende Sprachforschung Schumacher, Stefan. Sprachliche Gemeinsamkeiten
zwischen Rätisch und Etruskisch." Der Schlern Die keltischen Primärverben.
Innsbruck: Institut für Sprachen und Literaturen der Universität Innsbruck. Die rütischen Inschriften: Geschichte unsd
heufiger Stand der Forschung. 2nd ed. Innsbruck: Institut für Sprachen und Literaturen
der Universität Innsbruck Schwyzer, Griechische Grammatik, Vol. 1, Lautlehre,
Wortbildung, Flexion. Munich: Beck. Schneyzer, Eduard, and Albert
Debrunner. Griechische Grammatik, Syntax und syntaktische Stylistik. Munich:
Beck, Scida, Emily. 2004. The Inflected Infimitive in Romance Langages.
New York: Routledge. Seebold, Elmar. Ae, fwegen und ahd, zwine
zwei." Anglia, Vergleichendes und etymologisches Wörterbuch der
germanischen starken Verben. The Haguc: Mouton. Seidi, Christian, Le
système acasuel des protoromans ibérique et sarde: Dogmes et faits" Vac
Romanior Die finanziellen Schwierigkeiten eines Getreidebändlers und der
Profit, den die Linguistik daraus zichen kann." In Aspects of Latin, ed.
Hanna Rosén, Innsbruck: Institur für Sprachwissenschaft der Universität
Innsbruck, "Les variétés du latin." In Erst et
al. Seldeslachts, Herman, Etudes de morphologie historique de verbe Intin et
indo-européen. Louvzin: Pecters. Sen, Ranjan. Vowel-weakening before muta
cum liquidi sequences in Latin" Oxfond University Working Papers in
Linguistics, Platiology anul Prometics Senn, Handbuch der Iitauischen Sprache. Heidelberg:
Winter. SENSI (vedasi) Treblae 144 in Inscriptiones latinae liberne
repuélicae" In Epigrafia: Actes du callaque international dépigraphie
latine en mémoire de Attilio Degrassi pour le contenaire de sa maissance, ed.
Silvio Panciera, Rome: Ecole française de Rome, Université de Roma-La Sapienza.
(A supplement to ILLRP.) Serbat, Les dérivés nominaux latins à suffixe
mediatif. Paris: Belles Lettres. -, Le 'futur antérieur' chez les
granumairiens latins" In Collart, Erat Pipa quoedam..." Revue des
études Intimes Que signifient les marques pronominales des indéfinis
latins?" Bulletin de la Société de linguishique de Paris Linguistique
Jarine et linguistique générale: Fuit conférences faites à la Fuculté de
philosophie et lertres de 'Université catholique de Louvain. Louvain-la-Neuve:
Peeters, Les structures du latin avec un choix de fextes
traduits et annotés de Plante aux "Serments de Strasbourg". 41h ed.
Paris: Picard. Serbat, Gury, eGraneaire fondamentale du latin, Lourain:
Pecters. Shapiro, On the origin of the term Indu-Germanic."
Historiographica Lingmistica, Shintani, On Winter's Law in Balto-Slavic
Arbeidspapirer udsendt af Institut for Lingvistik, Kabenhavns Universitet
Sühler, New Comparative Grammar of Greek and Latin. Oxford, The myth of the
direct reflexes of the PlE palatal series in Kati" In Studies in Honor of
Joan Puhve. Ancient Languages and Philology, ed. Dorothy Disterheft, Martin
Huld, and John Greppin, Washington, DC: Institute for the Study of Man. Langnage Histury: Art Introduction. Amsterdam:
Benjamins. Edgertons Law: Tse Phantom Evidence.
Heidelberg: Winter. Simon, 2solt, Lat, riger, nigra, nigrum und das
indogermanische Suffix-ró-: Acta Antiqua Hungarica 43431-Skutsch, VII.
iaientare, lainnus" Archiv für lateinische Lexikographie Skutsch,
"Nocts." Glotte The Annals of Q. Ennius. Oxford: Clarendon. Smith,,
A. R. Bradlow, and T. Bent. Production and perception of temporal contrast in
foreign accented English. In Proceadings of the XVih infernational Congress of
Phanetic Sciences, ed. M. J. Sole, D. Recasens, and ]. Romero, Barcelona:
Universitat Autonomá de Barcelona. Smith, Gérard, Réflexions sur le
sulionctif latin archaique et préclassique. Dreux: Dreux. Smith, Martin
S, Petronii Arbitri Cena Trimalchionis. Oxford: Clarendon. Smoczynski,
Wojciech. Lexikon der alpreussachen Verbes. Innsbruck: Institut für Sprachen
und Literaturen der Universität Innsbruck. Solin, Heikki, Marti
Leiwo, and Hilla Halla-aho, Latin vulguire, intin tindif Vl: Actes die Vie
Colloque lnter national sur le latin vulgaire et hardif, Helsinki,
Hildesheim: Olms. Solinas, 11 celtico in Italia." Studi etruschi
Salmsen, Felix. 1894. Studien zur lateinischen Lautgeschichte. Strassburg:
Trübner Somerville, Tbe orthography of the new Gallus and the spelling
rules of Lucilius." Zeitschrif für Papyriogie und Epigrapiui: Sommer.
Ferdinand. Lucilius als Grammatiker" Hermes Handbuch der lateinischen
Lawd-und Formeniehne Eine Einfihrung in das sprachwissenschaffliche Studiam des
Lateins. 2nd and 3rd ed. Heidelberg: Winter. , Kritische Erläuterungen zur lateinischen Land- und
Formenlehre: Heidelberg: Winter. ,
Affinitas acquivaca" In Schriften aus dem Nachlass, ed. Bernhard Forssman,
Munich: Kitzinger. Sommer, Ferdinand, and R. Pfister 1977. Handbuch der
lateinischen Laut- und Formenlehre. Vol. 1, Einleitung und Lautlehre. 4th
ed. rev. by R. Pfister. Heldelberg: Winter. Sonderegger, Stefan,
Althochdeutsche Sprache und Literatur: Eine Einführung in das alteste Deutsch. Darstellung
and Grammarik: 3rd ed. Berlin: de Gruyter. Soubiran Lélision dans la
poésie letine. Paris: Klincksieck. Essai sur la versification dramatique
des romains: Séncire tambique et septénaire trochaigue. Paris: Centre national
de la recherche scientifique. Prosodie et métrique du Miles glariosus de
Plaute: Introduction et commentaire. Louvain: Peeters. Southern,
Sub-grammatical Survival: Indo-European S-moolle and its Regeneration in
Germanie Washington, DC: Institute for the Study of Man. Stang,
Christian. Vergleichende Grammatik der baltischen Sprachen. Oslo: Universitetsforlaget.
Starke, Die kellschrift luwischen Texte in Umschrift. Wiesbaden:
Harrassowitz -, Untersuchtungen zur Stammbildung des keilschrif-luwischen
Nomens. Wieshaden: Harrassowitz. Stassen, Leon. Comparison and Universal
Gramonar. Oxford: Blackwell. Stefanelli, Rossana Focile an dificudt"
in Studi linguistici offerti a Gabriella Giacomelli dagil amici e dagli alievi,
(ed. Amalia Catagnoti et al j. 393-403, Padua: Unipress Stefenelli,
Arnalf. Die Volkssprache im Werk des Petron im Hinblick auf die romanischen
Sprachen. Vienna: Brau. miller. Steinbaner, Dieter: Newes Hundinach
des Etruskischen. St. Katharinen: Scripta Mercaturac. Steller, Walter,
Abriss der aitfriesischen Grammatik, mit Benücksichtigung der westgermanischen
Dialecte des Aitenglischen, Altsüchsischen und Aithockdeutschen, mit
Lesestücken und Wortverzeichnis, Halle: Niemeyer. Stephens, Laurence D.
Universals of consonant dusters and Latin gr-" Indogermanische Farschungen
Latin gr-: Further considerations." Indogermanische Forschungen The role
of palatalization in the Latin sound change // > /ß/" Transactions of
the American Pliological Association The Latin canstruction fore/futurum (esse)
ur : Syntactic, semantic, pragmatic, and dischronic consider- ations." The
American Journal of Philology Stifter, David. 2006. Sengoideic: Old Erish for
Hegiuners. Syracuse, NY: Syracuse University Press. Stok (vedasi) Appendix
Probi TV. Naples: Arte. Stolz, F.. A. Debrunner, and W. P. Schmid.
Geschichte der lateinischen Sprache, 4th ed. Berlin de Gruyter. 'There is an
Italian translation, Storia delia lingua latina by Cario Benedikter, with
Introduction and notes by A. Traina and an appendix that is a transiation of a
Russian essay by J. M. Tronskij on the formation of the literary language
(Bologna: Patron). This work was updated by E. Vineis Streitberg. Urgermanische
Grammatik. Hesdelberg: Winter. Die gotische Fibel. 7th ed. Heidelberg:
Winter. Strodach, George K. 1933, Latin Diminutives in -elio/a- and -
ilio/a: A Study in Diminutive Formation. Philadelphia: Linguistic Society
of America. Strunk, Klaus. Ober Gerundivum und Gerundium II"
Gymnasium Probleme der lafeinischen Granmuatik. Darmstadt: Wissenschaftliche
Buchgesellschaft. Zum Verhältnis von Wort und Satz in der Syntax
des Lateinischen und Griechischen." Gymnastum Lateinisches
Gerandium/Gerundivum und Vergleichbares* In Jasanoff et al. Stuart-Smith, Jane.
Phonetics and Philology: Sound Change in Italic. Oxford: Oford University
Press. Stüber, Karin. Die primären s-Stämme des indogermanischen.
Wiesbaden: Reichert. Sturtevant, Tenuis and Modia" Transactions of
the American Philological Association THE PRONUNCIATION OF LATIN, Philadelphia:
Linguistic Society of America Suirez Martinez, Le -u chez les neutres de la
4ème déclinaison Iatine" In Aspects of Latin, ed. Hannah Rosén, 91-8.
Innsbruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck,
Szemerényi, The development of the Indo-Furopean Mediae Aspiratae in Latin and
Etalic." Archivum Lingwistican Latin hibernus and Grock youtpivoç
The formation of tine adjectives in the Classical languages" Glotta
Istroduction do Indo-Furopean Lingwistics. Oxfocd: Clarendon. Sanaider,
Lyliane. Les adjectifs en -idus, -a, -um. In Kircher Durand TAGLIAVINI (vedasi)
Einfüloung in die romanische Philologie. Tübingen: Francke. Transinted by
Reinhard Meister-feld and Uwe Peterben from Le origini delle lingue neolatine (Bologna:
Patron). The portraits of the great Romance scholars, however, can only be seen
in the Italian edition. Tekavtié, Sulla forma verbale vegliota
"fera' e sull' origine del futuro veglioto." Incontri linguistici
Thieme, Paul. 1982. "Mening and form of the 'Grammar' of Papini."
Studien zur Indologie sond Iranistik 8-9:1-34. Reprinted and expanded in
Kleine Schriften, ed. Renate Sähnen-Thierne, Stuttgart: Steiner, Thilo, G, and
H. Hagen, Servii Grammatici qui ferunter in Vergilli carmina commentarii,
Leipeig Teubner Thonsas, François. 1938. Recherches sur ie subjonchif
lutin: Histoire et valeur des fornes. Paris: Klincksieck. Thomason, Sarah
Grey, and Terrence Kaufman, 1988. Language Confact, Creolization, and Generic
Lingidstics. Berkeley: University of California Press. Thorhallsdóttir,
Gadrún. 1993. The Development of Eitervocalic *j in Prato-Germanic.
Cornell. Thumb, Albert, and Richard Hauschikl. 1958. Handbuch des
Sanskrit. 3rd ed. Heidelberg: Winter. Thurneysen, A Grammar of Oid irish.
Revised edition with supplement by D.A. Binchy and O. Hergin. Dublin:
Dublin Institute for Advanced Studies. Tichy, Die Nomina auf-tar- in
Vedischen. Heidelberg: Winter. A Survey of Proto-into-Exropenn. Trans.
Cathey. Bremen: Hempen. Tichy, Eva, Dagiar 5, Wodtko, and Beitta
Erslinger, eds. Indogermanisches Namen: Derivation, Flexion und Atlaut.
Bremen: Hempen. Timpanaro, Sebastiano, 1965. "Mute cum liquida in
poesia latina e net latino volgare" in Studi in anore di SCHRIAFFANI
(vedasi), Rome: Ateneo. Tingdal, G. C. Andelser -is i ackus, plur. Aos de
efteraugustelska författurne. Göteborg: Hermann. Tischler, Hethätisches
etymologisches Glossur. Innsbruck: Institut für Sprachissenschaft, Innsbruck.
Hethitisches Handwürterbuch mit dem Wortschatz der Nachbarsprachen. 2nd ed.
Innsbruck: Institut für Sprachen und Literaturen der Universität
Innsbruck. Tjäder, Jan-Olof, Die nichtitterarischen lateinischen Papyri
Italiens aus der Zeit Lund: Gleerup. Toporov-, Priski) jazyk. Moscow:
Nauka. Touratier, Christian, 1994. Syntaxe latine, Louvain-la-Neuve:
Peeters. Trask; A Dictionary of Phonetics and Phonology. London:
Routledge. The History of Basque. London: Routiedge. Where do marna/papa words come from?"
University of Sussex Working Papers in Linguistics and English Language
sussex.ac.uk/linguistics/1-4-1.htmal. Trantngann, Reinhold, Die altpreussischen
Sprachdenkmüler, Einleitung, Texte, Grammatik, Wärterbuch Göttingen:
Vandenhoeck et Buprecht. - Bafrisch-slavisches Würterßuch. Göttingen:
Vandenhoeck et Ruprecht. Tremblay, Gramotaire comparée et grammaire bistorique:
Quelle réalité est reconstruite par la grammaire comparder" In Áryas,
aryens et iraniens en asle centrale, ed. Gérard Fusaman et al., Paris: Callège
de France. Trubachev, O. N. Erimologicheskij slovar slavjanskix jazykav. Moscow:
Naulta Taur, Reaven. Onomatopoeia: Cuckoo-language and tick-tocking. The
constraints of semiotic systems.
trismegistos.com/IconicityInI.anguage/Articles/Tsur/ Turner, The position
of Romani in Indo-Aryan." Journal of tie Gypsy Lore Society Tuttle, Alpine
systems of Romance sibilants" In Ractia Antiqua et Moderna: Ehvert
zurs 80. Geburtstag. ed. Günter Hoitus and Kurt Ringger, Tübingen:
Niemeyer. Uhlich, Jürgen, On the linguistic classification of Lepantic"
In The Celtic World: Critical Concepts in Historical Studies, ed. Raimund
Karl and David Stifter, London: Routledge. Untermann, Jürgen. Zur
semantischen Organisation des lateinischen Wortschatzes. Gymnasium Wurzelnomina
im Lateinischen." In Panagi and Krisch Wörterbuch des Oskisch-Uinbrischen.
Heidelberg: Winter. Quolus und
Valesiasio. Zam pronominalen Genitiv im Lateinischen." In Linguistica è
storia: Stritti in omore di Cario De Simone. Sprachwissenschaft ist Geschichte:
Festschrift fir Cario De Simone, ed. Simona Marchesini and Paolo Poccetti. Pisa:
Giardini. Vainänen, V, Intraduction au LATIN VULGAIRE, Paris: Klincksieck. The
Italian translation by A. LIMENTANI (vedasi), Introduzione al LATINO VOLGARE, Bologna:
Patron, has many additions and correctivas. Vaillant, Grammaire comparée
des langues slaves. Lyon: IAC. Vairel, The position of the vocative in THE
LATIN CASE SYSTEM. American Journal of Philology, Les énoncés prohibitifs au
subjonctif, ne facias, ne feceris et ne faxis." Revue de philologie van
der Meer, L. Bouke. Liber Linteus Zograbiensis = The Linen Book uf Zagreb: A
Comment on the Longest Etruscan Text. Louvain: Pecters. van Driem,
Languages of the Himalayas: An Ethnolinguistic Handbouk of the Greater Himalayan
Region Containing an Introduction to the Symbiotic Theory of Langwage.
Leiden: Brill. Van Valin, An introduction to Syntax. Cambridge: Cambridge
University Press. Vasmer, Russisches etymologisches Wörterbuch.
Heidelberg: Winter. The Russian translation by Q Trubachev, Erimologibeskij
slovar' russkogo jazyka (Moscow: Progress) has revisions and corrections.
Vendryes, Les correspondances de vocabulaire entre l'indo-iranien et
l'italo-celtique." Mémoires de la Société de linguistique de Paris
Sar quelques formations de mots latins. Les substantifs masculins en -a. Ii:
Quelques dérivés de thèmes en -u- (-tu-)" Mémoires de ln Société de
linguistique de Paris. Vendryes, Lexique étymologique de l'imandais
ancien. Dublin: Dublin Institute for Advanced Studies. Ventris, Michack,
and John Chadwick, Documents in Mycentean Greek. 2nd ed. by John Chadwick.
Cambridge: Cambridge University Press. Verner. "Eine Ausnahme
der ersten Lautverschiebung" Zeirschriß für vergleichende Sprachforshung
2Vernesi, C., et al. The Etruscans: À population genetic stady." American
Journal of Human Genetics Vernet i Ports, Mariona. La segona conjugació verbal
latina: Estudi etimologic I comparatis sobre lorigen protoindoeuropeu de la
formació dels seus temes verbals. Barcelona: Institut d'Estudis Montjaic.
Viljama, Toivo, The Infinitive of Narration in LIVIO (vedasi). A Study is
Narrative Technique. Turku: Turan yliopista. Villar, The Latin diphthongs
"-al, *-al in final syllables." Indogermanische Forschungen A New
Interpretation of Celiberian Grammar. Innsbruck: Institut für
Sprachwissenschaft der Universita Innsbruck. Vincent, The evolution of
C.structure: Prepositions and PPs from Indo-European to Homance" Linguistics
Vine, Brent. Studies int Archic Latin Inscriptions. Innsbruck: Institut für
Sprachwissenschaft der Universität Ennsbruck Remarks on the Archaic
Latin 'Garigliano Bowl inscription"" Zeitschrif für Papyrologie und
Epigraphik A note on the Ducsas inscription." In UCIA 2udo-European
Stadies, Ivanov and Brent Vine, Los Angeles: UCLA Program in Indo-European
Studies. Latin "opid and optare." In Poetika, istorija,
literatury, lingvistiba: Sbornik k 70-letiju Vjaceslava Vsevoiodovida Eranova,
ed. A. A. Vigasin et al.. Moscaw: OGL. Alt épatam, Ion. eipwtái ask." Glotta
Greek opri, English spoon: A note on "Ehner's Law." Mänchener Studien
zur Sprachwissenschaft South Picene imih." American Philalogical Associa-
tion, Montreal, Quebec, Canada, An alleged case of inflectional contamination: on
the f-stem inflection of Latin CIVIS" Incontri linguistiel On
'Thurneysen-Lavet's Law' in Latin and Italic." Historische Sprachforschung
On the etymology of Latin tranquillus 'calm." International Journal of
Diachronic Linguistics and Linguistic Reconstruction Viparelli, Tra prosodia e
metrica: Sw alni problemi del Carmen de figuris. Naples: Loffredo von Bradke,
Beiträge zur Kenrinis der vorhistorischen Entwicklung unseres Sprachshammes.
Glessen: Münchew. Voretzsch, Einfihrung in das Stadium der alfranzüsischen
Sprache zum Seltstunterricht für den Anglinger. 8th ed. Tübingen:
Niemeyer. Wachter, Arlateinische Inschrifter: Sprachliche und
epigraphische Untersuchungen zu den Dokumenten bis elwa 150 v Chr. Bern:
Lang. Wackernagel, Jacob. Über ein Gesetz der indogermanischen
Wortstellung" Indogermanische Forschungen Genetiv und Adjcktiv"
In Melonges de lingwistique offerts à M. Ferdinand de Soussure, Paris:
Cham-pion. 1926. "Conubium" In Festschrift für
Pawl Kretschmer: Beiträge zur griechischen und lateinischen Sprachfarschung.
289-306. Vienna: Verlag für Jagend und Volk. Vorlesungen über Syntax, mit
besonderer Berücksichtigung von Griechisch, Lateinisch und Deutsch. 2 vols.
Basel: Birkhäuser. [Edited and translated into English with commentary and
bibliography by Lang-slow as Lectures on Syntax, with Special Reference to
Latin, Oxford. Wackernagel, facob, and Albert Debrunner. Altindische
Gramonatik. Göttingen: Vandenhoeck et Ruprecht. Wagner, Max Leopold.
Flessione nominale e verbale del sardo antico e moderno." L'italia
dialettale La lingua sarda: Storia, spirito e forma. Bern:
Francke. Historische Wortbilegslehre des Sardischen. Bern: Francke. Dizionario etimologico sardo. Heidelberg:
Winter. Fonetica starica del sardo. Cagliari: Trois.
Italian translation of Historische Laudichre des Sardischen (Halle: Niemeyer),
with introduction and appendix by Giulio Paulis. La lingua sarda: Storia spirito e forma. New ed. with
introduction by Giulio Paulis. Nuoro: ilisso. Waldc, Alois, and Hofmann.
Lateinisches etymologisches Wirterbuch. Heidelberg: Winter. Wallace, Rex.
The deletion of s in Plautus." American Journal of Philology Perfect
subjunctive and future perfect paradigms." Ciassical Journal The origins and development of the Latin
alphabet." In The Origins of Writing, ed. Wayne M. Senner, Lincoln, NE:
University of Nebraska Press. ,
ed. Res Gestae Divi Augusti OTTAVIANO (vedasi). Wauconda: Bolchazy-Carducci. Venetic" In Woodard, The Sabellic
Langnages of Ancient Italy. Munich: LINCOM Europa. Zikh Rasma: A Manal of the Etruscan Language and
Inscriptions. Ann Arbor: Beech Stave. Ward, Stop plus liquid and the position
of the Latin accent." Language Wartburg, Walther von. Französisches
etymologisches Wärterbuck: Eine Darstellung des galloromanischen
Sprachschatzes. 2nd ed. Bonn: Kiopp. Watkins,"Talo-Celtic
revisited" In Ancient Indo Europcan Dialects: Proceedings, ed. Henrik
Birabaum and Jaan Puhvel, Berkeley: University of California Press
Latin sons," In Studies in Historical Lingwistics in Honor of George
Sherman Lane, ed. Walter W. Arndt et al., Chapel Hill: University of Noeth
Carolina Press. Geschichte der indogermanischen Verbalflexion.
Indegermanische Grammatik, od. Jerxy Kurytowicz. Heidelberg: Winter. A further remark on Lachmann's Law.' Harvard
Studies in Classical Philelogy Etyma Enniana." Harvard Studies in
Classical Philology "Latin ioviste et le vocabulaire religieux
indo-curopéen." In Melanges linguistiques offerts d Emile Beriveniste, ed.
M. Dj. Moinfar, Louvain: Pecters. ,
The etymology of Old Trish dúan." Celtica Towards Proto-Indo-Buropean
syntax; Problems and pseudo-problems" In Papers from the Parasession on
Diachronic Syntax, od. Sanford B. Steever, Carol A. Walker, and Salkoko S.
Mufvene, Chicago: Chicago Linguistic Society. Syntax and metrics in the Dipylon vase
inscription." In Shalies in Greek, Italic, and Indo-Eurapean Linguistics
Offered to Leunard R. Palmer on the Occasion of His 70th Birthday, ed. A.
Morpurgo Davies and W. Meid, Innsbruck: Institut für Sprachwissenschaft der
Universität Innsbruck. Proto-Indo-European: Comparison and
reconstruction." In Ramat and Ramat, ed. The American Heritage Dictionary of indo-Eurapean Roots. 2nd ed.
Boston: Houghton Mifilin. Watmough, Margaret M. T. 1997. Studies in the
Etruscan Loanwards in Latin. Florenoe: Olschki. Welss, Michael, Studies
in Italic Nominal Morphology. Cornell. Life everlasting: Latin iagis 'everflowing' Greck dyis
'healthy, Gothic ajukdaps 'eternity' and Avestan yusuaef- living forever."
Minchener Studien zur Sprachwissenschaft S5:Review of Sihler American Journal
of Pitifology On some problems of final syllables in South Picene." In
Jasanoff et al. Review of Woodard American Journal of Philology Latin arbis and
its cognates." Historische Spractfurschung Cui bono? The beneficiary
phrases of the Third Iguvine Table." In Nussbaum Language and Ritual in
Sabellic Italy: The Ritual Complex of the Whard and Fourth Aguvine Tables.
Leiden: Brill. White, English Sperch Timing: A Domain and Locus Approach.
University of
Edinburgh. cstred.ac.uk/projects/eustace.dissertation.html. Waitney,
William Dwight. A Sanskrit Grammar, Incinding Boch the Classical Language, and
the Older Dialects, of Vedin and Brahmana. 2nd ed. Leipzig: Breitkopf et Härtel.
Widmer, Paul. Nartennumen. M.A. thesis (Lizenziatarbeit), Universitär
Bern. Williams, Edwin Bucher. From Latin to Portuguese. 2nd ed.
Philadelphia: University of Pennsylvania Press. Willmott, The Moods of
Homtric Greek Cambridge. Winter, Ibe distribution of short and long
vowels in stems of the type Lith. Esti; wisti ; mèsti and OCS jasti: westi :
mesti, in Baltic and Slavic languages" In Fisiak Reconstructional
comparative linguistics and the reconstruction of the syntax of undocumented
stages in the development of languages and language families" la
Historical Syntax, ed. Jacek Fisiak, Beriln: Mouton. Wodtko, Dagmar.
Wörterbuch der keitiberischen Inschrißen. Vol. 1 of Monumeute linguarum
hispanicarum, ed. Jürgen Untermann. Wiesbaden: Reichert. Woodard,
Greck Writing from Knosses tu Homer: A Linguistic Interpretation of the Origin
uf the Grad Alphabet and the Continuity of Anciert Greek
Literacy. New York: Oxford The Cambridge Encyclopedia of the Worlds Ancient
Languages, Cambridge: Cambridge University Press. Wright, A Sociophilologicai
Study of Late Latin. Turnhou (Belgium): Brepols. Latin vulgaire, latin tardif
VII: Actes du Ville Colloge international sur le latin vulgaire et tandic
Hildesheim: Olms Wylin, Il verbo etrusco: Ricerce morfosintadtica delle
forme usate in funzione verbale. Rome: Bretschneider. Esiste una seconda
lamina A di Pyrgit" Parola del Passato Zair, Dybos Law: Evidence from Old
Irish" Oxford University Working Papers in Linguistics, Pinilology,
and Phoneties Zamboni, Alberto, 2002. "Secale: Etimo latino e
diffusione romanza." In Ex traditione inovatio: Miscellanea in honoren Max
Pfister septuegenarii oblata, ed. Glinter Holtus and Johannes Kraner,
Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft. Zamboni, Dizionario
elimologico storico friulano, Udine: Casamassima. Zamora Vicente, Alonso.
1967. Dialectologia española 2nd ed. Madrid: Gredos. Zellmer, E. 1976.
Die lateinischen Wörter auf-ura 2nd ed. Frankfurt am Main: Ziegler, Die Sprache
der altirischen Ogom-Erschrifen. Göttingen: Vandenhoeck et Ruprecht Zimmer,
Stefan. 2000. Studies in Weish Word-formation. Dublin: School for Celtic
Studies, Dublin Institute for Advanced Studies Zimmermann, La fin de
Faleris Veteres: Un témoignage archéologique." J. P. Getty Museum Journal
Zinkevizius, Zigmas, 1996. The History of the Lithunian Langwoge. Vilnius:
Mokalo ir enciklopediju leidykia. Zucchelli, B. 1969. Stradi sufle
formazioni latine in lo-non diminutive e sui laro rapporti con i diminutivi.
Parma: Unlversità degli studi, Istituto di lingua e letteratura Latina. DELIA
RETORICA LIBRI QUATTRO DI T.
GIOII AD ERENNIO VOLGARIZZATI
da GALLONI NAPOLI TIPOGRAFIA
ITALIANA Liceo V. E. al Mere (e Ilo LA RETORICA
Avvegnaché, impedito d agli affari domestici, a fatica io possa dar tempo bastante allo
stadio, o questo medesimo tempo, che mi
è concesso, più volentieri io soglia
nella filosofia impiegare, nondimeno la tua volontà, o Gaio Erennio, mi ha
mosso a scrivere dell’ arte del dire, acciocché tu non islimassi o non aver io per amor tuo voluto o
sì veramente avere la fatica fuggito. E
tanto più studiosamente quest’opera ho presa, in quanto che sapeva che non senza un motivo volevi imparar
la Rettorica. Imperciocché non picciol
frutto ha in sè l’abbondanza del dire
congiunta alla facilità dell’orazione, se governata venga da una diritta
intelligenza, e da una ragionevole moderazione di animo. Laonde io ho lasciate
da parte quelle cose, che per una specie
di ostentazione gli scrittori Greci nei
loro libri raccolsero. Li quali per non parere
di saper poco andarono in cerca di cose al tutto LA RLTTORICA (estranee,
a cagione che l’arte si giudicasse cosa
difficile ad apprendersi: ed io per lo contrario non ho tolto che quelle, che mi parevano
dirittamente appartenere al suggello.
Imperciocché io, non già per la speranza
del guadagno o da una vana ambizione stimolato, mi sono posto a scrivere,
siccome fanno molli , ma sì solamente per appagare , com’ io poteva, i tuoi dcsiderii. Ora, per
non proceder tropp’ oltre con vane parole, comincerò a trattar l’argomento, avvisandoli in prima che
l’arte senza l’assiduilà del dire non
giova gran fatto; talché devi intendere che questa ragione del precetto vuol essere acconciala nell’esercizio. II. Il dovere dell’oratore si è di poter
parlare di quelle cose, che all’ uso
civile sono regolate dalle costumanze e
dalle leggi, conciliandosi, per quanto
ei può, l’approvazione di chi lo ascolta.
Tre sono i generi delle cause, che l’ oratore deve prendere: il dimostrativo, il deliberativo,
il giudiziale. 11 dimostrativo è quello, che si propone o la lode o il biasimo di alcuna determinata
persona. Il deliberativo è quello che, proprio alla consultazione, ha perfine o
il persuadere o il dissuadere. Il giudiziale è quello che, proprio alla
controversia, comprende in sé accusa o dimandagione con difesa. Dirò ora le condizioni, che aver
deve un oratore: poscia dimostrerò come
debbono essere trattali questi tre generi di cause. È neccssa Digitized by Google rio adunque die un oratore abbia
invenzione, disposizione, elocuzione, memoria, e pronunciazionc. L’invenzione è
un pensamenlo di cose vere o verisimili,
che valgano a far degna di approvazione la causa. La disposizione è un ordine c
una distribuzione delle cose, la quale
c’insegna dove debbasi collocare
ciascuna di esse cose. L’elocuzione è alle cose trovate un adattamento di
parole e sentenze idonee. La memoria è
un fermo comprendimento dell’animo delle cose o delle parole, c della disposizione loro. La pronunciazione
è un moderamento della voce del volto e
del gesto con • venustà. Tre cose
ciconduconoall'acquisto di tutte queste
doli; l’arte, l’imitazione, el’esercizio. L’arte è un insegnamento, che ci somministra una via
determinata c la maniera del dire. L’imitazione è quella, per la quale noi
siamo spinti con sollecita cura a voler
rassomigliare ad alcuno nel dire. L’esercizio è un assiduo uso, ed una
consuetudine del dire. III. Poiché
adunque abbiamo dimostralo quali cause
dee prendere l’oratore, e di quali doti essere
fornito, diremo ora come si possano queste proprietà dell’oratore
applicare alla composizione di un
discorso. L’invenzione compiesi tutta in sei
parti del discorso, cioè in esordio, narrazione, divisione,
confermazione, confutazione c confusione. L’ esordio è principio di orazione,
pel quale l’animo dell’ uditore si
dispone all’ attenzione. La (i LA
UETTOIUCA narrazione è l’esposizione di
cose avvenute, o che si danno come
avvenute. Ln divisione è quella, per cui
poniamo in chiaro ciò, che si ha per consentito, o che si adduce in
controversia; e per cui esponiamo le
cose di cui dobbiamo tratiare. La
confermazione è una esposizione dei nostri argomenti con affermazione.
La confutazione è un solvimenlo degli argomenti conlrarii. La conclusione è un artificioso termine del discorso. Ora,
poiché ad una colle doti proprie dell’
oratore, siamo ^ nuli, onde la cosa
fosse più facile a comprendersi, a far parola delle parti del discorso,
attribuendole all’ invenzione, sarà conveniente di parlare innanzi dell’
esordio. Posta la causa, affinché l’esordio sia più acconcio al soggetto,
bisogna esaminare qual è il genere della causa. Quadro sono i generi delle cause, l'onesto, il turpe, il
dubbio, e l’umile. La causa è detta del
genere onesto, quando noi difendiamo
ciò, che sembra meritevole di essere difeso da tulli, od oppugnamo ciò, che sembra meritevole di essere oppugnato
da tutti, come se parliamo in favore
d’un uomo prode o contro un parricida.
Si chiama genere turpe, quando si
oppugna cosa onesta, o si difende quella,
che è disonesta. Dubbio genere è, quando la causa è in parte onesta e in parte disonesta. Umil
genere è, quando si mette innanzi cosa comunemente dispregiata. Stando le cose in questi
termini, converrà adattare la qualità
degli esordii al genere della causa. Due
sorti di esordii vi sono: l’esordio diretto, che i Greci chiamano proemio, c l’
esordio per insinuazione, detto da loro
efodo. L’ esordio diretto è quello, pel
quale senza più ci possiamo rendere 1*
animo dell’ uditore disposto ad udirci.
Esso si tratta in guisa da far per l’appunto attenti, docili, e benevoli gli uditori. Se noi avremo
il genere della causa dubbio, cominceremo dal dimandare benevolenza, onde non
ci riesca di danno quella parte, ch’ei conterrà, di bruttezza. Se il
genere della causa sarà umile,
ecciteremo l'attenzione. Ma se il genere
della causa sarà turpe, allora useremo
l’esordio per insiimazione (del quale parleremo più sotto), a meuo che non ci fosse avvenuto di
trovar cosa, per la quale, accusando
l’avversario, potessimo ottener benevolenza. Se poi il genere della causa sarà onesto, noi potremo a nostra volontà usare o non usare I’ esordio diretto. Se
vorremo usarlo, o ci bisognerà mostrare
ciò, che fa onesta la causa, od esporre
brevemente il soggetto, che prendiamo a
trattare. Se non vorremo usarlo , ci
bisognerà incominciare citando una legge, un testo, o qualche altra
cosa, che sia di fermo appoggio alla nostra causa. E poiché noi vogliamo
avere l’uditore docile, benevolo, ed
attento, farò aperto in che modo si
possa ciascuna di queste tre cose ottenere. Noi potremo aver docili gli
uditori, se esporremo brevemente il
punto principale della causa, ed
ecciteremo la loro attenzione; perocché
è docile colui, che è disposto ad ascoltare attentamente. Li avremo
attenti, se noi prometteremo di aver a
dire cose importanti, nuove, straordinarie, o cose, che riguardino lo stato, o
coloro stessi, che ci ascoltano, o il culto degli Dei immortali; e se pregheremo che ci ascoltino
attentamente; e se esporremo con ordine
le cose, che noi prendiamo a trattare.
V. Benevoli ci possiamo rendere gli uditori per quattro modi: parlando di noi medesimi, degli
avversari^ degli uditori, e del soggetto stesso. Noi riporteremo benevolenza parlando di noi medesimi,
se loderemo senz’arroganza l’uffìzio nostro, o
ricorderemo ciò, che facemmo a prò della repubblica, o dei parenti, o
degli amici, o di quelli stessi, che ci ascoltano; purché tutte queste cose
si convengano al soggetto, di cui si
tratta. E parimente se andremo discorrendo le miserie nostre, siccome povertà, carcerazione, avversità; c
se pregheremo che ci diano aiuto, e dimostreremo nello stesso tempo che non abbiamo voluto collocare
in estranei la nostra speranza. Noi
accatteremo benevolenza parlando degli avversari, se li addurremo nell’odio, nell’invidia, nel dispregio. Li
addurremo nell’ odio, se manifesteremo
di essi alcun fatto o 4 turpe o orgoglioso, o perfido o crudele, o
arrogante, o malizioso, o iniquo. Li trarremo nell’ invidia, se porremo innanzi
la loro forza, la potenza, la fazione,
le ricchezze, l’ambizione, la nobiltà, le
clientele, l’ospilalilà, le amicizie, le parentele: o dimoslremo ch’eglino più confidanoin queste
cose che nella verità. Li avvolgeremo
nel dispregio, se metteremo innanzi la
loro inerzia, la dappocaggine, la pigrizia, la lussuria. Noi raccoglieremo
benevolenza parlando degli uditori, se recheremo in mezzo i giudizi nei quali essi diedero prova
di coraggio, di sapietqp, di clemenza, di magnanimità; e se faremo aperto quale slima si abbia di
essi, c quale sia l’aspettazione del
presente giudizio. Parlando poi del soggetto medesimo ci renderemo benevolo l’uditore, se innalzeremo la nostra
causa lodandola, e deprimeremo quella
degli avversari dispregiandola. :
ì-m VI. Parleremo ora dell’esordio per
insinuazione. Tre sono le occasioni, in
cui non possiamo usare l’ esordio
diretto, le quali sono diligentemente da
considerare; o quando abbiamo una causa disonesta, voglio dire, quando
il soggetto medesimo ci fa contrario l’
animo dell’ uditore; o quando 1' animo dell’ uditore pare essere stato persuaso
da chi innanzi parlò contra noi; o
quando esso è già stanco delle parole di chi arringò prima. Se dunque la causa è del genere turpe, potremo per
insinua 10 LA RETT0R1CA zione cominciare con queste ragioni: essere
d’uopo riguardar la cosa, non la persona
; o la persona, non la cosa; non
approvare neppur noi quelle azioni che gli avversari nostri affermano essere
stale fatte, e sì essere indegne e
nefande. Appresso, allorché avremo discorso a lungo della gravità del fatto, proveremo che nulla di simigliando è
stato da noi commesso; o metteremo
innauzi un giudizio pronunziato da altri
giudici intorno ad una causa simile, o
identica, o minore, o maggiore. Di poi a
poco a poco ci accosteremo al nostro soggetto, e verremo a confrontamenlo. Ottenerli pure lo
scopo, se dichiareremo di non voler dir nulla degli avversari o di alcun fatto toro, e nondimeno
copertamente ne parleremo lasciando sfuggir parole. Se 1’ uditore sarà stato persuaso, vale a
dire se il discorso degli avversari avrà
indotta la convinzione negli uditori (
il che non sarà diffìcile di conoscere, poiché ci sono noti i mezzi, con cui
possiamo indurre la convinzione ); se
noi, dico, giudicheremo indotta la convinzione, ecco quali saranno le diverse maniere ondeinsinuarci per entro alla
causa: prometteremo in prima di parlare di ciò, che l’avversario avrà messo innanzi come suo più
fermo sostegno; o cominceremo da uno de’suoi detti e soprattutto da uno degli ultimi; o useremo
la forma del dubbio, mostrandoci incerti
di ciò che dobbiamo dire o confutare in
prima con pieno nostro stupore. Se poi sarà di già stancala F attenzione dell’
uditore, noi cominceremo da qualche
cosa, che muover possa il riso, come sarebbe o da un apologo, o da una favola, o da un
contraffacimento, o da una storta interpretazione, o da una inversion di parole, o da un equivoco, o da
un indovinello, o da uno scherzo, o da una giulleria, o da una esagerazione, o da un acconciamento e
mutamento di lettere; e inoltre promovendo aspettazione, recando una
similitudine, una novità, un fallo
accaduto, un verso; o approfittandoci ad una
interpellazione, ad un sorriso di alcuno; o promettendo di lasciar da
parte molte cose, che avevamo in animo
di dire; e di non voler parlare in quella
forma, in cui sogliono gli altri, con esporre brevemente in questo caso
e il metodo altrui e il nostro. VII.
Ecco il divario, che passa tra F esordio per
insinuazione e F esordio diretto: l’esordio diretto deve esser tale, che subitamente, recali
innanzi gli argomenti già da noi detti,
ci rendiamo F uditore o benevolo, o
attento, o docile: ma l’esordio per
insinuazione deve esser tale, che copertamente per dissimulazione diveniamo al medesimo scopo
di ottenere l’esposto vantaggio
nell’esercizio del dire. Ma questi tre vantaggi benché si debbano aver di mira per tutto il corso dell’orazione,
voglio dire che gli uditori ci si
mostrino continuamente attenti, docili e benevoli; pure ciò debbesi soprattutto
cercar di conseguire a prò della causa per mezzo appunto dell’ esordio: Ora mostrerò quali
sono i difetti, che dobbiamo schivare
per non fare un esordio vizioso. Nel
cominciare il discorso conviene aver cura che il dire sia piano, e le parole
comunemente accettale nell' uso per non essere tacciati di affettazione. È un
esordio vizioso quello, che può
convenire a più cause; il quale esordio
chiamasi volgare. Parimente è vizioso quello, che si adatta così alla causa dell’ avversario
come alla nostra; il quale chiamasi
comune. È anco vizioso quello, onde l’
avversario può far uso contro di noi,
indottavi una leggiera mutazione. Medesimamente è vizioso quello, che è
composto di parole troppo studiate, o è
troppo lungo; e sì quello, che non par
nato naturalmente dal soggetto, di guisa
che si leghi senza stento alla narrazione ( il qual chiamasi esordio staccato, e in cui si
comprende anche l’esordio traslato); e
quello finalmente, che non rende nè
benevolo, nè docile, nè attento l’uditore.
Vili. Ma dell’ esordio basti il fin qui detto: passiamo ora alla
narrazione. Di narrazioni ci ha tre
generi. Il primo è quando esponiamo un fatto, e ne tiriamo ogni circostanza a nostro vantaggio
per ottenere vittoria; il qual genere appartiene appunto a quelle cause, che si espongono ad essere
giudicate. Il secondo genere di narrazione è quello, che alcuna volta
interviene nel mezzo della causa per motivo di prova, o di accusa, o di
transizione, o di ap-* pareccliiamento,
o di lode . Il terzo genere è quello,
che è bensì estraneo alla causa civile, ma nel quale conviene nulladimeno esercitarsi per poter
più acconciamente trattar nelle cause quei due generi di narrazione, che abbiamo detto di sopra. Di
colesta narrazione ci ha due specie, 1’
una che riguarda le cose, l’altra le persone. Quella specie, che riguarda le
cose, ha tre parli, la favola, la storia, la supposizione. La favola è quella,
che contiene cose, nè vere nè
vcrisimili; come quelle, che si hanno
nelle tragedie. La storia è un fatto accaduto, ma lontano dalla memoria del tempo nostro. La
supposizione è una cosa finta, ma che nondimeno potè accadere, come i fatti supposti delle
commedie. Quel genere di narrazione, che
riguarda le persone, deve contenere le grazie del dire, la diversità dei caratteri, la gravità, la leggerezza, le
speranze, i timori, i sospetti, i
desiderii, la dissimulazione, la pietà,
i variamenti delle cose, i mutamenti della
fortuna, gl’ inaspettati mali, losubite allegrezze, i lieti fini. Ma l’esercizio è maestro a
siffatto genere di narrazione. Discorriamo
ora solamente di quel genere che è
proprio di una causa vera. IX. È
necessario che la narrazione abbia tre qualità, che sia breve, chiara, e
verisimile: le quali condizioni, poiché
sappiamo essere indispensabili, vediamo come si possano conseguire. La
narrazio* ne sarà breve, se cominceremo là donde è necessario incominciare; e
se non risaliremo alle prime origini
delle cose; e se narreremo sommariamente
e non partilamente; e se non discenderemo sino alle ultime conseguenze, ma ci fermeremo là
dove basti ; e se non daremo luogo a
digressioni; e se . non devieremo dal
soggetto, che avremo preso; e se in
guisa esporremo gii esili delle cose, che indovinar si possa ciò che è stalo
fallo innanzi, benché noi lo tacciamo; come se, per esempio, dirò: « che io sono ritornalo dalla provincia »,
s’ intenderà ancora che io era andato nella provincia. E al lutto sarà meglio tacere non solo ciò che è
contrario alla causa, ma anche ciò che non è ad essa nè contrario nè favorevole. Ed è anco a guardare
di non ripetere due o tre volle la cosa
medesima; e di non ripigliare a capo di
ogni frase ciò che è stato dello in
finediognuna, come in questo esempio : « Simone arrivò la sera da Atene a
Megara; dappoi che fu arrivato a Megara,
lese insidie alla donzella; dappoi che
le ebbe tese insidie, lefe’ violenza nel luogo stesso ». La narrazione sarà
chiara, se noi esporremo prima ciò che è stalo fatto prima, e conserveremo l’ ordine delle cose e
dei tempi così come le cose saranno
state fatte, o come sarà verisimile che siano state falle. E qui sarà da vedere che noi evitiamo la confusione, gli
avviluppamenli, le ambiguità, i vocaboli nuovi, le digressioni estranee al
soggetto; clic non risalghiamo troppo ai principii; che non discendiamo troppo
alle ultime cose; che non ommelliamo nulla di
ciò che spetta al soggetto; e finalmente conseguiremo la chiarezza, se
osserveremo i precetti, che pure
riguardano la brevità; perciocché quanto più
la narrazione sarà breve, tanto più sarà chiara e facile ad intendersi. La narrazione sarà
verisimile, se noi diremo conformamente
al costume, all’opinione, alla natura; se ben converranno gli spazii de’ tempi, i caratteri delle persone, i motivi
delle deliberazioni, le opportunità de’
luoghi, affinchè non ci si possa opporre
o che il tempo non è stato bastevole, o
che non eravi alcun motivo, o che il
luogo non era conveniente, o che quelle cotali persone non potevano
essere o agenti o pazienti. Se il fatto,
che si narra, è vero, pur bisognerà, narrandolo, osservare tutte queste
condizioni; perchè, se non si osservino, la verità può sovente non essere creduta. Se poi il fatto è supposto,
tanto più bisognerà osservarle.
Finalmente converrà usare cautela
nell’oppugnare quei falli, che sapremo essere testificati o da uno scritto
degno di fede, o dall’autorità
rispettabile di taluno. Quanto alle cose, die ho fin qui dette, credo di
concordare con tutti gli altri scrittori
dell’arte; se non che ho detto alcun che
di nuovo intorno agli esordii PER INSIUNAZIONE, o perusare l’espressione di
Grice, IMPLICATURA –Holdcroft, Forms of indirect communication -- avendoli io
solo, fra tanti altri, distinti in tre
classi, affinchè una via al tutto certa avessimo, e una regola chiara in tal
genere di esordii. X. Ora, poiché mi
rimane a parlare di quella parte dell’
invenzione, in cui principalmente consiste P arte dell’ Oratore, farò che non
paia aver io nella trattazione di questa
parte posto minor cura di quello che P
importanza del soggetto richiede, quando
avrò prima dello alcun che intorno alla divisione delie cause. La divisione
delle cause è distribuita in due parti. Terminata la narrazione, noi dobbiamo primieramente mostrare in che
conveniamo cogli avversari, e poscia, se sono a noi vantaggiosi i punti, in cui
conveniamo, passare a ciò che è soggetto
di controversia. Per esempio: «Che da
Oreste sia stala uccisa la madre, convengo cogli avversarli; che egli abbia ciò fatto a
drillo, o che gli sia stato ciò lecito,
ecco il punto che è soggetto a
controversia ». Ed egualmente nella risposta :
« Che Agamennone sia stalo ucciso da Clilennestra, tutti Io affermano,
ma benché ciò sia, pure pretendono che
io non doveva vendicare mio padre ». Fatta la divisione, noi dovremo ricorrere
alla distribuzione, la quale pure ha due
parti, cioè l’enumerazione e la esposizione , L 1 enumerazione consiste nel dire il numero delle cose, di
cui prendiamo a parlare; e non bisogna che nel numero abbia più di tre parli; perchè il dirne più o
meno è cosa pericolosa, e può mettere nell’uditore il sospetto di meditazione e
di artifizio ; la qual cosa toglie fede
al discorso. L’esposizione poi consiste
nel mettere innanzi con brevità e senza ommissioni le cose, delle quali togliamo di
parlare. XI. Passiamo ora alla
confermazione, e alla confutazione. Tutta la speranza della vittoria, e tutto l’affare della persuasione sta nella
confermazione e nella confutazione;
imperciocché quando avremo esposte le
nostre prove, e distrutte quelle dell’avversario, noi avremo intieramente
adempiuto al1’ uffizio dell’ Oratore. Noi potremo adunque trattare egualmente
queste due parti della confermazione e della confutazione, se ci sarà aperto
(ostato della quistione. Quattro stati
di quislione statuirono gli altri retori; ma Ermete, mio maestro, non ne ammise che tre, non già perchè volesse
levar via qualche cosa di ciò che quelli
attribuirono alla parte dell’
invenzione, ma per mostrare che essi
separarono in due ciò che era d’ uopo presentare nella sua semplice ed indivisibile unità. Lo
stato della quistione è il primo
conflitto del difensore contro l’
imputazione dell’ accusatore. Tre sono
adunque, come ho detto, gii stati della quistione, il congetturale, il legale, il giurisdiziale.
Lo stato è congetturale, quando vi è
controversia di fatto, a cagione di
esempio: « Aiace, allorché conobbe ciò
che fatto avea durante il tempo del suo delirio, si trafisse con la
spada in un bosco. Vi capita Ulisse:
vede 1’ ucciso; gii leva dal corpo il ferro insanguinato. Sopravviene
Teucro; vedendo il fratello ucciso, ed il nemico del fratello con la spada in
mano tinta di sangue, accusa Ulisse di assassinio ». Qui, poiché si cerca la verità per
congettura, vi sarà controversia di
fatto, e da ciò chiamasi congetturale lo stato della quistione. XII. Si chiama stato di quistione legale,
quando sorge controversia intorno ad uno
scritto. Siffatto stalo ha sei parli,
lettera e spirilo, leggi contraddittorie, ambiguità, definizione, traslazioae,
analogia. Ci ha controversia intorno alla lettera e allo spirito quando l’ intenzione di chi ha
scritto sembra discordare dallo scritto medesimo, per esempio : « Suppongasi
che vi sia una. legge , la quale
disponga che coloro, i quali per cagione di burrasca abbandonino la
nave, debbano perdere la nave ' e ogni
cosa; e che, se la nave vada in salvo, tanto
essa quanto l’allre cose rimangano proprietà di chi è restalo nella nave. Ora, spaventali tutti
dalla grandezza della burrasca
abbandonarono la nave, e cercarono
salvamento sopra di un palischermo ,
eccetto un ammalalo, il quale per impotenza non uscì di nave c non si mise in salvo. La nave
per caso e per fortuna si ridusse in
porto sana e salva: 1’ ammalato si trova
possessore di essa : 1’ antico padrone
della nave ne fa dimanda in giudizio come di cosa sua ». Queslo si è stato di
quistion legate riguardante la lettera e lo spirito del lesto. La controversia ha origine da leggi
contraddittorie, quando una legge ordina o permette una cosa, e l’allra la proibisce, come : « Una legge
proibisce che un uomo condannato di concussione parli davanti alPassemblea del popolo. Un’ altra
legge ordina che P augure proponga all’
assemblea del popolo colui che domanda
di essere surrogato nel posto del
collega defunto. Ora, un augure, che fu
condannato di concussione, propose il successore del suo collega defunto. Si domanda che sia
punito ». Questo è stato di quistion legale, che ha le origini da due leggi contraddittorie. La
controversia nasce dall’ambiguità, quando una cosa scritta in un senso ne presenta due, o più; per
esempio: « Un padre di famiglia,
instituendo erede il proprio figlio, legò pure in testamento a sua moglie dei vasi d’argento in questi termini: «
Tullio, mio erede, darà a Terenzia, mia
moglie, trenta libbre di vasi d’argento,
a scelta sua ». Morto il testatore, la donna domanda i vasi preziosi , e
magnificamente cesellali. Tullio dice di dovere a lei dei vasi d’argento pel peso di trenta libbre,
ma a sua scelta ». Ecco uno stato di
quistion legale, che sorge
dall’ambiguità delle parole. La quistionc dipende dalla definizione quando c'è
discordanza intorno al nome, col quale si dee chiamare un’azione : ecco un
esempio: « Essendo Lucio Saturnino per
portar la legge frumentaria dei semiassi e dei
terzi di asse, Quinto Cepione, che era in allora questore urbano, avvisi il Senato, che
l’erario non poteva sopportare una
cotanta largizione. Il Senato decretò
che, se egli avesse recata quella legge al
popolo, sarebbe stato riguardato come autore di un fatto contro alla Repubblica. Saturnino si
provò a recarla. I suoi colleghi fecero
opposizione: egli nondimeno fece portare
innanzi la cassetta de’suffragi. Cepione, vedendo che , a malgrado del decreto
del Senato e della opposizione dei colleghi,
ei recava la legge in danno della cosa pubblica, si fa violentemente strada con alcuni
de’migliori cittadini, rompe i ponti, rovescia le cassette, ed impedisce che la
legge passi. Cepione viene accusato di.
lesa maestà ». Lo stato della quislione è legale, dipendente dalla definizione ; conciossiachè
non verrà bene determinalo che cosa sia
lesa maestà, se non sia ben definito il
vocabolo stesso. La controversia nasce da traslazione quando V accusalo domanda, o che la causa sia trasferita ad
altro tempo, o che sia cambialo l’ accusatore, o che sieno cambiati i giudici. Di questa parte di
costituzione se ne servono i Greci nelle
cause pubbliche, c noi per lo più nelle
cause private. In siffatta parte la
scienza del diritto civile ci sarà di gran giovamento. Nondimeno anche
nelle cause pubbliche noi qualclie volta ce ne serviamo, ed ecco in che modo: «
Se alcuno è accusalo di peculato, perchè è
voce che egli abbia portalo via da un luogo privato dei vasi d' argento di pubblica spettanza,
egli può rispondere, dopo di aver
defluito che cosa sia furto, e che cosa sia peculato, clic, rispetto a
lui, bassi a giudicarlo di furto e non
di peculato». Una siffatta parte di
costituzione legale è di rado invocata dinanzi ai nostri tribunali, perchè se
si tratta di azion privala, il pretore
giudica delle eccezioni, e perde la
causa colui che non si attiene alle forme prescritte; c se si tratta di causa
pubblica, le leggi provvedono che
antecedentemente, se l’accusato ciò crede di suo vantaggio, sia dato giudizio,
se quell'acusalore abbia o no il diritto di accusare. La controversia ha le
origini dalla analogia, quando si presenta in giudizio un fatto, intorno a cui
v'ha alcuna legge propria, la quale
decida, ma che nondimeno può riferirsi a qualche altra legge. Per esempio: Una legge dice: Se
uno è furioso, la persona e i beni di
lui saranno nella potestà de’ suoi
agnati e gentili: » Un'altra legge dice:
« Colui, che sarà giudicalo di avere ucciso
il padre o la madre, sia ravvolto e legalo in un sacco di cuoio, e gittalo in un fiume. » Ed
un’altra dice : Se un padre di famiglia ha per testamento disposto de’suoi beni
c de’suoi schiavi, sia rispettata la sua volontà. » Ed un’altra dice
finalmente: » Se un padre di famiglia muore senza testamento, i suoi schiavi ed
i suoi beni siano degli agnati e dei
gentili. » Orbene: Malleolo fu giudicato di avere ucciso la madre: appena
condannato gli fu ravvolto il capo in un
cuoio di lupo, gli fu* ron messi i ceppi
ai piedi, e fu condotto nel carcere. I suoi difensori portano delle tavolette
nella prigione; ricevono da lui, in
presenza di testimonii, giusta la legge, il suo testamento, c poco dopo è condotto al supplizio. Coloro, che per
testamento ne erano gli eredi, domandano
l’eredità. Il fratello minore di
Malleolo, che nel fatto di esso era stalo
l’accusatore, dichiara che per la legge di agnazione quella eredità è a
lui devoluta. Qui non può essere
prodotta alcuna legge speciale intorno a
questo caso, e ciò nonostante se ne producono molte, dalle quali si trae per analogia, che
Malleolo abbia o non abbia potuto di diritto far testamento. E. co qual è lo
stato di quistion legale fondalo sopra l’analogia. XIV. Noi abbiamo dimostrato tutte le
diverse specie di quistion legale: ora
parliamo della quistione giurisdiziale. Ci è lo stato di quistion giurisdiziale
quando si conviene del fatto, ma si domanda, se esso è o non è conforme al
diritto. Di tale stato di quistione ce
n’ ha due specie: l’una specie chiamasi
assoluta, el’ altra assuntiva. Ella è assoluta, quando noi sosteniamo che un’
azione è rettamente fatta, senza clic
ricorriamo a motivi estrinseci; per
esempio: « Un commediante rivolse la
parola in pieno teatro nominatamente al poeta
Accio: Accio lo accusa d’iugiuria: il commediante non si fa altra difesa che questa: dice che è
lecito nominare colui, sotto il cui nome
è data a rappresentare in teatro una commedia. » La quistionc è assunliva, quando, essendo per sè stessa
debole la difesa, si cerca di sostenerla
con alcuna cosa presa fuori dal
soggetto. Le parli assunlive sono
quattro: La confessione, la discolpa, la recriminazione, l'alternativa.
La confessione sta, allorquando l’accusato domanda che gli sia perdonato:
essa ha due parti: o la scusa, o la
preghiera. La scusa è, quando l’accusato
dichiara di non aver commesso il delitto con animo deliberato. Danno scusa la fortuna, l’ignoranza, la necessità. La
fortuna, « come Cepione avanti ai
tribuni della plebe intorno alla perdila della sua armala. » I.’ ignoranza, « come colui, che mise a morte quello
schiavo, che aveva ammazzalo il proprio
padrone, al quale egli era fratello,
avanti che avesse aperte le tavole del
testamento in cui quello schiavo era dichiarato
libero. « La necessità, « come quel soldato, che non tornò alle insegne il giorno prefisso,
perchè le acque gli avevano impedito il
ritorno. « La preghiera è, quando l’accusato confessa di aver commesso il
fallo, e di avere operalo deliberatamente,
e nulladimeno dimanda che gli si usi misericordia. Questo mezzo in giudicio non si usa quasi
mai, a meno che non si parli in favore
di un uomo conosciuto per molle belle azioni. Se il caso è tale, noi 10 vestiremo della forma di uno de’luoghi
comuni proprii aH’amplificazione,
dicendo, per esempio : « Se un tale
misfatto avesse pur egli commesso,
bisognerebbe nondimeno mandarlo perdonalo in grazia delle sue belle azioni passate; ma
egli non implora alcun perdono. » Questo
mezzo adunque in giudicio non si usa; ma
ben può usarsi dinanzi al senato, o ad
un Generale di armata, ed al suo
consiglio di guerra. XV. La
causa ha sostegno nella recriminazione,
allorquando noi non neghiamo di aver commesso 11 fallo, ma diciamo di esservi stali spinti
dal fallo altrui: « Come Oreste, il
quale, per fare a sè difesa, gilta la cagion del delitto sopra la propria
madre. » La causa ha sostegno nella discolpa, allorquando noi cerchiamo di
difenderci non in quanto al fatto, ma in
quanto alla colpabilità, ghiandola o
sopra di alcun’ altra persona, o sopra di alcuna cosa. Ella giltasi sopra di alcun’ altra
persona, « come se è accusato uno, il
quale confessi di avere ucciso Publio Sulpicio, ma rechi a sua discolpa di
avere ciò fatto per comandamento dei consoli, ed affermi che essi non solo
glielo comandarono, ma gli fecero ancora conoscere il perchè egli poteva ciò fare. » Si gitta sopra una
cosa, « Come se alcuno sia impedito da
una legge statuita dal popolo di far ciò che un testamento gli ordina ». La causa ha sostegno nell’
alternativa, quando noi diciamo che non
si poteva a meno di non fare o Luna cosa
o T altra, o che fu miglior partito far
ciò che facemmo. Ecco un esempio di
questa specie: « Caio Popilio, essendo accerchiato dai Galli, nè polendo in alcuna maniera
scampare, venne a parlamento coi
capitani dei nemici e ottenne di andarne libero colla sua armata a condizione
ch’ei lasciasse le sue bagaglie; stimò miglior
partito perdere le bagaglie, che Tarmata: salvò Tarmata, lasciò le bagaglie: or viene
accusato di lesa maestà ». XVI. Io credo di avere bastantemente
dimostrato quali sieno i diversi stali
di quistione, e quali le loro parti. Ora
dimostrerò in qual maniera e con qual
ordine si dovranno da noi trattare, dopo che
avrò fatto ben conoscere quale convenga dirsi da una parte e dalfallra il punto essenziale
della causa, a cui debbesi riferire ogni ragionamento di tutto il discorso. Trovato adunque lo stato della
quistione, si deve tosto cercar la ragione: per ragione io intendo ciò che costituisce la causa, e che
comprende il punto fondamentale della difesa; c per continuare a farmi meglio intendere, farò
ciò'aper con un esempio: « Oreste nel confessare che ha uccisa la madre, se non desse una ragione del fallo, toglierebbe via a sè ogni difesa: nc
dà adunque una, la quale se data non fosse, non avrebbe luogo pausa di sorte alcuna: Mia madre, dice
egli, ha ucciso mio padre: « Ecco che la
ragione che ne dà, è appunto quella, io
lo ripeto, che contiene il punto fondamentale della difesa, e-se vi mancasse
questa ragione, non vi rimarrebbe neppure
11 più piccolo dubbio che potesse venire ritardata la condannagione. — Trovata la ragione,
bisognerà cercare la replica dell’avversario; vale a dire, il punto principale dell’ accusa, ciò che
recasi in mezzo in opposizione di questa
ragione della difesa , di cui abbiamo detto. Ecco come questo punto verrà determinalo: quando Oreste avrà
detta la sua ragione così: « Io ho
ucciso a buon diritto mia madre perchè
ella ha ucciso mio padre »; l’accusatore replicherà in questo modo: « Ma ella
non doveva essere uccisa da le, nè
sostenere una pena senza essere stata
prima condannata. «Dalla ragione della difesa, e dalla replica dell’ accusa ne sorge la quistione di giudizio, che noi
chiamiamo giudicazione, e i Greci
xp/vójuevov. Questa verrà costituita dal
concorso della ragione della difesa, e della
replica dell'accusa in questo modo: « Poiché Oreste dichiara di avere ucciso la
madre per vendicare il proprio padre,
era egli giusto o no che Clilenncslra venisse uccisa dal figliuolo senza un giudizio ? » Ecco qual è il modo di
trovare il punto di giudicazione:
trovato il punto di giudicazione, converrà che a quello sia riferita ogni
ragione dell'inlero discorso. Il metodo adunque da seguirsi per trovare in
tutti gli stati di quislionc, c nelle diverse loro parli, il punto di giudicazione sarà questo ,
fuorché nello stalo di quistione congetturale. Imperciocché in esso nè si
domanda la ragione del fallo, perchè il
fatto è negalo, nè si cerca la replica dejl’avversario, perchè manca appunto la
ragione. Laonde in siffatto stato di
quislionc il punto di giudicazione viene
determinato dalla imputazione c dalla
negazione, in questo modo: Imputazione:
« Tu hai ucciso Aiace. » Negazione: « Io non 1’ ho ucciso. » Punto di giudicazione: « La ha egli
ucciso o no? » A questo punto si deve, come ho già detto, riferire ogni ragione delle due
aringhe. Se vi saranno più stali di
quistione, o più parli di quistioni in una medesima causa, ci saranno
anche più punti di giudicazione, ma si
troveranno tutti nella maniera medesima.
Io ho posto diligente opera a parlare
con brevità e chiarezza di quelle cose
che dovevano essere fin qui discorse. Ora,
poiché abbastanza è cresciuto di mole il volume, è più conveniente esporre in un altro libro
il seguito del nostro soggetto, onde non venga la mente tua, per la moltitudine
degl’insegn amenti, oppressa da soverchia fatica. E se quest’ opera sarà compila più lardi di quello che tu desideri,
ne dovrai dare la colpa si all’ampiezza delle materie, e sì ancora alle occupazioni mie. Nulladimeno
io m’affretterò, e supplirò
coll’induslria alla scarsità del tempo,
a One di soddisfare al tuo desiderio
donandoti quest’ opera in coglraccàmbio de’ tuoi buoni uffizii verso di me, e come pegno della
mia affezione verso la tua persona. O
Erennio, io ho brevemente esposto quali
cause deve prender l’oratore, in quali
doveri dell’arte conviene ch’ei s’affatichi, e in quale. maniera può
facilissimamcnlc adempiere a siffatti doveri. Ma perchè non era possibile il
trattare tulle Icquistioni ad un tempo, e bisognava prima dilucidare le più
importanti, per farti poi più facilmente
intendere le altre, così io ho giudicato
conveniente di accostarmi di preferenza a quelle ehe erano le più difficili. Ci ha tre generi
di cause, il dimostrativo, il deliberativo, e il giudiziale: il giudiziale è il più difficile; tratterò
dunque di esso pel primo. Tanto ho pur
fallo nel libro precedente, toccando dei cinque doveri dell’oratore, dei quali il principale e il più difficile è
l’invenzione: or id darò in questo secondo libro presso a poco compimento a quanto concerne l’invenzione,
non «serbando che una piccola parte di
essa pel ler zo.Io ho comincialo primieramente a parlare delle sei parti proprie di un discorso: nel primo
libro ho detto dell’esordio, della
narrazione e della divisione, nè più a lungo di quello che bisognava, nè meno chiaramente che mi pareva essere da te
desideralo: di poi ho dovuto discorrere congiuntamente della confermazione c
della confulazione; per lo che ho fatto
conoscere gli stati diversi di
quistione, c le parti loro: di che venivasi a mostrare nel tempo
medesimo in qual modo, posta la causa,
sì può trovare lo stato della quistione, e le
parti sue: appresso ho insegnalo come bisognava cercare il punto di giudicazione; trovato il
quale', come è da curare che ogni
ragione dell’intero discorso si riferisca a quello: per ultimo ho
avvertilo che vi sono più cause, alle
quali possono adattarsi più stati di
quistione, o più parti di essa. II.
Rimane, penso io, a mostrare in qual maniera accomodar si possano le cose
dell’invenzione ir ciascuno stalo di
quistione, c a ciascuna parte di essa;
,e parimente quali siano gli argomenti delti
dai Greci £jri%£ip^P-ara , cui bisogna usare, e quali siano quelli, cui bisogna lasciar da parte;
le quali due cose riguardano appunto la
confermazione c la confutazione.
Insegnerò per ultimo in qual maniera dovrà farsi la conclusione oratoria, che è
appunto l’ultima delle sei parti di un discorso. Prima di tutto adunque noi cercheremo come convenga
di trattare ciascuna causa. Cominciamo dal considerare la causa congetturale,
che è la prima e la più diffeile. Nella
causa congetturale la narrazione dell’accusatore deve contenere dei sospetti
gettati c sparsi destramente qua c là in modo da far pensare che niun alto, niun dello, niuna
venuta, ninna partenza, niun fallo
insomma sia stato senza un motivo. I.a
narrazione del difensore deve prescolare una esposizione semplice e chiara,
acconcia a tor via ogni sospetto. Ciò che costituisce un tale stato di quistioue, è distribuito in sei
parti: in probabilità, in confronto, in
segno o indizio, in argomento, in
conseguenti, e in prova. Facciamo aperto
il valore di ciascuno di siffatti mezzi. La
probabilità è quella, per la quale si dimostra che il delitto fu vantaggioso all’accusato, e
ch’egli non fu mai uomo aborrente di una
tale turpitudine. Nella probabilità si
vogliono considerar due cose: la cagion
del delitto, e la condotta dell’ accusato.
La cagione, che può aver mosso al male, si è, o la speranza dell’utile, o Levitazione del danno:
come allorché si cerca, se mediante il
delitto ei pensò di avere qualche
vantaggio, per esempio onori, ricchezze,
potere, se volle soddisfare a qualche
sregolato amore o a qualche appetito di tale natura. 0 veramente se ebbe
in animo di evitar qualche danno, come inimicizie, infamia, dolore, supplizio. In quanto sia atla speranza dell’ utile,
l’accusatore verrà dimostrando la cupidità dell’animo del suo avversario, c in quanto sia
all’evilazion del danno ne andrà
esagerando le paure. 11 difensore,, al
contrario negherà, se potrà, che vi fosse una
cagione, o procurerà di attenuarla; quindi conchiuderà che è ingiusto
l’indur sospetto di malvagia azione in
tutti quelli, ai quali è derivato vantaggio
da alcuno lor fatto. Appresso si toglierà ad esaminare la condotta dell’
accusato dagli antecedenti. Nel che
l'accusatore andrà primieramente considerando, se al suo avversario abbia già a
rimprovc* rare qualche cosa di
somigliante; e ciò non trovando di lui, cercherà se egli potè mai essere
sospettato di una simile azione; e si adoprerà in questo di dimostrare che la condotta di lui ben
concorda con la cagione da esso
accusatore assegnata al delitto, di cui si tratta, come: Se affermerà che
la cagione del delitto è stato il
danaro, dimostrerà che colui è sempre
stalo un avaro; se l'onore, che ei fu
sempre ambizioso: così potrà congiungcrc il
vizio dell’ animo con la cagion del delitto. Se non potrà trovare in lui un vizio dell’animo, che
concordi con la cagione, ne cercherà uno di natura diversa. Se non Io potrà, per esempio,
dimostrare avaro, lo dimostri, se in
qualche modo il può, corrompitore e misleale: in fine per uno o più altri vizii farà lordo l’ animo del suo accusato; c
conchiude, clic non dee far meraviglia, che quello stesso uomo, che in addietro operò così male,
abbia ora commesso qucsl’altro misfatto. Se l’avversario godrà nome puro ed
intatto, dirà che bisogna tener conto dei fatti, non del nome; eh’ egli per lo passato seppe occultare le sue
turpitudini; ma che ora esso accusatore
farà aperto che colui è reo di misfatto.
Per quanto spetta al difensore, egli in
primo luogo verrà dimostrando, se potrà,
•che la vita dell’ incolpato è senza macchia; se ciò non potrà, piglierà difesa dalla
inconsideratezza, dalla stoltezza, dalla
giovinezza, dalla violenza, dalla
persuasione: con le quali scuse verrà ad allontanare da lui il biasimo delle
azioni anteriori all'accusa, di cui
presentemente si tratta. Ma se il
difensore si troverà forte imbarazzato dalle turpitudini e dalla mala
fama del suo accusato, prima , di tutto
darà opera a provare che si sono sparse
delle calunnie sopra un innocente; e farà uso di questo luogo comune, Che non bisogna
credere alle voci del volgo. Se nessuno
di questi sussidii potrà essere usato,
egli s’appiglierà all’ estrema difesa,
che è quella di dire, che non è suo obbligo di ragionare intorno ai costumi di
lui davanti a eensori, ma sì di
rispondere alle accuse degli avversari davanti a giudici. IV. Il confronto è, quando l’accusatore
dimostra che l’azione, ond’ è incolpalo
l’avversario, n-m è siala vantaggiosa a
nessun altro clic a quello; o clic non
la poteva altri eseguire che l’avversario;
o che il medesimo o non poteva compirla con altri mezzi diversi, o
almeno noi poteva tanto facilmente, o che, mosso dalla cupidigia, ha
trascurati altri mezzi più comodi. In
questo caso il difensore mostrerà che è d’ uopo che 1’ azione sia stata vantaggiosa ad altre persone, o che altre
persone eziandio abbiano potuto fare
ciò, di. cui è accusato il suo cliente.
Il segno è quello per coi si dimostra che P accusalo andò in cerca della
comodità di fare l’azione. Esso
comprende sei parti: Il luogo, il tempo, la durata, l’occasione, la
speranza della riuscita, la speranza di
non essere scoperti.Rispetto al luogo, si cerca, se era frequentato o deserto; se è sempre deserto, ovvero se fu
solamente quando si commise il fatto; se era sacro e profano, pubblico o privato; quali luoghi vi
sono allenenti; se colui, che fu
vittima, poteva essere veduto o udito. A
me non incrcscercbbe di descriver qui quale di tulle queste cose potesse
convenire all’accusato, e quale all’accusatore, se ciascuno non potesse
facilmente di per sè farne giudizio, posta che fosse la causa; perciocché
l’arte deve sì insegnare i principii
dell’invenzione; ma in quanto al .resto
è l’esercizio quello che celo fa
conseguire facilmente. Rispetto al tempo si cerca così: -In quale stagione dell’ anno; in qual
ora; se di giorno o di notte; c in qual ora del giorno o della notle dicesi avvenuto il falto,eperchè
in quel tal tempo. Rispetto alla durata
essa si considera così: Se fu
abbastanza, perchè il fatto potesse compiersi, e se l’accusato potè esser certo
che quella quantità di tempo era per
bastare a compirlo. Imperciocché poco monta che lo spazio del tempo sia stato bastante .a compire il fatto, se
non si è potuto ciò sapere c calcolare
innanzi. Rispetto all’occasione si va cercando, se essa sia stata opportuna ad
intraprendere il fatto, se ce ne sia stata
un’ altra migliore, che o siasi lasciata sfuggire, o non siasi aspettata. Quanto alla speranza
della riuscita si esaminerà essa in questo modo: Se i segni or ora delti concordino insieme: se inoltre
apparirà per una parte esservi stalo forza, danaro, consiglio, conoscimento,
precauzione; c per l’altra si mostrerà
esservi stato debolezza, povertà, sciocchezza, ignoranza, incuria: da ciò potrà
sapersi se l’accusato doveva aver
fidanza o non averla. Quanto alla
speranza del non essere scoperti, sarà fatta più o meno evidente secondo il numero de’
complici, de’testimoni, du’cooperalori,
o siano liberi o siano schiavi, e dogli
uni e degli altri insieme. V. L'
argomento è quello, per cui si mette in
chiaro il fatto con più certe prove, e con più fondati sospetti. Esso si
rapporta a tre tempi: All’antecedente, al presente, al conseguente. Rispetto al
tempo antecedente bisogna considerare dove l’accusato si trovò; dove e con chi
fu veduto; se fece qualche preparamento;
se andò a trovare alcuno; se disse
qualche cosa; se ebbe con sè alcuno dei
complici o de’ cooperatori; se fu in qualche luogo fuori della consuetudine sua, o in ora
inopportuna. Rispetto al tempo presente si cerca, se sia stalo coito flel fatto ; se si è udito qualche
strepilo, qualche grido, qualche romorc,
o finalmente se si è compreso alcun che
per mezzo di qualche senso, con la
vista, con 1’ udito, col tatto, coll’ odorato*
col gusto: perciocché il testimonio d’ alcuno di questi sensi può aggrandire il sospetto.
Quanto al tempo conseguente si
riguarderà, se dopo il fatto vie rimasta
alcuna traccia, cheindichi esservi stato
delitto, e chi nc possa essere 1’ autore. Che vi sia stato delitto si riconosce a questo modo: Se
il corpo del morto è gonfio e livido, è segno che vi è stato avvelenamento. Se ne scopre poi l’ autore
a questo modo: Se un pugnale, se una
veste, se qualche altro oggetto di
questo genere sia stato lascialo, o
qualche vestigio si è rinvenuto; se vi
ebbe sangue nelle vesti dell’accusato; se fu preso o veduto, dopo il fatto, nel luogo dove
dicesi essere quello accaduto. I conseguenti son quelli, quando si cerca quali esser possono i segni,
che risultano, della colpabilità o della
innocenza. L’accusatore dirà, se potrà, clic il reo, quando fu arreslato,
arrossì, impallidì, vacillò, si contraddisse,
cadde ncirabballimenlo, feccdelle promesse; tutti segni, che manifestano la coscicuza. Se
l’accusato non fece nulla di tutto ciò,
l’accusatore dirà c!ie colui calcolò
prima così bene ciò che gli avrebbe a
tornar vantaggioso, che rispose con una sicurezza insuperabile; il clic è segno
di audacia e non d’innocenza. 11 difensore
poi, se l’ accusalo lasciò vedere dello
sbigottimento, dirà che esso restò commosso non per la coscienza d’un delitto,
ma per la grandezza del pericolo. Se non
diè segni di sbigottimento, dirà che, forte della sua innocenza, non poteva restare commosso. VI. La prova confermativa è quella, di cui
facciamo uso all’ ultimo, quando il sospetto è bene stabilito. Essa ha dei luoghi proprii e dei
luoghi comuni. I proprii sono quelli ohe
non possono servire che all’ accusatore o al difensore. I comuni sono quelli che in una causa convengono all’
accusalo, e in un’ altra all’ accusatore. Nella causa congetturale il luogo proprio dell’
accusatore è, quando dice che non
bisogna aver compassione dei malvagi, e
quando esagera 1’ atrocità del delitto. Il luogo proprio del difensore è,
quando eccita la compassione e si lagna di calunnie nell’accusatore. I luoghi
comuni, così dell’accusatore come del difensore, sono il parlare in favore o
contro dei leslimonii, in favore o contro della tortura, in favore o contro
degli argomenti, in favore o contro della voce pubblica. Noi diremo in favore
dei testimonii, se allegheremo la loro
buona fama e condotta di vita, non meno
che la immutabilità delle loro
testimonianze. Contro dei testimonii diremo, se allegheremo la turpitudine
della loro vita, la mutabilità delle loro testimonianze ; c se sosterremo o che
non poteva farsi, o che non è stalo
fatto ciò clic essi affermano, o clic noi potevano sapere, o clic nelle loro parole ed
argomentazioni havvi della parzialità:
questo sarà appunto il modo di biasimare
o di approvare i testimonii. Noi parleremo in favore della tortura se
dimostreremo che i nostri maggiori usarono aneli 'essi i tormenti c le durezze
per iscoprire il vero, e vollero che
coll’ eccesso del dolore fossero gli uomini forzati a dire ciò che sapevano. E
l’argomentazione nostra sarà più decisiva, se, ricorrendo alle medesime prove, clic furono adoperate in
tutta la quistione congetturale, daremo
alle confessioni fatte per questo modo
il carattere della vcrisimiglianza; il che pure converrà di fare anche
rispetto alle testimonianze. Ecco poi
come parleremo contro della tortura: Primieramente diremo che i nostri maggiori
non ne vollero far uso che in alcuni
casi speciali, quando con questo mezzo si potesse discoprire la verità ocombettcrc la falsità
delle parole, clic in una data quistione si proferissero, co ino sarebbe in questo caso: In qual luogo sia
stata messa una lai cosa; ovvero se si Iraf lasse di qualche fallo consimile,
che non potesse essere scoperto o riconosciute che con questo unico mezzo. In
secondo luogo diremo che non bisogna poi
prestar fede al dolore, perchè 1’ uno può essere più debole all' altro nel
sopportarlo, o più ingegnoso a trovar
menzogne, perchè finalmente può spesse
Gate conoscere o sospicare ciò che il
giudice desidera udir da lui^ed egli ben sa che, ove dica ciò* viene ad esser messo Gne al suo
dolore. Quest’ argomentazione sarà ancora più valida, se confuteremo le
confessioni strappale per mezzo della
tortura con ragionamenti appoggiati al
probabile; c ciò bisognerà fqrc coi modi già indicali per le cause
congetturali. Se noi vorremo dar forza
agli argomenti, ai segni, c agli altri luoghi, che accrescono la sospizionc,
converrà che parliamo in questa forma:
Allorché un gran numero di argomeiUi c segni concorrano, i quali s’accordino
fra loro, è d’ uopo che la cosa presa a dimostrare assuma il carattere non di
sospetto, ma Il testo dice, et si quid esset, quod videri , aut aliquo similisig no iiercipi possct-, ma
([ucsUìeLÌonc non ha certamente un senso
probabile. Le correzioni proposte dai filologi sono molte c varie. Nella
traduzione ho procurato di dare un senso
probabile. Il Trai. di certezza; e così
è d’ uopo che più si creda al segni e
agli argomenti che aPtcslimonii; perciocché i segni e gli argomenti sono i
fedeli espositori di ciò che veramente è
accaduto, ed i testimonii possono essere
corrotti per danaro, per favore, per
timore, per avversione. Volendo noi parlare contro agli argomenti, ai
segni, c agli altri sospicamcnti, dimostreremo che non vi ha nulla, di cui tion possiamo essere accusati in conseguenza
di sospetti; in appresso attenueremo ciascun sospetto in particolare, e daremo opera a mostrare che
esso può venire addossalo non tanto a
noi, quanto a qualunque altra persona; e
che è cosa indegna che una* congettura e
un sospetto debba, senza aiuto di*
testimonii, riguardarsi come una prova
bastante. Noi parleremo in favore della voce pubblica, se sosterremo che
l’opinione non si forma punto a caso senza verun fondamento; e se diremo che non è occorsa cagione, per la quale
taluno avesse interesse a mentire c ad
inventar favole; e proveremo con ragioni
che, quando pure fossero per solito
false tutte le altre voci, questa, di cui si
tratta, è però vera. Se vorremo parlare contro alla voce pubblica, mostreremo primieramente che
ce ne ha di molte clic sono false, c
citeremo esempi, dei quali sia stala falsa
la fama; e diremo che o sono nostri
nemici, o uomini di natura malevoli e maldicenti (fucili che inventarono una
siffatta favola, e addurremo qualche finto racconto contro ai nostri avversarli, il qual diremo essere
ripetuto da tutti; onde anche allegheremo
una voce vera di cui essi abbiano ad
arrossire, protestando però che noi non
prestiamo fede ad essa, perchè chiunque
può metter fuori alcuna brutta voce contro di chicchessia, e seminare
qua e colà una calunnia. Ma se la voce
parrà esser mollo probabile, bisognerà
che noi per forza di argomenti togliamo via alla fama tutta la credenza. Siccome la quislione
congetturale è la più difleile a trattarsi, e spessissimo si presenta nelle
cause vere, così noi abbiamo esaminate
tutte le sue parti con tanto più di diligenza, affinchè arrestati non fossimo
dal più piccolo vacillamento od intoppo, se a questa ragione dell’insegnamento volessimo un giorno
accoppiare l'assiduità dell’ esercizio. IX. Ora passiamo alle parti della quistion
legale. Quando insorga dubbio che vi sia discordanza fra il lesto e l’intenzione di colui che ne
fu l’ autore, se noi difenderemo loscrillo, useremo dopo la narrazione i luoghi seguenti:
Primieramente faremo 1’ elogio del suo autore: poi leggeremo ad alta voce lo scritto: quindi domanderemo, se
per ventura gli avversari sappiano che
sia mai stato scritto in una legge o in
un testamento o in una stipulazione o in
qualunque altra scrittura cosa alcuna che aver possa attinenza al soggetto in
quislione. In appresso, istituito il confronto di ciò clic è scritto con ciò che gli avversarli
interpretano siccome vera intenzione,
domanderemo a che dovrà il giudice appigliarsi; se a cièche è positivamente
scritto, o a ciò che è sottilmente immaginato: in seguilo biasimeremo e
confuteremo il sentimento immaginato dagli avversarii ed attribuito allo scritto. Di poi domanderemo, se l’autore
aveva intenzione di scrivere nel modo
che s’interpreta, qual cosa lo impedì di
scrivere appunto così? Dopo ciò noi
faremo aperto qual sia il verosenso, e metteremo in luce la cagione, per cui lo
scrittore sentì appunto come scrisse, e
proveremo che quello scritto è chiaro,
conciso, naturale, compiuto, determinato. E qui noi produrremo esempi di
giudizìi pronunziati a favore dello scritto, avvegnaché gti avversarii adducessero nell’ autore di
quello e sentimento e intenzione
diversi. Finalmente mostreremo quanto sia pericoloso dipartirsi dallo scritto.
Havvi un luogo comune contro di colui, che,
pur confessando di avere operato contro a ciò che è dalle leggi ordinato o scritto in un
testamento, cerca di difendere il fatto
proprio. A favore dell’ intenzione noi parleremo così: Primamente loderemo l’aggiustatezza e la
concisione dello scrittore, perchè scrisse nè più nè meno di ciò che era necessario, e s’avvisò di non
essere temito a scrivere ciò clic, senza essere scritto, poteva venire inteso:
secondariamente diremo esser proprio
soltanto dell’ uomo di mala fede lo appigliarsi alla parola e alla lettera, e
non tener conto deirinlcnzione. In
appresso diremo clic ciò che c scritto,
o non può essere eseguilo, o veramente,
se può essere eseguilo, esso è contro alla legge, aU'uso, alla natura, all’equità, al buono; c
niuno dirà, che P autore non abbia
voluto clic lutto sia fallo secondo il
giusto: ora ciò clic noi abbiamo fatto,
egli ò interamente conforme alla giustizia.
Aggiungeremo poi che l’opinione contraria o è assurda, o è insensata, o
è ingiusta, o tale che non può avere
effetto, o che non è d’a.ocordo coi sentimenti clic precedono, e con quelli che
vengon dopo, o eh’ ò in opposizione col
diritto comune, o con le altre* leggi
comuni, o coi giudicati. Dopo ciò faremo
enumerazione degli esempi di giudicati
in favore dell’ intenzione e contro lo scritto; e finalmente produrremo
dei brevi estratti di leggi e di
stipulazioni, nelle quali possa essere compresa
dall’inlcllcllo c l’ intenzione e l’ esposizione degli scrittori. Ilavvi poi un luogo comune contro
di colui che reciti uno scritto, e non interpreti l’intenzione di chi ha fatto.
Allorché due leggi saranno discordanti
fra loro, bisognerà prima vedere, se vi
sia abrogazione o derogazione: appresso, sq
queste leggi dissentano cosi, che l’una comandi e l’altra proibisca; o
che l’uria obblighi e l’altra permetta. Imperciocché sarà debole la difesa di
colui,, che dirà, di non aver fatto ciò,
a cui da una legge è 'obbligato,
cssendovcne un’altra che permette;
perchè ha più forza una legge che obblighi, che una che permetta. Parimente è debole la
difesa, quando si mostra clic si è fatta
quella cosa che viene stabilita da
quella legge alla quale è stala fatta
abrogazione o derogazione; e se non si è tenuto conto di ciò, che viene
ordinato dalla legge posteriore.
Allorché si saranno bene considerate
queste cose, bisognerà subitamente addurre, leggere, commendare la legge
a noi favorevole. Appresso dichiareremo il senso della legge contraria, e quella trarremo al vantaggio della nostra
causa. All’ ultimo dalla quistione
giurisdiziale assoluta prenderemo la
ragione del diritto, e cercheremo quella
parte del diritto che stia a favor nostro :
della qual parte parleremo più sotto. Se lo scritto è ambiguo, vale a
dire che si presti a due o più
interpretazioni, noi lo tratteremo
aqueslomodo:Inprimo luogo cercheremo, se sia o no ambiguo; poi mostreremo come avrebbe
dovuto essere esposto, se lo scrittore
gli avesse voluto dare quel senso, che
gli avversari interpretano. In seguilo mostreremo che la nostra
interpretazione .non solo è da
preferirsi, ma è anche onesta, giusta, conforme alla legge, all’uso, alla
natura, al bene, all’ equità; clic quella degli avversarli è .il contrario; die infine uno scritto allora non
è ambiguo, quando si capisce quale dei due significati è il vero. Ci sono alcuni,! quali son di
parere che, a trattare siffatta causa,
bisogna mollo conoscere la scienza delle
anfibologie, che i dialettici insegnano; ma noi pensiamo cha essa non solo non
è di alcuno aiuto, ma che anzi è d’
impedimento; perciocché costoro tengono
dietro a tulle le amfibologic, anco a quelle, clic, prese al contrario, non presentano senso veruno. Laonde eglino
altro non sono che molesti
inlcrrompitori dell’ altrui parlare, e
interpreti odiosi cd oscuri di uno scritto;
e, mentre parlar vogliamo con cautela ed esattezza, riescon peggio che bimbi. Cosi mentre temono
di lasciarsi sfuggire una parola clic
abbia più di un senso, non osano
neppurpronunziarcil loro nome. Ma quando
tu vorrai, io confuterò le loro puerili
opinioni coi più solidi argomenti. Intanto non è stato inutile il dir qui per incidenza ciò
che ho detto, a fine di giltarcin discredito
questa garrula scuola di fanciulli. Quandouscrcmo la definizione, noi daremo prima una breve definizione della parola :
per esempio: « È colpevole di lesa
maestà chi fa violenza a quelle cose che costituiscono la grandezza dello Stalo, quali sono appunto i suffragi
del popolo, e le adunanze de’ magistrali. Or dunque tu, quando rovesciasli i
ponli, li oppoiiesli ai suffragi del
popolo, e all’ adunanza de’ magistrali. » L’accusato per contrario risponderà:
« E colpevole di lesa maestà chi porla
danno alla grandezza dello Sialo. Io non
le portai danno, anzi la difesi, perchè conservai P erario, mi opposi all’
avidità dei tristi, non permisi che la
maestà dello Stato perisse tutta intiera. » Prima adunque si spiegherà brevemente e acconciamente a vantaggio
della nostra causa il senso della
parola: poi si combinerà il fatto nostro con la definizione della parola; quindi si confuterà la ragione della
definizione contraria, se sia o falsa, o
inutile,, o sconcia, o ingiusta; e gli argomenti a ciò li piglieremo dalle parli del diritto che spelta alla quistionc
giurisdi* ziale assoluta, della quale
oramai terremo' parola. Per la traslazione
poi si cerca primieramente, se alcuno, a
cui non appartenga, possa nel fatto presente avere azione, per dimandagione od
istanza; o se gli possa ciò spellare in
altra maniera, in altro tempo, in altro luogo; o se per altra legge, o con altro giudice, o con altro accusatore. A
tutte le quali cose sarà fatta ragione
secondo le leggi, l’uso, l’equità, ed il
bene: di clic tutto parleremo nella
quislione giurisdiziale assoluta. Nelle cause
fondate sopra l'analogia cercheremo prima, se in cose maggiori, o minori, o simili, è stala
fatta alcuna legge analoga, o data analoga decisione: poi se la cosa addotta è
simile o no alla cosa di cui si traila;
poi se è a disegno che nulla si è scritto intorno a quella cosa, perchè non vi
si è voluto provvedere, o perchè si è giudicalo che vi fosse bastantemente
provveduto con altre leggi analoghe. Noi abbiamo a bastanza parlato delle parti
della quislione legale; ora rechiamoci alla quislione giurisdiziale. XIII. Noi faremo uso della quislione
giurisdiziale assoluta allorché, confessando di aver fatta un’azione, sosterremo di averla fatta a
diritto, sen- za aiutarci con veruna estrinseca difesa. In essa conviene cercare, se si è operalo a buon
diritto, del qual diritto noi potremo
discorrere, se conosceremo le parli costitutive di esso. Le quali parti sono sei: Natura, legge, uso, giudicalo,
equità, patto. Il diritto, che vicn
dalla natura, è quello che si osserva
per cugion di cognazione o di pietà;
quel diritto, pel quale spettano doveri reciproci così ai padri verso i figli, come ai figli
verso i padri. Il diritto, che vien dalla legge, è quello che è costituito dalla volontà del popolo; come è
quello che ci obbliga di presentarci in
giudizio quando vi siamo chiamati. Il
diritto, che vien dall’ uso, è quello,
clic, in mancanza di legge, è osservato comunemente, come se fosse stabilito da
una legge: per esempio: « Se tu avrai
fatto deposito del tuo avere presso un
banchiere, lo potrai giustamente ridomandare anche dal socio di esso ».
Iitliritlo, che viene da un giudicalo, è
quello intorno a cui è stata pronunziata
sentenza o interposto decreto. Ma
sovente i giudicati variano secondo il diverso
modo di pensare di un giudice, di un pretore, di un console, di un tribuno della plebe; e ne
avviene clic spesse fiale sopra la cosa medesima 1’ uno decreta e giudica ad un modo, e l’ altro ad
un altro; come sarebbé a dire: « Marco Druso, pretore urbano, profferì giudizio diesi potesse far
lite per cagion di mandato coll’ erede;
Sesto Giulio profferì giudizio contrario. Parimente Caio Celio giudice rimandò
assoluto per accusa d'ingiurie quel1* attore, che aveva offeso il poeta
Lucilio, nominandolo in iscena : Publio Muoio, al contrario, condannò quell’altorc che aveva nominato in
isccna il poeta Lucio Azzio ». Poiché adunque due cause simili possono essere stale giudicate
diversamente, bisognerà che noi, quando ciò sia accaduto, facciamo conoscere
cosi i giudici come le occasioni, non meno che il numero dei giudicati,
che furono in favore o in danno della
cosa. Dall’equità viene il diritto,
quand’ esso sembra fondato sulla verità
c sull’ utile comune; come: « Chi ha più di
sessanl’ anni, ed è impedito da malattia, può farsi rappresentare in giudizio per mezzo di
procuratore ». Per forza di questo principio può costituirsi anche un nuovo diritto secondo 1’ occasione c
la dignità della persona. Dal patto viene il diritto, quando due o più persone hanno fatto fra loro
una convenzione, un accordo. Ci son dei
patti che voglionsi osservare in forza di leggi, per esempio: « Potrassi far causa nel luogo dove si è
pattuito; se non si è pattuito, dovrassi
trattarla o nel comizio, o nel fóro prima del mezzogiorno a. Similmente vi sono
de’ patti, che senza intervento di leggi
si osservano in forza di convenzione, i quali
si dicono esecutorii per diritto. Ecco adunque quali sono le vie, per le quali conviene
trovare il torlo, o confermare il
diritto; e ciò deve farsi nella
quislione giurisdiziale assoluta. Nella quislione giurisdiziale
assentiva, allorché per l’ alternativa si domanderà quale delle due cose sia stato meglio di fare, o quella,
che l’accusato confessa di aver fallo, o
quella, che l’accusatore dice clic era d’uopo di farsi: si dovrà primieramente
esaminare quale delle due sia stata più
vantaggiosa in confronto, vale a dire più bella, più facile, più profittevole. Poi bisognerà
domandare, se spellava a lui il giudicare quale delle due era più vantaggiosa, o se apparteneva ad
altrui il dettare le condizioni. In
seguilo l’accusatore, giovandosi delia quislione congetturale, interporrà
il sospetto, che l’ accusalo non abbia
operato con questa ragione di anliporre
il meglio al peggio, ma che abbia
proceduto con mal dolo: ed anco domanderà in fine, se si poteva evitare di
venire in quel tal luogo. II difensore,
all’opposto, confuterà F argomentazione
congetturale con alcuna delle cagioni
probabili, di cui si è già parlato. L’accusatore, dopo aver messi in campo i
motivi detti di sopra, userà un luogo
comune contro all’ avversario, dicendo, che egli ha piuttosto preferito il
nocevole al vantaggioso, allorquando non era più in poter suo il dettare le condizioni. Il
difensore poi, contro di coloro, che
giudicano onorevole F antipode l’estrema rovina all’ utile, userà il luogo
comune per compianto; e nel medesimo tempo domanderà agli accusatori e ai
giudici stessi, checosa avrebbero fatto
se stati fossero in quel posto; e
metterà loro sotto gli occhi il tempo, il luogo, la cosa, e i motivi, che ebbe il suo
cliente. XV. La recriminazione si ha,
allorquando l’accusato va pretestando cagione al fatto proprio il fallo d’altrui. In tal caso l’accusatore
cercherà primieramente, se a ragione si possa trasferire la reità in altrui; secondariamente esaminerà, se il
fallo, che è imputalo ad altrui, è così
grave come quello che F accusalo
confessa di aver commesso egli medesimo:
di poi, se era d’uopo commetter fallo,
perchè altri ne ha commesso uno innanzi; di poi, se era d’uopo ctie di quel primo fallo fosse
avanti dato giudizio; di poi, conciossiachè
niun giudizio sia slato pronunzialo del
delitto imputato ad altrui, se l’accusalo abbia diritto di costituir cosi sè
medesimo giudice di un’azione, che non è ancora
stata secondo le leggi giudicata. Qui cadrà in acconcio quel luogo
comune, per cui l’ accusatore farà
rimprovero all’accusato, elfei mostri così esser d’avviso, che s’abbia a
preferire la violenza ai giudizii, e
domanderà pur anche, che cosa accadrebbe, se gli altri facessero altrettanto,
cioè che pigliassero supplizio di coloro
che non sono per anco condannati,
adducendoper ragione, ch’eglino medesimi ne hanno prima dato l’esempio.
Che si direbbe, se l’accusatore egli
stesso avesse voluto fare altrettanto ?
Il difensore, al contrario, porrà nel
mezzo 1’ enormità del fallo di colui sopra del
quale verrà trasferita la reità ; e porrà sotto agli occhi il fatto, il luogo, il tempo per modo,
che gli udij^ri si persuadono, o clic
non era possibile, o che non era
giovevole, che l’ affare venisse recalo
dinanzi ai tribunali. XVI. La
concessione è quella, per la quale noi
domandiamo che ci sia perdonato. Essa si divide in due parti: in iscusa e in preghiera. La
scusa è, quando dichiariamo di avere
operato senza pensamento. Essa abbraccia tre parti: la necessità, la fortuna, l’ ignoranza. Parleremo prima di
queste tre parti, c poi diremo della
preghiera. Primieramente si dovrà considerare dall’accusatore, se noi fummo indotti a questa necessità per colpa
nostra, o se fu la neccssilà per sè stessa quella che ci indusse alla colpa. In
appresso si cercherà in qual modo si
poteva da noi evitare quella necessità od
attenuarla; e se colui, che si scusa con la necessità, ha tentalo tutto
quanto era in poter suo di fare o di
immaginare per resistere ad essa; e se trarre
si possano dalla quistione congetturale dei sospetti, che portino
indizio essere stato fatto pensatamente ciò che dicesi accaduto per necessità;
e finalmente, quando pure vi sia stata una qualche necessità se convenga tenere questa
necessità come una scusa bastante. Se
poi l’accusato dirà, essersi da lui
commesso il fallo per ignoranza, „
l’accusatore cercherà primieramente, se quegli
poteva sapere o non sapere; di poi, se ha fatto opera di sapere o no; c quindi, se ei non
seppe per puro caso, ovvero per sua
colpa: imperciocdiè chi si scusasse di
essere stato privo di ragione o per
ubriachezza, o per trasporto di amore o di
collera, egli parrebbe che avesse perduta la cognizione per un vizio
dell’animo e non per ignoranza: laonde
non difenderebbe sè colla ignoranza, ma
si macchierebbe di una colpa. Dopo ciò per mezzo della quistione congetturale cercherà, se
realmente sapeva o non sapeva; c considererà, se l’ignoranza esser debba difesa
bastante, quando pur consti che la. cosa
sia stala fatta per ignoranza. Quando se
ne attribuisce la cagione alla fortuna,
c clic il difensore dica, doversi per questo motivo perdonare all’accusato, bisognerà che
l’accusatore metta in campo tulle quelle
considerazioni medesime, che abbiamo poste là, dove parlammo della necessità. Imperciocché tutte queste tre
specie di scusa hanno allìuilà fra loro,
sì chea tutte si possono accomodare le considerazioni medesime. In siffatte cause tornano in acconcio i luoghi
comuni, rispetto all’ accusatore, contro
a colui, che, pur confessando di avere
peccato, trattiene inutilmente i giudici con parole, e, rispetto al difensore,
di implorare il perdono dall’umanilà e
dalla compassione, e di sostenere che, dovendosi io tutte cose aver riguardo all’attenzione, non v’ha
colpevolezza in quelle azioni clic sono
stale fatte senza un positivo consiglio. Noi useremo la preghiera, se,
confessando il fallo, e lasciata da parie la scusa dell’ ignoranza, o della
fortuna, o della necessità, domanderemo clic ci sia perdonalo. E qui il motivo
del perdono si trae dai luoghi seguenti:
Se parranno essere più, ovvero più
grandi i meriti che i torli; se alcuna virtù
o nobiltà sarà in colui che supplicherà; se alcuna speranza ci avrà che
perdonando al reo, abbia ciò ad essere
di universale giovamento; se si mostrerà che il supplicante medesimo fu clemente e compassionevole quando aveva in
sua mono il pplerc; se il fallo, ch’ei
commise, noi commise per odio o crudellà, ma spinto da obblighi e da retta
intenzione; se per una cagione si- ,
mile fu mai perdonato ad altro reo; se parrà non dovere a noi derivar danno mandandolo
perdonato; se per un tale perdono non ce ne verrà alcun biasimo dai nostri concittadini, o da qualche
altra cittadinanza. Si passerà quindi ai
luoghi comuni intorno airumanHà,allafortuna,allacompassione, alla mutazione
delle cose. L’ avversario poi rivolgerà
tutti questi luoghi contro l’accusalo aggiungendovi l’ amplificazione e l’ enumerazione di tutti
i falli, che gli vengono imputati.
Questa maniera di trattazione torno vana nelle cause pubbliche, siccome ho già detto nel primo libro; ma potendo
esser giovevole davanti al senato, o ad
un consiglio militare, ho creduto bene di non doverla tacere. Quando noi vorremo rimuovere l’accusa per
mezzo della discolpa, getteremo la
cagione del nostro fallo o sopra di una
cosa, o sopra di una persona. Se si
getterà la causa sopra di una persona, primieramente si cercherà, se colui
sopra del quale sia gettata la causa,
potette tanto, quanto il reo dimostrerà,
e in qual maniera si poteva o con onore o senza pericolo resistere ad esso : c
quando pure si animella quello che il
reo dice, se nullameno sia ragionevole di scusare il reo dell’ avere operato per impulso altrui: e passando quindi
alla quistione congetturale si
discuterà, so. fu operalo con cognizione di causa o no. Se poi la cagione
si getterà sopra di una cosa, si terrà
la stessa maniera di ricerche, e vi si unirà tutto ciò che abbiamo già detto intorno alla necessità. Poiché ci pare
di avere bastantemente dimostrato di
quali argomenti è d’uopo far uso in
ciascuna delle quislioni del genere giudiziale, ora verrò insegnando come abbellir si possano e
perfettamente trattare questi argomenti medesimi. Imperciocché egli non è mollo difficile
trovare ciò dhe serve di sostegno alla
nostra causa, ma, trovato che sia, si è difficilissimo pulirlo e
convenientemente esporlo. E quest’ arte è appunto quella, che fa che noi non ci fermiamo più a lungo
di quanto bisogna sopra le stesse cose,
e non ritorniamo più e più volle al punto medesimo, e non abbandoniamo il ragionamento incomincialo,
enon passiamo male a proposito ad un
altro. Mercè adunque quest’arte, e sarà
facile a noi di trovare nella memoria
tutto quanto avremo detto in ciascun luogo, e potrà l’uditore comprendere e
fermar nella mente la distribuzione cosi di tutta la causa come di ciascheduna prova. L’
argomentazione adunque più compiuta e più perfetta si è quella che comprende cinque parli: La
proposizione, la ragione, la confermazione della ragione, rornamento, e la recapitolazione. La
proposizione è l’esposizione compendiosa
di ciò che vogliamo provare. La ragione è il principio , che dimostra esser giuslo ciò, a cui miriamo ,
soggiungendolo brevemente. La
confermazion della ragione è quella, che fortifica con molle prove ciò che la
ragione ha brevemente esposto.
L’ornamento è quello, di cui facciamo
uso per abbellire ed arricchire la
causa, allorché le prove sono bene stabilite. La ricapitolazione è quella che conchiude
brevemente, raccogliendo le diverse parti dell’ argomenta- . zione.
XIX. Se vorremo adunque far uso di tutte queste cinque parti, ecco come
tratteremo l’argomentazione : « Noi abbiamo a dimostrare che Ulisse aveva un motivo di uccidcrcAiace; perciocché
voleva torre di vita un nemico acerrimo, dal quale non a torlo temeva per sé sommo pericolo.
Vedeva che, vivente Aiace, egli non era sicuro della persona; colla morte di lui sperava di
procacciare salvezza a sé : era suo
costume, -in mancanza di mezzi
legittimi, di usar la frode per toglier via un
nemico; di clic è una prova convincente la non degna morte di Palamede.
Dunque e il timor di un pericolo
spingeva lui ad uccider quello, dal quale
temeva una punizione, c la consuetudine del delitto dilungava da esso
ogni dubbio di metter mano
all’assassinio. Imperciocché in generale gli uomini, i quali non
commettono mai senza un perchè i falli
più leggieri, sono da ultimo tirati a commet
Lifino il. tereiMclitli più
grandi, allora che certi sono di averne
accogliere un vantaggio. Or bene: se molli
spinti furono al male dalla speranza del guadagno, se una gran parte degli uomini gillossi nei
delitti per T ambizione del potere, se
altri pagarono un leggiero guadagno a
prezzo della più gronde iniquità, chi si meraviglierà clic costui,
tiranneggialo dal più vivo timore, non
siasi astenuto da un assassinio ? Un eroe pien di coraggio e d’integrità, che non perdonava ai nemici, oltraggiato,
irritato, non si potè partir vivo da un
rivale pieno di paura c di ribalderia,
che sapeva di esser colpevole, insidioso, nemico: a chi parrà strana cosa
cotesta ? Se noi vediamo le bestie
feroci levarsi pronte ed irose per
nuocere ad altro animale bruto, non è da
giudicarsi impossibile cheanche l’animo feroce,
crudele, ed inumano di costui siasi avidamente gittato a dar morte al suo nemico ; tanto più
se consideriamo, che nelle bestie non si
scorge vcrun motivo nè buono nè cattivo,
c che in costui sappiamo essere sempre stali assaissimi e grandissimi molivi. Se dunque io ho promesso di svelare
la cagione, dalla -quale indotto Ulisse commise l’assassinio, c se ho
dirtiostrato esserci intervenuta ragione potentissima d’ inimicizie e timor di
pericolo, non v’ha dubbio ch’ci non
confessi che tale è stata la cagione del
suo delitto. L’ argomentazione più
perfetta è adunque quella che si compone di cin que parli ; ma non è
sempre necessario di usare quesla
maniera di argomenlazione. Imperciocché
vuoisi, per esempio, lasciar da parie la recapitolazione, quando la cosa
è così limitala che facilmente si possa tenere a memoria; e vuoisi pur
pretermettere l'ornamento, quando il soggetto poco si presta di per sé stesso all’amplificazione e
adornamento. Se 1’ argomentazione è breve, e nello stesso tempo è modesto il soggetto e poco
fecondo, bisogna allora astenersi daU'ornamento e dalla recapitolazione. In ogni argomentazione,
rispetto all’uso delle due ultime parli,
è da tener conto di quello clic ora ho
defto.L'argomcnlazioue più perfetta Iva dunque cinque parli; la più breve ne
ha tre, la mediocre, tolto via da essa o
l’ornamento o la rccapilolazione, ne ha
quattro. XX. Due generi di
argomentazioni viziose ci sono: 1’ uno,
che appartenendo propriamente alla x
causa può essere confutato dall’avversario; l’altro, che, essendo inconcludente, non ha bisogno
di venir confutato. Quali siano le
argomentazioni che convenga di
confutare, e quali quelle che debbansi deprezzare e passar sotto silenzio senza
confutarle, tu non potrai chiaramente conoscere se non li porgerò gli esempi. Questa cognizione
delle viziose argomentazioni li
apporterà due vantaggi: il primo, di
farli evitare i difetti nel ragionamento,
il secoudo , d’ insegnarli a conoscer facilmente quelli clic l’avversario non ha sapulo
cvilare. Poicliè adunque noi abbiamo mostralo che la perfetta e compiuta argomentazione si compone di
cinque parti, consideriamomi ciascuna
qualjsono i difetti da evitarsi,
acciocché e nei medesimi possiamo
guardarcene, e col metodo istesso attaccare le argomentazioni dogli
avversarli in lutto le parli loro, e
farle da alcuna parte cadere. L’esposizione è viziosa, quando, prendendo per
modello taluno, o la maggior parte degli
uomini, si appropria a lutti ciò che non
è conveniente necessariamente a tutti,
come se si dicesse così: « Tutti coloro clic sono poveri, amano meglio di procacciarsi
ricchezze con le ribalderie, clic
conservare la povertà seguendo il
dovere. » So uno esponesse così la sua argomentazione senza curarsi di cercare
qua! ne fosse la ragione o la
oonl'errpazion della ragione, noi potremmo facilmente confutare la sua stessa
esposizione, mostrando che è falso ed ingiusto attribuire a lutti i poveri ciò che può essere solo di
qualche povero malvagio. Parimenti è
viziosa l’esposizione, quando si afferma che ciò che accade di rado, non può punto accadere, come: « Niuno d’una
sola occhiata, e in passando, può esser
preso d’amore:» perciocché essendo pure
accaduto che taluno fa d’ un’ occhiala
preso di amore, c quegli affermando che ciò non è accaduto ad alcuno, poco
importa che poi ciò accada di rado, quando si sa che qualche volta accade od è
possibile che accada. Similmente è viziosa l’esposizione, quando noi mostriamo di avere enumerale tutte le
circostanze di un fatto, e ne ommeltiamo qualcheduna essenziale, per esempio: « Poiché adunque è
manifesto eh c stalo ucciso un uomo, è d’ uopoche sia stato ucciso o da malandrini, o da
nemici, o da te, cui egli ha per
testamento lasciato crede in parte. Di
malandrini in quel luogo non se pe sono
veduti mai, di nemici non ne aveva alcuno: non resta altro, che, se non è stato ucciso nè da
malandrini, che in quel luogo non ne furono mai, nè da nemici, cui egli non aveva, sia stalo
ucciso da le. » In siffatta esposizione
noi faremo uso della confutazione,
mostrando che altre persone, oltre a
quelle che l’oratore ha nominate, hanno potuto
commettere l’omicidio: come se nel citato esempio, allorché fu dello
essere d’ uopo che sia stato ucciso o da
malandrini, o da nemici, o da noi, risponderemo che egli potè essere ucciso o
dai proprii schiavi, o dai nostri coeredi. Distrutto in questo modo il
sillogismo dell’ avversario, ci verrà
aperto un più vasto campo di difesa. Bisogna adunque nella esposizione
evitare anche questo, di non tralasciare
alcuna parte essenziale, quando parer
possa essersi da noi raccolta Ogni cosa. Viziosa parimente è quella esposizione che si compone
d’una enumerazione falsa, come se, essendo più le idee, che si presentano, ne sponiamo meno,
come: « Due sono le cose, o giudici, che
spjngon tulli gli uomini al male, la
lussuria c l’ avarizia. Che? aggiungerà taluno; e l’ amore? e l’ambizione? e
la superbia? c la paura della morte? e
la cupidigia d’impero? tante altre
passioni in fine? » L’enumerazione ancora è falsa, quando, non essendovi campo che a poche idee, ne presentiamo molle, come: « tre cose molestano gli uomini: il
timore,, il desiderio, e la tristezza. »
bastava dire il timore e il desiderio,
perchè la tristezza va necessariamente congiunta sì all’ una sì all’ altra
delle due cose suddette. Ancora è viziosa quella esposizione che è pigliala troppo da lontano, per esempio: «
Madre di tulli i mali è la stoltezza la
quale più d’ogni altra cosa genera gl’insaziabili dcsidcrii; gl'insaziabili
desiderii non hanno nè fine nè misura; questi
generano l’ avarizia ; e l’avarizia spinge 1’ uomo a qualunque misfatto. Spinti dunque dall’
avarizia i nostri avversarti, sì
commisero un tale delitto. >; Qui
bastava esporre quest'ullima idea soltanto per
non imitare Ennio e gli altri poeti, ai quali è permesso di parlare in
questa maniera: « Oh avessero gli Dii
voluto che nella selva Pclia, dalle scuri taglialo, non fosse mai caduto a , terra il pino, e che con esso non si fosse
mai tolto di fabbricar la nave, clic or porla il nome di Argo; dalla quale trasportati gli eletti guerrieri
Argivi n' andarono a conquistare il
dorato vello di un montone in Colchidc
per Io perfido comandamento del re
Pelias ! Imperciocché giammai non avrebbe
la casa sua lasciala l’ errante mia padrona Medea, piena d’affanni il cuore, ferita di
uncrudcleamorc.» Qui sarebbe bastatoli
diro, (se il poeta si fesse dato
pensiero solo di-ciò clic era bastante):
« Oh avessero gli Dii voluto che giammai non avesse la casa sua lasciata I’ errante mia
padrona Medea, ferita d’ amore ! » Bisogna adunque ben guardarsineUo
esposizioni di questo genere di risalire a cose così lontane; perciocché non v’ ha bisogno che io mi perda
qui a biasimarne a parte a parte i
difetti, come di tante altre, quando è chiaro che sono viziosissime di per sé.
È poi viziosa quella ragione, clic non è
adattata alla esposizione, sia per la propria debolezza, sia per la sua
falsità. Pecca di debolezza quella
ragione, la quale non mostra che la cosa è
necessariamente tale quale è stata esposta, come in questo luogo di Plauto: « Castigare un amico, clic per colpa il
merita, è ingrato uffizio; m:r talora
utile e profittevole. » ' Questa è l’
esposizione : vediamo qual ragione ne è
addotta. Imperciocché oggi castigherò il mio amico per una colpa, per lo quale ei merita di
essere castigato. » Egli dimostra qual
sia 1’ utile da ciò che farà, non da ciò
che conviene di fare. È ragione falsa
quella, che consta di una ragione non vera, come in questo esempio: « L’ amore non è da
fuggirsi, perchè ei genera amicizia
verissima. )) 0 come in quesl’allro: « E
da fuggirsi la filosofia, perchè ella è
madre della indolenza c della pigrizia. » Se queste ragioni non fossero false,
noi dovremmo pure ammetter per vere le
esposizioni che le precedono. Ancora è debole quella ragione che non
arreca una cagione necessaria della
esposizione, come in questo luogo di Pacuvio: « Alcuni filosofi dicono clic la fortuna è
stolta, cieca, e insensata ; e vanno
predicando che ella volubile si lien
diritta sopra un globo di pietra, e clic
cade da quella parte verso cui la sorte spinge
il globo. I.a dicono eieea, perchè non vede il luogo dov’ella deve fissarsi; stolta, perchè è
crudele, incerta, instabile; insensata, perchè non sa distinguere nè chi merita
nè chi demerita- Altri filosofi poi vi
sono, i quali negano esserci per cag.ion di
fortuna veruna miseria, ma tutte cose reggersi dal caso; opinione, dicono essi, più verisimile,
la quale in fatto è tuttodì dall’
esperienza dimostrala ; ed Oreste ne è
un esempio, il quale prima fu re, e divenne poi mendico; il che gli accadde per
cagione del suo naufragio: dunque la colpa non fu della fortuna, j) Qui Pacuvió usa una ragione debole, quando afferma, che più veramente lutto si fa per
caso c non per fortuna; perciocché tanto
nell’uno quanto nell’ altro sistèma dei filosofi pur potè farsi che queirOrcstc, che era stato re, divenisse
mendico. È debole eziandio quella ragione, che
non ha che l’ apparenza della ragione, ma altro non dice che ciò che è stalo dello nella
esposizione, come: « Un gran male è l’avarizia per gli uomini, perchè gli
uomini per lo smodato desiderio delle
ricchezze vengono da molte e grandi incomodità travagliali. » Qui, se ben si
consideri, vicn data per ragione,
cambiale le parole, la cosa slessa, che fu detta nella esposizione. Ancora è
debole quella ragione, la quale
soggiunge alla esposizione una cagione meno idonea di quello che la cosa richiede, per esempio: « Utile è la sapienza,
perchè quelli che sono sapienti, hanno consuetudine di seguire la pietà. » Ovvero: « È utile aver
dei veri amici, perchè allora avrai con
chi scherzare. » Se noi adduciamo
siffatte ragioni, l’esposizione non
vieti confermala con una prova universale, assoluta, ma minima affatto. Ancora
è debole quella ragione, la quale si
possa appropriare anche ad un’altra
esposizione, come fa Pacuvio,chc arreca
la medesima ragione per provare tanto clic la fortuna è cicca, quanto
eh’ ella è insensata. Nella
confermazione della ragione vi sono molli difetti ^a evitarsi nel nostro ragionamento, e molli
altri da notarsi in quello degli
avversari!; c tanto più attentamente
vogliono essere considerati in quanto clic un’accurata confermazione della
ragione consolida mollo gagliardamente
tutta intera Ja nostra argomentazione. Appunto per ciò gli oratori diligenti nella eonfcrmazion della ragione
fanno uso della doppia conclusione, vale
a dire del dilemma, a questo modo: « 0
padre, voi mi colpite di una crudele ingiustizia. Imperciocché, se tenevate
Crcsfonlc per un malvagio, perchè me Io
concedevate a marito ? E se è un uomo
onesto, perchè, a malgrado mio e suo, mi
costringete a lasciarlo ? » Simili
conclusioni, ovvero dilemmi, o si rivolgeranno in contrario, osi confuteranno
in una delle due parti. Si rivolgeranno
in contrario così: « Io non commetto, o
figlia, contro di le veruna ingiustizia. Se egli è onesl’ uomc, rimarrà
tuo marito; ma se è malvagio, io por
mezzo del divorzio ti torrò a gravi mali. »
Si confuteranno in una delle due parti, se delle due proporzioni del dilemma si dissolverà ol’
una o l’ altra, come: Se stimavate
Crcsfontc un malvagio, perchè
concedermegli in isposa ? — Lo credetti un onesto uomo; m’ingannai; lo conobbi dappoi, c l’
odio adesso. « XXV. La confutazione adunque di un tale
dilemma si fa in due maniere: la prima maniera, mostrata di sopra, è più
ingegnosa; quest’altra è più facile a
trovarsi. Similmente è viziosa la conl'ermazion della ragione, quando malamente
usiamo come segno certo di una data cosa
un tal segno, che può significarne più
d’ una , per esempio : a Poiché colui è
pallido, fa d’ uopo clic sia stato
ammalalo. » Ovvero, « Fa d’uopo che colei abbia partorito, poiché tiene sulle braccia un
bambino.» Colesti segni non presentano
di per sé stessi una certezza, se non vi
•concorrano altri segni analoghi: che se vi concorrano, allora potremo più
facilmente avere la convinzione. È parimenti giudicalo diretto il dire contra
1’ avversario cosa , che. può convenire
o contra un altro, o conira quel medesimo clic parla, per esempio : « Miseri son quelli, che tolgono moglie; —
ma tu la togliesti due volle. » E ancora difetto usare una difesa, che sia
comune; per esempio: * Colui peccò per iracondia , o per inesperienza, o per amore. » Se
cosiffatte scuse si dovessero tenere per bpone, allora n’andrebbono impuniti i
più grandi delitti. Egli è parimente
Digitized by Google un altro
difetto il dare per cerio ciò che non è
generalmente ricevuto per tale, perchè è cosa pur sempre soggetta a controversia , per esempio
: « Olà, non sai tu che gli Dei, i quali
hanno il potere di muovere le còlesti cose e le terrestri, fanno tra loro pace, e manlengonsi in concordia? » CosVEnnio introduce Cresfontc, che porge
quesf esempio in favore del suo diritto, quasiché avesse già dimostrato con
ragioni abbastanza certe che la cosa è
così. È parimente difettoso ciò che sembra dirsi oramai troppo lardi , c ad
affare finito, come: « Se io avessi ciò
preveduto, o Quiriti, non avrei permesso
che la cosa venisse ad un tal punto; io avrei fatto così e colà; ma in quel
momento questo espediente non mi venne
al pensiero. » E ancora riguardalo come
difetto il cercar di coprire con una
qualche ombra di difesa un’ azione, che
fu manifestamente colpevole, per esempio : « Io sì ti lasciai, quando lutti venivano a
te, signore di un fiorentissimo regno; ma ora essendo tu da tutti abbandonato, io sola con
grandissimo mio. pericolo mi accingo a
riporti sul tuo trono, a Medesimamente è
riguardato siccome difetto che si dica
una cosa in modo che possa esser presa in un senso diverso da quello clic si
è voluto significare. Di tal falla
sarebbe questa sentenza, che fosse pronunziala da alcuno potente e fazioso in pubblica adunanza : « E meglio
avere un re che cattive leggi. » Imperciocché sebbene questa cosa possa essere della senza un fine
malizioso, persola cagione dicrescerforza airargomento, pure, poi’ la potenza
di colui che parla, non è detta senza un
odioso sospetto. È pur male l’usare
definizioni false o volgari. False sono queste, come se alcuno dica: « Non sono ingiurie se non
quelle che risultano da percosse o da
oltraggi. » Volgari definizioni son
quelle, che possono senza più trasferirsi ad altra cosa; come se alcuno dica :
« Il delatore è, per descriverlo in
breve, un uomo degno di forca; perciocché è un cittadino perverso e pestilenziale. » Qui usasi una definizione,
che non si addice meno al delatore che
al ladro, al sicario, al traditore.
Similmente è difetto pigliar come prova
ciò che è posto in djsquisizione; come se alcuno accusi altrui di furto, c
dica: « Questo colale • è un uomo
cattivo, avaro, fraudolento , e di ciò è
una prova il furto di cui viene accusalo. » È ancora difetto risolvere la cosa
in deputazione con altra egualmente in
deputazione, per esempio: « Non
conviene, o Censori, che leniate costui per
isousato da ciò che dice, clic egli non ha potuto presentarsi a voi, come si era obbligato con
giuramento; perchè, se non avesse potuto ritornare all’esercito, farebbe egli una scusa eguale
al tribuno militare? » Questo argoménto è vizioso per ciò clic viene recata innanzi per esempio non
una cosa già spedita e giudicata, ma
una cosa ancora indecisa e posta
egualmente in controversia. Altro
difetto si è, quando non si rischiara abbastanza la cosa che forma il punto essenziale della
controversia, e la si lascia da parte, come se fosse di già consentita; per esempio: « L’oracolo, se pur
lo intendete, parla chiaro ; egli comanda, che, se vogliamo impadronirci di
Troia, si diano queste armi a tale
guerriero qual si fu colui che le portò: questo guerriero ecco son io: è giusto
che io possegga le armi fraterne, e che
vengano aggiudicate a me, o come a
congiunto di Achille, o come all’ emulo
del suo valore. » Un altro
difetto si è quello di non essere nel
proprio parlare d’accordo con sè medesimo, e di contraddire a ciò che prima si èdetto, per
esempio: « Io non posso, meco medesimo
pensando, spiegare perchè io accusi costui; imperciocché se egli ha verecondia, perchè mai accuso io un uomo
che è onesto? Se poi ha un animo, che
non sente verecondia, perchè mai accuso io un uomo che fa poco conto di quello che dico? In verità egli
dà assai buone ragioni per non accusare
quell’uomo. E perchè dunque soggiunge :
« Ora io sì li farò smascheralo rimontando al principio ? » È similmente da biasimare ogni discorso che
urli la volontà dei giudici o degli uditori, elio ferisca le parti ch’ei
seguitano o le persone che da loro sono
amate, o che , per qualche altro modo
consimile, offenda le opinioni loro. Ancora è vizio non sostenere nella confermazione le cose
che nella esposizione si è promesso di
sostenere. Ancora è da guardarsi dal parlare di una cosa, allorché se ne ha
un’altra in controversia, e per evitar
questo difetto vuoisi por mente o di non aggiunger nulla al soggetto, o
di nulla levargli, o di non far cambiar
natura alla causa trasformandola in
un’altra, come appresso Pacuvio fanno appunto Zelo ed Anfione; i quali, dopo di avere
introdotta questione intorno alla
musica, d’ altro poi non ragionano che della natura della sapienza, c
dell’utilità della virtù. Vuoisi ancora osservare che, se l’accusa rechi una cosa, la difesa non ne
confuti un’altra, come fanno sovente
molti avvocati imbarazzati da una causa difficile; come: « Se taluno, venendo accusato di avere per broglio cercala
una carica, risponda clic sovente in
campo ha ricevuto ricompense da’ suoi
capi. » Se noi nel discorso degli
avversar» porremo una grande attenzione a
ciò, sovente li coglieremo in difetto, e per siffatto modo cogliendoli mostreremo, che essi nulla
dir possono intorno a quel soggetto. È
parimente vizio dir male di un’ arte , o
di una scienza, o di uno sludio
qualsiasi a cagione de’ vizii di coloro clic quel colnlc studio professano:
come quelli clic biasimano la Rcttorioa
a cagione della vituperevole condotta di
qualche oratore. Similmente è errore il
pensare che, poiché si è dimostrato essere stalo commesso il delitto,, sia pur anche
dimostralo chi ne è stato T autore, come:
« Egli è manifesto che il cadavere era
sfiguralo, gonfio, livido: dunque quel
tale fu tolto di vita con veleno. » Conciossia^
che se ad imitazione di molli si ponga ogni cura a provare che quel tale Tu avvelenato, si
verrà a cadere in un difetto non
picciolo; perchè non si cerca già, se vi
è stalo delitto, ma bensì da chi è stalo
commesso. XXVIII. È pur da riguardare
comevizio, quando si paragonano due
cose, lo esaltarne una, e non dir parola
dell’altra, ovvero parlarne con alquanto
di negligenza; come, qualora faccndosrquislione, se sia meglio clic al popolo si dia grano o
no, tu ponga cura ad enumerare quali
siano i vantaggi dell’ uno di questi
avvisi, c trapassi come di niun valore
quali esser possano i disavvantaggi dell’avviso opposto, ovvero nc dica
solamente i più piccoli. Altro vizio si è ancora, quando si paragonano due cose, pensare che sia necessario di
biasimarne una, perchè lodasi l’altra, come sarebbe: Se facciasi quislionc a quale dei due popoli
debbasi concedere onor maggiore, se agli
Albani o ai Vestini, per cagione di servigi prestati alla Rcpubblica Romana ; c
colui, che parla in favore degli uni,
dica offesa contro agli altri; perchè none necessario che, se In dai la
preferenza agli uni, dica poi male degli
altri. Imperciocché tu ben potrai, dopo
di avere assai lodali gli uni, impartir qualche
lode anche agli altri, per non dar a credere che tu abbi alquanto appassionatamente combattuto
contro alla verità. Altro vizio pure si è quello di levar controversia intorno al nome e vocabolo di
quella cosa, di cui può esser giudice
supremo l’uso: come fece Sulpizio, il
quale dopo essersi opposto al richiamo degli esuli, ai quali non era stalo concesso di difendere la propria causa, più
tardi, mutalo avviso, nel mentre clic
proponeva la legge medesima da lui prima
combattuta, sosteneva che quella era una
legge diversa per un semplice cambiamento di nomi: perciocché egli diceva di
richiamare non, già degli esuli, ma dei cittadini cacciali per violenza; quasi che fossesi indotta
controversia con qual nome dovessero
quelli venir chiamali dal popolo Romano,
o come se non tulli coloro, ai quali era
stala interdetta l’acqua e il fuoco, si dovessero chiamar esuli. Nondimeno noi
possiamo perdonargli, s’ ei lo feGC con
un perchè: quanto a noi riconosciamo
essere vizio muovere controversia per un semplice cambiamento di nomi. Poiché
l’ornamento consta di similitudini, di esempi, di amplificazioni, di giudicali,
e MODO HI. cT allri luoghi oralorii, alti a sviluppare cd arricchire
rargomenlazione, esamineremo quali esser
possano i vizii nell’ uso di questi mezzi. È viziosa quella similitudine, la quale in qualche
parte è disacconcia, e non presenta
eguali rapporti fra i termini della comparazione,
o nuoce all’ oratore che l’usa. È
viziosa 1’ esempio, se può essere tacciato di falsità, o è indegno di venire
imitato, o è al di sopra o al disotto
del soggetto. Ci ha vizio, se si adduca
un giudicato, che riguardi una quistionc diversa, o tal cosa, sopra cui non
v’ha alcuna contestazione; oppure, se è ingiusto, o tale, che gli avversar» possano addurne a loro
favore o più altri analoghi, o più
idonei. Medesimamente è difetto,
allorché l’accusato confessa il fallo, l’argomentare sopra quello, e dimostrare
che ha avuto luogo, bastando in tal caso
solamente amplificarlo. Similmente è difetto amplificare ciò che prima ha bisoguo di essere dimostrato, come: « Se
alcuno accusi un tale di avere ucciso un uomo, e, avanti di avere bastantemente provata 1’
accusa, amplifichi il delitto, e dica,
che niente v’ha di più indegno che di
uccidere un uomo : » chè non si domanda
già, se l’ azione sia o no indegna, ma se
veramente sia stata commessa. Le
recapilolazione è viziosa, quando primieramente non ripete ogni cosa nell’
ordine col quale fu detta innanzi;
quando non riepiloga con BREVITA; quando nella sua enumerazione non
presenta un insieme ben determinato c
chiaro, che faccia ricordare qual fu
Mila prova la proposizione o
esposizione, c in appresso la ragione; e finalmente la confermazione della ragione; in somma,
qual si fu P argomentazione tutta
intera. XXX. Le conclusioni , le quali
vengon chiamate dai Greci epiloghi , hanno tre parli, componendosi esse della
enumerazione, dell’amplificazione, e della commiserazione (1). L' enumerazione
è quella, per cui noi raccogliamo e ripetiamo in pochi detti quelle cose, di
cui abbiamo par- ' lato, non per riprodurre interamente, ma per richiamare a
memoria il discorso, ripigliando per
ordine tutto ciò che sarà stalo, dello, di maniera che si risveglino nella mente dell’ uditore
le idee eh’ egli avrà potuto ritenere.
Bisogna altresì nella enumerazione por
mente a non rimontare sino all’esordio od anche solamente alla narrazione,
perchè il discorso si parrebbe lavorato e preparato con isludio speciale per fare o prova d'
arte, o spaccio d’ ingegno, o
ostentazione di memoria. Per la qual
cosa converrà cominciare P enumerazione dalla divisione, c quindi esporre per
ordine Seguo il parere di Scliutz, clic giudica intruse le parole. In qualuor locis uli possumus, etc.,
c non le ammetto nella mia traduzione.
brevemente le cose che saranno state nella confermazione e nella confutazione
trattate. L’aroplilìcazione è quella, che ha per obbielto di eccitare gli uditori per mezzo de’luoghi comuni. Dieci
precetti facilissimi insegnano i luoghi comuni proprii ad amplificare l’accusa. Il primo luogo si
traedal1’ autorità , allorché noi rivochiamo alla mente quanto la cosa, onde trattasi', sia stala a
cuore agli Dei immortali, ai nostri
maggiori, ai re, alle città, alle
nazioui, agli uomini più sapienti, al senato; e
soprattutto in qual maniera speciale abbiano le leggi pronunziato intorno a siffatte cose. Il
secondo luogo è, quando noi esaminiamo a chi sono falle le azioni, onde noi accusiamo taluno ;
se all’universale degli uomini, il clic è il più grave delitto; se a superiori
(alla qual classe appartengono coloro, che noi abbiamo compresi nel luogo comune dell’ autorità) ; se ad eguali, vale a
dire ad uomini collocali nella stessa
condizione di ani- , mo, di corpo, e di
fortune; se ad inferiori, vale a dire ad
uomini, che rimangono da noi trapassati
in tutte coleste cose- Il terzo luogo consiste nel domandare che cosa ne interverrebbe , se a
ciascheduno si concedesse il simigliarne, cioè di fare quello che ha fatto l’ avversario ; e nel
mostrare quanti danni e mali seguir
possano dal lasciare impunito quel tale
delitto. Il quarto luogo consiste nel mostrare che, ove si mandi perdonato
il to reo, molli altri, che ancora sono
ritenuti dal timore di un giudizio, diverranno più pronti al misfare. Il quinto
luogo è , quando mostriamo che, se una
volta solo sia dato diverso giudizio, non vi
sarà più nulla che possa rimediare al male, o correggere F errore dei
giudici; nel qual luogo non sarà
disutile paragonare quel misfatto con altri,
per mostrare che alcuni possono venire o dal tempo tolti, o dalla
prudenza corretti; ma che cotesto da
niuna cosa umana può venire o tolto o corretto.
Il sesto luogo è, quando proviamo che fu opralo pensatamente, e diciamo che un atto
volontario non ammette veruna scusa, e
che F imprudenza sola può domandar
grazia. Il settimo luogo è , quando
mostriamo che F azione è abbominevolc,
crudele, nefando, tirannica: del qual genere sono gli oltraggi fatti ad una donna, o quelli che
cagionano le guerre, e fanno versare il sangue in battaglia. L’ottavo luogo è,
quando mostriamo che il delitto non è
comunale, ma singolare, sozzo, infame , senza esempio , affinchè venga punito
più prontamente e con maggiore severità.
11 nono luogo componesi della comparazione del delitti, quando si sostiene, per
esempio, che è un delitto più grande
recar violenza ad una donna libera , che
spogliare un tempio ; perchè a questa cosa può spingere il bisogno, a quella soltanto
intemperante burbanza.il decimo.luogo è
quello, pel quale lutto ciò che si è operato nel mandare a fine il fatto,
e tutto ciò che suol esserne
conseguenza, noi esponiamo con tratti così vivi, così accusanti, così distinti,
che si creda di vedere oprarsi e compiersi
il fatto stesso con tutte le sue ordinarie conseguenze. Per giungere
allo scopo di muovere la compassione.
nell’ animo dell’uditore noi dipingeremo le diverse mutazioni della fortuna ;
noi paragoneremo la nostra passata prosperità colla presente nostra disgrazia;
noi enumereremo e porremo sotto agli occhi le tristi conseguenze, che
deriverebbero per noi dalla perdila della nostra causa; noi supplicheremo i
nostri giudici, e raccomandandoci alla loro pietà ci commetteremo interamente
nel loro arbitrio; noi descriveremo i mali,
che per la calamità nostra cadrebbero sopra i nostri parenti, sopra i
nostri figli, sopra i nostri amici, dichiarando nel medesimo tempo che è il
loro abbandono e la loro miseria quella
clic più ci cuoce, e non già i nostri proprii mali ; noi ricorderemo la
clemenza, l’ umanità, la compassione , clic
abbiamo sempre usata verso gli altri ; noi dimostreremo che siamo stati
mai sempre o per lungo tempo nelle
avversità; noi lamenteremo il nostro
destino, la nostra sorte; noi finalmente prometteremo che in avvenire il
nostro animo sarà forte e paziente degli
avversi casi. Trattando la commiserazione converrà clic noi siamo brevi ;
perocché niente v’ ha clic più presto si
secchi quanto una lagrima. In questo
secondo libro noi abbiam trattate le quislioni presso a poco più oscure
deU’arte oratoria: laonde noi faremo qui
fine a questo libro. Kel terzo esamineremo gli altri precetti tanto quanto ci parrà conveniente. Se tu studierai
questo trattato con tanta accuratezza con quanta io ho procurato di comporlo, sì io raccoglierò
nella tua istruzione il frutto della mia
fatica, c sì tu stesso approverai nel medesimo tempo la mia diligenza e andrai
lieto del tuo progresso: le regole dell’arte adorneranno il tuo sapere, ed io
avrò maggior premura di dar compimento a ciò che resta. Son certo clic, in quanto a* le, accadrà ciò
che dico, perchè so quanto vali: noi intanto passiamo ad esaminare gli altri precetti per far paghi
i tuoi giusti desi lerii, la qual cosa è
per me la più cara diluite. Come ad ogni
causa del genere giudiziale convenisse
di applicare i precetti dell’invenzione,
abbastanza distesamente, io credo, fu dimostrato nei libri precedenti. In questo terzo libro
ora abbiamo riserbata la trattazione delle regole dell’invenzione spettanti
alle cause del genere deliberativo q dimostrativo per farti quanto più presto
conoscere tutta intera la teorica, che concerne l’ invenzione. Restano ancora
quattro parti della Rcttorica: tre verranno spiegate in questo libro, cioè la Disposizione, la Pronunciazionc, e la
Memoria: di quanto poi riguarda
l’Elocuzione, poiché essa richiede una
più ampia trattazione, abbiamo prescelto di parlarne in un quarto libro, il
quale finito ben presto, siccome spero, noi ti manderemo, affinchè veruna parte non ti manchi deH’arlc
oratoria. Infraliamo tu potrai ben apprendere queste prime parli e con noi, se li aggrada, e tal
fiata senza di noi, leggendole, acciocché nulla t’ impedisca di potere
avanzarli al pari di noi in quest'arte
del dire. Ora prestami tutta la tua attenzione: noi continueremo a camminare verso la prefissa
mela. II. Nelle deliberazioni o si
cerca quale di due partiti è il
migliore, o qual è in generale il partito
che si deve prendere. Quale di due parlili è il migliore, per esempio:
«Se abbiasi a distrugger Cartagine, o lasciarla sussistere ». Qual è in
generale il partilo che si deve
prendere, per esempio: « Come se Annibale, richiamalo dall’ Italia a Cartagine,
consulti se debba rimanere in Italia, o tornare
a casa, o andare in Egitto per impadronirsi di Alessandria». Alcune volte
la deliberazione cade sulla natura
stessa della quislione: «Come se il Senato
esamini, se debba o no riscattar dal nemico i prigionieri ». Altre volte
la deliberazione viene indotta da qualche cagione esterna: « Come se il Senato nell’occasione della guerra Punica
deliberi, se dispensi con Scipione, acciocché ei possa essere nominato consolo prima che abbia l’età
voluta dalla legge ». Altre volle la deliberazione e riguarda la natura stessa della quislione, e
di più viene indotta da qualche esterna
cagione: «Come se il Senato deliberi,
nella guerra Italica, se debba dare o no
il diritto di cittadinanza agli alleati ». Io
quelle cause, in cui la deliberazione riguarderà lo natura stessa della quislione, il discorso si
aggirerà sempre intorno al soggetto. In quelle cause poi, in cui la deliberazione verrà indotta da
esterna cagione, dovrassi questa stessa cagione o innalzare o deprimere. Ogni
discorso di colui, che in una
deliberazione dà il suo parere, conviene
che si proponga per fine 1’ utile, di modo che dovrà ogni mezzo oratorio
tendere a questo fine. In una
discussione politica l’ utile ha due parli, la
sicurezza e l’onestà. La sicurezza consiste nell’evitare con
qualsivoglia mezzo un pericolo presente
o futuro. Essa si appoggia o sopra la forza o sopra l’ inganno; e noi
potremo usare o separatamente ciascuno di questi mezzi, o lutti e due insieme.
La forza si spiega per gli eserciti, per le
flotte, per le armi, per le macchine di guerra, per le leve degli uomini, e per le altre cose di
questo genere. L’inganno si compie per
danaro, per promesse, per dissimulazione, per celerità, per mcnlimenlo, c per
altri spedienti, di cui parlerò a tempo più opportuno, se mai applicherò l’
animo a scrivere sopra l’ arte militare,
o sopra 1’ amministrazione della cosa pubblica (1). L’onestà si compone del
bene e del lodevole. Il bene è ciò che
risulta dalla virtù e dal dovere. Il bene comprende Questo è un altro
luogo, che induce a credere che Cantore
della Rettorica sia proprio Cicerone. Egli fa
menzione di due opere, le quali si sa essere state più tardi da lui composte. la prudenza, la
giustizia, la fortezza, la temperanza. La prudenza è una certa finezza d’
ingegno, che, dietro un certo calcolo,,
può scegliere tra i beni ed i mali:
chiamasi ancora prudenza la cognizione di un’ arte: parimente appellasi
prudenza una memoria ricca di molte cose
congiunta ad una esperienza grande negli
affari. La giustizia è l’ equilà, che dà a ciascuno ciò che gli è dovuto
secondo il suo merito. La fortezza è la bramosia delle grandi cose, il disprezzo delle volgari, e la
tolleranza della fatica in ragione della loro utilità. La temperanza è nell’ animo una facoltà
moderatrice, che contiene le
passioni. III. Il nostro parlare
appoggerassi alla prudenza, se, paragonando i vantaggi coi danni, consiglieremo
a cercare gli uni e ad evitare gli altri: o
se consiglieremo in alcuno frangente qualche misura da noi sperimentata
o conosciuta, c mostreremo in che modo e con quali mezzi noi possiamo conseguire lo intento; o se persuaderemo un
partito, del quale o abbiamo noi stessi veduto i vantaggi, o abbiamo udito a
raccontarli: nel qual caso ci sarà
ognora facile di tirare altrui nella persuasione di ciò che vorremo, recando l’
esempio. Noi faremo buon uso delle parti
della giustizia, se imploreremo la pietà in favore o degli innocenti v dei supplicanti; se mostreremo essere
conveniente di rendere il guiderdone ai
benemeriti; se proveremo essere d’uopo vendicarsi delle offese; se giudicheremo doversi ad ogni costo serbar la
fede; se diremo doversi scrupolosamente
rispettar le leggi e le costumanze sociali; se diremo doversi con amore coltivare le alleanze e le amicizie ;
se dimostreremo doversi religiosamente osservare i doveri, che la natura c’
impose verso i parenti, gli Dei, la
patria ; se diremo doversi inviolabilmente
guardare le ospitalità, le clientele, le consanguineità, i parentadi; se
mostreremo non doverci noi, nè per
guadagno, nè per favore, nè per pericolo,
nè per invidia, allontanare dal diritto cammino; se diremo dover noi in ogni nostra azione aver
di mira l’equità, la giustizia. Con simili
ed altri mezzi, che la giustizia ci offre, se nell’ assemblea popolare, o nel
consiglio avviseremo esser da fare
alcuna cosa, proveremo che è giusta; e coi mezzi conlrarii, che è ingiusta. Così i luoghi
medesimi ci gioveranno tanto al
persuadere quanto al dissuadere. Se diremo che vuoisi far cosa per fortezza
d’animo, proveremo che non solo bisogna cercare e volere le cose grandi ed
eccelse, ma ancora che gli animi forti
debbono disprezzare le cose umili e
basse, e riguardarle siccome inferiori alla
propria loro dignità. Parimente diremo che non bisogna mai lasciarsi allontanare da veruna
cosa onesta per grandezza di pericolo o
di fatica; che bisogna preferire la
morte all’ infamia ; che niun dolore ci dee costringere ad abbandonar la
virtù; che non dobbiamo temer le
inimicizie d’ alcuno per cagion del
vero; che per la patria, pei parenti, per gli ospiti, per gli amici, per tutto
ciò insomma, che la giustizia vuole da noi, bisogna affrontare qualunque
pericolo, e sottostare a qualunque
disagio. Noi ricorreremo alle parti della temperanza, se biasimeremo la
smodata avidità degli onori, dell’oro, e
d'altre cose siffatte; se racchiuderemo tulli i nostri desiderii nel giusto
limite delia natura ; se mostreremo a
ciascuno quanto può bastargli,
dissuadendolo dal passar quel punto, e statuendo la sua misura ad ogni cosa. Di
tal fatta sono le parti proprie della virtù,
le quali sono da amplificare, se vuoisi
persuadere, e sono da attenuare, se trattasi di dissuadere; e così saran pure
attenuali quei mezzi che ho indicati di sopra.
Conciossiachè nessuno vi sarà, il quale stimi di dover lasciar da parte la virtù; ma ò noi
presenteremo le parti, che confuteremo, siccome non offerenti alla virtù i
mezzi di prodursi, o mostreremo che la
virtù troverà meglio il suo posto nelle parti
contrarie. E così mostreremo, se ci sarà possibile, che quella cosa, che
all’ avversario nostro è piaciuto di chiamare giustizia, altro non è Che
dappocaggine, e infingardia e viziosa licenza ; che quella, ch’ei chiamò prudenza, altro non è
che una scienza inetta, garrula c
noiosa; che quella, eh’ egli appellò temperanza, altro non è che mera pigrizia e scioperata negligenza; che quella
finalmente, eh* ei disse fortezza, altro non è che gla' dialoria e spensierata
avventatezza. IV. Il lodevole è ciò che
ci procura, e pel presente e per l’ avvenire, un’ onorevole riputazione. Noi lo distinguiamo dal bene, non perchè
queste quattro parti, che comprendiamo
sotto alla parola bene, non ci procurino
per solito questa onorevole riputazione
; ma perchè quanlunque il lodevole nasca
dal bene, pure è necessario che nel discorso l’uno e l’altro siano
separatamente trattati. Infatti egli non si dee cercare il bene per amore della sola lode, ma se la lode ne deve poi
esser la mercede, la volontà del ben
fare raddoppierà di forza. Così, dopo di
aver dimostralo die 1’ azione è buona,
noi proveremo o eh’ ella otterrà le lodi
di giudici competenti ( comò se, biasimala da persone di basso ordine,
debba venire approvata da persone di più
elevalo ordine ); o eh’ ella sarà lodata da alcuno de’noslri compagni, o da
tutti i cittadini, dalle estere nazioni, e dalla posterità tutta. Essendosi di
già veduto come si dividano i luoghi concernenti le cause del genere
deliberativo, ora esporremo con tutta
brevità come debba essere distribuito
l’intero discorso. Si potrà adunque incominciareo dall’esordio diretto, o
dall’esordio per insinuazione, facendo
uso degli stessi mezzi che abbiamo irrdicati per le cause del genere
giudiziale. Se intervenga un Fatto da raccontare, si seguiranno le stesse
regole già date per la narrazione.
Poiché in questa sorte di cause il fine è 1’ utile, e quest’utile abbraccia la sicurezza e
l’onestà; se potremo servirci d’entrambe
le cose, imprenderemo nel nostro discorso a dimostrare che noi abbiamo per fine
e l’una e l’altra; c se saremo obbligali di ristringerci ad una sola,
annunzieremo qual è quella che vorremo
far valere. Se diremo di aver per iscopo
la sicurezza, la nostra divisione riguarderà la forza ed il consiglio; perocché
ciò che. nel precetto, per esser più
chiaro, io chiamai inganno, nel nostro
discorso sarà più onesto chiamar consiglio. Se diremo di aver per fine l’onestà
o sia il bene, e tutte le parti del bene
converranno al soggetto, allora lo divideremo in quattro parti;se tutte non potranno convenire, esporremo nel
discorso sol quelle che ad esso soggetto
converranno. Nella confermazione e nella
confutazione ci serviremo dei luoghi,
che abbiamo già indicali, per ben convalidile i nostri mezzi, ed abbattere
quelli degli avversari!. Per la maniera
poi di trattare 1’ argomentazione artificiosa si consulterà il secondo libro.
V. Ma se accada, che nella consultazione il parere dell’uno si appoggi
sopra ragione di sicurezza, e il parere dell’ altro sopra ragione di onestà.
come nel caso di coloro, che, assediali dai Cartaginesi, deliberano intorno al
partilo da prèndersi; colui, che
consiglierà doversi preferire la sicurezza, farà uso de’luoghi seguenti: Che
nessuna cosa è più utile della propria
conservazione; che si rende impossibile l’uso della virtù a colui che non
ha provveduto innanzi alla propria
sicurezza;chc neppure gli Dei vengono in soccorso di coloro che si gettano sconsigliatamente nel pericolo; che
non s'ha da stimar cosa onorevole quella
che mette a repentaglio la nostra
salute. Colui, al contrario, che
consiglierà di preferire l’onore alla sicurezza, farà uso de’luoghi seguenti: Che in nessun
tempo si deve rinunziare alla virtù; che
il dolore (se è ciò che si teme), che la
morte (se è questa che si paventa), sono ben piccola cosa a petto al
disonore e all'infamia; che s ha da
considerare quale ignominia ne -verrebbe altramente; c che nondimeno noi non ne conseguiremmo nè vita immortale,
nè perpetua felicità; che niente ci
assicurerebbe che, sfuggito quel
pericolo, noi non cadessimo in alcun atiro;
che per la virtù è bello andare anche volontariamente a morte; che al coraggio
è solita venir pure in aiuto la fortuna;
che vive sicuro chi vive con onore, non
chi sol guarda alla sicurezza presente; e che chi vive nell’ignominia goder non
può di una perpetua felicità. Le
conclusioni nel genere deliberalivosono d’ordinario le medesime come nel genere
giudiziale, se non che in questagenere
torna utilissimo recare il più gran numero possix bile di esempi di
falli anteriori. VI. Passiamo ora al
genere dimostrativo. Poiché questo
genere ha per iscopo la lode od il biasimo,
noi con certi mezzi costituiremo la lode, e coi mezzi contrarii trovar potremo il biasimo. La
lode adunque può riguardare o le qualità
esteriori, o l'animo, oil corpo. Le
qualità esteriori sono quelle che ci
possono venire o dal caso, o dalla fortuna,
sì buona, si cattiva; come la nascita, l'educazione, le ricchezze, il potere, gli onori, la
patria, le amicizie, e tutti i vantaggi finalmente di questa specie; e per
l'opposto le cose tutte che a queste sono
contrarie. 1 vantaggi o disavvantaggi del corpo son quelli che la natura attribuì al corpo
stesso, come l’agilità, il vigore, la dignità, la sanità, e le cose a queste contrarie. 1 vantaggi o i
disavvantaggi dell’animo sono quelli che dipendono dalla nostra volontà e dal
nostro intendimento, come la prudenza, la giustizia, la fortezza, eia
temperanza, e quelle cose che sono contrarie a queste (l).In una orazione di
questo genere si piglierà (t) Nel testo
trovansi qui le seguenti parolè : Erit
igitur haec confirmatioet confutatio nobis; ma parendomi con lo Scliulz
che siano affatto fuor di luogo, io le
ricuso come inlegitlime, e non le traduco. l’esordio odalla nostra propria
persona, odalla persona di colui, del quale parliamo, ovvero da quella degli uditori, o dal soggello slesso. Dalla
nostra persona: Se loderemo alcuno, diremoche noi facciamo ciò o per dovere, perchè fra quello e noi
passa un vincolo di amicizia ; o per
propensione, perchè esso è dotato di
tanta virtù, che tutti deggiono volerlo celebrare; o infine perchè è diritta
cosa mostrare, lodando altrui, qual sia T animo nostro, o sia il nostro carattere. Se biasimeremo, noi
diremo che facciano questo o a buon
diritto, perchè anche noi fummo così
trattati; o per amor del bene, perchè noi riguardiamo come utile che da tutti
sia conosciuta una malizia e
scelleratezza unica; o finalmente perchè biasimando altrui amiamo di far conoscere ciò che a noi non piace. Dalla
persona, di cui noi parliamo: Se
loderemo alcuno, noi diremo che abbiam timore di non potere colle parole raggiungere l’altezza delle sue azioni; che è
d'uopo che tulle le lingue imprendano a celebrare le sue virtù ; che gli stessi suoi fatti passano
l’ eloquenza di tulli i panegiristi. Se biasimeremo, potremo due quelle cosè
che ci parranno contrarie a queste,
cambiando poche parole, come con l’esempio fu poco innanzi dimostrato. Dalla
persona degli uditori : Se loderemo
alcuno, diremo che , parlando noi
davanti a persone che bene lo conoscono, spendiamo poche parole per sola
cagione di avvertire; o se non fosse a loro conosciuto, domanderemo che
vogliano ben conoscere un tal uomo,
perchè trovandosi nello stesso amore della
virtù coloro stessi dinanzi ai quali lodiamo, nel quale amore è pure stata od è la persona,
clic da noi si loda, speriamo che
saranno più facilmente per approvarci
suoi fatti giusta il desiderio nostro.
Il biasimo starà nei mezzi contrari: poiché, se è conosciuta la persona,
affermeremo che noi siamo per dire poche
cose della scelleratezza sua; e se non
sarà conosciuta, domanderemo che vogliamo ben conoscerla, affinchè possano schivare la sua
perversità; perchè essendo coloro, clic odono, dissimili al tulio da colui che
si biasima, noi speriamo che saranno per
disapprovare altamente lasua condotta. Dal soggetto stesso : diremo che siamo
incerti qual cosa dobbiamo principalmente lodare ; che abbiamo timore che, anche dicendo molle
cose in favore del nostro soggetto, noi
ne ommetliamo ben molle di più; c
continueremo con sentenze di questa
forma ; alle quali sentenze sostituiremo le
contrarie, ove si tratti di biasimare.
VII. Trattato l’esordio conformemente ad alcuna di quelle fonti, di cui abbiamo parlato, non
sarà necessario elicne segua alcuna
narrazione; ma se mai ne intervenga una,
c che siamo obbligati di, raccontare con
lode a con biasimo qualche azione della persoua
di cui togliamo a parlare, cercherò
LIBRO III. 9i mo le regole della narrazione nel primo
libro. La divisione verrà fatta così:
Primieramente esporremo le cose, che vorremo lodare o biasimare; poi diremo con ordine, come cd in qual tempo
ciascuna nazione ha avuto luogo, affinchè si sappia ciò che è stato fatto, e con quale sicurezza e
precauzione. Ma converrà render conto delle virtù o dei vizi dell’animo, e mostrar poscia come
l’animo abbia tratto partito dai vantaggi o disavvantaggi del corpo o delle qualità esteriori. Per
descrivere la vita terremo quest’ordine:Cominciando dalle qualità esteriori, parleremo della slirpe;a lode
della persona, diremo di quali maggiori sia nata; è di nobile stirpe, diremo ch’è stala pari o al disopra
della sua stirpe; se è di bassa origine,
diremo che essa ha trovato suo presidio
non nelle virtù degli avi, ma . nelle
sue. A biasimo; se sarà di nobile schiatta, diremo che è stala di disonore agli
antenati; se sarà di bassa estrazione, che
nondimeno ha pur loro recato scapito.Parlando poi dell’educazione, se si tratti
di lode, diremo che la persona, di cui si parla, è stata per tutta la puerizia bene ed
onestamente educata nelle v buone discipline; se si tratti di biasimo, diremo il contrario. Dopo ciò passeremo ai
vantaggi del corpo. Cominciando dalla
natura, se si tratti di lode, diremo
che, se quest’uomo ha in sè congiunta dignità e bellezza, ciò gli ha giovato ad
onore, non a danno e a vergogna, come a
tanti altri ; se ha forza ed agilità singolare, diremo che ciò è stato l’ctTeUo di onorevoli esercizii e industrie;
se gode di una costante sanità, che ciò
è il fruito delle sue cure, e della sua
temperanza nelle passioni. Se si tratti
di biasimo, se egli possegga questi vantaggi
corporali, diremo che ha fatto mal uso di questi doni, ch’ei deve, come qualsivoglia
gladiatore, al caso e alla natura ; se
non ne possegga alcuno , tranne la
bellezza, diremo che ne è stalo privato
per sua colpa ed intemperanza. Appresso noi ritorneremo alle cose esteriori
, e considereremo quanto abbiano potuto
sopra di esse le virtù o i . vizii
dell’animo: se egli sia ricco o povero; quali
sono le sue cariche, le sue glorie, le sue amicizie, le sue inimicizie; nel sostenere le
inimicizie, che ha mai opralo di forte;
per qual cagione s’ è egli procaccialo
inimicizie ; con qual fede, con quale .
amore, con quale ossequio ha coltivate le amicizie: qual si fu nelle ricchezze ; o nella povertà
come si è egli condotto ; qual animo ha
egli mostrato nell’esercizio del potere
; se egli non è più, qual » è stata la
sua morte; quali conseguenze ha la sua
morte prodotte ? Vili. Tutti poi
gli atti, pei quali si manifesta l’attività dello spirito umano, vogliono
essere rapportati alle quattro virtù dette più sopra; di maniera che, se lodiamo, noi diremo che si oprò con
giustizia, con fortezza, con temperanza, con prudenza ; c se biasimiamo, noi
diremo che si oprò con ingiustizia, con
codardia, con intemperanza, con
istoltezza. Per questa disposizione si vede ormai chiaro come si devono trattare le tre parli
della lode e del biasimo ; solo
avvertiremo clic non è necessario che
noi nella lode e nel biasimo facciamo entrare tulle queste tre parti, perchè
sovente non vi tornano neppur tulle in
acconcio, c sovente vi hanno così poca
importanza, che è inutile di parlarne:
laonde farà d’ uopo sceglier di queste
tre parti quelle che parranno offerire più solido argomento. Le conclusioni dovranno esser
brevi ; e si faranno entrare nel corso
stesso della causa frequenti e brevi
amplificazioni tolte a’ luoghi comuni. Nè, perchè questo genere di causa si
presenti di rado nella vita, si dee perciò meno diligentementcconsiderarc;
conciossinchè bisogna pur volere poter
fare acconciamente ciò che può accadere di dover fare alcuna volta. E ancorché
meno spesso si tratti separatamente
questo genere dimostrativo, pure accade di sovente che nelle cause giudiziali e deliberative intervengano molte
parli di lode o di biasimo. Per la qual
cosa noi giudichiamo' doversi collocare qualche poco di studio anche in questo genere di causa. Ora, poiché
abbiamo terminata la parte più difficile della Rettorica, vale a dire, poiché
abbiamo illustrata l’ invenzione, e adattata questa ad ogni genere di causa, è
lempoche ci accostiamo alle altre parli. Prenderemo dunque a parlare della
disposizione. IX. Poiché la
disposizione è quella che c’ insegna a meltere in ordine le cose
somministrateci dairiuvcnzionc, sì che
ciascuna abbia il suo posto determinato
che le conviene ; facciamoci a mostrare qual modo debba tenersi in tale
operazione. Due sorte di disposizione ci
ha: P una, che dipende dalle regole dell’ arte, e 1’ altra, che si conforma
alle occasioni. Noi disporremo secondo le regole dell’ arte quando seguiremo i
precetti che nel primo libro abbiamo
dati; i quali sono di usare l’ esordio,
la narrazione, la divisione, la confermazione, la confutazione, la conclusione;
e di osservare nel discorso 1’ ordine di queste parli in quel modo che abbiamo innanzi prescritto.
Parimente sarà secondo le regole dell’
arte, quando noi distribuiremo non solo l’ insieme del discorso, ma aneora le diverse parti dell’ argomentazione,
spiegate net secondo libro, cioè l’ esposizione, la ragione, la confcrmazion della
ragione, gli ornamenti, e la recapilolazione. Due disposizioni adunque ci ha : 1’ una di tutto il discorso, e 1’
altra dell’ argomentazione, così l’una comel’altra fondale sulle regole dell’ arte. Ma vi è un’ altra
disposizione, la quale, lasciata al
giudizio dell’ oratore, allora che bisogna
allontanarsi dall’ ordine fìssalo dall’ arte,
si conforma all’ occasione ; come se s’ incominci dalla narrazione, o da
qualche argomento dei più solidi, o
dalla lcllura di qualche testo ; o se dopo
1' esordio si passi alla confermazione, c poscia alla - narrazione; o se invcrtasi nel modo stesso
l’ordine regolare ; il che non bisogna
mai fare, se non quando la causa ciò
richieda assolutamente. Se, per esempio,
ci parranno assordale le orecchie degli uditori, e stracchi gli animi loro dai.
nostri avversarti per l’abbondanza delle parole, sarà bene lasciar 1’ esordio, e incominciare la causa o
dalla narrazione o da qualche robusto
argomento. Poscia, se sarà vantaggioso, perchè non è sempre necessario, ci sarà lecito di ritornare alle
idee proprie dell’ esordio. X. Se la
nostra causa parrà circondata da molta
difficoltà, sì che nessuno abbia I’ animo disposto ad udire favorevolmente l’ esordio, noi, dopo
aver dato cominciamenlo dalla narrazione,
potremo tornare indietro, esponendo le idee che sarebbero convenute all’esordio. Se la narrazione essa
stessa parrà poco probabile, daremo
cominciamenlo da qualche argomentazione
solida. È sovente necessario ricorrere a questi cambiamenti e a queste trasposizioni di parli quando lo stesso
soggetto ci obbliga a cambiare ad arte
la disposizione prescritta dall’ arie. Nella confermazione e nella confutazione
conviene altresì di seguire disposizioni
simili delle argomentazioni ; collocare nel principio e alla fine le
argomenlazioni più valide; c le
mediocri, c quelle clic non sono nè inutili alla causa, nè necessarie a convincere, che,
separatamente presenlalc, e ad una, ad una, sarebbero deboli, ma clic riunite
alle altre divengono forti e decisive, dovranno essere collocale e disposte
nel mezzo. Imperciocché, fatta la
narrazione, l’animo dell’uditore aspetta
subitamente gli argomenti che possono
confermare la causa. Bisogna adunque recare nel mezzo qualche solida prova. E
fioichèle cose dette in fine sono quelle
che più facilmente s’ imprimono nella
memoria, è utile, alla fine del
discorso, lasciare nell’animo degli uditori la fresca impressione di un molto solido
ragionamento. Questa disposizione di
mezzi, simile a buona' ordinanza di soldati, può facilissimamenleneldire,
siccome quella nel combattere, procacciar la vittoria. XI. Molli Retori riguardarono la
pronunciazionc siccome ciò clic v’ ha di
più utile all’ oratore, e di più
acconcio a generare la persuasione. Quanto a
me, non dirò tanto facilmente eh’ ella sia la più importante delle cinque parli della
Rettorica, ma sì non temerò di affermare
che nella pronunciali) Chi legge il libro II. De Oratore, capo 77, Si chiama articolo, o inciso la distinzione,
che si fa di ciascuna parola per pause,
tenendo sospesa la frase sino all’ ultimo :
per esempio: « Coll’impeto, colla voce, coll’ aspetto hai sbigottiti gli
avversar». » E parimente: « Tu coll’
invidia, coll’ ingiustizia, coll’ autorità, colla perfìdia hai tolto via i nemici. » Tra la
veemenza di questa figura, e quella della
precedente ci ha questo divario, che
quella fa passi più tarpi e più radi, e
questa s’ avanza più rapida e più pronta. In
quella mi pare di veder portare la spada al petto dell’ avversario da braccio allungato c pugno
slret lo, e in questa venirneferilo il petto da colpi spessi e rapidi . La continuazione o il periodo è
una stretta e non interrotta
concatenazione di parole in sino a senso
compiuto. Noi trarremo grandissimo
vantaggio da questa figòra , se l’ useremo in tre parti : nella sentenza, nel contrario, nella
conclusione. Nella sentenza, per esempio : « Non può la fortuna fare gran danno a colui che pose suo
presidio più fermamente nella virtù, che nel caso . » Nel contrario; per esempio : « Se alcuno non
locò molla speranza nel caso, qual danno
sì grande far gli potrà il caso? » Nella
conclusione; per esempio: « Se la
fortuna può moltissimo su di quelli , che
tutti i fatti loro lasciano in cura del caso, non bi* sogna adunque tulle cose commettere alla
fortuna, onde ella non piglia su di noi
troppo grande dominio. In queste tre ligure la concatenazione delle parole è così necessaria alla forza del
discorso, che poco valente sarebbe
tenuto un oratore, se non sapesse la
sentenza, il -contrario e la conclusione con ben congiunte locuzioni esporre.
Ci sono ancora altri casi, in cui la
continuazione può usarsi con vantaggio,
benché non sia proprio necessario 1’
usarla. XX. Si chiama Compar quella
figura, che ha in sè i membri, che già
dicemmo, della frase formali quasi del
medesimo numero di sillabe. Ciò non otteremo già col coniare le sillabe ( il
che sarebbe una puerililà ), ma bensì l’ uso c l’esercizio ci metteranno in
grado per un certo naturai senso di conformare ciaschedun membro a quello che
avrem posto di sopra; per esempio: « In
battaglia il padre succumbeva.a casa il
figlio s’ammogliava, ciò lutto un fatai
caso governava. » E parimente : « Alla
fortuna dee l’uno la felicità, all’ industria deo l’altro la virtù. »
Sovente però può intervenire in questa figura, che il numero delle sillabe non
sia affatto eguale, e nondimeno paia esserlo, se anche l’uno o l’ altro membro è più corto di una o
di due sillabe; ma neH’uno essendo più
le sillabe, nell’altro la sillaba o le sillabe siano più lunghe e più piene; talché la lunghezza o la pienezza di
queste sillabe compensi e pareggi il
maggior numerò delle sillabe dell’altro
membro. Si chiama SimiUter cadens una figura , quando nella medesima struttura delle parole se ne hanno due o più,
le quali per egual modo nei medesimi
casi si pronunziino, per esempio: « Hominem laudas egentem virtutis, abundaniem
fclicitutis. E parimente :’ « Cuius omnis in pecunia spes est, eius a sapienlia est animus remotus. Diligenlia
comparai divitias, negligentia corrumpit animum; Tu lodi un uomo povero di virtù, ricco di
felicità. unno ìv. - et tamen quurr* ita vivit, neminem prue se dadi hominem. La figura Similiter desinens si
haquandoleparole presentano una stessa desinenza, senza die i casi siano gli stessi; per esempio: « Ttirpiier
audes facere, nequiter sludes dicere. Vivis invidiose, delinquis studiose,
loqueris odiose. E parimente: « Audaeter lerritas , humiliter placas ».
Queste due figure, V una delle quali consiste nella simiglianza delle desinenze, e l’ altra nella
simiglianza dei casi, mollo bene si accordano fra loro; anzi i buoni scrittori per lo più le
collocano insieme nelle stesse parli del discorso. Ciò si farà nella seguente maniera: Perditissima ratio est
amorem petere, pudorem fugere, diligere
fonnam, negligere famam ». Qui le
parole, ebe hanno casi, Colui, che ita messo tutta la sua speranza nell’oro,
Ita l’animo ben lontano dalla saviezza. Acquista le ricchezze colla operosità, e corrompe il
proprio animo colla inlìngardaggiue; e nondimeno, vivendo in tal guisa, nessuno reputa uomo a confronto di sè.
Osi oprare disonestamente, e ti studii a parlare scelleratamente. Odiosa è la tua condotta,
ami il defitto, ed offensivo è il tuo parlare. Audace sci nel minacciare, umile
nel supplicare. Niente di più vergognoso può farsi quanto di finiscono con casi
simili, e quelle che non ne hanno, finiscono con la stessa desinenza. L’
annominazionè o paranomasia si ha ,
quando si ripete la stessa parola, o lo stesso nome cambiandovi una o due lettere, una o due
sillabe; o quando si applica la medesima
parola a due cose fra loro differenti.
Ella si forma per molle e varie maniere.
Colla diminuzione o contrazione della
stessa lettera, per esempio : « Hic qui se
magni fiee iactat , atque ostentai , veniit a te ante, quam Romam venit (1) ». 0, facendo il
contrario, per esempio: « Hicquos
homines alea vincil, eos ferro statini
vincit. Coll’ allungamento della medesima
lettera, per esempio: Hunc avium dulcedo ducil ad avium (3) ». Coll’
abbreviazione della medesima lettera,
per esempio : « Hic torneisi videtur esse honoris cupidus , tamen non tantum curiam diligit, quanlum Curiam. abbandonarsi all’ amore, e di rinunziare al
pudore; di esser avidi della bellezza e
non curanti della fama. Costui, che spiega tanta giattanzac ostentazione, fu da
te venduto avanti che fosse a Roma venuto »,
(2) « Quelli, che costui in giuoco vince, tosto di catene avvince. Il
canto degli uccelli trae costui fuor di via ». « Benché costui paia ambizioso degli onori
pur non ama tanto la curia quanto Curia.
Curia è una cortigiana famosa. Aggiungendo delle lettere, per esempio « Hic
sibi posset temperare , nisi amori
piatici ottemperare ». Levando delle
lettere, per esempio: « Si lenones
vilasset tanquam leones , vilae se tradidisset. Trasponendo delle lettere, per
esempio: « Videte , iudices, utrum Uomini navo, au vano credere malilis. E parimente: Nolo esse laudator, ne videar adulator. 0 mutando
una lettera : per esempio : « Deligere oportet , quem velis diligere. Di tal fatta sono le
annominazioni o paronomasie, che fanno sostenere alle lettere un leggiero cambiamento, sia
allungandole, sia trasponendole, sia assettandole in altra maniera non molto diversa. Yi ha altre paronomasie, in cui le
parole non hanno una cosi stretta rassomiglianza,
ma conservano però una certa analogia fra loro. Eccone una dì questo genere: « Quid veniam, qui
siiUj quare veniam, quem insimulem , cut
prosim, Egli poiria temperar se stesso, se non amasse meglio ottemperare alTamore. Se fuggiti
avesse i lenoni come i leoni, avrebbe
conservata la vita. Vedete, o
giudici, se amate piuttosto di prestar
fede a un uomo coraggioso o ad un uomo vano. Non voglio essere lodatore
per non parere -adulatore. Egli conviene
scegliere colui che tu vuoi amare. quem postulerà, brevi cognoscetis Qui
si trova in alcune parole una certa
analogia, che fa d’ uopo ricercar meno
che quelle degli esempi precedenti, ma
che pur vuol essere qualche volta usata.
Ecco un’altra forma della medesima figura:, Demus operaia , Quirites ne omnino
Paint Conscripli circumscripti pulentur.
Questa paranomasia si accosta alla
rassomiglianza perfetta un poco più che
la precedente, ma meno che quelle
riferite innanzi, perchè ad esse non solamente sono state aggiunte delle
lettere, ma ne sono state altresì levate
delle altre. Una terza forma di questa figura si è di presentare diversi
casi di uno o più nomi. Di un sol nome;
per esempio: Alexander Macedo summo labore anirnum ad virtulem a pueritiu confirmavit. Alexandri
virtùtes per orberà terme eum laude et gloria sunt vervulgatae. Alexandro si vita longior data
esset , Oceanun manus M acedo num tran svola sset. Alexandrum omnes, ut maxime meluerunt,
ilem plurimum dilexerunt. Qui un solo
nome si è Voi conoscerete ben tosto la cagione,
che qui mi guida, chi io sia, che cosa
io mi proponga, chi io accusi, chi io
difenda, chi io citi in giudizio. Facciamo in modo, o Quiriti, che i padri
coscritti non vengano stimati affatto circoscritti. (3) « Alessandro Macedone dallasua infanzia
esercitò con grandissima costanza l’animo
suo' alla virtù. Le fallo successivamente passare in differenti casi. Ora vediamo una paronomasia, in cui più
nomi saranno usali in differenti casi
alla loro volta: Tiberiam Gracchum,
rempublicam administranlem, indigna prohilmit ìipx diutius in ea commorari.
Caio Graccho simdiler , occisio oblata est ,
quae vi rum reipublicae amanlissimum subilo de sinu eivilutis eripuil. Saturninum, fide
caplum malorum, perfidine scelus vitae
pricavit. Tuus, o Druse, sanguis
domeslicos parietes, et vultam parenlis
adspersit. Sulpicium, cui paullo aule
omnia concedebant, eum brevi spatio non modo vivere, sed eliam sepeliri prohibuevunl(l) ».
Quc virtù di Alessandro si conservano con lode e gloria nella ricordanza del mondo intiero. Se ad
Alessandro fosse stala consentita dagli
Dei una più lunga vita, un pugno di
Macedoni saria volato al di là dell’ Oceano.
Se tutti temettero grandissimamente Alessandro, lo amarono pur anco di moltissimo amore. Una
morte indegna tolse Tiberio Gracco alla
onorato incarico d’amministrar la Repubblica, al quale era tutto intento. Similmente a Caio Gracco
fu tolta la vita da nemica mano, che
alla città improvvisamente rapi un uomo
caldissimo d'amore per la Repubblica.
Saturnino, che posto avea sua fede ne’ malvagi, spensero i perfidi amici
medesimi. Il tuo sangue, o Druso, bagnò
le domestiche pareli, e il volto della madre.
Sulpicio, al quale poco prima tutto concedevano, privaron ben tosto non
solo della vita, ma anche dello onor del
sepolcro. ste tre ultime figure Similiter cadens, Similiter desinens , e Annominazione o Paronomasia,
allorché avremo alle mani una causa vera, non le dovremo usare che mollo di
rado; perciocché non si possono trovare
senza sforzo e perdita di tempo. Siffatti giuochi dell’inlellelto sembrano avere per iscopo piuttosto il diletto che la
verità. Laonde l’uso frequente di queste
figure toglie all’eloquenza la sua autorità, la sua nobiltà, la sua severità. E non solo toglie alla parola tutta
la sua virtù, ma l’uditore rimane
disgustato da una tale maniera di dire,
perchè trova in queste figure fi' nezza
e giocondità, non mai bellezza e dignità. Il
bello ed il grandioso possono piacere a lungo, ma il giocondo c l’aggraziato generano ben tosto
sazietà allo sdegnante orecchio. Facendo noi dunque abuso di queste figure
mostreremo di compiacerci di una puerile elocuzione; ma se le frammetteremo nel
discorso con parsimonia, o ve le
spanderemo variamento qua e là, esse gioveranno a render più brillante il discorso stesso,
come se fossero altrettanti punti
luminosi. La soggiunzionc è quando noi
domandiamo- ai nostri avversari!, o in
generale agli uditori, che cosa può dirsi a favor di quelli, o contro di noi; c poscia
soggiungiamo ciò che bisogna veramente
dire o non dire, o ciò che può essere
favorevole olla nostra causa, o nocevolc
a quella degli avversari, per esempio: « Io doman (io adunque come questo uomo è divenuto sì
ricco. Gli e forse sialo lascialo un
ampio patrimonio? Ma i beni tulli di suo
padre furono venduti. Gli è forse toccala qualche eredità? No certamente;
anzi tulli i suoi parenti lo hanno
diseredato. Ha egli avulo guadagno da
lite o da giudizio? Non solo non ha oltenuto
nulla di ciò, ma anzi di più è stalo
condannato a pagare una grossa ammenda. Dunque se non deve la sua
ricchezza a veruna di queste cagioni, siccome voi tutti vedete, o bisogna dire che a costui nasce l’ oro in casa, o che
egli ha acquistato ricchezze con mezzi
illeciti. Eccone un altro esempio: « Io ho spesse volle osservato, o giudici, che molti
accusali possono trovar favore in qualche onorevole circostanza, la quale
neppur dagli accusatori può essere
impugnata; ma il nostro avversario nulla può fare di simigliarne. Imperciocché, invocherà egli
la virtù di suo padre? ma voi questo
padre nella coscienza vostra condannaste
alla pena di morte. Passerà egli in
rassegna il tempo della sua vita antecedente onestamente speso in alcun luogo?
ma voi tutti senza più sapete com'egli
ha vissuto sotto i vostri occhi
medesimi. Enumererà forse de’ parenti, al cui nome voi abbiale a rimanere
commossi? ma egli non ha parenti. Menerà
forse innanzi degli amici? ma niuno è,
che non riguardi siccome uno scorno l’essere
chiamalo amico di costui ». E similmente: « Il nemico, cui tii riputavi
colpevole, adducesti forse in giudizio?
no; perciocché tu Tue* chiesti senza che
fosse condannato. Avesti tu fimore delle leggi, che proibiscono di ciò fare?
ma tu neppure pensasti che ei fossero
leggi. Quando egli ti faceva presente
l’antica reciproca amicizia, ti sentisti
commosso? niente del tinto; anzi tu lo
uccidesti con più rabbia. E che? allorquando i suoi figliuoletti ti si gittarono ai piedi, fosti
tocco da compassione? anzi con
sommissima crudeltà volesti che rimanesse insepolto il padre loro ».
ilavvi in questa figura mollo di
veemenza e di gravità, perciocché dopo
che si è domandalo che cosa bisognava fare, si soggiunge tosto che quella
cosa non si è punto fatta. Di che nasce
mollo facilmente che s’ingrandisca
l’indegnità della cosa. Noi possiamo altresì riferire la soggiunzione alla
nostra propria persona, per esempio: «
Che doveva io fare, allorché mi vidi
soprappreso da una sì grande moltitudine di .Galli? Forse combattere? ma,
oltrecchè saremmo usciti a battaglia con pochegentiavevamo pur anche una
posizione mollo sfavorevole. Star dentro agli alloggiamenti? ma noi non avevamo nè soccorsi da attendere, nè
vettovaglie per potere a lungo campare
la vita. Abbandonare gli alloggiamenti?
ma eravamo accerchiali. Contar per nulla
la vita de’soldati? ma mi pareva pure di
averli ricevuti con questa condizione di conscr varli incolumi, per
quanto potessi, alla patria c ai
parenti. Ricusare le condizioni del nemico? ma la salvezza de' soldati deve andare innanzi a
quella delle bagaglic ». Siffatte
soggiunzioni si pongono sovente l'una
dopo l’altra, acciocché da tutte appaia venir dimostrato che non v’ era niun
miglior partito a prendere che quello,
che appunto fu preso. La gradazione è
una figura per la quale non si discende
alla parola seguente prima che siasi
risaliti alPanteceddiite, per esempio: « Qual
altra speranza di libertà ci rimane, se ciò cli'ei vogliono, possono, e ciò che possono, osano,
e ciò che osano, fanno, e ciò che fanno,
a voi non è grave? >) E ancora: t lo ciò noli pensai senza che il consigliassi: nè il consigliai, senza che
intraprendessi tosto a farlo io stesso; oè intrapresi a farlo senza che lo recassi a compimento; nè lo
recai a compimento senza che lo
approvassi. » E ancora: AH’Affricano la industria procacciò virtù, la virtù
gloria, la gloria rivali. » E ancora: « Lo imperio della Grecia si fu appo gli Ateniesi: degli
Ateniesi si fecero signori gli Spartani;
gli Spartani furono superati dai Tcbani;
i Tebani vinti dai Macedoni; i quali
Macedoni in breve spazio di tempo allo imperio della Grecia aggiunsero l'Asia
soggiogata in guerra, » La successiva
ripetizione di ciascuna parola antecedente ha in sè una certa tal grazia; la
quale ripetizione costituisce appunto questa figura della gradazione. La definizione è quella
figura, che in poche parole e senza
nulla tralasciare abbraccia gli attributi proprii di una cosa, per esempio: «
La Maestà della Repubblica si è quella, in
cui si contiene la dignità e la grandezza della città. » E ancora: « Le
ingiurie sono quelle, che violano o con percosse il corpo, o con villaniegli
orecchi, o con altra turpitudine la vita di qualsivoglia uomo. » E parimente: « Questa non è economia, ma avarizia; perciocché l’dconomia si è un’
accurata conservazione delle cose proprie; c l’avarizia si è un’ingiuriosa appetizione delle cose
altrui. » E ancora: « Non è coraggio
questo, ma temerità; perciocché il
coraggio è il disprezzo della fatica e
del pericolo con ragione di utilità e compensazione di comodi; e la temerità è un gladiatorio
intraprendimento di pericoli con inconsiderala sofferenza di fatica. « Questa figura è tenuta
vantaggiosa per ciò appunto che fa
conoscere ed intendere la forza ed il
valere di qualsivoglia cosa sì chiaramente e
sì brevemente che paia non aver avuto bisogno di esser detta con più parole, nè si pensi
essersi potuta dire con brevità maggiore. Transazione chiamasi quella, la quale
e con brevità pone sott’occhio ciò che è
stato detto, ed anco dichiara in poche
parole ciò che deve seguitare; per esempio: « Voi avete veduto come co stui si
è contenuto verso la patria; considerate ora
quale si è mostrato verso i parenti. » E parimente: « Voi conoscete i benefizii, ebe io ho fatti
a costui; ora udite in qual modo ei rn’hn ricompensato. » Questa figura è di
qualche utilità per due ragioni; prima perchè ci fa ricordare di ciò che è stalo dello, e prepara l’ uditore a ciò che
rimane da dire. La correzione è quella,
che toglie ciò che è stato detto, e
ripone in sua vece ciò che pare più
conveniente, per esempio: « Se costui avesse pregalo i suoi ospiti, anzi
avesse loro solamente fatto un segno,
avrebbe potuto facilmente ottenere lo
scopo. « E parimente » : Dopo che costoro rima-* sero vincitori, o piuttosto vinti; perciocché
come chiamerò io vittoria quella che è
stata più funesta, che vantaggiosa ai
vincitori? .0 invidia, compagna della
virtù, che per lo più vai dietro ai
buoni, o per meglio dire li perseguiti! Per questa figura t'animo dell’uditore rimane
colpito, perchè una cosa messa innanzi
con comunale parlare sembra solamente detta ; ma la stessa cosa profferita con correzione oratoria diventa
assai più notabile all’ uditore- Ma non
è meglio, dirà talu- , no, specialmente
allorché scrivi, impiegare fino da
principio il vocabolo migliore c più scelto? Può
essere che no, se il cambiamento del vocabolo faccia conoscere che la
cosa è tale, che, ove tu avessi usato il
vocabolo comunale, parrebbe essersi da te espressa troppo fiaccamente, e invece
la rendi più degna di osservazione col
venire poscia al vo ; caboto -più
scelto. Al quale se venuto fossi a bella
prima, non si sarebbe allora avvertilo nè il merito della cosa, nè quello della parola. La
preterizione è quella con la quale affermiamo, o che noi tacciamo, o che non
sappiamo, o che non vogliamo dire ciò che nel medesimo tempo specialmente diciamo, per esempio: «
Io per certo parlerei della tua
giovinezza, la quale tu dedicasti ad
ogni maniera d’intemperanza, se stimassi essere questo il tempo opportuno; ma
ciò tralascio avvisatamente. Ed anco non
voglio dire che i tribuni ti castigarono
siccome infrangilore della militar
disciplina: c reputo estraneo al soggetto l'aver tu dovuto dar soddisfazione
delle tue ingiurie a Lucio Labeone. Di
questi falli non dico nulla, e ritorno a
ciò che forma il soggetto del presente giudizio ». E parimente: « Io non dico
che tu ricevesti danaro dagli alleati;
non mi fermo a provare che espilasti le
città, i regni, le case di lutti; passo
sotto silenzio i furti, e tutte le rapine
tue. Questa figura è utile, se è nostro interesse di lasciar intendere una cosa, o che non è
espediente di mostrare per minuto, o che è lunga a dire, o che è ignobile, o
che non si può provare, o che è facile a
confutare; di maniera che sia meglio per noi l’aver fallo nascere copertamente
un sospetto, che l'aver preso a sviluppar cose che venir ci possano confutate.
La disgiunzione ha luogo, allorquando o l’una o l’altra delle proposizioni, che
si espongono, od anche ciascuna di esse
si conchiude con un verbo speciale, per esempio: « Il popolo Romano distrusse Numanzia,
abbattè Cartagine , disfece Corinto , rovesciò
Fregelle. Niente ai Numantini giovarono
le forze del corpo; niente ai
Cartaginesi fu di profitto la scienza militare; niente ai Corinzi fu di
presidio la scaltrita politica; niente
ai Fregellani recò vantaggio la comunanza con essonoi de’ costumi e del
linguaggio ». E similmente: « Bellezza di corpo o per malattia perde suo fiore,
o per vecchiezza dileguasi;» In quest’
ultimo esempio e nell’altro antecedente
vediamo che ogni proposizione si conchiude con un verbo speciale. La congiunzione si ha,
quando per rinterposizione di un verbo
si legano insieme si le parti
antecedenti di una frase c si le conscguenti, per esempio; « Bellezza dì corpo
o per malattia perde suo fiore, o per
vecchiezza » L’aggiunzione si ha, quando il verbo, ondelegansi tra loro le parti, non è già posto tiel mezzo, ma
è collocalo o nel principio o nel fine. Nel principio, per esempio: « Perde suo flore bellezza di corpo
o per malattia o per vecchiezza. « Nel
fine, per esempio »: 0 per malattia o per vecchiezza bellezza di corpo perde suo fiore. La disgiunzionc sente
al quanlo della piacevolezza; eperciò conviene usarla di rado, onde non generi sazietà. La
congiunzione amando la brevità si può
usare più spesso. Queste tre figure procedono da un solo e medesimo genere. La conduplicazione è la
ripetizione della stessa parola o di più
parole allo scopo di amplificare o di
commovere, per esempio: Tumulti eccita C. Gracco, tumulti nelle famiglie, tumulti nello Stato»: E parimente: « Non
fosti tu commosso , allorquando tua
madre ti abbracciava le ginocchia, di’, non fosti tu commosso »? E' ancora: «
Osi tu oggi ancora presentarti al
cospetto di questa adunanza, o Iraditor della
patria, si, ripeto, o tradilor della patria, osi tu oggi ancora presentarti al cospetto di questa
adunanza »? La ripetizione della medesima parola scuote altamente l’uditore, e fa alla causa
contraria una più ampia ferita, come
spada, che a più riprese ferisca sempre
.nella medesima parte del corpo. V
interpretazione è quella che non ripete già la
parola stessa, ma ne sostituisce un’altra in suo luogo, avente il valore
medesimo, per esempio: Tu la Repubblica
hai dalle radici rovesciata, tu la città
hai sino dai fondamenti abbattuta ». E per egual modo: « Tu empiamente hai battuto il padre,
tu scelleratamente hai portato la mano
contro l’autor de’luoi giorni ». Egli è
ben necessario che l’animo dell’uditore rimanga scosso, quando colla
interpretazion de’vocaboli si viene a dare nuova forza al detto anteriore. Si
ha la commutazione quando due pensieri fra loro diversi si producono, per ragion di trasposizione, in maniera che il
secondo avente senso contrario al primo,
proceda appunto dal primo, per esempio:
« Bisogna mangiare per vivere, non vivere
per mangiare ». E parimente: « Per
questa cagione io non fo poemi, perchè,
come vorrei farli, non posso, e come posso farli, non voglio. E ancora: « le cose, che di
questo uomo si dicono, dir non si
possono, e quelle, che dir si possono,
non si dicono. » E ancora: Se un poema è
un quadro parlante, sì un quadro deve
essere un parlante poema. » E finalmente: • Perchè sei un ignorante, per
ciò appunto tu taci; c tuttavia, perchè tu taci, non sei per ciò un ignorante.
» Non si può dire abbastanza quanto sia conveniente questa trasposizione di due
sensi contrarii, in cui anche le parole si trovano trasmutale. Noi ne abbiamo qui posti più esempi, appunto per chè, essendo diffìcile a trovarsi questo
genere, se ne avesse una chiara idea,
acciocché venendo esso ben inteso, fosse
più facile ad esser trovato all’occasione in un discorso. La permissione si fa
, allorquando nel dire noi dichiariamo
di dare e abbandonare appiedo alcun che all’arbitrio di alcuno, per csem i pio: a Poiché tulio mi è stalo tolto, e
solo mi resta l’anima e il corpo, io a voi e al poter vostro dono ciò che sol mi rimane di tanti beni. Voi
fate di me quell’ uso, o buono o cattivo,
che meglio vi piace, giacché tutto vi è
permesso: contro di me stabilite qual
cosa voi volete: parlate, ed io ubbidirò. » Questa figura è sommamente alta a
muovere la compassione,' quantunque si possa alcuna volta eziandio in altri casi usare. La
dubitazione siha, allorquando l’Oratore
dà vista di cercare quale piuttosto di
due o più cose ei debba dire a
preferenza: per esempio: « Nocque in quel tempo assaissimo alla
Repubblica non so se dir bisogni o l’ignoranza o la perversità de’ Consoli, o
entrambe queste cose insieme. » E parimente: « Tu hai osato dir ciò? o uomo fra tutti i
mortali » in verità che io non so con
qual nome degno del tuo carattere io li
debba chiamare. « L’cspedizione si ha, allorquando, dopo avere enumerate
più ragioni dimostranti come una cosa
abbia potuto o non potuto addivenire,
tutte si rigettano ad eccezione di una sola, la quale appunto affermiamo:» per esempio: «Poiché consta che questo fondo
era mio, è necessario che tu provi o che
ne sei venuto in possesso per essere
stato un fondo abbandonato, o che è
divenuto tua proprietà per diritto di prescrizione, o che l’hai comperato a
danari, o che ti è pervenuto in eredità.
Tu non hai potuto fartene possessore per essere stato abbandonato, giacché io presentavami siccome padrone; tu non puoi
pur allegare in tuo favore la
prescrizione: tu non puoi presentare
verun titolo di compera: tu non potevi, me vivo, avere i miei beni in eredità.
Rimane adunque che tu per violenza sii
divenuto padrone del mio fondo. » Questa
Ggura è di grandissimo giovamento alle
argomentazioni congetturali; ma non
possiamo usarla a nostro piacimento, come
usiamo la più parte delle altre, non polendo noi ciò fare, se non quando la natura stessa del
soggetto ce ne dà facoltà. La dissoluzione è urta figura, che, sopprimendo le
congiunzioni, presenta i membri della
frase separati: per esempio: « Segui il voler del padre, ubbidisci alla famiglia, cedi agli
amici, ti sottometti alle leggi. » E
parimente: « Discendi ad una completa
giustificazione; non li voler sottrarre
a nulla; consegna i tuoi schiavi alla tortura; fa tulli gli sforzi perchè sia scoverlò il voro.
» Questa figura è piena di vivacità e di
forza, e si presta al parlare conciso.
La reticenza si ha, allorquando, dopo
a*er detto alcune parole, si lascia il rimanente dell’incominciato.discorso al
giudizio dell'tidilore: per esempio: « .Io non voglio incominciare a disputar lèco, perchè il popolo Romano mi
ha.... noi voglio dire per non parer
troppo vano: in quanto a te io so che
egli ti ha spesse fiale giudicalo degno di disprezzo. » E parimente: « Osi
tu, in questo tempo tenere siffatto
linguaggio? luche ultimamente
nell’altrui casa. . . non voglio proseguire per tema che, raccontando io cose
degne di te, non si creda che io tenga
propositi indegni della mia pesona. »
Qui è più funesto all’avversario il sospetto generalo dalla reticenza; che
una eloquente spiegazione.
La.conelusionc è quella figura, che per una breve argomentazione deduce da ciò, che prima è stalo detto o fatto, ciò
che deve necessariamente seguire: per
esempio: « Che se ai Greci aveva detto
l’oracolo che non si poteva premier
Troia senza le frecce di Filottete, e queste altro non fecero che colpir
Paride, ne segue che toglier di vita
costui si fu come prender Troia. Rimangono anegra dieci figure diparole, dette propriamente tropi, che noi non abbiamo
voluto variamente disseminare qua e colà; ma che abbiamo in vece separate da quelle che son
poste di sopra, per ciò appunto che
appartengono tutte al medesimo genere,
avendo esse la proprietà di allontanar
le parole dalia loro ordinaria significazione e farne loro assumere un’altra,
dando al discorso una certa quale adornatezza. Di queste figure la prima è l’onomatopea,
la quale, sé una cosa sia senza nome, o
non ne abbia uno abbastanza idoneo, c'insegna a chiamarla noi stessi con vocabolo conveniente o per ragion
d’imitazione o per ragion di significazione. Per imitazione, i nostri antichi
coniarono questi verbi ragghiare, vagire, mugghiare, mormorare, sibilare. Per
significare la cosa abbiamo quest’ esejnpio: « Appena che costui fé’ impelo sopra Roma,
immantinente udissi lo scoppiettio della
città. » Bisogna di rado osare
l’onomatopea, acciocché la frequenza di
nuove parole non generi disgusto: ma se si usi a proposito e con parsimonia, non solo non dispia'
cerà per la novità, ma aggiungerà eziandio bellezza al discorso. L’antonomasia
è quella figura, ehe pef una specie di
soprannome tolto ad imprestilo dà a
conoscere ciò che non può essere chiamalo
col proprio suo nome: per esempio volendo parlar de’Gracchisi potrebbe dire: « Tali non si
mostrarono i nipoti dell’ Affricano. » E parimente, parlando di un avversario, dir si potrebbe: « Vedete
ora, o giudici, come mi La trattato
cotesto Plagiosippo?» Per questa figura
noi possiamo elegantemente, tanto nel lodare quanto nel biasimare, prendere o
dal corpo o dall'animo o da altre cose
esteriori una qualche maniera di
soprannome da collocare in cambio del
nome noto. LA METONIMIA è quélla, perla quale noi, volendo significare una cosa, non la
chiamiamo col suo proprio vocabolo, 'ma
la facciamo intendere col cercare un
nome da altre cose che abbiano affinità o correlazione con quella. Ciò si fa o
ponente do l’inventore per la eosa trovata, come se volendo alcuno significare il Campidoglio il
dicaTarpeo(t); o ponendo la cosa trovata
invece del suo inventore, come se
volendo alcuno significare Bacco nomini
il vino, e invece di Cerere dica le biade: o ponendo l’arma invece della
persona di cui è propria, come se
volendo alcuno significare i Macedoni,
dica: « Non cosi prestamente le sarisse s’impadronirono della Grecia: *
o, volendo quel tale signifi-. care i
Galli, dica: « Non tanto facilmente fu dall’Italia scacciata la matera
oltramontana: » o ponendo la causa per 1’ effetto, come se volendo «1cuno dar a
conoscere che altri abbia fatta un’azione in guerra, dica: « Marte ti spinse
per necessità a ciò fare: » o l’effetto
per la causa, come quando si dice oziosa
un’arte, perchè concede ozio a chi
l’esercita, e pigro il freddo, perchè rende pigri gli uomini; o il contenente pel contenuto, come:
«Non si può l’Italia superare nelle
armi, nè la Grecia nelle discipline. »
Qui invece de’ Greci e degli Italiani si son posti i paesi che li contengono: o
il contenuto pel contenente, come se,
volendo alcuno nominar le ricchezze, dica l’oro o l’ argento o Leggo con un antico manoscritto, citato nell'
edizione Panckoucke: ttf si quis Tarpeium, loquens de Capitolio, nominet; la qual lezione è la più
probabile di quante ne sono recate dagli
eruditi editori antichi e moderni sino
al Panckoucke. l’avorio. Di tulle queste differenti specie di metonimie 6 più
diffìcile lo esporre le tante regole, che
trovare gli esempi; perciocché non solamente i poeti e gli oratori son per solito pieni di
siffatte metonimie, mas’ incontrano
eziandionaturalmente nel nostro
quotidiano favellare. La Perifrasi è
quella, che per esprimere una cosa semplice va cercando una circonlocuzione: per esempio: «
La accortezza di Scipione abbattè la
potenza di Cartagine. » Qui, se non si fosse avuto in mira di abbellire il
discorso, si sarebbe potuto dir semplicemente Scipione e Cartagine. L’iperbato
è quello, che cambia l’ordine delle parole
rovesciandole o trasponendole.
Rovesciandole, per esempio: « Hoc vobis
Deos immortales arbilror dedisse pittale
prò veslra( 1). » Trasponendole, per esempio: «Instabilis in istum
plurimum fortuna valuit. E parimente:
Omnes invidiose eripuil libi bene
rivendi casus facultaies. Siffatte trasposizioni, se non rendono oscuro
il senso, giovano moltissimo alla continuazione, di cui abbiamo parlato più sopra; nella qual figura bisogna che le
parole Io mi penso che gl’immortali Dei vi abbian conceduto questo favore in
ricompensa della vostra pietà. L’ incostante fortuna ha esercitato sopra
costui tutto il suo potere. Il caso
iniquamente ti tolse tutti i mezzi di ben
vivere. Mi siano collocate con poetica armonia, affinché ella riesca in sommo grado abbellita c perfetta. L’IPERBOLE
–Grice: Every nice girl loves a sailor --è un parlare, clic trascende il vero, sia per aggrandire, sia per
impicciolire alcuna cosa. Essa si piglia
o separatamente o con comparazione.
Separatamente, come in questa frase: « Se noi rimarremo concordi, misureremo
la grandezza del nostro imperio dal
punto dove leva il sole a quello
dov’egli tramonta. » L’iperbole con
comparazione poi si prende o da assimiglianza
oda preminenza. Da assimiglianza, a questo modo: « Il corpo suo era bianco come la neve, c
gli oc- * chi brillavano come il fuoco.
Da preminenza, a questo modo: « Dalla
sua bocca scorrevano le partile dolci
più del mele. » Del medesimo genere è
quest’altra iperbole: « Sì grande era lo splendor delle sue armi che superavano in fulgidezza
il sole. « La sineddoche è quella figura che fa comprendere il tutto da una
parte, o una parte daltutto o dal
singolare il plurale, o dal plurale il singolare. Il tutto da una parte, così:
t Quelle nuziali tibie non ti facevano accorto di questi sponsali? » Qui tutta
la solennità delle nozze vien fatta
intendere sotto l’ unico simbolo delle tibie. Una parte dal tutto,
dicendo, per esempio, ad un uomo vestilo
con lusso c magnificamente ornato: « Tu
dispieghi a me dinanzi tutte le tue ricchezze, e spandi tutti i tuoi tesori. » Il plurale dal
singola re per esempio: Il Cartaginese
ebbe ad aiuto l’Ispano, ebbe il feroce Transalpino, c per sino l’Italo togato in parte parteggiò per lui.
Dal plurale il singolare , come : Un’ atroce calamità empieva di dolore il suo cuore (perfora) :
perciò dall’imo petto (ex imis
pulmonibus ) levavasi per lo travaglio
affannoso il respiro.» Nel primo esempio hanno ad intendersi più Ispani, più
Galli, più Italiani ; c nel secondo, un
solo cuore ed un sol petto per quei due
nomi latini posti al plurale : nel primo
luogo il singolare vi sparge una certa
grazia, e nel secondo il plurale vi aggiunge gravità. La catacresi è
quella figura, che, per una specie di abuso, in vece della parola giusta c
propria, si serve di una parola analoga
ed alfine; per esempio: « Brevi sono le forze dell’ uomo, o ne è piccola ld statura, o esteso in lui l’intelletto, o
grande il discorso, o scarse le parole.» Qui è agevole a capire che per una specie di abuso si sono
ravvicinate fra loro di senso parole
appartenenti a cose dissimili. LA METAFORA (Grice: You’re the cream in my
coffee – TRANSLATIO) è, quando si trasporta il
vocabolo proprio di una cosa ad un’altra, il qual vocabolo sembri poterle convenire per una
qualche simiglianza. Noi ci serviamo di
essa per più motivi, ed ecco per quali: Per mettere la cosa dinanzi agli occhi; a questo modo: « Cotesla
sollevazione svegliò Italia con
improvviso spavento. » Per cagione di concisione; a questo modo: cc II novello
arrivo di quelle truppe estinse in un subito la civile libertà. » Per evitare una parola oscena; a
questo modo: « La madre sua dilettasi di
quotidiane nozze » Per amplificare; a questo modo: « Non ci furon dolori e calamità d’uomo, che potessero
appartare gli sdegni di un mostro tale, e saziarne la iniqua crudeltà. » Per attenuare, a questo
modo: « Egli si millanta che ci è stato
di un grande aiuto, perchè in occorrenze
difficilissime ci ha sovvenuti di un
leggiero soffio. » Per ornare lo stile, a questo modo: « I traffichi dello
Stato, che per la malignità dei ribaldi inaridirono, un di per la virtù degli ottimati riverdeggeranno. » È
prescritto che la metafora sia modesta,
sì che passi con riguardo ad una cosa
consimile, onde non paia che alla cieca e avidamente ella sia trascorsa in una
cosa al tutto dissimile senza
distinzione veruna. L’ allegoria è un discorso, che altra cosa significa nelle
parole ed altra nel concetto. Essa trattasi per tre maniere: Per simiglianza,
per allusione, per anlifrasi. Trattasi
per simiglianza, quando si fanno seguitare
più metafore tolte ad una stessa idea; peresempio: « Se i cani fanno V uffizio dei lupi, a quali
guardiani confideremo noi il bestiame? » Per allusione, quando da una persona o da un luogo o da
qualche altra cosa si trae la simiglianza, sia per aggrandire, sia per
diminuire l’idea; come, se alcuno,
parlando di Druso, lo chiami « un vieto Numitore. Per antifrasi: a
questo modo; come se alcuno, volendo motteggiare
sopra di uno prodigo o sregolato, lo chiami « tegnente ed economo. In quest’
ultima specie di allegoria, che trattasi per antifrasi, ed anco nella prima,
che trattasi per simiglianza potremo usare l’allusione metaforica. Eccone un
esempio per simiglianza: « Che cosa dice
questo re ed Agamennone nostro? » o meglio « perchè crudele egli è,
colesto Atreo? » Eccone un altro per antifrasi: « Se un empio, che battuto
abbia il padre, lo diciamo un Enea; uno
intemperante e adultero diciamolo pure
un Ippolito. » Ecco presso a poco ciò che pensavamo dover dire intorno alle figure di parole. Ora l’ordine stesso
delle cose vuole che passiamo a dire delle figure di pensieri. Si ha la figura
di distribuzione, quando si partiscono
certi attributi fra più obbietti o più
persone: per esempio: « Quello di voi, o giudici, che caro ha il nome del senato, non può non
detestar costui; perciocché egli con insolenza estrema ha sempre fatto guerra
al senato. Quegli, il jquale brama che
nella Repubblica si mantenga
splendidissimo l’ordine equestre, dee pur volere che costui dato venga all’estremo supplizio,
acciocché egli colle turpitudini sue nort arrechi macchia e disonore ad un
ordine onorevolissimo. Voi, che avete un
padre, mostrate col castigo di costui che vi sono in.abbominio gli uomini
snaturati. Voi, che avete de’ figliuoli,
date a vedere con un esempio quanto terribili pene son riserbate in questa città agli uomini di questa fatta. » E
similmente: « Egli è dovere del senato
sovvenir di consigli la Repubblica; egli
è dovere de’ magistrati eseguire i
voleri del senato con zelo e fedeltà: egli è dovere del popolo scegliere ed
approvare co ! propri suffragi gli
uomini più abili, e le migliori deliberazioni. * E ancora: « Il dovere
dell’accusatore si è quello di
dinunziare i delitti; quello del difensore di purgarli e confutarli; quello del
testimonio è di dir ciò che sa od ha udito; quello del giudice è di contener ciascun d’essi nel
proprio dovere. Laonde, o Lucio Crasso,
se comporterai che un testimonio, oltre
a ciò che sa o udito ha, rechi in mezzo
argomentazioni e congetture, confonderai il diritto di accusatore con quello di
testimonio, darai favore alla cupidigia del tristo testimonio, e costringerai
l’accusato a una doppia difesa. » Questa figura è ampia: essa comprende molte cose in poche parole, e forma tra più
obbietti delle divisioni assai distinte, assegnando a ciascuno le sue attribuzioni. Si ha la figura
di licenza, allorché parlando a persone, che noi dobbiamo rispettare o temere,
le rimproveriamo con ragione di alcun fallo
in cui siano cadute, senza però offender quelle o Digitized by Google gli amici di quelle. Eccone un esempio: «
Voi vi maravigliale, o Quiriti, clic le
parli vostre sienoabbandonate da tutti? Che nessuno abbracci la vostra causa?
Che nessuno si dichiari vostro difensore? Attribuite ciò a colpa vostra, e
cessate una volta di rimanere stupidi.
Imperciocché come mai non dovranno tutti
fuggire ed evitare di darvi aiuto? Ricordatevi un poco di quelli, che aveste
per difensori; ponetevi dinanzi agli
occhi le sollecitudini loro per voi; e considerate quale compenso indi n’ebbero tutti. Allora si # verrà in
mente, se ciò confessar vogliate, che
voi per negligenza o piuttosto per
villàJi lasciaste trucidare sotto gli occhi vostri, e che co’ vostri suffragi
inalzaste ai più distinti onori i nemici
loro. » E parimente: « Che cosa mai fu,
o giudici, che dubitar vi fece di pronunciar sentenza? o che cosa mai v’indusse
ad indugiar la condanna a questo ribaldo? Non era stata forse l’accusa appoggiala alle prove più
manifeste? E (poesie prove non erano,
forse state tutte confermate per leslimonii? E le confutazioni degli avversarli
non furono tulle puerilità e baie? Forse voi
temeste che, condannandolo tosto alla prima adunanza, poteste essere
tacciati di crudeltà? Ma voi nel voler
evitare una simile taccia, la quale certo
era lungi da voi, andaste incontro all’altra di essere giudicali timidi
e dappoco. Voi intanto avete lasciato
luogo a privale e pubbliche calamità senza fine; e allorché v’ è apparenza che
altre maggiori venganvi sul capo, voi ve
ne state tranquilli e colle mani a
cintola. Nel giorno voi aspettate la notte, e
nella notte il giorno. Ad ogni momento voi ricevete qualche infausta e dolorosa nuova, e voi
conservale più a lungo in vita colui, che è l’autore di tutti i mali; e, fino a tanto che potete,
ritenete nella Repubblica il flagello
della patria. Se una tale maniera di licenza parrà aver troppo di veemenza, son molti correttivi
per addolcirla. Imperciopchè vi si
potranno incontanente introdurre siffatti modi: « Indarno io cerco qui la vostra virtù; io sto nel desiderio
della vostra conosciuta sapienza; io non trovo più l’antica vostra maniera di operare, ccc. ; » affinchè
quel movimento di sdegno, che là licenza
avrebbe potuto eccitare, rimanga per la lode compresso; di maniera che l’una cosa dilunghi dalla collera
e dal disgusto, e l’altra distorni
dall’errore. Siffatta cautela usata a
tempoj come nell’amicizia così nelle
pubbliche aringhe, ha questo vantaggio, che
rattiene dal fallo coloro che ci odono, e dà a conoscere che noi, i
quali palliamo, amiamo non meno essi che il vero. Havvi poi un’altra specie
di licenza oratoria, la quale consta di
una maniera più fina; ed è allorquando o
noi riprendiamo i nostri uditori in quel modo, in cui vogliono pur essere
ripresi, o, sapendo noi che eglino ascolteranno volentieri i nostri rimproveri,
protestiamo di temere non forse li ricevano con mal cuore, ma che tuttavia la
verilà ci spinge sì che non vogliamo pur
pure tacere. Sottoporremo qui esempi di queste due sorte di licenza. Eccone uno della prima
sorta: « Troppo, o Quiriti, avete gli animi semplici e •buoni; troppo prestale fede a chicchessia. Voi
pensate che ognuno si sforzi di fare ciò che vi ha promesso. V’ingannate a
partito, e già da lungo tempo rimanete vittime di questa falsa speranza.
Stolli voi, che amaste meglio cercare
agli altri ciò che era in poter vostro,
che pigliarlo voi stessi di mano propria
». Della seconda maniera di licenza ecco
qual sarà F esempio: ((Furono, o giudici, fra me e quest’ uomo vincoli di amicizia, ma questa
amicizia, sebbene io tema che ciò udiate mal volentieri, il voglio pur dire con
franchezza, foste voi che me la
toglieste. E in qual modo? Perchè per
conservare il favor vostro, io ho amato meglio aver per nemico che per amico colui, che a yoì
dava travaglio». Dunque questa figura,
chiamata licenza jjsi può, come abbiamo mostralo, trattare in due modi: con veemenza, la quale fia mitigala da
lode, se parrà aspra troppo; o con finzione, come dicemmoln ultimo luogo, la quale non ha
bisogno di correttivo, perchè, sebbene
abbia colore di licenza, essa nondimeno per propria natura s’insinua nell’animo
dell’uditore. La diminuzione si usa, allorquando ci bisogna lodare in noi stessi o nei nostri
clienti il carattere, la bellezza,
l’ingegno; ed allora, per non parere
arroganti troppo, scemiamo e impiccioliamo con parole siffatti pregi: per
esempio: « Io dico, o giudici, giacché
dir lo posso, che ho procurato con tutta fatica ed industria di non
essere^ degli ultimi nella scienza
militare. » Qui, se chi parla avesse
detto: « ho procuralo di esser dei primi, » avrebbe avuto aria di arrogante,
benché ciò fosse universalmente
riconosciuto per vero: così egli ha
dello quanto era a bastanza e per far tacere l’invidia, e per far conoscere il
merito proprio. E ancora: « È egli forse l’avarizia o il bisogno che spinse
questo uomo al delitto? L’avarizia? Ma egli fu prodigo inverso gli amici; il
che è segno di liberalità, cosa
contraria all’ avarizia. Il bisogno? Ma
senza dubbio il padre suo gli lasciò
(non voglio esagerare) un non piccolo patrimonio. » Qui pure l’oratore
ha evitato di dire un patrimonio grande o grandissimo. Nel parlare adunque de’
pregi nostri o di quelli de’ nostri clienti
noi osserveremo una siffatta riservatezza; perciocché pigliando a lodar
noi stessi inconsideratamente, nella civile società suscitiamo l’invidia, e
in un pubblico ragionamento
l’avversione. Laonde in quella guisa che
il buon contegno nella società ci sottrae all'Invidia, così la riservatezza in
un pubblico discorso cijsalva dall'odio. Chiamasi descrizione quella, che
per mezzo di parole chiare e manifeste e
nobili insieme, dipinge tutti i conseguenti di un fatto, che sia avvenuto o che possa avvenire: per esempio:
*Se i vostri voti, o giudici,
restituiranno alla libertà costui, voi lo vedrete subito a guisa di leone, a
cui fu aperto suo carcere, o a guisa
d’altra feroce bestia, da catene sciolta, giltarsi nel foro, e correre qua e là aguzzando i denti contro alle
sostanze altrui, avventandosi contra tutti, amici o nemici, conosciuti e
sconosciuti, togliendo l’onore agli uni,
minacciando la vita agli altri, usando violenze alle abitazioni, alle famiglie d’ognuno,
abbattendo insomma dai fondamenti lo Stato. Per la qual cosa, o giudici, discacciate costui dalla patria,
liberate dal terrore i cittadini ,
provvedete in fine alla vostra medesima salvezza ; perchè se lo rimandate impunito, contro a voi stessi, crediatelmi
pure, voi avrete scatenata una feroce e
sanguinaria bestia. » Eccone un altro esempio: « Se voi, ò giudici, pronunziale
contro a quest'uomo una funesta
sentenza, con un giudizio solo vi fate net tempd medesimo à cogliere di molte vite. Un padre
carico d’anni, che fondava tutte le
speranze della vecchiezza sua nella gioventù di questo sventurato, più nulla avrà, ond’abbia ad aver cara
lavila; te neri figliuoletti, privati del sostegno paterno, saranno esposti
alle beffe e agli scherni de’ nemici del
lora padre; tutta una famiglia in fine sarà inabissata in una indegna calamità:
e frattanto i persecutori, portando una palma sanguinosa in mano, padroni di una crudele vittoria ,
insulteranno alla miseria di costoro, e
superbi inveiranno contrassi con fatti e
con parole. » E parimente: « Niuno di
voi ignora, o Quiriti, quali siano i mali orribili, che piombar sogliano sopra una citlà presa
d’assalto. Chiunque ha portalo le armi ad offesa, è incontanente senza pietà
trucidato: gli altri, che per l’età e
per le forze tollerar possono la fatica, tratti
sono in servitù : flue’, che non possono, son privati di vita : e per
ultimo in un solo e medesimo tempo
l'abitazion loro è messa in fiamme da nemico incendio; e coloro, cui la natura
o la volontà per parentadi o per amore
congiunse insieme, sono violentemente
separati; i figliuoli parte strappali
dalle braccia de’ genitori, parte scannali in seno ad essi, e parte contaminati dinanzi ai loro
occhi. Nessuno vi è, o giudici, che
possa con parole degnamente mostrar la cosa, e col discorso dipingere i’enormezza di una siffatta calamità. » Con
questa figura si può muovere o lo sdegno
o la compassione, quando tutte le conseguenze di un fatto unite insieme vengono con evidenti parole
concisamente esposte. La divisione è una figura, la quale separando due
proposizioni le sviluppa entrambe con
soggiungere a ciascuna la sua ragione: per esempio: « E pcrchè^dovrò io
farti de’ rimproveri? Se sci un uomo
onesto, non li bai meritati; sesci un
tristo, non li sentirai punto. » E similmente: « Che bisogno ho io di parlarvi de’ miei servigi?
Se voi ne conservale memoria, io non farei
che stancarvi gli orecchi; c se ve ne
siete dimenticati, quando coi fatti io
non abbia acquistato il favor vostro, come potrò ora acquistarlo con le mie
parole? » E ancora: « Vi son due cose,
che trascinar possono gli uomini a un
sozzo guadagno, la miseria e l’avarizia. Nella divisione fraterna noi ti
conoscemmo per avaro: or li vediamo
povero e bisognoso. Come proverai che non avevi motivo di commettere una mala azione? » Fra questa divisione e
quella, che è la terza delle parli
oratorie, di cui parlammo nel primo libro dopo la narrazione, ci ha questo
divario: quella divide per enumerazione o per
esposizione le cose, di cui si dee tener deputazione in tutto il
discorso ; e questa disbrigasi subitamente, e, soggiungendo in poche parole a
ciascuna delle due o più parli le singole ragioni, reca ornamento al discorso. L’accumulazione è
quella, che riunisce in un sol cumulo
certe cose sparse in tutta la causa ,
affinchè il discorso riesca più grave, più veemente, più nocevòle alP accusato:
per esempio: « Da qual vizio mai è libero costui ? E per qual motivo, o giudici, volete voi
assolverlo? Egli è largitore della
pudicizia sua e insidiatore dell’altrui;
cupido, intemperante, sfacciato, superbo, empio verso i genitori, ingrato,
verso gli amici, ostile verso i
congiunti, disubbidiente verso i
superiori, adiroso cogli eguali c coi simili, crudele verso gl'inferiori, finalmente
insopportabile a tutti. Appartiene allo
stesso genere quell’accumulazione, che è di un grande aiuto nelle cause
congetturali, quando de’sospetti, che, separatamente presi, erano deboli e leggieri, riuniti in
uno conducono, nonché alla probabilità, alla certezza: per esempio: « Non vogliate adunque, non
vogliate, o giudici, considerare
separatamente le cose, che io ho dette;
ma raccoglietele tutte, c assembratele
in uno. Se veniva comodo a costui dalla morte di quell’ uomo, e vituperosissima è la sua vita,
avarissimo l’animo, affondatissima la fortuna domestica, c un tale misfatto a
niuno era vantaggioso che a lui; e niun
altro poteva sì facilmente eseguirlo, ed egli non poteva scegliere mezzi
migliori; e inoltre non ha costui nulla ommesso di ciò che poteva assicurarne il successo, e nulla
ha fatto, che non bisognava fare; e poiché il luogo era il più proprio ad un’aggressione, e
l’occasion favorevole, e opportunissimo il momento dello in traprendere; ed
egli calcolato aveva tutto il tempo
necessario del venirne a fine, e contar poteva sulle tenebre e sull’ evento del misfatto; e
inoltre, poiché innanzi che l’ uomo fosse ucciso, costui è stato veduto tutto solo nel luogo dove l’assassinio
è avvenuto; e poco appresso, nel momento, in cui succedeva il misfatto, è stala udita la voce
di colui che veniva ucciso; e quindi dopo l’omicidio è provato che egli non è tornato a casa che a
notte molto avanzata; e all’indomani,
interrogato della morte di quest’uomo,
ha balbettato, s’è contraddetto; e tulli questi fatti sono in parte per
testimonii, in parte per esaminazioni ed indizii dimostrati, ed anco per la
voce pubblica, la quale appoggiata a questi indizii, deve necessariamente esser
conforme al vero; spelta a voi dunque, o giudici, di trarre, da tutte queste
prove unite insieme, non che la probabilità, la certezza della colpa.
Imperciocché può ben essere che per caso si
levino contro di costui una o due di siffatte presunzioni, ma esser non
può che tutte dalla prima all’ ultima
s’accordino insieme per un semplice effetto del caso. » Questa figura è
veemente, e nelle cause congetturali
quasi sempre necessaria, ma puossi
eziandio qualche volta adoperare negli altri
generi di cause, e 'finalmente in ogni maniera di orazione.
XLII. I/espolizionc è, allorquando noi ci fcrmiamo in un medesimo
pensiero, o sia ci arrestiamo ad una proposizione unica, e tuttavia sembriamo
aggiungervi sempre alcuna cosa. Essa è di due
maniere: o noi ripetiamo appieno la cosa medesima, ovvero discorriamo
sopra la cosa medesima. Noi ripeteremo
la cosa medesima non nella stessa
maniera di prima, perchè ciò sarebbe un annoiar P uditore, non un abbellire la cosa, ma bensì
con dei cambiamenti. Questi cambiamenti
si fanno in tre modi, o rispetto alle
parole, o rispetto alla pronunciazione,
o rispetto alla forma. Si farà cambiamento rispetto alle parole, quando,
esposta una volta la proposizione, la
torneremo a dir di nuovo o più volte con
altre parole significanti lo stesso: per
esempio: « Non vi ha pericolo sì grande, che
il savio, ove si tratti della salute della patria, pensi di dover fuggire. Allorché ne deve andar di
mezzo il durevole ben essere dello
Stato, un buon cittadino esporrà certo la sua vita a lutti i pericoli per la difesa della pubblica fortuna, e sarà
fermo in questo sentimento, che per la
patria ei debba gitlarsi coraggiosamente in qualsivoglia pericolo, per quanto grande ei sia. » Si farà cambiamento
rispetto alla pronunciazione, se, passando dal tuono semplice al veemente c a tutte le altre
modificazioni della voce e del gesto, nell’ allo stesso che noi diversificheremo per mezzo delle parole
il medesimo unico pensieroso accompagneremo eziandio con una varia ed. energica
azione. Per mezzo di precetto non è
molto facile spiegare la cosa, ma colla
pratica è facile ad apprenderla, talché non
v’ò bisogno di dare esempi in iscritto. Il terzo genere di cambiamento
sta nella forma, che si fa prendere al
pensiero; sccondochè o vogliamo
trattarlo per dialogismo o per emozione. Il dialogismo (del quale parleremo a
suo luogo più largamente tra non molto,
toccandone ora quel tanto che basta
all’uopo) è una figura, che pone nella bocca
di alcuna persona un discorso
conveniente alla dignità sua; e acciocché meglio s’intenda la cosa, noi non ci dipartiremo dal
nostro primo esempio, trattandolo per
dialogismo: « Il savio, che giudicherà
di dover affrontare tutti i pericoli per
difesa della patria, dirà sovente a sé
stesso: Io non sono nato solamente per me, ma eziandio e mollo più per la patria: questa
vita, ch’io non potrei ricusare al destino, sia soprattutto spesa a salvezza
della patria. Essa fu quella che mi
nudrì, che mi assicurò infino a questo
dì un’esistenza tranquilla ed onorata, che
protesse la mia vita con buone leggi, con ottime costumanze, con una
liberale educazione. Per quali servigi
potrò io pagare i benefizii ch’ella mi
ha fatti? Per questo linguaggio, che il savio
tiene a sé stesso, io appunto nei rischi della repubblica non ho mai
esitato di affrontare qualunque pericolo. » Similmente si fa cambiamento
della cosa rispetto alla forma, se essa
cosa si tratti per emozione, allorché,
vivamente commossi noi stessi, cerchiano pur di commovcre gli animi di
coloro che ci ascoltano: per esempio: a
Chi è mai qui di sì piccola mente
dotato, il cui cuore avvolto sia nelle
miserie dell’invidia, il quale abborrisca di
lodare altamente c di giudicare come il più savio degli uomini colui, che per la salute della
patria, pel ben essere dello Stato, per
la conservazione della pubblica fortuna
affronti ogni più grande, ogni più
atroce pericolo, c vi si getti dentro con
lutto l’ardore? Per verità, che, in quanto a me, io sento nel mio cuore piuttosto il desiderio
che il potere di lodar degnamente un tal
uomo, e sono certo che anche voi tutti
provate in voi il sentimento medesimo. » Una medesima cosa adunque si può nel discorso variare in tre maniere,
cioè rispetto alle parole, rispetto alla pronunciazione, rispetto alla forma; c
iu quanto a quest’ullima maniera si sceglierà o la forma del dialogismo o
quella dell’emozione. XLIV. Ma se si tratti non già di ripetere la
cosa medesima, ma di discorrere sopra
la medesima cosa, noi avremo dei mezzi
più numerosi di variare il discorso. Imperciocché- dopo che noi avremo semplicemente enunciata la cosa, vi polrem
tosto aggiungere una prova, poi
profferire in due ma nicre una sentenza, la quale potrà essere o senza prove, o con prove: in appresso potremo far
uso del contrario, delle quali cose
tutte noi abbiamo parlato nelle figure
di parole; poi passeremo alla
similitudine c all’ esempio, di cui parleremo ampiamente a suo luogo;
all’ ultimo termineremo colla
conclusione, della quale noi dicemmo quanto era necessario nel secondo libro, allorché
esponemmo . la maniera di eonchiuderc l’
argomentazione. In questo stesso libro
noi facemmo pur conoscere qual sia la
figura di parole, che porta il nome di
conclusione. Una espolizione adunque di questo genere potrà piacere mollissimo, quando si
componga di un gran numero di figure di parole e di pensieri. Affinchè sia tale deve avere sette
parti. Noi non ci allontaneremo
dall’esempio già dato per mostrarli con
quale facilità, mercè le regole dell’arte, un’unica proposizione trattar si
possa in diverse maniere: « Il savio per difesa della patria non fuggirà verun pericolo, perchè sovente
accade che colui, il qual non vuole per
la patria morire, necessariamente
perisca insieme con la patria. E poiché
dalla patria noi abbiamo ricevuto lutti i comodi clic godiamo, così non dobbiamo
per la patria riputar grave veruno incomodo. Coloro adunque che fuggono quel
pericolo, che per la patria abbiamo
obbligo d’incontrare, opcrauo da stolli;
perocché nò sottrarre si possono ai mali pubblici, ed anco n’hanno voce
d’ ingrati verso la patria. Ma quelli,
che con loro incomodo pigliano sopra di sè
i pericoli della patria, sono da aversi in conto di savii, perchè e mostrano di rendere alla
patria quell’onore che le è dovuto, ed
aman meglio perire pei molli che coi molli. Infatti sarebbe ingiustissima cosa
restituire alla natura, quand’clla il
vuole, quella vita che noi ricevemmo da lei, ma che pur ci fu conservata con grandi benefizii
dalla patria, e non darla alla patria,
quand’ella ce la domanda; e, potendo noi
con grande virtù e gloria morir per la
patria, preferir di vivere nell’infamia
e nella viltà; ed essendo noi pronti ad affrontar pericoli per gli amici, pei parenti, e per
tutti gli altri congiunti, non voler
mettere la nostra vita a vantaggio della
repubblica, la quale, non che tutte
queste cose, il santissimo nome di patria in sè racchiude. Pertanto come
è da biasimare colui, che , in una
burrasca cerchi di salvar sè unicamente
piuttosto che tutta la nave, così è da condannare colui, che nel pericolo delia repubblica
antepone la salute sua alla salute
comune. Imperciocché, rotta per ventura
la nave, molti pure scampar possono sani e salvi, ma nel naufragio della patria
non ci ha veruno, che possa scamparne.
Il che mi pare aver Decio assai bene
inteso, il quale, dicono, votò sè medesimo, c per salvar le legioni si
precipitò in mezzo a’nemici; nel qual
fatto ben lasciò la vita, ma non giltolla indarno; perchè con una cosa
labilissima ne riscattò una durevole, e dandone una di poco prezzo n’ebbe una assai preziosa.
Donò la vita, e ne ricevette la patria,
lasciò lo spirito, ed acquistò la gloria;
la quale perpetuandosi nell’ ammirazione dei secoli , coll’ invecchiare
diviene ognora più splendida. Che se
colla ragione è dimostralo, e confermato coll’esempio, che affrontar si debbono i pericoli per amor della cosa
pubblica, egli è adunque d’uopo avere in
conto di savii coloro che per salute della patria non si sottraggono a pericolo alcuno. » Tali sono le diverse
maniere di espolizione; intorno alla
quale figura noi ci siamo trattenuti a lungo, non solamente perchè dà forza ed ornamento al discorso, quando noi
trattiamo una causa, ma soprattutto perchè essa presenta il miglior mezzo di
esercizio nella facoltà del ben dire.
Bisogna adunque che nella trattazione di
una causa non vera noi ci esercitiamo nelle diverse maniere della espolizione,
e che ce ne serviamo pure nei pubblici ragionamenti, quando abbellir vorremo
l’argomentazione, di cui parlammo nel
secondo libro. La commorazione è quella, per la quale noi ci fermiamo a lungo e ritorniamo sovente
sopra il punto più solido della causa, quello al quale tutta intera la causa si riferisce. È
vantaggiosissimo il far uso di questa figura, c ai buoni oratori è molto
famigliare; perciocché per essa non si permeile all’ uditore di allontanarl’
attenzione dal punto più importante. Non mi è possibile il dar qui un esempio abbastanza idoneo, perchè questo
punto non è mai separato da tutta la
causa intera, come membro distinto dagli
altri, ma egli è come sangue che circola in tutto il corpo del discorso.
L’antitesi è quella figura, per cui oppongonsi contrarii a contrarii. Essa è nel numero delle figure
di parole, come vedemmo più sopra conquell’ esempio. « Ai nemici placabile, agli amici implacabile
ti mostri; » ma appartiene altresì alle figure di pensieri, come si vede in questo esempio: « Voi
piangete le disgrazie di costui, c
costui gioisce dei mali della
repubblica. Voi vi diffidale delia fortuna vostra, costui solo si gonfia
tanto maggiormente della sua. » Fra
queste due sorte d’antitesi ci ha questo divario, che la prima consta di due
parole immediatamente opposte, e qui bisogna ciré si presentino due pensieri contrarii messi a confronto. La
similitudine è una figura, che applica ad una cosa alcun che di somigliante
tolto da una cosa diversa. Si fa uso di
essa o per abbellire, o per provare, o
per dilucidare una cosa, o per metterla dinanzi agli occhi; e siccome se ne fa uso per
quattro motivi, così essa si tratta per quattro maniere: per contrario, per negazione, per laconismo, per
confronto. Noi verremo mostrando come a ciascuna di queste quattro maniere
corrisponda uno dei quattro motivi, che
usar ci fanno la similitudine. Quando la similitudine ha per fine rabbellire,
si prende per contrario così: «Egli non si
deve giù pensare che, come 1’ atleta, che riceve l’ardente fiaccola, meglio sostiene nella
palestra la celerità del suo corso, che
rallcla,il quale gliela trasmette, così
abbia ad esser migliore un nuovo
generale, che viene a prendere il comando dell’esercilo, di quello al
quale succede; perciocché là è un
cursore affaticato, che ad un cursore fresco
di forze consegna la fiaccola, equi è un generale sperimentato, che consegna l’esercito a un
generale ancora inesperto ». Anche senza una tale similitudine potevasi dire
con bastante chiarezza, evidenza e
verità in questo modo: « Che i meno
abili generali succeder sogliono nel comando delle armate ai generali più esperti »: ma la
similitudine fu presa per abbellire, onde il discorso risplendesse di una certa
quale dignità. Essa fu poi trattata per contrario; c prendesi appunto per
contrario, quando noi neghiamo che una cosa sia simile a quella che noi
rechiamo nel mezzo , in quella maniera
che qui abbiam veduto in parlando degli
atleti che corrono. Quando la similitudine ha
per fine il provare, si fa per negazione a questo modo: « Nè un cavallo indomito, quantunque
sia ben conformalo dalla natura, esser
può idoneo a que’ servigi che da un cavallo si vogliono, nè un uomo indòtto , benché abbia naturale ingegno
, può pervenire alla virtù». Ciò che prova
questa sentenza, si è, che diviene più
vcrisimilc che senza dottrina non si può giungere alla virtù, quando siasi riconosciuto che un cavallo indomito
non potrebbe esser alto al bisogno. Dunque la similitudine è stata presa a fine
di provare, e si è trattata per
negazione; il che chiaramente si manifesta sin
dalla prima parola della similitudine.
XLVII. Quando la similitudine avrà per fine di render più chiara la cosa, si prenderà per
laconismo, come: « Nei doveri dell’amicizia non bisogna, come nelle corse del circo, limitare i
proprii sforzi al punto di toccare la
mela, ma sì usare tanto di zelo c di
forze da oltrepassarla agevolmente ». Il
fine di questa similitudine è quello di far conoscere più' chiaramente
che sarebbe cosa indegna rimproverar coloro, che, per modo d’esempio, dopo la morte di un amico, pigliassero cura
de’suoi figliuoli, perciocché un atleta, che corra, basta che abbia tanto di velocità da toccar primo la
meta, ma un amico deve aver tanto di
benevolenza da pervenire, nella devozion dell’ amicizia, più in là di quello, che sentir possa l’amico. Questa
similitudine è esposta per laconismo: imperciocché i due termini di attinenza non si presentano già
separati, come negli altri esempi, ma bensì congiunti ed incarnati l’uno
nell’altro. Quando la similitudine avrà
per fine di metter la cosa sotto agli occhi, si
farà per confronto: per esempio: « Come un citaredo, il quale ne venga
innanzi magnificamente vestito, coperto
di un mantello dorato, trascinante una
clamide di porpora di varii colori tessuta, ornalo il capo di una corona d’oro
di grosse scintillanti gemme tempestata, avente tra le mani una elegantissima celerà fregiala d’oro e
d’avorio; e sia inoltre egli stesso
ammirabile per fattezze, beltà, e statura conveniente alla dignità; se dopo
avere per tutte coleste cose mossa nel
popolo una grande aspettazione, fattosi di repente silenzio, mandi fuori una voce spiacevolissima, accompagnata
da sgarbati movimenti di persona, quanto
più avrà sfoggiato di ornamenti, ed
eccitala l’aspettazione, tanto più fra
derisioni e fischi sarà via cacciato;
non altrimenti un uomo, il quale, collocato in alto grado di nobiltà c pieno d’agi e ricchezze,
abbondi di tutti i favori della fortuna,
c di tutti i vantaggi della natura, se
manchi di virtù, c di scienza, la quale
di virtù è artefice, quanto più sarà di tulle
le altre cose ricco, c per quelle chiaro-ed invidiato, tanto
maggiormente fra derisione e disprezzo
sarà cacciato da ogni usanza de’buoni ». Questa similitudine, dipingendo con vivi colori le
due parli della comparazione, c facendo
eguale confronto dell’ imperizia d’arte dell’uno e dell’ignoranza dell’auro,
molle la cosa dinanzi agli ocelli. Essa
fu qui trattala per confronto, perchè, stabilita l’attinenza di similitudine, tutte le parti
corrispondono fra loro. Nellesimililuilini converrà diligentemente osservare di
sceglier parole acconce a significar con
giusto rapporto le idee clic voglionsi esprimere nei due termini della
comparazione. Se noi, per esempio,
avremo detto: «Come le rondinelle se ne
abitano jn mezzo a noi nel tempo estivo, e da
noi si partono cacciate dal freddo »; converrà che noi dalla stessa similitudine prendiamo
parole traslate, dicendo: « Così i falsi amici restano con noi nel tempo sereno di nostra vita, ma appena
‘veggono spuntare il verno della fortuna, se ne volano via tutti ». Egli ci sarà facile trovare
rapporti siffatti, se polrcm porci dinanzi agli occhi tutti gli esseri animati
o inanimati, parlanti o muti, feroci o
mansueti, terrestri o celesti o marittimi, o dall’arte creali o dal caso o dalla natura, ordinarli o
straordinarii, c scoprire in essi similitudini che contribuir possano o ad
abbellire o a rischiarare la cosa, o a
porla dinanzi agli occhi. Non è però necessario
che le.due cose fra loro paragonate siano interamente simili: basta che
abbiano in parte fra loro una tal quale
analogia. L’esempio è allegazion di un fatto o di un detto con nominazione del suo autor.e. Questa
fi gara si usa per gli stessi molivi della similitudine. Essa rende più abbellita la cosa, quando noi
non 1* usiamo die per cagione di
abbellimento; la rende più chiara, se non ha altro scopo che quello di rischiarare ciò che è oscuro; la rende più
probabile, quando presenta la verisimiglianza; la pone dinanzi agli occhi,
quando esprime tutto con tale evidenza
clic si possa, direi quasi, toccarconmano
la cosa. Io avrei qui aggiunti gli esempi di ciascuna specie, se non
avessi già fallo conoscere nella
espolizionc il carattere di questa figura, e non avessi nella
similitudine falli aperti i motivi di doverla
usare. Ecco il perchè io nè ho qui voluto limitarmi a dir poche parole, onde non mi avvenisse di
non essere inteso, nò dirne di troppe
nel mentre che la cosa era già
bastantemente intesa. L’immagine è
paragone di forma con forma, fra cui sia una
certa simiglianza. Essa si usa o per motivo di lode, o di biasimo. Per motivo di lode si dirà, per
esempio: « Egli andava a battaglia simile per membra al più vigoroso toro, per impelo al più
terribile leone. « Per motivo di biasimo
l’immagine deve addurre o nell’odio, o
nell’invidia, oneldisprczzo. Nell’odio,
così: « Questo mostro striscia tutto il dì
in mezzo al foro come un crestuto drago con adunchi denti, con infocato
sguardo, con mortifero alito, girando qua c là gli occhi per iscoprirc una vittima da avvelenar col respiro, da lacerar
coi denli, da coprir coll’ immonda sua bava. » Per addurre nell’ invidia, così:
« Costui che vanta le sue ricchezze,
curvalo ed oppresso dal peso del suo
oro, grida e giura, siccome un sacerdote di Cibele, od alcun altro
indovino. » Per addurre in disprezzo, così: « Costui è simile a lumaca, che
nascondendosi e rannicchiandosi in se stessa silenziosa,^ tutta quanta portata
via con la propria casa per venire
mangiata». L. Il ritratto, o la
prosopografia, è quella figura, che per mezzo di parole esprime e rappresenta
Testerno di una persona tanto fedelmente che basti a farla riconoscere: per
esempio, così: « Io parlo, o giudici, di
quest’uomo rosso in viso, piccolo,
storto, a capelli bianchi e alquanto
ricciuti, con gli occhi azzurri, che ha una grande cicatrice sul mento, se pure in qualche modo
ei può larvisi presente alla memoria. »
Questa Ggura torna utile, quando si vuol
far riconoscere alcuno; ed è pure
graziosa, quando sia fatta conbrevilà e
chiarezza. L’etopea è quella, che descrive il carattere di alcuno,
presentando certi tratti, che ne
mostrino esso carattere. Se tu vuoi, per esempio, descrivere non già un uomo ricco, ma chi si
vuol dar l’aria d’ esser ricco, dirai
così: « Osservate, o giudici,
quest’uomo, che trova sì bello di passar
per ricco; osservate in prima con qual occhio ci guardi. Non sembra egli dirvi: Io vi farei un
presente, se ve ne credessi degni? E allorché con la mano sinistra egli sollevasi il mento, crede
di abbagliare la vista di tutti con lo splendor de’ diamanti e il luccicore
degli anelli che porla nelle dila. E allorché si volge indietro a chiamare il
suo unico servo, che io ben conosco, c
che non è, credo, da voi conosciuto, ei lo chiama ora con un nome, ora con un
altro, e poi con un altro ancora. Olà,
grida egli, vieni qui tu, o Saninone, chè io
non vorrei che colesti zoticoni facessero le cose a rovescio: di maniera che coloro, che odono
gridare e altro non sanno, si pensano eh’ egli ne preferii sca uno tra i molti suoi schiavi. E che cosa
dice a Sannione di fare? Gli dice piano
all’orecchio o di mettere in assetto i
lctticciuoli per la mensa, o di andar a
prendere da suo zio uno schiavo Etiope,
che lo conduca ai bagni, o di approntar dinanzi alla sua*porla un cavallo delle Asturie, o di
apparecchiare qualche altro fragileornamcrvtodellasua falsa gloria. Di poi grida sì che lutti l’odano:
Bada che la somma sia per intero pagala,
se è possibile, avanti notte. Il servo
che già da tempo conosce il debole del
suo padrone, risponde: Bisogna che voi
mandiate più d’un servo, se volete che la somma sia per intero contala c portata a casa.
Ebbene, dice l’uomo, conduci con le Libano c Sosia. Padron sì, risponde l’altro. In appresso vengono a
trovare per caso il nostro vanitosa
alcuni ospiti, i quali nell’occasione di un viaggio, ch’egli fece, lo avevano
accollo in loro casa e trattato splendidamente.
Senza dubbio a tal vista ei rimane turbato, ma pure non gli dà l’animo di tradire il proprio
carattere; e, Ben faceste, dice, di
venirmi a trovar qui ; ma avreste fatto
meglio, se foste andati dirittamente a
casa mia. L’avremmo fatto, rispondono essi, seavessimo saputa la vostra
abitazione. — Ma era pur facile di
saperla, domandandone a chiunque; tuttavia venite con me. Quelli lo seguono:
Intanto, strada facendo, ogni discorso
va a terminare in ostentazioni. Domanda
qua e colà come si presentino le messi nei campi: dice che non può recarsi a visitar le sue terre perchè le sue case di
campagna gli sono stale incendiate, e che non s’attenta ancora di riedificarle; però, aggiunge egli,
ho cominciato ne’ miei fondi del Toscolo a spendere e spandere, e a costruire sui medesimi
fondamenti. LI. Infraliamo ch’egli parla
così, giunge ad una casa, dove il giorno
stesso doveva aver luogo un banchetto di
amici, e dove, conoscendone egli il
padrone, entra insieme cogli ospiti. Ecco, dice, dove abito. Va osservando minutamente le
argenterie disposte sulla tavola, e i Ire letti preparati: approva ogni cosa. Gli si avvicina un piccolo
schiavo, che gli dice piano all’orecchio che il suo padrone sta per venire, e
ch’egli s’accontenti di uscire. Oh! è ben vera la nuova, esclama egli? Andiamo,
o miei ospiti; il frale! mio arrivada Salerno:
10 voglio andargli incontro: voi ritornate costà alle dieci ore. Gli ospiti partono: costui di
soppiatto cacciasi dentro alla sua casa.
Alle dieci ore, sccondocliè egli aveva fissato, tornano gli ospiti: domandano
di lui: allora vengono a conoscere chi sia
11 padrone della casa, e pieni di vergogna si ritirano ad un albergo.
All’indomani trovano l’uomo, narrano
l’avvenuto, si querelano, glidiconolemale
parole. La rassomiglianza de’luoghi, risponde egli, vi ha ingannati: voi avete preso abbaglio di
tutto un viottolo; io vi ho aspettati ad
ora assai larda, il che è contrario alla
mia salute. Egli aveva già innanzi dato incumbenza a Saninone di andar a cercero
in prestito vasellami,. arazzi, servidori. Il piccolo schiavo, destro non poco,
adempie con bravura e prontezza al comando: costui introduce m sua casa gli ospiti. Afferma di aver prestato
i suoi grandi appartamenti ad un amico
per celebrarvi le nozze- Tutto ad un
tratto il scrvidorctto gli viene a dire,
che si ridomandano le argenterie (peroc _chè chi le aveva prestate non istava
scnzasospelli). Levali via di qua, grida
il padrone; io ho prestato i miei
appartamenti, ho dati i miei schiavi, e si vogliono anco le argenterie? Ma
benché io abbia degli ospiti, alla
buon’ora, se ne giovino pure; noi ci
contenteremo dei vaselli di Sarao. — Dirò io
tutti i fatti di costui? Tale è il carattere di questo uomo, che tulli i
tratti di vanità e di ostentazione, clic
ogni di gli sfuggono, non potrebbero essere
da mq raccontali in un anno intero. » Siffatte elopee, clic dipingono al
naturale il carattere di un uomo,
porgono un grandissimo diletto. Conciossiacliè esse pongono dinanzi agli occhi
l’animo e i costumi di chiunquc,o di un
vanitoso, come nel precedente esempio, o di un invidioso, o di un pusillanime,
o di un avaro, o di un innamoralo, o di un
dissoluto, o di un truffatore, o di uno spione; insomma non v’ha
tendenza dell'animo che per mezzo di questa figura non possa venire al vivo
dipinta. LIl. Il dialogismo è, quando si
attribuisce un discorso a qualche
persona esponendolo nella maniera che conviene alla dignità sua, per
esempio: Allorché la città era inondata
da soldati, c gli abitanti, tutti presi
da spavento, si stavano chiusi nelle
loro case, si presentò costui vestito alla militare, con la spada al fianco, e
un giavellotto In mano. Cinque giovani armali come lui lo seguivano. Tutto ad un tratto si precipita nella casa, c
grida ad atta voce: Dov’ è il fortunato
padrone di questa abitazione? perchè non
viene innanzi? ond’è questo silenzio? Immobili per lo spavento, gli altri tulli non osano aprir bocca. Sola la moglie
di questo infelicissimo sciogliendosi in lagrime giltasi ai piedi di costui, e. Grazia, dice ella,
grazia; in nome di ciò, che liai di più caro al mondo, abbi pietà di noi; non-
voler uccidere chi non ha più vita: sii
temperante nella fortuna; anche noi fummo felici; pensa che sei uomo. Ma egli continua a gridare: diesiate aspettando per darlo nelle mie
mani? Cessate di assordarmi coi vostri lamenti.
Egli non isfuggirà. Frattanto si
annunzia al misero che il suo nemico è
in casa, e che con g'rande schiamazzo minaccia morte. A questa nuova esclama:
Old mio Gorgia, oh! fedel custode de’
miei figliuoli, nascondili a questo
barbaro, difendili, fa di potermeli condurre sani e salvi alla adolescenza.
Appena ha egli profferite siffatte parole, che in un momento si avanza questo
assassino, e grida: Tu dunque stai nascosto, o temerario? La mia voce non
fi ha già levata la vita? Appaga
l'inimicizia mia, c nel tuo sangue
s’acquieti la mia collera. Allora coraggioso il cittadino rispondevo pensava di
non esser vinto appieno; ma ben veggo
che sì: tu non vuoi terminar meco la
contesa dinanzi ai tribunali, dove la
disfatta è vergognosa e la vittoria onorevole; tu vuoi uccidermi. Ebbene, io perirò
assassinalo, ma non vinto. Costui allora: Come! anche nell’ora estrema del tuo vivere vuoi dir sentenze, e
abborri di supplicare chi ti tiene in
suo potere? — Allora la donna: Anzi ei
prega, ei supplica. Ma deh! tu non
essere inesorabile; e tu, mio caro marito, in
nome degli Dei, stringi supplicante le sue ginocchia. Egli è padrone di
te; egli li ha vinto; sappi or tu vincere te stesso. Perchè non cossi, o donna,
dice il marito, di parlarmi cose affatto indegne di me? Taci, e pensa solo ai tuoi doveri. E
tu, a che tardi di togliermi la vita, e
di levare a te medesimo colla mia morte
ogni speranza di onorato vivere?
L’assassino respinge da sè la donna piangente, eal misero, che apriva
bocca per profferire non so quali parole
degne del suo coraggio, pianla d’un
colpo la spada nel fianco. » Io credo di avere in questo esempio dato a ciascuno il linguaggio
che conveniva alla sua dignità, il che è
la cosa più imporlanlQ.in questa figura. Vi sono, ancora dei dialogismi, che si
porgono come conseguenze: per csempio: « Che si dirà mai se voi darete una tale sentenza? Non parleranno forse tutti gli
uomini in questa maniera? » E qui si
soggiungeranno le parole acconce al dialogismo. LUI. La prosopopea è uua
figura, per la qualeuna persona assente è presentala come se fosse dinanzi a noi; una figura, che attribuisce ad
un essere muto o immateriale un
linguaggio, e una forma, e lo fa operare
c parlare secondo la propria natura: per
esempio: « Se ora questa nostra invittissima città avesse lingua per parlare,
non vi farebbe ella questi rimproveri?
Io, la quale adorna sono dei più belli
trofei, e ricca dei più gloriosi
trionfi, e accresciuta delle più luminose vittorie, sarò ora, o cittadini, dalle sedizioni vostre
lacera unno iv. tu? Quella Roma, cui nè le astuzie della perfida Cartagine, nè le forze della formidabile
Nnmanzia, nè i trovati della dotta
Corinto fiatino potuto rovesciare, soffrirete voi che or venga dai più tristi
omicialloli disfatta e conculcata? » E parimente: « Se ora vivo tornasse quel Lucio Bruto, e
qui dinanzi al cospetto vostro venisse, non vi parlerebbe egli in questa guisa? lo ho i re
discacciali;' voi i tiranni introducete:
io la libertà, la quale non era, ho
recata; voi, che quella avete, non la volete serbare: io con pericolo della
vita ho la patria liberato; voi, polendo esser liberi senza pericolo, ciò non curate? Questa figura pedo più
personificando le cose mule e inanimale», è di una utilità grandissima nelle
parli diverse dell’ amplificazione, e
nell’ eccitare la commiserazione. La significazione, , della anche enfasi, è quella figura, che
lascia più a immaginare di quello che
non esprimano le parole. Essa si tratta per esagerazione, per ambiguità, per
conseguenza, per reticenza, per similitudine. Per esagerazione, allorché si
dice più di quello che la verità non
permette, allo scopo di aumentare la
sospizionc: per esempio: « Costui di
tanto patrimonio in sì corto spazio di tempo non ha salvato pur un coccio-con cui recarsi a
limosinare un po’ di fuoco. » Si tratta per ambiguità, quando una parola può riceversi in due o~più
significati, ma si riceve in quello che vuol dargli l’o latore; come se volendo
tu parlare di un uomo, che è ilo
buscacciando di molle eredità, dicessi: « Osserva bene tu, che hai cosi buona
vista. » I.IV. Quanto però sono da
evitarsi le ambiguità, che fanno oscuro il discorso, altrettanto sono da
cercare quelle che generano significazioni di questa guisa. Noi le troveremo
facilmente, se conosceremo e ben considereremo i dubbiosi o molteplici significali delle
parole. La significazione si fa per
conseguenza, allorché non si nomina che
ciò che può essere conseguente di una
cosa a fine di far nascere l’idea della cosa stessa, come se tu dica al figlio
di un pizzicagnolo: « Statti cheto, o tu, il cui padre solca forbirsi il naso
col gomito. » Si tratta per reticenza, allorché, dopo avere incominciato un
discorso, lo tronchiamo, c da ciò che abbiamo detto, lasciamo bastantemente
conghietturare ciò che manca: per
esempio: « Questi, il quale si bello, si
giovane poco fa in estranea casa io
non vo’dire di più. » Si tratta per
similitudine, allorché, raccontalo un fallo analogo, non aggiungiamo altra
osservazione, ma da quello lasciamo intendere ciò che pensiamo: per esempio: «
Non voler troppo fidarli, o Saturnino,
di questa moltitudine di popolo. I Gracchi sono caduti, c la loro morte è invendicata. » Questa figura unisce
qualche volta molta piacevolezza a molta dignità; perocchè lascia indovinare
all’ uditore ciò che l’ oratore punto non dice. 11 laconismo è quello che non usa che le parole necessarie ad esprimere
la cosa: per esempio: Prese Lenno in
passando; quindi lasciò un presidio a
Taso; poi atterrò una città in Bitinia;
di là cacciatosi nell’ Ellesponto,
subitamente s’impadronì di Abido. » E similmente: « Testò consolo, prima
tribuno, divenne poi capo della
repubblica. » E ancora: Parte per l’Asia, si dichiara esule e nemico, appresso
si fa comandante, c finalmente consolo. » Il laconismo racchiude in poche parole assai cose; e fa
d’uopo usarlo di sovente, quando o le
cose non hanno bisogno di un lungo discorso, o il tempo non permette
d’interienervisi attorno. LY.
L’ipotiposi è quella figura che presenta un
fatto con tanta verità che si crede di averlo sotto gli occhi. Si ottiene questo effetto, se si
riunisca in un sol quadro ciò che ha
preceduto, seguito, e accompagnalo
l’azione; o, in altri termini, se non si
trascurino nè le circostanze, nè le conseguenze; per esempio: « Appena Gracco vide che il
popolo fluttuava c dava segno di temere
non forse egli medesimo spinto fosse
dall’ autori là del senato a rinunciare
al suo progetto, fece tosto bandire il
parlamento. In questo mezzo costui, non agitando in sua mente che delitto e mali pensieri,
corre giù a volo dal tempio di Giove, e
grondante di sudore, con gli occhi ardenti, coi capelli rabbuffati, con la toga raccolta, seguito da molti altri
congiurali precipito il suo corso. In questo momento il banditore domandava silenzio per Gracco:
arriva costui, e premendo col calcagno uno de’ sedili, ne rompe colla destra
mano un piede, ed ordina agli altri di imitarlo. Nel mentre che Gracco comincia a dire la solila preghiera agli Dei,
questi congiurati correndo si slanciano sopra di lui; da ogni parte concorrono altri volando:
allora uno del popolo grida: Fuggi, o
Tiberio, fuggi: non vedi tu? risguarda, dico.
Ben tosto la incostante moltitudine
presaga subitaneo spavento dassi alla
fuga. Costui, spumante la bocca di scellerata rabbia, e respirante
crudeltà dall’ imo petto distende il
braccio, e a Gracco, che ancor dubita di ciò che è, e pur non abbandona il preso posto, pianta
il pugnale in una tempia. Egli non
Smentendo punto neppure con una parola
la solita sua costanza cade in silenzio.
Costui coperto del sangue, da deplorarsi pur sempre, di quest’uom generoso,
volgendo intorno gli occhi, come se compito avesse la più gloriosa aziono, e allegro porgendo la
sacrilega mano ai gratulanti, se ne ritorna al tempio di Giove. » Questa figura in siffatti racconti è
di un gran vantaggio, sia per
amplificare, sia per eccitare la compassione: essa mette l’azione in iscena, e
la pone, per così dire, sotto ai nostri occhi. Abbiamo con molta cura raccolti
tutti gl’insegnamenti atti a render adorna l’elocuzione. Se tu, o Erennio, vi aggiungerai un assiduo
esercizio, potrai nel dire aver gravità,
dignità e soavità, per parlare da vero
oratore qnon presentare un’invenzione nuda c disadorna in linguggio triviale.
Ora noi, per un comune scopo, metteremo
in comune i nostri sforzi; cercheremo
cioè di raggiungere con lo studio e
l'esercizio continuo tutta la perfezione
dell’arte; il che agli altri non è agevole fare, per tre ragioni principalmente: o perchè non
hanno con chi possano di buon grado
esèrcilarsi, o perchè di sè stessi diffidano, o perchè ignorano il metodo da
tenersi. Queste difficoltà sono tutte da noi
lungi, chè e volentieri ci esercitiamo insieme per l’amicizia nostra, cui il parentado originò e
l'uniformità degli studi filosofici rese più salda; e non disperiamo di noi poiché qualche progresso
facemmo e ad un più nobile scopo accesamente aneliamo; talché se non perverremo
nell’oratorio aringo dove è pur nostro
intento, poco ci mancherà per conseguire
nella vita sociale un grado onorevolissimo; e sì conosciamo la via da battere,
perchè in questi libri niun precetto
rcttorico abbiamo intralascialo. Infatti si è mostrato come trovar si possano
le cose proprie a ciascun genere di causa; si è
detto in q ual modo abbiansi a disporre; con quali regole si debbano
pronunziare; con quai mezzi ce ne possiamo ricordare; si è finalmente spiegalo
come acquistarsi possa una perfetta
elocuzione.I quali insegnamenti tutti se porremo in uso, la nostra invenzione
sarà ingegnosa e pronta, la nostra disposizione
distinta e chiara, la nostra pronunciazionc nobile c non priva di venustà, la nostra memoria
fedele e tenace, la nostra elocuzione adorna e piacevole.Ecco quanto nell’arte rettorica si comprende.
Tutte queste condizioni conseguiremo, se agli insegnamenti deli’ arte
aggiungeremo un diligente esercizio. UN E DELLA RETTORICA AD ERENNIO LE OPERE
TUTTE CON LE VERSIONI A FRONTE:
DELLA RETTORICA AD.., Galloni IP DELLA BETTORICA AD ERENNIO CALLOSI
LA RETTORIA unito PRIMO ESrSSSE aess
\UI. M.i ik-N'n.iiiil^ Li, li il lìn Hi:
LA RETTOBULl 'I un uni
i|!iii],| U .r luminili mi nlilili.lcrii iieniiv.ni '.al
':,ii.,. eia, quacIMguéo ,- i .,1 i
imi. Hiilnria e,( re* piM.i. ..'.! al, iu l„li, inijir.i. min I ii'lili.in. in. un, lui,, emi In™ in eiccrcnilii Ican-iìieiiln frinii, ni 1 h ,1 t .[lloiiio.l.i ueneri.II primoèi|uaiuln espnniamu un
faUO.C ne liii,i neni Lii.:,i-MriM j
iic-lm \ / 1 1 |n:r ulIrncre villnrillil
l|,l„l |lilli,T(: Il 1 1 fu r I lei 1 1; il |||>|I[II,I J ig, che ni r,i, n ti, no ai! i-s^-cr
gi-iJirali' li -.--fi-ii.Lo ei-ni-Ti- tii narrazioni i qni'lln, dio il.olla
iillcriieii.' nei m.vz.i ,],:llr r.nih. per inolilo ili |iroia. o iti accusa, n
ili irunsitnuie. « ili ani:iclii.inieiil.,.u ili lr,.lc.ll Icrzo e.,:n tu è
(]ijrllu, (i lic-n.l «li.ncu alla eau.a
ci ri In, mi nel quale imiti™'
niill.i.liriieii.i ccrciucsi |"r |,til,-r jiiii leccai ci ani crii e
Irallic ncllii cause rjuci duo iwnciidi
narratine, clic iililii.nim .Inno ili -'i|ir.i.l>i cnlosu niritóoiio ci In il ih' specie, l'uni die
numerili lg chip, Pulirà Ir i-prsonn.
guniti >pi..ic, cli« i itjiKirda le .ose. ha Ire ciurli, la involo, la hlocia,
la molli.- il ione. Lo limici è , india, clic eoiilicne cose. cu o mi
|i.'si/n è imi l'i.-.i liiila.ma die iiii,,liini-|m [une. nrcadccc. eulm: i r.i'.l, mi-,|i,isIÌ .Ielle
c.jiinic.lie. Onci funere ili narrai
mie. l ini riguarda le perso„,'. il.'u- coni, mere In orarie ,l.'l .Inc. 1,1
rtiiersiL.'. in ni. II. i lai laici III,
.Ielle alia Ii'Iii|ih|. rum. pcrsonnrum
ll'(lin , alos,roasili,,| 1,111 riiliiu,,'..
: n-MIi [Wa ll. ni s-eepa
vcrila-, ciii linci- serrala siili. IìiImii
f,.rcro non pelosi: sin crii fida, e m.cis mini iil.-.TVIirirla.II.' iis rollìi, ranle
aliala.;. -minili i'sl, .il,,.
.inVIalnr i h US. nini qnae de il ili rms Ipraelfr crlcr(*| in Iria lui., alimi. i:n:i - |-i.:i-. | -i
nulli..;. |i -H.l.iHl, a.i.i. t.-ril
i"-. I.:i.|...ir -in in ilil.i cìclieenus Sfiorirà, ipiiil niil'is ..ni.'aiil
al nielli. r|l]iil in r.nil nsia i rli',|.i.1iir L II. ni iii.i.|..; Ini. rleilani al. dr. : l nu:,: -| . . i 1.1 1:1 coalraior-ia. 1 1 rr-. 0 cannarlo, Aaaaa'in. linncm esse a Civile Ira inni- .',,11
Nielline; i| Il ili ila sii. Ilio
ulain'i p;n. ni l'in a»!;.!!! (i|.nr
l-rii.i-.r.i !:>. ur in dun
parie), enumeralo lupriamcnli. le
arnia. ,1,1.1. i il. .il...;i i.n.,^ I.: ,li;.ro5.aiiu e.-li a;:ee al saintetin
; olir min riìal K lii,i. 1 1. glie
ulllme co»*; a i no nuli i i li.- i lio S||..':IJ ni mi-l,:IIii ; 1:
linai al.: luasaaii la oliiareiia. se
in-a-i.oi'aine i preeelli. clia l'Uro
'ij; Lari'. 1,1 l.i.-lilii: |i,|riiia.lic .pillilo ;i a ilolilicraniiiiii, le iipniirtiniilà il.-'
lucili, allia.lic nau 01 si ["-ssa
a^iiiirri' 11 ili., il l.-iii| 11 a s.l,il.i
Illudo non ora cyaMTiiiali.'.n cllWnf.i..^o. ii C .iini.«irn'ieilij -l-'n; t il Ci l- f -ti . |iff. hi il ,1
r^c f j i mcrj tenti pctieulj». e pud
muore nell'udliott ilioi[Hlu ili mriNi.iiiiiif c ili nnili/iD ; tj quii
cosi Ir^l.p f-'ilc al lis:^ii. I.V-r,m i*iinn' irni'ivi' m i j
iv mimici i'iiii liri ilià ^ >ev;.i iiniim*-ijiii ri», .|iii Rullici- liTii|icslalriii naiim
irliil>:c[i:]l. murila \>i-vìm ;
curimi ii.nim «liTflr|i]r r-'.i-, >i
r.fi.iMTNMjnfHa sii, imi ri- n-i-riiH in n.vi, Mv ,'rihi.lirt- : t n i ;i ( L i r r.iii:,.-,
[Vrknili liniin ili-,;iOiiU.I tli.I
•lilfn, i liliali UT c.liiiiair di lumaca aM.an Inaino Ij navi-, ilHilurm
prr.kiu la n.mC oglil cojn; ( clic, JC la naie vada in aai>u, laulu LA
RETTORICA I :h!jiu o n j I- w 111L.. IS lom imi "Mio it-o, t fin rnnoiiom f rr
fi..ì.ir.,.i LA RKTTORICA DlJtiZ'XI t.
Ci LA RETTORICA iimm gssssssssasses wmm
ri'S".' n «"diS.; Lm di
ÌISÌIfÌɧ sssdfasr'- LA
RETTOHICA ir.rr-l.iri iipmliTC;
illuni iirrlt ucr oliassi- Ila ilia;sn ni. mini tjtlii™ni r iio .(> ni a Ir
[ir in ni miri ulici*c. DcftBSOf prlaiu ni domomuobil illim lotcprsm, si
pnlcrit: ili fi non pnlcril. cniinjgk-t sii
in.nrnilF.nliam, slullilioni , eilol^i'lilioili , vim, giui «Ira Ilì f piincri turni, timi ilc-bcal
abiuri, n.n itlimicnlrr iinuiizii:
liirpili.ilinr i.nr...;i|.]-.ir .1
infamia, prins iloliil op-rram, ili Msos runinrrs .liiiipaliii r..c uicul .Ir ÌMinccn'1' : pi
ulclur loco u uni ni uni, minori bus
mali unii Sin niliil horuin fieri
polon), ulular .-Uruiiu virltfnjiiitie ;
iiicot, muli ino li bui risa o|iud censore), ied ut iiiiiii.iil.us ailicr:a iuruui "l'in:
iiiikirs Juiirc. nvoro. lo dimostri --e in qtliilr.hc rn.jiln il può, corrompilo»
e misleale ; in Don per uno o più litri
villi lui lordo i' .mimo del suo acculalo ; e cunchlndmt, elio non dH
far menilnlh, che quello sic.so uomo,
cuc in oiUielro operò tosi male, abliia. ora commisio quell'idra nvsfjilo. Se I
oberarlo gt idri nome puro ed Intinti, dirà che bho. gna li? ncr conio dei foni, n»n del nome;
ch'rnli per lo posino srnrc orcullirc lo
sue lurpilutiim; ini clic ora esso
acouijlore (ari aperto che colui i reo
ili ini.f.ilto. IVr quello spella il .lilsniore, ili ni prillili Illudo vena u.mOilrando, se
polra, che lo vila dell' incolpilo è
iena macchio; se ciò ili.'lo
prrsnnsiniir: „.-i lcin.ili scuse .erri ad allonlinaro ila liti il bn.iiiio .l.
lk- mitmi .interiori oll'occiisj, di cui
presente meni e si Irolla. Mo se il
iliti'nsari: si Isinerii t.irte imbaulalo dalle lurpi IV, Collallu cst.quurnacruiiilor
id,ip , oc.ll s'appiglierò iti'
Mira tomo ni coslumi di lui d»i rin.ili
ci 3 clic * u" unr-n clic l oiinnc sia alata ilsgcms.-i ad dire perdine, r> che allrc
persimi' unirò .ihttjnn rinvilii tare ni
ili cui f arresalo un clicnle. Il segno
t rjur-llo |ior cui ni Jimtj fari; l'azione. l;-=o r.nni|ir In nei pirli: 11
Ino lili; quo dici, qua Docili
hors «P'iii'iui II» c unsi li cu li il
ii r : -aliw liingum [unii i",
poili che riuso II «UH; pe
ittdiitodnian atcìlìil i-.i m;Tr.inii:i qllml qo l'i lliiinn |ni"ii
i[ln[llii= 1.ir|i.'rrl .In i|uulilicl rumoreio proferì' ,[ cul:licu!]l Libuhni
ili* iip.ro. \>tu mi rumor i.mmnenu-r pnilni fisi- vi.lcljhur. areumcnlandu
farti) s li il ero ^olecimus abrogure. !
dillkilliina Irai-lalu ,.-1 concimilo
couicrliir.ilii , ci in icris caussis
-.ilal'i ne, i[iiiJ icri|-::irii 11;, ini'! ictaa dicaul, quid Indiali ssqui in M .[un.] riihiRrnler pcrscripluni iilrr.i-nciici'il':, ii^r.uo. ...vlj rimi
raim-it. Ili" In ennupla
[nfirelilur, niut- re., quuni uli iola, « addurremo rimici» unto racconto
conno ai insili nrrrrsani, || ,|u,| dir
Emo estero rir.elnlu ila tulli ; 01I
anche, allculiercroo uria vu ce vera, di
cui CHI abbiano ld arri» il re, ino li sia 11 'lo perielio 11. i inni |irc'>, m Mi.luiti, dell' cui 12. dia paliamo a I Quando ini 1 parli della qnUllon lc-g. ' inlmiimic ili colui eli olitole
allo scrina Ili |i "i domanderò,
inlcniinu? di si.ri.cri' nel minio dio n'inlcrpreu •|iial COKI lo impedì di Krlnre eppunlocusì?
Dopi ciò noi faremo apcrlo qoal s'i il
itro senso, e nielleremo in luce la cagione, par cui io ieri Ilare semi Ippolito c.injo scrisje, e proveremo che quello senno è ciliari), mutili], mimale, compililo,
delerminiiio, E qui n.iì produrremo esempi di giudilll pronuuiiali 1 favore
dello aerino, aneguacliS «li aTversarii
aiiiiuccMero utll' aulire di quello 0 mm-m
a-SSSSSsS SS assaai ,,,,ir, ;
., ì .,.i,»i.,r Ss il. -r[ua« [i'|jilii:s ijlifiTtjoJj siinl,
dui: niuilii, n li pa«U iucio Ani» i LA
BETTOMCA nn'tiiii, bi suburra clic
no jc in sbollila iurldiciuli
'm-ìciiIihii li cioni, non mtno rn i:
!i'im?:o ilei fi :iJ itali, chn furono
in livore- a in LÌjimn 1VII1 .twi. !>j!l"c-r|inlj ipmbti fonde lo ! olla tir Dille comune; corno: : Clii fia più
di ed è impellila di maialila, può
fini in ^iiuliji.j pur mozzo di
procuraloa ili i|o.'S|.i principio può coslllulriì il incKosiornu i. Stallerà I ioLCrVCEllO
Ùi i di con'emiune, I quali Liuno ir. i ilmini nominili veneri!. I. I:sli rrf hit l .liu.Tn;;
iri:ni;'..iiM':ii:j] :i-.'or:i.ii;:iii il" più mi ni ['tura c |i i -j pnlcsu si
i il I::
in ri Ji.:= li; Li | r. : ;
.1 i 1 rruiiiliiljiiuii;. I n
|ini;i.>.iji.iin' iii;.li:Mìii-ii ili
ciò l'Nc tnjlLirrm OH'! ri il |iririr. :
[lio, riic iliirmilm , 1 fui Mulinimi,
s.i;ij niij;-,J-.!n
unr.Tin.iildii.ì-lliHEjii.jiirèfiirrl1)11 mcillr n : □ fili . li;
linsioai silos». I.' unni iiiciiln {
[udii. Ji o per aliUcllire ed
am.'.-liirc Li XLV. S.- iciromn
n 'in:|ul' pjrli, co l'Olii: li;.i:,
r..|:l,i l'in -nrn.?nninne: ir Noi aUiiamn a itn cu ni parare; Hiiuui-ttMI, Fi
iure litui | ral. riinvii inimi i
ì:iìjjiì.;.j riiiiiini ulaelii iijii. ' li rei unii - iin-i-"i;i l'i! ili*
le^liiiKiniiuu dal. Urini ri radili
perniili liurlitialur, cum inlcrirnere. a ino ii|iplir i iini icnhilur, i'1
condurli] ! ll rr_ i il L-
i\irlisii'iiuin , hl-vnrr li, iiMiiii.:i1inrnin p-'.->i-
i|ii-i.!i-.il 1 ininii.i laie..:ln;il.ir:i ei-'l-tililrnii levo torre iti Ha.-i-.,a:r>. [inp; rei.
indo ^'tncl^ll» a'ml i f.illi'iiù 1.
^..Ti.'JrmTiihimo^ I-re i.kli.n nf,
grandi, allora die r.-rri f0 : 10 ,!i
spirili r°rrao!,"m,7 s .ÌX°^",»u deteold»™»! ' ' arai! l'Irte di-eli iinrnirii n'Iln-.i
nei delilli li'a-- : .'ro [|nail.i_'-io
a pr.nn della pin gronda inibiti, rlii ^imera.i^li.rj l |,eeo=lui,li:;,i,rif..
c iaM ilrm I..,-. mini ni l.ilin :. ,
ijiil rj i Ij..>Ii.k lideainui
aliirn's l'I era-lai inliif, li e allcii Li
' : "' I' 1 '"- min m.i-ì a, renalo da un ni 'tre "mi
p:'i,lai,Hia a' iremiri. nlLraggiiio, trrilalo.' mala™ rslionem videi mua, in ilio più
rimai ti pei «eie |.r«- sl.ili .-ji.iirlii E grandissimi I do, l> sogna allora aslener.i .1
ill'eiiiar I rccopìlolllìono. In orjni
arjomenlaii oifliiizM T.juatllic ti
.u-i.:oiii>L-iiMf.' aiKlic qumo, di udii
iMk,™..- atrofia iiiirkM-umal,.. ,|i,aiL», '" '» »"r apparai,? CI, paura ,1 la in ala; a la
auui.lijia a r 1 , a l.'raa ^Xi"™"q««l•»S"
lqU,11^, "' iz,tr™.",r rm
""" 1 "'-'™ l ìi
Irti •unii s [mirili.] in a[.|iic ilisi.Miini. Nani Iidln.lioiins r:i>i
fal..ae r'.i'iit, «niishicnr-s ijiiiii|uc taluni versi esse conflli'ri'uiur.
Ili-m inlirma ralle ni, quae non
nceesaariam caussam aCcrl ciposi I '.i:ui.-]r, ini.iri.iiji e-ie li.i. Li
tlii'niio rii. a. pi u lif min ledi, il lungn
iliiv'rll.i ilr-vn ii-*ar,i; Molla, |:cr.Ni- e rrudcl?, hi..Ila,
imluliilr- iii-.in.alii, |iit.Iii> nijii.ii .li,liii-uiTE ni' ilii iii.tìIii
ni' rln il.'inriilii. A'.Ni lito".li
imi li sono, i i|iiali ncgiiii» e-si'rrl |nt tngjun ili n-rluna veruni miseria, un Milli- En.E
rcg.-erM ibi a, t.;j i : r 1 1
luminili j -f - cala il il a ben tur. Itera viliusum csl.
quum iJ pio litio - 'lur. ji=- -ci li.ln iur.es nuli causi 11 , quin Clio In, idi, t/luliu.s ttt pulprfiM nulli.'
hj«h(i,l alrjue (nftrSm, |>rlccin inlersisè cucili, Hit, r-ou/.-
rmir .on. or li: ni Hji jitii snu iure
lice i.'i:ui[.|n usuri; 1 j'.'^.'iiiil
Imi Km, in. iuilnrl. ignu-i i.im -tnij crii, riilitnii ani i|ii.i!.i
M-fi) alfine urlìi iirruliu ilici iiuV llir. imil lll.illiH III HICIllClll
lllilli fi ll lli^rl. tjllili iol| nnm hoc uni hoc [eduen ;
"o^raMiiroìiim mliu Ujgil. Uriti
liliosnm est, quinti iil, i|imi1 in Inr
iliTcìi-inne, lice modo: Smani Ir.
pj-iKidttBI omnej, /Icrrmlusiino
l'^norpltyiii; ni.» [iisiTliim oc omnlolis miii.nii, jìl'j iti.) sol'i ni rolli iiuiii
pira. IH Li ti r1i,..l |„||,.. : È ari
roti mr.uo n.atc uni ilif, ; n, clic sin comuni'; pei rsruiiiiiK Colui jiivri'i por irnrunilia, o tu r inrspcr.cii iti, tv jilt ciuuc..-ir ,1
uoiui ij M |bui(lprsliT.ì"i" I ' liminoti;! ..iiifrrriiiiiiiiir il;0ln r.i.'iorp ; in
tornii», qir: n.'iiliu, Hill ,1 narrai ieri! Ivj.M r nuli,) [ ni- ,: l'ori! ili 1 mirili' .i.liiniriii,. :;ll;i
narr.uinn,'. |,rr rlii- li inserirai
^i ii.inr'l.lin Inv.irjm c |irr|nir,l,> ri n-;1. T'n.'j.r. r :i! il min
riniri'i Hill -, tnrr:i:i f'iT In inni
ri-n r.vi\rr;:'i l'i.ml-n-nrr' I' rm]ine:.> ili]in a ili, Mone : ilmn.lr: eriiinc brevi
Icr ci |ili • in lall.T lini-inni', i!
i[il,is : rtn :id iiiTi ìni r-, ! r ,iioTivÌ
;mj imi lini ,1 eli |i'l>rii
r; indirne ni im't, ri r '. NÉÉ liti «a;
noi .l:|,|.|.'Ìi:-:uiiu i il .,!ri ijiuui.'i. c ria siri l'iri'iiSi, i.ipji, i no. ni . i ii,,,1i
k, : i,ì ri. ,IHikiri,,iil.. nel
m-.-Ji^n.u U-Jn|io clja fi 11 [..ni t.-,
etimi t'i .in Rinfili 'nuli; noi ritonl.T,'
:,.'"\ vSSH LA RETTORICA
unno l'Enzo ,1, ,Jn,iii.,I.T.IL,.|i^ rcip.iLI-..,- ::nì,l.c H.k'iiiNi.
liGcii. Usa uppollolur pruiiciilia rerum mulurum po più opportuno, se ni... ;|i r ,:i..-ii t
'rù l'iubm L ciiln^uc. Forliluilo csl return nuoniruin oppeii imùj 1 : J :hi;ili],! ( li.l,ì.,v.,-.III l
r,iLT prendo siisi grurnli coso, il disprelr.0
delle miglili, e la lolleroma dello lutici in ragiono della loro ulllilb.
Li le,uporon« 6 nell'ani.™ uno r.,r,:-l,
innJmlMoe, r.jii:irni! lo passioni. SS2SS
a&ssssrass iiim.lr.Tnw. ikm™ r.-liyiw nc^ili: o.-==.?rvarp .ln
lil.rl |.ro patria, i>jrcnl:lnn. lio-|iiIil>n., nuiim d '™. s.i iin.-rrn,., r : , •umilila aiiilEkì
tinnii nuoji, dell'irò, ù .. J:, OpII «n mo. c moniti cosci eomelorumo io
«ci [•;. -i -iti"-..u> : Ji.l.Jf
Ji. p. iK'U>'u«n.eln»ic ,j;.-.o .U
. >] f. 'il.. i.. r >J f. r-M Fs lirlÙ 0 1 sono lo sue concilo, le tuo Rlonr. le toc
OOJ.tbrif, ?BEE : .5ss ced ™:;,r~::i!;.::i:r= ii(ii|i-r..1ioik'ri] lran=fcrro, |ir.
].[; rei |u..J irpo ulqO, n n i:. n,n, rr:|.LT ir-, |,jr' >rpn ri.i-n Ir.. ].c minriiM:,,,!
,l„wiiiim c.-.cr lirici ; S3SÉ !:*[il£r]]fiir->rni M - l lt:irL'; 1
;ni;.-ii.,s.i;nli.:]jiifj C ii;, |„, t
SSES&SSS filiti r., «Hit
«i-S;»i. « o.ifioj tvqlrMm M MMoiMti
iwnpoattu o ioMMm;aM alcuni EEÌéllHEE
luco piullo pus dlonnos. iilllÉ sssbsmksss
uW.ri-ww:. in. fine del di«w..7^^™^'*». 'e™w nò eh. e, i.gisiio ni. (.mi r,„] ( i s rj r
tl..m-(iir. .ci ..fnruir. r incidi.,,*;
il, in in lo™ ri r,,dir, e ..ll.r.l»
iveislmo datimi a s ii «u n un ii-m ili noltim, cui pr> rumili' il
sii llcriiiui ; ili iinli: facili; e' il
.le ilici siniik'? nel!' 'pillilo 'ineiiiiHnca ccl 1,1 iaculi'; pi'M'Iit le iiiimjgirv, siccome
le Ii-IIitc, miri riirruJiitic usn, si
rjricolloon; ini i Ir.nglli, lincine
lor.iiolclli'. dclilinnn semine i-immuni,
li aodocehS li jcunta quBTlUll do' luoglii non ot Piccia cidere in l'irurc. Mirri [imi! fili!
ceni rjuirilu Ini)"!] icnja
ciiiilrc.i'vnrilo : p.'r esempli], ss nel
.|niiifri Iiiiim li nillni fiiiiim ima mano d'orn, e. Dn locìi s=Ii> «limi'" csl: mine ai]
inchinimi riliormm nausearmi'. Oumiiom cto.0 veruni binili) m.J^inc^ n|"'flcl, er lii,
i.nliis linb-i silllllililillili's i lince ijcl.cmus, ilu [.lice-
siiiiiìiliiJini-s e; se ilclicin. iinas rerum, alleai i diramili. 11.-;iiiti
i-irnililnililic-. i'i|iiir.iioii1ur r
lode-li por rapprese ni are le cose, e clip per rifliiaiiiarrijlla in e
il mi i,i ie parole si'r K lior ilclil.cinin
.kilt sinii(lijwc roiin -filili; , '-i ilclil'niui ml'incni il 1 II
ss SII Sigili Di^.ii:o"J !;.
Ci l inni' m. GHItili leiioiinceoinindOBUq
LA RETTORICA Èsili :•==£££=
sssssls =§Ii .la alimi serrano come ili lullmor il-,
«Miri.» ,.ir>,„.'Ua gnisni situi
clic una lalimoniu», è i.imni iv. a
luce ornili! inizigli eiinonei mi.toiefli'i.iui
omna. inori! [maiioic] scribenoi, redi ali In sin vcrcciui-, no cui salii sii ni e muraria in
raiumcni prnlmml'iu. 'l'i'lil ab en
[-une. interini ii. qui et iuioiilurcs
Julius arlilicii liirinnl, i l «instilo iaiu
siili!, omnibus probali silnl.ljnoiìsi. illniulii aititi» i ii. ìlio,n:,i „li - ili li.. .°.i,.-l.
esse iri.i,;nil.,ii. IL Olire ili
cita. l'a'uUHU iltsa degli «illclil noi)
fina din ili un grill valore I La i|iialu ila min uiiiu;i,ire apurmiiinne al!,, ro-o, ,en/
Google V. bitumi; itili.r. cui quiini
lituo, j : l- 1 iilicnn
llll H III. .:„: r-p-.-rir« non pOIUCrK. Alla i Sd|.i , ('. ,[[,.,,
P„r,ii lliai-n, Allibir, ree :.b.
mulinili pulì..-,; un , uno 1L1 |»>
-alia lubcLil ; omnia, quia orano' Imbuerinl, n!.im ImL-'ic >c tk.ìm'
ilillUìcl. Ergo Inutile eil ci 1 jitur
nciiic- in lene inciil/rct Cì'ii.i.iik'in, si :L uro prozio, l'ali™ un si:™, [iiipcrcii'ixlii se
t u.li siiacquisii re il nitrito ili
lutti ; nu iìi .-ii> iivri disponuil, In
ponile patii .!i l l'in 1. ti l'iiT.-iliT.ì. pnrcliòa quelle, ilari coolciilo ; ni suri da meravigliarsene,
quintali O.oTunuun .1 redini» esempi lohl da Caloi -, .Li . :vl ilnjii nnn Cil, 1 Ijn .li: lllml.
ijlii'i! .InNiini I, ni jnl ililni ri-
1 1 1 jniìsil. :ml i 1 1 j I : i ilKli :
llinr . MiTiliniinnnliiinis iipsWIaliir re. kciiliv :j i- ilfiiwi ulin infili lira oralii'iii-
riripilur. line, moil.ir Kl ini mini
pTodivas. H cstuiinul quoil appclliilur mcnilirniii; ili'imli' lini: fu
ip'.ilur ri-nirlrl ab illcro: Kl amici™
laf.ifli.i'. Ki iliinbu- mcni-i rripublicac consululsli, nee ; tersi iiilemllli dliUnguunU qui (pel non
mulinili q II Oli fi miglili opere
ca .Insinuo. bM poclo: Qu :| .||-.
lrCr|i;eiHili:i. lIT.TJI «'filli Subii
ssa con frasi conciso e lime unilc.Hc csia pucc ircccliio pur la sui ropiililà e per la sua
hrm nifi, nd tempo mC'le-iiiio |i ;
ulfrr.n ilei finIo prova con editarla clli clic r oratiirc In bini ili
[iroiBi-r ; c dj una virili riLfiitisciiilr, fu
ippire min velili clir è iluMiiri. si cti-ella non ossi t iiifiiì.-.r. . o lo si iwsìl ni:il:n
ililSri! Inppilo, cosi Ila liiroe.no
ili jpiniiqisrs! ad un nlIro membro ; per atmfio : . K in gioviti all'
brinile"; mimi mia nr.viasiiior-L-.clic si rlimrni mei:] bro; likii-n clic rm.i.lo membro sii legalo
ceni pinvavi al l'i n imi ivi, cci
;:ri ili rodi mento all'amico, f uni:
jir.i«nJeii a U: sle.,0. s H psrlmrnle: « Ut
olla Repubblica provi ecics'.i, ni apli amici piovasi!, ni ai nemici rfsi.K-sli. i Si ridami
articolo, 0 inciso la divini ione, clic si fa di ciascuna parola por piusc, Lenendo sospeso la fraso sino air
ultimo : per esempio: i: Culi' impelo,
cui la race , coll'a^irlI, li.,.. Ili.-.-. Il, li -li ai/.erssrii. l f.
parimene: r. Tu cull'iiKiilia , Hill'
tngiii ~'.ijiii. coli' autorità, colla
peritola hai lolto vii i nemici, i Tri li vecmcnio ili qiresla fipurn, fi i[uclla .Iella
prcci'tlenle ci In ipifhla .liv.arin.
f.'io .|jel]j P.i pa's- piti Unii e |iù
più rapida e più proli" :o
il pe no uà colpi spessi cale nazioni]
di paiole in il Irarrcmo
Brandissimo limila vL-iinn ri 1
c:i..i, (j.inl iNtiii.j si (.vallile I .:
eli potrà il caso? • nella conclusione; per esempio: : Se la fortuna puil mutlissiuw su di (| nel
11, clic LIU1I0 IV. iuj[iu.ili:
IJiiiil veiilam, igui sin], nuaro \i«HMilok',su as,L'HiiiHlnlfÌNalL:a miwii'ra n-y.i multa ditoni. XXII. Vi ha a Uro |H rari Olii Mio, in cui
lo parole non hanno una roti -Inlln
ru-suminlianu, ni» co:iswvauii jiltò tic.j niTtii analoga Ira l.iro. E..voon DigifizGd by Google Ijumii le Jrai. it e >- --r-:.tare, a 11
»™ 1 * ™ sorpreso da «in si S™ III ili ti lì
IV. ril plcriiroqiic alqueodeo micclarisl Commoiclur lise p'.Tirrc animus audiluns. tles cniai e
uni ri in ni volili alala, liuiluinmn.lo
ilicla vìdclur ; [s;1 ca,| posi iji~ìu3
iirjlnrii carrcciioncni, magii idaoca lit
prona atialiinte. .Nim i-iiiir salini «sci, dicci di E parimcnlc ; i Dopo clic costoro rimasero
linciloh. u ramimi!) viali; pcrcioecliè cani,,
chiamerò, in lillarin quella clic è siali piti fnni-fla, clif inalale, ias.i ai vin.imn ? «0
invidia, f:ritrl|iii|iii;i ili-|],l
lirlii, clic jier lo pili vii dil'lro ai buoni, o por meglio dire li perseguili Per
questa Agora 1' animo del]' militi..' rimane ai^ll. >, principio 11 locatolo migliore e più sccllof Può r
'ili! 1 ì er '!',!,- i- ' i . ' "'icn:io!' i ;ml V.'-.m ."-J.V .'ira
li] jj .il im,>uI;c f.v.nsn =11 i 1
.-ì - ni . .p. i = limili inleinli™: aclioneiii, ipnic
(irilargiialiir. Ilisi-jirlii.' ed, '|ii:iiii curimi, 'le |'ii!ii|i difiiii'H,
ani Dir |Ue ani imam i|iioi!-pic cerio
conclmlilur Karl lag incni silslnlil,
i^ii-i. ini in il. I laris adiumcnto full; niliil Cormllnii cimlila calliilUni
jirjesiilii irli".- nLliLI [- r.-j.i il ani- nicriun ri iernionis sociclos
opilulaia ci: irem Koirn.f -.li _r 1 1 - 1
ani umilio, ilillo-e-cil ani \ iUj^:,i1i- iTlinimiliit-, lue. i Ducila tipnra a mila, se a na«irri
iiil-.'reisc ili lasciar iulaiidare una
cosa. 0 che nan È espodicalo ili mainare par mintili], a alle e- lunga a dire, o
elio è Ignobili), o die non si può prorare , o
die e fonile 3 caidnlire ; ili maniera clic sia meglio per noi 1' nver
follo nascere copi' ri a meo Le un
sojp'.'llo, clic l'jfar pTcsn a sviluppar cesa clic ve. uir ri [insilino cannila!,'. La ili. gin ai
hi ne li: luogo, allorquando o l'una o l'olirà delle uruposinnfi, flie -i
e-poiia/irie , mi lineile niisamn ili e.ii
f i concinnile r.o-i un icrlio .-:i.-. :ala. pi-r .;.citipi.i; que rein cerio verbo cucinili viilcruus.
Coiiimn-lin esl, ijuum inlf [posinone,
varili ci super orli ani lindo: 1-ormac liisnilus aul morbo ikHorr-n-I
nnne Cariatine , di, lece Cornila ,
rovescili r'rescllc. TViclile Ji
Snnanlliii K : «infoila li- (orla ilei corpo;
ni ai r.a'lapiiie-i fu ili iiriifilln sckiir ililare; nien'C ai Corinzi
In di presidio la scallrila pnlilica ;
nienle.iì Kregellani recò carnaggio la «i LA RETTOIIC.l raralim rei ift'iidll plurali.f']i;3i-i;ir.
|i|oIiI(DHji? Militale loltao rnlpac si
Digiiized by Google Liaiio iv. irrs Islam reni filari! :c villi l'
delirimi? [k.iniliimini, i|uns lialmcrilh dcrerrsorr?; SI ni] in torum udii* ai, le trulli- |irr.|nniiU'; il rimla
1-1ÌI115 omnium tonai .Ir «le. Timi
vouis vcnicE in niciileni. ul vere
iJk-artl, ri t liliali li ;i i.slm «iic i t maii.i inilins ill'j. ojuncs arile nculu» vulriis Iruciiljìos «,
iriiniieoj cornai vralrii suflriipii; in nmulisiim ini Inediti [ir tu: ni ni. [lem ; .Nani ijukl Inil.
indiaci, i|Uare in .-.! ili ijuilti, rhc
avc-sla rinr iliii nitri ; poriclni
dimiiiri rifili urtili [r hollt-i-ìtndilli Imo [ter voi ; c .nn,iil«r;le i[nale
tiini|, tristi indi irrlib.ro inni
Allora ti tetri in mcnlò, sa ero
™fi'.tìiT i affline, rlm voi |nr ricjlipn,;; ,i
ninnalo |.rr lill.ì li lairiHle Irimdrir.' .olii, ali o, 'Ni mslri, a rl.c rn'voiiri ?iilTrn.qi
inalM.lc ai jiiii ilislinlì moiri i
nemici Ioni. ) li |ij rimai ile : a Cile
i:nr..irir .mitrimi V n In r.-;; mal v'iildn-,,c Eli ioli na iurta
niidimia ri n!i;i!il« » velismo [ni i.ii.n-i-H,! „:;,!, - j mi r r r fugil, Cmiril... ,: miserino COIMqui M'
|>"-l "("ir" 1! Hn-i "l:|-mi il-' IIL' 1-1 ÌIÌ ìH I..:ii i-n.Iru: lumina MiiUki ic, lin/
-sui ku I1I111É T-A BEFTORICA Cur rp;n mine Ulti qunlquam i. linciato ?
Si jin.l iis '1 EÌUb merlo vouicl.al, ci
Illa Ini ^ii.ÌMa,:iiirpi ;i hiij, 0
nimusa.irÌ5sirnu!,rorlunH ISIS ;pn ; ci pracl.'rra rimo, (pana rii cìhui-
lanini is osi, i.le n'usi rn in re Ioni.
In i|ue rs ( orciaio frnla, ; siilus ,
pillilo posi In ipso unilodcin vox Minia, ipii 1 "1 più proprio ail uri' aioirsiinnc. r
r orcasion fa i-uremie, e opportuni-. ìtiu il luomculo dello inIrapreiiilcrc :
Oil ot'ìi calcolalo atri a Inno il lemri..
E:: wsm p«M jttr gli ™id?pcì
pircmi.^ por Itili gli JSi.'SSSSS.'ZZ'Si
n ''."T'."u"n ~\ - i'vi'..".'. JXl" ,»> Minio csi,i|iiuiii Hprtuills difendili», hoc modo: llu ; ci! j [iure praii'.-sa, i .in [ali.-,
rain lirtvili c ì
clii.ir';i7ii.l.'clfiiiM i: l die liiKriic ilcar.u 1 le re ili aldino,
prtscnlsotlo csrli irai li, clic ne 55SSSSS
.0. oh..- e ii dico pMn„ nr oHcdil» die il .110 pi ^ss
<li«:fnre. Oli ialiti : K.i Jìmi^iIjII.: i-imiMis -hidi.iln uralulii
[imi.st in medium Ioli jr,i™cni a
U S ÌMu t ,rr,',ió , m' l0 1 ;o^ Si^h™
Ji f =„l„li,,(MÌi un l,„:l,.IOJ.: . n .li mi» -|n..|K ; i:i 1.1:.'. 'i.i U.Ji.'-L ' .ni' :'i...l.-i .1
i" ni.. no. Cinqui empiii arami
»nt lui lo ^uiva lalign™, non
reliquil. l'.-r ™bi 8 uum , q,,um .1
ili ; in ili: i.u si ilicas , qui mulini liereuluilis. ni. mi : l'rojiiiM In, qui (ilurimuni «anis. -in.,
in Il luni |.„i,i„lii ,cHj, |[jqc cior
iialin | -1 li rim |n.,..tel mi ci tonimi. bj.l, r ruJliir:irttii iIilvkKi. ihlì'
<li*Lcnili: il bracciu, c l
Gtri.i.i, clic ''ir dubiln ili ciò i lir
i, e pur non nlibunkiu il preso posto , pianla il i ìiLlTimia Ali
MIKKMU. DELLA aoi, INVENZIONE RETTORICA TRADOTTI DALL’ AD.
TOMMASINI NAPOLI Presso MORELLI Editore Strida S. Sebastiano
n. SI. Asserisce Tullio ( De Orai. , sul line) che nei tempi anteriori a lui
nessun buono oratore si era trovato per islagione lunghissima, e solo di
tollerabili appena uno per ugni gran periodo di tempo. Eppure si nella
Grecia e si in Roma per insino dalla fondazione di quello repubbliche le
concioni e il diritto parlamentare a lutti concesso davano agio e
opportunità agl'ingegni di mettere in azione quanto aveano dalla natura e dallo
studio, e di salire con l'esercizio e la pratica all'eccellenza nell'arte del
dire. 1 fatti stupendi e vnrii di cui essi erano attori, le congiunture
di malagevole scioglimento nate dagli attriti della politica, dalle
tentazioni dell'orgoglio, dai pericoli delle guerre continue, domandavano dalla
parola pubblica i provvedimenti clic ai nostri tempi son la più parte il
còmpito esclusivo della misteriosa burocrazia. Gli uomini che pei grandi
talenti politici aveano primaria autorità di parere, nelle concioni volevano
necessariamente essere oratori. Era questo un dovere della loro eccellenza, c
d’altra parte un bisogno dello Stato. Gli effetti anzi dimostrano che essi
sapevano in qualche modo ottenere i fini oralorii, e che erano stiflìcienti
alle circostanze, e a quel grado d'inlciligcnza c di civiltà in cui
s'attrovavano gli uditori. Laonde l’osservazione che fa Tullio non viene altro
a dire, se non che la natura andò sempre molto ristretta in formare
ingegni di tanta potenza, che fossero capaci di mettere nel più grande
rilievo i dettami o i suggerimenti di lei, c scolpirli, dirò cosi, nella
straordinarietà degli effetti prodotti dalla loro parola, tanto che i venuti
dappoi avessero modo di convertire quei dettami e quei suggerimenti della
natura in altrettante regole di effetto indubitato. In una parola, non
vuol dir Tullio se non che furono rarissimi gli oratori clic sapessero
mostrare nei loro ragionari una cosi magistrale disposizione di pensieri e di
parole da servire di sicura guida a chi avesse poi voluto raggiungere il vero
scopo dell'oratoria. Non fu dunque causa di tanta scarsezza di veri oratori là
mancanza di precetti elementari, poiché questi si sono compilali a poco a poco,
riducendo a norma e canone i modi di certo effetto seguili dai migliori,
i quali modi separali in ispecie, formarono quel corpo d'insegnamenti che
costituisce l'arte di fare un'orazione. Anche dell'oratoria avvenne ciò
che di tulle le altre arti : le regole furono posteriori ; si son nobili
gli effetti, e si ridusse a precotto la causa che li produsse: la prima maestra
fu sempre la natura, e i mezzi con che essa porse i suoi insegnamenti
furono gl’ingegni modelli ed esemplari ch'cssa ha crealo di tempo in
tempo. Giova qui a maggiore chiarezza c conferma di ciò che ò detlo allegare
quel luogo di Quintiliano che si Irovn nel lib. V. cap. 10, verso il
line: « Non è già che dall’essersi date le regole ne sia venuto che si
trovassero gli argomenti; ma si usò anzi ogni maniera di argomenti prima
che se ne desser le regole : dipoi gli scrittori ne fecero le
osservazioni, ic misero insieme, e le pubblicarono. Una prora di ciò che
io dico si è, che gii esempii che recano son ludi presi dagli oratori
antichi: essi non ne adducono veruno di nuovo, e che non fosse adoperalo
prima di loro. Laonde gli autori dell'arle sono stati gli oratori.
Dubbimnu però saper grado altresì a quelli che ci hanno diminuita la fatica.
Perocché ciò che i primi, mercè il loro ingegno, inventarono a poco a
poco, noi non l'abbiamo più a ricercare, essendoci oggimai conosciuto. Questo
però non basta ancora, come non basta per esser atleta l'aver apparala la
ginnastica, se il corpo non sari aiutalo daH'cscrcizio, dalla continenza,
da un buon nutrimento, e soprattutto dalla natura ; siccome dall’altro
canto neppur questi vantaggi gioveranno gran fatto senza l’aiuto
dell'arto, n Non si vuol perciò credere clic i soli precetti abbiano la
forza di condurre alla debita perfezione un oratore. Ogni arte ha i suoi
priucipii elementari, le sue regole da dover seguire, chi vuole in essa
acquistar attitudine a .maneggiarla; ma non lutti quelli che ad essa si
applicano vi acquistan lo stesso grado di desterilii. Le regole in un’arto sono
come altrettante fila gettate qua e là nelle diverse sue parli ; ma gl'ingegni
comuni non arrivano a impadronirsi di tulio il complesso c la collezione di
queste fila : so l’arte è di specie un po’rilevala bisognano ingegni superiori
ai comuni per venire a quell'inlicro possesso. La ragione adunque perchè, a
dello di Tullio, furono rari i veri oratori anche dopo la collezione dei
precetti, si è perchè nel trattarli, nell'applicarli, v'ha di bisogno una
capacità riservata unicamente all'ingegno umano, il quale dee saper discernere
non solo la forza enlrinseca di ciascun precetto, ma il modo e la varietà
con che ne dee far uso. perchè le circostanze diverse domandano una diversa
applicazione del precetto istesso ; e l'effetio non dipende dalla materiale
collocazione di una regola, ma dalia opportunità di tale collocazione: anzi
farebbe danno al suo ragionare chi non facesse apparire che la propria
servilità alle regole, mentre l'arte ci dee stare nascosta e sfuggire,
per cosi esprimere, fin anche all’indagine dell'uditore. Senza dubbio
l’arte è un aiuto, ma l’arte sola non farà mai un oratore. Ci bisogna
un’nttiludino naturale, una visiva acuta per vedere le vie che menano al vero
effetto, una ferliliià di espedienti per sopperire ai casi in cui l’arte
è monca o inetta, una, sto per dire, inesauribile sorgente di concetti e
d’idee da adoperare all'uopo, una profonda conoscenza dell’indole di ogni
circostanza per commisurarvi il ragionamento e rendervelo adatto, e soprattutto
una vasta cognizione del cuore umano, di tutti i suoi penetrali e
latibuli, di tutte le fonti delle sue affezioni, e di quegli intrighi ed
inganni onde il cuore sfugge sovente al contatto di chi lo tocca e lo lenta.
Certo una voce così vittoriosa che pieghi a sè la renitenza delle
opinioni contrarie e lo assimili alla propria; che tragga
irresistibilmente altri alla convinzione di avere stortamente pensato; che
svegli idee nuove e troppo più salutari di quelle che s’erano concepite
in generale; clic conduca ad assolvere o a condannare a dispetto delle
presunzioni contrarie; che svegli l’ainmirazione per un individuo stimato
fino allora abbietto, o la compassione per chi ha il dosso curvo dal gran
fascio delle sue scelleraggini; che induca un popolo intiero a intraprendere
una guerra che domanda lo sue sostanze e la sua vita; che faccia alle
parti aspiranti a una indulgenza o a un privilegio applaudire la parola che
toglie loro ogni speranza, ed opera anzi la loro sconfitta, cosi leggo in
Plutarco esser avvenuto, per l'orazione di Tullio, ai tigli dei proscritli; che
insomma abbia in suo potere il maraviglioso secreto di dominare gli animi ,
come la legge domina sullo masse . come il signore padroneggia sullo schiavo;
questa voce 6 come un miracolo che non si può sentire se non sommamente di
raro. Che se tanto pochi, come accenna Tullio, furono gli oratori nei tempi
in cui si può dire che l'interpretazione delle leggi c le misuro di
governo risiedevano nella parola degli oratori, e ch’essi erano la molla
più ordinaria del congegno politico, non è maraviglia che neppure ai
tempi nostri non v’abbia oratori, quando l'uflìcio della parola è rivolto
a ben altri usi. Infatti quell'oratoria che è rimasta in retaggio ai causidici
odierni è inceppata da'molli rilegni impostile dalla nalura e dalla
costituzione dei governi assoluti (1), per cui n’è messa mai sempre in
cesso la parte amplissima che riguarda il sindacato degli stessi atti
governativi e le immense complicazioni della politica; parte clic negli stati
liberi, come erano le repubbliche antiche colle loro concioni ed assemblee,
offeriva infiniti temi all'arte oratoria, poiché il negozio pubblico era
per ciascuno come un negozio di casa, e per ogni capacità una continua
occasiono d'incremento e di maggiore sviluppo. Di più Ut molliplicilà
delle leggi, per cui ogni azione ha, si può dire, un precetto che la
previene, e una sentenza anticipatamente pronunziata, non permettono
all’oratore di condurre con la potenza del proprio ingegno nè uditori nò giudici
a cavar dal proprio cuore quelle miserevoli transazioni, quelle indulgenze
eccezionali che l'umanità le tante volle facca sostituire alla severità dello
leggi : e per verità poleano le leggi meno parlicolarizzale essere L'
Autore di questa Prefazione scrive a Venezia, sodo il regime Austriaco.
meno inflessibili. S'arrogc il manco della pubblicità, salvo in argomenti
criminali presso alcuni Stati, la quale è il più potente incentivo allo studio
e alla diligenza del dicitore che sa d'avere in ogni ascoltante un
giudice che non sentenzia sulla causa, ma sulle sue stesse parole; e in One un
esercizio di professione clic aspira a lucro, non ad clogii, non a discorsi
ricisi e percntorii, ma a stancheggi c lungherie per tranghiollire più a
dilungo le propine e le strenne dei clienti ; son tutte cose che
s'oppongono allo sviluppo, agl'incrementi, alla perfezione deU'ufflcio
oratorio. Ci sono, è vero, dei governi che hanno assemblee parlamentari
: ma gli oratori che più vi splendono son uomini di circostanza, non addetti
esclusivamente all'oratoria, lalorn obbligati dal Umore o dalla adulazione a
falseggiare per insino i proprii convincimenti, e andare alle seconde del
potere o geloso di piaccnleria o troppo sensibile nel sentirsi urlare ; talora
scuorati dalla certezza che le loro parole non sono tenute se non per un
assaggio di prevenzioni individuali, e non come seniori e parli compendiose
della opinione pubblica c dei reclami mossi dai bisogni comuni. Insomma nello
stato presente delle società, nel moto meccanico e puramente macchinale
delle aziende govemaUve, nella passività delle forti passioni che non hanno
nessun campo in che poter agire, gii oratori, nun dirò i sommi, ma
neppure i mediocri non sono generalmente possibili. Non parlo
dell'oratoria sacra, perchè essa ha delle specialità, che non si vogliono
confondere colle forme delle trattazioni civili, benché sieno le stesso
fonU degli argomenti e le partizioni generali in che vuol esser diviso un
discorso; quantunque dai Padri in fuori, se si eccettuano pochi ingegni
brillanti della Francia nell'andato secolo, non ha troppo di che lodarsi questa
specie di oratoria nella nostra Italia. Dico bensì, che qualunque ne sia la
causa, che già facilmente si trova giustificabile, se il detto di Tullio era
una verità rispetto ai suoi tempi c a quelli che lo precessero, non lo è
meno rispetto ai tempi moderni. Ma per tornare agli antichi, molli, fino
dalle età dei Greci, trovando troppo arduo il poter venire perfetti oratori, si
gettavano nella via più facile, lasciando l'opera del sentimento e della
immaginazione per abbracciar una speculativa più materiale, e si fecero a
compilare ed apprendere altrui i precetti c le regole, sfiorate dalle orazioni
dei migliori. Questi precetti, per quanto avviso, non furono sin da principio
che masse informi di regole, senza una certa distinzione di quelle che
spettano all’oratoria da quelle che si riferiscono alla trattazione degli
argomenti filosofici. E tuttoché Aristotele, con quella sovrana maestria
con che svolse tanta parte dello scibile, sia stato forse il primo che divise e
fissò con una cotale ragionevolezza le leggi dell'oratoria, pure non potè
fare che cavasse di ogni pastoia quel suu sistema, e clic i posteri non
mettessero in questione le varie specie dei precetti spettanti
quest'arte, volendo ciascuno, come addiviene in lutto, che la propria maniera
di vedere le cose dovesse divenire il modello al vedere di ogni altro.
Tullio per non lasciare l’Italia sprovvista di questo genere di
disciplina, mentre la Grecia ne aveva già abbondanza, e perchè l'azione
continua del Foro bisognava di questi sussidii artiflziali, c forse ancora
perchè vedesse non ben chiarita dai più antichi di lui si fatta trattazione,
pigliò a farne pur esso questo opuscolo ; e certo con più ragione di ogni altro
si mise a riprendere certe distinzioni fatte dagli antichi, come si pare
dal primo libro, cap. 6, dove scardassa bene Ennagoni circa il suo
dividere la materia oratoria, dopo di aver già disapprovato la estensione
quasi infinita clic attribuisce Gorgia Lconlino a questa materia. Nella
presente operetta non tanto intende Tullio di svolgere le norme, dietro cui
dee una orazione esser condotta, e di metter quasi sottocchio l'ossatura
e il tessuto intrinseco del lavoro, quanto di facilitare la invenzione
degli argomenti necessarii ad ogni genere di causa. Ei tocca di passo la
prima bozza della tela , o macchia , come dicono i pittori , ma il più
che si occupa è dello impasto de’ colori per andar su col pennello allo sgrossato,
c di rilevarne le tinte, e il vaneggiar della pannalura, finché si venga
a compimento la dipintura intiera. Avvegnaché però ei si frammetta specialmente
delle orazioni spettanti al Foro, non lascia pur di essere a un tratto
maestro d‘ invenzione per ogni genere di diceria privata ; poiché siccome
i fini generali di ogni ragionamento deono essere, persuadere ,
commuovere, dilettare, cosi tutti i ragionamenti cho si riferiscono
alfintellello perchè pieghi a convinzione, al cuore perchè metta in attività i
suoi affetti, al sentimento perchè riceva sensazioni dilettevoli c soavizzate,
polcano fornirsi, mediante le regole di questa invenzione oratoria, di
argomenti che avessero identità o che tenessero analogia con quelli che
son qui porli specialmente a materia delle orazioni forensi. Non si vuol
però lasciar ili ammonire clic questi due libri non son un trattalo formate
clic nulla ci lasci a desiderare, mentre anzi è meno perfetta e lucubrala
che altre opere di Tnl iogle lio in quello genere. Egli non
fece clic un Commentario nella sua prima gioventù , come usava fare di
alcune sue orazioni e brani di esse, cioè dire un compendio, in cui
scrivacchiava le cose che prime gli venivano in mente, senza porvi troppa
pulitura , o per usufrultare qualche ora di scioperio, o per avere in serbo ciò
che a tempo più opportuno avrebbe disteso e ordinalo pensatamente c con
accuratezza. In prova piace recar qui le testimonianze di Quintiliano, il quale
per essere un devoto passionalo di Tullio non può dar sospetto di esagerare a
carico di esso. Dice questo autore nel lib. ni, cap. S, delle Istituzioni : 6
Cicerone pretende che la lesi non s’appartenga punto all'oratore, e assegna ai
filosofi questa specie di questione. Ma egli mi ha risparmiato il rossore
di confutarlo, disapprovando egli stesso i libri ove parla cosi (ciò sono
questi due della Invenzione retorica ), e raccomandandoci nell'Oratore e
nella Topica che allontaniamo la disputa dalle particola riti delle
persone c dei tempi ». E nei cap. 6: « M. Tullio non ebbe difficoltà di condannare
egli stesso alcuni suoi libri già pubblicati, come il suo Catulo, il suo
Lucullo, e questi stessi libri Retorici... con iscriverne altri dappoi. Infatti
sarebbe superfluo affaticarsi tanto negli sludii, se non fosse permesso
d'inventar cose migliori delle inventate prima ». Ma ciò che dà a
divedere più lucidamente la vera qualità di questa operetta è ciò che aggiunge
lo stesso autore nel citato cap. fi. « Non ine ignoto che da Cicerone nel
primo libro della sua Itetorica s’interpreta in altra maniera il punto
negoziale, trovandovisi scritto cosi : La specie negoziale ò quella che
concerne le questioni di diritto che si decidono secondo l'usanza civile e
l'equità : al qual impiego presso di noi, come si stima, presiedono i
giureconsulti. Ma qual giudicio abbia fatto egli stesso di questo libro l’ho
detto di sopra. Perciocché sono come una specie di Commcnlurii, in cui
registrato avea tutto ciò che in sua giovinezza venitegli appreso nelle scuole
; e però se vi ha qualche errore, hassi ad imputare al maestro ; o il movesse a
così scrivere il vedere che Erntagora a questo proposito citò in primo
luogo osempii tratti dalle questioni di diritto ; o il vedere che i Greci
chiamano grammatici gl'interpreti della legge. Ma nondimeno Cicerone a
questi sostituì i bellissimi libri dell'Oratore ; e però non può essere
accusato di avere dati falsi precetti ». Nelle edizioni questa operetta
è comunemente intitolata De Arie Rhetoriea, eccello alcuna che ha queste sole
parole, De Invenzione, tenute anche dalla edizione di Venezia. Nò mancò
da chi fosse appellala Ars velus. 11 titolo da noi qui apposto è il più vero,
perchò ò indubitato che qui son porli precetti retorici, ma che in
ispeciattà son tocchi quelli che risguardano la Invenzione, cioè dire il trovar
il vero aspetto sotto cui vuoisi riguardare ogni causa, perchè non si
pigli errore nel dare o negar importanza ai punti che ne sono o non ne
sono i precipui ; il trovare gli argomenti opportuni dalle fonti che li
somministrano ; l’cscogilare i varii arliflzii che si vogliono porre in opera
perchè resti più energicamente convalidata la ragione dell’oratore, o sia
tratto il torlo islesso ad avere apparenza di ragiono, c di verità : il
trarre dalle circostanze del fallo che si agita la forza necessaria per
dipingerne con adatti colori o l'atrocità, se si accusa, o le mitigazioni
clic lo rendano giustificabile, se mai se ne piglia la difesa; infine
('amplificare i motivi clic possano trarre gli ascoltanti c i giudici a
severa sentenza o a indulgente compassione. Conviene però osservare che in
questi due libri non c fatto mai molto nè della collocazione delle parti
costituenti l’intiera aringa, nè dell'ordine che debbono tenere le unc rispetto
nllu altre, nè della pronunzia, nè di altre cose che bisognano a una
trattazione completa : il che lascia supporre che questi due libri non
sieno propriamente il quanto scrisse Tullio sulla Invenzione retorica, ma solo
una parte di trattazione più estesa. Queste osservazioni stesse indussero
i dotti a sospettare che i libri di quest'opera potessero esser quattro,
se si considcran dalle materie trattate quelle altre che reslerieno da
trattare. Fra gli altri difende questo asserto il Yossio (de Nat. lthel.
cap. 13). Nè punto è da dire che sia questa una congettura avventata, poiché
Tullio stesso le somministra in favore un argomento di gran forza. Egli
infatti chiude il libro 11 con queste parole: Quare, quoniam et una pars ad
exilnm hunc ab superiore libro perducla est, et liic liber non panini
conlinel litterarum, qua e restarli in reliquie dicemus. E siccome nelle
altre opere appartenenti alla oratoria Tullio non traila exprofesso della
Invenzione, cosi ciò ch'egli accenna restar da dire sopra la stessa materia, si
dee necessariamente credere che esistesse in altri libri susseguenti a questi,
ma che il tempo ha lasciali perire. Per antico quasi tutti i dotti
clic trattarono di queste opere attribuirono costantemente a Tullio i
libri dal loro autore dedicati ad Erennio, i quali trattano la stessa materia.
(Hu oggi per ragioni solidissime si disdice questo possesso a Tullio. Gli
antichi furono senza dubbio traili in errore dal vedere una grande
uniformità nei precetti e negli esempii citali dall'uno e dall'altro
autore, c ncITnccordarsi elio fanno presso che in ogni cosa, ila non fu
osservato che si Comincio come Cicerone si tennero strettamente ad Erinagom, e
che la comunanza dcU’anlico maestro fece dir all uno ciò che disse anche
l’altro. Sarebbe assurdo attribuire a Tullio un’altra opera dello stesso
genere, in cui non avesse fatto atiro clic ripetere quello che avea già dello
prima. Se poi si riguarda quest' opera dal lato della utilità ch’essa
può prestare all’oratoria dei nostri tempi, convien confessare che quanto
essa può recarci buon servigio nell’insieme e nella generaldà delle
regole, altrettanto ò poco acconcia a certi casi clic pigliano la loro
qualità dai costumi c dalle leggi dei nostri secoli 11 Crisliane-imo, che con
la sua spiritualità, ignota agli antichi, si è l’alto guida invariabile a lutti
i sentimenti deU'uomo, ha lasciato trapelare le sue ispirazioni in tutte le
leggi, ha impresso nei rapporti sociali principii inconcussi di sapienza
o di verità, lui spiegalo agli uomini il segreto dei loro destini, c lo
scopo verace della lor vita, la quale i gentili credevano gcitala dal caso nel
mondo delle esistenze perchè passasse come quegli allori leatrici che si
lascian vedere al pubblico traversare la scena per non più comparire, o perchè
risorgesse a una immortalità fantastica, suggerita dalla non dubbia
convenienza ili un'ultra vita. Ha impresso il suo marchio divino nella
religione, ncll’oiiorc, nella pietà, in tulle insomma le virtù clic erano
sanzionate dalla convenzione e dalla esperienza dei secoli. Di che è
venuto un cssenzial mutamento in quel giure comune clic istituisce le
relazioni più necessarie fra nazione c nazione, come in quei giure
privato che lega fra loro i rapporti che passano tra individuo c individuo.
È dunque incompatibile con le idee dei tempi nostri lo ascrivere Tullio
(lib li, cap. 22) la vendetta, come ascrive la religione c la pietà, fra
i diritti naturali, mentre la giurisprudenza presente come per amore del Crisi
ancsimo trova meglio dominante nella pietà c nella religione il diritto
divino, che imprime alle azioni una ben diversa gravità da quella clic
imprimeva loro questo diritto medesimo consideralo per naturale, attesoché
rispetto alla religione c alla pietà avevano i gentili idee assai
ristrette; troia essa giurisprudenza anche dominante il diritto fraterno
che riprova la vendetta come contraria a quei precetto della natura, che
comanda il fare o il non fare ciò che a noi stessi vorremmo fatto o non
fatto, perchè t’individuo non è un essere solitario o spiccato dalla
società, ma un fratello, un membro, una parte della grande famiglia
umana. Nò questo è da dire di ciò solo, ma di quanto altro ha ricevuto
dal Cristianesimo una impronta diversa da quella che gli aveva stampata
l'antichità. È perciò quest' opera uno di que’ monumenti antichi, a cui
s’inchinano per riverenza le età clic gli passano innanzi, e da cui ricopiano
le singole parti come bellezze confacenti ancora al loro gusto, ma il cui
insieme non risponderebbe appunto al genio e al costume che le domina.
Inoltre l'antico diritto civile mollo diverso dal presente, perchè diversa la
costituzione politica degli Stati: la forma del governo libero troppo
lontana dal governo assoluto dei nostri secoli ; le formalità dei tribunali c
ilei giudici clic hanno ricevuto dal tempo essenziali mutazioni, son cose
che non rendono in lutto acconcia alle nostre cause questa Ciceroniana
trattazione, quantunque, siccome è dello di qui a dietro, non lasci di
presentar un certo utile nelle parli del suo insieme e nella generatila
dei precedi che vi si trovano abbondantemente radunali. Anche
qucslo, come gli altri testi Lalini, andò soggetto a varietà nella lezione : il
clic non dee far maraviglia mentre al tempo di Tullio stesso e viverne
lui avvenivano nc' suoi scribi, non altrimenti clic in quelli degli
altri, delle non piccole mutaz oni: di che si lagna Tullio nel terzo delle
lettere in una diretta a Quinto suo fratello, che è di quel libro la
5." Pietro Vittori esaminò attentamente i codici Fiorentini , c
riuscì a dar questa operetta più emendata che non lo fu da due secoli
addietro: talché il Grevio parlando ili lui , nella Prof. alle Epistole
di Tullio, ilice che Cicerone dee più al solo Vittori clic a tulli gli
altri clic si occuparono di emendarlo, poiché gli al ri gli guarirono qualche piaga
. ma il Vittori lo ridonò a buona salute. Paolo Manuzio aiutato da codici
, ili Venezia specialmente, fece anch’ egli qualche prò a questa opcrctla
dopo il Vittori, ma non con plauso eguale, perchè non fu fedele come
quello. Ed eziandio che dica il Muralo esser dubbio se sia più debilorc
il Manuzio a Cicerone, o se Cicerone al Manuzio, tuliavin non mancano
parecchie fra gli altri Enrico Stefano, Psc udne. p 59, che lo accusano ili
audacia troppo pericolosa l'iù audace è nondimeno Dionisio bambino, il quale
stampò Cicerone trentanni dopo il Vittori, aiutato dai copiosissimi lesti delle
biblioteche Parigine: ma ebbe spesso la pecca di preferire il proprio
giudici» alla autorità e al consenso di quei testi rinomatissimi. Laonde dice
di lui il Muralo, Var. Lcz. xvm, 7, clcrgli non correggeva già gli errori
de' librai, ma correggeva Cicerone stesso, quando gli sembrava che avesse
piu'.kazium: ({ualclie uscurilù. Tuttavia aveva il Lambino somma acutezza
(l'ingegno, talché scopriva o subodorava ciò che era sfuggilo agli altri;
ina il suo stesso acume lo portava talvolta ad essere audace. Finalmente Ciano
Crutcro avule alle mani quante copie di opere Ciceroniane si trovavano
nelle biblioteche Belgiche, e poi oltre a dugcnlo manoscritti della Palatina,
sudando fra lami codici fino all'eccesso, pubblicò le onere Ciceroniane in
modo, come attesta egli slcsso nella Prefazione, da contar più di mille luoghi
illustrali, corretti, accresciuti. li vero clic questa asserzione perde mollo
in bocca del Crutcro, ma non si può negare che ne sia insigne il suo inerito.
Corre il dello fra i critici, che mollo maggior bene saria venuto a
Cicerone se il Lambino avesse avuto alle mani alquanti dei codici clic
ebbe il Crulcro, poiché il Lambino sarebbe stato più divolo alle membrane
antiche, c Crutcro lo sarebbe stato queU'uii po’ meno clic gli bisognava,
tn quanto alla presente versione io non mi sono che di raro valuto delle
varianti, avendo fallo uso di una edizione di Lipsia, pubblicala nel 1831
con piena c curala esattezza. Discorre Tullio dello utilità dello
eloquenza, del suo principio, progresso, abuso, aladio, e dell' orlo die h.; j
suoi precetti proprii. Quale sio l’unicio della eloquenza, il fine, la
materia, le porli. Della Invenzione che n è la parte più precipua, c
quale debba essere In ogni cosliluzionc di causa si congetturale, si
definitiva, si generale. Dell’esordio, narrazione, partizione,
confermazione, confutazione, e delle varie specie di tulle queste partì dell’ orazione,
delle parti secondarie, dell’efficacia c dei diletti loro. Seppe et
mulliim liocinccum cogitavi, bolline i,n inali plus altulcril hominibus
el drilalilius copia dicendi ac sumimim cloquenliac sludium. Nani quum et
noslrac rei piiblicuc delrimcnla considero, et nuiiimarum civituium velercs
animo calamilales colligo, non minimam video per discrllssimos liomines
invecbtm parlcm incommodorunt ; quum autem res ab nostra memoria propler
vcluslalem rcmolas ex lillerarum monumenlis repeterc insilino, rnullas urbes
consliluias, plurima bella rcslincla, (irmissimas socictales,
sanclissimas amicilias inlelligo quum animi ralioiic tum facilius eloqucntia
comparalas. Ac me quidem diu cogitanIcm su pioti tinnì sinc cloquentia parimi
prodessp civilatibus,eloquenliam vero ainesapienlia nimium obesse
pleriimque, prodesso numquam. Quare si quis, omissis rcctissimis atquc
lioncstissimis sludiis raiionis et ollicii, consumi! omnem operato in
eicrcilalionc dicendi, is inulilis sibi, pcrnicinsns palrioc civis alilur
; qui vero ila sete armateloquenlia ut non oppugnare conimnda palriae,
sed prò bis propugnare possil, is milii tir et suis et publicis
raliouibus utiussimus atquc amicissimus civis Ture vidclur.Ntc si volumus huius
rei, quac vocalur cloquentia, site arlis, sivc sludii, sire
cicrcilalionis cuiusdam, sivc facultatis ab natura profcclac considerare
principitim,repcricmus Spesso edi vantaggio andai meco esaminando se
un saper fare molle parole, c uno studio assai grande dell - eloquenza
recasse più di bene ovvero di male agli uoiu ni ed alle città. Quando io
considero la nostra repubblica venula in peggio, e richiamo al "disierò le
ani che miserie di cillà cospicue, io vi troru già inlrndotla non piccola
parlo di pregiudizio c di danno appunto da uomini della più alla
capacitò di ragionare. Che se per conira io piglio a esaminare i
monumenti lellerarii della amichila, e vi riandò i falli lontani dalla
nostra memoria, io ci ravtiso non solo per disposizione di animo,
ma mollo più col mezzo della eloquenza fondale molle cillà, cslintc assai
guerre, slrelle società saldissime, c amicizie le più sacre c inviolale.
E già mentre io buona pezza me no sio sopra pensiero, mi (rovo condono
dalla ragione stessa a giudicare clic la sapienza scompagnala da
cloquenle linguaggio poco profilta alle cillà, laddove il linguaggio
eloquente scompagnalo dalla sapienza può nuocer loro le più volle,
giovare non mai. Il perebì quando bene alcuno, lascialo slarc lo studio
sommamente buono e onoralo della dirittura c del dovere, consumasse lulla
l'opera sua in esercitarsi a perorare, coslui diverr. hbc un cittadino
siccome inutile a sè slesso, cosi offendetele c funesto alla patria; mentre
olii si orma della cloqucn ili ex honcstissiniis causi: naliim, alque
optimi: ralionibus profcclum. Nani tuli quoddain tempii:, quiim in
agris lioinincs passim bcslmrum more vagabsntur, el sibi victu toro
vilamprnpagabanl.ncc ralionc animi quidquam, seti pleraque viribus
corporis adirimislrabanl ; nominili divinac rcligionis, non Immani
oflicii raiio colebatnr, nomo nuptias viileral leghimas; nouccrlosquisquom
inspcieral libcros;non, ius acquabilc quid utililatis haberct, accepcrat.
Ila proplcr errorem alque inscientiam cacca oc temeraria dorninalris
animi cupidità» ad se czplcndam viribus corporis abulcbatur,
perniciosissimis s ite! litibus. Quo tempore quidam, magnus vidclicel vir
et sapiens, cognovit quae matcries et quanta ad maximas res opportunità:
in animi: incsset homimmi, si quis cani posse! elicere et praecipiendo
mcliorem redderc; qui dispersos hominos in agris t in tectis silveslribus
abdilos ralione quadarn compulit unum in locum et congregavi!, el cos
in imam qnamque rem inducens ulilem alque lioncslam, primo propler
insolcntiom reclamantcs.deinsa eloquenza ridondano a uno stato di molli beni,
purché la si accompagni con la sapienza che modera ogni rosa; da essa
deriva a quelli clic lo possedono c lode, c onore, c dignità; da essa
gli amici altresì di chi n'ha Tatto acquisto guadagnano giovamento il più
certo c il più sicuro. E tuttoché per più versi gli uomini sieno mollo
degradali per debolezza c viltà, pure più che per altro per la dote
ch’essi hanno della parola vanno at di sopra delle bestie. Ondechè mi
pare aver fatto un acquisto assai ragguardevole edui clic per la stessa
cosa onde sopra le bestie si vantaggia, per quella si vantaggia sopra gli
stessi uomini. Ora, se ciò non pure si Ta col mezzo della natura e
dell'esercitazione, ma eziandio si ottiene con un colale artifizio. non i fuor
di proposito che ci mettiamo a sapere clic uc dicano quelli, i quali di
artifizio sifTaito ci hanno lasciati dei precetti. Però innanzi clic
tocchiamo i precetti dell'oratoria, s'ha a dire della essenza di qucsl’arle,
dcll’uflb.io, del fine, della materia, delle parti. Conosciute queste
cose, potrà ognuno più agevolmente c con più speditezza porsi a considerare il
magistero e l’andamento dell’arte stessa. V'ha una scienza civile che si
compone di elementi molti e di mollo rilievo, lino ben grande c vasto è
l’eloquenza artificiale, che si noma retorica. Io non mi consento insieme
con coloro clic stimano la scienza civile non aver uopo di eloquenza, ma
sono altresì assai lungi dal pensare come quegli altri che fanno essa
scienza consistere tutta nella potenza e nell' artifizio del retore, lo
fo ragione essere la facobà oratoria di tal genere, da doverla dire una parte
della scienza c vile, n politica. Quanto è all’ufllcio di essa facol liane,
lnter olìlcium el linoni hoc inlercsl, quoti in oOlcio, quid Iteri, in
line, quid ofllcio convcnial, considcralur. Ut medici offlcium dicinius
esse curare ad sanandum apposite, lìnem sanare curalione ; ilein oratori:
quid ofltcium et quid linem esse dicamus, ìnlclligcmus, quum id, quod
Tacere debet, ofltcium esse dicemus ; illud cuius causa Tacere
debel, lìnem apoellabimus. ilaleriam arlis cam dicitnus, in qua omnis ars
et ea Tacultas, quac conflcitur ex arte, vcrsalur. Ut si medicinac
malcriam dicamus morbos ac vulnera, quod in bis omnis medicina versclur; item,
quibus in rebus versatur arse! Tacultas oratoria, casres materiam arlis
rhetoricacnominamus. Has aulem res alii piures, alii pauciores eiistimarunt.Nam
Gorgia: Leonlious, anliquissimus Tcrc rhetor, omnibus de rebus oratorem oplime
posse dicerc existimavit. llic inlìnitam ctimmensam huip artificio
materiam subiicerc tidelur. Arislolcles autem, qui Imic arti plurima
adiumenta alque ornamenta subininislravil, tribù: in generibus rcrum versari
rhetoris offteium putavil, demonstratito, deliberativo, iudi. ciati.
Itcmouslrativum est, quod Iribuilur in ali* cuius ceilae personae laudem
aut vituperalioncm; deliberalivum, quod posilum in disceplatione citili
habet in se senlenliac diciionem ; iudiciale, quod posilum in iudicio
habet in se acctisalionem cl dcTensionem, aut pclilionem et
recusalionem. El quemadmodum nostra t|uidem Tori opini», oratori» ars et
Tacultas in hac materia tripartita versori existimamla est. Vani
Ilcrmagoras quidcui nccquid dica! attendere, noe quid polliceatur inlctligere
videlur, qui oratori: materiam in causani eliti quacstioncni
dividal. Causam esse dicil rem, quac balieat in se eon! roveri iam
indicendo posilamcum personarnm ccrlarum inlerpositione; quatti nos
quoque oratori dicimus esse altribiitam. Matn tresci parles, quas
ante diximiis, supponimus, iudicialcm, deliberativam, demonstrativam.
Quacstioncni autem cani appellai, quae habeal in se controversiam in
dicendo posilam sinc cerlarum personarum inlerpositione , ad butte modum :
Ecquid sit bonum praeter honestalem. Verme sinl scnsus? Quac sit
mundi Torma ? Quac sit solis magnitudo ? Quas qtiacslione5 pronti ali
oratori: olticio remota: Tacile timnos inlelligerc eiisliiuamus. Mani
quibus in rebus stimma ingcnia philosoplioruni plurimo cum labore
consumpla intelligimus, cas sicul alì lè, queslo a mio avviso
consiste nel discorrere in guisa adalla a persuadere, come it (ine
consiste nel persuadere col mezzo del discorrere. Dall’uT flcio al
fine v'ì queslo divario, clic nell' ufficio si considera ciò che sia da
Tirsi, e nel line ciò che all'ufficio convenga Tare. A quel tnodu che noi
d damo esser ufficio del medico Tar cura di modo approprialo a risanare,
c il fine essere il risanare col mezzo della cura; allo stesso modo
intenderemo che sia l'ufficio c clic il line dell'oratore, quando si dirà 1*
ufficio dell' oratore essere il Tare ciò che dee, c il line essere ciò
per che dee Tare, materia dell' arte io appello quella , intorno a
clic l'arte tutta s’aggira, come ancora la facoltà che dall'arte si
deriva. Diciamo maleria della medicina le malattie e le Tcrilc, però che la
medicina si volge tutta intorno a queste: ebbene, allo slessn modo
diciamo materia dell' arte retorica quelle lutte cose, intorno a cui si
volge l'arte c la faco’tà oratoria. Or queslo cose chi le Ta molte, c
citi le riduce a podio. Gorgia l.contino, clic dei relori Tu uno
de'più antichi, pensava che l’oratore può ragionar oli imamente di ogni
cosa; ond'egli assegna a questo artifizio una materia smisurala e senza
termine. Per contra, secondo Aristotele, il quale a qucst'arlc somministri di
molti ornamenti ed approvecci, l'ufficio del retore si avvolge
intorno a tre maniere di trattazione, alla dimostrativa, alla
deliberativa, alla giudiciale. La dimostrativa si adopera al lodare
^biasimarsi di una determinala persona; la deliberativa risiede nella
deputazione civile, e consiste nell’ esporre i deliberanti il loto
parere; la giudiciale sia nel Tare il giudicio, c comprende l’accusa e la
difesa, o la petizione e la replica incontro. Or l'arte e la facoltà
dell’oratore, secondo che io penso, si aggira intorno a questa maleria cosi
tripartita. VI. Ermagora dà due parli alla materia dell'oratore, ciò è
dire la causa c la quislionc; ma ei mostra di non avvisar bene quello
ch’ci dice, nò intendere ciò che propone Ei dice causa una trattala clic
ammette contrasto di parole coll' intervento di determinale persoue; la qual
trattola ho dello io slcsso esser dovuta all' oratore, pcrchft gli
reputo le tre specie toccate qui addiclro, la giudiciale, la
deliberativa, la dimostrativa. Egli poi nomina questione quella die
ammette il controvertere di parole, ma senza intervento di determinale persone,
come sarebbe il cercare, Che altro v'ha di buono oltre l'onestà. Se sieito
veraci i sensi, Quale sia la Torma del mondo, Quale la grandezza
del sole. Le quali quislioni credo che ognuno agevolmente intenda essere
di lunga mano estranee all’ufficio dell' oratore. Attribuire inTalli
ali'oralore come cosa di poco momenlo una quas parvas res oratori
otlribuere magna amcntia ridelur. Quotisi magnam in his Hermagoras
habuissel facullolem studio cldisciplinacomparatam, vidcrclur frclus sua
scicntia falsimi quiddam constiluissc de oratoria otDcio, et non quid ars,
sed quid ipsc possel, czposuisse. Nunc vero ca vis est in lioininc,
ut ci multo rheloricam cilius quia ademeril, quam philosopliiam concesscril:
ncque co, quod cius ars, quam cdidil, mihi mendosissimo scripla
lidealur ; nam salis in ea videtur ex antiquis arlibus ingcniose et diligcnter
eleclas res collocasse, et nonniliil ipse quoque novi protulisse ; vcrum
oratori minimum est de arte loqui, quod lue fedi ; multo maximum ex arte
dicerc, quod eum minime potuisse omnes videmus. Quare materia quidem
nobis rlictoricae videtur ca, quam Aristoteli visam esse diximus; partes outem
lise, quas pleriquc dixerunl, inventio, dispositio, eloculio, memoria,
pronuncialio. Invcnlio est excogitalio rerum verarum aul veri similium, quae
causam probabilem reddant; disposino est rerum inventarum in ordinem
disltibulio; eloculio csl idoncorum verbotum ad sentenliarum
invenlionem accommodatio ; memoria est firma animi rerum ac verborum ad
invenlionem peree. ptio; pronuncialio csl ex rerum et verborum dignilalc
vocis et corporis moderatio. Nune his rebus breviler eonstitulis, eas raliones,
quibus estendere possimus geiius et ofllcium et llncm buius arlis, aliud
in tempus difTcremus. Nam et multorum verborum indigeni, et non tanlopcre ad
arlis descriptionem et praecepla Iradcuda pertinenl. Eum outem, qui
arimi rliclorieam scriba!, de duabus nliquis rebus, de materia arlis ac
parlibus scribere oporlcreexislimamus. Ac ndlii quidem videtur coniunctc
agendum de materia ae parlibus. Quare inventio, quae princeps est omnium
partium, potissimum in omni eau-arum genere, qualis debeat esse,
considcretur. Umnis res, quae liabct in se positam in dictionc ac
disceplalionc aliquam controvcrsiam, aut facli, aul nomiuis. ani generis,
aut actionis comincili quacslionem. Eam igitur quaeslionem, ex qua
causa nascitur, constitulionem oppcllamus. materia, a cui
trattare logorarono l'ingegno con assai di fatica i filosofi, codesto è
ben una folle forscnnalezta. Che se Ermagora avesse pure con lo
studio c le apprese dottrine acquistata una grande perizia di tali cose, ci
mostrerebbe d'aver messa in piedi sull' appoggio della scienza sua propria una
falsità circa all'ulllcio dell'oratore, e fatto vedere non ciò die l’arte, ma
ben ciò eh’ egli stesso sapesse fare. Egli è poi da natura si
condizionato, clic molto più tosto altri gli negherebbe sufficienza in
fallo di retorica, clic non gli concederebbe sufficienza in fallo di filosofia.
Nò questo io dico perclii Ermagora nel trattar che fece l'arte retorica
sparnicciassc qui e qua di sbardellati errori, quando anzi vi Ita posto
cose qua e là Irascelte con abbastanza d'ingegno c diligenza dagli antichi
trattali di retorica, c parie v'aggiunse egli stesso un po' di nuovo: ma
parlare dell' arte, come fece Ermagora, per un oratore i cosa da
nulla; il malagevole è ragionare secondo le leggi dcll'arlc; ciò che
ognun vede non aver Ermagora saputo fare. Il perchè io sono d'avviso la
materia della retorica esser quella che, come io dissi, fu indicala da
Aristotele; c le parli di essa, secondo che molti hanno scritto,
l'invenzione, la disposizione, la locuzione, la memoria, la
pronunciazione Invenzione è trovar col pensiero le cose vere o verisimili che
rendati la causa probabile; disposizione è distribuire ordinatamente le cose
trovale; locuzione è adattar le parole, rhc sono acconce, al
Irovamenlo dc'concelti; memoria è percezione fermata nella mrnle delle
cose c delle parole che servono alla invenzione; pronunciazione è reggere
la voce c la persona secondo che s’avviene alti digitila delle cose e
dello parole. Dcfinile cosi alla breve queste parli della rclorica,
rimandiamo ad altro tempo le ragioni con che si possa dimnslrare
l’essenza, ruttici» c il fine di essa, poiché domandano esse parli assai di
parole, c d'altronde non hanno uno stretto rapporto col metter in
trattalo quest’arte e somministrarne prccclli. Chiunque volesse compilare una
Irallaziotie compiuta dell' arte retorica, dovrebbe scrivere, io
penso, della materia dell’arte divisamente dalle parli di essa: io
però c della materia e delle parti non debbo trattare clic a un tempo
stesso. E poiché di tulle qucsle parli la invenzione è la più principale,
si vuol considerare quale in ogni genere di cause ella si debba essere.
Vili. Ogni affare clic Involge qualche controversia in genere esornativo
o giudichile, conlienc qucslionc o di fallo, o di nome, o circa il
genere del fatto, o circa le persone a cui compelc agire. La
questione, da cui nasce la causa, io l'appello utino i. Conslilulio
c>l prima confliclio catisarum ex dcpulsione intcnlionis profocla, hoc modo
: Fecisli. Non feci, aul: Iure feci. Quum farli conlrovcrsia est,
quoniam coniccluris causa (ìrmalur, cnnsliiulio roniccluralis appcllalur. Quum
aulem nomini*, quia iis vocahuli dclinienda verbis esl, conslilulio
definitiva nominalur. Quum vero, quali» rcs sii, quacriiur, quia cl de vi
et de genere ncgnlii conIroversia est , conslilulio generali» tocalur. Al
quum causa ex co pendei, quod non aul is agere vidclur, quelli oporlct.
cui non cum co, quicum nporlct, aul non apud quo», quo tempore, qua
lege, quo crimine, qua poemi operici, Iranslaliva dicilur conslilulio,
quod aclio trauslalionis el commulaiionis indigere vidclur. Alque haruin
aliquam in omne causar gcnus incidere necesse esl. Ram in quam rein
non inridrril, in ea niliil esse polcril controversine; quarc cam ne
cansarn quid“in conventi pulari. Ac facli qiiidcm controversia in omnia tempora
polesl distribuì. Nam quid factum sii, polcsl quaeri, hoc modo:
Oeciderilnc Aiaccm Uli ics. El quid dal, hoc nonio : llononc animo siili
erga popolimi ilnmauum Fregollani. El quid fuluruin sii, hoc modo : Si
Cnrlliugìnem roliquerimus incoiumcin, num quid sii iucnnmiodi ad rem
putdicam perveuturum. Nomiuis est controversia, quum de farlo conventi,
et quacriiur, id quod factum est quo nomine appcllelur. Quo in genere
neccssc est ideo nomini» e. se con!rover.-iam, quod de re ipsa non
convenial ; non quod de facto non conslcl, seri quod id, quod factum sii,
aliud alii videa tur esse, ri idcirco aliti» alio nomine id appellel.
Quare in eiusmodi gcnerihus definicnda res eril verbi», el brevih r dose
ribellila: ut, si quis sacrum ex privalo surripueril, ulrum fur an
sarrilegus s.l iudieamlus. Ram id quum quacriiur, necesse eril dcOnirc
ulriimque, quid sii fur, quid sacriirgus, el sua dcsmplione cisterniere
alio no mine iilam reni, de qua agilur, appellari oporlere, ulque
adversarii dicunl. IX. Generis esl conlrovcrsia. quum cl,
quid factum sii, convelli!, cl, quo id factum nomine ap pellari oporteal,
constai; et (amen, quanlum cl I cuiusmodi el omiiinn quale sii, quaentur,
hoc modo: Jusluin an iriiusl uni, utile au inutile, et costituzione.
La costituzione è la prima contesa delle cause, derivante dalla replica
die si fa conIru l'accusa, come sarebbe: Hai fallo Non Un fallo, oppure:
ilo fallo a buona ragione. Quando è controversia circa un fallo, poiché la
causa si fiancheggia di eongdiure, la costituzione si domanda enng'
Ituralc. Quando è circa un nome, siccome si dee definire a parole
l'essenza del vocabolo, la co-tiluzionc si appella definitiva. Qualora j'
investiga di clic qualità sia una cosa, giacché si controverto sull' essenza e
sul genere di essa, la costituzione si appella generale. Sia quando la causo
dipende da questo, che o non è odore chi dee, o non è contro chi lo dee
essere, o non presso dì quelli clic si conviene, non in quel tempo, o
secondo quella legge, o per quel dcbllo, o per quella pena che il dovrebbe
essere, la costituzione diccsi traviatila, poiché la trattala abbisogna
di eccezione dedicatoria e di permuta. Di lati questioni è inevitabile
clic una o un'allra vi abbia in ogni genere di causa, perocché l'altare
che non ne involgesse alcuna , non può ammollerò controversia ; non può
quindi aver natura di causa. I.a conlrovcrsia di Tallo puossi riferire a
tulli i tempi. Si può inqtiircrc su ciò che fu fallo, di qiuslo
modo: Se Ulisse uccise o no Aiace. E su ciò clic si fa, a questa maniera:
Se quei di Fregellc sieoo o no ben volli verso i Romani. E su ciò clic è
fulcro, come se si chiedesse: Se noi Irsecreto in buon essere Cartagine, ne
verri egli alcun detrimento alla repubblica? È conlrovcrsia di nome,
quando essendo ludi d'accordo sul fallo, si cerca di clic nome il fallo s'abbia
a domandare. Nel qual caso non può non esserci conlrovcrsia di
nome, però clic le persone non sono in accordo sulla materia stessa clic si
traila; non perchè non consti il fallo, ma perché questo fatto a
chi Ira paruta d’essere d'uno qualità, a chi di un'allra; e però da
alcuni è appellalo con un nome, da alcuni con un nome diverso. Laonde in casi
di falla simile si vuol la cosa definire a parole con alquanla poca di
descrizione, acciocché se alcuno avesse, a mo’ d' esempio, privalamcnlc rapilo
un oggetto sacro, si vegga se e’sia da giudicare per ladro, o per sacrilego.
Quando dunque sia tale il punto della causa, converrà defluire clic si
voglia intender per ladro, e clic per sacrilego, e con una acconcia
sposizionc dar a conoscere come il fallo che si ag la è da appellar d'un
nome diverso da quell", onde dagli avversari! i appellalo.
IX. b conlrovcrsia circa al genere,' quando le parli sono belisi
d'accordo sul fallo, e sul nome con che il fallo si convien designare, ma
lulljii.i si cerea di clic gravezza esso sia, di clic specie, di
clic qualità, a questa guisa: Se il fallo è giu. lo o umilia, in quibus, quale
sii i'I, quud factum esl, quaerilur sine ulla nominis controversia Iluic
generi Hermagoras parlcs qualuor supposuil, deliberalivam, dcmonslraliram,
luridicialcm, negolialem. Quod eius, ut nos putamus, non mediocre
pcccalum reprehendendum vidclur, vcrum lirevi, ne aul, si laci-i
pradericrimus, sino causa non se culi ctim pulemur ; aul, si diulius in
hoc constilerimus, moram alque impi-dimentum reliquia praeceplis
intulissc videamur. Si deliberano el demoiistralio genera sunl causarunv,
non possimi recle parles alicuius generis causac polari. Eadem cium
res alii gcnus esse, alii pars polesl ; cidem gcnus esse et pars non
polesl. Dclilieralio aulem ci demonstralio genera sunl causarono. Nani
aul nnllum causae gcnus esl , ani iudiciale solino, aul cl
iudiciale cl demouslralivuin et doliboralivum. .Nu I Inni diccrc causae esse
gcnus, quum causas esse mullas ilical, el in ca9 praecepla del, amenlia esl;
unum iudiciale aotem solmn esse qui polesl, quum deliberali» et
demonslraliu ncque ipsae similes inler se sinl, et ali iudiciali
genere plurimum dissidi-ani, cl suum quaeqiie linem liabeanl, quo referri
debeanl? Rclinquilur ergo, ili omnia iria genero sin! causarum.
Deliberano imitar el demonstralio non possimi recle parlcs alicuius generis
causae pulari. Male igilur cas generai'* conslilulioilis parles esse
divii. Quodsi generis causae parles non possimi recle pulaii, multo
minus recle partls causae parics putabunlur. Pars oulcui causac est
conslilutio omnis. Non enim causa ad constilutimiem , sed
constilullo ad causam arcommodalur. Sed demonslralio el dclihcralio generis
causac parles non possimi recle pulari, quod ipsa sunl genera; mullo
igilur minus rccte parlis eius, quod liic dici!, pnrles putabunlur. Dciiidc si
conslilutio cl ipsa cl pars eius quaclibel inlcntionis depulsio est, quae
inleulionis depulsio non esl, ea ncc conslilulio ncc pars conslilulioilis
esl. Al si, quae inlentionis depulsio non esl, ea ncc conslilulio nec
pars constilutionis esl, demonstralio cl deliberali!) neqnc
conslilulio nec pars conslilulionis est. Si igilur conslilulio el
ipsa cl pars eius inlcntionis depulsio esl, deliberali» cl demonslratio ncque conslilutio
neque pars conslilulionis est. Placet autem ipsi consti lutionem
inlcntionis esse depulsioiicm; placcai igilur oportei dcmonslralioncm cl
deliberalionein non esse ingiusto, se proficuo u inutile, c
ogni altro simile, in cui si inquerisce di clic qualità sia il fallo
senza veruna controversia circa al nome. Alla controversia circa al genere
Ermagnra attribuiva quattro parli, la delibcraliva, la ditnoslraliva, la
giurldiciolc, la negoziale. Non credo di dover cessarmi dal riprendere
questo di lui non mezzano errore, perchè se io me ne passassi in silenzio
non si credesse clic io mi scostassi da questo autore senza motivo;
avvegnaché il farò cosi di passo c alia brc;ualc ii sostegno della
difesa: le quali tulle cose debbono partire dalla costituzione. La questione è
quella conlroversia clic nasce dal conllillo delle rausc, come a dire:
Non facesti a buona equità. Ilo fallo a buona equità. Il conflitto
delle cause è quello in cui consiste la cos iluzione. I)a questa dunque
nasce quella colai controversia clic io appello queslione, come se si
diccsso:llacg!i fallo o no a buona equità? Ragione è quella clic cornicile il
motivo: lollo esso, non resta nella causa punto di conlroversia, come
se si dicesse, per servirmi di un esempio facile e a (ulti
conosciuto: Poslu che sia accusalo Oreste di aver moria la madre, se egli
non si esprimesse cosl:L’lio moria a tulio «tirino, perdio ella mi ho ucciso il
padre; ci non avrebbe difesa, c lolla la difesi, è lolla eziandio ogni
conlroversia. Laonde la ragione ovvero motivo ili quesla causa sla in
ciò che la donna aveva ucciso Agammenone. La giudicazione è la
conlroversia che nasce dall’ infermar che fa l'accusatore, c dall' avvalorar
che fa l’accusalo la ragione, ossia il motivo. Insidiamo nella
ragione qui sopra esposta. .Mia madre, dica Orcslc, mi ha ucciso il
padre. Ma non era dicevo I le, risponde l'accusaiore, clic lo uccidessi
la ma i die, lu clic le eri figlio, poiché poteva quel fallo Ei tuie
ileducliiinc ralifìnis illa somma mi scilur controversia, qoam
juilicatioiicm appella mus. Ea esl huiusmodi: Reclutimi: fueril ab Oreale
tnalrcm occidi, quum illa Orcslis patron occidissi l. Fiimamcntum est
(irmissinta argumcntalio defensoris, el appoailissima ad itidicalioncni:
ul si volil Orestes dircre cjusmodi aiiimum malris suao fuisse io
palrcni suum, in se ipsuni ac sororca, in regnimi, in famain generis el
rainiliac, ul ab ea poenas liberi sui polissimuin pelare debucruil.
Et in ceb ria quidenieonsliltilioiiilius ad lume modum judicalioncs
reperieulur ; in conjeelurali auleti) conslilulione, quia ralin non esl
((aduni cnim nnn conccdilur), non polesl ci dcduclionc ralinnis nasci
judicali». Quare neccssc esl camdem esse quacslioncni el judiealionem:
Facilini esl. Non est factum . Faelunine sii ? Quol anioni in causa
consliluliones ani earum parles eruul, lolidein neccssc erti qnacslioncs,
raiiones, judicalioncs, firmauiciila reperir! Ilis omnibus in causa reperlis,
luni denique singulau parles lolius causae considerandac sunl. Nani non
ul quidquc eli endum prillili ni, ita primuni anim i hcrlenduin lulelur;
ideo quod illa, quac prima dicaulur, si u liemenlcr velis rongrtiere el
cdiacrcrc cum causa, ex bis ducas operici, quac post direnila sunl. Quare quum
judicalio, et ea, quac ad judiealionem oportel argenteal i iineiiiri,
diligcnlcr eruul arlificio repcrla, cura cl cogitalioue pi-rtraclala, Inm
denique ordinalidac sunl cctcrac parles oralionis. Eac parles sei ose
umilino nobis videnlur: exordium, narralio, parlilio, conili
malio.repreliensio, conci u-io. Nuiic qtioniam exordium princeps omnium
esse debel, I uos quoque primum in ralionem cxordicndi praeccpla
dabinius. Evnrdiuni esl orali» animum audiloris ido nec eomparans od
reliquam diclioriem: quo I eveilici, si cum benctuluni, altcnlum, duodeni
con(eeeril. Quare qui bene exordiri caosam volel, rum necesse esl genus
suao causae diligenler aule cognoscere. Genera cau.-arum qiiinquc sunl :
lioneslnm, admirabilc, Immite, anccps, obscurum. Henesliim causae genus
esl, cui slatini sino oral ione nostra audiloris farei animus; admirabilc,
a quo esl ahvualns animus cerimi, qui autliluri sunl; esser puuilo sema
elle lu li gallassi in unascelleragginc. Dal torre all'accusato questa ragione
o difesa nc tien la controversia sul gran punto da decidere, che io appello
giudicationfi. Essa sla in questi termini: Se fu giusto che Oreste
uccidesse la madre perchè ella ad Oreste ateva ucciso il padre. Il
sostegno della difesa è la più furie argomentatone del di felli ire, c la più
propria a determinare i giudici; e sarebbe se Oreste de cise, tale essere
stalo il inai talento di sua madre si conilo il padre, sì contro lui slesso, e
le sorelle, c il regno, e la ripiilaxione della stirpe o della famiglia,
che i suoi llgli stessi avrian dovuto chiedere ch'ella fosse ponila. Cosi
in tulle le altre costituzioni si Irorcranno allo slesso modo i punii da
giudicare: perù nella cosliluiione congetturale, siccome non v'ha ragione
(perchè il fallo non si concede), cosi essendo sottraila la ragione, non
può uscirne il punto da decidere. Il perchè è mestieri ! he sia la
stessa e la queslione e la cosa da decidere, come in questo caso: Fu follo. Non
fu fallo. Quel che s'ha a vedere è, se veramenle fu fallo o no.
Oliatile poi saranno nella causa le costituzioni u le parli loro, allrellaulc
dovranno essere le questioni, i punii di difesa, i capi da decidere,
i sostegni, di clic te parli litigami s'avvalorano. Trovalo tulio questo,
allora Cmatmcnle si debbono ciiusidcrarc le singole parli di luna la
causa; perocché non è già clic s'abbia prima a ben avvertire quello che ha da
dirsi prima dì tutto, perchè le cose clic si dicono in prima, se vorrai
che si coufaeciano bene e si leghino con la causa, le dei derivare
da quelle che si vogliono dir poscia, bionde quando bene col mezzo
dell'arte si sarà csattamenle rinvenuto, c poi pensalo e ripensalo con
diligenza qua'e sia il punto decisivo che dee essere giudicalo, e insieme
gli argomenti che sono il caso, allora dovranuosi disporre per ordine le
albe parli dcll'oraziooe. Queste parli io penso essere al postullo sei:
esordio, narrazione, divisione, confermazione, confutazione, conclusione.
E poiché l'esordio dee essere la prima fra le parli deil'orazione, anch'io darò
per primi i preeellì che all'esordio si riferiscono. L’esordio è un
discorso che dispone convenevolmente l'animo dcll’ud ture a tulio il
rcslo dell'orazione: Il clic addiverrà -e si faccia di renderlo
bcnvoglienle, allento, e disposto a lasciarsi istruire. Oudcchè chi vorrà
ben iniziare la causa è incinero ch'egli conosca a fondo che specie
di causa c' prende a Irallarc Le cause sono di cinque specie: oncsla,
disonorevole, abielta, ambigua, o-cura. Causa onesta è quella, a cui gli udi i
tori si mostrano ben volli pur innanzi che noi co unno
i. il liumilc, quoti negligilur ab auditore, et non mag impero
altcndcndum videlur; nnceps, in quo aut judicalio dubia est, aut causa et
honcslalisel turpitudini particcps, ut et benevolenti pariat et offensionem:
obscurum, In qun aut tardi auditorcs sunt, aut ditBcilioribus ad
cognoscendum negotiis causa implicala est. Quarc quoniam lam
diversa sunt genera causarum, eiordiri quoque dispari Tallone in uno
quoque genere necc3sc est. Igitur eiordium in duas pnrtcs dividitur, ili
principinm et insinualionem. Principinm est omiìo perspicue et
proiiuus contJciens audilorem benevolum, aut docilem, aut allentum. Insinualo
est oraio qua.lam dissiniulatione et circuilione obscurc subicns
audiloris animino. In admirab li genere eausac, si non oinnino infesti
audilores crunl, principio ticnevoleiilium comparare licebiUSinerunl
vetiementer abalienali, confugerc uecesse crii ad itisinuationem. barn ab
iralis si perspicue pai et benevolenti petilur, imn modo ea unii invenilur,
seri augetur alque infialimi, ilur odium. In Immiti autem genere causae
contcmplionis tollemic cau-a nccesse eril allentum cfllcere audilorem. Anceps
genus causae si dubiam judicalionem babebil, ab
ipsajudicalioiiecxordicndum est. Sin antem partem turpitudiuis, parlcm
boneslalis babebit, beneiolenliam captare nport. bil, ut in gcnus
li'.nesiitm causa transita lidealur. Omini autem crii lumeslum causae
genus, vel prueleriri principinm poleril, rei, si comniodum lucrit, aul a
uarralione incipicmus, aut a lego, aut ab aliqua (imissima rationc
nostrae diclionis; sin uti principio placebil, benevolcnliae partibus
ulcmlum est, ut id, quod est, angcalur. XV). io
obscuro causae genere per principimi! doi-ites audilores clllccre
oportcbil. Nunc, quoniam quas res esordio conficerc nporteat dietimi est,
reliquum est, ut oslendalur, quibusquaeque raliombus res confici possit.
Benevolenti quatuor i l locis comparatur: ab nostra ab
adversariorum, ab iudicuin persona, ab ipsa causa. Ab nostra, si de
noslris factis et nfllciis sinc arroganti diceiiius; si criniina illai et
aliquas minus honcslas suspiciones inieclas ililuemus; si, quac
incornino da acciderint, aul quae instcnt dilliculiatcs, profcreuius; si
prece et obsecralionc humili ac supplici utemur. Ab advcrsariorum autem, si cos
aut mincimo di parlare; disonorevole diccsi quella che
è contro l'opinione di coloro clic sono per ascollare; abietta si dice perchè è
sprezzata dall'uditore, siccome quella clic ha un oggetto da non farne
conto gran fatto; ambigua 6 quella, in cui o è dubbio il punto da
giudicare, o v'è mescolato l'onesto e il turpe, da cccilarc a un tempo c
bcncvoglienza c sdegno: oscura dicesi quella, cui gli uditori hanno le
fatiche a ben comprendere, o clic è intralciata di soggetti molto
difficili a esser co. mischili. Per esser dunque cosi diverso le
specie delle cause, vuole essere ciascuna in diversa maniera cominciala a
parlare. I.' esordio perciò ha due parlile, ii principio c
l'Insinuazione. Per prin • cipio s’ intende quel discorso che all’aperta
e Gn dalle prime renile l’uditore ben volto, o attento, o disposto
a lasciarsi istruire. Insinuazione è quel parlare clic mostrando altro,
con certe svolte di parete impercettibilmente si intromette iiclt'animo
dell' uditore. Nella causa straordinaria se gli uditori non saranno al postutto
di animo avverso, si potrà fare nel principio di renderli
benvoglienli. Ctie se fossero contrarli troppo forte, converrà aver
ricorso all’insinuazione. Perocché se vuoisi rappaciar all'aperta c render
benevolo chi è sdegnato, non pure non se oc verrà a capo, ma si aumenterà e si
rinfocolerà vie più lo sdegno. Nella causa abietta, a voler rilevarla dallo
sprezzo, si conviene rendere attento l'uditore. L'ambigua Ita essa dubbio il
punto da giudicare ? si vorrà da questa punto far esordire l'orazione. Clic se
sarà mista di turpezza e di onestà, donassi accattar la he • nevoglietiza
parlando di tal maniera clic paia essere la causa diventata in ispecic
solamente onesta. Quando poi sarà davvero di specie onesta la causa, si
potrà cessarsi dall'esordio, ovvero, se verrà in concio, dorassi
principio dalla narrazione, o da discorso sopra la legge, o da qualcuna
delle più sode difese della nostra orazione. Clic se abbonasse all'oratore
porci l'esordio, il farà ad acquisto di benevolenza, acciocché quella che
gli è già avuta si possa vie piò accrescere. XVI. Nella causa oscura
converrà con l'esordio rendergli uditori inscgncvuli. Ora, giacché s'è
dello a quali effetti l’esordio dee over la mira, rosta che si dimostri
per quali vie ciascuno di questi effetti si possa raggiungere. La benvogl enza
si procaccia per quatlro mezzi, per mezzo di noi, per mezzo degli
avversarti, dei giudici, della causa stessa. Per mezzo di noi, se parleremo
de' i.oslii fatti c mansioni senza millanteria; se ci purgheremo da colpe
che ci sicno imputale, o da altre meno oneste sospieioni; se porremo innanzi le
molestie che ne accalcarono, o ic malagevolezze ila cui siamo premuti; se
condiremo i preghi e le sup ili odium, aul in invidiam, aul in
conlcmplionem adducemus. In odium duccntur, si quod forum spurcf ,
superbo, crudcliler, maliliosc faclum proferclur; in invidiati), si vis eorum,
polcnlia, divitiac, rognatio, pocuniac profercnlur, alqtic eorum usus
arrogans cl inlulerabilis, ul bis rebus niagis vidcanturquam rausae suae
confidcre; in contcmplioneni addueeulur, si eorum inerba, negligendo, ignavia,
desidinsum sludium et huuriosum otium prufcrclur. Ab audilorum persona
benevolentia caplabilur, si res ab bis forlilcr, sapienlcr, mansuete
gestae proferenlur, ut ne qua adsenlalio nimia signiflcclur, ri si de bis,
quain bonesla ciistimatio quantaque coruin indici! et auctorilalis
esspeclalio sit, oslcndelur; ab ipsis rebus, si nosiram cau-am laudando
cvlollcmus, advcrsarlorum rausam per conlemptionem deprimeinus. Altenlus aulem
Taciemus, si demonstrabimus ca, quae dicturi crimuv , magna nova ,
incredibitia esse , aul ad omnes , aut ad eos, qui audienl, aul ad
aliquos illuslrcs homincs , aul ad deos immorlales, aul ad summam rem
publicam prrlinerc ; et si poUiccbimur nos brevi noslram causam dcmonslraluros
, alque eiponemus iudicalionem, aut iudicalioncs, si plures ciunt.
Doiilcs audilorcs faciemus; si aperte et breviler summam causac eiponeinus,
hoc est, in quo consistili con Iroversia. Nani et quum docilem velis
lacere, simili altcntum facias nportet. Piam is est mavirne dncilis, qui
allcntissime est paratus audirc. filine insinualiones qnemadmodnm baciari
conveuiant, deinceps dicendum vidclur. Insiuualione igitur ulendum est, quum
admirabile gcnus causae esl, hoc est, ut anle diximus, quum animus
auditoris infcslus est. Id aulem tribus ex causis fll maxime; si aut
inest in ipsa causa quacdam turpitudo; aut si ab iis, qui ante dixerunt,
iam quiddam auditori persuasum vidclur; aul co Icmpurc Incus dicendi
datur, quum iam illi, quos audire oporlet, defessi sunl ambendo. Nani ex
liac quoque re non minus, quam ex primis duabus, in oralore
nonnumquam animus audiloiis oflenditur. Si causac lurpiludo conlrahel
oflensìnnem, aul pliche di riverenza ed iimillà. Per mezzo
degli avversari, se li faremo venire in odio altrui, o in inaIcvoglicnza, o in
disprezzo. Verranno in odio, se si spiattellerà qualche lor trailo di
turpezza, di superbia, di crudeltà, di malizia: in malevoglienza, se si
darà a conoscere cli’ei son forli, polenti, doviziosi, addanaiali, pieni di
parentele, ma clic usano questi mezzi per modi arrogami c incomportabili, da
far apparire eh' essi troppo più che nella propria causa hanno confidanza
o si tengono furti di questi lor mezzi. Verranno in disprezzo, se
si farà nota la inerzia loro, la negghieoza, la oziosaggine, l'amore alla
infingardia, lo scioperarsi a lascivire. Si accatterà bcnvuglirnza dagli
uditori, se si pronunzieranno falli di forza, di saviezza, di
mansuetudine da essi operati, cosi perù clic non vi Iraluca troppo di
piaggenleria; se si mostrerà quanto essi splendano per onorala
estimazione, e quanto si debba fare assegnamento sul loro giudi ciò
ed autorità; In fino si cattiverà henvoglienza per mezzo della causa
stessa, se noi lodandola porremo in sul grande la parie nostra, e faremo n -l
tempo stesso di screditare a forza di spregio la parie degli avversarli.
Ridurremo allento l'uditorio, se renderemo dimostro che sono di grande
rilievo, clic son nuove c maggiori della credenza le cose clic
siamo per esporre, ovvero se faremo conoscere clic esse riguardano o tulli
quanti, o quelli clic ne ascollano, o alcuni uomini insigni, o gli
dei immortali, ovveramenle i negizii più importanti della repubblica ; e se
prometteremo clic siamo per dimostrare di rorlo la giustizia della nnsira
causa, e porremo in veduta il punto da dover giudicare, o i punii, so
saranno più. Faremo inscgncroli gli uditori se sporremo chiaro c in brevi
parole il sunto della causa , voglio dire in clic consista la
controversia. Pcrocrhè quando lu voglia far 1' uditore inscgnevole , è
mestiere clic insieme lu lo Taccia atteso , poiché quegli ò il più
disposto a lasciarsi istruire , che è anche disposto ad ascollare con la
massima attenzione. XVII. Ora si vuol dire per Io seguilo come si
convengano ballare In insinuaz : oni. Dcesi usare insinuazione quando la
causa è di specie straordinaria, clic vien a dire, come toccai innanzi, quando
1'udilore i di animo avverso. Questo uso si fa spccialmcnlc per Ire
ragioni; o perchè nella slessa causa s' involge alcun che di lurpe; o
perché pare clic da quelli, i quali hanno ballalo prima, F uditore
siasi lascialo qualche cosa persuadere; o perchè ì data copia di parlare
a un'ora, in cui quelli che ascollar debbono hanno già tanto ascoltalo
ch’ei ne sono lassi e ristucchi. E diretto anche da questa cosa ultima,
non meno clic dalle due prò eo liomine, in quo olTemlilur, alluni
liomincm, qui diiigilur, interponi oporlcl; aut prò re. in qua
offenditur, aliato rem, quac probàlur ; aut prò re liomincm, aut prò
liomine rem, ut ab eo, quod odit, ad id, quod diligil, auditori» animus
traducami", et dissimulare id te defensurum, quod evistimeris defensurus.
Di-inde, quum iam mitior factus erit auditor, ingredi pcdelenlim in
defensionem, et diecre ca, quac indignenlur adversarii, libi quoque
indigna videri: deinde, quum lenieris eum, qui audiet, demonslrarc, nilul
coroni ad te pertinere, et negare le quidquam de adversariis esse
diclurum, ncque boc, ncque illud: ut ncque aperte laedas cos, qui
diliguniur, et lanicn id obscurc faciens, quosd possis, alicnes ab eis
nuditorum toluntalem ; et aliquorunt iudicium simili de re aut
auctorilalem proferre imilalione dignam; deinde camdem, aut consmiilem,
aut maiorent, aut minorem agi rem in praescmia demonslrarc. Sin
oratio adversariorum fidi-m videbitur onditoribus fecissc (idque ei, qui
intelligel, quibus rebus fides fiat, Tacile erit cognito), uporb-l aul de
eo, quod adversarii sibi firmissimum putariut, et maxime n, qui audicnl,
probarinl, primiiui te diclurum polliceri; aul ab adversarii dirlo
esordir!, et ab co polissimum, quod illc tiiipcrriine divori!; aul
dubilationc uli, quid primum dicas, aul cui polissimum loco rospo mica- ,
eum ndmiralionc. Nani auditor quum eum, quem adversarii pcrlurbatum pula!
oralionc, videi animo firnii-simo coti tra diccrc parai urn , pleruinquc se
polius temere adsensissc, quum illuni sine causa confiderò arivitratur.
Sin audiloris sludiuni dcTaligalio abalii-navil a causa, le brevius quam
paralus fueris, esse diclurum commodum est polliceri; non iniilaturum
arlvcrsarium. Sin rcs daini, non inutile est ab aliqua re nova aul
ridicula incipcrc ; aul ev tempore quac nata sii, qund getius, strepitìi,
ticclamalionc ; aul iam parala, quac sci apnlogum, vel Tabulant, vel
aliquam conlincal irrisionem; aul si rei dìgnilas adimct iocandi
Tarullatem, aliquid triste, novurn, liorribile statini non incoinmodum.
est iniicerc. Nam, ut cibi saliclas et Taslidium aul subamura aliqua re
relcvalur, aul dulci miligalur, sic auiinus defessus audicudo aut
admiralionc integralur aut risu novatur. prime, rascollonte lai fiala
piglia motivo di esser mal tolto verso l'oratore. Se il turpe che v'ha
nella causa è motivo di malevogl inula nell'uditore, allora si
conviene per la persona elicsi odia iniromeltere un'altra persona che sia
amata; o per la cosa, di cui l'uditore si otTcnde, un'altra cosa clic sia
degna di approvazione; o per la cosa una persona, o per la persona
una cosa, acciocché l'animo dell'udilore sia richiamato da ciò elio odia
a ciò che. ama; « conviene ancora clic tu l'infinga di non tolcr
difendere ciò clic si crede già clic tu difenderai. Dipoi, quando
l'uditore sarà cosi addolcilo, vorrai cnlrarc a passo a passo alla difesa, e
dire clic le cose, le quali muovono a sdegno gli avversarli paiono
a le pure da doversi avere a schivo: poi, insieme che avrai mitigalo
l'udilorr, verrai dimostrando che di colali cose niente si aspetta alla
tua orazione, c atTermei'ai che intorno agli avversarli non sci per dir
nulla, nè questo, nè quello; affinché non mostri di offendere apodamente
coloro che so» benvoluti, c nondimeno facendo questo in maniera
palliala, fino a che il possa, allunghi da loro il buon volere degli
uditori; c cilcrai, qual esemplo degno di servire per regola, il g
udirlo c la testimonianza di taluni sopra affare di fatta
consimile: dipoi mostrerai che al presente si tratta un alTar eguale, o
simigliarne, o di piò, c di meno rilievo. Che se il discorso degli
avversarli panà avci fatto clic gli uditori gli aggiustassero fede
( c facilmente si conoscerà, chi sa con che meni ella si aggiusti), ti
conviene promettere che per prima cosa tu parlerai intorno a ciò che
gli avversarli hanno credulo il loro sostegno piò principale, e che gli
uditori hanno soprattutto approvalo; o pigliar l’esordio da quanto fu dello
dall'avversario, c massime da ciò ch’egli ha dello da sezzo; o mostrare
di esser in penderne circa a quello da che dei cominciare, o al punto a
cui particolarmente dei rispondere, incUcnda altrui alquanto di
stupore. Poiché l'ascoltante quando vede esser disposto a replicare
ardimentosamente quello stesso ch'ci crede sconcertalo dal discorso
dell'avversario, fa ragione le piò volte di aver egli aggiustato fede con
poca considerazione, anzi che quegli si confidi senza motivo. Clic se l'
uditore per islaneliez/a non si inoslra più interessato nella
causa, fi) al fatto che In prometta di essere per spacciarti più di breve
che non eri disposto a fare, e di non volere imitar le lungherie
dell'avversario. Non sarà anche inutile, se oflrirassono l'occos.one, far
principio da qualche cosa nuova o ridevole; owero da qualcuna naia
d'improvviso, come sarebbe qualche strepilo, qualche allo gridore; o da
alcuna già preparala, che rnnicnca vi un apologo, o una favolosità, o
alcun rive ili bui Ac scparalim quidcm, quac «te principio r-l Jc
insinuatioiic dicenda vidclianlur, lisce fere soni. Nane quiddam brevi
cominunitcrdc utroque praciipieiidum tidolur. Erordium
scnlcnliariim cl gravitali* plnrimum delie) liabcrc, cl umilino
omnia, quac pcrlincnt ad dignitalcm, in se continere, proplcrca quod id iqilìmc
racicndum c-l, quod oratorcin auili lori minime commendai: splcndoris cl
fcslivilalis cl concinni ttnlinis minimum, proplcrca quod ex bis susp ciò
quacdani lipparalionis alquc arliliciosac diligcnliae nascilur ; quac
maxime nrationi (Idem, oralori odimi) auclorilalcm. V'ilia vero baco sunl
ccrlissima cxoriliurum, quac summopcrc vitari oporlebil : rullare, communc,
commulabilc, longum, separatimi, Iranslatum, conira pracccpla. Volgare
cs!> quod in plurcs catisas potcst accominodari , ul convenire
videalur. Commune, quod nibilo minus in hauc, quam io conlrariam parimi
causar, poIcsl convenire. Commulabilc, quod ab adversariu polcsl leviler
mutalum ex conlraria parie dici. Longuni, quod pluribus verbis aul
seutcnlHs ullra quam satis est producilur. Scparalum, quod non ex
ipsa causa duclum est, noe sicul aliquod mcinbrum adnexum oralioni. Translalum
est, quod aliud confici), quam causau gcnus postulai ; ul si qui docilcrn
facial audilorem quum benevolcntiam causa desidero, aul si principio
ulalur, quum insinualioiicm rcs postulo. C.onlra pracccpla est, quod nihil
corum efiicit, quorum causa de cxordiis pracccpla Iradunlur; hoc usi, quod eum,
qui audii, ncque bcncvolum, ncque alteiilum, ncque docilem cfiicil,
aul, quo ndiil profeclo peius est, ul conira sii, facil. Ac de esordio
qnidem salis dicium est. Narralio csl gcslarum rcrum, aul ul gcslarum
csposiliu. Narraliouum genera Iria sunl. Unum gcnus csl, in quo ipsa
causa et omnis ralio conlrovcrsiac conliiiclur; allcrum, in quo digrcs' 1
aliqna extra cau-am aul criminalionis, aul si Icvolc; oppure, se la
gravili dcH'afiarc non lasccrà tempo allo scherzo, si può far principio
con l’introdurre alla prima qualche cosa di serio, di nuovo, o che
metta orrore. Poiché come la nausea del cibo e la sazietà si rileva con
qualcho amarognolo, o si alleggerisce con un po'di dolce, così l’animo
slanco di ascoltare o si rinforza con la maraviglia, o col riso si rimane in
essere. XVIII. Queste a un di presso son le cose clic mi parve
dover dire del principio e della insinuazione spnrtatamcnlc. Ora si vuole cosi
olla breve dir qualche nonnulla di ambedue insieme. L’esordio dee tener
mollo del scntimcnloso e del grave, e comprendere in sé tulio quanto si
appartiene alla dignità, poiché si dee raffazzonare il meglio possibile,
siccome quello che più di ogni altra cosa raccomandal' oratore all’ udilorio.
Non dee avere però clic appena un menomo di splendore, di piacevolezza e
di acconcialura, perchè di qua si viene a dar sospetto di apparecchio e
di una diligenza consigliala dall’ arto; le quali snn cose clic
troppo lolgono il buon concedo all' orazione, e il credilo all’oratore. I
difetti die incontrano il piò snvcnlc negli esordii, e che si vorranno con
somma cura schifare, seno questi : esser volgare, che può servire a prò e
contro, mutabile, lungo, improprio della ca usa, fuori di
proposito, contrario alle regole. È volgare quello che può
accomodarsi ad ogni specie di causa, si che le paia star bene. Può
servire a prò e contro quello clic conviene alla parte In favore non meno
che alla parte contraria. È imitabile quello che con alquanta poca
di varietà può anzi che da noi esser recitato dal nostro avversario. È
lungo, quando si disfi ode in assai parole e concedi più che non è
mestieri. É improprio della causa, quando non é trailo da essa, e non
come un membro unito al resto della orazione. E fuori di proposito, se
conchiudc altro da quello che domanda la specie della causa; come sarebbe se
tendesse a render insegncvole l'uditore, mentre la causa il ionia benvoglienlc
anzi che no, o se adoperasse il principio quando l'affare esigerebbe anzi
la insinuazione. É contrario alle regole quando non raggiunge
nessuno di quei Din, per cui si danno precetti circa all’ esordio; come a dire,
quando non rende ben volto l'uditore, né allento, né bisognevole,
o, ciò che al postutto è troppo peggio, quando lo rende affililo
mal volto ed avverso. Quanto è all’esordio, abbastanza detto è. La narrazione è
un esposto di cose avvenute, o come se avvenute. La narrazione é di tre
specie. La prima è quella, in cui é compresa la causa stessa e lutto il
cardine della controversia: la seconda é quando si frammette una
qualcho tiiìliludinis, aul «Iclcclalionis non alienar ab co negolio,
quo '' e agitar, aut amplificatioiiis causa interponimi-. Tcrlium genus
est remoliim a civilibus causis, quoti tlcleclationis causa non inutili
cum ezetcilalinnc dicilur et scribìlur. Eius parles suoi duac, quaruin
altera in ncgotiis, altera in persona ma lime versatur. Ea quac, in
nrgntiorum cipositionc posila est, trcs habel parles, fabulam,
liistoriain, argumentum. Fabula est, in qua ncc vera e uec veri similes
res continentur, cuiusmodi est : « Angues ingcnlcs alitcs, iuncti
iugo... a llistoria est gesta res, ab actatis nustrac memoria
remota; quod genus: Appius indisi! Cartliaginiensibtis bellum. Argumentum est
lieta res, quac tamen fieri poluit lluiusnmdi apud Terentium; Hoc in
genere narralionis multa debet incsse féslivitas, conicela cs rorum varietale,
animorum dissimilitudinc, gravitale, lenitale, spc, mclu, suspicione,
desiderio, dissirnulationc, errore, misericordia, forlunac eommutalione,
insperato incommodo, subita laetilia. iucundu esitu rerum. Venmi bacc ex
iis, quac postea de clocutionc praecipicntur, ornamenta sumcntur. Nunc de
narralionc ca, quae causae cominci csposilioncm , diccndum
videtur. Oporlcl igilur eam trcs habere res: ut brevis, ut aperta, ut
probabili» sit. Brevis crii, ss unde Decesse est, inde inilium sumetur,
et non ab ultimo repetetur, et si, cuius rei satis crii summam
dixisso, eius parles non diccntur, (nani saepe satis est, quid factum sii,
diccrc, non ut cuarrcs, que madniodum sii faclutu); et si non lougius,
qtiam quod scilo opus est, in narrando proecdetur; et si tiullain
in rem aliam lransibitur ; et si ila dicctur, ut nonnumqtiam ex co, quod dicium
sii, id, quod nuli sit dicium, inleltigalur; et si nuli modo id,
quod obesi, veruni ctiain id, quod lice ubi si uec adunai, praeteiibilur;
et si Semel unum quid ili digressione che s'allunghi
dalla causa, o di querela, o di similitudine, o di diletto, elio non sia
straniero all'afTare di che si tratta, o che si faccia a (Ine di
amplificazione. La terza specie è estranea alle cause civili, la quale
con cs crc zio non inutile si scrive e si recita per amore di dar
piacere. Ila due parli la narrazione, di cui la prima versa specialmente
sui fatti, l'altra piuttosto sulle persone. Quella clic consiste licita
sposizione dei falli, ha (reparti, la favola, la storia, l' argomento.
Favola è quella clic conlicnc cose nò vere, nè veri simili, come sarebbe
: La narrazione clic versa intorno a personaggi è fatta di modo
clic insieme con i falli si possali conoscere le parole o l'animo dei
personaggi stessi. Tale i la seguente ; ( Ei viene spesso a me,
mille tragedie Facendomi nel capo : o Milione, Grida, che fai ? a
clic ci perdi il figlio ? A clic gli amori, e il vino ? a clic di
queslo Gli dai le spese ? tu di troppe gale Gli lasci far, e troppo
esci dei termini. Troppo egli è austero, oltre l’onesto c il retto
• In questa specie di narrazione bisogna molta piacevolezza, la quale si
vuol trarre dalla varietà delle cose, dalla dissomiglianza degli animi,
dalla gravitò delle persone, dalla loro mansuetudine, dada
speranza, dal Umore, dal sospetto, dal desiderio, dalla dissimulazione,
dall'errore, dalla misericordia, dalla cambiatila di fortuna, dalla disgrazia
improvvisa, dalla subita allegrezza, dalla lieta riuscita delle cose.
Però questi ornali della narrazione si piglieranno dietro i precetti clic
ilano dati quando della locuzione verrà da parlare. Ora s'ha a dire di
quella specie di narrazione clic comprende la sposizione della causa. E
necessario di’ essa sia breve, clic aperta, che probabile. Sarà breve, se
piglicrasscnc il principio da ciò clic preme, c non si comincerù da
qualche punto che sia lontano di troppo, e se bastando clic si esponga la
somma dell' alTare, si lascerà di divisarne le parli individuale
(perocché spesso è sufficiente che si dica ciò clic fu fatto, senza
clic si racconti come fu fatto); c se nel fare la racconlazinnc si
schiverà di andar più là di quel clic fa d'uopo perchè si sappia ciò clic
imporla sapere; c se si eviteranno i passaggi io altre cose diverso; e se
si |>arlcrà in guisa che qualche volta da quel clic fu detto s'intenda
ciò clic fu taciuto; e que dicelur; cl si non ab co, in quo proiimc
desimin crii, deinccps ineipiclur. Ac mulo: imilalio brcvilatis decipil,
ul, quuin se breves pulentc-sc, longissiml siisi; quuin detti operarli,
ul rcs mullas brevi dicaul, non ut omnino paucas rcs dicant, et non
plures, qnnm necessc sii. Nani plerisquc breviler videtur il cere, qui ila
ilicil : Accessi ad aedcs. Pucru.'U evocavi, liespondil. Quacsivi dominuin.
Domi negavi! esse. Ilio torneisi lot res brevius non poluil diccrc, lamen, quia
salis fui! dixissc : Domi negai it esse, IU rerum mulliludine longus.
Oliare, Ime quoque in genere vitanda est brevilatis imilalio, et non
niinus rcrum non neccssariarum , quam «erborimi mullltudiue supersedenduin esl.
Aperta autern narrati» poteri! esse, si, ut quidquc primum gcslum crii,
ita printum opoueliir, et rerum ac temporum ordo sorvabimr, ut ila
uarrcnlur, ut gcslac rcs erunl, sul ut potuissc gerì vid' buniur. lire crii
considerandum, nc quid perturbale, ne quid contorte dicalur, ne
quam in aliam rem Iransealur, ne ab ultimo repelalur, ne ad cvlrenium
prodealur, ne quid, quod ad rem pertinenti, praelereatur ; et omnia»,
quae praccepta de brevilate sunt, hoc quoque in genere sunl conservando.
Nani saepe res parum est intellccta longitudine magis, quam obscurilate
narralionis Ac verbis quoque drluridis uicndum esl; quo de genere
diccndum est in praeccplis clocu liullii. Probabilis erit narrilio,
si in ea videbuulur inesse ea, quae seleni apparerò in vcritale ; si
personarum digiiilalcs servabunlur ; si causae fadorimi cislabunl ; si fuissc
faeullales radunili viilebrintur ; si Irmpus idoncum, si spalli salis, si
bicus opporluuos ad camdetn rem, qua de re narrabitur, fuisse oslendclur; si
rcs et ad corum, qui agoni, uaturam, et ad vulgi morena, et ad
eorum, qui aiidicnt, opinionem accuininodabilur. Ac veri quidem
similis cvliis ralionibus esse polerit. Illusi aulem praetcrca
considerare oporlcbil, nc, aul quum olisi! narrati», aut quuin nihil prosatameli
intarponatur; aut non luco, aut non, qiicraaduioriunì causa postulai, narrctur.
Obest lum, quum ipsius rei gcslae evpositio magnam eveipit olfcnsiouem,
quam argiimciilando et catisam agendo Icniri oporlcbil. Quoti quum
ucciderli, membra- j tini opurlebil parlcs rei gcslac dispergere ili cau-
i sani, clad imam quaiuque coulestim ralionem ac- j cotnuicdarc, ul
vulneri praeslu mcdicamcnluin sii, | se si Iralasccrà non
pure ciò che nuoce, ma eziandio ciò clic nè nuoce, uè giova; e se ogni cosa
si dirò solo una fiala; c se si causerà di ricominciar da quello,
da cui si sarà finito. Molti allucinano nel seguire la brevità, sicché
quando hanno fantasia di esser brevi, sono per coulra lunghissimi, perché
danno opera a dir molte cose alla breve, nou ai dirne al postutto poche,
e non piò che non bisogna. E infal li credono molli che saria breve
chi parlasse cosi: Fui alla casa. Chiamai il servo. Rispose. Chiesi del
padrone. Mi disse che era ruori. Costui, eziandio che lame cose non polea
dire piò brevemente di cosi, lunaria, perchè bastava aver dello;
Rispose che era fuori, diventa lungo per le troppe cose. Laonde anche in
questa parie si vuol evitare d’i.-nitar una falsa brevità, c si dee
astenersi non meno dalle cose non necessarie, che dalia moltitudine
eziandio delle parole. Aperta potrà essere la narrazione, se sarà esposto
prima ciò clic prima addivenne, e ai manterrà l'ordine delle cose e
dei tempi cosi che le coso sien narrale come cltellivamenlc sono addiv enute, o
come pare che lo potessero essere. E qui s'ha a veder bene clic
uiciilc sia dello alla confusa, niente c»n istiracchiatura; clic non si
sdruccioli in co«c estranee, clic non si ripigli il dello prima, clic non
si vada innanzi fino allo stremo, qualora sia inol io alla causa;
elio non si trapassi nulla di quanto s’atlicue al fullo:in somma ciò che sopra
alla brevità si è prima insegnalo, anche in questa parie si dee ritenere
del lutto. Perocché avviene di frequente che una cosa é poco inlcsa più
per la sua lunghezza che per la oscurità della narrazione. Anche si vorrà
far uso di parole ciliare; ma di questo in' incontrerà di dire nei
precelli clic darò sopra l'elocuzione. Sarà probabile la narrazione, se si
troveranno in essa quei seguali che sogiiuno manifestarsi nella verità; se si
conserteranno i caratteri delle persone; se sussisteranno le cause dei
falli; se si parrà cho l'agente avesse copia di agire; se si
mostrerà clic al fallo che si narra il tempo fu acconcio, lo spazio
sufficiente, opportuno il luogo; se la cosa sarà relativa alla natura di
quelli clic vi avranno parie, c al reslanle del volgo, e
aU'opinionc degli uditori. Per queste ragioni potrà il racconto esser anche
verisimile. Conterrà inoltre considerare pur questo, che non s'ha a
far narrazione si quando nuoce, c si quando non giova, o clic non s'ha a
farla fuori di luogo, o diversamente da quel che la causa richiede. Nuoce,
allorché la dipintura del fallo é esposta a qualche grate contrarietà,
clic argomentando c trillando la causa sarà necessario di miligarc. Quando
avverrà il caso che nuoca la narrazione, si dovrà il fallo distribuire a
parie a parie nell' orazione, e et odium stallar, detonilo miligct. Nihil
prodcsl ilari alio lutti, quum aut ab advcrsariis re cvposita,
nostra nihil interest itcrum, aut alio modo narrare ; ani quum ab iis, qui
audìunt, ita tcnctur uegoliuni, ut nostra niliil intersit cos alio paolo
do. cere. Quod quum accideril, ninnino narratione supcrsedcndum
est. Non loco dicitur, quum non in ca parte orationis collocalur, in qua
res postulai ; quo de genere agcmus lum, quum de dispostone diccmns; iijiii hoc
ad disposiliimem pcrtinet. Non quemadnindiim caus i postulai, narratur,
quum aut id, quod adversario prodesl, dilucidc et ornate cvponilur, aut
id, quod ipsum adiuvat, oliscure dieilur et ncgligcnter. Quare, ut hoc
litium vitetur, omnia turquenda sunt ad commodum suae causac,
contraria, quae praclcriri poterunt, praclercundo, quac illius eruut, leviter
attingendo, sua diligcnler et cnodalc narrando. Ac de narratone quidem
salis dicium ìidclur ; dcìnccps ad parliiioncin Irauseamus. Rrcle
habila in causa parlilio illustrerò et pcrspicuam totani cllìcil
oralioncin. Parlcscius sunt duae, quarum ulraqoc magno opere ad
apericndam caosam, et constitucndam pertinct controversiani. l'na pars est,
quae quid cimi ad versa riis convelli, il, el quid in controversia
rclinqualur, oslendil; et qua certum quiddam deslinalur auditori. in quo
animimi dclical bobere oceiipalum. Altera est, in qua reruni carimi, de
quilius crimus dicltiri, brciilcr eiposiiio poniliir dislribula ;
ci qua connciiur, ut ceri -s animo rcs tcncai auditor, quibus diclis
inleliigal roro peroratimi. Nunc ulroquc genere parlilionis quemadmodum
convcnlat uti, brevitcr dicemlum videtur. Quae partilio, quid convenial, ani
quid non convcnial , oslendil, dace debel itimi, quod convenil, inclinare
ad suae causac commodum, hoc modo : Inlerfeclam malrcin esse a lilio convenil
mihi cum advcrsariis. lem conica : iiiierfeclom esse a Olytaenineslra
Againemnonem convenil. Nam liic ulerque et id posuil, quod convcniebat, cl
laincn suae causac commodo consuluit. Deinde, quid controvertiae sii,
ponendum est in imlicalionis esposilione ; quao quemadmodum invenirelur, ante
dicium est. Quae aulcin parlilio rcrum dislribularum conlinet ciposilioncin ,
haec Iutiere dolici brevitaicui, absoliitioiiem , paacilalcni.
Itrciilas esl, quum uisi neccSsarium imi lum adsumilur ver
soggiunger loslu a ciascuna parie la sua ragione giiislilicaliva,
acciocché alla ferita sia subito in pronto In medicina, e ciò che olleude
sia miligaIn dalla ragione che tosto lo giuslillca. Non giova la
narrazione, quando essendo csposlo il fallo dagli avversarli, non è di nessun
momento il ripeter noi la slessa cesa, ancora clic in altro modo; o
quando quelli che ascoltano si conoscon dell'alfa, re co.) bene, che
importa nulla che noi lo porgiamo loro a sapere con olire parole. Allorché
dunque imballerà questo caso, s> dovrà affittii omettere la narrazione. È
essa fuori di luogo quando si colloca in ultra parie della orazione da
quella che il fatto esige; ma di ciò tratteremo quando si parlerà
della disposizione, a cui questo caso si riferisce È falla la narrazione
diversamente da quel che richiede la causa, quando o si espone con
chiarezza c adornalo ciò che prolilla all'avversario, o diciamo oscuramente c
alla spensierata ciò che dee far prò a noi slcssi. Il perchè, a voler che
questo difello non intervenga, si dee pie gare ogni cosa al vantaggio
della noslra causa, causando delle cose sfavorevoli le più clic si possa,
e facendo di attinger alla rieisa ciò che fa all'avversario, e narrare ciò che
fa a noi con diligenza e lucidità. Della narrazione mi pare aver dello
abbastanza; ora facciamoci alla partizione. La partizione, quando sia ben
falla, dà lustro e chiarezza a tutta la diceria. Issa ha due parli,
di cui ciasc 1 1.1 conferisce troppo bene a chiarir la ragione dell i
causa c (issare la conlrovcrsia. La prima di qiieslc parli dimostra i punii,
in cui si è in concerto con gli avversari, e i punii che si
lasciano alle parli da dover d-ballcre; nel che ci si licite come ad
assegnare all'uditore la parte di che la sua attenzione si dee
frammettere. L'altra è quella, io cui cun brevi parole si spnngonn
divisalamentc le cose, di cui siamo per ragionare; di che viene, che l’uditore
coirà a conoscere quelle date cose, ragionale le quali sa che l'orazione
dee esser finita. Ora, come si convenga far uso di quesle due parlile,
verrò dicendo sotto brevità. La partizione moslru quello in cui le
parli accordano, e quello in cui no. L'oralorc dee però acconciare
l'accordo al taniaggio della propria causa; «ciò egli farà, dicendo: Che
la madre sia siala uccisa dal (iglio, io accordo con gli avversari!. E
cosi per conira: Accordo io già che Agamennone sia sialo morto ila
Clilcnneatra. In questo dire l'uno c l' altro avversario toccò un pillilo
di comune accordo, c nondimeno provvide al prò della propria causa.
Dipoi, quanto v’è di coulro verso dee collocarsi là dove si spone il
punto da giudicare; c del controverso come venga a rilevarsi, si è già
delio di qui addiclro. La seconda parie, lium. Ilare in hoc genero ideirco
est utilis, quod rebus ipsis cl parlibns causac, non verbis ncque
cilrancis ornamenlis animus auditnris tencndus est. Absolulio csl, per
quain omnia, quac ioeidunl in causam, genera, de quibus diccudum csl,
arapleclimur. In qua parli Mone lidendum csl, ne aut aliquod gcnus utile
rclinqualur, aul sero dira parlilioncu),id quod viliusissiinum
aclurpissiinum csl, inferalur. Paucilas in partilione scrvalur, si
genera ipsa rerum pnnunlur, ncque periuiilc cum parlibus implicaniur. Nam
genus csl, quod plurcs partes ampleclitur, ul animai, l’ars est, quac
subosl generi, ul cquus. Sed saepe eadem res alii gcnus, alii pars est.
Nam homo animalis pars csl, Thebani aul Troiani gcnus. liaee ideo
diligcntius ìnducilur pracscriplio, ul aperte in'cllecla generali partilione,
paucilas gcucrum in partilione scrvari possil. Nam, qui ila parlilur;
Oslendain propler cupidilalcm cl audaciam et avariliam adveisariorum
omnia iocommodu ad rem publicam pervenisse; is non inIcllcxil in parlilione,
«posilo genere, parlem se generis admiscuisse. Nam genus est omnium
niinirmn l.bidinuin cupidilas ; eius autein generis sine dubio pars est
avaritia. Hoc igitur vilanduin csl, ne, cuius genus posucris, eius siculi
aliquam diversam ac dissimilem parlem ponas in eadem parlilione. Quod
si quod in gcnus plurcs incident partes, id quuin in prima causac
parlilione eri! simplioilcr expositum , dlslribucliir lemporc co
rommodissime, quuin ad ipsum venlum crii oiplieandum in causae diclionc post
parlilioncm. Alquc illud quoque pcrlincl ad paucilalem, ne aul
plura, qoain salis csl, demouslraluros nos diranius, li io modo : Oslendain
adversarios, quod arguimus, et potuissc faeere, el v*duissc, el
fccìs* se; nam fecisse salis csl osleuderc : ani, quum in causa
parlilio nulla sii, et quum simplex quiddam agalur, tamen ulamur
dislribuliouc; id quod perraro polesl aceidere. Ac suoi alia quoque pracccpia
parlilionum, quae ad hunc usum oralorium non laido opere perlincant, quae
vcrsanlur in pliilosophia, ex qmbus liacc ipsa Iranslulimus, qiuc
convenire videbanlur, ipioruin niliil in ceteris arlibns invciiicbamus Alquc
bis de parlilione praeceplis, in omni diclionc meminisse oporlebil, ul cl
prima qiiaequc pars, ul espusila esl in parlinone, sic ordine iran-igatur; cl
omnibus esplicali* peroratimi s i hoc modo , ul ne quid
posteriu» cioè dire quella che conlicno la sposiiione delle cose
divisale, dee esser breve, intiera, parca. È. breve, quando non si
pongano parole olire le necessarie. Questa qualità della partizione è
utile per ciò, clic l'addizione deU'uditore bassi a fermare per mezzo
delle cose stesse c delle parli della rausa, non per mezzo delle parole nè di
ornali estranei. È iutiera quando abbracciamo tulli i punii che
cadono nella causa, e de'quali bassi a ragionare. In questa dote della
partizione deesi aver l'occhio che o non si ommetta qualche punto
vantaggioso, o non si introduca troppo lardi fuori della partizione, il
elio è difello molto vizioso e da vergognarsene. È parca la partizione,
se vi si toccano I soli generi delle cose senza impigliargli e intrigare
delle loro specie. È genere quello che conlicno in sè più specie, come
animale. È specie quella che è soggetta al genere , come cavallo.
Ma sovente la stessa cosa da dii è adoperala per genere, da chi per
ispecie. E infatti uomo è specie di animale, è genero di Tcbano o Troiano.
Questa regola si vuole perciò inculcar bene, perchè inlesa clic siasi
chiaramente la partizione generale, si potrà serbare in essa la parsimonia
delle parli. Poiché chi facesse la parlilione cosi: Mostrerò clic, colpa
la cupidigia, l'audacia c l’avarizia degli avversarli, vennero addosso
alla repubblica tulli i malanni: costui non si avviserebbe che dopo
esposto il genere ei mescolò nella partizione una specie di esso genere.
Perocché la cupidigia è un geuere che abbraccia tutti i desideri i
sfrenali, c l'avarizia è senza dubbio una specie di qucslo genere. Si dee
dunque guardarsi che quando è posto il genero non si ponga nella slessa
partizione la sua specie, come se fosse una cosa diversa, che non avesse alcuna
somiglianza col genere. Clic se nel genere cadranno molte specie; poi
clic si sarà esposto il solo genere nella prima partizione della causa,
si potrà a ludo agio scompartirlo nelle sue spcc c allora che si verrà a
(rattare di esso nel corpo della causa dopo la partizione. Inoltro si spella
anello questo alla parsimonia, voglio dire, che non promettiamo di dimostrare
più di quello clic basta, coinè sarebbe: Mostrerò che gli avversarii e poterono
fare, o vollero, c fecero quello, di elio io li accuso; poiché il
mostrare elio fecero è quanto fu: ovvero che qualvolta la causa non patisce
partizione, e si traila un alTur semplice, non dobbiamo divisarlo in
partile; ma queslo caso non può occorrere che assai di rado. Ci
sono altri precetti circa la partizione, uia che non si roiifamio gran
fallo con questo uso oratorio, porcili spellano alle cose di filosofia, lo uè
ho qui recali quelli che mi parte fossero il raso, e clic noli
(rovai in nessun altro trattalo di retorica. praclcr conclusionem
inferatur. l’artilur apud Tercnlium brevi ter et commode scnci in Andria,
qua e cognoscere libertum veli! :t Eo paolo et gnati vilam, et consilium meum
Cognosces, et quid Tacere in hac re te velim. a Itaquc quemadmodum in
parlionc proposuit, ita narrai, priimim guati vitam : a Nam is
pnslquam exccssil ci cpbcb ; s, Sosia... a Delude simin ennsilium : Dipoi
ciò eli’ egli pensa : o E di presente a questo io penso In line ciò ch’ei
vuol fatto da Sosia, il che dice da ultimo perchè l’espose in ultimo
nella partizione: « Or egli è ufficio tuo Come dunque esso
vecchio trattò per prima in parie che pose prima nella partizione, e
finito di ragionarle tutte, fece line, cosi sta bene a noi pigliar per
mano secondo ordine i membri della partizione, e solo dopo svoltili
lutti, farsi a conchiudcrc. Ora è da venire ai precetti circa la confermazione,
secondo clic richiede l'ordine finora tenuto. La confermazione è quella,
per la quale la orazione col mezzo dcH’argomcnlarc aggiunge fede e autorità c
fermezza alla nostra causa. Iti questa parte della orazione v'ha alcune
regole determinalo, le quali saranno sparlile c applicate alle
singole specie di causa, quando se ne Irallcià. Nuli di manco non torna
qui inopportuno mettere innanzi una certa selva, ro'dirc un ammasso
sfolgoralo di tulle le forme ili argomentazione, clic finora non erano
altro clic un miscuglio, clic un disordine, e poscia insegnare come sia
da farsi la confermazione in ogni maniera di causa con tutte quelle
formo di argomentare clic fra queste si saranno pigliale. Ogni asserto si
conferma con le argomentazioni clic si traggono o dalie circostanze clic
si riferiscono alle persone, o da quelle cheai falli. Alle persone si riferisce
il nome, la ualura, il vivere, la condizione, la dispostezza, l'affczi iuic,
gli sludii, i disegni o intenzioni, i falli, gli accidenli, il discorso.
Il nome è quella appellazione clic si dà ad ogni uomo, pen ile sia chiamalo con
proprio c dclcrminalo vocabolo- La naluia è cosa forte a definire: più
facile è annoverare quelle patii di essa ilio a porgere questi
nostri prerclli soli di bisogno. Parli siffatte son proprie, alcune
della specie divina, alcune della specie nius ; cognatione, quibus malori
bus, quibus consanguineis: actate, pucr an adolesccns, nalu grandior an sene*.
Praelerca commoda et incommoda considerantur ab natura dala animo aul
torpori, hoc modo: valens an imbccillus; longus an brevis; fon ’osus an
deformisi telox an lardus sii; aculus an licbctior ; memor au oblis io^us ;
comis, oIRciosus, pudens, paliens, an conlra. Et omnino, qnao a natura
danlur animo et corpori, considerabunlur in natura. Nam quac
industria comparantur, ad habitum perllncnt, de quo poslcrius est
dicendum. In vielu considerare oporlel, apud quos, et quo more, et
cuius arbitrali! sit cducalus, quos habuerit arliuni liberalium
magislros, quos livcndi pracceptores, quibus amicis ulalur, quo in ticgolio,
quacslu, artifìcio sii oecupatus, quo modo rem familiarem adminislret,
qua consuetudine domestica sit. In fortuna quaeritur, scrvus sii an liber,
pecuniosusan Icnuis, privalus an cum polestalc : si cum poleslaie, iure
in iniuria; Mix, eiarus, an conlra ; qualcs libcros liabcal. Ac si
de non vivo quaerctur, cliarn quali morte sit adfcclus. crii
considcrandum. Habitum autem appellamus animi aul corporis constanlem el
absolutam aliqua in re pcrfcclioncm, ut virlulis aut arlis ali cuius
pcrci ptionem, aut quamvis scicntiam , et item corporis aliquam
eominodilalem non natura dalam, sed studio el industria parlarli.
Adfcclio est animi aul corporis l-i tempore aliqua de causa
commutal o, ut taclilia, cupidilas, rnctus, molestia, morbus, debililas, et
alia, quac genere in codem rcpcriunlur. Studium est aulem animi adsidua el
vcliemcns ad aliquam rem applicata magna cum lolunlale occupatili, ut
philosopliiac, poèlicao, geometriae, littcrarum. Consilium est aliquid facicudi,
non faciendivc escogitala ratio. Farla alilem et casus et orationes iribus e*
temporibus considerabunlur : quid fcccril, aut quid ipsi acci'
derit, aut quid diserit ; et quid facial, quid ipsi acridi!, aut quid
faelurus sit; quid ipsi casurum sii, qua sit usurus oralionc. Ac personis
quidem bore vidcnlur esse attribula. umana. Quelle
della specie umana, altre si coniano nell'uomo, altre nelle bestie. Quelle clic
nclFuorno, sono il sesso, o virile o muliebre, la nazione, la patria , la parentela,
l'età: la nazione, se è greco o barbaro; la pairia, se Ateniese o
Sparlano; la parentela, cioè dire quali ha antenati , quali
consanguinei; la clà, se è fanciullo o adolescente, se adulto o vecchio.
Si riguardano oltracciò i comodi o le incomodità che son date, dalla
natura all' animo o al corpo, quali sono l'csscr l'uomo possente 0
debole; lungo o orlo; bello o brullo; veloce o lardo; acuto o ottuso;
memore o smemorato; dolce, obbligante, verecondo, pazicnlc, o
all'opposto. In somma quelle qualità che son date dalla natura all' animo o al
corpo si vorranno considerare per palli di essa natura: giacché le
qualità che si acquistano coll'Industria sospettano alla vlisposlezza, di
cui s'ita da dire dappoi poco. Nel vivere ò uopo osservare presso cui
l'uomo fu educato, a quali coslumi, ad arbdrio di chi, quali maestri
abbia avuti delle arti liberali, quali precettori della maniera di
vivere, con quali amici egli usi, di quali faccende, di quali guadagliene, di
quale prie si frammetta, come amministri il patrimonio domestico, quali usanze
c modi ci tenga in casa. Quanto è alla condizione, s'ha a vedere se
l'uomo è servo o se libero, se bene o se male accivilo di danaro, se
privalo o in uIHcio pubblico; e dato clic in ulllcio, se vi fu eletto, 0
se vi s'intruse; se felice, se nominato, n all'opposto, se i suoi Agli sono di
buona o di malvagia qualità. E se si parlasse di un trapassato, si
dovrà vedere di qual morto c’iiniva. Dispostezza o abito si appella
una cosiamo e assoluta perfezione dcll'aiiimo o del corpo in una cosa, come
sarebbe la conoscenza pratica di una virtù o di un'arte, ovvero una
scienza qualunque, e similmente una qualche dote del corpo, non impartita
dalla natura, ma acquisita con lo studio e l'industria. Affezione è ogni
mnlanza che succede improvviso o nell'animo o nel corpo, originala da
qualche causa, come allegrezza, desiderio, paura, moleslia, malattia,
debolezza, 0 altrettale. Studio è un'assidua e forte occupazione dcll'ouinio
intorno a qualche cosa, accompagnata con grande inclinazione di volontà,
come sarebbe intorno a filosofia, a poesia, a geometria, a erudizione.
Disegno n inb-nzioiic diccsi un avviso pensato di fare o non fare
alcuna cosa. I fatti la ultimo, gli accidenti, 1 parlari vogliono
considerarsi relativamente ai Ire tempi, cioè attendere clic cosa altri
abbia già fatto, che gli sia intervenuto, che abbia detto; che cosa
faccia, che gl'inlcrvenga, che dica; clic sarà per fare, che per
avvenirgli, che discorso sarà per lenere. Tutto questo si riferisce alle
persone. Negotiis aulem quae sunl atlributa, partim sunl contincnlia rum
ipso ncgolio, pari irn in gestione negotii consideranlur , parlim
adiuncia negolio sunl, parlim gcstuni ncgotiiim consequunlur. Conlinenlia
cum ipso negolio sunl ea, quae semper adlìxa esse vidcnlur ad rem, neque
ab ea possunl separari. Ei bis prima est brevi compieaio totius negolii,
quae summam cominci facli, hoc modo: Pareniis occisio, palriae prodiiio;
dein de causa cius summae, per quam el quam ob rem et cuius rei
causa factum sii quaerilur; deinde ante geslam rem quae farla sinl,
conlinenlcr usque ad ipsum negolium; deinde, in ipso gerendo ncgolio quid
aclum sii ; deinde, quid pò- le a factum sii. In gestione autem negolii, qui
locus sccundus eral de iis, quae negnliis atlributa sunl, quacrctur
locus, lempus, occasio, modus, facullalcs Locus considcralur, in quo res gesta
sii, et opporluuifalc , quam videatur liabuissc ad negolium
adminislrandum. Ea autem opporluuilas quaerilur ei magnitudine, immollo, longinquilalc,
propinquilale, solitudine, cclcbrilale, natura ipsius loci el «icinilate
lotius regionis ; ex bis etiam allribulionibus : sacer an profanus,
publicus an privalus, alicnus an ipsius, de quo agilur, locus sii aut
fueril. Tcmpus est autem id, quo Dune ulinaur ( uam ipsum quidem
generallter defluire difllcile est ), pars quaedam aelernilalis cum
ulicuius annui, mensurni, diurni, noclurnirc spalii certa signiflcatione.
In hoc et quae praclcrierinl consideranlur; el eorum ipsorum, quae propter
velustalem obsolcterinl, ut incredibilia tidcanlur, et iam in fabularum
numerum reponanlur;cl quae iam diu gesla et a memoria nostra remota,
lamen faciant (idem «ere tradita esse, quod eorum monumenla certa in
lilteris exslent ; et quae nupcr gesla sint, quae scire plerique possinl
; el ilem quae instenl in praesentia, et quae quum maxime flant, et
quae consequanlur. In quibus polest considerari, quid ocius et quid serius
fulurum sii. El ilem communiler in tempore perspicicndo longinquilas cius
est considerando. Nam saepe oportel commctiri cum tempore negolium, el
«Mere, potueritne aut magnitudo negolii aut mullitudo rerum in co
transigi tempore. Considcralur aulem lempus et anni et mensìs el dici et
noclis et vigiline el borac et in aliqua parie alicuius borimi. Quanto poi
alle circostanze che si riferiscono ai falli, parte di esse son congiunte col
fallo stesso, parie si riconoscono nella gestione del fallo, olire sono
come una aggiunta, altre vengono in conseguenza del fallo. Congiunte con esso
sono quelle che se nc stanno costantemente appiccale al fallo, senza che le si
possano da esso dispiccare. Fra queste la prima i il breve sunto
che contiene la somma del fallo, per esempio: La uccisione del padre, il
tradimento contro la patria: la seconda è la causa di quella somma, per
la quale si cerca quale sia il movente, e quale lo scopo del fallo: la
terza è il cercare quali sicno gli antecedenti che avvennero sino all'
istante del fallo: la quarla £ il vedere clic si fucessc nell'ano
stesso di trascinar quell’azione; in One il cercare che si facesse
dappoi. Circa alla gestione del fallo, clic è la seconda tra le specie di
circostanze che si riferiscono alle cose, si cercherà quale ne
fosse il luogo, il tempo, la occasione, il modo, la attitudine di citi lo
trascinò. Per luogo s' intende il dove fu operalo, rclalivamenlc alla
opportunità che offerse di poterlo maneggiare. Questa opportunità si
cerea di trovarla nell' ampiezza del silo, neU'intervallo, nella
lunghezza, nella prossimità, nella solitudine, nel bazzicarvi la genie,
nella natura del luogo slesso, nel suo vicinare col rcslo della contrada.
Ccrcherassi l'opportunità eziandio in questi altri caratteri del luogo;
ac esso £ ovvero fu sacro o profano, se pubblico o privato, se d’altrui o
di quello stesso, di clic si traila. Il tempo quale £ quello che noi
usiamo oggi (poiché il definirlo in generale £ malagevole), £ una parie
deli’clernilà, che porla seco la speciale significazione dello spazio annuo,
del mensile, del diurno o notturno. Quanto al tempo si dovrà
considerare le cose passale; e fra queste si daranno a credere per
false c da ripor Ira le favole quelle clic per vecchiezza sono andate In
disuso; e quelle altresì che furono operate pezza fa, c che son venule
a quasi non si sapere; le quali però si mostrerà che son vere, e
che la tradizione che le rapporta è giustificala da monumcnli non dubliii
che restano tuttavia nelle storie; e quelle inoltre che furono
fatte di fresco, e che possano per ciò essere a molti sconosciiilc; e
similmente quelle che addivengono in presente, c quelle che il più
spesso, c quelle che poscia seguiranno. Tra queste ultime si può
far attenzione quali più tosto, e quali saranno più tardi per accadere. Arrogo,
clic quando bassi ad argomentare dal tempo, convien d' ordinario
por mente alla lunghezza di esso; poiché incontra sovente che si debba
coinmisu rar con esso la cosa, e vedere se in un dato andare di esso
polessc essere dalo spaccio a un affar di rilevanza o a molte Occasio aulcm est
pars lemporis Imbens in se alicuius rei idoneam faciendi aul non faciendi
opporlunilaiem. Quarc cum tempore hoc differì : nam genere quidem ulrumque idem
esse iiitelligitur ; vcrum in lemporc spalium (|uodam modo
deelaralur, quod in anni», aul in anno, aul iu aliqua anni parie
spcrlalur , in occasione ad spalium lemporis faciendi quacdain
opporlunilas inlelligilur adiuncla. Quare quum genere idem sii, fit
aliud, quod parie quadam cl specie, ul dixiinus, ditterai. Haec disi ributtar
in Iria genera, publicum, communo, singolare. Puhlicum esl, quod
clritas universa aliqua de musa frequentai, ul ludi, dies feslus,
belluin. ('.orninone, quod accidil omnibus codcm fere lemporc, ul messis,
sindemia, calor, frigus. Singolare aulcm est, quod aliqua de causa
privatilo alicui solcl accidere, ul uupllac, sacrillcium, funus,
convivium, somnus. Modus aulcm est, iu quo quemadmodnm cl quo animo
factum sii, quaerilur. Kius parics sunl prudenlia cl imprudenlia. Prudenliae
aulcm ratio quaerilur ex iis, quae ciani, palam, vi, persuasione feceril.
Imprudenlia aulcm in purgationem ronferlur, cuius parics sunl Inseienlia,
casus, neeessilas, cl in adfeelionem animi. Ime esl, tnulcstiam, iracundiam,
amorem, cl celerà, quae' in simili genere vcrsanlur. Facullalcs sunl, aul
quibus facilius fit, aul siile quibus aliquid ronfici non
potosl. Adiunclum negolio aulem jd inlelligilur, quod majus, el quod
iniiius, el quod sìmile, eril ei negolio, quo ile agitur, el quod aeque
inagnum, el quod contrarimi), cl quod disparalum, el genus et pars cl
ciculus. Majus el minus el acque magnum ex vi el ex numero et ex figura
ncgolii, sicul ex sialura corporis, consideratur. Simile aulem ex specie
comparabili : comparabile aulem ex conferenda aique adsimilanda natura
judicolur. Conlrarium esl, quod positum in genere diverso, ab codcm cui
conlrarium esse dicilur, plurimutn disiai, ul frigus calori, vilae mors.
Disparatuni nnlcm evi id, quod ah aliqua re per oppatilioncm negalionis
separalur, hoc modo: sapere, el non sapere. Genus esl, qund parles ali
quasampleclilur, ul cupidilas. Para osi, quae subesl generi, ul amor, ovaritia.
Kvenlus esl exilus cose insieme. Si fa aitarsi allenzionc al tempo
ri spello all'anno, al mese, al giorno, alla notle, allo vigilia
militare, all'ora, e ai ritagli di ciascuno di questi periodi. Occasione
è una parlila di tempo clic contiene in sè l'opportunità o l'adatta congiuntura
di fare o non fare alcuna cosa. Quindi da occasione a tempo v’ha questo
divario, clic sebbeoe c questo e quella son compresi nello slesso genere,
puro nel tempo si vieti a significare solo un qualche spazio che si trova
o in più anni, o in uno, o in qualche parie di esso; laddove
nell'occasione s'intende allo spazio dei letnpo aggi mila una colale
opporlunllà di fare. Epperò, tuttoché eguali nel genere, diventano pure
due cose differenti; perchè, come dello è, si differenziano in una parie,
ossia nella specie, che è l'opportunilà. L'occasione si divide in tre, cd è o
pubblica, o comune, o particolare. E pubblica quella che si
presenta bene spesso alla città intiera per qualche ragione, come
sono i giuochi, i giorni festivi, la guerra. È comune quella che dà a tulli
quasi nel tempo medesimo, come è la messe, la vendemmia, il calore, il freddo.
É particolare quando si presenta privatamente ad alcuno per qualche causa, come
sono le nozze, il sacrifizio, il funerale, il convito, il sonno. Modo è
quello, nel quale si cerca come e con che intendimento è falla una cosa.
Ila esso due parli, prudenza c imprudenza. S'indaga inumilo alla prima
badando a ciò che altri fece di nascosta, in palese, con la forza, con la
persuasione. La imprudenza si risguarda come ragione giustiflconlc. e si
divide in ignoranza, caso, necessità; o si risguarda come affezione
dell'animo, e si dipari le in moleslia, iracondia, amore, e negli altri
inoli interni dello slesso genere. Attitudine è quella facoltà, per cui
si fa con molta agevolezza alcun che, o senza coi niente si può fare. È
circostanza aggiunta al fallo ciò che è di maggior importare o di minore,
o simile al caso di clic si Iratta, e ciò che £ egualmente grande, e ciò
che conlrario, c ciò che disparata, e il genere del fallo, e la specie, e
l'avvenimento di esso; cose tulio che per avere attinenza col fallo
oifrono materia di argomentazione. Come dalla sta tura si deduce la grandezza
di un corpo, così dal nerbo, dai punii, dalla forma dui fallo si conosce
la circostanza clic gli è maggiore, o che da meno, o che lo pareggia. Il
simile si rileva da specie che possono ira loro paragonarsi; e si può
paragonare ciò clic Ita natura suscettiva di confronto e di essere
rassomigliata. Conlrario è ciò che balle in genere diverso, e clic va
mollo di lungUla quello a cui si dire conlrario, come il freddo va lungi
dal calore, la morie dalla vita. Disparate dieonsi dite LI litio
I. alicujus negotii, in quo quocri solfi, quii) pi quoque re cveneril,
evenirli, cvrnlurum sii. Quarc hoc jn genere, ut commodius,quid eventurum
sii, aule animo colligi possi!, quid quaque ei re solcai evenire,
considerandum est, hoc modo: Ex adroganlia odium ex insoleoiia
adrogaqlia. Quarta aulem pars esl ei iis, quas negotiis dicchamus esse
allrihutns, consentilo. In Irne rae rcs quaerunlur, quae gcslum negotium
conscquuntur: primum, quod factum esl, quo id nomine appellar! coni miai;
delude ejus facti qui sin! prtneipes et invenlores, qui denique
aucluriialis ejus cl invcnlionis comprohalorcs alqoe aemuli; deinde ccquae de
ea re aul cjnsrci sii lev, consuclmlo, urlio, judicitim, scintila,
arliOcium; deinde natura cius evenire vulgo solcai au insolcntcr cl raro;
poslea lioinines id sua auclorilalc cnmproharc, an offendi re in iis
consueriol; et celerà, quae fariuin aliquod simililer confeslim, aul ex
intervallo solent Consequi. Deinde proscenio allendcudum esl, cium quae res
ci iis rebus, quae positae sunl in parlihus honcslalìs aul ulililalis,
consequanlur; de quibus in delheralivo genere causae distinclius crii
diccndum. Ac ncgoliis quidem fere res cae, quas commemoravimus, sunl
altribulac. Oninis auleta arguii» ulali", quae ex iis locis,
quos commetnoraviinus, sttnielur, aul probahilis, aul necessaria debt-bii esse.
Elcnini, ut breviler describamus, argumenlalio vidclur esse
Intenlum aliquo ex genere, rem aliquam aul pròbabiliter oslcndens, aut
necessarie demonstrans. Necessarie dcmnnslranlur ea, quae aliler ac
dicunlur noe fieri ncc probari possuul, hoo modo : Si pepcril, cum viro
concubuit. line gcnus argumentandi, quod in necessaria dcmonslralioncvcrsatur,
maxime Iraclal tir in dicendo atti per compleiionem, aul per enumerahoneni. aul
per simplicem eonclusionem. Coitiplcxiu esl, iti qua, uIrunt concesseris,
rcprchendilur.ad liunc modum: Si intprobus esl, c.ur uteri» ? si probus,
cur accusas ? Enumcralio esl, in qua pluribus rebus exposilis et ccleris
inlirmatis, una rcliqua necessario conlirntalur, hoc pacto: Neces.sc esl
aui iniiiiicitiarum cuu-a ab Itoc esse occialini, aul inclus, aut o più
cose die si separano l'ulta dall'altra per nte-: 10 di negativa, come
sarebbe: sapere, e non sapere. È genere ciò che abbraccia alcune specie,
come cupidigia. È specie quella clic è soggetta al genere, come amore,
avarizia. Avvenimento del fallo significa la sua riuscita, nella quale si
cerca ciò che sia avvenuto, ciò che avvenga, ciò che sia per
avvenire da una cosa qualsiasi. Epperfi, quanto a questo, perchè si possa prima
agevolmente comprendere dò che sia per avvenire, o die soglia avvenire da
una cosa qualsiasi, bassi a far deduzione a questo modo: Dall' arroganza nasce
l’odio, dalla superbia l'arroganza. Delle circostanze che, cotn'i dello,
s'appropriano ai falli, la quarla parte comprendo quelle clic al fallo
tengono dietro. Qui dunque si ccica lituo clic seguila poi clic 11 fallo
è venuto a compimento; c prima, di clic nome il fallo sia da appellasi;
di poi chi simo gii autori di esso c gli agenti precipui, e in fine
quali sieno quelli che approvarono e seguirouu l’ordinamento del fatto:
poscia si ceri Iterò qual sia la legge, sotto cui cade il fallo, quale la
usanza clic gli si oppone, quale l'azione giudiciaria, fi giudiciò, la
scienza, l'arte; poi se per sua natura ci suole accascare comunemente, o per
islraordinario c di raro; indi se le persone Itati costume di
auloriz. zarlo con l’approvazione loro, ovvero se esse di cose di
lai falla si olTmviono; e cosi si cercano vki via le altre cose che a
modo simile sogliono seguire o immantinente, o dopo qualche intervallo.
In fine decsi badare se consegnano di quelle cose che t si
riferiscono all" onesto c all’ ulile; ma di qucsle verrà di
discorrere più dislinlamcnlc, quando si tratterà della causa
deliberativa. Or queste clic si sun delle sono a un di presso le
circostanze proprie dei falli. Ogni argomculaziunc che piglierassi dalle fottìi
di qui addietro ricordale dovrà essere o necessaria, o probabile.
Perocché l'argomentazione è, per dirlo in breve, un trovalo di qualche
sorte, che dimostra con ragioni probabili o con necessarie una qualche
cosa. Si dimostra con ra gioni necessarie ciò che non può nè essere nè provarsi
divcrsamcnle da quello elle si dice, come sarebbe: Se partorì, dunque giacque
con un uomo. Questo modo di argomentare die versa nella dimoslrazionc
necessaria , si licite specialmente quando si parla o per dilemma, o per
enumerazione, o per sola conclusione. Dilemma è quello, in cui si ribalte
o l'un pittilo o labro che lu conceda; per esempio: S'egli è un malvagio,
perchè li vali di lui? se uomo probo, perchè lo accusi? Kniimerazione è
quella, in cui esposte più cuse, se uc conferma necessariamente una, dopo
aver mandale a nulla tulle le altre; ionie sarebbe : h no spei, 3ut
alicujus amici grafia; aul, si tiorum nihil esl, ab hoc non esse orcisum; nani
sine causa malelicium susceplum non polest esse. Sed ncque inimici) ac
ruerunt, ncc melus ullus, nccspcs ex morie illius alicujus commodi, ncque
ad amirum liuius aliqucm mors illius perlinrbal. Rolinquilur igitur, u) ab boc
non sii occisus. Simplex auiem conclusio ex neerssoria conscculione confi
cilur, hoc modo: Si vos me islud co tempore ferisse dicilis , ego aulem eo ipso
tempore trans mare fui, relinquitur, ut id, quod diritis, non modo non
fecerim, sed ne polucrim quidem Tacere. Alque hoc diligonlcr oporlebil
xidere, nc quo pa. cto genus hoc refelli possi!, ut ne conlirmalio modum
in se argumentaliouis solum habeat et quamdam simililudinem neccssariae
conclusionis, rerum ipsa argumenlalio ex necessaria ralionc consista).
Probabile aulem est id, quod fere sole! (ieri, aul quod iu opinione posilum
est, aul quod habcl in se ad lisce qtiamdam simililudinem, site id
falsum est, sivc veruni. In co genere, quod fere (ieri solel, probabile
buiusmodi est: Si mater esl, diligi! fllium: si avorus est, negligi! ius
iurandum. In co autem, quod in opinione posilum esl, buiusmodi sunl
probabili: Impiis apud inferos pocuas esse paratas; eos, qui philosopbiae
doni operali!, non arbitrari dcos esse. XXX.
Similitudo aulem iu coulrariiset paribus et ni iis rebus, quae sub camdrm
rationem cadimi, maxime speclatur. In conlrariis, hoc modo: Nani si iis ,
qui imprudciites laeserunl, ignosci ronvenil, iis, qui necessario
profucriml, liaberi gratiam non oportcl. Ex pari sir: Nani ut locus
in mari sine porlu naxibus esse non potrsl tulus. sic animus sine fide
stabills aniicis non polest esse. In iis rebus, quae sub eanulem rationem
caduul, boc modo probabile considcralur: Nani si Ilodiis turpe non esl
porlorium locare, nc llcrmarrconli quidem turpe est ronducere. llaec Ioni
vera sunl, hoc pacto: Quoniam cicalrix esl, fuit vulnus; tum veri similia
boc modo: Si mullus ei al iu calceis pulvis, ex ilinrre cum venire oporlebal.
Omnc autem ( ut certas qtiasdant in partes disiribuamus) probabile, quod
sumilur ad argumentalionem, aul signum esl, aut credibile, aut
indicatimi, aul comparabile. Signum esl, quod sub scusimi aliqucm cadil
et quiddam significai, quod ex ipso profectum tidclor, quod aul aule.
, Inerii, aut in ipso nrg u tio, aut posi sii eonsecu- ; lum, et
lame» iudigrt lestimouii et gravioris ron ressario ch’ei sia sialo
morto da costui o per motivo di nimicizia, o per motivo di timore, o di
sperarne, o per far piacere a un amico; o se non fu nessuno di questi
motivi, non fu dunque morto da costui; da che senza motivo non può esser
commesso un misfatto. Ma non vi fu nimicizia, non timore alcuno, non isperanza
chea quella morte rispondesse vantaggio, nò profittava essa a nessun
amico dell' uccisore. Resta dunque che e' non fu ucciso da costui. La
conclusione schietta si forma dalla conseguenza necessaria, a questo
modo: Se voi dito che io feci questo in quel tempo, e io in quel
tempo era oltremare, resta clic questo clic voi dite, non solo io noi
feci, ma neppur il poteva fare. Vorrassi altresì ben attendere che una
tatù conclusione sia fatta in modo clic per nessun verso non possa essere
ributtala, affinchè la confermazione non solamente abbia forma di
argomentazione, c come una scmbiauza di conclusione necessaria, ma si faccia in
effetto per ragioni clic necessariamente concludano. Probabile è ciò che
le più volle suol essere, o ciò che si opina che sia, o ciò che lia
in se qualche somiglianza col vero che determina la nostra opinione, sia
esso vero effettivamente, o sia falso. Quanto a ciò che suol essere, ecco un
esempio del probabile: se ella è madre, ella ama il figlio: se costui è avaro,
non si cura del giuramento. Quanto a ciò clic si opina die sia , il
probabile è questo : Agli empi nt-1l' inferno sta preparala la pena ; coloro
clic metlon opera alla filosofia non pensano che ci siano gli dei. La
similitudine si ravvisa specialmente licite coso contrarie, c nelle pari,
e in quelle clic cadono sotto una stessa qualità. Nele cose contrarie, a
questo modo : Se a quelli che offcscro senza avvertire , si conviene dar
perdonatila, a quelli che giovarono perchè non poterono a meno, non è
necessario aver obbligazione. Nelle pari, di questa maniera: Come nel mare un
silo che manchi di porlo non può prestar sicurezza alle navi, cosi
un cuore clic mauclii di fede non può esser costante in amar le persone.
Nelle cose clic cadono sotto una stessa qualità il probabile si deduce
cosi: Se i Rodiani non commettono disonestà a dar in affitto il pedaggio, neppure
Ermacreuntc noti commette disonestà a prenderlo in affilio. Il probabile
poi passa a verità quando si enuncia a questo modo: Poiché rimane
cicatrice, c'ci fu ferita: o a verisìmile, quan to si enuncia cosi : Se te
scarpe tencano di molla polvere, essa volea esser lolla sii nel viaggio.
Ogni I probabile ( per volerlo dividere in alcune parti determinate
) , clic si adopera per argoineiila; rione, o consiste in un segno , o in una
cosa firmaliouis, ut cruor,
Tuga, pallor, pulvis, et quae li js sunt similia. Credibile est, quod
sine ullu leste auditoris opinione firmalur, hoc modo: Memo est, qui non
liberos suos ìncolumes et beatos esse cupial. Judicalum est
resadsensione, aut aucloritalc, aut iudicio alicuius, aut aliquorum comprobala.
Id trìbus in generibus spectaiur, religioso, commu ni, approbato.
Heligiosum est, quod turati legibua iudicarunt. Coinmunc est, quod
omnes vulgo probarunt etsecuti sunt, huiusmodi: ut maioribus natu
adsurgalur, utsupplicum miserealur. Approbatum est, quod homincs, quum
dubiurn essel, quale haberi oporteret, sua constitucrunl
aucloritate: rei ut lloratii factum a popolo approbalum, quod occìdd sororem,
quum illa deviclum Curiatium hostem deflerel; vel ut Gracchi patria
factum, quem populus Romanus ob id faclum, quod insciente collega in
censura nihil egissel, post censuram consulem feci!. Comparabile autem
esl, quod in rebus diversis similem aliquam rationem contine!. Eius
parles sunt Ires: imago, collatio, eiemplnm. Imago esl oratio
demonslrans corporum aut naturarum simililudinem. Collatio est
oratio rem cum re ex similitudine conrerens. Esempi um est, quod rem
aucloritate, aut casu alicuius hominis, aut negotii confirmai aut infirmai.
Ilorum esempla et descriptiones in praeccptis clocutionis cognoscenlur. Ac
fonsquidem confirmationis, ut facullas tulit, apertus esl, nec minus di lucide,
quam rei natura fercbal, demonstratus est: quemadmodum aulem quaeque
conslilulio et pars conslilutionis et omnis controversia, sire in ralione
site in scriplo versabitur, traeteli debeai, et quae in quamque
argumenlationes convenianl, singillalim in secundo libro de uno quoquo genere
diccmus. In praesenli lantummodo numcros et modos et parles argumenlandi
confuse et pernii Miro dispersimus; post descriple et electe in
geiius quodque causae, quid cuiquc convenia 1, ci liac copia digeremus.
Alque inveniri quidem omnis es bis locis argunienlalio poterli:
inventaro ciornari et certas in parles distingui et suavissirnum esl, et
suinroe necessarium, et ab artis scriplnribus maiimc negleclum. Quarc et de ea praeceptioue
nobis et in hoc loco dieendum visum esl, sii ad inventionem arguincnli
absolulio quoque argumcnlandi adiungerelur. Li magna cum cura et
diligenfia locus file omnis considerando esl, quod rei non solum magna
ulilitas esl, sed praecipiendi quoque summa difllcullas. credibile, o in
una giudicala , o iu una paragonabile. É segno ciò che cade soilo qualche senso
e significa un che, il quale par derivato da esso segno, c fu prima del fatto,
o nella gestione, o vrnne iu conseguenza di esso, ma che nondimeno
ha uopo di testimonio e di esser meglio confermalo, come è il sangue, la fuga,
il pallore, la polvere, e cose altrettali. E cosa credibile quella, cui
l' uditore si rappresela per si falla senza esservi indotto da alcun
testimonio, come sarebbe : Non *' ha nessuno che non brami sani, salti e
felici i suoi figliuoli. Il giudicalo i una cosa che vien renduta ferma e
immutabile o dall' assenso, o dalla autorità, o dal giudicio di una o più
persone. Questa specie di probabile è di tre maniere, religioso, comune,
approvato. Religioso ò quello che tiene stabilito da un giudicio fallo secondo
le leggi da persone giurale. Comune è quello che da lutti è
generalmente commendalo e seguila, coma sarebbe: clic si dee levarsi al
sopraggiungere di uomo attempalo; clic si dee aver pietà dei supplichevoli.
Approvalo i quello che, scndo dubbio se si dovesse aver in conio di bene
o di mal fallo, gli uomini stessi con la loro autorità hanno
stabilito in che conio si dovesse avere; per esempio: Fu approvato dal
popolo il fallo di Orazio che uccise la sorella, mentre essa andava in
pianto perchè era slato vinto il Curiazio nemica dei Romani; oppure fu
approvalo il fallo di Gracco il padre, tanto , clie il popolo Romano per
rimeritarlo di esso, cioè dire di aver nella censura operala ogni
cosa di ron-erlo col collega, dopo la censura lo fece entrar consolo.
Paragonabile è quello che in cose diverse pur contiene alcun che di
simile. Ila Ire parli: imagine, confronto, esempio. Imaginc è un
discorso che dimostra la somiglianza dei corpi o delle nature. Confronlo è un
parlare che conpara una cosa con un'altra per ragione del loro
assomigliorsi. Esempio è ciò clic conferma o abbaile una rosa con l’autorità, o
con l'accidente avvenuto a una persona, o col successo di qualche altare.
Di qucsle specie di paragonabile si vedranno gli esempi e una sposizionc piu
distesa là dove si daranno 1 precetti della elocuzione. Fin qui si
son messi in manifeslo i principii della conferma- • zinne, secondo che
io ho saputo fare, e illustrato con quella chiarezza elle domandala la
natura dell'argomento che trotini. Come poi debba maucg giarsi ogni
costituzione ed ogni parie di esia, e cosi ancora ogni conlrotcrsia, sia
die essa versi circa la mente dello scrillore, sia che circa le parole
stesse dello scrino, e quali argomentazioni calzino bene a ciascuno di
questi articoli, si vorrà dire sparliiamenlc nel secondo libro. Finora io
ho posto qua e là soltanto in ammasso c alla confusa Omnis igilur
argomentalo! aul per induclioneni (racla mia est , aul per
raliocinaliouem. Induclio est oratio. quae rebus non dubiis captai
adseusiones eìus, quicum inslituta est; quibusadsensionibus facil, ut illi
dulia quaedain res propter similitudincm carum rerum, quibus adscnsil,
probetur; velili apud Socralicum Aeschinem dcmonslrat Socralcs min
Xenopliuntis uxorc cl cum ipso Xcnnplionte Aspasiam locutam: Die milii,
quaesn, Xcnopliomis uxor, si vicina tua melius habeat aururn. quani tu
habes, utrum iltiusnc an luutu malis? Illius, inquii. Quid, si vestem et
cetiTuin oruatum mulicbrcin preti! maioris habeat, quain tu habes, luumnc
an illius, melisi Itespondil: Illius vero. Agcsis, inquii, si virum itla
indiorem habeat, quam tu habes, ulrunine luum virum malis, an illius? Hic
inulier erubuit. Aspasia autem sermonom cum ipso Xenophqule instiluil.
Quaeso, inquii, Xcnophon, si vicinus tuus equuin meliorem habeat, quain
tuus est, luumnc equuin malis, an illius? Illius, iuquil. Quid, si
luminili meliorem luibeal, quam tu habes, utrum tandem fondimi
Iutiere malis? illuni, impili, meliorem scilircl. Quid, si uxorcin
meliorem liabeal, quam tu habes, iilriim illius malis? Alque Ine
Xenoplion quoque ìp-e lacuil Posi Aspasia : Quoniam ulerque vestrùin,
inqud, id nnhi solum non respondil, quod ego sobilli uudire volucram, egomel
dicam, quid ulerque cogilel. ,\am el lu, uiulicr, oplimum virum vis balere, cl
tu, Xcnophon, uxoretn liaberc loclissimatn maxime vis. Quare, nisi hoc
perrecerilis, ul ncque vir mclior ncque femina liclior in lerris sii, profeo.lo
semper id, quod oplimuin potabili! esse, imillo maxime pcquirelis, ul cl
lo marilus sis quam oplimae , el lisce quain optimi) viro mipla sii. die
quum rebus non dubiis ossei ad*cn : um, factum esl proplcr simi li
numero delle argomentazioni, e i modi di farle, e le parli di esse: verrò
poi da dover (ulta questa materia disporre con ordine e sceltezza
rispetto a ciascun genere di causa c a ciò che a ciascuna causa si
conviene. Dal dello finora si potrà rinvenir ogni argomentazione clic fa d’
uopo; ornarla poi che si ì rinvenuta, c distinguerla uclle sue
parli, è cosa assai piacente a fare; senzachè è al sommo necessaria,
eziandio clic dagli scrittori di retorica affano niente curata. E per
questo Ionio ch'io trovo di dover qui dare alcuni preconi eziandio sopra
ciò, perciò dopo la invenzione dell’ argomento si venisse anche a sapere in
quali modi ci si debba pur adoperare. E questa parie vuoisi
svolgere tutta con mollo di attenzione c di esattezza, non pure perciò essa è
di grande utilità, ma ancora perchè è diOicilc assai il darne i precetti
relativi. Ogni argomentazione bassi a fare ri per induzione, o per
raziocinio. Induzione 6 un discorso, ii quale alle cose non dubbie accatta
l'assenso di colui con cui si parla; c la che per (aie assenso egli
approva una cosa dubbia per la somiglianza die passa tra questa e quelle, a cui
altre volte egli ha già dato il suo assenso. No dà un esempio Socrate
presso Eschinc, clic tu della sua scuola , là dove dice che Aspasia tenne
questo ragionamento con la moglie di Senofonte e con Senofonte istesso:
Diurni, di grazia, o moglie di Senofonte, se la tua vicina avesse più
bello fornimento d'oro che tu non hai, ameresti meglio il tuo, o
qucllu di colei? oh! quello di colei, rispose. E se porlasse il vestire c
l’altro ornalo muliebre di prezzo più vantaggialo che non porli lu,
vorresti le robe tue, o non più preslo quelle dì lei? Affò, rispose,
quelle di lei. Dimmi ancora, soggiunse, se ella avesse marito migliore
del tuo, vorresti il tuo, ovvero quello di lei? Qui la donna
arrossì. Aspasia poi rivolse la parola a Senofonte istesso, e gli disse;
Di grazia, Senofonte, se il tuo vicino possedesse un cavallo più
prestante die non è il tuo, vorresti anzi ii tuo, clic avere quello di
lui? Quello di lui, rispose. E se possedesse un fondo che avesse miglior
essere che il tuo non ha, vorresti piuttosto quello di costui? Si
certo, rispose, qucllu di costui. E se aresse moglie mi; gliure
della tua, quale brameresti delle due ? E qui lo stesso Senofonte si
tacque. Allora Aspasia: Giacché l'uno e l’altro di voi, disse, ciò solo
non mi rispose clic anzi era il solo elle io voleva udire, dirò io ciò
che voi due pensale. Tu, o moglie, vuoi avere il miglior di lutti i
mariti: e tu. Senofonie, la moglie di tutte migliore. Laoude, se voi non
giungerete a fare che non ci sia al mondo nò un uomo migliore degli
altri, nè una donna delle liludinem, ut etiam illud, quoti dubium
videbatur, si quis stqiaralim quacrercl, id proptcr rationcm rogandi conccderetur.
Hoc modo sermonis plorimum Socralcs usus est, propterca quod nihil ipsc
adrerrc ad perSuadcndum volcbal , sed ci co, quod sibi ilio dederat,
quiciim dispulabat, aliquid coufìcere malcbal, quod iJlejci co,
quod iam concessissel, necessario approb. ro debercl. Hoc in genere
praacipiendum nobis vi delur primum, ut illud, quod inducemus per
simillludinem, ciusmodi sii, ut sit necesse concedi. Nani ex quo
poslulabiimis nobis illud, quod dubiuin sit, concedi, dubium esse ìd ipsum non
oportebit. Deinde illud, cuius coniìrmandi causa Gel induetio, tidendum
est, ut simile iis rebus sit, quas rcs quosi non dubias ante induxerimus
(nam aliquid ante concessum nobis esse nihil proderit, si ei
dissimile crii id, cnius causa illud concedi primum xoluerimus) ; deinde
non inteltigal, quo sperlcnt illae primac induclionrs, et ad quem
sin! cxiluni porventurae. Nam qui vìdei, si ei rei, quam primo
rogetur,rectc adsensciil, illain quoque rem, tjuae Sibi displice.it, esse
necessario conccdcndam, plerumquc aut non respondendo, aut male
respondendo, longins rogalioncm procedere non siml. Quare rationc
rogationis imprudens ab eo, quod concessi), ad id, quod non sull
concedere, deduccndus esl. Evlremum autein aut taccalur oporlcl,
aut conccdatur, aut urgetur. Si negabilur, aut ostcndenda similitudo est carum
rerum, quae ante conccssae sunt, ani alia utendum induellane. Si
concedctur, concludonda est argumenlatio. Si tuccbilur, aut clicieuda responsio
esl, aut, quoniani lacitumilas imilatur confcssioncm, prò eo, ac si
concessum sit, concludere oporlebit argunienlationcm. Ha fu hoc gentis
argumentandi Iripertilum: prima pars ex similitudine constai una
pluribusvc; altera ci co, quod concedi volumus, cuius causa simililudincs
adhibilac sunt ; tcrtia ex conclusione, quae aut conGrmal
concessionem, aut quid ex ca conOciatur oslcndit. altre più egregia,
per fermo voi sempre agognerete ciò die slimìatc essere il migliore, voglio
dire che tu vorrai esser marilo della più prestante, e che costei vorrà
avere il più prestante per suo marilo. Qui dunque fu dato assenso a cose
non dubbie, cppcrò per ragione delia somiglianza avvenne che anche
quello, die saria partito dubbio a chi I* avesse cerco separatamente, fu
conceduto per certo per la somiglianza delle interrogazioni. Usò
più volte Socrate questo modo di ragionare, siccome colui che non volea da sè
proferir nulla clic conducesse a persuasione, ma amava meglio da
quello che gli porgeva la persona con cui dispulaia, trame una illazione
tale, che quella persona, appunto per causa di quanto avea concesso, dovesse
necessariaoienle approvare. Circa alla induzione, il pruno precetto che
io fo ragione di dover dare.'ù questo; clic li induzione che si fa per
similitudine sia (ale elicsi debba di necessità concedere. Non dovrà
punto esser dubbia la cosa, merci di cui domanderemo che sia dato
assenso a quella che è dubbia Inoltre c da ba dar bene che quello, in conferma
di clic si farà la induzione, sia simile alle cose clic avremo
innanzi rappresentale per quasi non dubbie ( giacchi non ei gioverà punto che
qualche cosa ne sia stala innanzi concessa, se a questa Ila
dissimile quella, per cui cagione avremo voluto che ne sia conceduta' la
prima ) ; dipoi s’ ha da provvedere che l'avversario non possa addarsi
dove vadano a batter le prime induzioni, c a quale uscita sieho per
venire. Conciossiacbi chi si accorgesse clic se darà assenso olla prima cosa
di elle è interrogato, dovrà necessariamente darlo altresì a quella
che gli ripugna, costui o col non rispondere, o col risponder male, non
lasccràebc la interrogazione se ne vada molto alla lunga. Laonde s'
ha da teucre una lai guisa d’interrogare, che l'avversario, senza clic vi
faccia pensiero, sia condotto da quello clic concesse a concedere
anche quello che non vorrebbe. Però I' ultimo punto della interrogazione
dee esser taciuto , o concesso, o negalo. Se lia negalo, allora o
deesi mostrare la similitudine che t’ha tra esso e gli altri punti clic
prima furono conceduti, ovveramentc deesi lar uso di nu'allra induzione. Se il
punto ultimo Ga concesso, si dee chiudere l'argomentazione. Se in Gne
sarà taciuto, o si dee fare di prò vocaruc come die sia la risposta,
ovvero, siccome il silenzio rassomiglia in ccr o modo alla confessione. si
dovrà venire alla chiusa dcll’argomcnlazionc appunto come se l’avversario
avesse risposto affermatitainenlo. Cosi questa maniera di argomentare viene ad
aver tre parti; la prima con- l.i di una o più similitudini, la seconda
consta di Seti quia non salis alicui videbilttr dilucitle demonstralum,
nisi quid ei chili causarum genere esempli subiccerimus, videlur eiusmodi
quoque Sitcndbm t^cVnpió' noti quo' pweceplio dilTeral, aul aiitcr hoc in
sermone atque in dicendo sii ulendum, se'd ut eorum volunlaii aqtis
Dal, qui, quoti allrjuo in loco viderunl, alio in t ‘ loco, Risi
mpnatratum.mequeSnt cognoscerc. Ergo in hac causa, qaoe aputTGraeeos
eaLpgnagala, quod Epaminondas, Thebanorum imperaler, ei, qui sibi
ci lege praclor successcrat, eiercilum non Iradidit, cl, quum paucos ipsc
dics conira legem oneri inni) lenuisset, Lacedaemonios funditus vici!,
poleril occupato* argumenlatione uli per inly^clioncm, quum scr : ptum legis
conira senlenliam defendat, jd hunc modum: Si, iudiccs, id, quod Epaminondas
ail legis scriplorem sensissc, as ribat ad legem, et addai Itane
ezceplionem: exira guani si quia rei publicae causa exercìlum non
tradideril, paliemini ? Non opinor. Quod ai vosmel ipsi, quod a vostra
religione cl sapienlia remolissimum est, islius honoris causa liane
eamdem eiceplionem iniussu populi ad legem ascribi iubealis, populus
Tliebanus id patieturne Aeri ? Profcclo non palietur. Qu«t, ergo ascribi
ad legem nefas est, id sequi, quasi aseriplum sii, recium vobis videalur ? Novi
veslram inlclligenliam; non polcsl ila voleri, iudices. Quod si lillcris
corrigi neque ab ilio neque a tobis scriploris voluntas polest, videle ne multo
intlignius ail, id re et iudicio vestro mulari, quoti ne verbo quidem
comrrttibiri polest. ,tc de inductionc quidem salis in prac^|tia dictuin
videlur. Nunc deinceps ratiocìnalionteyim et naluram considercmus. Ratiocinalio
est oralio ei ipsa re probabile aliquid eliciens, quod eiposilum el per
se cognilum sua se vi cl ralione conflrmel. Hoc de genere qui diligenlius
cousitlerandum pulaverunl quello che vogliamo ne sia
concesso, e per cui le similitudini si sono adoperate ; la terza contien
la chiusa, la quale o conferma la concessione o mostra che conseguenza se
ne può trarre. Ma poichi poiria sembrare a taluno che tulio questo non
fosse dimostralo con chiaroaza, ai ^ansassi dall' apparvi qualche poco
‘•d'csernjift trailo dalle cause di qualità civile, io vorrò pur addurle
un esempio adatto alla matc> ria, non perchè belle cause, sia diversa la
regola, di farej' induzione o nel linguaggio oratorio sia da farne
altro uso da quello che si fa nel filosofico, ma per àStjàr a' versi di quelli
che ciò che hanno veduto in un luogo non sanno ravvisar in un
altro, se loro non sia dimostro e fatto conoscere. Or bene, togliamo l'esempio
da quella causa che presso i Greti caper le bocche. Epaminonda comandante de*
Tebani non volle consegnar l'esercito, come era di legge, al pretore che
veiùvqgli "àufrogalo, e tenutolo cosi illegalmente alquanti giorni,
in questo mezzo ruppe di santa •ragione i Lacedemoni. Qui potrà
l'arcusalorc argomentar per induzione , difendendo quanto è scritto nella
legge ad onta del senso che vi si volesse sottintendere. Procederà dunque cosi
: Se Epaminonda, o giudici, aggiungesse alia legge ciò eh' egli
dice aver avuto in intenzione il legislatore , e vi affibbiasse questa
eccezione, che non è espressa: salvo il caso che tui capitano trovasse
esser d' utilità alla repubblica il non consegnare l'esercito a chi si spella,
ve lo comportereste voi? No, mi do a credere. Che se voi stessi ( il clic
troppo si dilungherebbe dalla vostra co scienza e saviezza) comandaste
che per onorare Epaminonda si dovesse aggiungere alla legge la
eccezione stessa, che della è, se ne starebbe forse contento questo popolo
di Tebe? Non se ne starebbe egli per certo. Ciò dunque che non si può
aggiungere alla legge vi par ben fallo che si metta in pratica come se aggiunto
già fosse ? So che voi siete persone d'intelligenza, e per questo
io credo che ben fatto, o giudici, codesto non vi debba parere. Che se
Epaminonda nè voi altri non potete per veruno scritto correggere la
volontà del legislatore, badale che saria cosa troppo più indegna
che voi con l'opera e giudicio vostro veniste a mutare quella volontà che
neppure con lo scritto non si può ni anehe correggere. Ma della
induzione mi pare aver detto abbastanza per ora. Entriamo a far parola
stilla forza e sulla natura del raziocinio. Raziocinio è un discorso che
dalla cosa probabile trae fuori qualche nuota proposizione, la quale
esposta che sia, siccome è nota per si, è confermata dalla slessa sua
forza e carattere, Digitized by Google
unno i. quum idem usu direnili scquerenlur, paullulum
in praccipicndi ralione disscnscrunt. Nani par litri quinque cjus partes
erse dixerunt, panini non plus quam in Ircs parici posse distribuì
putaverunt. Eorum conlrovcrsiam non incommodum vidclur cum ulrorumque ralione
ciponere. ft'ain cl brevis est, cl non ejusmodì, ut alteri prorsus nihil
diccre pulcntur, et locus hic n -bis in dicendo minime negligendo videtur. Qui
pulanl in quinque distribuì parles opurlcrc, nj uni primum
convenire cxponcrc summam argumcntalionis.ad liunc modum : Melina
accuranlur, quae consilio gcrunlur, quam ipjae siile consilio adininistranlur.
liane primam parlcm numeranl ; cain dedico ps ralionibus variis cl quam
copiosissimi! verbis approbari pulant oporlcre, boc modo : Humus ca, quae
ralione regilur, omnibus est inslructior rebus et apparalior, quam ea,
quae temere et nullo consilio administralur. Esercitila is , cui
praepositus est sapiens cl callido impcrntor, omnibus partibns commodius
regilur , quam is , qui slullilia et Icmcrilalc alicujus
adminislralur. Eadem navigli rollo est. Nam navis oplimc cursum
coniìcil ea, quae scientissimo gubcrnatorc ulilur. Quum proposilio sii
boc paclo approbala, et dnac parles Iransierinl raliocinationis, Icrlia
in parie ajunl, quod oslenderc velis, id ex vi proposilio* nis
oporlcre adsumcrc, hoc paclo : Niliil aulem omoium rerum melius, quam
omnis mundus, ad* minislraiur. Ilujus adsumplionis quarto in loco
aliam porro inducunl approbationem, hoc modo : Nam cl signorum ortus cl
obilus delinitum quemdara ordinem serrani, cl annuac commulalioncs non
modo quadam ex necessiludinc semprr eodem modo Qunl, veruni ad ulililalcs
quoque rerum omnium sunt accomodarne, et diurnao nocturnaeque vicissiludines
nulla in re umquam mutalae quidquam nocuerunl; quae sigilo sunl omnia non
mediocri qundam consilio naluram mundi adminislrari. Quinto inducunl loco
complcxionem cam, quae aul id inferi solimi, quod ex omnibus partibns cogitur,
boc modo : Consilio igilur mundus adminislralur: aul unum in locum
quum conduxeril breviler propositionem el adsumplio* nem, adjungil,
quid ex bis conlìcialur, ad lume modum: Quodsi melius gcrunlur ca, quae
consilio, quam quae sine consilio adminislranlur, nitrii aulem omnium rcrum
melius adminislralur, quam omnis mundus ; consilio igilur mundus
adminislraiur. Quinquopertilam igilur Ime paclo pulsiti esse argumentationem. Quelli
clic hanno posto più di csaltczza nel trattare su questa specie di
argomentazione, benché si attenessero nel discorso alla sostanza slessa,
si allungarono perù alquanto gli uni dagli altri nel sottoporla a regolo.
Alcuni dissero avere il raz n cinio cinque parli, altri non gliene
diedero più clic tre. i\on è dunque fuori di proposito clic io
venga discorrendo la costoro conlrovcrsia c le ragioni di clic e gli uni
e gli altri si avralorano, tanto più ch’cssa è breve, e uon di lai sorla,
clic non vi si trovi della cosa di qualche mollicelo; e d'allro
lato è una argomeutazionc elio ncll'arringarc non si vuol mcllorc in cesso.
Quelli clic stimano doversi il raziocinio dividere in cinque parli,
dicono che si conviene per primo pronunziare la somma dell'argomentazione, come
sarebbe: Meglio si procurano le cose elio si fanno dietro considerazione, di
quelle clic si fanno senza di essa. Que-un mi Mono in conto di prima
parte, e credono clic la si debba ili mano in innno comprovare tra con
ragioni varie c incisi assai abbondanti di parole. Foniamone questi
esempli : l.a casa clic ù diretta giudiziosamente è mollo più fornita
ili bisogni o di apparalurc clic non è quella , la quale è diretta
a capriccio e senza fior di buon senno. L'esercito che ha per capo un
uomo savio e sagace è regolalo per ogni verso più con vcncvolmcntc che
quello non è, il quale ha per sopracciò un midollonaccio temerario.
Dicasi lo stesso della nave; poiché la nave fa ottimamente il suo
corso, se 6 guidata da un pilota clic si cono sca bene dell'ano sua.
Comprovala clic sia ili que sio modo la proposizione, e toccale cosi due
parli del raziocinio, dicono clic nella terza parte si dee pigliare dal
forte ridia proposizione ciò che lu vorrai dimostrare, come sarebbe: Ma
di tulle cose nessuna è meglio governala elio il mondo universo. Di
qucsla nuova proposizione aggiungono pure la sua prova, a questo modo. Foicliè
il nascere c il tramontare, degli astri serba un ordine inalterato, e le
stagioni dell'anno noe solo succedono sempre allo stesso modo per quella
certa necessitò che loro ha imposta la natura, ma son altresì
accomodale all'ulile andamento di tulle cose, c le vicissitudini diurne e
nolturnc in nessuna parie mai minale non recarono mai di nocumrn 10 nè un
menomo che; le quali cose danno sicurtà che il mondo è governalo da
provvidenza non lieve. Danno il quinto luogo alla chiuso dcll'argoincnto,
la quale o ciò solo concliiude, che da tulle le parli si viene a
conchiuderc, siccome sarebbe : 11 mondo è dunque governalo con
provvidenza: ovvero allora quando e la prima e la secooda proposizione
saranno brevemente condoltc n far capo c conchiuderc, aggiunge la
illazione che da queliti Qui aulem Iripcrlilam esse dicunt , li non
aliler Iraclari puljiit oporlere argumenlationcin, srd parlitionem borimi
rcprchendimt. Ncganl cnim ncque a proposiliouc ncque ab adsumplionc
approbaiioncs caruin separar! oporlere, neque propnsilioncm absolulam ,
ncque adsumplionem sibi pcrfcctam vldcri, quac approbalionc coufirniala
ncn sii. Quare quas illi duas partes numcreDt, prnposilioncm cl
apprubalioncm, sibi unam partem vidcri, proposi lionem ; quae si
apprettala non sii, proposìlio non sii arguincutalionis. Item. quae ab illis
adsuinptio el adsumptionis approbalio diralur, eamdcin sibi adsumptionem solam
vidori. Ila (ir, ni cadeni raliouo argumentatio Iraelala aliis Iriperlila,
aliis qoinqiicpcr lila tidealur. Quare evcnit, ul res non lam ad
Usiim diccndi pei lineai, quain ad ralionem praeceplionis. .Nobis aulein
cormnodior illa parlilio vidclur esse, quae in quinque parlcs dislribula
est, quain omnes ab Aristotele el Tlieopbraslo profecli ma lime
seculi suiti. Nani queinadinuduni illud superius gcnus argumcntandi,
quoti per inducilonem sumilur, inastine Socralcs cl Socratici Iraclamnl, sic
hoc, quoti per raliocinalionem espolitur, stiniute est ali Arislolelc
alque a l’cripalclicis el Tlieopbraslo frequenlalum, deinde a
rlieloribus iii, qui cleganlissinii alqun arliliciosissimi pulali
sunl. Quare aulem nobis dia ruagis parlilio probetur, dicendum vidclur, nc
Icmere seculi pulemur; cl bretiler dicendum, nc in liujusmodi rebus diulius ,
quain ralio praecipiendi postulai, emumoremur. Si quadam in
argumcnlutione salis esl uli proposiljonc, el non nporlet adjungcre
apprabalionem propositioni, quadam aulem in argumcnlaiinne infirma esl
proposito, nisi adjuncla sii npprobalio, separnlum esl quiddam a
proposiliono approbalio. Quod enim el adjungi et separali ab aliquo
potasi, id non polcst idem esse, quod esl id, ad quod adjungilur cl a quo
separalur; est aulem qunedam argumenlalio, in qua proposìlio non
indigel approbationis, et quaedam , in qua le si Irac,
siccome sarebbe: Che se meglio vanno le cose che son governale da
provvidenza di quelle clic noi sono, e se di lune la meglio governala
è il mondo universo; il mondo adunque si governa per provvidenza.
Per queste ragioni erodono che il raziocinio sia divisalo in cinque
parli. Quegli altri poi che dicono esser il raziocinio di Ire parli, non
credono già che s'abbia da variare l'argomentazione: disapprovano le
cinque parli solo perchè non credono clic si debba dalle due proposizioni
sceverare le due prove, e trovano nè intiera la proposizione prima, nè
ben compiuta la seconda, so E una c l'altra non porla seco la prova
clic la conferma. Laonde mentre i faulori delle cinque parli fan due
parli distinte la proposizione e la prova, i faulori delle Ire riducono
queste due a ima sola, c la dicono ricisamente proposizione ; la quale se
non ha unita la sua prava, non è punto la proposta dell’argomentazione.
Similmente la seconda e la prova di essa , clic i primi dicono esser due
parli, i secondi ristringono a una parie sola. Da ciò deriva che un’argo
lucidazione per raziocinio, comechè (rullata nello slesso modo, da altri
è tenuta perdi tre, da altri per di cinque parti ; il che non lanlo
risgu8rda I' uso clic ne dee far l'oratore, quanto riguarda la
maniera di stabilire i precelli circa a questa malerio. Se ho a dir ciò clic io
senio, io trovo esser più acconcia la dislribuzione del raziocinili in
cinque parli, la quale fu seguila da quanti vennero dopo Aristotele
c Teofraslo. E elio quesli nomi perchè come l'argomcnlar che si fa per
induzione, di rhe è dello, fu seguilo da Soerate c da quelli della
sua sella, cosi questo argomentar clic si fa per raziocinio fu mollo di
frequente usalo da Arislolelc c dai Peripatetici c da Teofraslo, 0 poscia
da quei relori che furono de’ piò nominali per eleganza ed artifizio.
Quale sia poi l'itnpcrcliè, onde 10 approvo la partizione in cinque, fo
ragione di doverlo dire, a causi che non si credesse che io m’avventassi
in questa opinione senza pensarci sopra. Il farò uundimeno alla breve,
per non di morar in queste cose troppo piò che non richieda 11 mio
assillilo di sporre i precelli dell' arie che ho per mano. Se v' ha di
quelle argomentazioni in cui basta la proposizione sola, c non v’ è
mestieri soggiungerne la prova, c se per conira v’ ha di quelle che
ini Illudono una proposizione clic vacilla, c non regge, ove non le sia
aggiunta la sua prova, nc segue che la prova è un che di separalo dalla
proposizione. Perocché una cosa clic s'aggiungo a un' ultra, o che si separa da
essa, non può esser la slessa con quella a cui si aggiunge, o da
cui si separa. Ma c vi sono argomentazioni , mini valel sino approbalioue,
ul oslcndemus. Separala igilurcsla proposilione approbalio Ostendctur autem
iti, quod pollicili surcus, hoc modo: Quae proposilio in se quiddam
conlinct perspicuum, el quod slarc inler onmes nccessc est, liane velie
approbarc el Ormare nihil allinei. Ka est hujusmodi : Si, quo die isla cacdcs
ltouiac racla est, ego Allienis eo die fui, iu cacdc interesse non
po lui. Hoc quia perspicue veruni est , nihil allinei opprobari.
Quarc adsunii slatim oportcl, hoc modo: Fui auleni Allienis eo die. lloc si non
constai, indiget approbalionis ; qua iuduela, complctio coDsequeltir. Esl
igilur quaedam proposilio, quae non indiget approbalioue. Sani esse
quideiu quumdaui, quae indigeni, quid allinei oslendcrc, quod
cuivis facile perspicuum est? Quod si ita est, ex hoc, el ex co, quod
proposueranms, hoc coiiflcitur, separatum esse quiddam a propostone
approbalionem. Sin autem ila esl, falsum esl non esse plus quam
Iripcrlilain argumcnlalionem. Simili modo liquet allcram quoque
approbalio nem separalam esse ab adsumplionc. Si quadani io
argumenlalione salis esl uti adsumplionc, el non oporlct adjungcrc
approbalionem adsumptioni; quadam autem in argumenlalione infirma esl adsumptio,
nisi adjuncla sii approbalio: scpnralum quiddam exira adsumptiooem est
approbalio. Est autem argumculalio quaedam, in qua adsumplio non indiget
approbalionis; quaedam autem, in qua nihil vaici sino approbalionc, ul
ostendemus. Separala igilur est ib adsumplionc approbalio. Oslendcmus autem,
quod pollicili sumus, hoc modo : Quae perspicuam omnibus vcriialem
cominci adsumptio, nihil indiget approbalionis. Ea est hujusmodi : Si
oporlct velie sapere, dare operaci philosophiae convenil. Hacc proposilio
iudigel approbalionis ; non rnim perspicua esl, neque constai inler
omnes, proplerea quod multi nihil produsse philosophiani, plcrique ctiam
ohesse arbilranlur. Adsumptio perspicua osi; est cnim baco: Oporlct aulem
vello sapere. Hoc quia ipsum ex se perspicilur, el vergai esse
inlcliigilur, nihil allinei approbari. Quare slatim concludenda est
argumculalio. Est ergo adsumptio quaedam, quae approbalionis non indiget ; nain
quamdam indigere perspicuum esl. Separala est igilur ab adsumplionc
approbalio. Falsuin ergo est non esse plus quam Iripcrlitam
argumcnlalionem. in cui la proposilione non ha necessaria la prova,
e v’ ha di quelle, in cui la proposizione senza la prova non ha nessun
valore, come si dimostrerà. È dunque la prova una cosa separala dalla
proposizione. Or io dico, secondo clic ho qui promesso di dimostrare, che
una proposizione , la quale contiene iu se qualche verità evidente, c che
non può clic non sia da tulli tenuta per ferma, non ha necessità di
esser provata e ribadita. Jio sia questo un esempio : Se io era in Alene il
giorno in cui fu fallo a Roma questo gran taglio di gente, è cerio
che iu non mi vi poteva trovare iu mezzo. Quella proposizione che è
evidente, non ha bisogno di prova. So dee perciò porre in mezzo la seconda
proposizione, cioè : Ma in quel giorno io fui in Alene. Se questo non
consta, se ne dee dar la prova, e datala ne seguirà la conclusione.
V’ha dunque una specie di proposizioni che non hanno uopo di prova
: esservene poi di quelle clic ne hanno uopo, non imporla dimoslrarlo,
perché non c’è chi non se lo sappia. Che se cosi è, si per questo e sì
per quello che ho dimostralo, ne consegue che la prova è un che di separalo
dalla proposizione. E se questo é vero, dunque è falso che
rargomcnlazione per raziocinio non abbia piò che Ire parli. Per cgual
modo ì chiaro clic anche la seconda prova è separata dalla seconda
proposizione. Se in qualche argomentazione basta toccar la proposizione
seconda di per sè, c non è mesliero di aggiungervi la prova ; c in qualche
altra la proposizione seconda è debole, se la prova non le sia
aggiunta, ne segue che la prova seconda è audio essa un clic di separalo
dalla seconda proposizione. Mn v'ha argomentazioni iu cui la della
proposizione non abbisogna di prova, c ve »’ ha altre, in cui essa
proposizione non tal punto, se non sia provala, come si dimostrerà. È
dunque la seconda prova separala dalla seconda proposizione. Or io dico,
per dimostrare ciò clic qui ho promesso, che la seconda proposizione che
contenesse una verità a tulli evidente, non abbisogna di prova. Eccone un
esempio: Se preme di voler venire in sapere, e' si dee metter opera alla
filosofia. Questa proposizione ha bisogno di prova, perchè non è
evidente, nè tenuta da lutti per vera, essendo che molli sou di credere che la
filosofia non giova, c molli piò che anzi ella nuoce. Bensì è evidente la
seconda proposizione , cioè : Ma dee premere il voler venire in sapere. E
questa, perchè è una verità per sè patente e da lutti ritenuta per tale,
non abbisogna di essere comprovata. Si vuol quindi venir subito alla
chiusa dell' argomentazione. V ha dunque una specie di
proposizioni, parlando delle seconde , che non hanno mestieri di prova, c
ve n’ ha dì quelle che si »ede chiaro »eme mestieri. Dunque la proposizione
seconda è cosa separala dalla sua prora. Epperò è falso non potersi l’
argomentazione per raziocinio dividere in più che tre parti. Alque ex his
iltud jam pcrspicuum Da tutto questo si par chiaro che si est, esse
qnamdam argumcnlationem, in qua nc- dà una specie di argomentaiione, nella
quale ni i|uc propositio ncque adsumptio imligcat appro- 13 prima ni la
seconda proposizione ha bisogno hationis, hujusmodi, ut crrtum quiddam et
breve jj prora. Ne reco qui un esempio, brere, e che esempli causa ponamus:
Si summo opere sapien- sta garante di quanto io dico : Se si dee cercare
lia pe tenda est: summo opere stultitia vitanda di gran maniera la sapienza, si
dee di gran mais! : Summo aulem opere sapicntia pctcnda est : uiera guardarsi
dalla stoltezza : ma la sapienza si tummo igitur opere stultitia vitanda
est. tlic et dee cercare di gran maniera; si dee dunque guar udsumptio et
propositio perspicua est ; quare darsi di gran maniera dalla stoltezza. Qui si
la neutra quoque indiget approbatinne. Ex bisce prima che la seconda
proposizione £ una verità , omnibus illusi pcrspicuum est , approbationem
non abbisogna dunque di prora nè l'una nè l'altra, min adjungi, lom non
adjungi. Ex quo cogno. Di qua apparisce a chi che siasi che la prora ora
scilur ncque iu propositionc neque in adsum- si aggiunge, ed ora no; onde è
chiaro altresì quepliono contineri approbationem , sed utramque sto, che nè
nello proposizione maggiore, nè nella suo beo poiitam vim suoni tamquam
certam et minore non si contiene la prova lor propria, ma propriam
oblinerc. Quod siila est, eommodc che ciascuna di esse proposizioni posta a suo
luopartili sunt illi, qui in quinque partes distribuc- go ha una forza sua, che
ì come una determinata runt argumcnlationem. Quinque suoi igitur par-
proprietà. Clic s'ella è cosi, ben fecero coloro che Ics ejus
argumcnlationis, quac per raliocinatio- hanno divisa in cinque parli siffatto
argomcntaiieui tractatur; propositio, per quam locus is bre-_.zioue. Cinque son
dunque le parli della argoviter eiponitur, ex quo vis omnis oporlct cmanel
mcnlazionc che si conduce per via di raziocinio, ratiocinalionis:
proposilionis approbatio, per quam voglio dire: la proposizione maggiore, per
la id, quod breviter exposilum est, rationìbus adlir- quale si spone
brevemente il punto che contiene matum, probabilius et apertius IH ;
adsumptio, tutto il forte del raziocinio : la prova di questa per quam
id, quod ex propositionc ad ostenden- propositionc, per la quale ciò che
brevemente è dum perline!, adsumilur; adsumptionis approba- cspo-lo, e
ribadito con le ragioni , si rendo più tio, per quam id, quod adsumptum
est, rationi- probabile c più manifesto : la proposizione minobus firinalur;
corapiciio, per quam id, quod con- re, per la quale si pronunzia ciò che dietro
la fiuitur ex ornili argumcntalione, breviter esponi- maggiore bassi a
dimostrare: la prova di questa tur. Quac plurima» habcl argumcntalio
partes, ea minore, per cui si conferma con ragioni ciò che constai ex his
quinque parlibus ; secunda est qua- fu pronunziato : la conclusione, con cho di
corlu dripcrlita; lerlia Diportila ; deiu bipartita; quod si espone ciò
che risulta dall’ argomentazione inni controversia est. De una quoque parte
potcst fiera. Ogni argomentazione ha più parti : la più ulicui vidcri
posse consistere. numerosa conta le cinque prelato ; altre ne hanno
quattro, altre solo tre, c ve n' ha che non ne conta più clic due, ma
quest'ullima è in controversia. V ha chi crede che anche ci siano
argomentazioni di una parte sola Eorum igitur, quac Constant, esempla
Pertanto parlando dello parli del raponemus lioruin, quac dubia sunt, ralioncs
adfe- ziocinio da tulli adollalo, io ne verrò adduccndo remus.
Quinqucpcrtila argumcntalio est buiusmo- gli esempli; c di quelle che son
coiilroversc ne di : Omncs leges, iudices, ad commodum rei pu- porrò in
campo le ragioni. Il raziocinio di cinque blicac referre oporlct, et eas
ex militate communi, parli ò qui: Tullcquante le leggi, 0 giudici, si vonon ex
scriplionc, quac iu littcris est, inlerprclari. gliono riferire al bene della
repubblica, e intorba chini tirtulc et sapicntia maiorcs nostri lue- pretore
secondo il vantaggio comune, non seconrunt, ut in legibus scribcndis niliil
sibi aliud, ubi do che suonati le parole presentate dallo scritto,
salulem alque utililatcm reipublicac.proponcrcnl. Erano i nostri anhpassati di
tale sapienza c virtù, Neque eoim ipsi, quod ohcsscl, scribcre volcbant;
che nello scriver le leggi non si proponcano altro et, si scripsisscnt,
quum ossei intcllectum, repu- clic la salvezza cd il vantaggio della
repubblica, dialum iri legein iiilclligcbanl. Nomo enim leges Nuli
vulcano scriver cosa elio avesse potuto nuoIcgum causa salvas esse vull, sed
rei publicac. cere; esc pure l'avessero scrilla, conosccano come quod et
lcgibus omnes rem publicam oplime puiant administrari. Quam ob rem igitur Icges
servar! oporlal, ad eam causam scripta omnia inter prctari convenit: boc est,
quoniam rei publicac servimus, e* rei publicae commodo atqoe
utiiilate interpretemur. Narri ut ci medicina nihii oportet putire
proflcisci, disi quod ad corporis utilitatcm spectet, quoniam cius causa
est insliluta, sic a legibus niliil convcnil arbitrari, Disi quod rei publicae
conducat, proflcisci , quoniam eius causa suol comparane. Ergo in hoc
quoque iudicio desinile litteras legis perscrutari, et legem, ut aequum est, ei
utililate rei publicae considerate. Quid magis utile fuil Thebanis quam
Lacedaemonios opprimi r Cui rei magia Epaminondam The banorum
imperalorcm, quam vicloriae Thebanorum consulere dccuit? Quid hunc tanta
Tbebanorum gloria, taro darò atque cromato tropaeo carius atque antiquius
habere convenit? Scripto videlicel legis omisso, scriptoris sentenliam
consi dorare debebat. At hoc quidem salis consideralum est, nullam
esse legem nisi rei publicae causa scriptam. Summam igitur amentiam esse
eiistimabat, quod scriptum esscl rei publicae salutis causa, id non ei
rei publicae salute interpretari. Quod si leges omnes ad utilitatcm rei
publicae referri convenit, bicautem saluti rei publicae profuit, prorecto
non potest codcm faclo et comuiunibus fortunis consuluissc, et lcgibus non
oblemperasse. Qualuor auletn parlibus constai argumentatio, qtitint aut
proponimus, aut adsumimus sino approbatioue. M Tacere oportet, quum
aut propositio ex se inlelligitur, aut adsumplio perspicua est, et
nullius approbatiunis indiget. l’ropositionis approbatioue praetcrìta, qualuor
ci partibus argumcntalio tractatur, ad liunc tnodutn : ludiccs, qui ex
lege turati iudicalis, obtemperare legibus dibetis. Oblemporare aulem
lcgibus non potestis, nisi id, quod scriptum est in lege, acquattimi.
Quodenini ccrtius legis scriptor teslltnonium volunlatis suae
relinqucrc poluit, quatti quod i|»»c insieme clic ciò si Tosse inteso, la
legge sarebbe siala abolita. Nessuno inTalli vuole conservalo le
leggi perchè son leggi, ma perchè conferiscono al bene dello Sialo,
giacché luti! sono d'avviso ebe per governare il meglio la repubblica fan
di bisogno le leggi. Quale adunque £ il One per cui le leggi si deono
mantenere, tale dee esser il One a cui si vogliono interpretare tutti gli
scrìtti che son di regola allo Stato: voglio dire, che siccome noi
ci adoperiamo in servigio della repubblica, cosi dobbiam vedere d'
inlerprelar le leggi secondo il vantaggio e rutilili di essa. A quella
guisa ette si dee credere non altro venire dalla medicina, se non
ciò che aspetta al ben essere del corpo, perchè essa è per ciò appunto
islituita; alla guisa slessa si vuol credere che altro servigio non
ne venga dalle leggi, se non quello che concorre a mellcr In buon
essere io Stalo, perchè per ciò appunto osse furono stabilite. Laonde anche in
quoslo giudicio lasciate, o giudici, di ragguardar pel sonile le parole
della legge; e voi Tjrctc cosa più giusta e dicevole, se voi applicherete
la legge secondo che profitta alla repubblica. Qual piè vantaggio pei Tcbani,
che quello di stremar la potenza dei Lacedemoni? Quale altra cosa
s’addiceva meglio a Epaminonda comandante dei Tcbani, clic di
arrabattarsi per la vittoria de'suoi? Che altro potea quest’ uomo aver tanto
caro ed accetto, quanto si sfolgorala gloria dei Tcbani, e si cospicuo
trofeo e si magnifico ? Certo a ciò ottenere ei non polca che lasciare
dall' un de’ (ali il testo della legge, e por meole all’ inlcozione del
legislatore. E per vero ei facea ragione ebo non v’ Ita legge che non sia
scrìtta per lo vantaggio della repubblica. Slimava dunque essere un*
avventata pazzia che quello scritto medesimo, Il quale era fallo a
vantaggio dello Sialo, s’ interpretasse a diservigio di esso. Che se tulle le
leggi si vogliono riferire al vantaggio della repubblica, e se quest'
uomo alla salute della repubblica bene contribuì, cerio non è da inpulargli che
ei disobbedissc alle leggi con quel fallo stesso con cui provvido
al ben essere dello Sialo intiero. Ha quattro parli il raziocinio, quando
è senza prova la proposizione maggiore, o la minore, il che addivieneo come la
maggiore s'intende di per sé, o come la minore è si evidente che non ha
necessaria alcuna prova. Quando dunque la maggiore fa senza di prova, il
raziocinio Ita quadro parli, e si svolge in questo modo : Voi altri, o
giudici, clic giuraste di giudicare secondo la legge, dovete fare la
felicità c il comandamento di essa. Ma farlo voi non potete, se voi liuti
se guitc ciò clic nella legge è già scrino; poiché qual testimonio
piè certo della sua volontà potea la magna curii cura alquc diligcntia scripsit
? Quod si liucrai» non ezstarent, magno opere eas requireremtis, ut ex
iis scriptoris rolunlas cognoscerctur ; nee tamcn Epaminondae pernii tleremus,
ne si extra itnlieintn quidem esset, ut is notiis sentenliam legis
inlerprelaretur, netlum nune istum patiamur, quuiii praeslo lex sii, non
ex eo, quod apertissime scriptum est, sed ci co, quod suae causar
convenit, scriptoris roluntalem intcrprelari. Quod si vos, ìudiccs, legibus olilemperare
debelis, et id fanere non potcslis, nisi id, quod scriptum est in lego,
scquamìni, quid causaci est, quin islum cuntra legnili fecisse iudicelis
? Adsumptionis aulenti npprobalionc praeterita, quadripertila sic (ini
argunicnlalio : Qui saepcnuincro nos per Qilem f-fei I ir un t , eoruni
uraliani ruleni liabere non debemus. Si quid enim perfidia illorum
detrimenti accepcrinius, ricino erit praetcr nosmet ipsos, quem iure
accusare possimus. Ac primo quidem decipi incommodum esl; ilerunr,
stullum; terlio, turpe. Cartbaginenses aulem persaepe iam nos
fcrellcrunt. Somma igitur amentia est in eorum fide spem liabere, quorum
pciQdia lotiens deceptus sis. (Jtraquc approbatione praeterita,
Iripertita (il, hoc parto: Aut mcluamus Carlbaginienses oportet, si incolumcs
cos reliquerimus; aut corum urbem diruamus. Ac meluere quidem non
oportet. Ueslat igdur, ut urbem diruamus. Suiil onte in qui putant
uounumquam posse complexione et oportere supersederi, quum, id
perspicuum sii, quod conficialur ex ratiocinatione; quod si fiat,
biperlilam quoque bari argumenlalionem, Irne modo : Si pcperil, virgo non est:
pcpcrit autom. Ilic salis esse dicunt proponere et adsumerc, quoniam
perspicuum sii, quod confici, itur ex ratiocinalione ; quod si fiat,
compleiionis rem non indigere. Nobis aulem vidclur et omnis ratioeinatio
concludenda esse, et illud vilium quod illis displiccl, magno opere
vilandum, ne, quod perspicuum sit, id in complciiunem inferamus. Hoc
autem fieri poteri!, si comptexionum genera inteliigenlur. Nani aut ita
complccteuiur, ut in unum conducamus propositionem et ndsumptionem, huc
modo: Quod si leges omnea ad ufilitalem rei publicac referri convenil, hic
autem sciare il legislatore, se non quello di aver
egli scritta la legge con tutta la diligenza e la cura? Che se il
lesto della legge non si avesse alle mani, noi faremmo ogni potere di trovarlo,
per conoscere indi qual fosse la volontà del legislatore. E se noi non
pcrmclleremmo od Epaminonda che, ni eziandio nel caso che questo giudizio
non gli riguardasse, prclendcsse di voler inlerpretare il
sentimento della legge; mollo meno dobbiam permettere nel caso presente, in cui
la leggo è qui in pronto, eh' ei ci venga interpretando la volontà del
legislatore non già secondo quello che manifestamente è scritto, ma secondo
quello che risponde meglio alla sua causa. Che se voi, o giudici, dovete Tare
il comandamento delle leggi, e tuttavia noi potete, se voi non vi
atteneste a ciò clic nella legge è scrino, con quale appoggio voi
giudicherete che quest’ uomo non fece contro la legge? Quando poi la
proposizione minore fa senza di prova, il raziocinio è di quattro parli,
e si fa a questa maniera: Coloro che ne hanno piò volle rotta fede
non son degni che noi delle loro parole facciamo a fidanza con essi; poiché se
dalia perfidia loro noi abbiamo rilevalo alcun che di danneggioso,
non nè potremo giustamente corre cagione ad altri che a noi stessi.
Lasciarsi garabullarc una volta £ cosa incomoda; lasciarsi un’altra, è
sciocchezza; una terza, £ vergogna. Ma i Cartaginesi ne hanno gabbato delle
volle assai, e non tenutisi alla fedeltà. K dunque una matlezza avventala
Tare a sicurtà con quella fede loro, clic tenie volte nc ha perfidamente
IrufTati. Qualvolta si lascia i'una prova e l'altra, il raziocinio £ di
tre parli, come sarebbe: 0 cl conviene slar in timore dei
Cartaginesi, se concederemo loro incolumità, o ci conviene dar a terra la
città loro. Ma star in timore e' non ci conviene. Resta dunque che
ci convieuc darne a terra la città. XL. Ci son tali, che stimano
potersi talora, ed anzi dover fare a meno della conclusione, quando
sia di per sé evidente quale del raziocinio debba esser la uscita : e in
questo caso dicono di due parli il razionioio, che si enuncia cosi: Se
infantò, essa non è vergine: ma infantò già. Qui dicono esser baslevoli
le due proposizioni, perchè è chiaro a che devenga il raziocinio ; e in
questo caso non y’esser uopo di concludere. Quanto è a me, io son
di credere che qualsisbi raziocinio debba avere la sua conclusione; con
questa avvertenza però, che s'abbia attentamente da evitare il difetto
che dispiace pur a que’ tali, di introdurre nella chiusa ciò che £
evidente per s£. Si potrà evitare questo difetto, se si conosceranno bene
le varie specie di conclusione. Perocché ovvero si conchiuderà in
modo da abbracciar nella chiusa sì Cuna che l' al saluti rei pubbeae profuil,
profecto non polesl cotieni paclo et saluti communi consuluisse, et lcgibus non
oblempcrasse : aut ila, ut ci contrario couliciatur senlcnlia, hoc modo :
Summa igilur amentio est corutn in fide spem liabere, quorum
perfidia toliens deceplus sis: aut ila, ut id solimi, quoti conficitur,
infcratur, ad liunc niodum : Urbem igilur diruamus : aut, ut id, quod cam
rem, quac conficitur, sequalur necesse est. Id est Ini immolli : Si
pcperit, cuni tiro concubini : pcpcril aulem. Conficitur hoc: Concubuil
igitur cum viro. Hoc si nolis inferro, et inferas id, quod
sequilur: Kecil igitur incestimi ; et concluseris argumenlationem et
perspicuam fugeris complexiuncm. Quare in longis argumentalionibus aut et
conduclionibus, aut ex contrario, complecli oporlel: in bretibus id soluin,
quod coniicitur, exponcre, in iis, in quibus exitus perspicuus est,
consecutinnc uti. Si qui aulem ex una quoque parte putabuul constare
argumunlationcm, potermi! dicere saepe sali» esso hoc modo argumcntationcm
Tacere : Quoniatn peperit, rum tiro concubuil: nam hoc nullius iici|iic
approbationis ncque contplexionis indigere. Sed nobis ambignilale nominis
videnlur errare. Nam argumentatio nomine uno res duas significai,
ideo quod et iiiventum aliquam in rem probabile aut nccessarioni
argumentalio tocalur, eteius inventi artificiosa cxpolitio. Quando
igitur proferent aliquid huiusmodi: Quoniam pcpcril, cum tiro
concubuil, invcnlum proferent, non cipolitionem ; nos aulem de expolilionis
parlibus loquimur. xt.l. piiliil igilur ad liane rem
ratio illa pcrtineliit; otque hac distinclionc alta quoque, quac vi»
debuntur olilcere buie partitioni, propuUabimus, si qui aut adsumplonem
aliquandn tolti posse pulci, ani proposilinnem. Quac si quid habd
probabile aulnecessarium, quoquo modo eommoveat audiiorcm necesse est.
Quoti si soluni spcctarrinr, ac nihil, quo pacto Iraclorclur id, quoti
cs«ct excogitatum, referret nequaquani lanlum inlcr summos oratore» et
mcdiocrcs interesse oxislimaretur. Variare autem oralionem magno opere
oporlebil ; nam omnibus in rebus similitudo est salietalis ma
fia proposizione, come in questo esempio: Che se sia bene diesi
riferiscano le leggi tutte al ben essere della repubblica, e costui alla salute
della repubblica ita giovalo, certo ci non polca per la stessa
guisa e provvedere alla saiote comune, e farsi disobbcdienle alle leggi:
ovvero si conchiuderà in modo da trarne la chiusa dai contrario, come in
quest' altro esempio: fi dunque una maltcxza avventata porre speranza di
fedeltà in coloro, dalla cui perfìdia tante volle fosti raggirato :
oppure in modo da pronunciare ciò solo che si vien a concludere, come:
convicn dunque clic no diamo a terra la città: o in maniera da enunciare
ciò che segue necessariamente a ciò clic s'ò concluso; corno ili
questo esempio: Se quella tal donna partorì, certo ella giacque con un uomo :
ma partorì già. La conclusione i : Dunque giacque con un uomo. Cile
se non vuoi dir questa conclusione, e vuoi piuttosto enunciare ciò che ad
essa consegue, dirai: Commise dunque un incesto ; e così avrai
bensì concliiuso il raziocìnio, ma avrai schifalo la chiusa già evidente
da sè. Per lo clic nei raziocini! lunghi la chiusa si dee trarre o
dall'aggregato delle due proposizioni, ovvero dai contrario: nelle
brevi s'ha ad esporre solo ciò clic si conchiude ; e in quelle, in cui la
conclusione ì evidente, si dee pronunciare ciò che dal raziocin io ne
consegue. Se v’ Ita poi di quelli, che credano esservi raziocino anche di
sola una parte, costoro potranno dire clic basta sovente fare II
raziocinio a questa maniera : Ella ha partorito; questo è segno che giacque con
un uomo; poiché qui non v'ha bisogno nè di prova, nè di chiusa. Ma io fo
pensiero elle costoro sien tratti in errore dall'ambiguiià del nome,
poiché raziocinio è un nome solo, ma significa due cose. E infatti appellasi
raziocinio e il trovato probabile, o necessario, a favore o contro uu
che, c f artificioso raffazzonamento e pulitura di esso trovato. Quando
dunque enuncieranno a questo moiio: Poiché ella partorì, certo conobbe
qual» che uomo ; essi spolmono il trovalo, ma non la pulitura di
esso: in invece parlo delle parli della pulitura medesima. Non pcrliene
dunque ni tema eh’ io svolgo quella loro opinione ; anzi se mai ci sarà
ehi ctede-se potersi talora omettere la proposizione minore, o la maggiore, io
farò di confutarlo con la distinzione testé annunziala, e dissipare ogni
altro argomento che si combattesse con la partizione che ho
seguila. Dico intanto che se il raziocinio lidio sue proposizioni
contiene uu probabile o un necessario, ileo per uno o per altro modo
commuovere inevitabilmente l'uditore. Nondimeno, se si mirasse al solo
necessario o ai probabile, t non si facesse alcun caso del come si
tratlassc la ma Icr. Id Iteri palerii, ti non similiter scmper Ingrediainur in
argumcnlaiioncm. Nam primum oraninni gcneribus ipsis distinguere convcnit
oralioncm, hoc est, tura indnclioric uti, tura raliocinalionc. Deinde in ipsa
arguraenlatiunc nuli scraper a proposilione inciperc, ncc scraper quinquc
parlibus abuti, ncque cadcm ratione parliliones cxpolirc ; scd tura ah
adsumptiunc inciperc licci, lum ab approbationc alterutra, Iran utraquc,
tura hnc, lum ilio genere complexionis uli. Id ut perspicialur, aut
seribamus, ani in quolibct «empio de iis, quac propesila sunl, hoc idem
cicrceamus; ut quam Tacile facili sii Ac de partibus quidem
argunicnlalionis salis nubis dirlura videtur. Illud aulcm volumus
inlclligi , nos probe tenere aliis quoque rationibus Iraclari
argumentalioncs in pliipisnphia mullis el ubscuris, de quibus ccrtum est
arlilicmni conslitulura. Veruni illa nobis abhorrcrc ab usu oratorio visa
sunt. Quao pertincre aulem ad diccndum pillarmi*, ca nos coniraodius,
quam celeros, allendissc non adlìrmamus ; perquisilius et
diligcnlius conscripsisso pulliccmur. Nane, ut iiistiluimus, prollcisci
ordine ad rcliqua pergemus. Ucprchensio csl, per quam argumenlando
adversariorum coullrmatio diluilur, aut infirmatur, aut cteiolur. Ilare
Tonte invcnlionis codcm utelur, quo utitur confìrmatio, proplerea quod,
quibus ex locis aliqua res confirmari potcst, iisdem polcsl ex
locis infirmari. Nibil cnim considerandum est in bis omnibus
invenlionibus, nisi id, quod personis aut negotiis attributura est. Quare
invenlioucm et argumentalionum expolitioncm ex itlis, quac snlc
praecepta sunt, liane quoque in parlem orationis IransTcrri oportebil.
Verumtamen, ut quacdaui praeccplio detur liuius quoque partii, cipouenius modos
reprehensionis ; quos qui obscnabuut, facilius ca, quac conira dicenlur,
dilucre aut infirmare potcrunl. Omnis argunienlatio repreliendilur, si
aut ex iis, quac sinopia sunt, non concedilur aliquod unum plurale, aut, his
concessi!, complexio ci iis conGci ncgalur, aut si gcnus ip s uni
argumcnlatiunis «itiosum oslendilur, aut si contro firmam argumcnlaliunem
alia aeque firma tcria che s' ha in mento, non si crederebbe
che passasse quella si grande distanza che pur passa dai sommi ai
mediocri oratori. È poi di troppa necessità variare il discorso, poiché
in tulle cosa la somiglianza d madre di stucchevolezza. Detrassi variare,
se entreremo nell’ argomentazione ora d' uno, ora di un altro modo : perchè
innanzi a lutto conviene aver l' occhio di ornare il discorso con
la varietà delle argomentazioni, voglio dire, Tar uso ora della
induzione, ora del raziocinio. Inoltre nella argomentazione istessa non
va bene cominciar sempre dalla proposizione, nè sempre Tare, sto
per dir abuso, delle cinque parti, nè rafTazzonar alla stessa guisa i membri
deU’argomcnlaxiunc ; ma ora giova cominciar dalla proposizione minore, ora
dalla prova dell' una, o da ambe le prove delle due proposizioni, ora da
questa, ora da quella specie di chiosa. Perchè questo si possa ben
ullncìare e scorgere, Tacciamone prima una bozza di scrittura, cd
esercitiamoci in qualche csempio relativo alla materia che dobbiamo trattare :
Tatto questo, la varianza nel discorso ne verrà più agevole a introdurre.
Mi pare di aver detto a bastanza sopra le parti dell'argomentazione.
Voglio però che s’ intenda come io so bene che in filosofia le
argomentazioni si maneggiano per altri modi, che paiono oscuri, intorno ai
quali v’ha un sistema proprio di trattazione. Ma io credo che quei modi
non si conTacciano punto con gli usi oralorii. I modi che si debbono
seguire nelle orazioni io non dirò d'avcrli avvertiti meglio degli altri
; ben Tu Tede d'avcrli cerchi con più diligenza, e scritti con più
precisione. Ora, come ho proposto, passerò alle altre cose che sono
ordinatamente da dire. ConTulazionc è quella parie del discorso,
per la quale col mezzo degli argomenti si ribalte, o s'indebolisce, o si
scema la contermazionc degli avversarii. La cunTutazione dee attingere
allo stesso Tonte d'iiivcnlive, a cui attingono le prove, poiché per gli stessi
modi onde una cosa comprovasi, la si può altresì confidare. I’erò in queste
inventile si dee aver mira di non far uso se non di quello che può esser
appropriato alle persone o aile cose. Ond’è die anche in questa parte
dell'orazione si dee ripetere quanto s’è insegnalo prima circa al trovare
le argomentazioni e all’ a frazionarle come conviene. Nondimeno perchè anche
questa parte abbia in proprio qualcosa di regole, metterò innanzi i modi
onde si può fare la confutazione: i quali daranno all' oratore di polcrc
più leggermente ribattere e indebolire le obbiezioni che gli
fossero poste in mezzo. Si confula ogni specie di argomentazione col
ricusar di concedere uno o più puuli di quelli diedra pigliati per aut
flrmior ponilur. Ex iis, quae sumuntur, ali. quid non concedilur, quum
aut id, quod credibile dicunt, ncgatur esse oiusmodi, aul, quod comparabile
putanl, dissimile ostenditur, aul iudicalum aliam in partcm traducilur, aut
omnino iudicitim improbnlur, aul, quod signum esse adversarii dixerunl,
id eiusmodi ncgatur esse, aut si complexio aut una, aul ulraque ex parte
reprehendilur, aut si enumeratio falsa ostenditur, aut si simplex
conclusio falsi aliquid conlinere ilemooslratur. Nani omne, quod sumitur ad
argumenlandum site prò probabili sire prò necessario, neccsse est sumaturex bis
locis,ulante ostendimus. Quod prò credibili sumplum crii, id inflrmabilur,
si aut perspicue falsum eril, hoc modo: Remo est, quin pecuniam, quam
sapirnliam mali! ; aut ex contrario quoque credibile aliquid habebil, hoc modo:
Quis est, qui noti oflicii cupidior, quam pecuniacsil? aut erit omnino
incredibile, ut si aliquis, quem consto! esse avarum, dica! alieni)»
mediocris oflicii causa se maximani pecuniam neglexisse;aut si, quod in
quibusdam rebus ant hominibus accidit, id omnibus dicitur usu venire, hoc
paclo: Qui pauperes surit, iis anliquior officio pecunia est. Qui locus
desertus est, in eo cacdctn factam esse oporlet. In loco celebri
homo occidi qui poluit ? aut si id, quod raro flt, Aeri omnino
negatur, ut Curio prò Fulvio: > Nemo potest uno aspectu ncque
praetericns in amorem incidere. > Quod autem prò signo sumetur, id
ex iisdem locis, quibus eoofirmatnr , inlirmabilur. Nam in signo
primum verum esse oslcndi oporlet; deinde esse eius rei signum proprium,
qua de agitar, ut cruorem caedis ; deinde factum esse quod non
oportuerit, aut non factum quod oportuerit; postremo scisse eum, de quo
quaerilur eius rei iegcm et consuetudinem. Nam eae res sunt signo
altributae ; quas diligenlius aperiemus, quum separatim de ipsaconieclurali
constilulione dicemus. Ergo liorum unum quidquc in reprehensione,
aul non esse signo, aut parum magno esse, aut a se potius.qusm ab
adversariis stare, aut omnino falso dici, aut in aliam quoque suspicionem
duci posse demonstrabilur. mano, o col negare, quando pur si
concedano, che si possa Irar da essi la pretesa illazione, o col
far apparire viziosa quella tale argomentazione dell’avversario, o se ad una
argomentazione forte se ne contrapponga un'altra egualmente forte, o più
forte di quella. Dei detti punti si ricu-a di concederne uno o più,
quando si oppone non esser credibile ciò che ci vien dato per tale, o
si mostra essere di specie diverse le cose che ci si vorricno dare
per paragonabili, o si devia il giudichi da un punto per fermarlo sopra un
punto secondario, o il giudicio stesso si riprova in lutto; o se si
nega essere indizio o segno quello che dagli avversarii si caratterizza per
tale, o se si ribatte la conclusione del raziocinio come non corrispondente ad
una o ad ambedue le premesse, o si mostra falsa la enumerazione, o si
dimostra che almeno la chiusa contiene alcun che di falso. Poiché
ogni punto che si adopera per fare l'argomentazione, sia rispetto al probabile
e sia al necessario, non può che non sia preso di qui, siccome addietro io
dimostrai. XUII. Ciò che ci sarà dato per credibile, si abballerà, o clic
evidentemente sia falso, come sarebbe il dire : Nessuno è che non ami meglio
il danaro che la sapienza; o che abbia qualcosa di credibile in
confronto del contrario, come se si dicesse: Chi v’ha che non abbia più voglia
di una carica,che di danaro? o che sia affatto incredibile, come
sarebbe se alcuno, clic si sa essere un gretto, una pillacchera, dicesse
d’avere un ufficio mediocre anteposto a una cospicua somma di danaro: o
se ciò che abbatte solo a certi uomini o cose si dicesse esser solilo
abbattere a lutti, come sarebbe il dire: Chi è povero ha più a caro il
soldo che non un ufficio pubblico. In luogo solitario dee certo
essersi commessa l’uccisione. In luogo frequentalo come potè un uomo
essere tolto di vita? o se quello che accasca di raro si dicesse che non
accasca mai, come disse Curio in quella a prò di Fulvio: a Nessuno può
lasciarsi andare in amore al veder di passaggio e a prima giunta una
persona. » Quando qualche incidente verrà preso per indicio e segno, esso
si abbatterà con quegli stessi argomenti, con che si avvalora. Perocché, la
prima cosa.deo mostrarsi ch’esso è segno vero; dipoi che i un segno
proprio della cosa di che si (ratta, come il sangue è segno di uccisione;
inoltre, che fu fallo ciò che punto non si doveva, o non fatto ciò
che pur dovevasi; da ultimo, che l’ accusato sapea troppo bene a che
legge quel tal fatto e a die consuetudine si opponeva. Queste son le
cose che si riferiscono al segno, delle quali darò più distinta
spiegazione quando mi verrà da parlare separatamente delle cause
congetturali. Or dico Quum autcm prò comparabili nliquld in ducetur,
quoniam iti per simililudincm maxime Iraclalur, in rcprehendcndo
convellici simile id negare esse, quod conferelur, ei, qnicum confcrelur.
Id Ceri poteri!, si demonstrabilur diversum esso genere, natura, vi,
magnitudine, tempore, loco, persona, opinione ; ac si, quo in numero
illud, quod per simililudincm adfcrelur, et quo in loco hoc, cuius causa
adferetur, haberi conveniat, ostcndclur. Deinde, quid res cum re
ditterai, demonstrabimus: ex quo doccbimusaliudde co, quod
eoniparabilur,et de eo,quicum comparab itur, exislimari oporlere. liuius
facullalis maxime indigemtis, qtium ea ipsa argumcnlatio, quac per indùclionem
Iraclalur, eril reprehendenda. Sin iudicalum aliquod inferelur, quoniam id ex
bis locis maxime firmalur: laude corum, qui iudicaruut;
similitudine eius rei, qua de agiiur, ad cam rem, qua de iudicatum est;
et commemorando non modo non esse reprebensum iudicium, sed ab omnibus
approbalum ; et dcmonslrando difilcilius et maius fuissc id iudicatum
quod adleralur, quam id, quod inslet : contrari» locis, si res aut
vera, aut veri similis permittet, inCrmari oporlebil. Alque crii
observandum diligentcr, ne niliil ad id, quo de agalur, perlincal id,
quod iudicatum sii ; et videndum, ne ea res proferalur, in qua sii
offensum, ut de ipso, qui iudicaril, iudicium (ieri videatur. Oportet
aulem animadverlere, ne, quum aliler sint multa iudicata, solitarium
aliquod aut ramni iudicatum adleralur. Nani bis rebus auctorilas ìudicali
maxime potesl inCrmari. Alque ea quidem, quae quasi probabilia sumentur,
ad Iiudc modum tentari oporlebil. Quae vero siculi necessaria
induccnlur, ca si Forte imilabuntur modo necessariam argumenlationem,
neque crunt eiusmodi, sic reprehendentur. Primum complexio, quae, ulrum
con adunque che nella conFutatione s’ha a dimostrare qualcuno
di questi punti, ciò sono, o quel tale non esser segno del Fallo, o
esserlo troppo lieve, o star a vantaggio dell' oratore più che degli
avversarli, o esser dolio segno Falsamente, o poter esso dar sospetto che
l atrare sia ben d' altra maniera. XLIV. Allorché vten posto in campo
alcun che siccome paragonabile, essendo che questo sì tratta per mezzo
della similitudine il più delle volte, converrà nella confutazione
asserire clic il paragonalo manca di somiglianza con quello a cui si
paragona. Il che si potrà fare, dimostrando che Fra l'uno e l'altro v’ha
diversità nel genere, nella natura, nella Forza, nella grandezza, nel
tempo, nel luogo, nella persona, nell' opinione; o dimostrando in qual
conio c pregio s'Im da tenere il punto che si reca per istituire la
somiglianza, in quale quello con die esso si vuol ragguagliare.
Dipoi si dimoslrcrà in che risieda la diOcrcnza da cosa a cosa; e di qui
si verrà significando altra essere l'idea che s'ha da avere di ciò che
paragonasi, altra l’idea di ciò con che quello si paragona. I)i questa qualità
d’argomentazione abbiam mestieri massime allora che saran da confutare
gli stesa! argomenti della induzione. Se verrà esposto qualche
punto già passala in giudicio, siccome esso si rafTerma c consolida o con
la lode di quelli clic giudicarono, o col mostrare la somigliania
che v'ha Ira la cosa giudicala c quella che trattasi attualmente, o col
rammentare che il giudicio non pure non ebbe biasimo, ma che anzi tulli
se no sono lodali, o col mettere a vedere che il punto giudicalo
era più rilevante c più difficile del paolo che non ancora ha subito il giudicio;
se verri esposto, dico, questo tal punto, converrà confutarlo col mezzo
de’ luoghi contrarli, secondo che il fallo o vero o vcrisimile lo
permetterà. Sarà altresì da attendere con diligenza che ciò che trattasi abbia
relazione a ciò die Fu giudicato, ma vedere che non si ripeta cosa in die il
giudice abbia posto il piede in Fallo e incespicalo, a causa che
non paia che si voglia Fare il giudicio delio stesso giudicatore.
Conviene anche osservare clic se molli punti furono diversamente giudicati, non
si alleghi qualche punta isolalo c non troppo solilo n venire in
giudicio; poiché per questa via si può addcbolirc l'autorità dd giudicio
che Tu fatto. A questo modo adunque converrà che sien maneggiati gli
argomenti che si allegheranno siccome probabili. XLV. Quelli poi
che si allegassero siccome necessarli, se per avventura imiteranno
l’argomentazione necessaria, senza però esser necessari), si confuleranno
di qucsla maniera. Innanzi a tutto cesserò, Betel lollerc, si «era esl,
numquam reprchendelur ; sin falsa, duobus moilis, ani conversione, aul alterius
parlis inflrroalione. Conversione, hoc modo: «Nani si vcri'lur,quid cum
accuies, qui est probus? Sin inverecundum animi ingenium possidet,
Quid eum accuscs, qui id parvi audilu acslimd?» llic, sive vereri diieris,
conccdcndum hoc pillai, ul neges esse accusandum. Quod conversione
sic reprehendetur : linmo vero accusandus esl. Nam si vcrclur,
accuses ; non cnim parvi audilu acslimabit. Si inverecundum animi ingenium
possidet, la me n accuscs; non cnim probus esl. Allcrius autem parlis
infirmaliono hoc modo rcprcheiidclur: Verum si vcrclur, accusalionc lua
corrcclus ab erralo recedei. Enumcralio vinosa intelligilur, si aul
praeterilum quiddam dicemus, quod velimus concedere, aut infirmimi
aliquid adnumcralum quod aul conira dici possi!, aul causa non sii quarc
non honeslc possimus concedere. Praclcrilur quiddam in ciusmodi
cnumeralionibus : Quoniam habes islum equum, aul cnicris oporlct, oul
hcreditale possidcas, aul muncre accepcris, aul domi libi ualus sii, aul,
si horum nihil est, surripueris neccssc est : sed neque enusli, neque
hcrcdilale venil, ncque doualus est, neque domi nalus esl ; Decesse
esl ergo surripueris. Hoc commode reprehendilur, si dici possil ex hoslibus
equus esse captus, cuiua predac seclio non venierii ; quo iliato,
infirmelur enumcralio ; quoniam id sii induelum, quod praeterilum sii in
enumeralione. Altero autem modo rcprchendilur, si aul conira aliquid
dicelur, hoc est , si esempli causa ut in eodem versemur, poteri! oslendi
hcrcdilale venisse; aul si illud estremimi non crii turpe concedere, ut
si qui, quum diserint adversarii : Aut insidias faccre voluisli, sul
amico morem gessisi!, aut cupfdilale clalus cs, amico se morem
gessisse faleaiur. Simplex aulem conclusio reprehenditur, si hoc,
quod sequilur, non videalur necessario cnm eo, quod anleccssit,
cohacrere. Nani hoc quidem ; Si spirilum ducil, vivil : Si dics esl, lucei
! ciusmodi esl, ut cum priore necessario posterius cohacrere
videalur. Hoc aulem: si maler est, diligi! : Si aliquando peccavi!, numquam
corrigelur ! tic convellici reprehendi, ul demonslrolur non ne
non si confuterà mai il dilemma, il quale da sè dee togliere o
l'uno o l'altro dei punii conceduti, se è dilemma vero; o se falso, si
confuterà in due modi, o invertendo, o abbattendo l'ima o l'altra
proposizione. Si inverle cosi: a S’cgli sente rossor, perchè l’accusi,
Mentre è da por fra i buoni ? Se affolli inverecondi in seno ha
chiusi, Perchè ne lo incagioni, Mentre d'aver infamia ei non si
cura?! Qui, sia che lu dica esser verecondo costui, sia che
inverecondo, l'avversario le lo concede, affinchè lu dica clic e' non si dee
accusare, àia lu confuterai cosi per inversione: Anzi ei dee pur
accusarsi, giacché se è verecondo, si dee, perchè non porrà a non calere
la infamia; e se nulre affolli inverecondi, si dee dot pari, poiché non è
punto persona proba. Se poi lu vorrai addebolire l’una delle due
proposizioni, dirai cosi: che s'egii è pur verecondo, venendosi per la
tua accusa a emendare, si cesserà dal suo fallo. La enumerazionc si parrà
difettosa, o se riporteremo qualche punto già omesso, il quale vogliamo
concedere, o se nell’enumerazione si sarà inserita qualche cosa mal
fondala, la quale o possa essere contraddetta, o non offra ragione perchè
onestamente la si possa concedere. Un esempio di punto omesso si ha
nella seguente enumerazione: Poiché lu hai questo cavallo, è inevitabile
elio tu o lo abbi compero, o acquistato in eredità, o avuto in dono,o che
li sia nato in casa: che se nessuna è vera di queste eose.lu lo del cerio
aver rubalo. Ma nè l'hai compero, nè acquistalo in eredità, nè avuto in dono,
nè ti è nato in casa; è necessario dunque che lu l'abbi rubato. La
confutazione qui viene a taglio, se si può dire che il cavallo fu (olio
ai nemici, ma clic non era compreso nella parte di preda che fu venduta.
Aggiunto che sia questo, la enumerazione verrà riballula per difettosa,
poiché s'é posto in campo un punto che v’era stalo pretermesso.
XLVI. Si fa la confutazione in secondo modo, se si contraddirà un qualche
punto, voglio dire, per attenermi all'esempio testé citato, se si
potrà mostrare che colui ebbe quel cavallo per eredità: ovvero se
un tal punto si potrà ultimamente concedere senza vergogno, come se, dicendo
gliavversarii: 0 tu hai voluto tender insidie, o fare a fantasia dell'amico, o
li se'lasciato vincere alla cupid già, si rispondesse: si, ha fallo a fantasia
dell'aulico. Si confuta la conclusione sola, se Cièche segue non sembra
legarsi necessariamente con ciò die precesse. Queste conclusioni: Se
respira, dunque vive; se è giorno, dunque è chiaro; son tali clic
il detto poi si lega necessariamente col detto prima: laddove queste: Se è
madre, dunque ella Cessarlo cum priore posterius cobaerere. Hoc genita cl
celerà necessaria, et omnino onmis arguinenlalio, el eius reprcliensio maiorem
quamdam vini cornine!, el lalius palei, quam hic esponilur; seti
eius arlilicii cognilio ciusmodi esl, ni non ad buius arlis parlem aliquam
adiungi possil, sed ipsa separatine longi lemporis et magnae alque arduac
cognilionis indigeni. Onore illa nobis alio tempore alque ad aliud
instilulom, si facullas crii, explicabuntur; nunc bis pracceplionibus
rbelorum ad usum oralorium conlcnlos non esse oporlcbil. Quum
igilur et iis, quac sumunlur, aliquid non concedilur, sic
iulirmabllur. Quum aulem, liis concessis, complciio ei bis non
conOcilur, hacc erunl considerauda : mi in aliud conficialur, aliud
dicalur hoc modo : Si, quum aliquis dical se profeetum esse ad exerrilum,
contro eunt quis tclil bac uli argumcnlalionc: Si venisses ad excrcitum, a
tribunis mililaribus visus esses ; non es aulem ab bis visus; non cs
igilur ad exercilum profcclus. llic quum concesseris proposilioncm ut
adsumplioncm, coinplexio est inlirmamla. Aliud enim, quam cogebalur,
illulum est. Ac nunc quidem, quo facilius res cognosccrelur, perspicuo el
grandi vitio pracdilum posuiwus ciemplum; sed saepc obscutius
posilum vilium prò vero probalur, quum aul parum meniiucris, quid concesseris,
aut ambiguum aliquid prò certo conccsseris. Ambiguum si concesseris
cs ea parte, quam ipse intcllexeris, eam parlem si adversarius ad aliam
parlem per complciioncm veli! accommodare, demonslrare oporlcbil non
ci eo, quod ipse concesseris, sed ex eo, quod ilio sumpseril,
confici complexionem, ad liunc mollimi : Si indigelis pecuniac, pccuniam non
babetis ; si pccuniam noti habetis, pauperes eslis : indigelis autem pccuniae :
mcrcalurae enim, ni ila cssel, operano non darelis : pauperes igilur
eslis. Hoc si rcpreheqdilur: Quum diccbas : Si indigelis pccuniae,
pccuniam non habetis ; hoc inlclligcbam : Si propler inopiam in egcslatc eslis,
pecuniam non habetis ; et idcirco concedebam : quum aulem hoc sumebas :
Indigelis autem pecuniac ; illusi accipicbam; Vullis aulem pecuniac plus
ha bere. Exquibus conccssionibus non coulìcilur hoc: I auperes igilur
eslis ; eonilcerelur aulem, si libi primo quoque bue conccssissem, qui
pccuniam maioreui velici babere, cum pccuniam non habcrc.
ama: Se una volta ha fallalo, dunque dal suo fallo non si
correggerà più mai ; converrà vengano confutate in modo che si dimostri
il detto poi non collegarsi col dello innanxi. Queste e le altre
argoinenlaiioni necessarie, ansi al tulio ogni argomentazione con le relative
risposte coufulaloric hanno una forza maggiore, e pigliano più del largo
clic qui non è dello; ma il conoscerne l'arlifizio è cosa che non si può
trattare in unione con veruna di queste parti della retorica,
perchè vorrebbe per se sola una trattala assai lunga, cd esigerebbe
di grandi c difficili cognizioni. A tema sifTallo io darò mano, se pure io ne
avrò il potere, quando me ne verrà acconcia altra occupazione: per ora
conviene ch'io mi stia contento a porger questi precetti retorici relativamente
all'uso che n’ ha da far l'oratore. Cosi dunque, come detto è, si
ribalteranno i punti clic non si vuol concedere. Qualora poi, concessi
che sieno i punii, non ne vien traila una cnnclusione che quadri,
si dovrà osservare se sia stato conchiuso diversamente da quello che
comportano le premesse; come in quesla argomentazione, dalo che un tale
volesse opporre a un lai altro che dicesse d’essersi mosso in via per
l'esercito: Se tu fossi venuto all'esercito, saresti stato veduto da'lribuni
militari; ma non sci stalo da loro veduto: tu dunque non ti
se'mcsso in via per aU'esercilo. Qui tu concederai la maggiore e la minore, ma
dovrai confutar ta illazione. Per dire il vero, a causa che si intendesse
meglio quello che io dico, ho qui allegalo un esempio che ha un difetto
grave o facile ad esser conosciuto; ma avviene di sovente che per essere il
difetlo poco riconoscibile, si piglia per vero quello che non lo é ; e
ciò avvidi quando o non avrai bene a memoria quali punii lisi conceduti,
o avrai conceduto per cerio quello che non era che ambiguo. Se
avrai concesso l'ambiguo in quella premessa che li era noia, conterrà che
l'avversario, se vorrà connettere quella premessa con un' altra per
mezzo d' una conclusione, dimostri che non dal punto che tu bai conceduto,
ma da quello elio egli ha introdotto si trae la conclusione. Per esempio
: Se bisognate di danaro, dunque voi non ne avete : se non nc avete,
dunque siete poveri: ma di danaro voi bisognale, poiché so ciò non
fosse non vi sareste dati alla mercatura : dunque sicle poveri.
Questa argomentazione si confuta cosi : Quando dicevi : Se bisognale di
danaro, dunque voi non nc avete, io ci capiva : Se per sostenere
inopia siete in bisogno, dunque non avete danaro; eper questo io
concedeva. Quando poi lu aggiungevi : àia voi bisognate di danaro; io invece
trovo clic dovevi soggiungere : Ha volete venir iu più Saepe autem
oblilum pulanl, quid concesseris, et idcirco id, quod non conficitur,
qnasi conficialur, in conclusione infertur, lioc modo: Si ad illum
hercdilas vcniebat, veri simile est ab ilio necalum. Deinde hoc approbant
plurimis terbis. Tosi adsmnunt: Ad illum autem hcredilas vcniebat. Deinde
inrertur: lite igilur occidil; id quod ex iis, quae sumpserant, non
conficitur. Quare observare diligenlcr oportcl, et quid sumatur, et
quid ex his conficialur. Ipsum autem genus argumentalionis vitiosum his de
causis ostendelur, si aul in ipso viliuni crii, aut si non ad id, quod
inslituit, accommodatiilur. Atque in ipso vitium crii, si omnino totum
falsum erit, sì commune, si vulgare, si leve, si remolum, si mala dellnitio, si
controversum, si perspicuum, si non concessimi, si turpe, si offensum, si
conlrarium, si inconstans, si adversum. Falsum est. in quo perspicue
mcndacium est, hoc modo: Non polesl esse sapiens, qui pccuniam negligi!.
Socrates autem pecuniam negligebal: non igilur sapiens crai. Commune
est, quod pillilo magis ab adversariis, quam a nobis fucil, hoc
modo: Idcirco, iudices, quia vcram causam habebam, brevi peroravi. Vulgarc est,
quod in aliam quoque rem non probabilem, si none concessum sii,
transferri possi!, ut hoc: Si causam vcram non haberet, vobis se,
iudices, non eommisissct. Leve est, quod aut post tempus dicilur, hoc
modo: Si in menlem venisset, non commisissetiaut perspicue lurpem rem levi
legere vult defensionc, hoc modo : a Quurn le expetcbanl omnes,
fiorentissimo Regno rcliqui : nunc dcserlum ab omnibus Summo
pcriclo, solu' ut restituam paro. > XI Remotum est, quod
ultra quam satis est, petitur, huiusmodi : Quod si non P. Scipio
Corneliam filiam Ti. Giaccho collocasset, atque ex ea duos Gracchos
procreasse), tanlae seditiones natae non essenl ; quare hoc incommodum
Scipioni ascribendum videtur. ltuiusmodi est illa quoque conquestio :
« t'iinam ne in nemore Pelio securibus a Coesa accidissct abiegna
ad terroni Irabcs I copioso danaro. Dalle quali concessioni non s' inferisce
già: Voi dunque siete poveri. Inferirebbcsi bensì, se io t’ avessi prima
concedutoianchc questo. che chi vuol venire in più copioso danaro, ei non
ha donaro. Spesse volte credono gli avversarli che tu li sii smcniicato
ciò che bai conceduto, epperò mcltono nella conclusione come inferito ciò
che non lo fu, per esempio: se toccava o lui l’eredità, è
verisimilc che da lui l’ infelice sia sialo ucciso ; e a provar questa
illaiione si distendono in parole. Indi vengono alla proposizione minore:
Ma l’ erodila toccava a lui. In fine conchiudono: È egli dunque l’
uccisore : il che dalla delta premessa non si può inferire. Il perchè si
vuole avvisar con attenzione c ciò che vien aggiunto alla minore, e
ciò che giustamente sia da conchiuderne. Questa specie di argomenlazionc
si mostrerà esser viziosa o per l'uno o per Patirò de’ seguenti capi,
cioè se il difetto risederà in essa, e se essa non sarà acconcia al punto
che si trossina. Risiede il difetto nella argomenlaxione, se essa è al
latto falsa, se comune, se volgare, se leggera, se rimota, se inchiude
una definizione errala, se ì questionevolc, se perspicua, se inopportuna, se
turpe, se offensiva, se rontraria, se inconsunto, se avversa. E falsa
quando vi si avvista chiara la menzogna, come sarebbe: Non può esser
sapiente chi fa nessun conto dei danari: ma Socrale di danari non facea
conto veruno: non era dunqne sapiente. Comune è quando non giova n enie
più a noi che agli avversarli, come a dire : Per ciò, giudici, io mi spacciai
di corto, perchè avea per le mani una causa giusta. Volgare è quando essa può
accomodarsi, se ne venga il concio, anche a un' altra cosa non probabile,
come il dire: Se non avesso dai suo lato la giustizia della causargli, o
giudici, non si sarebbe affidalo a voi. È leggera, so si diresse dopo il
suo tempo, per esempio: Pur che se ne fosse ricordalo, non avrebbe commesso
il lai fallo: o se volesse con lieve difesa giustificare un'azione aperta
mente turpe, come qui: « Quando avevi amicizie e in fior il regno,
Olii poco io l' essendo, ito ne sono. Or die perigli, e t' han già tulli
a sdegno, Peno so! io di ritornarti in trono, a E rimota
l'argomentazione, quando si pianta da punti più ionlanichcnon bisogna,
come la seguente : che se P. Scipione non avesse collocala la
figlia Cornelia in matrimonio a Tiberio Gracco, o non avesse da lei avuti
nipoti i due Gracchi, non sarebbero addivenutesi gravi sedizioni: il perchè
questo infortunio s'ha da riputare a Scipione. Di fatta simile ì altresì
quel lagno che siiegge in Ennio : iDngius cnim reputila est, quam rcs
postulibal. Mala (leQnilio est, qiium aut communia deseribit, hoc
modo: Scdiliosus cstis, qui inalos atque inulilis est civis (nam hoc non magis
seditiosi, quam anibiliosi, quam calumniatoris, quam alicuins hominia
improbi vini deseribit); aut falsum quiddam dicil, hoc pacto : Sapientia
est pecuniae quaerendno inlclligentia ; aut aliquid non grave ncc magnum
conlinens, sic: Stullilia est immensa gloriae cupiditas. Est liaec quidem
stullilia, sed ex parte quadnm, non ex omni genere definita. Controvcrsum
est, in quo ad dubium demoustrandum dubia causa adferlur, hoc. modo : x
Elio tu, di, quibus est polestas motus superùm atque inferòm, l’accm
iulcr scse conciliant, confermi! concordino]. a l’erspicuttm est, de quo
non est controversia, ut si qui, quum Orcstcn accuset, planimi
facialab co malrem esse ocrisam. Non concessum est , quum id, quod
augetur, in controversia csl, ut si qui, quum Ulixen accuse!, in hoc
maxime commorclur : Indignimi esse ab liomine ignavissimo virum
fortissiinum Aiacem necalum. Turpe est, quod aut co loco, in quo
dir-ilur, aut co Domine, qui dicil, aut co tempore, quo dicilur, aut iis,
qui audiunt, aut ea re, qua de agitur, indignum propter inhonestam rem
videtur. OlTensum csl, quod corum qui audiunt, voluntatem laedit: ut, si
qui apud cquilcs Homnnos, cupidos iudicandi, Caepionis legem iudiciariam
laudcl. Conlrarium est, quod contra dicilur atque li, qui audiunt,
fccerunl: ut si qui apud Alcxandrum Maccdonem conira aliquem urbis
expngnalorem dicerct uiliil esse crudelius, quam urbes diruerc,
quum ipsc Alexander Tlicbasdiruissel. Inconslans est, quod ab codem de
eadem re diverse uicilur : ut si qui, quum dixeril, qui lirlutcm
Italica!, cum nultius rei ad bene vivrndum indigere, neget postea sinc
bona valetudine posse bene vivi : atti, se amico adesse proplcr
benevolentiam, sperare tamen aliquid commodi ad se pervenlurum. Advcrsum csl,
quod ipsi causac aliqua ex parte oIDcil, ut si qui hoslium vini et copias
et felicitatoli au gcat, quum ad pugtiandum mililcs adhortetur. Si
non ad id, quod insliluilur, accommodubilur aliqua pars argumenlalinnis, borimi
aliquo in vitio reperielun si plura pollicilus pauciora dcmonslra
poiché è ripetuto da più lontano che la circostanxa non richiedeva.
Incltiude definizione errata, quando o spiega cose comuni, a questo modo ;
Sedizioso è colui che fa da cattivo c inutile cittadino (poiché questo
spiega il carattere del sedizioso né più nè meno che del calunniatore,
del rollo alla ambixione, e di altri malvagi); o dice alcun che di
falso, a questo modo: È sapicnxa I’ essere esperto a cercare danaro; o
contiene alcun che di non graie nè grande, come : È stoltezza un' immensa
brama di gloria. Anche questa, 6 vero, è una specie di stoltezza,
ma non è definita che per parte, e non nella sua generatili. Qucslionevolc
è I' argomentazione, quando per dimostrare una cosa dubbia si reca un'
altra cosa o un esempio dùbbio, come il seguente; « Con me far
cruccio ? ve’ gli dei contenti D'csser concordi e consigliarsi a pace:
E sì che a scombuiar ci son possenti Quanto v’ ha in cielo, e quanto in
terra giace. Perspicua è l' argomentazione, quando contendo sopra
un punto chiaro e confessato ; come chi volendo accusare Oreste, dimostrasse
ch'egli ha uccisa sua madre. Inopportuna è quando ciò che si
amplifica è il punto stesso della controversia, come allora che alcuno,
accusando Ulisse, si fermasse specialmente in questo: È cosa indegna cito
il fortissimo Aiace sia stato morto da uu uomo così vile come se mai
alcuno. Turpe, è quando per la vituperevole cosa eh' essa tratta riesce
indegna o del luogo in che la si dice, o della persona che la
espone, o del tempo in che viene esposta, o di quelli che l’ascoltano, o
della causa stessa che si trassina. Offensiva è, se si urlano le voglie
degli uditori, come se alcuno alla presenza dei cavalieri Romani, vogliosi
d'esser soli in fare i giudicii, lodasse la legge giudiciaria di Cepionc.
L. Contraria è quando si parla contro a ciò che fecero quelli clic
stanno ad udire, come se alcuno in presenza di Alessandro Magno, movendo
rampognosc parole coui ro alcuno che avesse espugnata una terra, si dicesse non
v’ esser fallo più crudele che il dare a terra una città, mentre lo
stesso Alessandro avea dato a terra la città di Tebe. È incostante se lo stesso
oratore, dopo aver parlalo a un modo di una cosa, ne parli poi a modo
diverso; come chi avendo prima asserito che chi possedè la virtù non
difetta di nulla al ben vivere, dicesse poscia che senza prospera salute
non si può viver bene;o se dicesseche ei favoreggia l'amico per sola
bonevoglicnza,ma che tuttavia spera sia per venirgliene qualche buon
servigio. Avversa è, quando in qualche parte nuoce alla stessa causa,
come se chi è suii’csortare i soldati a coni bit; aut si, qmim tolum
debebit ostcndcrc, de parte aliqua loquatur, hoc modo: Mulicrum
gcnus avarimi est ; nam Eriphjla auro viri vitam vendidii : aut si non
id, quod accusabilur, defcndcl, ut si qui, quum ambitila accusabilur,
manu se forlem esse defcndcl; ut Ampbion apud Euripidcm (ilem apud
Pacuvium ), qui vituperala musica, sapicntiam laudai ; aut si rcs ex hominis
vilio vituperabilur, ut, si qui doctrinam ex aiicuius docli vilio
reprebendat ; aut si qui, quum aliquem volet laudare, de felicitate cius, non
de «inule dica! ; aut si qui rem cum re ita comparabit, ut alleram
se non pulci laudare, nisi alleram vituperanti aut si alleram ita
laude!, ut alterius non faciat mcntiotieni ; aut si, quum de certa re
quacrelur, de communi iiisliluctur oralio, ut, si qui, quum aliqui dcliberenl,
bellum gerani an non, pacem laude! crollino, non illud bellum inutile esse
demonstret ; aut si ratio aiicuius rei reddetur falsa, hoc modo :
Pecunia bonum est, proplerca quod ea maxime vitam bealam cflicial ; aut
si infirma, ut Plautus : • Amicura castigare obmerilam noxìam.
Immune est facinus ; veruni in aelatc utile Et conducibile ; nam ego
amicum hodic incum Coneastigabo prò commerita noxia, Invitus , ni
me id invitcl ut faciam fldes : a aut eadem hoc modo : Maximum malum est
avarino; mullos cnim magnis iucommodis adfccit pecunie cupidilas ; aut parum
idonea, hoc modo : Maximum bonum est amicitia; plurimae enim sunt '
deleclalioncs in amicitia. Quartus modus era! reprehensionis, per
quem conira Ormam irgumcnlationem aeque firma aut firmior poncbalur. Hoc genus
in delibcratìonibus maxime versabilur, quum aliquid, quod conira dicatur,
aeqtium esse concedimus, sed id, quod nos defendimus, neccssarium esse
demonstramus ; aut quum id, quod illi defendant, utile
battere, esaltasse la fortezza dei nemici, il numero, la feliciti delie
altre lor pugne. Quando alcuna parte dell’ argomentazione non s'
acconciasse' bene con ciò che si venne a proporre, sarà difettosa per una
o per un'altra di queste ragioni, cioè se l'oratore dimostrerò meno punti
di quei molti che aveva promesso; o se, quando avrà a mostrare un lutto,
parlerà solo di alcuna parte, come se dicesse: Le donne sono avaro;
poiché Enfila vendette per oro la vita di suo marito; o se nel difendere non
adatterà la difesa a ciò che è posto in accusa, come se colui che fosse
incagionato di broglio si difendesse con dire di esser forte di mano;
come Allibine appo Euripide (e similmente appo Pacuvio), Il quale
parlando a biasimamenlo della musica finisce col lodare la sapienxa;
oppure se sviluperassc una cosa per cagione del difetto d'una persona,
come se alcuno improverasse una dottrina per aver qualche magagna colui che la
possedè; oppure se volendo commendar altrui nc lodasse la felicità, non la
virtù; o quando si facesse paraggio di una cosa con un' altra, e si
credesse di non lodarne questa se non se sriluperando quella; o
quando se ne facesse l' elogio dell' una senta far motto dell'altra;
ovvero se si facesse un discorso applicabile ad ogni questione, mentre
non si tratta che di una questione determinata, come sarebbe se
altri, essendo in deliberare se abbia a farsi la guerra, ovveramente no,
venisse lodando la pace, senta dimostrare se quella guerra sia utile, o
non sia; o quando d'uria cosa si renderà una ragione falsa, come sarebbe
il dire: Il danaro é un bene, perocché esso più clic altro fa felice la
vita; o quando se ne renderà una ragione debole, come in quella di
Plauto: a L'amico improverar del suo malfatto É forte si che ad
un amico incrcscc; Ma se 'I rimproccio in suo momento è fatto, A
laudabile prò pur gli riesce: Ond' io rabbufieronne oggi l'amico.
Ma dirò per amor quello eli' io dico; a oppure in quest' altro esempio:
Gravissimo male è l’avarizia, poiché I' agonia di danaro trasse di
molli a gran mal essere: o se si renderà una ragione poco idonea, come a dire:
Un sommo bene è l'amicizia, poiché in essa si trovano piacimenti
pure assai. LI. S'è detto il quarto modo di confutare esser quello, per
cui a un'argomentazione solida se nc mette incontro una egualmente
solida, opiù solida di quella. Argomentazione si fatta sarà da
usare specialmente nelle deliberazioni , quando concediamo esser retto c
giusto ciò che no vien replicato, ma dimostriamo come quello che
per esse fateamur; quod nos dicamus, honeslum esse demonslremus. Ac
de reprehensione quidem hacc existimavimus esse diccnda. Deinceps mine
de conclusione ponemus. Ilermagoras digressiotiem deinde, lum
poslremani conelusionum pomi. In hac auleni digressione illc pulal
oportere quatndam inferri oralionem a causa alque a iudicalionc ipsa
remolam, quae ani sui laodem, aut adversarii vitupcralioncm conlineat, aut in
aliam causam deduca l, ex qua confidai aliquid confirmalionis aut
repreliensionis, non argomentando, sed augendo per quamdam amplilìcationem.
liane si qui partimi pularii esse orationis, sequatur Ermagoram liccbil.
Nam et augendi et laudandi et vituperandi praccepta a nobis parlim data sunt,
partito suo loco dabuntur. Nobis aulem non placuit batic parlcm in
nutnerum reponi, quod de causa digredì, nisi per locum cominunem, displicet :
quo de genere poslerius est dicendum. Laudes aulem et
vitiiperalioncs non scparalim placet tractari, sed in ipsis
argumcntalionibus esse implicalas. Nunc de conclusione
dicctnus. Conclusio est eiitus et determinano totius orationis.
llaec habel parles tres, cntimeralionem, indignationem, conqueslionem.
Enumeratio est, per quam res disperse et diffuse diclae unum in
locum cogunlur, et reminiscendi causa unum sub aspcctum subjieiuntur.
llaec si semper eodem modolraclabilur, perspicue ab omnibus artificio quodam
tractari intclligetur; sin varie flct, et hanc suspicionem et salictatem sitare
poteri!. Quarc lum oporlcbit ita Tacere, ut plcrique faciunt
propter facildalcm, singillatim unam quamque rem attingere et ita omnes
transire breviter argumentationes; tum aulem, id quod diOlcilius est,
dicere quas partes exposucris iu partitone, de quibus te pollicilus
sis diclurum, et reducere in memoriam quibus rationibus unatn quamque
parlcm confirmaris; tum ab iis, qui audiunt, quaerere quid sii, quod sibi
velie debeant demonstrari, hoc modo ud docnimus, illud planum fccimus. Ita
simul et in memoriam redibit auditor, et pntabit nihil esse
praelerea, quod debeat desiderare. Atque in bis gencribus, ut ante dictum
est, tum tuas argumcutaliones transire scparalim, tum, id quod artiliciosius
est, cum luis contrarias conjungerc; et quum tuam dixeris
argumenlationem, tuum, con no! si difende, è necessario; o quando
confessiamo esser vantaggioso ciò che gli avtcrsarii sostengono, ma esser
onesto ciò che sosteniamo noi. Questo è quel tanto che della confulaxione
ho creduto si dovesse dire. Da qui innanzi tratteremo della conclusione.
Ermagora prima di trattar della conclusione tratta del digresso. In
questo ci fa fantasia che s'abbia da porre un discorso che sia
spiccalo dalla causa e dal punto che ì a giudicare, e clic in tal discorso
debba l’oratore far un elogio a sè stesso o metter in biasimo gli avversarli;
ovvero toccar un'altra causa, da ritrarne alcun che di conferma a suo
prò; o di confutazione a donno degli avversarli, non coll'argomcnlare,
ma coll’anncrvar la difesa per mezzo d'una cotale amplificazione. Chi
amasse tener il digrosso per una parte del discorso oratorio, il tenga
pure a suo grado con psso Ermagora; già dei precetti circa all'
amplificare, al dar lode, al muover biasimo, parte io ne bo dati, e parte
a luogo acconcio ne porgerò. Che se io non pongo il digrosso nel novero
delle altre parli, noi pongo perchè non mi abbclla che si faccia
digressione dalla causa se non per mezzo di qualche luogo comune,
spettante a vizio o virtù; ma di questo ò già a parlare da poscia. Delle
lodi e de' biasimi quel che mi resta a dire non lo tratterò
separalamcnlc, perchè io considero e questi c quelle come innestate nelle
argomentazioni stesse. Ora veniamo alla perorazione o conclusione. La
perorazione, o conclusione, è la uscila e il termine del discorso
intiero. Ila tre parli, enumerazione, indignazione, commiserazione.
Enumerazione è quella, per cui si raccozzano in un luogo solo le cose che
si son dette sparsamente qua c là, e si mettono come in un quadro
davanti agli occhi per potersene rammentare. Se 1' enumerazione si
maneggiasse mai sempre di un modo, ognuno verrebbe agevolmente a sospirare
esser essa maneggiala per un cotale artifizio; ma se sia fatta con
qualche varianza, potrassi rimuovere da chi ascolta tanto questo sospetto,
quanto la sazievolezza ingenerala dalla uniformità. Laonde ora
converrà farla, come la fanno di molli alla foggia più facile, voglio dire,
toccar le cose ad una ad una, c cosi passar di volo sopra ogni
argomentazione; ora invece, il che è più forte a fare, ricordar i punti della
partizione di che hai promesso che ti verrebbe da discorrere, e rider alla
memoria le ragioni con che ogni parte bai confermata; e talora chiedere agli
uditori che altro possono volere che loro sia dimostrato, come sarebbe
il dire: Che volete di vantaggio 7 questo io ho fatto vedere, di
quest'auro ho già la evidenza rilevala. Per iti modo e l' uditore potrà
risovvenire che ira eam quoti adTcrcbatur, quemndmodum dilueris,
oslendcre. Ila per tircvcm comparalioncm audiloria memoria «1 de confirmalionc
el de reprchensioue redinlcgrabilur. Atquc liaec aliis aclionis quoque modis
variare oporlebit. Nam luin ex tua persona enumerare possis, ut, quid et
quo quidque loco dixeris, admoncas; tum vero personam aut rem aliqnam
inducere, et cnutneraiionem ei totani atlnbuere. Pcrsonam boc modo: Nam si
legis scriplor exsislal, et quaerat a vobis, quid dubitetis; quid
possilis dicere, quum vobis boc el boc sii demonslralum? Alque hic, ilem
ut in nostra persona, licebit alias siugdlalim transire omnes
argumenlationes, alias ad partilioncs singula genera relerre, alias ab
auditore, quid desidercl, quaerere, alias haec Tacere per cnmparationetn 9
uarum et conlrariaruin argumenlatioiium. Res autem inducetur, si alicui
rei huiusinodi, legi, loco, urbi, monumento oratio allribueliir per
enumerationem, boc modo: Quid, si leges loqui possenl ? Nonne baec apud
vos quaercri nlur ? Quidnam amplius desideralis, judices, quum vobis boc
et hoc planurn factum sii? In hoc quoque genere omnibus iisdem modis uti
licebit. Commune autem praeceptum boc datur ad cnumeralionem, ut ex una quoque
argumentatione, quoniam lotaiterum dici non polesl,id eligalur, quod eiil
gravissimum, et unum quidque quam brevissirne transealur, ut memoria, non
oratio rcnovala videa tur. Indignalio est oratio, per quam
conficilur, ut in aliqurm hominem magnino odium aut in rem gravis
olTensio cnncitcllir. In hoc genere illud primum intelligi volumus, posse
omnibus ex locis iis, qoos In conlirniandi pracceptis posilimus, trattari
iiidignalionetn. Nam ci iis rebus, quac persomi, et quac ncgoliis
ullribulac suol, quaevis ampMficaliones el iiidigualioncs nasci possuiti;
sed lamon ea,quac separalim de indignalio ne praeripi possimi,
consideremus l'rinus locus questo o quello fu dello, e insieme si
persuaderà non v'csserc cosa ch'egli debba di vantaggio desiderare. E
seguendo a dire dei modi con clic si può variare la enumerazione, tu
dovrai, come ho dello innanzi, ora toccar di passo e a parte a parte le
tue argomentazioni; ora, ciò clic domanda più arte, metter vicine delle
tue le argomentazioni dell' avversario; c poscia che avrai tocche le tue,
mostrare come abbi confutale le repliche di quello. Cosi per questo breve
raffronto l'uditore potrà farsi ricorrere alla memoria e la
conferma dei punti ricordati e la confutazione clic se ne fece. E queste
cose medesime si dovranno esporre in modi differenziali, secondo clic
comporterà la specie di orazione: poiché ora potrai enumerare in
persona tua, ricordando quali cose bai dette e a quali propositi; ora
introdurre altra pcr-ona o cosa, e farne far da essa tutta la
enumerazione. S'introduce una persona a questa maniera : Poiché se
esistesse lo scrittore stesso della legge, e vi chiedesse di clic siete
dubitasi, che potreste rispondere ora che vi fu dimostro c questo c
questo? E qui similmente, come iu nostra persona, potremo toccare ad una
ad una le argomentazioni tulle; c alle volle scorrer i singoli capi
secondo le divisioni che si son fatte; alle volle chiedere all' uditore che
altro egli amerebbe, c late altra volle invitarlo a dire se volesse pur
altro dopo avergli messe le nostre argomentazioni a raffronto con
quelle della parte contraria. Si ottiene la enumerazione mercé una cosa, se si
attribuisce il parlare dc'sunmii capi o a una legge, o a un luogo, a
ima città, a un monumento, eccetera. Per esempio: Or clic sarebbe,
se le leggi potessero parlare? non si lagnercbber esse appo voi di cose
s) falle? Che volete di vantaggio, o giudici, mentre vi fu mostralo
a evidenza e questo e questo ? Ne' quali casi si potrà egualmente far uso
de' modi sopra indiroli. Però il precetto sempre applicabile ad
ogni specie di enumerazione é questo, sfiorato anche sopra, che, siccome non si
può ogni argomentazione di bel nuovo ripetere, si dee scegliere da :
ciascuna il punto clic più rileva, e toccarlo alla succinta, tanto che
sia richiamata la memoria del| le cose, non già rifatta la orazione,
LUI. Indignazione é un discorso, per cui si vieti a capo clic sia colto
addossa a qualche persona un odio acerbo, o a qualche cosa una forte c
dura avversione. E qui innanzi a tutto voglio che si sappia come della
indignazione si può trattare con 1’ appoggio di tutti quei lunghi elio ho
svolli nel dar i precetti sopra la confermazione: poiché lutto
quello che s’appropria alle persone c ai Tatti é una Tonte copiosissima,
da cui si può torre quanto bisogna per Tare qualsiasi amplificazione, e per in
121 .'ili siiniilur ab auclorilalc, i|uum commomoranius ,
quanlac dirne rcs ca Inerii, nc per indignationcin oslendilur, ani ad
omnes ani ad majorem parlem, quod alrorissimum esl, ao ad superiorcs,
qitalcs suoi ii, quorum ex attclorllalc indignano sumitur, quod
indignissimunt esl, an ad pnros animo, fortuna, corpore, quod
iniquissinittm esl, an ad iitleriores, quod superbis stimmi esl. Terlius
Incus esl, per quom quoeri tnus qiiidtiam sii evcntiiruni, si idem celeri
fa ciani; el simili oslendinius, buie si concessimi sii, inulliis
aemttlos ejusdem audiciac fuluros; ex quo quid mali sii cvcnluruni,
dciuoiislmbiinus. QuarI its locus esl. per qttem dcniuiislramus mullus alacrcs
«spedare, quid slalualur, iti ex eo, quod otti conecssuni sii, sibi
quoque (ali de re quid li* c.eal, inlelligcrc possinl. Quitilus locus
esl, per quem oslentliinus cclcras res perperatn conslilulas, inlellecla
fCrilale, conimulalas corrigi posse; Itane esse rem, quac si sii semel
judicala, ncque alio ronimulari itidicio, ncque ulla poluslale corrigi
possil. Sexlus locus esl, per quem eonsullo ri de industria faclum
demonstralur, cl illuci ad itingilur, toluulario maleficio vcuiam ilari
non o porlere, imprudenliae concedi iionnuniqtiam convenire. Seplimus
locus est, per quem iudignamur, quod lelrum. crudele, nefariurn,
Ijraimicuni facilini esse dicanola, per vini, matium, opulenllam, quac
res ab legibus el ab aeqtiabili iure rcmolissiinae siili. Octavus locus
est, |>cr quelli demonslratnus non vulgnre ncque faclilalum esse ne ab
audacissimi* qiiidem liomnibiis id malelicinm, de quo agilur; al. pie id
a feris quoque liuminibus cl a barbaris gcntibiis el immanibus bcsliis
esse reinolimi. Dace crunl, quac in parcnles, libcros, conj tgcs,
consanguincos, supplice., erudclilcr far generarci lo sdegno. Ora
perù dubbiamo trattar i preconi clic riguardano la indignazione in
particolare. Il primo luogo oratorio, ovvero sorgente, donde essa si fa
derivare, 6 l'autorità, il credilo; per esempio se ricordiamo quanto la
lai cosa fu a cura degli dei immortali, o di quelle persone, il cui
credilo e l'autorità dee esser avuta perdi gran peso. E qui se ne caverà
argomento o prova dalle . sorti, dagli oracoli, dai vali, dagli eventi
moslruo! si, dai prodigii, dai responsi, e da cose altrettali; ; c per
islesso modo dai nostri maggiori, dai re, dalle ciilà, dalle genti,
dagli'uomini più satii, dal senato, dal popolo, dai legislatori. Il
secondo è i quello, per cui si mostra a quali persone fece dati1 no il
lai fallo, eccitando lo sdeguo con quanto si i può di amplificazione; o
se lo fece a tulle, ovvero alla piò parie, il clic è estrema atrocità; o
se a* superiori, ebe à cosa indegnissima; c qui si farà nascere
Tudiu dalla ragguardevolezza clic in loro fu offesa; o se danneggiò altri
che siano eguali per qualità di animo, di fortuna, di corpo, il
cito è somma iniquità; o se gl'inferiori, clic è callivez] za piena di
superbia. Il Icrzu luogo è quello, per | cui si cerca che ne avverrebbe, se
tulli facessero ; a quel modo, c insieme si mostra clic se si desse
pus-ala a quel tale, si Accrebbero molli altri an1 dare alla stessa audacia; c
qui si mostrerà quanto gran danno incontrerebbe per ciò. Il quarto
6 quello, per cui diamo a conoscere che molli a orccclii lesi espellano
che venga deciso, per sapere da quanto s'indulge all'accusato quanto essi
possano assicurarsi in caso simile. Il quinto luogo è, quando mostriamo
che si può bene ogni altra decisione, appoggiala a cadivi dati, mutar e
correggere, insieme elio se no conosca la verità ; ma il I fallo presente
essere di lai sorla, che giudicalo i una volta, ili si può mutare per
altro giudicio, ni per veruna podestà se ne può alterare la decisione. Il
sosto tende a dimostrare clic il fallo fu commesso da seuuo e a bella posta ; e
qui si aggiungerà altresì clic a un misfallu lolouiario non si coui viene
perdono: convenirsi solo alcuna volta indulgere alla inconsideratezza. Il
settimo i quello, per cui facciamo cruccio per essere il fallo
orrendo, crudele, nefando, tirannico, condodo con la vioi lenza, di mano
del tale, con lo spreco di contanti, le quali cose sono di troppo
aborrenti dalle leggi C d >lla nin i. -razione. L'ollavo luogo, o
sorgente d'indignazione, I ì quello per cui mezzo dimostriamo che il
delitto di clic si traila non è nò proprio del volgo, uè praticalo
eziandio dagli uomini più audaci; anzi esser nuovo agli stessi barbari,
ai selvaggi, alle fiere piò immani. Tali sono le sevizie con le quali
diremo essersi albi incrudito coirli o i genitori, i figli. la
diccntur, cl doinceps si qua prolcranlur in majores ualu, ili liospilcs, in
vicino*, in amicos, in eos, quitiuscum vitaio lineria, in cos, apud
quos educai us sis, in eos, a quibus erudilus, in morluos, in miscros el
misericordia dignos, in liomine-s claros, nobile* el lionore usos, in eos, qui
ncque laedere alium noe se defendcrc poluerint, ut in pucros, scncs,
inulieres ; quibus et omnibus acrilcr cucitala indignatio suiumuin in cum,
qui violarii horum aiiquid, odiuni comnioverc polcrit. Nonus locus est,
per quem cumaliispeccalis, quac Constant esse peccata, hoc, quo de
quaestio est, comparatur, et ita per conlcnlioneni, quanto atrocius
et indignius sit iilud, de quo ogitur, ostenditur. Dccinius locus est,
per quem omnia, quae in negotio gerendo acta aulii, quaeque post
uegolium consecula sunl, cum uniuscujusqucindignalione et criminalionc
colligiinus, cl rem verbis quam maxime ante oculos ejus, apud quem
dicilur, ponimus, ut id, quod iudignum est, pcrinde illi videalur iudignum, ac
si ipse inlerfucril et praesens videril. Undccimuslocus est, per
quem ostendimus ab eo factum, a quo minime oporluerit, et a quo, si alius
Tacerei, proliiberi convenire!. Duodccimus locus est, per quem indignamur,
quod nobis hoc primis accideril, ncque alicui umquam usu venerit. Tcrtius
dccinius locus est. si cum injuria contumelia juncla dcmonsiralur,
per quem iocum in superbiam el adrogantiam odium concilatur. Quarlus
dccinius locus est, per quem pelimus ab iis, qui audiuut, ut ad suas
res noslras iujurias referant: si ad pueros perliiicbil, de libcris
suis coglioni; si ad muliercs, do uxori. bus;si ad scncs, de patribusaut
pareulibus. Quinlus dccinius locus est, per quem dicimus, inimicis quoque et
lioslibus ea, quac nobis accideriul indigna vidcri solere. El indignatio
quidem bis fere de locis gravissime sunielur. Conqucstionis anioni
liujtismodi de rebus parles pelcrc oporlcbil. Coi uj in sti o est oratio
audiloruni miscricordiam caplaus. In liac. priuium animum audiloris milem
cl misericoidein conli' cere o porle!, quo facilius cnnqueslione
commoveri possi!, ld locis communibus eflicere nporlebiti per quos
fortunae vis io omnes, el lioniinum inGrmilas ostenditur; qua oratiune ballila
graviler el scnlenliose, maxime dimiilitur animus liomiuum, el ad
miscricordiam comparalur, quum in alieno malo sua in infirmila toni
consideralo! . Delude priuius locus est miscricordiae, per quem quibus
in ài il inarilo, la moglie, i parenti, i domandami mercè; c
cosi via via, i debili cunlru i maggiori di elà, gli ospiti, i vicini,
gli amici, quelli con elle vivesti . 0 presso cui fosti educalo, o da
cui istruito, i morii, i miseri e degni di piulft, gli uomini illustri, i
nobili, c quelli clic liaiuiu sostenute onoranze pubbliche, quelli clic non
poterono né offendere altrui, uè difender sè slessi, come sono i fanciulli,
1 vecchi, le femmine. Per (ulti questi molivi eccitandosi forte la
indignazione, potrà fare che ognuno venga in grossezza e ira con chi avesse adontala
0 luna o l'ultra di queste persone. i*el nono luogo si mene a
riscontro la colpa, onde si controverte, di altre colpe da tulli
confessale per tali, c si dimostra argomentando esser di tulle quelle più
atruce c più infame questa, di che si traila. Cui decimo razzoliamo tulle le
circostanze chcaccunr [lagnarono il fallo e le conseguenze che ne
soli poi venule con isdeguo c querela d’ognuno, c nielliamo il fallo
davanti agli ocelli dell' uditore per Tarma che ne ravvisi la indegnità
come s'egli stesso ci fosse staio in mezzo e avesselo di presenza veduto.
Coll' undecimo meniamo a vedere essersi fornito il fallo da chi meno il
dovea, da ehi anzi avria dovuto far rimanere qualunque altro
l'avesse Imlaio. Il duodecimo è quello, per cui ci scorrubliiamo della
mala ventura di aver dovuto esser 1 primi a trattar un fallo, clic mai a
nessun altro avvenne di dover Irailare. Il licdicesimo è, se si dimostra
all' offesa esser anche aggiunto lo scherno e la villania ; e in questo caso I'
odio se la piglierà ancora con la superbia c l' alterigia degli
offensori. Il quarlodecimo luogo è quello, per cui preghiamo gli uditori
che vogliano immaginare di aver ricevuto essi I' offesa che abbiamo
ingozzalo noi ; e se essa sarà caduta sopra fanciulli, ripensino essi ai
Agli proprii ; se sopra femmine, pensino alle lor mogli ; se sopra vecchi, ai
genitori o parenti loro. Il quindccimo è quello, per cui diciamo clic
quanto occorse a noi è cosa clic si tiene per indegna pur dai nemici c dalle
persane più ostili. Ua tulli questi luoghi e sorgenti si farà nascer
gravissima la indignazione. l.Y. Converrà ora vedere cumc dal fin qui
dello si traggano i mezzi e le fonti della commiscraziuue. È questa un
discorso clic accada la compassione degli uditori, l'or accanarla prima cosa
è render inde e benigno l'animo di chi ascolla, colalcliè possa dalle
querimonie esser ageminicele commosso. Questo sì potrà conseguile per
mezzo dei luoghi e fonti comuni, pei quali si dj a vedere la forza
che esercita su tulli la fortuna, e la fralezza che fa declinar l’uomo ai male;
c con questo discorso fallo con parole gravi e senlcnziosc, si
viene ad ammollir furie il cuore degli uomini fi8 bonis fuerint, et nunc
qnibus in malis sinl, ostcnditur. Sccundus, qui in tempora Irìbuilur, per
quelli, quibus in malis fucrint, et bini, et futuri sinl,
demoustralur.Tertius, per i|uem unum quodque deploralur incoromodum, ut in
morte Dlii pueriiiae dcleclatio, amor, spes, solatium, cducalio, et, si
qua simili in genere quolibcldc incommodo per conqueslioncm dici
poterunl. Quartus, per quem res turpes et bumiles et illiberalcs
profercntur et indignac aelatc, genere, fortuna, pristino honore,
bcncficiis; quae passi perpessurive sinl Quinlus, per quem omnia ante
oculos singillatim incommoda ponunlur, ut vidcatur is, qui audit,
siilere, et re quoque ipsa, quasi adsit, non terbis solurn ad
miscricordiam ducalur. Seilus, per quem practcr spem in miseriis
dcmonslralur esse, et, qumn aliquid eispeclarel, non modo id non
adeplum esse, sed in summas miserias incidisse. Seplimus, per quem ad
ipsos, qui audiunt, similem casum converlimus, et petinrus, utdesuis libcris
aul parentibus aut aliquo, qui illis carus debeat esse, nos quum videanl,
rccordentur. Oclar us, por quem aliquid dicilur esse factum, quod non
oporlueril, aut non factum, quod oportueril, hoc modo: Non adfui, non
ridi, non posircmam vorem ejus nudivi, non estremum spirilum ejus
eicepi. Itcm: Inimicorum in manibus mortuus est, lioslili in terra
lurpiler jacuit insepultus, a feria diu vcialus, eommuni quoque lionorc in
morie caruit. Nonus, per quem oralio ad mutas et crpertes animi res
refcrclur, ut, si ad equum, dutnum , tcslem , sermnnem alicujus accomodes
, quibus animus corum, qui audiunt et aliquem dicierunl, vehementer
commovclur. Decimus, per quem inopia, iulirmi tas, soliludo
dcmonslralur. Endccimus, per quem aut liherorum, aul parentimi , aut sui
corporis sepeliendi , aut alicujus ejusmodi rei commendano lìl.
Duodeeimus, per quem disjunctio deploralur ab aliquo, quoti) diducaris ab
eo, quicum libenllssime vlzeris, ul a parente, (ìlio, fratre, familiari.
Terlius decimus, per quem cum indignationc conqucrimur, quod ab
iis, a quibus minime convcnial, male traclc mur, propinquis, amicis, quibus benigne
feceri mus, qnos adjulores furo pularimus, aut a quibus indignum sii, ut
servis, liberili, ebentibus, supplicibus. disporlo a esser
misericordcrole, siccome quello che nel fallo altrui riconosce la propria
debolciza. La prima fonte di compassione è il mostrare di quali
beni si borano forniti, e da che mali si trovano essi sbattuti gl'infelici. La
seconda si diride per tempi, c viene a descrivere le calamità dreni
ban sostenute, che sostengono in presente, e che sono per sostenere
appresso. La lena lagna di qualsiasi crepacuore: cosi nella morie di un
figlio compiangesi la gioia che ne recava la sua puerizia, l’amore,
la speranza, il conforto, l'educazione, c quanl' altro di simile potrà
esser motivo di commiserazione. La quarta è quella, per cui si fa vedere che
turpezze, che umiliazioni, che incivilii ha dovuto e dovrà trangugiar l'
infelice, indegne della sua età, della sua slirpc, della sua condizione,
dell' antico splendore, dei bencllzii da lui imparlili. La quinta è quella, per
cui si schierano dinanzi agli occhi dell'uditore ad una ad una le disavventure
deli’ infelice , affinchè ascoltando le possa quasi clic vedere, e siane
condotto a compassiono non pur dalle parole dell' oratore, ma dal
figurarsi d’essere quasi presente ai fatti stestiLa sesta è quando si dimostra
esser un tale irretito nelle disgrazie senza speranza di poterne uscire.e
mentre se u’atlcndcva qualche allcviazione, non solo non esserne venuto a
capo, ma precipitato anzi nelle miserie più dure. La settima ì quando
imaginìamo in quelli che neascollano un infortunio simile al nostro, e ii
preghiamo che nel veder noi rammentino i loro figli, i genitori, o
qualche altro che lor debba esser caro. L’ ottava, quando si dice
essersi fatto ciò die non bisognava, o lasciato di fare ciò che si dovea, come
a dire : Non fui presente, non vidi, non ho udite le ultime di lui
parole, non ne ho raccolto il respiro eslrcroo; oppure : E morto in
potere dei nemici, giacque indcccnlcmcnle insepolto in terra ostile,
mislratlato a lungo dalle fiere, senza avere nè in morie i comuni onori.
La nona è quella, per cui s'appropria il discorso ad esseri muti e privi di
ragione, come se lu facessi parlare per altri un cavallo, lina casa, una
veste; c questo è caso in cui quelli die ascoltano e che hanno portato
amore a qualcuno, restano vivamenlc commossi. La decima è quando si
dimostra l'altrui miscrlà, la debolezza, l'abbandono di tulli. La
undecima è quella, con che si raccomanda che non manchino di sepoltura i
figli, i genitori, il proprio corpo, o clic sia foritila qualche altra cosa
consimile. La duodecima deplora la separazione che dei sostenere da
qualche tuo amorevole, con cui menasti vita della migliore tua voglia, come
sarebbe dal padre, dal figliuolo, dal fratello, dall'amico. La tcrzadccima
è quella, per cui alle querele accoppiamo altresì (joartus decimus, qui per
obsecralionem sumilur; in quo oraninr modo illi, qui audiunl,
humili el supplici oralionc, ut miscreanlur. Quintus decimus, per quem non
nostras, scd corum, qui cari nobis dcbcnl esse, forlunas conqueri
nos demonstramus. Sextus decimus, per quem animum nostrum in olios
misericordem esse ostendimus, et tamen amplum et escelsum et patienlem
incommodorum esse, et futurum esse, si quid acciderit, demonstramus. Nam sacpe
virlus et magniCcenlia, in quo gravilas et auctoritas est, plus proOcit
ad misericordiam commorendam quam liumililas el obsccralio. Commotis
aulcin animis, dlutius in conqucslione morarì non oportebit.
Qucmadmodum enim dilli rbctor Apolionius, lacrima nihil citius aroscil. Sed
quoniem et satis, ut (idemur, dcomnibuspartibusoralionis diiimus,
el hujus «nluminis magnitudo longius processil, quac scquuntur dciriceps,
in sccundo libro diccmus. SS) 10 sdegno di esser duramente
tribolati da chi noi dovca, come a dire dai parenti, dagli amici,
da quelli che hanno da noi ricevuto del bene, i quali ci snidavamo
dovessero esserci aiutatori , o da quelli che non ci potevano mislratlare
se non con la più nera indegnità, come sono i servi, i liberti, i
clienti, e quelli che altre volte sono ricorsi a noi supplichevoli. Il
quartodecimo luogo o fonte di compassione £ la preghiera, con clic facciamo
forza al cuore di quelli che ascoltano, per discorso reumiliato c che va
alla mercede loro, perchè ne facciano misericordia. Col decimoquinto
mostriamo di compiangere non le nostre disavventure, ma quelle di
coloro che ne debbono esser amati e cari. Col seslodccimo dimostriamo che il
nostro cuore è pietoso verso altrui, ma che tuttavia nelle presenti
disgrazie è magnanimo, elevalo o sofferente, quale altresì sarebbe, se altro
gli fosse per incontrare. Ed è un fatto, che sovente la virtù e 11
portamento di grand'animo in uomo autorevole e grave fa più al muover la
compassione che non farebbe rumiliamcnlo e la preghiera. Commossi
gli animi, non si vuole esser lungo nella querimonia, poiché, a detto del
retore Apollonio, niente si asciuga più presto che le lagrime. Or,
poiché ho dello a bastanza, per mio avviso, circa le parti tutte
dell'orazione, e questo libro m’è anche venuto un po' troppo allungalo, dirò a
mano a mano nel secondo libro le cose che mi restano da cs porre. Tullio
culla eoo una elegante narrativa, e poi passa a trattare del genere gludic
iato, e della costituitone congetturale, e deferiti a che per agitare si
fatte cause dee ricorrere e ruttore c l'accusato. Della costituitone
definitiva,' indi della traslativa. Della costituitone generate, di cui
spiega Tullio le due parti in che essa ai divide,
eiósonolinegotialcelagioridiciilc. Delle controversie circa lo scritto.
Del genere deliberativo, e delToncslo e deU'utile. In Due, del
genere dimostrativo. Crolortialac quondam, quum llorcrent omnibus copiis,
et in Italia cum primis beati numcrarcnlur, lemplum Junonis, quod
religiosissime colebaul, egregiis picturis locupletare toluerunl. Ilaque
ileracleolem Zeuxiu, qui lum longe ccteris ciceilere pirloribus csislimabalur,
magno prelio conductum adhibucrunl. Is et cclcras contplurrs fabulas pinxil,
quarum nonnulla pars usque ad nostrani memoriam propter funi religloncm
retnansil, el, ut exccllcnlem muliebris formac pulcritudinein muta in scse
imago contiueret, Ilelenac pingcrc se simulammo velie diiil; quod Crotonialac,
qui eum muliebri in corporc pingendo plurimum aliis pracstarc saepe
acccpisscnt, libcnler audicrunl. rulavcrunt enim, si, quo in genere
plurimum posscl, in co magno opere elaborasscl, egregium sibi opus ilio
in fatto rcliclurum. Ncque tum cos ilia opinio fefeliil. Nani Zeuiis
illico quacsivil ab cis, quasnain virgines forntosas liabcrcnt. Illi
aulem statini hominem dcduicrunt in palestram, atquc ci pucros ostcndcrunt
multos, magna praedilos dignilalc. Elenim quodam tempore Crolonialac
mullum omnibus corportim viribus et dignitalibus anlcstclcrunt, alquo
lioncslissitnas ci g vinilico ce riamine viclurias domum cum laude
maxima rclulcrunt. Quum pucrorum igiiur formas Croloniesi, allorché erano
in florido e di ogni bene rinfusi, c in Italia coniali Ira i popoli
più felici, fecero su pensiero di voler arricchire di dipinli i più
squisili il (empio di Giunone elio veneravano a grande rispello ed onore.
A ciò insilarono Zelisi di Eraclea, che di quei tempi avea nome di
eccellente in pittura sopra ogni altro, c a gran contante patlovirono con
esso il lavoro. Costui vi condusse parecchie dipinture, delle quali
alquanto poca parte si conservò lino ad oggi per la venerazione in che il
tempio fu sempre avuto; c per comporre una imaginc clic nella sua mutezza
esprimesse quanto può avervi di sfolgorala belili in fattezze muliebri, si
profferse di voler fare il ritratto di Elena. 1 Croloniesi udirono questo
del miglior grado, siccome quelli ebe spesso arcano udito come in
dipinger sembianze di donna ci lasciavasi in dietro ogni altro di lunga mano.
Faceano ragiona che se egli, il quale in dipinger donne era al postutto
vaiente. Tosse stato attorno a quel lavoro con proposito di farne ogni
suo potere, avrebbe lasciato nel tempio un’opera di somma eccellenza, Mési
apposero in fallo. Zcusi chiese tosto quali avessero donzelle di più
bellezza. Esssi lo condussero inconluuculc nella palestra, e gli
fecero vedere molli garzoni di maestosa av CI et corpora magno liic
opero mlrarelur: llorum, inquilini illi, sorores suol apuli nos virgines
Oliare, qua siili illac ilignilalc, polcs ex his suspicari. Pracbetc
igilur milii, quaeso, inquit, ex istis virginibus formosissimas, dum pingo id,
quod pollicilus suiti vobis, ul mutui» in simulacrum ex animali esemplo vcrilas
Iransferatur. Tum Crotoniatae publico de concilio virgincs unum in locum
coiiduxcrunl, cl pictori quam velici eligendi potèslatcm dedcrunl.Ille aulein
quiuquedelcgit; quarum nomina multi poiitac mcmoriac prodiderunt, quod
ejus csscnt judicio probalac, qui pulcriludinis habere verissimum judicium
dcbuissel, Ncque cnini putavil omnia, quac quaercret ad i cuti slalom,
uno se in rorporc reperire posse, ideo quod niliil siuiplici in genere
omnibus cv partibus perfeclum naluru expolivit. Ilaquc, tamquam ccleris
non sii habilura quod largialur, si uni cuncla enncesseril, alimi olii
commodi aliquo adjuucto iurommodo muneralur. Quod quoniam nobis
quoque toluulatis acridi!, ut urlcui diccildi pcrscribcremus, non unum
aliquod proposuimuscxeinplum,cujusonines parics, quoenmqnc esscnl io genere, exprNneodac
nobis necessario viderenlur; sed, omnibus unum iu locum coaclis
scriploribus, quod quisque commodissime pracripere videbalur, cxcerpsimus,
et ex variis ingcniis excelleulissima quaeque libaviinus. Ex iis Chini,
qui nomine et memoria digiti sunl, ncc mini optiine, nec omnia
pracclarissimc quisquam diccre nobis videbalor. Quaproplcr stultitia visa
csl aul a bene inventis ulicujus recedere, si quo in vitto
cjusoITemJerctnur, aul ad vilia quoque cjus accedere, cujus aliquo bene
pracccplo duccremur. Quodsi in ccteris quoque sludiis a umili,
cligere boni ncsconnnodissimuin quodque, quam sesc uni slicui
eerto/cllcnl addiccrc, minus in adrogantiam oOenderent; non tanto opere
in viliis perseverami! ; aliquanto levius ex inscienlia laborarcnl.
.Ve si par in uobis liujus arlis atquc in ilio picluruc scienlia fuisscl,
fonasse magis Ime in suo genere opus nuslruin, quam ilio in sua pictura
nobilis enilercl. Ex majore cium copia uobis quam iili fuil eiempiorum
eligendi poleslas. lite una ci urbe et cv co numero virginum, quac
tum eranl, cligere poluìl: nobis omnium, quicumque fueruut ab
ultimo principio liuj-is pracceplionis veneroleixa. E
infatti una volta I Crotonicsl andavano innanxi a ogni altro popolo per corpi
fatticci e di nobile appariscenza, c negli agoni ginnastici vernano
riportando con ispantc lor lodi vittorie onoratissime. Or mentre Zcusi si
dava attorno ad ammirare i corpi c le fattezze di quei garzoni; Son
qui fra noi, dissero i Croloulesi, le vergini sorelle di colesloro, le
quali quanto sieno di bellezza vantaggiale, da questi loro fratelli ne puoi far
saggio. Ed egli: di grazia, me ne date le meglio leggiadre finché io travagli
il dipinto clic vi ho profferito, c annesti nella mula effigie la verità
dell'animato esemplare. Altura i Crotonicsi di comune conserto ragimarono
insieme le loro donzelle, c fecero copia al dipintore di scerre delle
tante quella ch'egli volca. Egli ne fece eletta di cinque, i cui
nomi dappoi per molli poeti furono messi in celebrità per esser esse in
conto di belle nel giudichi di quell'imo, clic della bellezza dovea essere
giustissimo estimatore. Ne volle cinque, perchè non andava capace di trovar in
solo un corpo quanto ei cercava di venustà, però clic non v' ha
individuo di veruna specie, in cui la natura alftzzunassc e rendesse perfetta
ogni sua parte; tanto che essa, come se non avesse più die dare agli
altri se concedesse lutto ad uno, alle doli clic dispensa a questo o a quello
mette sempre allato una qualche imperfezione. II. Or poiché avvenne
pur a me ch'io fossi d’animo di scrivere sopra l' arte di parlare, non mi
proposi io già mi qualche modello speciale, da dover di necessitò
ritrarre in tutte le sue parli, di qualunque ragione esse si fossero; ma
mi raccolsi innanzi quanti di tale materia hanno già scritto, e ne presi
da ciascuno i precetti clic uh parvero il caso, sdorando dai v arii
ingegni quanto di più eccellente ti Iruvai. Perocché di lutti gii
autori die son degni di esser nominali c tenutane memoria io m'avvisai
die ognuno dice belisi quatdie cosa di gran rilievo c peso, ma clic noti
ogni sua cosa è della stessa qualità. Oud' è dio io repulai non
essere da buon senno clic io rifiutassi ciò die alcuno ha ritrovalo di
buono, solo perchè io mi fussi imbattuto ili quulelic suo difetto, che mi
spiacesse, ovvero che io ne andassi dietro fin anche alle pecche, se di
qualche suo buon precetto avessi preso piacere. Che se anche negli altri
studii amassero gli uomini scerre da molli il lior delie cose più
presto clic attenersi agl'insegnamenti di uno svio, saiieno meno
presontuosi, itoti islarcbbero nei difetti cotanto alla dura, ed anche s'
uvrebbero d’ignoranza alquanto meno, E se io dell'arlc retorica avessi una
scienza clic stesse iu ragguaglio con quella clic avea Zeusi della
pittura, forse clic quest'opera risponderebbe nei suo gc li usquo od
hoc tempus, eiposills copiis, quodcum quc placerct, eligendi poteslas
fuil. Ac vcleres qui dem scriplorcs artis usque a principe ilio
alque inventore Tisia rcpelilos unum in Incum condoli! Aristolelcs,
et nominalint cujusquc praccepla magna conquisila cura perspicue conscripsil,
alque enodala diligentcr ciposuil; ac tantum invenlorilius ipsis
suavilale et bretitale diccndi praestitil, ut nemo illorum praccepla ex
ipsorum libris cognoscat, sed omnes, qui quod illi praecipiant vclint
intelligcre, od liunc quasi ad qucmdam multo commodiorcm eiplicalorcin
revertanlur. Atquc hie quidem ipse et so ipsum nobìs, et ens, qui ante
se fucrant, in medio posuit, ut celeros et se ipsum per se
eognosccrrmus : ab hoc aulem qui profccli stilli, quamquam in maximis
philosophiac partibus operae plurimum consumpserunt, S'cul et ipse,
cuius instiluta sequebanlur, beerai, tamen permulla nohis praccepla dicendi
reliquerunt. Alque alii quoque alio ex fonte praeceplores dicendi
emanavcrunl, qui ilem permullum ad dicendum. si quid ars prolicit,
opilulati sunt. Nani fuit tempore endem. quo Aristutcles, magnilo et
nobili* rhclor isocrales; cuius ipsius quam conslet esse arimi, non
invenimus. Discipulorum aulem, ali|ue eorum, qui prolinus ab hac suoi
disciplina prufccli, multa de arte praccepla repcrimus. Ex bis duabus
diversi* siculi ramiliis, quartini allora quum vcrsarelur in philosophia,
nonnullam rhcloricae quoque arlis sibi curam adsumebal, altera vero omnis in dicendi
crai studio el pracceptione occupala, unum quoddam est connatum genus a
poslerioribus, qui ab ulrisque ea, quae commode dici vidcbanlur, in suas
arles conlulerunl, quos ipsos simul alque illos supcriores nos nobis
omnes, quoad facullas lulit, proposuimus, et ex nostro quoque noniiibil in
commune coiiluliinus. Quud si ea, quao in bis libris expotiuiilur, laido
opere eligenda fuerunl, quanto studio ciccia suut, prorecto ncque nos ncque
alios iuduslriae noslrac poenitebit. Sin autem temere aliquid
alicuius praclcriisse, aul non salis degan nere più che nella
pittura ci non fece; poiché io a potere far scella ho maggior abbondanza
di modelli ch’ei non ebbe polulo avere. Egli raccolse il meglio in 3ola
una cillà e fra quel numero di donzelle che vi Bveano allora: io per contra
ebbi innanzi agli occhi tulio il gran capitale che hanno ammassalo quanti
furono lino da quando si cominciò di ridur quest' arte a precedi, e vi
potei scegliere ciò che meglio mi abbellava e piaceva. Quanti v'ebbero
scrittori di retorica per insino da Tisia che ne fu l' inventore, e primo
ne scrisse, tutti gli raccolse insieme Aristotele, e i precedi che
con molla cura rauuò da questo e da quello, citandone anche il nome, pose
con tutta chiarezza in iscritto, e sviluppò e svolse con precisione; e
tanto seppe eccellere gli stessi primi inventori per piacevolezza e
brevità di dedalo, che nessuno sa conoscere esser quei loro precetti
tolti dai libri loro, ma conviene che qualunque, il quale voglia sapere che si
dicessero con quei loro precedi gli antichi, ricorra a lui come ad
esplicalorc molto più frullcvolc e più giudizioso di ogni altro. Anche
più, che questo autore ne pose innanzi sé steso oltre quelli che erano stali
prima di lui, acciocché per mezzo suo conoscessimo e gli altri e lui
medesimo. Quelli poi che lo secondarono oppresso, eziandio che mollo
spendessero ili fatica piai disio nella trattazione delle parli
cssenzialPdclla filosofia, come avea fallo quell'esso, di cui seguivano
le dottrine, tuttavia ne lasciarono un buon dato di precetti pur sopra
l'arte del dire. Prece dori di quest' arte nc uscirono fuori anche da
altro fonte, i quali similmenle recarono assai soccorsi al dire, se
pur l' arie si lascia alcuna cosa soccorrere. E infatti a’ tempi stessi di Aristotele
fu un grande ed eccellente retore, Isocra'e voglio dire ; ma quali
leggi ci seguisse dell' arte sua, non ho trovalo chi il sappia. Bensì i
suoi discepoli, e quegli altri che vennero da questa sella troviamo aver
lascialo ben molti precetti di retorica. HI. Da queste due dirò cosi
diverse famiglie, l’uno, avvegnaché di professione trattasse
filosofia, pur facea qualche sludio anche dell’orle relorica, e
quella d’ Isocrate era tutta iu faccende solo nel far l'esame e dar
leregple del ragionare. Or queste due famiglie furono ridotte a una sola dai
posteriori, i quali introdussero nell' arte che insegnavano quaulo han trovato
di buono c di meglio negli uni e negli altri ; c son questi medesimi
e quelli più antichi che io mi proposi di seguire quanto lio
potuto, e coi quali ho messo in comune pur qualche poco di mio. thè
selccosc che ho esposto in questi miei libri io le ho Irascelte con
quella colatila cura che una scella cosi rilevante pur domandava, corto
della mia industria né io posso, né ler scemi viilcbimur, dodi ab aliquo
Tacile cl libenler commutabimur sen'cnliam. Non enim panini cognossc, sed in
parum cngnilo stililo et din perseverasse turpe est, proplerea quoti
nllcruni eommutii linminum iuflrmitali, allcrum singolari unius
cuiusque litio est atliihulum. Quarc nos quidem sinc ulta adfirmalione
simut quacrcntes dubilanter unum quidquc dicemus, ne, riunì parvulum Ime
eonsequinmr, ut salis linee rommnde perscripsisse videamur, i limi amitlamus,
quod maximum est, ut ne cui rei temere alque adroganter adscnserimus.
Verum Ime quidem nos cl in hoc tempore et in onini vita studiose, qnoad
Tacullas lerci, consequeniur. None autem. ne longius oralio progresso
ndcalur, de reliquia, quae praeeipicnda videntur esse, dicemus. Igilur primus
liber, ciposito genere liuiusarlis el olllein, et (Ine, et materia,
et partibus , genera controversiarum et inventiones el eonslitutiones et
iudieationes eontinebal, deinde parles oralionis et in eas omnes omnia praecepla
Quarc quum in co ccloris de rebus dislinctius dicium sii, disperse autem de
con llrmalione el do reprchensione, nunc cerlos confirniandi cl
repreliendendi in singula caiisarum genera locos tradendos arbiiramur. El
quia, quo pacto traclari convenirci argumentaliones, in libro primo non
indiligcnlcr espositum est, hic tantum ipsa inventa unam quantque in rem
exponentur simplieiler sinc ulta eiornalionc, ut ex hoc inventa ipsa, ex
superiore autem eipoldio invenlorum pelalur. Quarc liacc, quac mine
prnccipicntur, ad confirmationis et reprchensionis parles rcferre
oporlcbil. Omnis cl demonstraliva cl deliberativa cl iudicialis
causa necesse est in aliqno carimi, quac ante exposila sunl,
eonstilulionls genere, uno piu ribusve, verselur. Hoc quamquam ila est,
lumen quum communilrr quaedam de omnibus praeripi possi»!,
separatilo quoque aliac sunl cuiusque generis diversac pracccptiones. Alimi
enim laus ani vituperano, aliud sente.nlian dictio, alimi accusatili aut
rccusalio conflecrc debet. In iudiriis, può andare scontento chi che sia.
Se poi dì qualche autore io avessi senxa avvisarmene prelermesso alcun che, o
trascrillo con meno di pulitezza !e cose clic mi pareano da dover
adottare, quando io ne sia fallo accorto da qualcheduno, io son
presto a far di leggieri c della miglior voglia le necessarie
mulaiioni. Non è vergogna aver delle cose una conoscenza rislrellu, ma
bene è do vergognare a dii durasse scioccamente c alta lungo in
cono scema si fatta : poiché la primo è propria della pochezza
umana, c l’altra non è chorgrossn difetto di colui elle se ne
accontentasse. Laonde io laserrù nel loro dubbio le ricerche die sono per
fare, c delle cose clic dirò mi vorrò cessare da ogni affermazione,
acciocché mentre io vengo a capo ili scrivere questa materia sufficientemente
bene, die pur t cosa menoma, io non perda ciò che più rileva, voglio dire
il merito di non aver acconsenlilo a cosa veruna da arrogante c
inavveduto- Il che mi servirà di regola, per quanto potrò, si nella
circostanza presente, e si ancora in ogni altra occasione della mia vita.
Ma perché il mio discorso non si distenda troppo in parole, vengo agli
altri precetti die restano da insegnare. Or il primo libro, dopo di aver
detto che specie di orte sia la relntica, c quale sìa il suo ufficio, il
(ine, la materia, In parli, lia ragionalo de'tarii generi di
controversia, dc'modi di trovare gli argomenti, delle costituzioni delle
cause, dei punti da giudicare, dipoi delle porli dell’ orazione, e di
lutti i precedi clic a lune codeste parli si riferiscono. Il perchè ,
siccome delle altre cose si è parlalo in quello alquanto distintamente,
ma della confermazione C della confutazione non altrimenti clic a spizzico, io
Iroro da dover ora insegnare i luoghi ovvero le fonti acconce a fare la
confermai ione c la confutazione In ciascuna specie di causa. E giacché
nel primo libro lio dimostro non senza esali- zza come sian ila svolgere
c maneggiare le argomentazioni , qui si esporranno nudamente c senza
alcuna politura le invenzioni acconce per ogni bisogno, affinchè da
questo I bro si allindano solo le argomentazioni trovale, mentre dal
primo se nc attinge anche l'ornamento e la politura. I precetti adunque che
vengo ora a porgere si vogliono riferire olla confermazione c alla conlu
lozione. IV. Ogni causa, sia duno-lrativa, sia deliberativa, sia
gìudiciale, dee necessariamente aggirarsi in uno o in un altro genere di
cosliluzione, sia uno, o sic o più, dei tanti clic sonosi per
addietro dimostrati. Tuttoché non possa essere altramente, pure
siccome V ha precetti applicabili in comune a tulli i generi di cause,
cosi ve n‘ ha altri diversi che di ciascun genere sono propri! e
speciali. Perocché altro dee avere per Isropo la lode o la dif tn quello,
aitine di far apparire quanto gli sia possibile che P accusalo fu
indotto a misfarc da una ragiono che Iroppo gli cattava bene. Se
questa ragione era la gloria, ciduvrò far vedere quanto di gloria colui
imaginava gliene sarebbe seguilo; e cosi se la ragione, se lo scopo
era o dominio, o danaro, o incontrar amicixia, o romper nimisiò , insomma
qualunque ragione colui avesse di far ciò clic fece, egli dovrò aniptiQcarla
quanto piò sappia. Anche dovrò attesamente speculare, non pure se fosse
ragion vera che mosse l'accusato, ma eziandio, c mollo piò, quale
fosse la opinione clic esso n'avea: poiché nulla molila clic non ci fosse
o elle non ei sia nella ragione del fallo un vantaggio o un dissutile, se
può provarsi che l’ accusalo tenevo realmente che questo o quello
ci fosse. L'opinione fa allucinare gli uomini per due modi, o quando una
cosa è d’altra maniera ch'essi non credono, o quando un successo
riesce diversamente da quello ch'essi hanno pensato- La cosa è d'altra maniera
quando essi credono un male ciò che è un bene, o per centra un bene
ciò che ò un male, ovvero credono male o bene ciò che non è bene nè male,
ovvero credono nè male nè bene ciò che è bene o male, inteso questo, se
l'accusalo dirò non v' esser somma di danaro che gli sia più accetta c più cara
clic la vita del fratello o dell'amico, o ancora del proprio dovere, non
dovrò l'accusatore negargliene; poiché ci si trarrebbe addosso una pecca,
un odio acerbo, negando una asserzione clic può esser vera nel tempo
stesso che è pia. Solo potrò dire l'accusatore che colui non pare essere
di questo avviso, e darò rincalzo al suo dello con gli argomenti elio si
traggono dalie persone , dei quali fla dello più sotto. VII. Il
successo inganna quando esso riesce allramenlc da quello che gli accusati
o altri qualunque si promettevano; come se si dicesse clic un tale ha
moria altra persona da quella che avria voluto, perchè trailo in errore o
dalla somiglianza, o dal sospclto, o da una appariscenxa fallace; n che
l’ha uccisa perchè fu di credere ch’essa nel testamento lo avesse
nominalo suo crede, mentre secondo il testamento l'crcdilò non era
legala a lui. Non si dee desumere la intenzio tasti utalur, ad rem
pcrlincre. In hoc attieni loco caput illud erit accusatori, si
dcmonslrarc polerit alti neniini causam fuisse faciendi; secundarium,
si tanlam aul tam idoneam nomini. Sin fuisse aliis quoque causa faciendi
xidebitur, aut poteslas defunse aliis demoiislranda est, aut farullas, aul
voluntas. Polestas, si aul nescissc, aut non adfuissc, aul enndeere
aliqtt'd non poluisse dicelur. Eacultas, si ratio, adiutore», aditi menta
celcraquc, quae ad rem pertinebunl, deruisse alicui deni'tusirabun
tur. Voluntas, si animus a talibus faclis vacilli» et integre esse
dicelur. Pnslrcmo, quas ad defensionem rationes reo dab mos, iis accusalor ad
alins ex culpa eximendos abutelur. Veruni M breii faciendtim est, et in
unum multa sunlconducenda, ut ne alterius defendendi causa huuc
accusare, sed huius accusandi causa defcndcrc altcrura videalur. Atque
accusatori quidem hacc fere sunt in causa faciendi consideranda. Defensor
autem ci contrario primum impul9Ìonem aut nullam fuisse dicet, aut,
si fuisse concedei, exlenuabit, et porvultm quamdam fuisse demonstrabil, aut
non ei ea solere huiusmodi facta nasci docebit. Quo erit in loco
demonstrandum, quae vis et natura sii eius adfcclionis, qua
impulsusaliquid rcus commisissc dicclur; in quo et exempla et
similitudincs crunl profercndae, et ipsa diliirenler natura
eiusadfeclionis quam lenissime quielissimam ad parlcni eiplicanda, ut et res
ipsa a facto crudeli et lurbulcnlo ad quiddam mitius et tranquillius
traducalur, et oratio Inmcn ad animum eius, qui audicl, et ad animi
qucmdam inlitnum sensum accommodetur. Ratiocinationis autem suspicione.»
infirmabil, si aut commodum nnllum fuisse, aut parvuin, aut aliis
magis fuisse, aut niliilo sibi magis, quam aliis, aut incommodum sibi
maius, quam commodum dicci; ut nequaquam fticril illius. cominodi, qund
expelilum dicalur, magnitudo aut rum co incommodo, quod accidcrit, aut
cttm ilio periculo, qund subcatur, comporti tela: qui omnes loci simdiler in
iucommodi quoque vitatione traclabunlur. Sin accusalor dixerit cum id esso
scculum, quod ei usi m sii commodum, aut id fugisse, quod putarit
esse ne dal successo, ma bensì badare quale Tu proprio
l'intensione c la speranza con che l'animo si è accinto a malfare:
perocché quel clic fa al caso si è il vedere la intenzione con la quale
altri fa un fallo, non la uscita a che il fatto stesso è venuto. E qui il
punto primario per l'accusatore sta in questo, che possa dimostrare come
verun altro, dall'accusato in Tuori, non ebbe la ragione ch’ebbe
egli di venir a quel fatto: il punto secondario è prmarc che nessun altro polca
avere unti ragione di si gran peso ed opportunità. Che se potrà pur
essere clic altri avesse la stessa ragione di fare, si dimostrerà che nondimeno
gliene mancava o il potere, o il destro, o la volontà; il potere, se dirassi
ch’egli non se ne seppe, n che non fu presente, o clic non ebbe i
mezzi per fare; il destro, se si rnoslrerà clic non ebbe nè modo, nè
nppnggialori, nè aiuti, nè quant'allro saria stalo di bisogno; la
volontà, se dirassi che egli ha un animo scevro c intatto da opere
dì si falla maniera. Da ultimo, le ragioni che daremo all’accusato per la
propria difesa son le stesse che tirerò al suo vantaggio I’
accusatore per purgare da colpa qualunque altro che invece di
quello fosse accusato. Questo però si vuol fare alla breve,
ammassicciando in uno piò cose, tanto clic si paia non clic s’accusi
questo per difender quello, ma che si difende l'uno per anzi
accusar l'altro. Vili. Tali sono le considerazioni clic dee far
l'accusatore rispetto alla ragione che mosse l'accusato a far quel clic fece.
Il difensore in quel cambio dee tenere diversa via. l a prima cosa
c! dirà clic quel fallo non venne da impulso d'animo, o se concederà elle
un impulso ci sia pure stato, farà di stremarlo e mostrare che fu
assai lieve, ovvero farà vedere clic falli di quella maniera per
l'ordinario non procedono da impulso interno. E qui ci verrà dispiegando
la forza c la natura di quella affezione, da cui si dice essere
stato impulso l’accusato a commetter I’ azione imputatagli: porgerà a
difesa esempii e similitudini, c svolgerà accuratamente quel molo dell’animo
dal suo lato più calmo e più tranquillo; talché il fatto stesso, che è
cagione di accusa, di crudele e turbolento pas-i ad aver sembianza
di mite e pacato, e il discorso sia nondimeno acconcio a svegliar nell'animo di
chi ascolta un sentire accostante alta sembianza elle si vuol dare al
fallo. Il difensore anche addebotirà i sospetti appoggiali a raziocinio, se
dirà che dal fallo non venne vantaggio di sorta, o che ne venne
pochissimo, o che esso profittò agli altri mollo piò, o che niente piò
all'accusato che agli altri rftin fece, o anzi gli tornò più a danno che
a utile; di forma ti incommodum, quamquam in falsa fucril opinione,
dcmonslrandum crii ilcfcnsori ncniinem Ionia esse slullilia, qui tali in
re possil verilatem ignorare. Quod si id conccdnlur, illud min ronccssum
ili, ne dubitasse quiilem lume, quid u-rius ossei, sed id. quod
falsimi Inerii, sino olla duliilalione prò vero protrasse. Quod si
duliiliirit, smuntile Inisse amctilioedtibias|ie inipulsiiin eerlurn in
periculiini se conunillere. Qiieniadniodum anioni areu-alnry quum
ab aliis culpam deiuovebil, defensoris Ineis ulclur, sic iis locis, qui
a-cusatori doli soni, utelur rem, quum in ilios ab se crimcn vote! Iran s
Terre. Et persona uulem eonicclura capielur, si rac res, rpiae
personis atlriliulae soni, diligenler eonsidcrabuntur, qnas omnes in
primo libro ovposuimus. N.un el tic nomine nonmunqunin aliquid
suspiciouis nascilur. Nomen ameni 1 poco scaltra, che possano essere ribattuti
evoltali a utile della parte contraria; della qual fatta sono i Ire clic
ultimamente ho toccati. Quanto (• alta querela gravissima, con che si
dimostra che seguirebbe scompiglio in tutliquonli i giudicii, ove l'
accusatore avesse licenza d' infligger la pena a chi non fu condannalo,
l'accusatore addebolirà essa querela primamente se farà vedere esser il
fatto una ingiustizia cosi acerba, ila non poterla portare un uomo
dabbene, e molto ancho meno un uomo libero; dipoi se farà conoscere esser
essa cosi evidente, ria non poterla mettere in dubbio neppure colui
medesimo elio la commise; poscia esser di tanta gravità, che colui
clic n’ha fatto punizione l’ha senza altro unno n. communis
accusatori in cum, qn>, quum id.qnnd argnilur, negare non possi!,
lamen al quii! sibi spai compn et ex iudlciorum pcrln» boli, no ,\ !
quc hic ulilitalis iudiciorum ocmonslrnliu et de co conquesti» ,
qui supplicium dederil indi miinlus ; in eius autem, qui sumpseril,
audacia!» pi crudrlilalcm indignali». Ah defensorp. In eius , quem ullus
sii, audacia!» sui conquesti» : rrm non ex nomine ipsius negolii, sed ex
consilio eius, qui fe ccril, et causa et tempore consideraci nporlerc
; quid mali fulurom sii ani ex iniuria aut ex seriore alicuius, nisi
tanta et Ioni perspicua audac a ab eo, ad cuius famam, aut ad parentes,
aut ad li beros perlinuerit, ani ad aliquam rem, quani caram esse omnibus
aut ncccssc est, aut oportel esse, fueril «indicata. Remolio criminis est,
quum eius inleidio f ieli, quod ab adversario inferinr, in atium aut
in aliud dem >velur. Id IH bipcrlito ; nam tum causa, lum res
ipsa removetur. Causae remotionis hoc nobis esemplo sit: Rhodii quosd.im
legarunl Ailienas. Legatis quacstorcs sumplum, quem oporlcbal dari, non
dcderunl. Legali profedi non stud Accusantur. Intenti» est : Profieisci
oportuit, Dipoi sio est: Non oportuit. Quaestio est: Opertucrilnc?
Ratio est: Sumptus enim, qui de publico dari sole!, is ab quacstore non est
datus. Inflrmalio est: Vos tamen id, quod publice vobis erat negotii
datum, conflccrc oporlcbal ludicatio est: Quum iis, qui legali eranl,
sumptus, qui debebatur de publico, non daretur, oporlueritnc eos conlieere
nihilo minus legalioncm ? Hoc in genere primum, sicut in coieria, si quid
aut ex conieclurali aut ex alia constilulionc sumi possi! , viderì
oporlcbil. Deinde pleraquc et ex comparatione et ex rclaiione criminis in
liane quoque causam convenire poterunt. Accusalor autem illum, cuius
culpa id factum reus dice!, primum dcfendel, si polcrii ;
dovuta fare di necessario; di modo clic se Tu cn-a giu-la, se fu
onesta clic quella ingiustizia veni.se portata in giudici», motto più fu
onesta e giusta rosa die si punisse a quel modo c da quello, ila
cui fu cosi punita; indi esser essa cosi manifesta, da non esser mestieri
die neppure se uè tenesse giudici». E qui con ragioni e circoslanrc simili
si dee dimostrare come si danno di molte altre cose egualmente atroci ed
egualmente chiare, le quali non solo non è necessario, ma ni eziandio
utile aspettar di punire quando ne sarà fallo il giudicio. A questo punto
toma acconcio un lungo comune: a carico dell'accusatore, mostrando la
parte arveisa clic non potendo egli negare il fallo, movente c causa del
fatto cli'cssa difende, va tuttavia a mendicare nello scompiglio
dei giudici qualche speranza di buona uscita. E qui s' ha a dimostrare l'utilità
dei giudicii, e menar doglianza sull'Infelice che doveltc soggiacere a
pena senza previa condanna, e far cruccio contro l'audacia e la crudclvzza di
colui che impose la pena. A carico del difensore, dolendosi l’accu
sante dell'arroganza di colui ch'egli ha punii». Dirò, doversi riguardare
il delitto non dal nome dell' a ITa re totale, ma dalla intenzione di
colui clic il fece, dal motivo, dalle circostanze del tempo; c badar bene
al male che ridonderebbe dalle ingiustizie c dalle scellcranzc dei
malvagi, se cosi grande e cosi Dolente audacia non fosse punita
dall'uomo clic se ne vede mistratiala la fama, o i genitori, o i figli, o
qualche atiro oggetto che necessità o convenienza domanda clic da
ognuno sia avuto a caro. È retnoziune del distillo allora che un Iole
riversa sopra un'allra persona o un'altra cosa il fallo che l'avversario
imputa contro a lui. Ciù si fa per due modi, poiché ora si riversa sopra
altrui la causa del fallo, ora il fatto stesso. Quanto alla causa,
abbiamone il seguente esempio: I Rodiani vollero mandare certi loro
ambasciadori in Alene, àia siccome i questori non diedero loro le spese,
come era dovere, gli ambasciadori per ciù non partirono. Sono accusati. Dice
l’attore: Si doveva partire. Replica colui che difende: Non si doveva. La
questione è: Sì doveva o no? La ragione, ovvero difesa: Poiché ii
questore non forni il danaro del comune, che si fornisce per consueto
agli ambasciadori. La confutazione è: Voi non di meno dovevate spedir la
bisogna che a nome del pubblico vi era commessa. Il punto da decidere si
i : Non essendo date agli ambasciadori le spese di quello del comune,
come pur bisognava, dovevano essi non ostante ciò andare in ambasceria? In
quesia causa, come in lolle le altre, é da vedere se si possa (or qualche
punto che profili! o dalla con si minus poteri!, ncgabil ad hoc iudicium
illius, scd liuius, qucm ipsc accuse!, culpam pei linere. Poslca
dicci suo quemquc officio consolerò oportcre ; ncc, si illc peccasse!, hunc
oporluisse peccare : deinde, si ille deliquerit, separabili illum sicut
hunc accusari oporlere,ct non cum huius dcfensioneilliusaccusalionem.
Defensoraulom quum celerà, si qua ex aliis incidenl
conslilulionibus, pertractaril, de ipsa rcmolionc sic argumenlabilur.
Primum , cuius acciderit culpa , demonstrabil ; deinde, quum id aliena
culpa accidisscl, ostcndel se aut non poluisse aut non debuissc id
tacere, quod accusator dica! oportuisse. Quod non polueril, ex ulililalis
partibus, in quibus csl necessiludinis vis implicata, demonstrabitur; quod non
dcbuerit, ex honeslate considerabilur. De ulroque distinctius in
deliberativo genere dicelur. Deinde omnia racla esse ab reo, quac in
ipsius Tuonili potestalc; quod minus, quatn convencrit, faclum sii, culpa
id allerius accidisse. Deinde in allcrius culpa cxponcnda dcmonslrandum esl,
quanlum volunlatis elstudii fuori! in ipso; et id signis confirmandum huiusmodi
; ex celerà diligenlia, ex ante factis aut diclis; alque hoc ipsi utile
fuissc Tacere, inutile autem non facere, et cum celerà vita fuisse
hoc magia conscntaneum, quain quod proplcr alterius culpam non feceril. Si
autem non in hominem certum, sed in rem aliquam causa demovebilur, ut in
hac eadem re, si quaestor mortuus esse!, et idcirco legalis pecunia
data non essel accusatone allcrius el culpae depulsione dempta, ccleris
similitcr uli locis oporlebit, et ex conccssionis partibus, quae
convenienl, adsumere ; de quibus post nobis diccndum erit. Loci autem communes
idem ulrisque fere, qui superioribus adsumplivis, incidenl ; hi
tamen certissime : accusaloris , facli indignato, defensoris, quum in
alio culpa sii, aut in ipso non sii, supplicio se adOci non oporterc.
Ipsius autem gcllurjle, o da qualche altra costituzione. Dipoi
potranno anche in questa causa risponder bene molti capi della
comparazione c del lrasfc, a cui era interdetto sacrificar vitelli. Giunti i
naviganti a terra, c ignorando la legge, sacrificarono il vitello votato. Il
padrone della nave £ tradotto al tribunale. L'accusa che gli si dà
£ questa: Hai sacrificato un vitello a quella divinità, a cui non si poteva La
replica non fa che eoncedcrc. Il motivo, o difesa, si £: lo non sapeva
clic non si potesse. La confutazione 6: Però, quando fu fallo ciò clic
non era permesso, sci merilevolc del casligo voluto dalla legge. Il
punto da dover giudicare sarà così: Poichò coslui ha fallo ciò clic
non era permesso, ma ignorava clic permesso non fosse, £ egli merilevolc o no
di casligo? Il caso si rapporterà alla concessione allorch£ mosirerassi che
qualche ostacolo e impiglio fortuito ovviasse che l'uomo non facesse a sua
volontà, come in questo fatto: Era legge in Fsparta che colui, il quale
aveva l'appalto di somministrare le vidimo, fosso punito di morte se non
le avesse apprestate per un dato sacrifizio. Cominciò adunque si fallo
appaltatore di condurre dalla campagna le villimc alla volta della
città, praeslo non lucrimi. Dcpulsio esl: Concessio. Ratio: Fluraen cnim
subito accrcvil, et ra re traduci non poluerunl. Inlìrmalio est : Tamcn,
quoniam, quod lei iubct, factum non est, supplicio digitus es.
Iudicalio est : Quum in ea re contro Irgern redemptor ali.quid fecerit, qua in
re studio eius subita flutninis obstitcrit magnitudo, supplicio dignusne sit
? Necessitudo autcm infcrlur, quum li quadam reus LI, quod feccrit,
fruisse defeudilur, hoc modo : Lei est apud Rhodios, ut, si qua rostrata
in porlu navis deprrhensa sit poblicetur. Quum magna in alto tcmpestas
esse), vis vcntoruin invilis nautis in Khodiorum portum navem
cocgil. Quaestor navem populi vocat. Navis dominus negai oportrre
publicari. Intenlio est: Rostrata navis in porlu dcprchensa est. Dcpulsio
est: Concessio. Ratio: Vi ol necessario sunius in portum c acti.
Inlirmatio est : Navem ex lego tamcn populi esse operici. Judicalio est:
Quum roslralam navem in poi tu deprehensam L-s publicaril, quumque
liacc navis invilis nautis vi lempcstatis in pollimi conicela sit,
oporleatne cam publicari? Ilorum tiium gencrum idcirco in unum locum
contuliuius esempla, quod siniilis in ra praeccptia orgumeiibrum
traditur. Nani in bis omnibus primum, si quid res ipsa dabit fdculiatis,
cnniecluram induci ab accusatore oporlcbit, ut id, quod volunlulc factum
oc gabilur, consulto faclum suspicione aliqua demonslrelur ; deinde
iuducere dclinitionem nccessitudinis, sul casus, aut imprudenliae, et esempla
ad eam dclinitionem adiungere, in quibus iinprudcnlia foisse vidcalur,
aut casus, aut necessitudo, et ab bis id, quod reus infoiai, separare, id
esl, estendere dissimile, quod levius, facilius, non ignorabile, non forinitum,
non neccssarium fueril. rosica dcmonslrare poluissc vilari ; et hac
radono provideri poluissc; si Ime aut illud fecissct, aut, perchè
avvicinava già il gioruo del sacriGxio. Avvenne però caso che essendosi messa
una fiera procella, il (lume Eurola che scorre rasente a Sparla
ingrossò di tanto c prese un andare si impetuoso, che per nessun modo vi
si poterono far passare le vittime. L' appaltatore per dar a
conoscere com'egli era d’animo di voler far il dovere, appostò tutte le
vittime sulla spiaggia per amore che le potessero vedere quelli eh’
erano dall' altra parte del fiume, Avvegnaché tutti sapessero die al
desiderio di passare gii avea fatto ostacolo la si tosta piena del fiume,
nondimeno ci fu chi gl' intentò lite in fatto capitale. Ecco
l'accusa: Non furono in pronto lo vittime che tu dovevi somministrare pel
sacrifizio. La replica i: Vi si concede La ragione giustificante :
Giacché il Guuie fatto grosso d' improvviso mi vietò dal tragittare
le vittime alla città. La confutazione: Tuttavia, siccome non hai fallo
ciò clic comanda la legge, sei degno che le ne sia inflitta la pena.
Il punto che vuol esser giudicato è tale : Poiché ('appallatole non
apprestando le vittime ha mancato alla legge, ma non le apprestò perchè
gliene pose ostacolo la subita piena del fiume, è egli meritevole o
no di supplicio? La ncccssilà Ira luogo nella concessione quando I'
accusato deduce che a far ciò che egli fece fu spinto da una cotale
prepotenza delle circostanze. Per esempio: Vi ha legge presso i Rodiani che in
evento che sia sorpresa nel porlo loro una nave rostrata di qualsiasi
forestiere, essa diventa proprietà del comune. Or essendosi gettato il
mare a burrasca fierissima, avvenne che la furia dei venti, nondimeno che
i naviganti volesseio tener l'alto, spinse la nave loro malgrado, nel
porlu dei Rodiani. Il questore vanta per la legge clic la nave è
proprietà del comune. Il padrone sostenta che non dee al postutto essere.
Si viene alla petizione: Fu presa una nave rostrata dentro dal porto. La
rcplicu è la concessione del fatto. Il motivo di difesa : Fu la forza dei
venti cito necessarianiente u' ha avventalo addentro il porlo. La confutazione
: Tuttavia la nave a richiesta dc!la legge dee cadere in proprietà del
comune. Il punto da decidere: Essendo la riave rostrata, che fu
presa nel porto, fatta dalla legge di ragion del comune, ed essendo
questa nave avventata nel porto dulia furia delta procella a malissimo grado
dei naviganti, si dee essa o non si dee aggiudicar al comune coinè sua
proprietà? Ilo unito di seguilo gli esempli di queste tre parli della
scusa, perché son simili i precetti che si danno circa agli
argomenti proprii di tutte o tre. Difatti in tulle c tre converrà
primamente che l'accusatore, se il fallo stesso gliene olTrirà qualche
appiglio, ricorra alio parti della 9i ni sic ferisscl, praccaveri ;
el dcfinilionihns ostendere non tianc imprmlentiam, aut casum, aul
ncccssitudiricm, sed inertiam, ncgligonliam, faluilalem noininari oporlere. Ac
si qua nccessiludo lurpitodinem videbilur liabcre, oportebit per locorum
communium implicationem redargucnlcm dcmonstrarc quidvis perpeti, mori
denique salius fuisse.quam ciusmodi nccessitudini obtemperare.
Alquc lum ei iis locìs, de quibus in negoliali parie dictom esl, iuris et
aequilalis naluram oportobit quaererc, el, quasi in obsoleta iuridiciali,
per se, hoc ipsutn ab rebus omnibus separatim considerare. Atque hoc in
loco, si facullas crii, riempii* liti oportebit, quibus in s'mili
eicu«alione non sii ignotum, et contenlione, mauis il Iis ignosrendiim
fuissc , el delibcralionis parlibus turpe ani inutile esse concedi eam
rem, quac oh aihcrsario commis»a sit ; permagnuin esse, cl magno
fulurum detrimenln, si ea res ab iis, qui pntest ilern habenl viodieandi,
neglecla sii. ltiTensor aulein conversi! omnibus bis parlibus
poterit oli. Hhivime aulein ili vidimiate defeiidenda commnridiilur. el
in ea re adaugenda, quae vnluntati fiieril impedimento; el se plus,
qnam feeerit. tacere non poluisse ; el in omnibus rebus «oliintalem
speelari oporlere; el se convinci non posse, quod alis i a culpa: et et suo
nomine eomtnunem Immillimi inlirntilalem posse doni nari. Deinde n ini
esse indignius, qoam cuni, qui culpa careni, supplicio non rarere. Loci
aulein commuiies accussaioris, in contcssionem, el quanta pntestas
peccandi rclinqualur, si semel iuslilu questione
congetturale, per potere quando l’accusalo dicesse aver tatto contro sua voglia
ciò che egli fece, dimostrare col melterc in rilievo qualche
sospetto eh' egli anzi ha tallo a sciente c a bello studio ; dipoi si
dovrò porgere la definizione della necessità, o del ca-o, o della
ignoranza, e aggiustar a quella definizione esempii si falli che dimostrino
etTetlivomente o ignoranza, o caso, o necessità, c separare da questi il fatto
presente, voglio dire farlo conoscere ben diverso da quelli, asseverando
che qui il fallo era di meno importanza , più agevole, non ignoto, non
forlunevole, non necessario. Dipoi si vorrà dimostrare che l’accusalo
poteva schivarsene, e darsi attorno facendo questo o quello, perchè nulla
avvenisse, o almeno prevedere dò che sarebbe seguilo se nè questo nè quello
avesse fallo; e col mezzo delle definizioni mettere in chiaro che il fallo
presente non dee nominarsi o tratto d'ignoranza, o caso, o necessità, ma
più presto dipendere da inerzia, negligenza, stolidezza. Che se nella necessilà
fosse impigliala qualche azione ignominiosa, converrà all'accusatore col
mezzo ili varii luoghi comuni mostrare che saria sialo meglio patire
qualunque stremo, e fin anche la morte, che obbedire a necessità di
quella fatta. Inoltre converrà ilielio la guida di quei luoghi, di che si
è dello parlando dello stato negoziale, cercare quale sia la natura ilei giure
e dell'equità. c. come si Tu nella causa assoluta di genere giuridici.de,
considerar ciò medesimo di per sè, separatamente da ogni altra rosa. E
qui, se pure se n'avrà in pronto, dovrassi addurre esempii di falli,
che quantunque giustificali per mezzo di scusa simile, pure non hanno
ottenuto perdono, c mostrare por via di confronto che quelli allato
a questo erano perdonabili mollo più di vantaggio, ed entrando a ragionare
dietro le regole dello s'ato deliberativo, far vedere essereosa turpe o
inutile clic del suo delillo il reo se la passi liscia: esser cosa di
troppo momento, c elio ridonderà a gran male, tc di lai delitto si
volessero trascuratamente passare coloro che hanno l'autorità di esigerne
la pena. XXXIII II difensore all'opposto potrà valersi di tulli
questi argomenti, ma in verso contrario. Egli però si fermerà il più a
difendere il buon volere (l' Il'aecu-ato, e ad esagerare ciò che
gli intervenne inciampo e di ostacolo: sosterrà ch'egli non ha potuto fare
più di quello che fece; e clic in ogni azione deesi aver in mira
l'intendimento, e la volon'à: e che egli non può esser convinto
perchè da colpa è ben lontano; e che se si condannasse per questa sua causa, si
potrebbe egualmente condannare la debolezza comune a lutti gli uomini.
Dirà poscia, non v'esser cosa più crudele lum sii, ut non de facto, sed de
facti causa quaeratur : defcnsoris conquestio est calamilatis cins, quae
non culpa, sed si malore quadam accideril, et de forlunac polestalc, et
hominum iulirmitalc, et, uti suiim animum, non cvrntum considerent.
In quibus omnibus conquestioncm suarum acrumnarum, et crudelilalis
adversariorum indignalionem inesse oportebit. Ac neminem mirari convcniet, si
aut in his aut in aliis exemplis scripti quoque conlroversiam adiunctam
videbit. Quo de genere posteritnobisscparalim dicendum, propterca quod
quaedam genera causarum simpliciter ex sua vi considerantur, quaedam
aulem sibi aliud quoque aliquod controvcrsiac gcnus adsumunt. Quarc
omnibus cognilis, non erit difficile in unam quamque causam transferre,
quod ex eo quoque genere convenict; ut in bis exemplis conccssionis
inest omnibus scripli controversia ea , quae ex scripto et sentenlia
nominatur ; sed, quia de concessione loquebamur, in eam praecepla
dedimus. Rune in alleram concessioni; partem consideralionem
intcndemus. Deprecatio est, in qua non defensio faeli, sed ignoscendi
postulatio continetur. Hoc Bonus vix in iudicio probari polest, ideo quod
concesso peccato difficile est ab co, qui peccalorum rindex esse debet,
ut ignnscat, impetrare. Quarc parte eius generis, quum causam non in eo
constitueris, uti licebit. Uti si prò aliquo claro aut forti viro, cuius
in rem publicam multa suoi beneficia, dixeris, possis, quum videaris non uli deprecalionc,
uti tamen, ad hunc modum : Quodsi. iudices, hic prò suis bencflciis, prò
suo studio, quod in vos semper habuit, tali suo tempore multorum suorum
recte factorum causa uni deliclo ut ignosceretis postulare!, tamen dignum
veslra mansuetudine, dignum virtute huius csscl, iudices, a vobis hanc
rem hoc postulante impctrari. Deinde angere beneficia licebit , et
iudices per Iocum communem ad ignoscendi volunlatem deducerc. Quaro
hoc genus. quamquam in iudiciis non ver di quella, che soggiaccia a pena
quell'esso, che di male fallo non è punto reo. I luoghi comuni che
gli tornano a prò li piglierà l’accusatore, l’uno da ciò che confessa il
reo di aver fatto, l’altro dal far osservare che si lasccrohbe a tulli un
pieno arbitrio di venire a nequizie, se una volta si autorizzasse l'abuso
di far il processo non del fatto, ma della causa del fatto. I luoghi a
prò del difensore sono: il deplorare quella disavventura che occorse non
per colpa dell'accusato, ma per una forza maggiore, cui egli non fu
poderoso a ribattere; il lamentare sopra la gran possanza della fortuna e la
debolezza degli uomini, c clic si voglia alle intenzioni di lui
attribuire una pravità, anzi che cercar la cattiveria del fatto nelle
circostanze che lo accompagnarono. In tutti questi punti dovrà il
difensore mostrar doglianza delle disgrazie del suo protetto, c sdegno
della crudeltà degli avtcr sarii. Nè dee prender maraviglia chi che sia,
se in questi esempi, come in ogni altro, vedesse involta controversia
altresì di scritto. Di questo però ho da parlare distintamente più sotto,
poiché alcuni generi di causa si riguardano puramente in sè e nel
solo punto controverso in cui s'aggirano, ed alcuni altri associano alla
propria qualche altra I specie di controversia. Quando adunque sieno
ben conosciuti i capi precipui di ogni causa, non sarà malagevole
introdurre in ciascuna quel tanto della controversia di scritto che l'è
occoncio o che vi calza: ed anzi in questi medesimi esempi della
concessione è inchiusa la controversia clic si domanda di scritto e di senso;
ma siccome si parlava della concessione sola, non ho dato altro clic i
precetti che erano relativi ad essa. Dello scritto e del senso parlerò
altrove. Ora passiamo a considerare la seconda parte della concessione. Preghiera
è quel discorso, in cui consiste non la difesa del fallo, ma la istanza che
gli sia dato perdono. La preghiera di questa specie è troppo
difficile che in giudirio possa essere poderosa, perchè quando il delitto è
confessalo, appena può darsi che lo perdoni colui che ne dee anzi essere
il punitore. Laonde, qualvolta la tua causa non sia così spallala, che tu
non le possa dar altro per appoggio che la preghiera, dovrai usarne
con parsimonia solo qualche parte. Per esempio se Iti arringassi a
prò di un personaggio di gran levatura o valore, il quale avesse recali di
molli benefizii alla repubblica, potrai, facendo partila di non dar punto
in preghiere, darvi non di meno a questa guisa: che se quest'uomo, o giudici,
clic sa di aver fatti imporlanti bcnclìzii, e preso per voi tulli
molto impegno e premuraci facesse istanza che in si grave sua disgrazia
voi altri a riguardo di latito buone e belle sue azioni gli aveste a
perdonare il satur, nisi quadam ex parie, lamen, quia el pars ' haec
ipsa ìnducenda nonnumquam osi, el iq se- nalu, aut in consilio saepe omrii in
generp, tractanda, in id quoque praceepla pnnemus. Nani in senalu el in
consilio de Syphacc diu deliberatimi | esl ; el de Q. Numilorio Pullo
apud L. Opimium | et eius consilium diu diclum est. Et magia in Ime
quidem ignoscendi quam cognoscendi poslulatio Tatui!. Nani semper animo
liono se in popolimi Romanum fuisse non lam Tacile probabili, quurn
coniccturali conslitutionc uleretur, quam ut propterpostcrius bcneDcium sibi
ignoseerclur, quum deprecationis partes adiungerct. Oporlebit igitur
eum, qui sibi ut ignoscatur , postulabit , commemorare , si qua sua
poteri! beneficia, et si polcrit ostendere ea malora esse, quam haec, quae
deliquerit, ut plus ab eo boni quam mali proTcclum esse videatur ;
deinde maiorum suorum beneficia, si qua cxstabuoi, proTcrre; deinde ostendere
non odio ncque crudclilate fecisse , quod fecerit , sed aut atuUilia, aut
impulsu alicuius, aut aliqua boneala, aul probabili causa ; poslea polimeri el
confirmarc se et hoc peccalo doclum, el beneficio eorum, qui sibi
ignoverint, confirmalum , ornili tempore a lati radono afuturum ; dcinilc
spem ostendere aliquo se in loco magno iis, qui sibi concessemi,
usui fulurum. Poslea, si facullas eril, se aul consanguincum, aul iam a
maioribus in primis amicum esse demonstrahit, el ampliludinem suac voluntalis ,
nobili latem generis eorum, qui scsalvum velini, el dignilalem estendere,
el celerà ea, quae personis ad honestalem et amplitudinem sunt allribula,
cum couqueslionc, aìne adrogantia, in se esse demonstrahit, ut bonere
polius aliquo, quam ulto supplicio digiius esse videatur ; deinde celeros
proTerrc, quibus moiora solo delitto ch’egli ha commesso,
sarebbe pure un tratto degno della clemenza vostra, o giudici, e
degno della virtù di tanto uomo clic voi scendeste a indulgenza si fatta
per essere si Tallo il personaggio clic la vi ehiede. Dipoi si potrò mettere
in sul grande i delti lienefizii, e col maneggio del luogo comune
clic è calzante ed alto a ciò, piegare il cuore dei gindici a volere pur
perdonare. Il perchè, sebbene dilla preghiera non si dee far uso ne’
giudicii se non che per qualche poco, lunaria perchè quesla porle
medesima si dee pur qualche rolla interporre, ed ami incontra
sovcnle che o in senato o in consulta si debba trattar la preghiera
per ogni sua parte, così verrò qui dando i precetti che a questo capo si
riferiscono. Certo è clic sull’ aliare di Si Tace cosi in senato come in
consulta si deliberò molto a dilungo se gli si dovesso perdonare, ed
altresì sopra Q. Numilorio Pullo fu parlato lunga pezza davanti L. Opimio
e ga sua consulta; c massime nella causa di Numitorio Tu senz'altro piò
valevole il fare istanza clic gli fosse perdonalo, elio non l'insistere
perchè ne seguisse il processo. Non era infatti troppo facile per lui,
essendo la sua causa basala sul congellurale, far vedere manifestamente
ed in prova ch’egli fosse stato sempre di buone intenzioni e voleri verso
il popolo Romano; ben per contrario gli fu facile ottenere che gli fosse
perdonato, Ira in vista del beneficio che da ultimo avea fallo, c mollo
piò per avere al suo ragionamenlo aggiunta la fona dello preghiere.
XXXV. Converrà dunque che colui il quale facesse istanza perchè gli
fosse perdonalo, vada ricordando i benefizii che potesse aver fallo, e
mostrando, se il caso gliene pcrtnclterà.ch’cssi in confronto sono mollo piò
rilevanti clic non le mancanze ch'egli lia commesse, tanto che si paia
che ha fallo del bene troppo più che del mole; dipoi dovrà recare
in mezzo, se polrà vantarne, i benefizii dei suoi maggiori; indi dar a divedere
come a ciò che egli fece non fu indolto nè da odio nè da
crudelezza, ma o dalla scioccaggine o dalle istigazioni di alcuno,
ogipure perch'egli n'ebbe una causa onesta o lodevole; dappoi dar parola
e far ad ogni modo fede eh’ egli ammaestrato dalla esperienza presa nella
prcscnlc sua colpa, e reso raffermo e savio dal beneficio di quelli che di
quel fallo gli perdonarono, non vorrà piò in nessun tempo adoperarsi mai
di quella maniera; inoltre mostrare anche speranza che in qualche occasione
ei polii pur fare avvantaggio mnlloe servigio a quelli die avranno
indulto con lui. Dipoi, se avrà ragioni da polerlo fare, dimostrerà aver egli
parentezza con quelli a che rivolge le suo preghiere, oppure
coltivala sempre l' amicizia che verso loro gli fu concessa dclicta sinl.
Ac mullum profìcicl, si se miscricordem, in polestalc propcnsum ad
ignosccndum fuissc oslendcl. Alque ipsuin illnd peccalum crii cxtcnuandum, ut
quam minimum obfuisse videatur, etani turpe aul inutile demonstrandum tali de
liominc supplicium sumere. Deindc loda communibus miscrieoMiam captare
oportebit ex iis praeceptis, quae in primo libro sunt
eiposila. Advcrsarius aulem malefacta augcbil: nibil imprudentcr,
sed omnia ci crudelitale et malitia fa da dicet; ipsum misericordcm,
superbum fuissc, et, si poteri!, ostendet semper immicum fuisse et amicum fieri
nullo modo posse. Si beneficia proferel, autaliqua decausa facla,
non proplcr bcncvolenliam dcmonstrabil, aut poslea odium esse acre
susccplum, aul illa omnia maleficiis esse deleta, aut levìora beneficia quam
maleficia, aut, quum bencficiis bonos habitus sii, prò maleficio pocnam
sumi oportere. Deinde turpe esse aut inutile ignosci. Deinde, de quo ut
polestas esse! saopé optarint, in eum polestate non uti summamesse
stulliliam; cogitare oportere, quem animum in cum et quale odium
habuerint. Locus aulem communis erit, indignano maleficii.et alter,
eorum misereri oportere, qui proplcr fortunam, non proplcr maliliam in
miseriis sinl. Quoniam ergo in generali conslilutione lamdiu
proplereius parlium mulliludinem commoramur, ne forte varietale et
dissimililudine rerum diduclus alicuius animus in qucmdam errorem
deferatur, quid etiam nobis ex eo genere resici, et quare resici, admonendum
videtur. Iuridicialcm causam esse dicebamus, in qua acqui et iniqui natura et
praemii aul pocnae ratio quaererelur. Eas causas, in quibus de acquo et
iniquo quaerilur, exposuimus. trasmessa dai maggiori, c farà conoscere il
grande suo buon volere, come altresì la nobiltà della stirpe e la
grandetta degli ufllcii tenuti da quanti il bramano salvo o risparmialo:
dimostrerà avere in sé, pure clic il faccia con parole dimesse e in tuono
presso ette lamentevole, tulli quei caratteri che son proprii delle
persone clic per grandetta c onestà ranno dagli altri distinte, sicché faccia
in certo modo apparire esser egli meritevole piullosto di qualche onore
ebe di un castigo: inoltre nominerà tulli gli altri, quanti ne sappia, a cui
furono perdonati delitti vie più gravi del suo. Mollo anche gioverà
alla sua causa, se mostri com'egli fu sem. pre compassionevole, e come
sempre che ebbe csercitio di autorità fu inchino ad usar perdonanti ed
indulto. Anche dovrà il difensore appicciolir la colpa dell' accusalo, e
mostrare che il danno indi venutone é da nulla, ed esser o cosa vana o da
far disonore il soggettare a castigo una persona tale. Dipoi si
vorrà con l'uso de' luoghi comuni accattargli compassione secondo i precetti
che nel primo libro se ne son dati. L'avversario per contro amplificherà
il delitto: dirà che niente vi fu fallo per ioconsiderama, ma lutto ami
per malizia e crudelezia: che egli fu superbo e senza pietà; c dove il
possa, farà vedere ch’egli fu sempre porlalo alle nimicizie, e che
amicarlo mai per nessun modo è possibile. Se toccherà i benefizii da lui
fatti, dimostrerà che essi ebbero origioe da qualche ragione di suo
vantaggio, non da animo proclive a ben volere, oppure eh’ egli poi ti attossicò
con l' odio acerbo in che colse i beneficali, o che i benefizi! furono
distrutti da altrettanti diservigii e male cose, o che il ben eh’ egli
fece fu da meno che il tanto male, ovvero che deesi oggimai, poiché hanno
avuto la debita mercede i suoi benefizii, volere il castigo delle
sue malvagità. Poscia verrà dicendo che il perdonare sarebbe una
inutilità, o un tratto vituperevole: essere un troppo scioccheggiare il
non volere punto far uso i giudici sopra costui di quella autorità che
sopra di esso hanno tante volte ambito di avere: dover essi riandar seco quanto
mal animo e qual odio a quel tristo hanno già portato. E qui il
luogo comune che fa al proposito è in prima lo andar in parole piene di
sdegno contro il delitto dell'accusato, secondamente mostrare che
si dee aver pietà s) bene, ma solo di quelli che sono flagellali dalla
fortuna, non di quelli che sono nelle miserie per loro propria malvagità.
Ma posciachè io mi trattengo cosi alla lunga circa la costituzione
generalo per la moltitudine delle parti eh’ essa comprende, voglio
ammonire che altro mi resti ancora di questa trattazione, e perchè mi
resti; e il vo' fare perchè qualcuno per ar Restai nunc, ul de praemio, et
de poena explieemus. Sun! cnim mullae causae, quae ex pracmii alicuius
pctilione Constant. Nametapud itidices de praemio saepe accusalorum
quaerilur, et a senaiu aul a Consilio aliquod pracmium saepe
pelilur. Ae neminem conxeniet arbitrari nos, quum aliquod exemptum
ponainus, quod in senatu agatur, ab iudiciali genere exemplornm recedere.
Quidquid cnim de homine probando aut improbando dicitur, quum ad cam diciioncm
scntentiarum quoque ratio accommodetur, id non, si per senleiiliae
diciioncm agilur, dcliberativum est; sed quia de homine staluitur,
iudicialc est habendum. Omnino autem qui diligcnter omnium causarum
vim et naturam cognoverit, genere et prima conformationc eas inlelliget
dissidere. Ccleris autem partibus aptas inter se omnes et aliam in alia
implicatalo videbit. Nunc de pracmiis consideremus. L. Licinius Crassus
consul quosdam in citeriore Gallia nullo illustri neque certo duce, ncque
eo nomine, ncque numero praeditos, ut digni cssent, qui hoslcs
pnpuli Romani esse dicerentur, qui lune cxcursionibus et latrociniis
infestam provinciam reddercrit, consectatus est et confecit. Romani rcilil :
triumphum ab senatu postulai, llic, ut et in deprccatione, niliil ad nos
allinei rationibus et inflrmationibus rationum supponendis ad
iudicationem pervenire, propterea quod, nisi alia quoque incidcl
conslitutio, aul pars constilulionis, simplex erit iudicalio, et in
quacslione ipsa contincbitur. In deprccatione, huiusmodi : Oporteatne
pocna adfici? In hac, huiusmodi: Oporteatne dari pracmium ? Nunc ad
praemii quacstionein appositos locos exponemus. Ratio igilur praemii
qoatuor est in partes distributa : in bcnelicia, in hominem, in
praemii gcnus, in facultates. Beneficia ex sua ri. ventura non pigliasse
le cose a rovescio, tratto in errore dalla varietà e dissomiglianza di esse,
lo già diceva, quella essere causa giuridiciale, in cui si cerca la
natura del giusto e dell' ingiusto, e la ragione del premio e della pena;
ed anche ho csposlo le cause, nelle quali del giusto e dell'ingiusto si la la
debita investigazione. Resta dunque adesso che si venga a parlare del
premio e delia pena. Ci sono di molle cause, le quali consistono nella
domanda di qualche premio. E infatti si controverte spesso davanti ai
giudici del premio da dover dare agli accusatori c cosi ancora molle delle
volte si domanda premio dalla consulta o dal senato. Nessun però creda che
quando io reco alcun esempio di causa che si agili in senato, io mi
diparta dagli esempii di genere giudiciale; conciossiachè ciò che si dice
o a lode o a biasimo di una persona, quantunque eziandio a questo
genere di dicitura vada spesso unita la pronunzia della sentenza, non si
vuole però per la ragione della sentenza ascriver al genere deliberativo
la causa di lode o di biasimo: nondimeno, siccome si tratta di persona da
prosciogliere o da condannare, la causa è per questo da agitarsi
con le forme del genere giudiciale. Del resto, chi conoscerà a fondo la
forza e la natura di ciascuna causa, intenderà che tutte hanno bensì una
differenza si nel genere primario e si ancora nella forma, ma che però
nelle rimanenti lor parti son tutte collegate fra loro, c come a dire l' una
impigliata nell' altra. Ora dunque entriamo a far parola circa 1 premii.
Il console L. Licinio Crasso nella Gallia citeriore s' avvenne in una
banda di armali che avea per capo una persona oscura, o a meglio
dire non avea nessun capo stabile, e ni pel nome con che veniva
designata, ni per lo numero dei combattenti, non meritava esser della al popolo
Romano nemica ; e solo con i ladroneggi e l'andare in corso molestava la
provincia. Il console non di meno le diede addosso, e la pose in rolla e
sgominio. Tornato a Roma, chiede che ii senato gli decreti il trionfo.
Qui, come anche nella causa che si fonda sulla preghiera, non ci i
mestieri di metter innanzi nè le ragioni giustiDcanti, nè le repliche incontro,
per venire al punto da giudicare, poiché se non interviene un' altra
costituzione, o una sua parte, il punto da giudicarsi è uno solo,
quello che si contien nella questione. Nello stato di preghiera questo
punto è, Se si debba o no infligger la pena: nel presente, Se si debba o
no dare il premio richiesto. Ora sporremo i luoghi acconci alla
questione di premio. La ragione del premio è di quattro maniere, secondo
che si riguardano o i benefizi!, o la persona che li fa, o la qualità del
premio, o ex tempore. Gì animo eius, qui feci!, ex casu consideranlur. Ex
sua vi quaercntur lioc modo : magna an parva, facilia an dilBcilia, singnlaria
sinl an vulgaria, vera, an falsa, quanam cxornalione honeslcnlur.
Ex tempore aulem, si lum, quum indigcremus ; quum celeri non possent aul
nollcnt opitulari ; si lum, quum spes deseruissct. Ex animo, si non sui
commodi causa, si co consilio fccil omnia, ut hoc conlicere posso! ; ex
casu, si non fortuna, sed industria faclum videbitur, aul si induslriae
fortuna obslitisse. In hominem aulem, quibus raliunibus viieril, quid
sumplus in eam rem aul laboris insumpserit ; cequid aliquando tale
fcceril ; num alieni laboris aut deorum bonitatis praemium sibi postulel ; num
aliquando ipse lalem ob causam aliquem praemio adOci negarli
oportere; aut num iam salis prò co, quod feccril, honos habitus sii; aul
num necesso fueril ei tacere id, quod feceril ; aul num ciusmodi sii
faclum, ul, nisi fecisset, supplicio dignus esse!, non, quia
fecerit, praemio ; aul num ante tempus praemium petat, et spem incertam
certo vendilet predo: aut num, quod supplicium aliquod vile), eo
praemium postulet, uti de se praciudicium factum esse videalur. In
praemii autem genere , quid et quantum et quamobrcm postuletur, el quo
et quanto quaeque rcs praemio digna sii, considerabitur; deinde apud
maiores quibus hominibus et quibus de causis lalis honos habitus sii,
quaeretur ; deinde, ne is bonos nimium pervagclur. Alque bic eius, qui conira
aliquem praemium postulameli) dicet, locus eril communis: praemia virtulis et
oRìcii sancta et casta esse oporlere, ncque ea aut cum improbis
communicari, aul in mediocribus hominibus pervulgari ; el alter : Minus homines
virlutis cupidos forc, virtulis praemio pervulgato; quae enim rara et ardua
sinl, ea ex praemio pulcra et iucunda hominibus v ideri; et tertius: le
sostante dal benemerente possedute. I bcnelìiii si vogliono considerare
in quanto al peso che hanno in sì, in quanto al tempo, nH'inleniione di
chi li fa.all'accidcnte da cui forse dipendono. Rispetto il peso
che hanno in sì, si cercherà se siano grandi o piccoli, se fatti con
travaglio o senta, se siano slraordinarii o comuni, se veri o se falsi, c
da quali speciose parole siano onestali. Rispetto il tempo, si
cercherà se ci furono falli quando ci andavano a bisogno; se quando gli
altri non potevano o non ri voleano aiutare ; se quando ogni speranza
ne facevamo già andata. Rispetto alla intenzione, se altri fece il
benefizio senza nessun disegno di proprio interesse, se operò tutto con l’
intento di poter elTeiluare quel bene : rispetto all'accidente, se il
beneficio ha vista di esser fallo non a fortuna, ma piuttosto a belio
studio, ovvero se fu il caso che oppose ostacolo alla premura e al buon
volere. Si vogliono considerare i benefizii relativamente alla persona che li
fa, badando quali furono i modi del trarre costui la vita, quali spese
abbia sostenute o quali fatiche per acquistarsi quel merito : se altre
volle abbia fallo azioni altrettali : se domandi un premio dovuto alle
altrui fatiche, o che non è largito che dalla sola bontà degli dei
; se abbia mai detto che per una tale ragione quel premio non dee
esser dato a nessuno ; o se per quello che ha fatto n'abbia già avuto una
sufficiente mercede ; o se egli fece niente altro che quello che non
poteva a meno di fare ; o se l' azione fosse di tale necessità, che se non
l’avesse fatta saria stato degno di supplizio, piuttosto clic esser
degno di premio per averla falla ; o se voglia esser premialo quando il
tempo non ì da ciò, non si sapendo ancora I* appunto del suo merito , e vender
per un prezzo certo una cosa ancora incerta e dubbia ; o se chieda un
rimerito con la mira astuta di cessarsi da qualche punizione, facendo quasi
apparire che si fosse già fatta un’ ordinanza a suo favore prima che l'alTare
n’andasse al giudicio. Quanto è alia qualità del premio, bassi a
vedere quale e quanto grande sia la cosa eh’ è domandata, e per qual
motivo, e poi di quale e di quanto premio ciascuna azione sia degna :
indi si verrà esaminando a quali persone fra gli antichi e per
quali cause siasi conceduta una tale mercede; dipoi si baderà che mercede
si fatta non abbia a divenire troppo comunale. E qui ecco il luogo comune
da dover usare chi arringherà contro il postulante: i premii dovuti alla virtù
c a qualche rilevante mansione volersi avere in luogo di cosa santa e di
pura, nè doversene far partecipe la gente malvagia, o farsi tener a vile
col lasciarsi andare alle mani di uomini mediocri e volgari; ed ecco
un Si exsislanl, qui apud maiores noslros ob oprepiani virliilem lati
lionorc (tignali smit, nonne de sua gloria, quum pari praemio loles
liomines alitici vulcani, dilibari pulenl ? cl coruin enuineralio Ct rum
eis, quns conira ilicas, comparano. Eius autem. qui pracmiiim pelei,
tarli sui amplificano, eorum, qui praemio adfccli sunl. cum suis
taclis conlenlio Deindc celeros a virlulis studio rcpulsum iri, si ipse
praemio non sii adfeclus. Facullales aulem considcranlur, quum aliquod
pecuniarum pracmium poslulalur ; in quo, ulrum co piane sii agri
vectigalium, pccuniae, an penuria, consideralur. Loci communes: Ka rullo
Ics augerc, non minuerc oporlere.cl : Impudcntcm e<se, qui prò
beneficio non graliam, verum merredem postulo! ; conira aulem de pecunia
raliocinari sordidum esse, quum de gralia reterenda dclibcrclur ; el, se
prclium non prò tarlo, sed honorem ila, uli faclilatum sii, prò beneficio
postulare. Ac dcronstilulionibus quidem salis dicium esl : nunc de iis
conlroversiis, quac in scriplo rersanlur, dicendum videlur. In scriplo
vcrsalnr controversia, quum cv scriplionis ralione aliquid dubii
nascilur. Id lì l ex ambiguo, ex scriplo cl scnlenlia, ex conlrariis
Icgibus, ex raliocinationc, ex definilionc. Ex ambiguo autem nascilur
conlruvcrsia, quum, quid setiscrii scriplor, obsrurum esl, quod scriptum
duas plurcsvc res significai, ad huno modum : Palerfamilias, quum lilium
hcredem tacerei, vasorum argenleorum contimi pondo uxori suae sic legavi! :
lleres meut uxori mene iiasorum argenieorum pondo cenlum, quae rotei,
dato. Posi mortem eius vasa magnifica ct pretiose cadala pelil a (Ilio
maicr. lite se. quae ipse velici, debere dici!. Primum, si fieri poteri!,
demonstrandum est non esse ambigue scriptum, proplcrca quod omnes in
consucludine scrmonis sic uti solenl eo verbo uno pluribusve io eam seatealiam,
in quam is, qui dice!. altro : Rendersi chi che sia meno bramoso
della virtù, se vedesse il premio ad essa dovuto divenire quasi che
una trivialità ; rhè le cose rare c mala, geroli a conseguire sono
appunto quelle che gli uomini, ore le ottengano in premio, hanno in
conto di gioconde c di belle; e tenamente : Se v' ha tra i nostri
antichi di quelli ebe per la sfolgorata loro virtù furono giudicati di
tal premio meritevoli, non crederebbero essi forse che la gloria loro se
ne andrebbe scemala, se vedessero un premio eguale cader nelle mani
a persone che non ne son degne? c qui viene in concio che tu venga
noverando quei tali amichi, e li metta a confronto con quelli, contro ai
quali tu arringhi. Quanto a colui che chieda il premio, ei maneggerà il
seguente luogo comune; darà Importanza al fallo ch'egli operò, e farà
comparazione di quanto operarono quelli che furono premiali con quanto ha
operato egli stesso. Dipoi farà vedere elicsi obbligherebbe ogni altro a
rompersi dall’ amore alla virtù, dove egli del suo ben fare non fosse
rimeritato. Alle sostanze si dee aver riguardo allorché é domandato
qualche premio in danaro ; e rispetto a questo caso si esamina se
il petente è bene avvantaggialo di campagne, di entrate, di dauaro, o se
per contrario ne patisce difetto. I luoghi comuni sono questi : Le sostante
si deono accrescere, non mica scemare, c : Voler avcre una fronte
invetriata colui che per un benefizio chiede una paga, anzi clic un alto di
riconoscenza ; per contra si dirà essere una grettezza che mentre si
consultano consigli intorno a grazie da riferire, sì faccia computi sul
danaro da dover numerare ; c, chieder egli non già il prezzo della
sua azione, ma un premio del suo beneficio in quel modo o misura clic
altre assai volle fu praticato. Or questo tanto potrà bastare ad essersi
detto delle costituzioni: adesso è da dire di quelle controversie che si
aggirano sopra lo scritto. XL. È controversia circa allo scritto,
allorché dal modo con che lo scritto fu espresso ne viene qualche
dubbielà. Nasce essa controversia dalla espressione ambigua , dallo
scritto e dal senso, dalle leggi che si fan contro, dal raziocinio,
dalla definizione. Nasce controversia dalla espressione ambigua
quando é oscuro c non si può compren* dere che volesse dir lo scrittore,
però che la sua espressione significa due o più cose. Per esempio;
Dii padre nell' istiluiro suo erede il figlio legò alla moglie de' vasi
d'argenlo per lo peso di cento libbre, e acrisse cosi: Il mio erede dia a mia
moglie, per lo peso di cento libbre, de’ vasi di argento quelli che
vorrà. Poi che il marito si mori, la madre domanda dal figlio de’ vasi magnifici,
che aveano gran lautezza d' intagliature. Costui risponde che le dovea quelli
eh' egli volesse. Or la pri aecipiendum esse demonstrabit. Deinde ex
superiore el et inferiore scriptum docciulum iti, quoti quaeralur, (Ieri
perspicuum. Quare si ipsa srparatim ei se verba considcrenlur, omnia aul
plcraque ambigua visiim iti ; quac auleni ex omni considerata scriptum
perspicua Kant, baec ambigua non oporlcre eiislimari. Deinde, qua in
sentenlia scriplor fueril, ci celerà eius scriplis et ex faclis, dittila, animo
alque fila eius stimi oporlebil, el cam ipsam scriplurnm, in qua inerii
illud antbiguum, de quo quaerctur, totani omnibus ex partibus pericolare,
si quid aul ad id appositum sii, quod nos interprclcmur, aut ei, quoti
adversarius inlelligat, Qdvcrsetur. Nani facile, quid verosimile sii
eum voluisac, qui scripsit, ex orniti scriptum , et ex persona
scriploris, alque iis rebus, quae personis attributac sunt,
considerabilur. Deinde erit dcmonstrandum, si quid ex re ipsa dabilur
factillalis, id, quod adversarius inlelligat, multo minus commode Aeri
posse, quam id, quod nos accipimus, quod illius rei ncque adminislratio
neque exitus ulius ciste! ; nos quod dicamus, facile et commodc
iransigi posse. Ut in hac lege (nibil enim prohibel (iclam «empii loco ponere,
quo facilius res Intelligalur) : «eretrix coronarti ne habclo; si
habueril , pubitea erto, conira eum, qui merctricem pubi icari dical ex lege
oportere, possi! dici neque adminislralionem esse ullam publicac
meretricis, neque exilum legis in meretrice publicanda; at in auro publicando
et adminislralionem et exilum facilem esse, cUncommodi nibil
incsse. Ac diligentcr illud quoque allenderc oportebit, anni, ilio
probato, quod adversarius inlelligat, res utilior, aul honcstior, aul magis
necessaria a scriptorc ncglecta videalur. Id fìct, si id, quod nos
demonslrabimus, bonestum, aul utile, aut necessariitm demonslrabimus ; et
si id, quod ab adversariis dicclur, minime eiusmodi esse dicemus. Deinde,
si in lege erit ex ambiguo conlroversia, dare operam oporlebil, ut de co, quod
adversarius inlelligat, alia in lego caulum esse do ma cosa, in
evento cito si possa, decsi dimoslrare non essere punto ambigua la
scrittura, conciossiacbè tutti nell’ uso comune del parlare cosi sogliono
adoperar quell' una o ptù voci per esprimere quel senso, nel quale citi
parla dimostra esse voci dover essere intese. Dipoi è da ammonire clic
ciò clic si cerca è già reso evidente dal contesto che precede c da
quello che segue. Se si volesse attenersi a questa o a quella parola presa
separalamente c di per sé, tulle le parole, o almeno la più parte,
potranno aver aspetto di esser ambigue; ma non si dcono tenere per tali
quelle che son già messe in evidenza dall'esame del contesto e complesso
dello scritto. Dipoi, a voler conoscere qua; fosse la mente dello
scrittore, si vorrà roviglior e razzolare tutti gli altri di lui scrini,
i falli, i detti, il modo di pensare, il modo di vivere, e scrutar
In ogni sua parte tutto lo scritto che porla la della ambiguità,
per conoscere se alla espressione ambigua che interpretiamo ne sia soggiunta
qualche altra che ne la chiarisca, o che stia contro a quel senso
che l' avversario crede di dover inferire: perocché sarà anzi facile trovare ciò
che verisimilmente abbia voluto lo scrittore, quando si voglia por mente
a lutto lo scrino, e alla persona che scrisse, e a quelle altre cose clic
alle persone si riferiscono. Dipoi sarà da dimostrare, se la cosa
slessa ne porgesse qualche appicco, che ciò che intende l'avversario si
può fare molto meno utilmenlc che ciò clic intendiamo noi, poiché quello
non è conduccnlc a vcrun vantaggio, a vcrun successo ; mentre ciò clic diciamo
noi può leggermente c con vantaggio comporre ogni cosa. Citiamo per esempio
questa legge ( che niente vieta il pigliar ad esempio una legge
immaginaria, purché s' intenda la cosa più di facile) : Nessuna meretrice
porterà corona : se una la portasse, sarà incamerata. Contro colui che dicesse
doversi iti for za della legge por nel fisco la meretrice, si potrà
rispondere non avere il comune alcun provcnlo da una donna pubblica, nè
v' essere nel recarla al fisco alcuno scopo della legge : bensì »' essere
e provcnlo al comune e scopa della legge incamerando l’oro di che è composta
la corona, senza che ne emerga un menomo clic di svantaggio. Si vorrà
eziandio ben attendere, se nel caso che fosse adottato il seoso voluto
dall’ avversario, possa parere che lo scrittore abbia trascurala qualche
cosa piò utile, o più onesta, o più necessaria. E questo si farà, se
porremo a vedere che ciò cito adontatilo noi è onesto, od utile, o
necessario ; e che ciò che dicono gli avversarli non porta nessuna di
queste qualità. Dipoi, se la controversia sarà circa I' ambiguo che si
trovasse in una legge, si vorrà meller opera a dimoslrare che all'
inconve ccalur. Pcrmullum aulem prodcict illud demonslrare, qucmadmodum
scripsisset, si id, quod advcrsarius accipial, Acri aut inlclligi voluissct :
ut In hoc causa, in qua do vasis argenteis quaerìtur, possi! mulier
dicere, nihii allinuisse ascribi, quae volef, si heredis collimati
permitleret. Eo enim non adscriplo niliil esse dubilalionis, quin
hcres, quae ipse vcllet, daret. Amenliam igitur fuissc, quum hercdi
velici caverò, id adscribere, quo non adscriplo nihilominus hcredi
cavcrctur. Quare hoc genere magno opere talibits in causis uti oporlcbit
: si hoc modo scripsisset, Isto verbo usus non csset, non isto loco
verbum istud collocasse!. Nani ex bis scnlcntia srriploris maxime
pcrspicitur. Deinde quo tempore scriptum sii, quacrendum est, ut,
quid cum voluisse in ciusmodi tempore veri simile sit, intelligatur. Post
ex deliberationis parlibus : quid ulilius, et quid honeslius et illi
ad scribendum, et bis ad comprobandum sii, demonstrandum ; et ex his, si
quid amplificationis (labitur, communibus utriuque locis uti oportebit. Ex
scriplo et sententia controversia consistil. quum alter verbis ipsis, quae
scripla sunt, utilur, allcrad id, quod scriplorem scnsisse dicci,
omnem adiungit diclionem. Scriploris autem sentcntia ab eo, qui sententia se
dcfendel, lum scmper ad idem spoetare et idem ielle demonslrabitur ; lum ex
farlo ani ex evento aliquo ad Icmpus id, quod insliiuil, accommodatur.
Semper ad idem spedare hoc modo: Palerfamilias quum liberorum Imberci
niliil, uxorem aulem haberel, in testamento ita srripsit : Si mihi filivs
genitur unni pluresve, is mi hi heres calo. Deinde quae ad-oicnt. Poslea
: Si Mita ante morilur, quam in tutela m sumn venerii, lum inibì lite sccundus
heres eslo. Fillus natus non est. Ambigunt agnati cum eo, qui est hcrcs,
si fllius ante quam in suam tutelam venia!, morluus sit. In hoc genere
non potest hoc dici, ad tempus et ad eventum aliquem scnlenliam
scriploris oporlere accommodari, pròpterea quod ea sola esse demonslratur, qua
fretus ilio, qui conira scriptum dicit, suam esse heredi
nienza messa in campo dall'avversario fu gii provveduto con altra legge.
Gioverà poi gran fatto il mostrare come si saria espresso io scrittore,
ove avesse voluto che si facesse o s'intendesse ciò che
l'avversario crede d'aver inteso. Per esempio, nella causa, in cui s'
ioquerisce sopra le vasa di argento, potrebbe dire la donna, che se il
testatore avesse voluto lasciar l' arbitrio all' erede, non era di
bisogno che aggiungesse quelle vasa che vorrà. E infatti, se non ci fosse
quella giunta, non ci sarebbe neppure dubbio che l'erede non avesse date
alla madre le vasa eh' egli avesse creduto. Essere dunque stata una
mattezza che lo scrittore, volendo lasciar si fatto arbitrio all’erede, facesse
una giunta di tal sorta, che se anche non ci fosse, lo lascerebbe
niente di meno nell'arbilrio stesso. Eppcrò in cause di questa fatta
sarà mollo importante far uso dell'argomento che segue: se lo scrittore
avesse avuto un tale intendimento nello scrivere, ei non avrebbe
adoperata quella tal voce, non avrebbe allogato quella parola in questo
tal silo; conciossiachò son questi, più che ogni altro, gl’indizii
da cui si viene a riconoscere la mente dello scrittore. Dipoi si dee
esaminare in qual tempo fu messo giù lo scritto, per mettersi a sapere
ciò che vcrisimilmente in quelle tali circostanze lo scrittore volesse. Poi si
dimostrerà, dietro le parti del genere deliberativo, quale delle due cose
dibattute sia la più utile c la più onesta che l'autore dovesse scrivere,
e che gli avversari! debbano voler sostenere ; a dote alcuno di
questi punti sia da trattare col mezzo della amplificazione, dovrà l'una
parte e l'altra valersi de' luoghi comuni che sono da ciò. Sorge controversia
di scritto c di senso allora che l'uno de' litiganti s'attiene alle
parole stesse che sono scritte, c l'altro converte c piega tutto lo
scritto al senso ch'ei crede avere avulo in mente lo scrittore. Quegli
che sostiene il senso, mostrerà come con quel tale concetto Io
scrittore mira sempremai al senso stesso e ad esprimere la stessa
coso ; oppure che esso concetto è acconciato in tal senso a questa tale
circostanza per amore di qualche avvenimento, di qualche fatto, e via
via. Dcll'avcr sempre un concetto il senso medesimo ecco un esempio è qui: Gn
padre che non avea figliuoli, sì bene avea moglie, nel suo testamento
lasciò scritto cosi: Se mi nascesse un figlio, uno o più, voglio che sia
mio erede. E qui segue il testo secondo che è uso. Indi dice: Se il figlio
morisse innanzi che fosse giunto alla pubertà, allora quello che è secondo sarà
l'erede. Non nacque nessun figlio. I consanguinei del padre entrano
in litigio sul diritto di eredità con quello che pretende clic il padre
lo istituisse crede in talcm dcfendit. Allerum autem genus est eorum
qui senlenliam inducunt ; in quo non simplex volunlas scriptoris ostemJilur,
quae in omne tempus, et in omne factum idem valeat ; sed ex quodam
facto aut erenlu ad tempus interprctanda dicitur. Ea parlibus iuridicialis
adsumplivac maxime suslinetur. Nana tum inducitur comparatio, ut in eo,
qui, quum lex aperiri portas noctu «darei, aperuit quodam in bello, et
auxilia quaedam in oppidum recepii, ne ab hostibus opprimercnlur, si
foris essent, quod propc muros bostcs castra habercnl ; tum relatio
criminis, ut iu eo milile, qui quum communis lei omnium hominem occidcre
velare!, tribunum suum, qui «im sibi adferre conarctur, occidit;
tum remolio criminis, ut in eo, qui quum lex, quibus diebus in legationem
proflcisceretur, praeslitueral, quia sumptum quaeslor non dedit,
profeclus non est; tum conccssio per purgatiouem et per imprudenliam, ut
in viluli immolalionc, et per vim, ut in nave rostrata, et per casum, ul
in Eurotae magnitudine. Quarc aut ila sentcntia inducelur, ut unum
quiddam voluisse scriptor demonstretur; aut sic, ul io ciusmodi ra, et
tempore boc voluisse doceatur. Ergo is, qui scriptum defendet, bis
locis plerumquc omnibus, maiore aulem parte semper poteri! uli :
primum scriptoris collaudatone et loco communi nihil eos, qui ìudiccnl,
nisi id, quod scriptum sit, spedare oporlere; et boc eo magia, si
legitimum scriptum proferelur, id est, aut lex ipsa, aut aliquìd ex lege.
Postea, quod vehemenlissimum est, facli aut intenlionis adversariorum cum
ipso scripto contenlione, quid scriptum sii, quid factum, quid iuratus
index ; quem locum mullis modis variare oportebit, lum ipsum secum
admirantem, quidnam centra dici possi!, tum ad iudicis ofOcium
reverlentem et ab eo quaereotem, evento die il figlio morisse innanzi alla
pubertà. In questa causa non si può dire che debbasi accomodare il dello
dallo scrittore al tempo c ad un avvenimento di qualche sorla , poiché si
dimostra senza contrasto essere quel detto non altro che il senso,
di che si fa forte il litigante che parla contro lo scritto per difendere che è
sua l'eredità. La seconda specied'interpretazione ammessa da quelli che
s'attengono al senso, si ò il dimostrare non essere la volontà dello
scrittore così semplice e condizionala, da avere in ogni tempo e per
ogni caso l'intento medesimo, ma doversi interpretare secondo la
circostanza, secondo che richiede quel tale avvenimento o quel tal fatto.
Questa specie di trattata appartiene specialmente a quella costituzione
giuridiciate che si domanda assunliva. E infatti egli avviene che ora si dee
istituire la comparazione, come rispetto a colui clic, vietando la legge
dall’aprire lo porle sempre clic dura la not•e, le aperse in tempo di guerra, e
mise dentro in città uno sforzo di aiuti, perchè stando fuori non
fossero oppressali dai nemici clic stavano a campo soltesso le mura ; ora
si dee riversare la colpa sopra un altro, come farebbe quel soldato che,
interdicendo la legge a tutti comune di levarla vita a chi che sia, la
levò al suo tribuno clic si lasciava andare a fargli le forze addosso ; ora si
dee venire alla remozionc della colpa, come farebbe colui che, avendo la legge
posti i giorni in cui si dovesse partire in ambasceria, non parti altrimenti
però che il questore non gli diede le spese ; talora si dee venire alla
concessione coll’addurreo la scusa o la ignoranza della legge, come nel
sacrifizio del vitello; o la forza maggiore, come nel fatto della
navcroslrata ; ol'accidente, come nella escrescenza detl’Eurota. Laonde il
senso di uno scritto si dee difendere per due modi, o mostrando che
lo scrittore con quel tale concetto ha sempre voluto esprimere una cosa stessa,
o facendo vedere che in questo tal fallo e in questo tal tempo ha voluto
esprimere nel suo scritto questa tale sua volontà. Il litigante per contro che
difenderà lo scritto quale esso è, potrà far uso le più volte anche di
tutti i seguenti luoghi, ma sempre perù della più parte: primamente si loderà
dello scrittore, ed uscirà in questo luogo comune: dover quelli che
hanno in mano il giudicio por mente solo a ciò che è scritto; il che egli
affermerà di più forza , se si trattasse di uno scritto legittimo , corno
sarebbe o la stessa legge, o qualche cosa che dalla legge fosse cavata. Poi
verrà al punto che ingagliardisce della maggiore veemenza , voglio dire
al far agguaglio dallo scritto al fatto o all' accusa degli avversarli,
mostrando ciò che fu scritto, ciò iOi quid praetcrca audire aul exspcctare
debeai; tum jpsum adversarium, quasi intentanti loco producendo, hoc est,
interrogando, utrum scriptum ncgel esse co modo, an ab se conira ractum
esse, aut contra contendi neget; utrum negare ausus sit se dicere
desilurum. Si neulrum neget, et contra tamen dical nihil esse, quod
hominem impudentiorem quisquam se visurum arbilrctur. In hoc ita
commorari conveniet, quasi nihil praeterea di- j ccndum sit, et quasi
contra dici nihil possi!, saepe Id, quod scriptum est, recitando saepe
cum scripto factum adversarii confluendo, atquc inlerdum acritcr ad
iudicem ipsum reverteudo. Quo in loco iudici demonstrandum est, quid
iuratus sit, quid sequi debeat : duabus de causis iudicem dubitare
oportere, si aut scriptum sii obscure, aul neget aliquid adversarius. Quum
et scriptum aperte sit, et adversarius omnia conflteBtur, tnm iudicem legi
parere, non intcrprelari Icgem oportere. Hoc loco conflrmato, tum diluere
ea, quae contra dici poterunl, oportebit. Contra autem dicetur, si aut
prorsus aliud scnsisse scriplor et scripsisse aliud drmonslabitur: ut in illa
de testamento, quam posuimus, controversia; aut causa adsumptiva
inferetur, quamobrem scripto non potuerit aut non oporluoril obtemperari.
Si aliud seusisse scriplor, aliud seripsisse dicetur, is qui scriplo utclur,
haec dice! : non oportere de cius voluntate nos argomentavi, qui,
ne id lacere possemus, indicium nobis reliquerit suae voluntalis ; multa
incomrnoda consequi, si instiluatur, ut ab scriplo rccedatur. Nato et
cos, qui aliquid scribant, non eiistimaluros id, quod scripserint,
rallini futurum; et cos, qui iudicenl, cerlurn, quod sequantur, nihil
habituros, si semel ab scripto recedere consueverinl. Quod si
voluntas scriptoris conscrvanda sit, se, non adversarios, a voluntate cius
stare. Nam multo propius accedere ad scriptoris voluutatem cum, qui ci
ipsius cam lilteris Inlcrprclctur, quam illum, qui sententiam scriptoris
non ci ipsius scripto special, quod illae suae voluntalis quasi imaginem
reliquerit, sed domcsticis suspicionibus pcrscrutclur. Sin che fatto, ciò
che sia di dovere al giudice che ha giurato di osservare la legge; e
questo luogo dovrà il litigante variare per molti modi , ora mostrandosi
ammirato che si trovi cosa da voler opporre; ora tornando sopra alfuDlcio del
giudice, c chiedendogli clic altro di vantaggio ei possa ascollar
cd attendere; ora con cerl'aria come di minaccia appellandosi
all'avversario, inlerroganI dolo cioè se mai po«sa dire o che lo scritto
non sia alTallo a quel modo, o ch'egli non faccia con| irò allo scritto c
contenda Dior di dovere; e soggiungendo che ove abbia il coraggio di dire o
l'uno o l’altro, ci si rimarrà dal più avanti discorrere. Se non
dicesse nè questo nè quello, e non di meno durasse a dir contro, aggiungerà il
difensore dello scritto, nessuno dover credere di poter mai vedere
un uomo più impudente di quello. In questo proposito si dovrà dimorare un po’ a
lungo , come se più altro non restasse da dire, c come se non
potesse colui aver più che rispondere incontro : si reciterà più volle lo
scritto, si combatterà spesso con lo scritto lo adoperarsi
dcll’atvcrsario, e qualche fiata con parole ardite si farà appello
allo stesso giudice. E qui si vorrà al giudice anche dimostrare che s’intenda
per giurato, e quale sia il partito eh' ci dee seguire , c come per
due capi è necessario che il giudice sia in dubbio, vale a dire, se lo
scritto Tosse oscuro, o se l'avversario negasse qualche punto dello scritto.
Qualvolta lo scrino è chiaro, c l'avversario stesso nc confessa di ogni punto
la chiarezza, devsi ammonire il giudice che suo dovere è obbedire alla
legge, non già farsene il turcimanno e lo sposilorc. Raffermato questo
asserto con le prove addotte, converrà ribattere ogni obbietlo
elicvi potesse esser mosso. Sarà obbietlo, se il nostro avversario
dimostrerà che lo scrittore intese esprimere ben altra cosa da quella che porla
lo scritto, siccome nella controversia circa il testamento, cho qui
sopra Ito toccala; ovvero se avrà ricorso a costituzione di genere assuntilo
per mostrar la causa onde non si potè o non si dovette obbedire allo
scritto. Se il nostro avversario dicesse aver lo scrittore inteso d'esprimere
ben altra cosa da quella clic dimoslra, risponderà quegli clic allo
scritto si attiene: non esser mestieri che noi discutiamo circa
alla intenzione dello scrittore, il quale appunto perchè non ci fosse di che
discutere ne ha lasciato della sua intenzione un indicio non dubbio;
venirne in conseguenza molli mali cQctli, se i *’ introducesse l'abuso di
allontanarsi dallo scril< lo: imperocché quelli che scrivono faranno
ragione j che non si starà punto allo scritto loro ; e quelli che
deono giudicare non avranno nessun dato cer| to c sicuro da dover seguire, ove
avessero una causam adfcret is, qui a scntcnlia stobil, primum crii
conira dicendum ; quam absurdum non negare conira legem ferisse, seri quarc
fcccril, causam aliquam Rivenire ; di-inde, conversa esse omnia ; ante solilos
esse accusatorcs iudicibus persuadere, adlìnem esse alicnius culpac eum,
qui accusarclur; causaui prorerre, quae curii ad pcccandum impulisscl:
mine ipsuin rcum causam adferro, quare deliqucril. Deinde liane inducere
parlilionem, cuius in singulas parles mullac comeuieul argumentalionrs :
primum, nulla in lege ullam causam «mira scriptum accipi convenire ;
deinde, si in celeris logilnis «invernai, liane esse eiusmodi legem, ut
in ca non oporleal; postremo, si in hac quoque lege oporleal, liane
quidem causato accipi minime oporlcre. Prima pars bis fere locis
conBrmabilur: scriplori ncque ingcnium, ncque operam, ncque ullam
facullatem defuisse, quo minus aperte posse! perscribere Id, quod cogitarci ;
non fuisse ci grave nec difficile cani causam excipcrc, quam
adversarii proferant , si quidquam cvcipicndum putassct ; consuesse eos,
qui leges scribanl, ciccplionibus uli. Deinde opor'.et recilare leges cum
ciccptionibus scriplas, et maxime ridere, ccquae in ca ipsa lege, qua de
agalur, sii «copilo aliquo in capile, aut apud eumdem legis scriptorem,
quo magis probclur cum fuisse exceplurum, si quid evcipicndum
putarel ; et ostendcrc causam accipere niliil aliud esse itisi legem tollere;
ideo quod, quum semel causa considerclur, nihil allineai cain ex
lege considerare, quippc quae in lege scripta non sii. Quod si sii
institulum, omnibus dari causam et polcstalcm pcccandi, quum
intcllexcrinl vosex ingcnio cius, qui conira legem fcccril, non ex
lego, in quam iurali silis, rem iudicare; deinde et ipsis iudicibus
iudicamli et cctcris civibus vivendi ralioncs pcrlurbolum iri, si semel ab
legibus recessum sii ; nam cl iudices ncque quid sequan volla
piglialo l' uso di non si allenerò allo'scrillo. Dirà inoltre clic se
s’ba da conservare la intenzinne dello scrittore, è anzi egli, c non mica
gli avversarli, clic Iroppo meglio la conserva; perocché a questa
intenzione avvicinasi assai più colui clic la desume dalla scriltura
slessa, clic non qucll' altro clic indaga il sentimento avuto in animo
dallo scrittore diclro i suoi calcoli e congetture private , anzi clic
volerlo riconoscere per mezzo dello scrino stesso, clic 1' autore lasciò
come un ritrailo visibile della sua intenzione. Se poi quegli clic
s'attiene al senso a Idurrà il motivo perché si debba allonlanarsi dallo
scrino, so gli dovrà in prima così rispondere: esser assurdo, non
negare egli di aver fallo contro la legge, e nondimeno volere trovar un
qualche motivo perché cosi facesse; dipoi dirassi clic oggi si conduce il
giudicio ludo a riverso; per prima erano gli accusatori che meticano a
vedere ai giudici come l’accusalo era reo di qualche colpa, e poncan loro
innanzi la causa che in quella colpa lo fece cadere : ora è il reo
stesso che manifesta la causa della sua reità. Indi si dovrà discorrere queste
Ire parli, ciascuna delle quali olfrirà parecchie argomentazioni , voglio
dire: primamente non doversi per veruna leggo ammettere alcun molivo che si
oppooga allo scrino; in secondo luogo, se anche tulle le altre
leggi comporlassero tale ammessione , la legge presente essere di tale
natura che aliano non la comporla; in line, se anche la legge presente
ammetlcssc un molivo, non essere però tale il molivo addotto, che ommellere
punto si possa. La prima di qucsle parli comprovasi a un di presso cosi;
lo scrittore non mancava né di industria, nè di mezzi, nè di parole c facilità
per esprimcrc chiaro ciò eh’ egli pensasse; nè incontrava difficoltà o pena a
fare una eccezione in favore del molivo che meltono in campo gli
avversarli, so avesse credulo esserci cosa da dover eccelluare;
anco più che quelli che scrivono le leggi ne scrivono eziandio lo necessarie
eccezioni. Dipoi si dee citare il lesto delle leggi che recano le loro
eccettuazioni scritte, c soprattutto osservare se v’ ha e quale v’ ha
eccezione in qoalche articolo della legge questionala, o in altre dello
stesso scrittore perché si possa comprovar con più evidenza che
egli, ove una eccezione fosse siala necessaria, l'avrebbe s-'iiz' altro opposta
alla legge, di che si traila; e insieme deesi mostrare clic ammettere
la eccettuativa non posla dallo scrittore è nienle meno che distrugger la
legge, perù clic una volta che si abbia riguardo ad essa, non è più
bisogno di considerarla relativamente alla legge , siccome quella
che nella legge non è punto inserita. Che se si cominciasse di avere un
Iole riguardo, ognu tur babiluros, si ab co, quoti scriptum sii, recodatti
; ncque, quo paolo alios improbare possinl, quod conira legem iudicarinl
; cl cclcros civcs, quid agalli, iguoraluros, si ei suo quisque cotisilio
e! ex ca rationc, quac in mcnleoi aul in libidinetti vencril, non ex communi
pracscriplo civilalis unam quamque rem adminislrarit. Rosica quacrerc ab
iudicibus ipsis, quarc in alienis dclineanlur negoliis ; cur rei publicae
munere iinpedianlur, quo seriis suis rebus et commodis servire possinl;
cur in cena verba iurent ; cur certo tempore conveniant, cerio discedanl, nibil
quisquam adferat causac, quo minus frequenter operam rei publicae
det, nisi quae causa in lege cxccpla sii; an se legibus obslriclos in lanlis
molesliis esse acquutn censeanl, adversarios nostros leges negligere
concedati); deinde ilem quaerere ab iudicibus, si eius rei, propler quam
screus conira legem fecisse dica!, cxceplionem ipse in lege ascribal,
passurinc aint;poslca boc, quod facial, indigniusel impudcnlius esse, quam
si ascribal; ago porro, quidsi ipsi velico! iudices ascribcrc, passurusnc sii
populus? alqttc hoc esse indignius, quam rem verbo et litlcris mulare non
possinl, eam re ipsa et iudicio maxime commutare. Deinde indignimi esse
de lege aliquid dcrogari, aul legem abrugari, aul aliqua ex parie
commutari, quum populo cognoscendi et probandi aut improbandi poleslas nulla
fiat; hoc ipsis iudicibus invidiosissimum fulurum; non hunc locura
esse, ncque hoc tempus legum corrigendarum ; apud populum haec el per popolimi
agi convenire : quod si nunc id agant, velie se scirc, qui lalor sii, qui
sin! accepturi; se captioncs videro, el dissuadere velie : quod si bacc
quum summe inutilia lum mullo turpissima sint; legem, cuicuimodi
sii, in praesenlia conservai ab iudiribus, post, si displiceal, a populo
corrigi convenire ; deinde, si scriptum non extarct, magno opere
quaereremus; ncque isti, nc si extra pcriculum quidem ossei, crelercmus.
Nunc quum scriplum sii, amcnliam esse eius, qui peccarli, polius
quam legis ipsius verba cognoscerc. llis et huiusmodi ralionibus
ostenditur causam exira scriplum accipi non oporlere. no
avrà licenza e buona presa di fallire, perchè si avviserà che voi
giudicale dcll'alTare secondo che lalenta a colui che contravvenne alla
legge, non secondo la legge stessa, a cui avete giuralo di altenervi nel
giudicare: dipoi mostrerà che gli stes! si giudici avranno tutta in iscompiglio
la condotta del giudicio, c gli altri cittadini lutto in disordine
l’andamento delia vita, se si piglierà una volta ad andar a ritroso della
legge; conciossiacbè nè i giudici avranno una regola da seguire, se si
divertissero da ciò che è scritto, ni potranno convincere i contravventori di
aver fallilo, quando essi medesimi abbiano giudicato ad onta della
legge c gli altri cittadini non sapranno che far si debbano, se ognuno si
governerà in ogni caso non dietro i generali statuti della città, ma a
talento proprio, c dietro quella ragione che gli passerà per la
metile, o che andrà a seconda delle sue voglie. Poscia ci verrà
inlerrogando gli stessi giudici, perchè si frammettano di altari alimi,
che loro non si perlengono; perchè dall'ulllcio cltesostengon nella
repubblica si lascino impedire di attender alle gravi loro faccende e
provvedere ai propri! interessi; perchè giurino dietro una formola
prescritta; perchè a un posto tempo si raccolgano insieme, c ad una data ora se
ne vadano, senza che alcuno molla innanzi altra ragione che lo autorizzi
a prestarsi meno di spesso al servigio deila repubblica, eccetto quella
che è indicala nella legge: che? slimeranno giusto e ben fatto tenersi
essi obbligati alle leggi in mezzo a si gravi lor cure, o comportare clic
i nostri avversarli si gellino quello leggi medesime dopo le spalle?
Dipoi verrà similmente chiedendo ai giudici, se mai essi patirebbero che
I’ accusalo aggiungesse egli stesso nella legge la eccezione in favore
del molivo, da cui si dichiara indotlo a far contro alla legge, c
aggiungerà, ciò che fa l’avversario esser una sfrontatezza più indegna
che se apponesse alla legge quella eccezione : di più, dato anche il caso
che i giudici stessi la volessero apporre in proprio, forse che il popolo
se la porterebbe in pace? eppcrò esser cosa ben troppo riprovevole
che una legge eh' essi nè per parole nè per iscriltura non possono mutare,
vogliano invece mutarla più che più col giudicio e sentenza loro. Di. rà
appresso, essere uno scoocio indegno o detrarre alquanto alla legge, o
abrogarla a pieno, o cambiarne qualche parte, senza che siane data copia
al popolo di giudicarne i moliti, c di approvarli o riprovare: questo non
poter che riuscire di odio acerbo contro gli stessi giudici; non esser
questo nè luogo nè tempo da farsi a corregger le leggi; questo
esser un aliare da trascinarsi col popolo e per mezzo del popolo: che se
ora volessero Ira unno li. Seconda pars est, in qua est oslendendum,
si in celeris legibus oporleat, in hac non oporlcrc. Hoc dcmonslrabilur, si lei
aulad res maximas, ulilissimas, honeslissimas, religiosissimas ridebilur
pcrlinere ; aut inutile , aut turpe, aut nefas esse tali in re non
diligentissime legi obtcrnperare ; aut ila lev dlligenler pcrscripta
dcmonslrabilur, ila cautum una quoque de re, ila.quod oporluerit,
eiceplum, ut minime convcniat quidquam in tam diligenti scriptum praelerilum
arbitrari. Tcrlius est Incus ci, qui prò scriplo dicci, maxime
necessarius, per quem oporlet ostcndal, si convcniat causam contro
scriptum accipi, cam lamen minime oportere, quae ab adiersariis
adferatur. Qui locus idcirco est buie necessarius, quod semper is, qui
conira scriptum dicet, aequitalis aiiquid odierai oporlet. Nani summa
impudentia sii cum, qui conira quam scriptum sii, aiiquid probare
rclil, non aequilatis pracsidio id Tacere conari. Si quid igitur et hac
ipsa quippiam accusator deroget, omnibus partibus iustius et probabillus
accusare videatur. Nani superior oralio hoc omnisfaciebat, uti iudices
cliamsi noi leni, necessc esse! ; baco aulern, eliamsi ncccsse non esset,
ut yellent conira iudicare. Id aulem (iet, si, quibus ex locis
culpa dcmonslrabilur esse in eo, qui comparationc, aut remolione, aut relatione
criminis, aut concessionis partibus se duTcndil ( de quibus ante,
ut poluimus, diligenter perscripsimus ), si de iis locis, quae res
poslulabit, ad causam adversariorum itnprobandam IransTeremus, aut causac
et raliones adferentur, quare et r|uo consilio ita sit in lego, aut in
testamento scriptum, ut sentenza quoque et voluulalc scriploris, non ipsa
solum scriptura causa con&rmata esse, videatur: aut aliis
quoque constitutionibus factum coarguetur. stillarlo essi,
or chi n* è il proponente, e citi son quelli clic approveranno? sé non
vederci che calappi e trullerie, c volere lor giù altrui dal lasciarsi
cogliere: che se ogni disegno di mutazione olire clic al lutto è inutile,
ancora £ cosa sommamente sconcia, dcono per ora i giudici mantenere
intatta la legge, di qualunque sorte ella sia; ove non piaccia, si vorrà
più tardi emendare dal popolo. Dirà inoltre; se lo scritto non ci Tosse
qui presente, noi faremmo ogni potere per averlo a rinvenire, n£
porremmo fede iu costui neppure s' ei trattasse con noi sicuro da ogni
pericolo. Ma siccome è qui presente Io scritto, è dare iu pazzia senza
più, voler essere inTormali delle parole di uno clic falli, anzi che di
quelle della legge medesima. Per questi adunque e per simili altri argomenti si
dimostra cotue una eccezione, che non è nello scritto, non si dee per
nulla ammettere. La seconda parte £ quella, nella quale deesi dimostrare
che se anche tutte le altre leggi dovessero ammettere una eccezione, la
legge presente non la dee per veruna guisa. Questo si proverà, mostrando clic
la legge rfsguarda cose di grande rilevanza, di sommo vantaggio,
onoratissime e della maggiore santità; ed essere o vana, o turpe, o
illecita azione non obbedire puntatamente alla legge in circostanza si fatta:
ovvero si porrà a vedere essere scrina la legge con tale esattezza, si ben
provveduto a ogni cosa, cosi eccelle le circostanze che volcauo
eccettuazione da non si dover credere che in una scrittura cosi
condot la fosse intralascialo n£ un menomo clic. Il terzo luogo £
di tutta necessità per lo contendente che sostiene lo scritto. Ei dee
mostrare che se anche la legge ammettesse un motivo eccezionabile,
non £ però di tale qualità il motivo addotto dagli avversarti, che si
debba per esso seguire un senso non indicato dallo scritto. Dissi esser
necessario questo luogo, perch£ siccome chi ragiona contro lo
scritto dee sempre mettere innanzi qualche punto che risguarda l'equità, c
saria grave sfacciatezza, chi volesse provar qualche punto che è in pugna con
lo scritto, non far quanto potesse per aiutarsi di quella; così l'accusatore,
se farà di detrarre e mostrar qualche parte non consentanea alla equità,
sarà in casa di far credere la sua accusa da lutti i laii più giusta e
più probabile. E infatti le regole esposte più sopra circa al non
doversi ammettere ragione contraria allo scrino riuscivano tulle a fare
clic i giudici dovessero di necessità, ancora che non volessero, portar
giudicio contro al motivo ccccziouabile: le regole presenti per conira
parano a fare che i giudici vogliano dar giudiciu conira quello slesso
motivo, eziandio se loro non fosse necessario di cosi fare. Or ciò
si Conira scriptum autcm qui dicol, primum induco! cum lorum, perquom
aoquilas causae demonstrclur ; aut oslcndel, quo animo, quo consilio, qua
de causa fccoril ; cl, quamcumque causani adsumcl, adsumplionis parli bus
se defcndel, de quilius anlc dicium esl. Alquc in hoc loco quum diulius
commoratus sui Cacti ralionem cl equitatem cansac cxornavcril, lum ex
liis locis foro conira adversarios dicci oporlcrc causas accipi.
Dcmonslrabil nullam esse leeoni, quae aliquam rem inuldcm aut iniquam
Acri «clil; omnia sttpplicia, <1 ime ab lcgibus profìciscanlur, cuipae
ac malitiac «indicandac causa conslilula esse ; scriplorcin ipsum, si
cvsislat, factum hoc prohalurum, cl idem ipsum, si ei lalis res
accidissel, faclurum fuisse ; ca re legis scriplorcm certo et ordine
iudices certa aelate prandi tos consliluisse, ut essont, nun qui scriptum
suoni rccilarcnl, quod quivis pucr Tacere posse!, sed qui cogilalionc
adsequi posscnl cl volunlatcm interpretar! ; deinde illum
scriptorem, si scripla sua slultis liominihus et barbaris iudicibus
coinmilleret, omnia somma ddigentia pcrscriplurom fuisse ; nun - vero, quod
inlelligeret, quales viri res iudicaturi essenl, idcirco cum, quae
perspicua videro! esse, non ascripsissc; ncque cnim vos scripli sni
recitatore], sed volutilatis interprcles foro putavil. Poslea quaerere ab
adversariis : Quid, si hoc fccisscm ? Quid, si hoc accidissel ? Eorum
aliquid, in quibus aut causa sii honcstissima, aut neccssitudo
certissima, tumnc accusarclis ? Atqui hoc lei nusquam excepil; non
ergo omnia scriplis, sed quaedam, quae perspicua sint, lacilis
cxccpliouihus cascri ; deinde nullam rem ncque legibus ncque scriptura
ulta, denique ne in sermone quidem quotidiano atque impcriis
domeslicis recto posse administrari, si unus quisque vclit verba spedare, et
non ad voluolalcm eius, qui ea verba habuerit, accedere.
otterrà, se di que - luoghi, con che rooslrerassi esserci colpa in colui
che si accolla difesa o dalla comparatone, o dalla remozi one del
delitto, o dal rivcr.-arlo in allra cosa v persona, o dalle parli
della concessione (di che per addietro ho trattato con quella diligenza
migliore che ho sapulo), se di que' luoghi, dico, si farà uso secondo il
bisogno dell'aHare, per ribattere la eccezione ammessa dalla parie contraria, o
se si pareranno dinanzi le cause e le ragioni comprovanti e perchè e
con quale disegno sia stato cosi scritto in quella tal legge o in
quel testamento; con che si verrà a capa di ralTorzarc la causa non pure col
solo mezzo della scrittura, ma eziandio col mostrar in nostro
vantaggio il sentimento e la volontà dello scrittore', oppure si aumenterà
l'accusa contro il fatto facendo uso altresì di altre costituzioni.
Quegli che parlerà contro Io scritto, primamente si varrà di quel luogo con che
si dimostra la giustizia della causa, oppure farà vedere con che mente,
con che disegno, per qual motivo ha fatto cosi piuttosto che no; e
qualunque sia il motivo con che si parerà, dee pigliare a sua difesa le
parli dell'assunzione che furono di qui addietro vedute. E qui, appresso
ch'egli abbia un po’ alla difesa raffazzonalo di belle esortazioni i molivi di
ciò ch'egli ha fallo e la giustizia della causa; sosterrà contro
gii avversarli doversi animaliere quei suoi molivi a un bel circa con gli
orgomcnli che seguono. Dimostrerà non v' esser legge al mondo che comandi
cosa inutile ovvero iniqua; tulli i castighi che sono inflitti dalle leggi
essere stabiliii per punire la colpa c la malignità: lo scrittore
medesimo, se esistesse, approverebbe il fallo, anzi egli stesso sarebbesi
adoperalo di eguale maniera, se si fosse abbattuto in tale affare: per
questo lo scrittore della legge aver designato a giudici persone
appartenenti a una data classe, e giunti a un' età prestabilita, volendo
che tenessero i giudicii persone che sapessero non già recitare il testo
della legge, che da lauto è un fanciullo qualsiasi, ma raggiungere
col raziocinio e inlerpelrarc la sua volontà. Dipoi, se quello scrittore
avesse fatto ragione che il suo lesto saria venuto alle mani di gente
sciocca e di giudici selvaggi da ogni civiltà, avrebbe esposto ogni cosa
Alo per Alo e con la maggiore accuratezza; ma siccome ei s'
avvedeva troppo bene quali personaggi avrebbero avuto il maneggio
dei giudicii, non inserì nella legge ceni punti che vedeva essere da sì
di facile intelligenza: non vi tenne egli dunque per recitatori del suo
scritto, ma per interpetri della sua volontà. Poscia dovrà chiedere agli
avversari: Or che sarebbe, se io avessi fallo questo f che, so quest'
altro fosse mai acca scalo? V' Ita cose prodotte da un motivo MURO
Doindcei ulilitatis cthonestatis partibus ostenderc, quam inutile aut
quam lurpe sit id, quod adversarii dicant fieri oporluisse aut oportere;
et id quod nos feccrimus aut postulemus, quam utile aut quam honestum
sii; deinde leges nobis caras esse non proptcr lilteras, quac
tcnues etobscurae nolae sint voluntatis, sed propler carum rerum, quibus
de scriptum est, utililalcin, et corum, qui scripscrint, sapicntiam et
diligentiam, postea, quid sii lei, describerc, ut ea tidealur in
scnlentiis, non in vcrbis consistere; et iudci is vi* dealur iegi
obtcmperare, qui scntentiam eius, non qui scripluram sequatur; deinde,
quam indignum sit, eodem adfici supplicio eum, qui proptcr aliquod scelus
et audaciam contra leges fccerit, et eum, qui honcsta aut necessaria de
causa non ab scntcntia, sed ab litteris legis reccsserit ; atquc
bis et buiusmodi rationibus et accipi causam, et in hac lege accipi, et
cam causam, quam ipse odierai, oporlerc accipi demonstrabit. Et qucmadmodum ei
diccbamus, qui ab scripto dicerei, hoc Tore utilissimum, si quid de
acquitele ea, quac cum advcrsario starei, derogasse!, sic huic, qui
contra scriptum dicci, plurimum proderii, ci ipsa scriplura aliquid ad
suam causam converlere, aut ambigue aliquid scriptum oslendere ; deinde
ei ilio ambiguo cam partem, quae sibi prosit, defendere, aut verbi
definilionem inducerc, et illius verbi vim, quo urgeri videatur, ad suae
causae commodum traducerc ; aut ex scripto non scriptum aliquod inducerc
per ratiocinalioncm, de qua post dicemus. Quacumquc autcm in re,
quamvis levitar probabili, scriplo ipso se dcfendcrit, etiam quum
acquitalc causa abundabil, necessario multimi proDciet, ideo quod, si id, quo
nililur adrersariorum causa, subduxeril, omncm eius illain vim et acri
moniam lenierit ac dilucrit. Loci autcm communes celeris ci adsumptionis
partibus in utramque partem convcnient. Praetcrea eius, qui a
scripto dicci: leges es se, non ex eius, qui contra commiscri!, ulilìlutc
spcclari oportere, et In tanto onesto quanto nessun altro mai, o da
una necessità indeclinabile: or di queste cose ne accusereste voi alcuna?
Ma questa cotale non è dalla legge in nessuno de' suoi articoli
eccettualo: dunque non a tulle cose si provvede con Io scritto, ma solo
si provvedo con tacile eccezioni ad alcune, clic sono lucide c
appariscenti a chi clic sia: dipoi, nessun affare si potrebbe reggere con
dirittura nè per magistero di leggi, nè di scritto qualsiasi, anzi nè eziandio
nel discorso della giornata e nei comandi domestici, se volesse ognuno
starsi affitto alle parole, c non piuttosto adocchiar bene la
volontà di colui che quelle (ali parole Ita cspresse. Dipoi aiutandosi con le
parti dell' utile e dell’onesto, dimostrerà quanto saria danneggioso o
quanto lurpe ciò che gli avversarli dicono essersi dovulo o doversi fare; e a
riverso quanto sia utile o quanto onesto ciò che noi abbiamo fatto,
o ciò che veniamo chiedendo; poscia, esserci a grato le leggi non per le
parole, che son segni inconcludenti ed oscuri dell'altrui volontà, ma per
lo profitto che ne viene a lutti dai provvedimenti delle leggi , e
per la sapienza c sceltezza dei precetti che vi hanno posto quelli che le
scrissero ; indi si dovrà definire clic sia legge per modo tale clic si
paia manifestamente consister essa nei concetti, e non nelle parole, c
far vedere che solo quel giudice mostra di obbedire alla legge, il quale
si attiene al sentimento di essa, non alla materiale scrittura ; dipoi
quanto sia cosa danncvolc e da riprovare che sia mollato della
stessa pena colui che con sua scellcrmiza c lemeritè si fece ribelle alla
legge, c si quegli che per una ragione onesta o necessaria si è dilungalo
non dal sentimento della legge, ma dalle parole di essa; e con questi e altrettali
argomenti dimostrerà ed esser ammissibile il motivo clic induce eccezione, ed
esserlo in questa legge stessa ed esso motivo esser tale che affatto si
debba ammettere. E come io diceva esser di giovamento assai a quello che
sostenta lo scritto, se avesse spizzicato e detrattone alquanto delle
ragioni di equità che avvantaggiano I’ avversario, così a costui clic
discorre contro lo scritto profitterà a gran misura il convertire in suo
prò qualche punto dello scritto medesimo, ovvero dimostrarne di qualche tratto
il doppio senso e 1' ambiguità: di vantaggio, difendere de' due sensi quello
che gli torna utile, o recar la definizione della parola ambigua, c guadagnar
un argomento in favore della sua causa dal significato di quella parola
stessa, che pareva gli dovesse tornar al contrario; oppure per mezzo di
sillogismo, di che mi verrà da dire più sotto, ricavar c dedurre dallo scritto
qualHO wm gibus anliquius haberi niliil oporterc. Conira scriplum: logos
in consilio scriploris et ulilllalc communi, non in verbi* consistere ; quasi
indignimi sii, aoquitatom litleris urgori, quac volunlalc eius qui
scripscril defendatur. Ex con Ira ri is aulem logibus conlrovcrsia
nasedur, qiium inlor se Jii.'ys vidcnlur logos aul pluros discrepare lioc
modo: Lcx: Qui (yrunnum (inciderti, Olympionicarum proemia capilo, ni
quatti cole! libi rem a muqisltolu doposcì lo, cl magislralus ci
concedilo. El altera lei: T gratino occiso, quinque ejul jiroximos coqtiuliotie
inayislratus ficcato. Alexandrum, qui apud Pheraeos in Tliessalia
lyrannldcm occuperai, uxor sua, cui Thcbc nomen fiiil, nocl’u, quum simul
cubarei uccidi!. Ilare (ilium suum, quom ex lyranno habebal, sibi in
praemii loco doposcil. Sunl, qui ci lego occidi pucruin dicant oporlere.
Rcs in iudicio osi. In hoc genere utramque in parlcm lidcm loci
alque cadem praecepla comcnicnt, ideo quod uterque suam legein conlirinare,
contrariam infirmare debcbil. Primum igilur leges oportet contendere
considerando, ulra lcx ad maiorcs, hoc est, ad uliliores, ad honcsliorcs
ac magis nocessarias res perlincal; ex quo conlìcilur, ut, si leges duac,
aul si plures erunl, aul quolquot erunt, conservaci non possint, quia
discrepeut inter se, ca maxime conservando pulclur, quac ad maximas
rcs pcrlinere vìdoatur; deinde, ulra lcx poslcrius lata sii; nani
postrema quaeque gravissima est ; deinde, utra lei iubeal aliquid, ulra
permillal; nam id , quod imperatur , nccessarium , illud, quod
pcrmiltilur , volunlarium est ; deinde , in ulra lege, si non
obtcmpcratum sii, pocna odliciatur, aut in ulra raaior poena slalualur ;
nam maxime conscrvanda est ea, quae diligentissime che corollario
che non vi è espresso. Qualunque sia il punto, tuttoché tampoco
verisimile, in cui questi potrà piegare u propria difesa lo scritto
medesimo, anche quando la causa si fiancheggiasse di molle ragioni di equità,
ei sarà condotto senza manco nessuno a giovar di molto la causa propria,
perocché se giunga ad abbattere e tor di mezzo le ragioni che sono di
appoggio agli avversarli, egli avrà bella e distrutta, non che addoglila, tutta
la forza e veemenza della causa loro. Quanto è ai luoghi comuni che si
traggono dalle altre parli dello stalo assunlivo, questi cadranno
bene in taglio all’ uno e all'altro avversario. Di più, quegli che
s'altienc allo scrìtto avrà dalla sai questo argomento: le leggi doversi
riguardare in sé, non mica secondo il vantaggio clic dal violarle
uomo ne trac, e doversi esse aver a cuore e a capitale più clic ogni altra
cosa. Quegli clicslà contro lo scritto si gioverà di quest’ altro: avere
le leggi il loro fondamento e sostegno non nelle parole, ma nella
intenzione dello scrittore; esser cosa indegna far forza con le parole contro
quella equità, che ha in sua difesa il volere e l'intendimento dello
stesso legislatore. Nasce controversia
per leggi contrarie allora che due o più leggi non vanno di piena
concordia fra loro, come in questo esempio : Dice l'una : Chi darà morie
a un tiranno si abbia il premio che si dà ai vincitori di Olimpia, e
chieda al magistrato ciò che meglio gli aggrada, chè il magistrato gliene
dovrà concedere. Dice un’altra legge: Insieme che sia ucciso il
tiranno, dovrà il magistrato menar a morie cinque altri che siano a
quello legali di parcnlaggio. Tebe, moglie di quell'Alessandro che s’era
fallo tiranno Ira i Ferei nella Tessaglia, nottetempo, essendo ella
nello stesso letto con lui, lo pose a morte. Per premio chiede costei la
vita del lì glio di' essa dal tiranno aveva avuto. Insorge altri a dire
dover il fanciullo per legge esser ucciso. L' aliare é messo in
giudicio. Or in causa si falla all'uno c all'altro avversario verranno a
taglio I luoghi stessi, gli stessi precetti, perchè dovranno lutti e due
tener ferma la legge che lor giova, e battere molto di vena la
contraria. La prima cosa adunque, si dee far il pareggio e confronto
delle due leggi, esaminando bene quale delle duo vada a battere a mag.
glori cose, voglio dire quale provveda a cose più utili, a più oneste, a
più necessarie ; e di qua conchiudere che se due leggi, o se saranno più,
o quante potranno essere, non si possono ritenere per essere
disconsenzienti Ira loro, abbiadi tutte a ritenersi quella che provvede
alla maggiore utilità delle cose ; poscia è da vedere quale delle due
fu fatta poi giacché l'ultima ha più forza ed
autorità; IH sancta est; deinde, utra lei iubcat,utra vetel;
nam saepeea, quae velai, quasi exceptione quadam corrìgere videlur
illam, quae iubel; deinde, utra lei de genere omni, utra de parie quadam;
utra communiler in plurcs, utra in aiiquam cerlam rem scripla
vidcalur; nam quae in partem aiiquam el quae in cerlam quamdam rem
scripta est, propius ad causam accedere videlur, et ad iudicium magia
perlinerc; deinde, ci lege ulrum statini fieri nccesse sii; ulrum habeal
aiiquam moram et suslentationem; nam id, qund stalim faciendum sii,
parlici prius oportel; deinde operam dare, ut sua lei ipso scriplo
vidcalur niti, contraria anioni aul per ambiguum, aul per
raliocinalionem, sul per detinilionem induci, uli sanclius el firmius id
videalur esse, quod apcrtius scriptum sii ; deinde suac legis ad scriptum
ipsam senlentiam quoque adiungere, contrariam legein ilem ad aliam
senIcntiam Iransducere, ut, si fieri poteri!, ne discrepare quidem videantur
inter se; postremo Tacere, si causa Tacultalem dabil, ut nostra ralione
utraque lei conservar! vidcalur, adversariorum ralione altera sii necessario
ncgligenda. Locos autem communcs, et, quos ipsa causa del, ridere
oportcbil, el ex utilità tis et ex honcslalis amplissimi partibus sumere
demonstrantem per ampliGcalionem, ad utram potius legem accedere oporteal. Ex
raliocinatione nascitur controversia, qunm ex eo, quod uspiam est, ad id,
quod nusquam scriptum est, venilur; hoc paclo: Lei: Si furiosus
ejcif, agnalum genliliumqve in eo pecuniaquc cius potestà! etto. Et lei:
Palerfamilias uli super [umilia pecuniaquc sua legassi t, ila ius esto.
Et indi quale mena obbligo intorno a un che, quale non lo metta,
conciossiachè il Tare, quando ci ha obbligo è atto di necessità, quando
non ci ha, è atto volontario senza più; inoltre, qual legge soggetti a
pena chi non le obbedisce, o quale soggetti a pena più grave che non le
altre, poiché deesi in paragone ritener quella che guarentisce meglio
la propria inviolabilità col multare di più gravi ammende quello che ad
essa contrarrà; poscia, quale di esse leggi prescriva una azione, quale
invece la interdica, poiché spesso quella che la interdice dà vista
di correggere quasi che per mezzo di eccezione quella che la prescrive : quindi
, quale delle leggi si riferisca a lutto un genere, quale a sola
una qualche specie ; quale sia scritta in comune per molti oggetti, quale
lo sia per un solo oggetto determinalo^ poiché quella che si riferisce a
una specie, come anche quella che é scritta per un oggetto solo, si
applica meglio ai bisogni della causa e meglio serve a determinarne il
giudicio : oltracciò, se la legge imponga la necessità che si
Taccia di presente ciò che é da Tare, o se conceda qualche soprastanza e
indugio, poiché ciò che di presente è da Tare si c^invien compiere per
primo e innanzi a lutto; dipoi metter opera che la legge, a che noi
ci atteniamo, mostri di aver la sua Tona nelle sue stesse parole : e per
conira quella dello avversario si farà veder che non tiene, o
citandone l'ambiguità, 0 deducendo per sillogismo o per definizione
qualche corollario che le tolga la forza c il valore, in maniera che si
venga a conchiuder di netto, come ciò che é scritto con più
chiarezza é appunto cièche si dee tenere vie più per Termo e
giustamente ordinato. In seguito, alla legge da noi difesa applicheremo
il senso che ne pare, e vedremo per lo simile di accomodar alla
legge contraria un senso cosi fatto, che lasci apparire a misura
del possibile, non esser poi le due leggi cosi discordanti Tra loro come
si crede: in ultimo, dovremo travagliarci, se la causa ne darà il
poterlo, di dar a divedere che il nostro ragionamento concilia e ritiene
ambe le leggi, laddove per lo ragionar degli avversarli o l'una o l'altra ne
dee necessariamente essere rigettata. Converrà altresì vedere quali
luoghi comuni la causa offra da sé, e pigliarne anche dalle molle e varie
parti deli' utilc e dell' onesto per dimostrare col mezzo della
amplificazione a quale delle due leggi sia più presto da attenersi. L.
Nasce controversia dal raziocinio, quando da ciò che è scritto in una
legge si viene a trattare ciò che in nessuna è scritto, per esempio: V'è
una legge che dice: Se alcuno vien pazzo furioso, gli agnati e gli
offri della stessa famiglia acquisteranno padronanza sopra di lui c sopra if
sito Ics.- Si palcrfamitias intestalo maritar, familia pccuniaque eit a
agnatumgentiliumijne està. Quidam iudicatus est parcnlem occidisse. Ei
slatini, quoti cffngicndi potcslas non fuit, ligneac soleac in
pedes induclac suol; os anioni obtolulum osi folliculo el pracligatum;
deinde osi in carcerem deduciti*, ul ibi ossei tarilisper, dum coleus,
in ijuein coniceli!* in proflucnlem doferrelur, compararelur. lnlcrea
quidam ojus familiares in carccrem labulas adrerunl cl loslcs adducimi;
beredes, quos ipsis libel, seribunt; labulao obsignanlur. De ilio posi
snpplicium sumilur. Inler eos, qui herodes in labulis scripli sunl, el
inler agnalos de licrcdilale conlrovorsia esl. Ilio corta lei, quac
testamenti faciemli iis, qui in co loco siot, adimal polcslalem, nulla
prorerlur. Ex ccleris Icgibus, el quae liunc ipsum supplicò)' liuiusmodi
adliciunt, el quac ad testamenti lacicndi potestàlem pertinenl, per raliocinationcm
vcnicndum est ad eiusmodi rationem, ut quacralur, habucritne
testamenti faciendi poleslntem. Locos aulem communcs in Irne genere
argumenlandi lios et liuidsinodi quosdam esse arbilramur; primum cius seripii,
quod proli-ras, laudalioncm cl coniirmalionem; deinde cius rei, qua de
quacralur cum co, de quo constcl, collationem eiusmodi, ut iti, de
quo quacritur, rei, de qua constcl, simile esse videatur; postea admiratioocm
perconlationc, qui fieri possit, ut, qui hoc acquum esse conccdal, illud
ncgel, quod aul aequius aul eodem sii in genere; deinde idcirco de hac re
niliil esse scriptum quod, quum de illa cssel scriptum, de hac is,
qui scribebat, dubitalurum nomi noni arbitratila sit; postea mullis
in legibus multo practenla esse, quac idcirco practenla nemo arbitrclur,
quod ci ccleris, de quibus scriptum sit, inlelligi possint ; deinde
acquitas rei dcmonslranda est, ul in iuridiciali absolula. Contro autem qui
dicet, simililudinem infirmare dcbcbil: quod facicl, si demonslrabit illud,
quod conlcralur, ab co, cui confcralur, divcrsuni esse genere, natura, vi,
magnitudine, tempore, loco, persona, opinione; si quo in numero illud,
quod per similitudincm adfertur, el quo in loco illud, cuius causa
adfertur, liaberi conrcnial, ostendetur; deinde, quid res cum re
ditterai, dcmonslrabitur, ut non idem videalur de utraque exislimari
oporterc. Ac, si ipse quoque polerit raliocinalionibus uli iisdem
rationibus, quibus ante dicium esl, utclur; si non poteri!, negabit
oporterc quidquam, itisi quod scriptum sii, considerare; pcriclitari
omnia iura, si similitudincs accipiantur; niliil esse pacnc quod non
alteri simile esse videatur: mnllas de similibus rebus et in unam
quamque rem tantum singulas esse leges omnia posse inler se rei similla
tei dissimilia do danaro. Un’ altra dico : Se un padre
testamento rapporto a' suoi schiavi c ai suo danaro, sieno ferme e
rate le sue disposizioni. Dice una teria : Se un padre se ne muore
intestato, i suoi schiavi e il suo danaro divengono proprietà degli
agnati e degli altri della siesta famiglia. Un tale fu giu: dirato reo d’
aver ucciso suo padre. Siccome non potò trovar modo di prender la fuga,
gli furono I calzale le piante di piedi che di legno a nifi di scar' pc,
c imbavagliato il volto in un baccuceo stretto alla gola ; poi fu dato alla
carcere perché vi I stesse prigione tanto solamente che fosse ammannala
la saccaia di cuoio, io clic si dovea chiù1 dere c gettare in fiume. In quel
mezzo tempo al| cuni suoi amici recan nella carcere uno stromenlo
testamentario c insieme alcuni testimoni; nomano eredi di esso quelli che
lor pare c piace, c mettono allo slromcnlo il suggello dovuto. Poscia si
prendo il supplizio del delinquente. Nasco litigio circa l' eredità fra
gli agnati c quelli che sou nomali eredi nello scritto. Qui non si rena in
mezzo nessuna leggo positiva che tolga il dirillo di far 1
testamento a quello che ha poco andare ad esser morlo. Si dee dunque
dalle altre leggi, si da quel| le clic a lai delinquente infliggono un tale
supplì! ciò, si da quelle clic si riferiscono al dirillo di far 1
testamento, venire per la via del raziocinio a una trattazione clic versi
sulla ricerca, se quel parricida | avesse o no diritto di testare. I
luoghi comuni clic | son proprii a questo modo di argomentare sono
i seguenti senza clic ve n'ha certi altri di falla simile ; primamente
dello scritto clic metterai innanzi I dei fare la lode, c raffermarne
l'autenticità: dipoi ! deesi fare della cosa che si cerca con quella che
è manifesta un confronto di tal maniera, che appari j sca esser
simile alla manifesta la cosa che cercasi; poscia eccitar la maraviglia
coll'intcrrogarc, come 1 possa mai darsi che olii concede esser questa
casa : ben giusta, dica non lo essere quella, che giosta è molto
più, o almeno in eguale misura ; indi, se della cosa che cercasi non »’ è
nulla di espresso nello scritto, nop v'èa motivo che P autore, allora che
scriveva, lacca ragione che nessuno ne moi «crebbe già dubbio; io altre leggi
esser trasandate ; di molte cose, le quali nessuno crederà mal che
- P autore le Irasandassc perchè non le volesse , ma solo perchè le non
iscritte si possono raccogliere da ben altre, che scritte già sono; di
vantaggio, deesi dimostrare la equità della cosa, come nella costituzione
giuridicialo di specie assoluta. Quegli che terrà il contrario dovrà lor
forza alla somiglianza mostrata dalla parte avversa; c il farà
dando a vedere esser la cosa messa a paragone di genere diverso da quella
con che s' è messa, cd altresì esser di diversa natura, fona,
grandezza, Limtu il. inonslrari. Loci communes: a raliocinalionc,
oporIcre conieclura ci co, quoti scriptum sii, ad iti, quod non sii
scriptum, pervenire; et neminern posse omnes rcs per scripturam
amplccli.sed eunt commodissimc scribcre, qui curel, ut qoacdam ex
quibusdam inlclligantur. ('.mitra ratiocinalioncm, huiusmodi :
coniccluram divinalionem esse , et stulli scriptum esse non posse omnibus
de rebus caverò, quibus velil. Dcllnilio est, quum in scripto verbum
aliquod est positum, cuius de vi quaerilur, hoc modo; Lei: Qui in aduna
tempestale nocem reliquerinl, omnia amiilunto; forum nauta et onera sunto
qui innave remanserint.Duo quidam, quum iam in allo navigarcnl, et quum
eorum allerius navis, allerius onus esset, nautragum qucmdnm
nalaolcm et manus ad se tcndcnlcm animum advcrlerunt; misericordia commuti
navem ad rum : applicarunl, hominem ad se suslulcrunt. Postea
aliquanlo ipsos quoque tempesta» vehcmenliiis lodare coepit, u*que adeo,
ut dominus navis, quum idem gubernator esset, in scapliam confugcrel, et
inde funicolo, qui a poppi religalus scapham adneiam Irahobat, navi, quoad
possel, nioderarclur; ilio aulem, cuius merces crani, in gladiuin ignave ibidem
incumbcrct. Ilic ille naufragus ad gubernaculum accessit, et navi, quoad
po luil, est opiluluios. Sedatis aulem lluctibus, et tempestale iam
commutata, navis in portum pcrvchilur. Ilio aulem, qui in gladium
incumbucral, leviter saucius facile ei vulncre est rccrealus. Navem cuni
onere liorum (riunì suam quisque esse tempo, luogo, personaggio, opinione
; il farà ancora, mostrando in qual conto c prozio s’ abbia a tenere la
deduzione traila dalla pretesa somiglianza, in quale il motivo perchè si è
tratta: in line si dimostrerà in che balla la differenza dall' una
alla altra cosa, acciocché si paia clic dell'ima e dell’altra non densi
avere la stessa idea. E se egli stesso avesse opportunità di valersi di
raziocinii, se ne dovrà valere in quelle stesse guise clic si snn
dette poco avanti ; se di opportunità direnasse, dovrà sostenere
clic non si dee allcudere ad altro che a ciò die è scritto; andar a
ripcnlaglio tulli i diritli, se si ammettessero somiglianze sì folte,
imperocché non v'Iia quasi cosa alcuna clic non tenga del simile con
qualche altra ; esservi molle leggi che Irailano nggelti somiglianti tra
loro, ma l' una essere separala dall'altra, e ciascuna trattar solamente il suo
oggetto speciale ; in tutte le cose potersi scorgere somiglianza o
dissomiglianza delle unc con le altre. I luoghi comuni clic qui tornano
a capello sono i seguenti : quegli clic ragiona per mezzo di raziocinio
dee da ciò clic è scritto raggiungere per congettura eiò clic non è scritto,
c difendere clic nessuno autore può racchiudere ugni cosa nella sua
scrittura, c che meglio scrive e a meglio riesce chi prucura che da
alcune cose alcune altre se nc venga ad intendere. Quegli che
ragiona conlro il raziocinio, dovrà sostenere clic darsi alla congettura
è un farsi a indovinare, cd essere un balordo e uno sciocco quello
scrittore clic non sa ben esprimere c provvedere tutto quello eh' ci
vuole. fi definizione, quando cercasi qual sia il vero signilicato d' una
qualche parola che ai ritrova nello scritto, come in questo esempio :
Dice la legge : Chi abbandona la nave in tempo di burrasca, si diierla e
perde ogni cosa: la nave c le mercalanzie cadono in proprietà di quelli
che nella nave si rimasero. Due persone viaggiavano per mare,
I" uno padrone della nave, I' altro della merce di che essa era
carica. Videro nell' acqua un tale clic stava perduto c che tuttora
nuotava tendendo verso essi le mani ; presi da pietà, drizzarono la nave
alla volta di quello, o lo raccolsero dal mare. Alquanto dappoi
cominciarono essi medesimi di esser forte travagliati dalla burrasca che
vi si mise, di modo che il padrone della nave, che n' era eziandio il
pilota, riparò per salvezza nel palischermo, c di quivi, a misura del
possibile, reggeva la navo con la funicella clic raccomandala alla
poppa traeva il palischermo dietro a sé. L'altro clic era il padrone della
mercalanzia, sul ponte della nave lasciossi radere da codardo sulla
punta di un pugnale per morirsene. Intanto il naufrago di’ era
slato raccolto dal mare si fece al limone, e in blil dici!. Die
orones scriplo ad causato acceduti!, el et nominis tì nascilur
controversia. Natn et rclinquere nateti), et remancrc in navi.deniquc
natia ipsa quid sii, definilionibus quaerelur. tisdem autem et locis
omnibus, quibus definitiva conslilulio, traclabilur. Nunc, exposilis iis
argumcntationibus, quac in iudiciale causarutn gettus accomodanlur, deinceps in
deliberativum gcnus et dcmonslratitum argumenlaudi loco: et praecepla
tlabimus; non quo non in aliqua conslitulione omnia semper causa veraetur, sed
quia proprii tantum liarum causarum quidam loci sunt, non a constilutione
separati, sed ad (Ines liorum generum accomodali. Nam placet in
iutliriali genere flnem esse aequilatrm, Itoc est, partem quamdam
Itonestalis. In deliberativo aulcm Aristoteli placet utililatcm, nobis et
honcslatcm et ulilitalem. In dentonstralivo , lionestatem. Quarc in hoc
quoque genere causae quaedam argumcntalioncscommuniter ac simililcr
Iraclabunlur; quaedam separatius ad liucm, quo referri onincm ralioncm oporlet,
adiungcntur. Alque uniuscuiusque constilolionis escmplum supponcrc non
gravaremur, itisi {liuti viderentus, qucmadntodum ros obscurac dicendo
fioretti aperliores, sic rcs apcrtas obscuriorcs fieri orationc. Nunc ad
dclibcralionis praecepla pergamus, LI I . Rerum cipelendarum Iria
genera sunl; par autcni numerus tilandarum et contraria parte. Nam
est quiddam, quod sua vi nos adliciat ad ecse non emolumento captans aliquo,
sed Irahens sua dignilale; quod gcnus, tirlus, scienlia, veritas est. Est
aliud autem non propter smini vini et naturam, sed propter fruclum alque
ulilitalem peIcndum; quod genus, pecunia est. Est porto quiddam ci liorum
parlibus iunctum, quod el sua vi et dignilale nos iuduclos ducit, el prue
se quamdam gerii utilitatem, quo magis eipetatur, ut amicitia, bona
cxislimalio. Alque ex is liorum conira per quanto seppe porse aiuto
alla nave. Calmatisi i fluiti, e volta la burrasca in bonaccia, la nave
fu fatta entrare nel porlo. Colui clic s'era gettato sulla punta
del pugnale non avea rilevala che una assai lieve ferita, ondechè tosto e
di facile si rimise in meglio. Ciascuno di questi tre vanta per sua
la nave con la merce denlrovi. Perciò intentano causa tutti e tre,
pretendendo ciascuno avere la legge dal lato proprio. Si rimesta
controversia di nome, cioè dire di significato; poiché deesi
realmente cercare con altrettante definizioni che significhi
abbandonar la nave, che rimanersi in quella, e infine che sia la nave stessa.
Or questa causa si trattori precisamente con tutti quei luoghi, con che
trattasi la coslituiione definitiva. Esposte cosi le argomentazioni che
si adattano alle cause di genere giudiciale, verrò a mano a mano dando i
precetti e indicando i luoghi che sono il caso per le argomentazioni
proprie dei due generi, deliberativo e dimostrativo; non perchè ogni causa
non s’ aggiri sempre sopra qualche stato di questione oratoria, ma
perche ci sono dei luoghi solamente proprii di questi due generi di
cause, non già disgiunti e divisi dallo stalo delta loro questione, ma
adatti c relativi ai (ini, a cui para ciascuno di questi due generi. E infatti
si tiene dai relori rito il genere giudiciale abbia per line la equità,
ciò è dire tuta parte dell' onesto ; c da Aristotele clic il fine
del deliberativo sia l' ulilc : io però tengo clic sia l'utile cd anche l'onesto.
Si tiene da ultimo che l’ onesto sia il line del genere dimostrativo. Laonde,
eziandio riguardo a questi dne generi di cause insegnerò in comune e per
lo simile alquante argomt-nlazioni, aggiungendone ancora certe altro speciali
che si riferiscono strettamente al fine che è proprio di ogni causa , c a
cui si dee rapportare tutta la orazione. Noti mi graverebbe di apporre il
proprio esempio a ciascuna costituzione clic io toccherò, se non osservassi che
siccome le cose oscure si fanno più ciliare col ragionarvi sopra, cosi le
ciliare si fanno, ragionandole, alquanto oscure. Ma veniamo ai
precetti circa il genere deliberativo. Lll. Tre sono le specie
delle cose appetibili, c tre le loro opposte, da cui l'uomo si dee
guardare. Vita certi oggetti che per lo slesso loro valore ne
allettano ad abbracciarli: non ne tirano già a sè colla lusinga di
qualche profitto, ma coll'innamorarne della nobiltà e pareggio loro, quali sono
la virtù, la scieuia, la verità. Te n’ha altri che sono a
desiderarsi non per lo valore c natura loro, ma perchè conferiscono uo
qualche profiliti ed utilità, siccome è il danaro. Ve n' Ita invece che
sono un misto di questi e di quelli, i quali olire che ne adeseano a
seguirli pel loro valore e nobilezza, an ria facile, tacenlibus nobis,
intelligenlur. Seti ul expedilius ralio trndalur, ea, quae posuimus,
brevi nominabuntur. Narri in primo genere quae sunl, honesla
appellabunlur; quae aulem in secondo, ulilia. Haec autem Icrlia, quia
partimi honeslalis comincili, et quia mnior esl vis honeslalis,
iuneta esse omnino ci duplici genere intelligenlur; sed in
nteliorem partimi vocabuli coiiferanlur, cl honesta nominentur. Gì bis itimi
conlicitur, ul appclendarum rcrum partes sint borie. las et utililas,
vitandarum turpiludo et inulililas. ilis igitur duabus rebus res duac grandes
sunt atlribiitae, nccessiludo cl adfectio; quarum altera ei vi, altera ci
re cl personis consideratili. De ulraque post aprrlius perscribemns; nunc
honeslalis ralioncs primum eiplieemus. Quod ani tolum aul aliqua ex
parte propter se pelilur, honestum nominabimus. Quare quum eius duac
partes sint, quarum altera simplex, altera iuneta sii, simpllcem prius
consideremus. Kst igitur in co genere omnes res una «i alquc uno nomine
amplexa virlus. Nam virtus est animi habitus, naturae modo, atque rationi
conscnlaneus. Quamobrem omnibus eius partibus cognitis, loia vis erit simplicis
honeslalis considerata. Ilabet igitur partes quatuor: prudentiam, iuslitiam,
foriiludinem, lempcrantiam. Prudenlia est rerum bonarum et malarum
neutrarumque scienlia. Partes eius: memoria; intei iigentia, provienila.
Memoria est, per quam animus repctil illa, quae fuerunt; intei Iigentia ,
per quam ea perspicit; quae sunt; providentia, per quam futurum
aliquid vidclur ante quam factum sit. lustitia est habitus animi,
communi utililate conservala, suam cuique tribuens dignilatcm. Eius
inilium est ab natura profectum ; deinde quaedam in consucludincm
ex ulililatis ratione venerunt; postea res et ab natura profeelas et ab
consuetudine probalas legum melus et religio sanxil. Natura ius esl, quod
non opinio genuil, sed quaedam innata vis inscruit, ul religicncm,
pielatem, gratiam, vindicationcm, obscrvantiam, verilatem. Religio esl, quae
supcrioris cuiusdam naturae, quam divlnam vocant, curam
ceremoniamque adferl ; pietas per quam sanguinoconiunclis palriacqne benevulis
oflicium cl ditigens Iribuilur cullus; gralia in qua anticiiiarum cl
olliciorutn allcrius memoria et remuncrandi vo cile ne mostrano una
cotale utilità, perchè ad appetirli siamo vie piè invogliati, come à
l'amicizia, la buona stima, e via via. Gli oggetti che sono opposti ai
prcfali, ancora clic io li ponga in silenzio, di leggiere si potranno
intendere. Ma perchè sieno più chiari i precetti che vengo a porgere,
ricordo cosi di passo di che nomi sieno da appellare gli oggetti
che ho qui sopra accennali. I primi si ap polleranno onesti, i secondi si
diranno utili. I terzi, perchè sono contempcrati con l'onesto, e perchè in essi
la forza dell' onesto è maggiore clic la propria, si capisce di lieve che
sono appetibili per due ragioni unite insieme ; ma s’ abbiano pure
il nome dalla ragione migliore, e si appellino onesti anch' essi Da
lutto ciò si deriva, che gli oggetti da dover appetire sono di due
specie, onesti ed utili, c gli opposti da doversene chi che sia guardare,
sono i turpi ed i dannosi. A queste due specie si riferiscono due cose di
assai rilievo, la necessità e la circostanza; delle quali la prima si
risguarda in sè e nella forza sua propria, la seconda relativamente ai
fatti ed allo persone. Dell' una e dell’ altra scriverò poi con sudlcicnle
chiarezza : qui intanto mi farò a trattare cièche risguarda
l'onesto. LUI. lo appello onesto ciò che in tutto o per amore
di alcuna sua parte è appetibile per sè. Siccome però son due le parli
dell'onesto, una semplice, una mista, ci occuperemo in prima della parte
semplice. Or quella che per la sua propria potenza, c sono il solo suo
nomeoomprendequanto v’ha nella specie dell'onesto semplice, èsen z’alIro la
virtù. È infuni la virtù un abito interno, basalo sulle regole naturali,
e consentaneo alla ragione. Per la qual cosa, conosciute che siano
tulle le parli di essa, si può dire di aver conosciula tutlaquanta la
forza dell'onesto semplice. Ha essa virtù ben quadro parti, prudenza,
giustizia, fortezza, temperanza. Prudenza è la facoltà di conoscere ciò che è
bene e ciò che è male, e ciò che non è nè l'uno nè l'altro. Le sue parti
sono, memoria, intendimento, antiveggenza. Memoria è quella dote, per cui
l'anima si risovviene dello cose clic furono; inlendimenlo è quello, per
cui l'anima acquista la conoscenza delle cose clic sono; antiveggenza è
quella che dà a conoscere innanzi che avvenga qualche cosa che dovrà avvenire.
Giustizia è quell' abitudine interna, per cui l'uomo, senza alterar
l'utile generale, dà a ciascuno quello di che esso è degno. I suoi
principii son venuti dalla natura: poscia certe azioni, per amor
dell' utile che danno, sono passale in consuetudine; in fine si i principii
venuti dalla natura, e si le azioni che furono approvate dalla consuetudine,
vennero sancite dal timor delle leggi c dalla religione. Natura è una
legge che non fu lunlas contiiictur ; vindicatio , per quaro vis aut
iniuria et ninnino amile, quod obfuluruin csl, de* rendendo ani
ulcisccndo propulsala; observanlia, per quam lioniines aliqua dignilalc
anlceedcnles cultu quodam et honorc dignantur ; vcrilas, per quam
immillala ea, quac snnt, aut aule fuerunl, aut futura suut, dicunlur. Consuetudine
ius csl, quod aut levitar, a natura tracium aluit et maius lecit usua, ut
rcligionetn; aut si quid coruin, quac ante diximtis, ab natura proreelum
maius Lictum propler consuctudiuem viilemus, aut quod in morem vetustas luigi
approbaliuue perduti!, quod genus pactum est, par, iudicatum. Pactum csl,
quod inler aliquos convenit ; par , quod in omnes aequabile est ;
iudicatum, de quo alicuius aut aliquorum iam scntenlìis constitulum csl.
Lego ius est, quod in co scripto , quod popolo ciposilutn est , ut
obscrvct , conlinctur. Fortiludo est considerala periculorum susceptio ,
et laboruin perpessio. Eius parles, magnificcnlia , Odeutia , patinili,
i, perseverantia. Magniflcentia est rcruin magnaruin et cicelsarum
cum animi ampia quadam et splendida proposilionc agilatio alque administralio ;
lidentia csl, per quam magnis et bonestis in rebus multum ipsc aniinus in
se fiduciae cerio cum spe collocavi! ; palicntia csl bonestnlis aut
utililatis causa rerum ardnaruni ac dillo ilium vnlunlaria ac
diuturna perpessio ; perseverantia csl in ralionc j bene considerala
stabilis et perpetua parmansio. i Temperantij est ralionis in libidinem
alque in alios non rcclos impelus animi firma et moderala domi- :
nalio. Eius parles, coiiliociilìa, clemenlia, mode- | stia. Conlinemia
est, per quam cupidiias cnnsilii gubcriialionc regilur ; clemenlia, per
quam animi temere in odium alicuius iticeli roncilaliquc comitale
rctincnlur ; modestia, per quam pudor honcsti curam cl slabilcm comparai auctorilatcm.
Atque lince omnia propter se solum, ut nihil adiungalur emolumenti, pctcnda
suoi. Quod ut demonstrclur, ncque ad hoc nostrum instilutum pcrtinct, et
a brcvilate praccipiciidi remulum csl. l’roplcr se aulem vitanda suut non
ca mudo, quae bis con prodotta dalla opinioue umana , ma è per
una certa l'orza che le è ingenita, quale è la religione, la pielà,
la grazia, la vcndclla, la osservanza, la verità. Religione è procurare
le cerimonie e il culto di una natura più prestante della nostra,
la quale si domanda divina; pielà £ quella virtù, per cui l'uomo presla
ossequio c rispetto a quelli che gli sono attinenti di sangue, ed
agli amatori della patria ; la grazia comprende la memoria
dell'altrui amicizia e (ratti officiosi, e la volontà di muncrargliene;
vendetta è quella, per cui, difendendo o ricattandoci, ributtiamo la
violenza c il sopruso, anzi tutto affatto ciò clic ne potrebbe essere
nocitivo; osservanza £ quella disposizione dell'animo, per cui teniamo degni
di certa venerazione ed onore gli uomini di paraggio che son posli in
dignità. É verità quella virtù, per cui, senza punlo alterarle, diciamo
le cose quali furono, o quali sono, o quali sono a
venire. Consuetudine è una norma o legge, che tratta a poco a poco
dai principii naturali, fu afforzata e resa maggiore dall’ uso, come è la
religione; e forza di norma o legge ha qualunque delle cose provenienli dalla
natura, clic ho toccalo poco fa, le quali vediamo più che più aver
preso piede mediante la consuetudine; ovvero qualsiasi delle cose,
che tenute dal popolo inaino ab antico per buone c per vero son passale
in costume fino a noi, emne è il patto, la parità, il giudicalo. È
patto ciò, in cui più persone convengono e fanno accordo tra loro; é
parità ciò che guarda verso tutti la deb la uguaglianza; è giudicalo ciù,
sopra cui fu giù da uno o più pronunziata sentenza. Legge è una regola
esposta in quello scritto che si presenta al popolo perché In debba
osservare. Fortezza, è sofferenza delle fatiche, è un esulo c approvveduto
incontro dei pericoli. Le sue parti sono, magnificenza, sicurezza,
pazienza, perseveranza. I’cr magnificenza s’ intende un esercizio e un
maneggio di coso eccelse e rilevate, congiunto con una larga e splendida
dimostrazione dell'animo; sicurezza è quella virtù, per cui l'uomo nelle
imprese grandi cil onorale ripone in sé stesso molto di fiducia, in modo
da avere la sua speranza per riuscibilc; pazienza è un volontario c lungo
sofferimento delle cose ardue e malagevoli, eoi . disegno di giunger a
fatti di onore o di utilità; perseveranza é una ferma c perpetua
permanenza in un partito che siasi preso dietro consiglio e
ponderazione. Temperanza é un signoreggiamento della ragione, forte, ma
moderalo, sopra la libidine c sopra gli altri non rclli trasporti del
cuore. Le sue parti sono contenutezza, clemenza, modestia. Contenutezza 6
quella rirlù, per cui viene clic i desideri! affienali si lasciano
reggere dal con Iraria sunl, ut fortitudini ignavia et iusliliac
iniustitia veruni etiam illa, quac propinqua vidcnlur et Unilima esse,
absunt autem longissime ; quod gènus fidenliae conlrarium est dillìdenlia, et
ca re vilium est; audacia non conlrarium, sed apposilum esl ac
propinquum, cl lanieri vilium osi. Sic unicuiquc virluti fmilimum vilium
rcpericlur , aul cerio iam nomine appellalum, ul audacia, quac fidenliac,
pertinacia, quac perscverauliac finitima csl, supcrstilio, quae religioni
propinqua esl ; aut sine ullo cerio nomine. Quae omnia ilem, uli
contraria rerum bonarum , in rebus vitandis reponcntur. Ac de eo quidem genere
honcstalis, quod et omni parte propter se pctilur, salis dicium
csl. bone de eo, in quo ulilitas quoque adiungilur, quod famen honeslum
vocamus, dicendoci vidclur. Sunl igilur multa, quae nos quum dignilale
lum fruclu quoque suo ducunl; quo in genere csl gloria, dignilas,
ampliludo, amicilia. Gloria csl frequens de aliquo fama cum laude;
dignilas, alicuius bonasia, et cultu et honore cl vcrccundia digita auctoritas;
ampliludo, polcntiac, aut maiestatis, aul aliquarum copiaruoi magna abundanlia
; amicilia, volunlas erga aliquem rerum bonarum illius ipsius causa, quem
diligi), cum eius pari voluntate. Ilio quia de civilibus causis loquimur,
fruclus ad amicitiam adiungimus, ut eorum quoque causa pelenda vidcalur ;
ne forte quis nos de om ni amicilia diccre ciistimans reprclicnderc
incipial. Quamquam sunl, qui propter ulililatem modo pclendam pulanl
amicitiam ; soni qui propler se solum ; sunt qui propler se et ulililalcra.
Quorum quid verissime conslitualur, alius locus crii considcraudus- Nunc
hoc sic ad usuui oralorium rclln. qualur, utrami|uc propler rem amicitiam
esse cipclciidam. Amiciliarum aulem ralio, quoniain parlim sunl religionibus
iunclac, parlili) non suul, cl siglio e dal senno; clemenza £ quella, che,
quando l’uomo è allenalo e spinto all’odio contro alcuno, ne lo aflrena con
dolcezza c benignità; modestia è quella virtù, per cui l'uomo mercè il
suo pudore ha cura dell'onestà, c acquista una slabile riputazione.
Tulle queste virtù sono appetibili da per sè sole, posloehè non sicno
accompagnale di nessun approvacelo ed utilità; cosa clic non mi
fermo qui a dimostrare, Ira perchè non si perbene nll’assunlo clic ho per mano,
e perchè non si consente con la solila brevità di questi mici precetti.
Vogliono però esser evitali di per sè non solo i vizii che a tali virtù
sono contrarii, come la codardigia clic è contraria alla fortezza, la
ingiustizia clic alla giustizia; ma quelli altresì che paiono esser loro
propinqui c vicini, ma in quel cambio non sono a mille miglia tali; per
esempio, la diffidenza è contraria alla fidanza, e per questo è
vizio; l'audacia invece non è di essa fidanza il contrario, ben anzi l'é confine
c le va appresso, c niente di meno è vizio. Similmente ciascuna
virtù si vedrà essere confinata dal suo vizio contrario, il quale o si domanda
con un nome suo proprio, come l'audacia che confina con la fidanza, la
pertinacia che ha con la perseveranza molta approssimità , la superstizione che
alla religione vicn seconda ; o non ha nessun nome determinato. Or tutti questi
vizii, come conlrarii delle virtù, si riporranno nel novero delle
cose da dover evitare. Parlai della specie di onesto, che da ogni
parte è appetibile di per sè: or il Un qui basta ad aver dello. Al
presente è da parlare di quell'aura specie di onesto che porta con sè ragioni
di utilità, ma che io appello onesto niente di meno. Sonci dunque
molte cose che ne invogliano a sè non solamente per riguardo alla nobiltà loro,
ma eziandio per l'approvcccio e vantaggio che no arrecano: di questa ragione
sono la gloria, la dignità, la grandezza, l'amicizia. Gloria è la fama
celebre che gode alcuno, accompagnala di lode; dignità è una
maggiorla onesta ed autorevole, degna di onoranza, di stima e di
riverenza; grandezza è un essere di grandissima lunga poderoso di
possanza, o di macslevoli esteriorità, o di qualche specie di ricchezze;
amicizia £ voler bene c vantaggio ad altrui per riguardo della stessa
persona clic si ama, e trovare in esso un'eguale disposizione di
volontà. Siccome perù io parlo qui delle causo civili, attribuisco
all'amicizia anche una ragione di utilità, perchè ancora per tal verso
essa comparisca appetibile; c fo questa avvertenza, per causa clic alcuno
noti mi volesse per avventura riprendere, credendo che io qui metta a
fascio ogni sorta di amicizia. Mondimene v’ita dii opina quia parUm
telerei sunt, parlim novae, panini ab illoruni, parlim ab noslro
beneficio profcclac, parlim uliliores, parlim minus uliles, ex causarum
dignilatibus, ex temporum opporlunUalibus, ci ofliciis, ex rcligionibus, ex
veluslalibus habebiiur. Uliiilas aulem aut in corporc posila est,
aul in cxirariis rebus ; quBrum (amen rerum multo maxima pars ad
corporis commodum revertilur, ut in re publica quacdani sunt, quae, ut
sic dicam, ad corpus perlincnt civitalis, ut agri, portus, pecunia,
classi», naulac, mìliles, sodi, quibus rebus 'ncolumilatem ac liberlatem
re linoni civilates: aiiae vero, quae iam quiddam magis amplum et minn
s necessarium conflciunl, ut urbis egregia exornatio alque
ampldudo, ut quaedam cxcelicns pccuniae magnitudo, amicitiarum ac
sociclalum mulliludo. Quibus rebus non illud solum conOcilur, ut
salvac et incolumes, terum rliam ul amplae alque polentes sint ciiitales.
Oliar e utililalis duae partes videnlur esse, ìncolumilas el polenba,
incolumiias est salulis tuia alque integra conscrtalio; polenlia
est ad sua conservanda cl allerius oblinenda idonearum rerum facullas. Alque in
iis omnibus, quae ante dieta sunt, quid fieri, cl quid Tacile (ieri
possii, oporlet considerare. Facile id dicimus, quod sinc magno aul sino
ulto labore, sumptu, molestia qtiain brevissimo tempore conlici potcsl ;
posse autem (Ieri, quod quamquam iaboris, sumplus, molestine,
longinquitalis indigel, alque aul omnes aut plurimas, aul maximas causas
liabet dilficultalis, lamen, bis suscepfis diilicullalibus, compleri
atque ad exilum perdimi potesl. Quoniam ergo de honestale el de ulililale
dixiinus, none restai, ut de iis rebus, quas bis allributas esse
dicebamus, nccessitudine cl adTeclione pcrscribamus. Pulo igitur
esse liane, necessiludinem, cui esser l'amicixia appetibile solo per
l'utilità cb'essa produce, e chi dice esser appetibile solamente di
per sè, c chi esserlo e per sè e per l'utile che da essa deriva. Quale
però sia f appunto e il Termo da stabilire intorno a questa maleria,
verrò esponendo in altro luogo. Intanto per l'uso oratoriosi ritenga
questo, esser appelibile l' amicizia c per sè c per l'utile cb'essa
apporta. Essendo poi che delle amicizie alice si sono unite coll’ essersi
intermessa la religione, altre sema intervento di lei, e parte sono
antiche, parte recenti, e quali son nate da un beneficio Tattoci, parte
da un beneficio che Tacemmo noi slessi, ed altre sono piò utili, ed
altre meno; cosi nel trattarne si dovrà avere considerazione alla
nobilezza delle cause, alle opportunità dei tempi, alle relazioni di esse
amicizie, agli alti religiosi che le hanno ratificale, c alla lontananza
della loro origine. L'ulitilà ridonda nel corpo, o nelle cose elio
gli son fuori; ma anche queste per la massima parie si convertono a vantaggio
del corpo stesso. Se nc vegga I* esempio nella repubblica. Cl son cose,
clic, per cosi dire, appartengono al corpo della popolazione, come le campagne,
i porli, il danaro, la (lolla, i naviganti, i militi, gli alleati, ron le
quali cose c persone conservano le popolazioni la propria salvezza o libertà:
altre ce ne sono, che conferiscono a un vantaggio più appariscente. ma
meno necessario, come a dire un cospicuo ornato cd ampiezza della cillà, uno
straordinario stollo di pecunia, una moltitudine di amicizie c di
società. Da queste cose deriva che le. popolazioni non pure si
manlengonsalro ed incolumi, ina eziandio vanno distinte per potenza e
dignità. Ondecbì io To ragione esser due le parti dell' utile, ve' dire
potenza c incolumità. Questa suona tanto come conservar sicura e intatta
la propria salvezza; quella esprime il possesso dei mezzi
appropriati per mantener il proprio, e venir all' acquisto dell’ altrui.
In tulio questo elio ho dello fin qua si vuole dislinguerc ciò che Tar
si possa da ciò che sia Tacile a Tare. Diciamo Tacile a Tarsi ogni
cosa clic si può Tornire con brevità, senza grande, o senza alcuna
Talica, spesa, Tastidio: diciamo che una cosa si può Tare, quando essa,
avvegnaché domandi Talica, spesa, raslidio, lunghezza di tempo, ed
involga o tulle, o la piò parte, o le piò gravi cause di difficoltà, non
però niente di meno anche affrontando queste dillkollà medesime,
può esser Tornila c condona al suo pieno cffcllo. Ora dunque che s' è
trattato dell'onesto c dell'utile, resta da trattare delle due cose che,
come ho dello, si rapportano a loro, ciò sono, la necessità e la
circostanza. Credo esser necessità quella senz'altro. unno
ii. li» nulla vi resisti polost, quo ca sccius id, quod lacere
polcst, perflcial, quac ncque mulari, ncque leniri polca!. Atque, ul
apertili? hoc sii, cicniplo licci vim rei, qunlis et quanta sit,
cognoscamus. Cri posse (lamma ligneam motcriam noccsse est. Corpus
mortale aliquo tempore inlcrire ncccsse est; atque ita nccessc, ul vis
postulai ea, quam modo dcscribcbamus, ncccssiludinis. Iluiusmodi
neccssitudines quum in diccndi raliones inciderli, rcclc neccssitudines
appcllabunlur. Sin aliquae res accidcnl difflciles, in illa supcriore,
possilne fieri, quaestlone considerabimus. Atque oliam hoc milii
vidcor viderc, esse quasdam cum adiunctione nccessitudiucs, quasdam simpliccs
et absolutas. .Nani alitcr dicere solemus: Ncccsse est Casilincnscs
se dedere llannibali ,*alilcr autcìn : Nccessc est Casilinum venire in
llannibalis polcslalcm. Illic, in supcriore , adiunclio est liacc: Nisi
si malunl fame perire ; si cnim id malunl non est nccessc. Hoc inlcrius
non ilem , proplcrca quod , sivc velini Casilincnscs se dedere, sive
famein perpcli atque ita perire, neccssc est Casilinum venire in
llannibalis potcstatem. Quid igitur bare per licere potest ncccssiludinis
dislribuiio ? Propc dicatn , plurimum , quum Incus necessiludinis videbilur
incurrere. Nam quum simplex crii neccssiludo, niliil crii quod inulta
dicamus, quum eam nulla rationc lenire possiraus ; quum aulem ila
ncccsse crii, si aiiquid cffugcrc aul adipisci vclimus, tum adiunclio illa quid
liabcat utililalis au| quid honcstalis, crii considcrandum. Nam si
vclis attendere, ita tamen, ul ìd quacras, quod come, nial ad usum
civilalis, reperias nullam esse rem, quam lacere ncccsse sii, nisi
propler aliquam causaci, quam adiunctioncm unminamus; praeler linee
auledi esse mullas res ncccssilaiis, ad quas simili* adiunclio non
accudii; quod geuus, ut homines morlales necessc est inlcrire, sine
adiunctione: ul cibo ulantur, non necessc est, nisi cum illa eiceplionc:
Evira quam, si nolinl fame perire. Ergo, ut dico, illud, quod adiungilur,
sempcr, cuiusmodi sii, erit considerandum. Nam omni tempore id
pcrlinebil, ul aul ad boncslalcm hoc modo exponcnda neccssiludo sii : Necesse
est, si boncslc volumus vivere; aul ad incolumilalcm, hoc modo : Nccessc
est, si incolumcs volumus esse; aul ad commodiialcnt, hoc modo : Ncccsse
csl , si sine incommodo volumus vivere. alla quale per veruna forza
non si può impedire clic faccia nò più nè meno ciò eli' essa può
fare, poiché non si può nè miliare, nè restringere. Ma perchè
questa definizione torni più chiara, sarà bene conoscere per qualche
esempio quale e quanta sia la forza della necessità. Che le legna
sicno bruciale dal fuoco, è questo un necessario. Clic un corpo mortale
in uno o in altro tempo venga a perire, anche questo è un necessario; c
necessario così come è richiesto dalla forza della slessa necessità clic
leslè ho descritta. SI falli necessarli quando imballeranno fra gli argomenti
che si trattano, si appelleranno a buon diritto necessità. Che se involgessero
fatti o circostanze ma' (agevoli, si esamineranno a termine della
questione tocca qui sopra, clic è, quando uno cosa si può fare, o può
avvenire. Oltracciò osservo pur questo, esservi alcune necessità clic s'
accompagnano di una qualche condizione, alcune altre esser affatto
semplici cd assolute. E infatti nell’uso del parlare noi diciamo in un modo: È
necessario che quelli di Casilino si dicno in mano ad Annibale; c in un
altro: E necessario clic Casilino venga ad Annibale in podestà. Al modo
primo va accompagnala questa condizione: Se non vogliono pericolar di
morire di fame; perocché se amano meglio codesto, la resa non è lor
necessaria. Ma non è altrettanto del secondo modo, perocché, o sia che quelli
di Casiliuo vogliano venire alla mercè c alla misericordia di Annibaie, o
sia che amino piuttosto patirsi la rame c così disertarsi c perire, è
necessario ad ogni modo che venga Casilino in potere di Annibali'. Ora, c
clic dunque se ne ricava, si dirà, da questa distinzione del necessario ?
Se ne ricava, sto per dire, di molto, ognora clic intervenga qualche
luogo spellante alla necessità: conciossiacliè quando essa necessità
fosse non più che semplice, non c’è bisogno di andare in lungherie di parole,
essendo che essa non si può già per veruna guisa mutare; e quando
per conlra la necessità avesse questa condizione, ciò è necessario, se
vogliamo scansare ovvero ottener qualche cosa, allora bassi a porre ben mente
che cosa arrechi essa di utile, oppure di onesto. E infatti se tu vorrai
considerare di ciò, tuttavia solo nel caso che tu abbia qucsliorc
su quello che risguarda gli usi civili, riconoscerai non v' esser azione
clic s'abbia necessariamente a lare, se non per qualche motivo, che io
appello condizione; e inoltre esservi molle specie di necessità, alle
quali simile condizione non va punto accompagnala; per esempio: gli
uomini mortali debbono di necessità venir a mancare, questo è un
necessario senza condizione: ma il dire, i forza che piglino Ucl cibo, questo
non è un neccs Ac summa quidcm ncccssiludo videlur esse honeslatis:
liuic proxima, incolumilatis: ter lia ac Icvissima, commodilatis;quac cum
liis numi|tiam poteril duabus contendere. Ilasccaulem itile r se saepe Decesse
est comparari, ut quamquam prarstet boneslas incolumitali, (amen utri
polissiinum consulendum sii, delibcrelur. Cuius rei certuni quoddam
praescriplum videlur in pcrpeluum ilari posse. Nani, qua in re iteri
poteril, ut, quum incolumitali consu!ucrimns,qund sii in pracsenlin
tic honeslatc delibatimi, virtute aliquando et industria recuperetur,
incolumilatis ratio vidcbilurbabenda; quum autem id non poluerit,
honcslalis. Ila in huiusmodi quoque re, quum incolumitali lidebimur
consulerc, vere poterimus diccre nos lionestalis rationem liabcre,
quoniam sino incolumilatc cam nullo tempore possumus ndipisci. Qua in re
tei concedere alteri, voi ad conditioncm allerius descendere, vel in
pracscnlia quiescere atquc alimi Icmpus cxspeclarc uportcbil. In
commodilalis vero ratinile modo illud altcmlatur, dignane causa videalur ea,
quac ad ulilitalem pertincbil, quarc de niagiiiliccnlia aul de bonestate
quidam dcrogetur. Alque ili hoc loco milii caput illud videlur esse, ut
quaeramus, quid sii illud, quod si adipisci aut ctTugerc velimus, aliqua
res nubis sit necessaria. Ime est, quac sii adiunclio, ut proinde,
uti quaeque res eril, laboremus, et gravissimom quamquecaiisam
vebemcnlissimenecessai iati! iudicemus. A il feci io est quaedam ex
tempore aul ex negotiorum eventu , aut adminislratione.aul homiimni
studiocommulalio rcrum, ut non lales, quales ante babilac siili, sul
plcruinque liabcri solenni habondac videantur esse ; ut, ad hostcs
transire turpe videlur esse; ut non ilio animo, quo Ulyxes transiit ; et
pccuniam in mare deiicere inutile; al non eo consilio,
quoArislipptts fecit. Sunt igilur r s quaedam ex tempore et ex
consilio, non ex sua natura considerandac; quibus in omnibus, quid
tempora pctanl,aut quid personis dignum sit, considcrandumesl, et
nonquid, sed quo quidquc animo, quicum, quo tempore, quamdiu fìat,
altcndenduin est. Ilis ex parlibus ad senlcttliam dicemtam loeos stimi oporlere
arbitramur. sario, se non con la condizione : eccetto se non
vogliono perir di Tante. Laonde, come dico, è sempre da esaminare quale della
condizione sia il modo c la qualità; poiché in ogni tempo è da badar bene
clic la necessità, se si riferisce all'onesto, si esponga in questo modo:
è necessario, se togliamo vivere onestamente; o se si riTeriscc alla incolumità,
si esponga in questo: È necessario, se vogliamo mantenerci inrolumi; o se ai
nostri agi, si esponga cosi; È necessario, se vogliamo vivere bene
agiati. La necessitò di tulle maggiore è di Tare oncslamcnlc: a questa
s’avvicina quella della nostra incolumità; la terza, da meno di tulle,
è quella di essere agiati, la quale non potrà mai competere con le
altre due. Queste necessità ì mestieri di paragonarle spesso Tra loro, ai
line che possa esser risolto c stabilito, sebbene l’onesto si vantaggia
molto sopra la incolumità, a quale de’ due debbasi piuttosto provvedere.
Intorno a ciò si può Dssare un precetto, che volga per sempre. Quando noi
battiamo sopra Talli d’incolumità, c vediamo die nel provvedere ad essa ne
va per al presente diminuito e leso l'onesto in qualche parte, che
nondimeno si può quando clic sia risarcire e rimettere con l’ industria e
la virtù, dovrassi alla ricisa aver riguardo alla incolumità: ma
quando si prevedesse elle lo scapilo dell’onesto non si poiria più rifare, deesl
provvedere al1’ onesto anzi che alla incolumità. Cosi anche in questo
caso mostrando di provvedere alla incolumità, potremo dir daddovero che noi
abbiamo ri- guardo all' onesto, poiché senza la incolumità in verun
tempo non è possibile asseguire l'onesto c mantenerne il possesso. Or su
questo punto si do- vrà o cedere altrui, o venire nel partilo di un
al- tro, o non far altro per ora, e stare in aspetto di tempo più
opportuno. Quanto poi spelta agli agi, decsi considerare di questo, se la
causa che si riTeriscc all'utile debba richiedere elicsi detragga
alcun clic dalla magnificenza o dall' onestà. E ri- spetto a questo io
trovo esser un punto capitate lo investigare di qual sorta sia la rosa, a
cui otte- nere o scansare ben un’altra cosa ci è necessaria, voglio
dire, quale ne sia la condizione, acciocché ci possiamo arrahatlare ed
aiutare secondocliè lo esige la qualità della cosa, c conoscere che
la causa, Tosse pur la più Torte e malagevole, è nondimeno per ogni verso
una causa necessaria. Cir- costanza è una rotai mutazione delle cose,
clic dipende dal tempo, o dalla riuscita degli affari, o dal
maneggio loro, o dalle propensioni degli uo- mini, c fa elio non si
debbau le cose per tali ave- re, quali si son credute per lo avanti, o
quali tut- te le più volte si credono. Per esempio: il
passare Laudes autem cl vilupcraliones ei iis locis aumentar, qui loci
pcrsonis sunt attribuii, ile quibus ante diclum esl. Sin dislributius
baciare ijuis videi, partialur in aiiimum.cl corpus, et extra- rias
res licebil. Animi esl virtus, cuius de parli- bus paullo ante dicium
esl; corporis, valeludo, di- gnitas, tire*, velocitasi estrariae, lionos,
pecunia, adfinilas,genus, amici, pairio, potenlia cl celerà, quae
simili esse in genere inteliigciitur. Alque in bis id, quod il) omnia
valet, valere oportebit: contraria quoque, quac et quaba einl,
inlelligcnlur. Videro autem in laudando et in vituperando opor-
lebil non tam quae in corpore aul in estrania re- bus liabuerit is, de
quo agetur, qunm quo paclo bis rebus usus sii. Anni fortunali! quidem et
lau- dare slultilia, et vituperare superbia est; animi autem et
laus honesta, cl viluperatio veliemens esl. Rune quoniain oninc in causac
gcnus argu- incnlandi ratio tradita est, de invcnliono. prima ac
inavima parte rlieloricac, salis diclum vidclur. Quare, quoniam et una
pars ad ctituin boc ac su- periore libro perducla esl, et Ilio libcr non
parum coiitiiiet litlerarum, quae restaul, in rcliquis di-
ccmus. ai nemici £ cosa turpe ; ma non £ tale, se si faccia con la
intenzione, con clic lilissc: gettar il da- naro in mare £ cosa
dannevolc; ma non lo £, se si faccia con l'intendimento, conche
Arislippo. Ci son dunque delle cose, clic si vogliono riguardare non in
sè c nella natura loro, ma relativamente al tempo e al disegno di cbi le
fa; c in tube que- ste decsi aver l'occhio a discernerc quale sia I'
c- sigenza dei tempi, c ciò clic sia competente e degno delle persone, ed
osservare non ciò che venga fatto, ma con clic animo altri il faccia, con
quali compagni, iti qual (empii, e quanto a lungo vi duri, ba parti
si fatte io trovo clic si debbano ritrarre i luoghi acconci a provocare
la sentenza dovuta. La lode c il biasimo si trarranno da quel- le fonti
di argomenti, elle si sono indicate quando si £ discorso sopra ciò clic
si riferisce alle perso- ne. Se alcuno volesse attenersi a una
divisione bene accurata, la farà riguardo all'animo, al corpo, c alle
cose esteriori, bell’ animo £ propria la virtù, delle cui parli s’£ trattato
poco più addietro; del corpo £ propria la buona o mala salute, la
di- gnità, le forze, Tesser veloce. Per cose esteriori si intendono
l'onore, il danaro, i parerli aggi, la stirpe, gli amici, la patria, la
possanza, c quanto vi ha di genere altrettale. E per queste cose
avran- no valore gli argomenti clic hanno valore per tut- te le
altre; e cosi ancora si potrà conoscere quali si slcno le toro contrarie.
Bensì rispetto ai far uso della lode c del biasimo si dovrà
osservare non tanto quali vantaggi o scapili avesse quel ta- le, di
quelli clic si riferiscono al corpo e alle cose esteriori, quanto in qual
foggia e maniera siasi comportalo rispetto ad essi: puicliè lodare la
fortuna £ ima stoltezza, e svitupcrarla £ un’arrogan- za; mentre la lode
clic si dà all'animo £ cosa clic lo onora, come il biasimo che se gli dà
è cosa clic lo punge c trafigge. Esposte cosi le fonti c le for- me
di argomentare per ogni genere di causa. Irò- vo d’aver detto quanto
basta circa la invenzione, clic £ la prima c la più principale tra le
parli del la retorica. Epperó, giacché una metà del mio te- ma tra
in questo c nel precedente libro fu condot- ta ad uscita, c questo
secondo m' £ venuto lungo non poco, dirò negli altri libri le cose die
Bucina mi restano. GRICE E CICERONE Notes on Buckner –
alla Grice J. L. Speranza, for The Grice Club
In Existence and illusion: a semantic account of perception (Bloomsbury,
London), D. E. Buckner, of Bristol, etc. expands on some fascinating
stuff. Bristol brings echoes of Grice. His — Grice’s — father not doing
well in business – as Buckner well knows – it was Mabel Mary Felton Grice,
Grice’s mother, who felt like opening a miniature school on the main street of
their home in ‘affluential’ Harborne – then Warwickshire, originally
Staffordshire – and kept Grice as a pupil until he was sent to … Clifton – a
stone’s throwaway from Bristol. Anyway, perception perceptively
fascinated Grice. But what fascinates ME about Buckner’s ‘semantic account of
perception’ is the Aristotelian-cum-scholastic twist to it — coupled with the
big features of both EXISTENTIA, as Cicero would have it, and illusion!
Grice only managed to get to Oxford through a classics scholarship. He still
had no idea about what philosophy was. Oxford did not offer a degree in
philosophy, not that Grice would have cared about that. But he later recalled
having been pretty fortunate in getting Hardie as his adjudicated tutor
(Grandy/Warner – the title of Grice’s memoir was meant to be titled, “Prejudices
and predilections; which become, The life and opinions of H. P. Grice”, by H.
P. Grice, of course! Philosophy was then offered only upon completion of
five terms into your programme — B. A. Lit. Hum. — and it was. For only ONE
term, Grice was adjudicated a different tutor, who complained to Hardie about
Grice’s obstinacy to the point of perversity. During the pre-war years – where
Grice passed from pupil (still a member of the university, you know) of Corpus,
to scholar at Merton, to fellow at St. John’s – his philosophizing did include
a bit of ‘perceptual stuff.’ All the material is now deposited in The H. P.
Grice Papers. One is a typescript on ‘Negation’ where he considers two example
sentences: “This is not red” and “Someone is not hearing a noise”. The second
is influenced by his having read Ian Gallie, “Is the self a substance?” where
Gallie refers to the philosophical ‘introspective’ use of ‘I’ in sentences like
‘I am hearing a noise’ — but I may be aurally hallucinating, you know! It
was after the War that Ordinary-Language Philosophy was taking its course. And
when it comes to perception, it was all about Grice’s getting on well with G.
J. Warnock, quite his junior. The Oxford syllabus would offer joint seminars by
these two on Perception. What is an Oxford seminar? It needs a title: H. P.
Grice and G. J. Warnock, “The Philosophy of Perception.” It needs to be
structured in lectures – or ‘classes’. Grice had been appointed a University
Lecturer – sponsored by St. John’s – which meant his ‘lectures’ — usually joint
ones — were open to any member of the university. Warnock had been active
in his interactions with Austin and would eventually publish Austin’s lectures
on ‘Sense and Sensibilia.’ But what matters at this point is that Austin
himself being so engrossed with perception for his own weekly classes, he would
NOT care discuss the topic in those circumstances which he chose to
‘socialize.’ These ‘circumstances’ were what Grice calls the Play Group. As a
matter of fact, Hampshire has made it clear the thing. There were in history
TWO Play Groups – the terms are Hampshire’s --. The ‘old’ Play Group, and the
‘new’ Play Group. “Grice never attended the old Play Group.’ Grice gives the
reason: he had been born on the wrong side of the tracks, and therefore did not
interact with the Thursday evenings at All Souls that had Ayer, Austin, Berlin,
Hampshire, Woozley, and a few others, and which Berlin claims, pompously, that
it was the true origin of ordinary-language philosophy! At the
‘new’ Play Group (Hampshire’s words), Grice would socialize with both Austin
and Warnock. The credentials were simple: you had to be a ‘whole-time,’ as
Warnock puts it, tutorial fellow in philosophy, younger than Austin, and get on
well with him. But perception was then not discussed – since Austin
had to deal with that WEEKLY for ‘any member of the university’ that would care
to attend. Part of Warnock’s interest — a very IRISH Warnock’s
interest — in publishing the notes posthumously was that Austin spent some time
with Warnock’s book on Bisop Berkeley on esse = percipi. Austin had quite an
attitude towards books – or published stuff in general --. And it is not
sensible to expect that Austin cared to know of Warnock’s OTHER views other
than those ‘in Warnock’s book’ on Berkeley! At any rate, ‘philosophy of
perception’ was something that no Oxonian pupil in philosophy could dodge. So
Grice and Warnock offered their views. The material remains unpublished. There
is a reference to ‘H. P. Grice’ in a paper on ‘Seeing’ by Warnock in The
Aristotelian Society, though. When Warnock became the editor of the
influential Readers in Philosophy published by the Oxford University Press, he
managed to get a volume on The Philosophy of Perception. And knowing Grice well,
and to avoid any stress on him, rather than saying, ‘Hey – if you excuse me the
Americanism – why don’t you give me some of your stuff on ‘seeing’ we’ve been
working on?’, Warnock opted for a safer route. And keeping in mind this
attitude Warnock seemed to share with Austin about published stuff, what
Warnock did was to INCLUDE Grice’s old presentation for the Aristotelian
Society – a symposium with White held at Cambridge, and chaired by Braithwaite
– on ‘The Causal Theory of Perception.’ Warnock adds the introductory
editorial: ‘an ingenious and resourceful contribution.’ I doubt Grice
would have cared about the philosophy of perception HAD IT NOT BEEN for this
friendly interaction with Warnock. “How clever language is!” Warnock quotes —
in his ‘Saturday mornings’ — Grice as exclaiming, after they had been through
what they called ‘the syntax of illusion’ – the topic of Buckner’s essay. ‘For
it [language] made’ for them ‘distinctions but also assimilations’ just for
them. The topic involves ‘seeing’ since it was their source of wonder what
‘visum’ is hardly used in English in sentences like ‘I see the visum of a
cow’. Grice would later philosophise on TACT and VISION. Tact, like
Aristotle would agree, is BASIC. You hardly doubt what you touch. VISION comes second.
VISION carries a METIER or function – for survival. So we perceive ‘objects’ –
Grice – not having read Kant in Kant’s vernacular – is pretty free about the
use of ‘object’ to mean ‘thing.’ Unlike Buckner, Grice never did
the Scholastics in Latin (de re, res, realia) and Aristotle’s idiom for ‘thing’
is too pragmatic to be taken seriously: pragma. So the idea is that if a
pirot – as Grice calls, after Carnap, any human being in some state of
evolution – or any other living creature in a previous state, if not one in a
post-ceding state (an angel, or God) – interacts with another pirot, he is
bound to say ‘That apple is red.’ Colour words are a trick. But the idea here
would be ‘That apple is EDIBLE,’ not rotten. Perception then is a guide for joint
survival. ‘Feel free to eat the apple.’ In the hey day of
ordinary-language philosophy, Grice and Warnock were not really ‘allowed’ to go
big – Grice just does by quoting Price on Perception – ‘The Causal Theory of
Perception’ is a chapter in Price’s book — the only reference Grice gives in
his own ‘The Causal Theory of Perception’ essay. What Grice and
Warnock, as fashions went, *were* ALLOWED to do is ‘linguistic botany’ and
going through the dictionary. It it at this point that Grice and Warnock
become obsessed with the EXPRESSION of reports of perception. Warnock has one
essay on ‘What is seen.’ Philosophers at this time gathered by
generation, so it is a bit of surprise to find a footnote in Grice’s OTHER
essay on perception, “Some remarks about the senses,” crediting O. P. Wood for
a point, or two. Wood was associated with Ryle’s group, not Austin’s. But Wood
states that he always enjoyed interacting with Grice! The point may refer to
The Molyneaux Problem! When it comes to the ‘vocabulary’ of the
philosophy of perception then, Grice hardly goes to Aristotle. There is really
no need, since English seemed rich enough for him. Just considering
‘see,’ Grice was not just happy with his idea of the conversational implicature
attached to it – besides the Mooreian entailment associated with its
factiveness — but he even coined the idea of a conversational DIS-implicature
for cases of … illusion. Thus, he would say that – if we know we’ve
just been to a Shakespeare play, Grice can very well say to Warnock that Hamlet
saw that his [Hamlet’s, not Grice’s or Warnock’s] father was looking for
trouble – ‘even if Hamlet’s father was nowhere to be seen’. Mutatis mutandis
for Macbeth and Banquo – the example in Studies in the Way of Words. Buckner
is into well other issues, but I thought I’d ring the Griceian bell!
References Austin, J. L. (1960). Philosophical papers, ed. by J. O.
Urmson and G. J. Warnock. Oxford University Press. Austin, J. L. (1962).
Sense and sensibilia, reconstructed from the manuscript notes by G. J. Warnock.
Oxford: Oxford University Press. Berlin, I. Essays on Austin. Oxford:
Blackwell. Cox, J. R. Seeing, in Sibley. Grice, H. P. (1938).
Negation and privation. The H. P. Grice Papers. Grice, H. P. (1941).
Personal identity, Mind. Repr. in J. R. Perry, Personal identity, University of
California Press, Berekely. Grice, H. P. (1950). Vision. The H. P. Grice
Papers. Grice, H. P. (1961). The Causal Theory of Perception – symposium
with A. R. White. The Aristotelian Society, chaired by R. B. Braithwaite. The
Proceedings of the Aristotelian Society. Grice, H. P. (1962). Some
remarks about the senses, in R. J. Butler, Analytic Philosophy, repr. in Grice,
WoW Grice, H. P. (1987). A retrospective on Grice-Warnock on perception,
The H. P. Grice Papers. Grice, H. P. (1989). Studies in the way of words.
Cambridge, Mass. and London: Harvard University Press. Grice, H. P. and
G. J. Warnock (1950). Seminar on the philosophy of perception, University of
Oxford. Hampshire, S. N. (1946). The New Play Group and the Old. The S.
N. Hampshire Papers. Orton, Joe (1973). What the butler saw. Price,
H. H. Perception. Oxford. Sibley, Perception. Warnock, G. J.
(1955). Seeing. The Aristotelian Society. Warnock, G. J. (1969). The
philosophy of perception. Oxford Readings in Philosophy. Warnock, G. J.
(1983). Language and Morality. Oxford: Blackwell.Marco Tullio Cicerone. Cicerone.
Keywords: Marc’Antonio, untranslatable, signans/signatum, signans, signatum. Cicerone,
Cicero = Tully. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cicerone” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza -- Grice e Ciliberto:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del principe -- il
suo principato– scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese. filosofia
italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo
campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I like Cilberto; he
philosophised on Machiavelli – in an interesting way: confronting his ‘reason’
with the ‘irrational’; myself, I have not explored the irrational, too much –
but I suppose Strawson might implicate that everything I say ON reason is an
implicature on the irrational – Ciliberto uses the vernacular for the
‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi esperti del pensiero di BRUNO
(si veda). Si laurea a Firenze sotto GARIN (si veda) con “MACHIAVELLO (si
veda)”. “Lessico Intellettuale Europeo”. Insegna a Trieste, Pisa. Istituto di
Studi sul Rinascimento, Firenze. Presidente di I. R. I. S. A. Associazione di
Biblioteche Storico-Artistiche e Umanistiche di Firenze. Lince. Al centro della
sua filosofia sono tre problemi: il rinascimento con speciale attenzione a Bruno
e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica, no-continntale, ma la ‘tradizione
italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile, Cantimori, Garin); e la filosofia politica
e in maniera specifica la crisi della democrazia rappresentativa. Altre
opere: “Il rinascimento. Storia di un dibattito” (Firenze, La Nuova Italia); “Intellettuali
e fascismo” (Bari, De Donato); “Lessico di Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo
et Bizzarri); “Come lavora Gramsci. Varianti vichiane, Livorno); “Filosofia e
politica nel Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato); “La
ruota del tempo. Interpretazione di Bruno, Roma, Editori Riuniti); Bruno,
Roma-Bari, Laterza); Bruno, Roma-Bari, Laterza); “Umbra profunda” (Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura); “Implicatura in chiaroscuro” Roma, Edizioni
di Storia e Letteratura); “Il dialogo recitato” “Preliminari a una nuova
edizione del Bruno volgare, Firenze, Olschki); “La morte di Atteone”(Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura); “I contrari”; “Disincanto e utopia nel
Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); Il teatro della vita
(Milano, Mondadori); Il laico Il libero dell'Italia moderna, Roma-Bari, Laterza);
Democrazia dispotica – etimologia di dispotismo – (Roma-Bari, Laterza); Intellettuale
nel Novecento, Roma-Bari, Laterza), Parola, immagine, concetto (Edizioni della
Normale, Pisa); Croce e Gentile La cultura italiana e l'Europa, (direzione)
Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani,. Rinascimento, Pisa, Edizioni della
Normale; Il nuovo Umanesimo, neo-classicismo, neo-umanesimo, classicism,
neo-classicismo come ironia (Roma-Bari, Laterza); Pazzia e ragione (Roma-Bari,
Laterza); Il sapiente furore (Collana gli Adelphi, Milano, Adelphi) C., Lessico
di BRUNO (si veda). Preludio a MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda)
Mre a dh e im h ol Un TT ‘i 0 annunciato da Imola dalle legioni chiavelli ‘Tri T n
J | d0n ° d ‘- Una Spada COn inciso U motto di Ma ’ 1 Cum parole non si
mantengono li Stati. Ciò troncò gli ndugi e determino senz altro la
scelta del tema che oggi sottopongo ? 0tre !, chi 7 an ?f l0 Commento
dell’anno 1924 Il Principe di MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda), al libro
che io vorrei cHamare Vade ZldlZtfìl U °™° dt g0 u m0 * Debbo
inoltre ' P er debito di °nestà Slfia ’ a . 8glU f? e ? e cbe ? uesto mio
Wo ha una scarsa biblio- ftreTdJI VCdra 3 r 8UÌt0 f H ° rilett °
attentame nte il Principe loe7olnf Z P ? e dd 8rande S, e8r f tari
°’ ma mi è mancat0 tem - po e voionta per leggere tutto ciò che si
è scritto in Italia e nel Ma chiavelli.Ho voluto mettere il minor numero
possi- velh ^ mt0rmedlari vecchl e nn °vi, italiani e stranieri, tra il
Machia- dottrin, e’l^ non.8 uastare la di contatto diretta fra la sua dottrina
e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di n0mmi, e
f° Se ’ 3 SU f C k mia pratica di governo. Quella che mi )t0,\ le Z 8e ™
no « f quindi una fredda dissertazione scolastica irta di citaziom
altrui, è piuttosto un dramma, se può considerarsi come io credo, m un
certo senso drammatico il tentativo di gettare NorL d te^fo: abisso
deUe genera2ioni ° ^ cveuti La domanda si pone: a quattro secoli di
distanza che cosa c’è an- cora di vivo nel Prmcipe? I consigli di MACHIAVELLI
potrebbero ave- * Da Gerarchia,
I,i. •>\fruzione del regime i.
iniit t|ualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? II
tl.iic del sistema politico del Principe è circoscritto all’epoca in
> 111 1 11 scritto il saggio, quindi necessariamente limitato e in
parte > I.luco, o non è invece universale e attuale?
Specialmente attuale? I i inin tesi risponde a queste domande. Io affermo
che la dottrina • li MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda) è viva oggi piu di
quattro secoli fa, poiché se gli nnpctti esteriori della nostra vita sono
grandemente cangiati, non si h i(io vcrificate profonde varia^ioni nello
spirito degli individui e dei itopoli. ln politica è l’arte di
governare gli uomini, cioè di orientare, uti- li znre, educare le loro
passioni, i loro egoismi, i loro interessi in < nin di scopi d’ordine
generale che trascendono quasi sempre la i'iin individuale perché si
proiettano nel futuro, se questa è la poli- lioi, non v’è dubbio che
l’elemento fondamentale di essa arte, è l’iiomo. Di qui bisogna partire.
Che cosa sono gli uomini nel siste- inn politico di Machiavelli? Che cosa
pensa Machiavelli degli uominl? E egli ottimista o pessimista? E dicendo uomini
dobbiamo Inlcrpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè
degli Ilnliani che Machiavelli conosceva e pesava come suoi
contempora- nci o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello
spazio o pcr dirla in gergo acquisito sotto la specie della eternità? Mi
pare ilic prima di procedere a un piu analitico esame del sistema di
po- lllica machiavellica, così come ci appare condensato nel
Principe, oecorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli
degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare. Orbene,
t|iicl che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del
Vrincipe, è l’acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della nntura
umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di continuo e vasto
commercio coi propri simili, Machiavelli è uno Kpregiatore degli uomini e
ama presentarceli, come verrò fra poco documentando, nei loro aspetti piu
negativi e mortificanti. (,li uomini, secondo Machiavelli, sono
tristi, piu affezionati alle cose chc al loro stesso sangue, pronti a
cambiare sentimenti e passioni. Nel Principe, Machiavelli così si
esprime: perrché delli uomini si può dire questo generalmente: che siano
ingrati, volubili.imulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno e
mentre fai loro bene, ->uno tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba,
la vita, i figlioli, come di sopra dissi,.piando el bisogno è discosto, ma
quando ti si appressa, e’ si rivoltano... E quel l>rincipe che si è
tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre prepa- rn/ioni,
rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia
mnnre, che uno che si faccia temere, perché l’Amore è tenuto da uno vincolo
di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di
propria utilità (• rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che
non abbandona mai. Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le
Carte varie quanto segue. Gli uomini si dolgono piu di un podere che sia
loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro morto, perché la
morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione ò pronta;
perche ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non può
risuscitare, ma e’ può bene riavere il suo podere. E al capitolo terzo
dei Discorsi. Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e
come ne è prenia di esempii ogni storia, è necessario a chi dispone una
Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini essere
cattivi e che li abbiano sempre a usare la malignità dell’animo loro,
qualunque volta ne abbino libera occasione. Gli uomini non operano mai nulla
bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere
licenzia si riempie subito ogni cosa di confusione e di
disordine. Le citazioni potrebbero continuare, ma non è necessario. I brani
riportati sono sufficienti per dimostrare cbe il giudizio negativo su-
gli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È
in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di
questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire
tutti i successivi sviluppi dei pensiero di Machiavelli. È anche evidente
che il Machiavelli, giudicando come giudicava gl’uomini, non si riferiva
soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini ma agl’uomini senza limitazione
di spazio e di tempi tempo ne e passato, ma se mi fosse lecito giudicare i
miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare
il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli
non si illude e non illude il Principe. L’antitesi fra Principe e POPOLO,
fra STATO e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu
chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce
logicamente da questa posizione iniziale. La parola principe deve intendersi
come STATO. Nel concetto di Machiavelli il principe è lo stato. Mentre gl’individui
tendono, sospinti dai loro egoismi, all’atonismo sociale, LO STATO
rappresenta una organizzazione e una limitazione. L’individuo tende a evadere
continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a
non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi [nelle parole di
Urmson – H. P. Grice] — che sacrificano il proprio io sull’altare dello STATO.
Tutti gl’altri sono in istato di rivolta potenziale contro LO STATO. Le
rivoluzioni hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di
ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come hii.i enianazione della libera volontà del POPOLO.
C’è una finzione.• tma illusione di piu. Prima di tutto IL POPOLO non è mai
definito. I una entità meramente astratta, come entità politica.
Non si sa iltivc cominci esattamente, né dove finisca. L’aggettivo di
sovrano applicato a popolo è una tragica burla. II POPOLO tutto al piu, DELEGA,
ma non può certo ESERCITARE SOVRANITÀ alcuna. I sistemi rapprenntativi appartengono
più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi
sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non
si domanda piu nulla al POPOLO, perché si sente che la risposta sarebbe
fatale; gli si strappnno le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi
normali — e gli si ordina senz’altro o di accettare una rivoluzione o una
pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. Al POPOLO non resta che
un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità
elargita graziosamente al POPOLO gli viene sottratta nei momenti in cui
potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o è
reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria ainministrazione. Vi
immaginate voi una guerra proclamata per referendum? II referendum va benissimo
quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la
fontana del villaggio. Ma quando gl’interessi supremi di un POPOLO sono in
giuoco, anche i governi ultra-democratici si guardano bene dal rimetterli al
giudizio del POPOLO stesso. V’è dunque immanente, anche nei regimi quali
ci sono stati confezionati dall’Enciclopedia — che pecca, attraverso
Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo — il dissidio fra
forza organizzata dello STATO e il frammentarismo dei singoli e dei
gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non
esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del mio oramai
famoso articolo Forza e consenso, Machiavelli scrive nel Principe. Di qui
nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché
la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro una cosa, ma è
difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato
in modo, che quando non credono piu si possa far credere loro per forza.
Moise, Ciro, Teseo, ROMOLO non avrebbero potuto fare osservare lungamente
le loro costituzioni, se fussino stati disarmati. IL SINGOLARE SAGGIO
SU MACHIAVELLI DI MUSSOLINI. PRELUDIO DI MUSSOLINI POI FORZA E CONSENSO +
NOTA DE SANCTIS POI UN ARTICOLO SU MACHIAVELLI DI FUSARO CON UN
ARTICOLO – Pellegrino. Mangieri ED INFINE ANCHE IL TESTO INTEGRALE DE IL
PRINCIPE PREMESSA: Nell'Europa dei secc. XVI e XVII è strettamente
connessa con alcuni nodi centrali della storia del pensiero politico. A parte
una serie di revisioni critiche dei giudizi tradizionali fatti da dotti
fiorentini nel periodo del granduca Leopoldo, un grosso contributo del
movimento riformatore e una rivalutazione del grande fiorentino, lo si deve a G.M.
Galanti, autore di un Elogio di MACHIAVELLI. Galanti fa propria
quell'interpretazione repubblicana di Machiavelli che già era stata consacrata
nell'articolo machiavelisme dell'Encyclopededie (scritto attribuito a Diderot)
e nel Contratto sociale di Rousseau (Fingendo di dare lezioni ai re, egli ne ha
date di importanti ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il libro dei
repubblicani). Nè fu da meno il Foscolo con i suoi famosi versi in Dei
sepolcri. Contro questa interpretazione Vincenzo Cuoco, con trasparente
riferimento alle condizioni dell'Italia napoleonica, mise in luce il realismo
politico di Machiavelli, che aveva indicato in una monarchia o Stato forte,
l'unica prospettiva di superamento delle lotte tra i partiti. Fuori
dall'Italia, Fichte e Hegel interpretavano le tesi machiavelliche come risposta
a una particolare situazione storica e, al tempo stesso, vedevano nell'autore
del Principe un precursore dello stato etico che doveva godere di lunga fortuna
nello storicismo tedesco. In Italia nell'età risorgimentale
l'interpretazione continuò a oscillare tra la condanna dell'immoralità di
Machiavelli e la sua esaltazione come profeta della riscossa nazionale.
Il superamento di tali posizioni si possono considerare le pagine appassionate
di Sanctis (saggio che fra breve riporteremo qui integralmente - e che come
diremo più avanti fu poi molto (pretestuosamente) utile a Mussolini -
leggendolo capiremo perchè). A De Sanctis, Machiavelli appariva non solo
come il profeta dell'idea di nazione ma come fondatore dei tempi moderni, come
interprete lucido e impietoso della crisi degli istituti e delle concezioni
medievali, e autore di una rivoluzione copernicana nelle considerazioni
dell'uomo, che ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi. Poi anche
per Benedetto Croce scrisse che l'autore del Principe è lo scopritore della
politica come attività autonoma dello spirito. Entrammo poi nel
Ventennio fascista e qui una facile strumentalizzazione di Machiavelli e del
suo mito fu fatta da Mussolini che prima un suo articolo lo scrive su
Gerarchia, poi cura a prefazione (che chiama PRELUDIO) di una edizione del
Principe, adornandola opportunisticamente con il saggio - citato sopra – di Sanctis).
In queste pagine su MACHIAVELLI, è piuttosto singolare che per fornire una
comprensione al machiavellismo, andiamo a scomodare MUSSOLINI. Ma singolare non
lo è affatto, perchè riusciremo a capire meglio l'opera di Machiavelli ma anche
lo stesso Mussolini e il suo Fascismo. In queste tre paginette del preludio,
c'è tutto il Mussolini, e c'è anche tutta l'essenza del suo fascismo. Ovvero
l'idea di una educazione del POPOLO a un nuovo fascismo !! (prima ve ne sono
molti di fasci, creati dai socialisti violenti, che incitano a ribellarsi con i
vari scioperi i lavoratori e i contadini). Il curioso, raro e singolare
libretto che possediamo lo riportiamo integralmente, perchè all'interno
Mussolini fa alcune singolari affermazioni (tutte fascistiche) sulla dubbia
validità del potere esercitato dalla sovranità POPOLARE, e sulla stessa utopica
democrazia POPOLARE. Per Mussolini il Principe del suo tempo è LO STATO.
E LO STATO è il Principe, cioè - nei tempi moderni - che dopo aver preso il
potere doveva essere Lui e solo Lui. (Siamo lontani da quando prima come
anarchico poi come socialista - lui esalta il proletariato come futura classe
dominante, e fa l'apologia della rivoluzione violenta indicata dalla dottrina
di Hegel che presenta nella sua teoria la morte dello Stato. E nell'organizzare
gli scioperi, lui è un vero e proprio fascista socialista violento, così
chiamano fin dai primi fasci i socialisti violenti. ( ampie note di quei tempi sono
QUI in Togliatti E nel farli gli scioperi Mussolini, prima della 1ma G.M. anche
lui era un violento socialista, e anda più volte anche in galera come
sovversivo. Poi improvvisamente lui diventa inter-ventista nei confronti dei
suoi ex socialisti che come ANTI-inter-ventisti si opponeno a quella guerra che
diceno voluta dalla più becera borghesia con nessun vataggio per IL POPOLO
ANALFABETO chiamato SOLO A DARE IL SUO SANGUE. Segue la famosa rottura di
Mussolini con i suoi ex socialisti, uscendo dal giornale Avanti che dirige – ed
è poi perfino cacciato dal partito socialista. Poi durante e dopo la
guerra - soprattutto per come finisce il conflitto per l'Italia - lui va a
fondare i suoi fasci, cercando di riunire tutti gli scontenti, gli ex soldati,
i lavoratori e anche una certa nuova borghesia, che ora guardano a lui che mira
a un socialismo sociale e non a quell' eterno conflitto sviluppatisi fra operai
e industriali -- soprattutto nelle sciagurate Settimane Rosse. Dove o per i
loro scioperi, o per le serrate degli industriali, a pagare sono gl’operai
sempre più a spasso, ovviamente senza stipendi e a fare la fame. La
sovranità, al popolo - afferma Mussolini - gli viene lasciata tutto al più solo
quando è innocua -- es. quando deve scegliere il luogo dove collocare la
fontana del villaggio. Mentre quando gl’interessi supremi sono in gioco, anche
i governi ultra-democratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del
popolo. La sovranità applicata al popolo é una loro tragica burla. Il popolo
tutto al più delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. Mussolini
inizia a guardare proprio alla forza, che prima è usata dagl’inconcludenti
socialisti, proseguita poi in peggio anche dai nuovi comunisti. Ci vediamo in
questo suo preludio su Machivelli un opportunistico utilizzo di Mussolini del principe;
e come detto sopra, appoggiandosi pure al saggio Sanctis. Abbiamo detto
utilizzo, perchè Machiavelli è stato l'uomo che ha intuito una nuova forma di
filosofia umana che supera la concezione dell'individuo per inserirlo nella
collettività, nello STATO, il quale così diventa uno Stato etico. È evidente
quindi che in tal modo lo Stato non può che far appello alla rinuncia del
singolo individuo al proprio utile per l'utile generale dello stato, concezione
questa che viene a giustificare tutti i mezzi utili allo Stato stesso -- es.
usare la forza -- dando origine a quel
mito del machiavellismo che è stato via via da alcuni esaltato, mentre da altri
ritenuto infamante appunto per questo suo voler annullare la personalità del
singolo uomo. Insomma Mussolini fa del Principe il suo vademecum. Sbagliando
però. La sua storia è poi infatti molto diversa. Lui stesso - nel fidarsi
troppo di quella gente che lo circonda - finì molto male e sbaglia proprio sul POPOLO,
che alcune volte nella storia con la sua vituperata irrazionalità fa quello che
vuole. E suona dunque privo d’effetto quel volerci ricordare Mussolini una
massima di Machiavelli. Quando non credono più, bisogna ricorrere alla forza. È
questo sì l'espediente del suo Fascismo, forse fin dalla sua nascita, ma poi è
perdente. Perchè la sua forza inizia a farla con i suoi imbelli gerarchi e a
dire lui solo tante parole, parole, parole, seguite da riti, proclami,
dottrine, vangeli -- oltre...le pagliacciate di STARACES. Lui - in questo
Preludio - cita due frasi di Machiavelli, ma non ne sa coglierne l'essenza. Cum
parole non si mantengono li Stati. Quel Principe che si é tutto fondato sulle
parole, trovandosi nudo, rovina --- che profezia!!! E Mussolini nudo si ritrova
prima in quel famoso 25 luglio. Lui si aspetta una reazione al suo arresto. Ma
fu una realtà molto amara. Ma come, dice preoccupato, mi hanno abbandonato
anche i 150.000 arditi, di assoluta provata fede? Si, eccellenza, tutti uccel
di bosco - anzi i loro comandanti hanno telefonato a Badoglio mettendosi e
mettendoli a sua disposizione. Lo aveva abbandonato perfino suo genero: CIANO.
Ma poi - perso per strada anche gli altri amici, andò ancora peggio il 27
aprile del '45, quando il popolo (o una parte di esso, irrazionalmente) nel
fare quello che voleva lo appese a un distributore a Piazzale Loreto. Non
sono affatto abnormi e inutili tutti i comportamenti umani che non hanno una
razionalità.. E per fortuna che ogni tanto nella grande storia dell'umanità ci
sono anche queste contraddizioni. E sono del resto queste che ci distinguono
dagli animali e soprattutto dal capo branco che - illudendosi - li vorrebbe
guidare come belanti pecore. I meccanismi politico-sociali ed economici
realistici degli Uomini, non sono uguali a quelli delle formiche, perchè
altrimenti si vaneggia, e non si conoscono bene nè le formiche nè gli
uomini. L'individuo umano ha sempre rappresentato un costoso investimento
di studio e di cultura, ma giacchè è possibile al potente di turno disfarsi
dell'enorme vantaggio dell'istruzione e servirsi di altro materiale per
organizzare lo Stato delle formiche, questo dio che si crede onnipotente, si
rende responsabile di una degradazione della natura stessa dell'uomo e che se
un essere umano è condannato a svolgere le funzioni limitate della formica, non
soltanto cesserà di essere un uomo ma non sara' neppure una buona formica. E
ancora (non sempre nell'asservimento (l'azione), la retroazione è
controllabile). Questo non è il ragionamento di un filosofo, ma del Padre della
Cibernetica moderna (Teorie dell'informazione): Norbert Wiener - Mussolini
usa tante parole. Ma quale fortuna (Mussolini) se alle virtù oratorie avesse
accompagnato la civile prudenza machiavellica !!!. Ma non dimentichiamo anche
il grande Napoleone: qual fortuna per lui se alle virtù militari avesse
accompagnata la civil prudenza machiavellica Paradossalmente proprio su
Napoleone, Mussolini aveva dato un impietoso giudizio: lui fallì miseramente
perchè aveva creduto troppo negli uomini. Solo lui credeva di aver capito
gli uomini, credendolo suo il popolo: devono solo Credere, Obbedire,
Combattere. e Quando mancasse il consenso, c'è la forza...Per tutti i
provvedimenti anche i più duri che il Governo prenderà, metteremo i cittadini
davanti a questo dilemma: o accettarli per alto spirito di patriottismo o
subirli. (Disc. Risposta al Ministero delle Finanze - S. e D., E pensare che un Mussolini più razionale
aveva scritto un giorno Io grande? Io forte? Io potente? basta un titolo su un
giornale e ti ritrovi nella polvere. A Piazzale Loreto andò peggio! Fu un
cattivo profeta di se stesso. * ecco qui sotto il preludio di
Mussolini * subito dopo il saggio di F. De Sanctis (datato ma ancora molto
attuale) * seguono alcune note sulla vita, le opere e il contesto storico di
Machiavelli. Mussolini: Accadde che
un giorno mi fu annunciato da Imola - dalle legioni nere di Imola - il dono di
una spada con inciso il motto di Machiavelli Cum parole non si mantengono li
Stati. Ciò troncò gli indugi e determinò senz'altro la scelta del tema che oggi
sottopongo ai vostri suffragi. Potrei chiamarlo un Commento dell'anno 1924, al
Principe di Machiavelli, al libro che io vorrei chiamare: Vademecum per l'uomo
di governo. Debbo inoltre, per debito di onestà intellettuale, aggiungere che
questo mio lavoro ha una scarsa bibliografia, come si vedrà in seguito. Ho
riletto attentamente il Principe e il resto delle opere del grande Segretario,
ma mi è mancato tempo e volontà per leggere tutto ciò che si è scritto in
Italia e nel mondo su Machiavelli. Ho voluto mettere il minor numero possibile
di intermediari vecchi o nuovi, italiani e stranieri, tra il Machiavelli e me,
per non guastare la presa di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita
vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di uomini e cose, fra la sua e la mia
pratica di governo. Quella che mi onoro di leggervi non é quindi
una fredda dissertazione scolastica, irta di citazioni altrui, é piuttosto un
dramma, se può considerarsi, come io credo, in un certo senso drammatico il
tentativo di gettare il ponte dello spirito sull'abisso delle generazioni e
degli eventi. Non dirò nulla di nuovo. La domanda si pone: A quattro
secoli di distanza che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I consigli del
Machiavelli potrebbero avere una qualsiasi utilità anche per i reggitori degli
Stati moderni? Il valore del sistema politico del Principe é circoscritto
all'epoca in cui fu scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in
parte caduco, o non é invece universale e attuale? Specialmente attuale? La mia
tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina di Machiavelli é
viva oggi più di quattro secoli fa, poiché se gli aspetti esteriori della
nostra vita sono grandemente cangiati, non si sono verificate profonde le
variazioni nello spirito degli individui e dei popoli. Se la politica é
l'arte di governare gli uomini, cioè di orientare, utilizzare, educare le loro
passioni, i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi d'ordine generale
che trascendono quasi sempre la vita individuale perché si proiettano nel
futuro, se questa è la politica, non v'è dubbio che l'elemento fondamentale di
essa arte, é l'uomo. Di qui bisogna partire. Che cosa sono gli uomini nel
sistema politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uomini? È
egli ottimista o pessimista? E dicendo uomini
dobbiamo interpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè
degli italiani che Machiavelli conosceva e pensava come suoi contemporanei o
nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o per dirla in gergo
acquisito sotto la specie della eternità ? Mi pare che prima di procedere
a un più analitico esame del sistema di politica machiavellica, così come ci
appare condensato nel Principe, occorra esattamente stabilire quale concetto
avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in
particolare. Orbene, quel che risulta manifesto, anche da una
superficiale lettura del Principe, é l'acuto pessimismo del Machiavelli nei
confronti della natura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di
continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli é uno spregiatore
degli uomini e ama presentarceli - come verrò fra poco documentando - nei loro
aspetti più negativi e mortificanti. Gli uomini, secondo Machiavelli,
sono tristi, più affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a
cambiare sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così
si esprime: Perchè delli uomini si può dire questo generalmente: che siano
ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e
mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i
figlioli, come di sopra dissi quando el bisogno é discosto, ma quando ti si
appressa, e' (essi) si rivoltano... E quel principe che si é tutto fondato
sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini
hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia
temere, perché l'Amore é tenuto da un vincolo di obbligo, il quale per essere
li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità é rotto, ma il timore é
tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Per quanto concerne gli
egoismi umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue: Gli uomini si dolgono
più di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro
morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione é
pronta, perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non
può risuscitare, ma e' (egli) può bene riavere il suo podere. E al
Capitolo III dei Discorsi: Come dimostrano tutti coloro che ragionano del
vivere civile e come ne é prenia di esempi ogni storia, é necessario a chi
dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini
essere cattivi e che li abbino sempre a usare la malignità dell'animo loro,
qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini non operano mai nulla
bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere
licenzia si riempie subito ogni cosa di confusioni e di disordine. Le citazioni
potrebbero continuare, ma !ion é necessario. I brani riportati sono sufficienti
per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non è incidentale, ma
fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta
una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale
bisogna tener conto, per seguire tutti i successivi sviluppi del pensiero di
Machiavelli. E' anche evidente che il Machiavelli, giudicando come
giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai
fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo fra il XV e il XVI secolo,
ma agli uomini senza limitazione di spazio e di tempo. Di tempo ne é passato,
ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non potrei in
alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse,
aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe. L'antitesi fra
Principe e popolo, fra Stato e individuo é nel concetto di Machiavelli fatale.
Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico
scaturisce logicamente da questa posizione iniziale. La parola
Principe deve intendersi come Stato. Nel concetto di Machiavelli il Principe é
lo Stato. Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi, all'atonismo
sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L'individuo
tende a evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i
tributi, a non fare la guerra. Pochi sono coloro -eroi o santi -
che sacrificano il proprio io sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in
istato di rivolta potenziale contro lo Stato. Le Rivoluzioni dei secoli XVII
eXVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che é alla base di ogni
organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione
della libera volontà del popolo. C'é una finzione e una illusione di più.
Prima di tutto il popolo non fu mai definito. E' una entità meramente astratta,
come entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca.
L'aggettivo di sovrano applicato al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto
al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. I
sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche
nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli,
giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente
che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacce delle
sovranità - buone per i tempi normali - e gli si ordina senz'altro o di accettare
una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l'ignoto di una guerra.
Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi
vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta
nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando
è innocua o é reputata tale, cioè nei momenti diordinaria
amministrazione. Vi immaginate voi una guerra proclamata per
referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo
più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi
supremi di un popolo sono in gioco, anche i governi ultrademocratici si
guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso. V'è dunque
immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dalla Enciclopedia
- che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo
- il dissidio fra forza organizzata dello Stato e frammentarismo dei singoli e
dei gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non
esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del mio
ormai famoso articolo Forza e consenso (vedi subito sotto) Machiavelli scriveva
nel Principe, pagina 32: Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li
disarmati ruinarono. Perché la natura dei popoli é varia ed é facile persuadere
loro una cosa, ma é difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene
essere ordinato in modo, che quando non credono più, si possa far credere loro
per forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare
lungamente le loro costituzioni, se lussino (fossero) stati disarmati.
POCHI MESI PRIMA DI QUESTO ARTICOLO SU MACHIAVELLI E SEMPRE SU GERARCHIA
MUSSOLINI NEL '23 L'ARTICOLO FORZA E CONSENSO E MERITA DI LEGGERE ANCHE QUESTO
ACCENNO CHE LUI FA SU MACHIAVELLI Mussolini, da Gerarchia. Forza e
consenso. Certo liberalismo italiano, che si ritiene unico depositario degli
autentici, immortali principi, rassomiglia straordinariamente al socialismo
mezzo defunto, poiché anche esso, come quest'ultimo, crede di possedere
scientificamente una verità indiscutibile, buona per tutti i tempi, luoghi e
situazioni. Qui é l'assurdo. Il liberalismo non é l'ultima parola, non
rappresenta la definitiva formula, in tema di arte di governo. Non c'è in
quest'arte difficile e delicata, che lavora la piú refrattaria delle materie e
in stato di movimento, poiché lavora sui vivi e non sui morti; non c'è
nell'arte politica l'unità aristotelica del tempo, del luogo,
dell'azione. Gli uomini sono stati piú o meno fortunatamente
governati, in mille modi diversi. Il liberalismo é il portato e il metodo del
XIX secolo, che non é stupido, come opina Daudet, poiché non ci sono secoli
stupidi o secoli intelligenti, ma ci sono intelligenza e stupidità alternata,
in maggiori o minori proporzioni, in ogni secolo. Non é detto che il
liberalismo, metodo di governo, buono per il secolo XIX, per un secolo, cioè,
dominato da due fenomeni essenziali come lo sviluppo del capitalismo e
l'affermarsi del sentimento di nazionalità, debba necessariamente essere adatto
al secolo XX, che si annuncia già con caratteri assai diversi da quelli che
individuarono il secolo precedente. Il fatto vale piú del libro; l'esperienza
piú della dottrina. Ora le piú grandi esperienze del dopoguerra, quelle
che sono in stato di movimento sotto i nostri occhi, segnano la sconfitta del
liberalismo. In Russia e in Italia si é dimostrato che si può governare al di
fuori, al disopra e contro tutta la ideologia liberale. Il comunismo e il
fascismo sono al di fuori del liberalismo. Ma insomma, in che cosa
consiste questo liberalismo per il quale piú o meno obliquamente si infiammano
oggi tutti i nemici del fascismo? Significa il Liberalismo suffragio universale
e generi affini? Significa tenere aperta in permanenza la Camera, perché offra
l'indecente spettacolo che aveva sollevato la nausea generale? Significa in
nome della libertà lasciare ai pochi la libertà di uccidere la libertà di
tutti? Significa fare largo a coloro che dichiarano la loro ostilità allo
Stato e lavorano attivamente per demolirlo? E' questo il
liberalismo? Ebbene, se questo è il liberalismo, esso é una teoria e una
pratica di abiezione e di rovina. La libertà non é un fine; è un mezzo. Come
mezzo deve essere controllato e dominato. Qui cade il discorso
della forza. I signori liberali sono pregati di dirmi se mai nella storia vi fu
governo che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e rinunciasse a
qualsiasi impiego della forza. Un governo siffatto non c'è mai stato, non ci
sarà mai. Il consenso é mutevole come le formazioni della sabbia in riva al
mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale. Nessun governo é mai
esistito che abbia reso felici tutti i suoi governati. Qualunque soluzione vi
accada di dare a qualsiasi problema, voi - e foste anche partecipi della
saggezza divina! - creerete inevitabilmente una categoria di malcontenti. Se
finora non c'è arrivata la geometria, la politica meno ancora é riuscita a
quadrare il circolo. Posto come assiomatico che qualsiasi
provvedimento di governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo
malcontento dilaghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo
eviterete colla forza. Coll'impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si
renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza - e si intende forza
fisica, forza armata - e lasciategli soltanto i suoi immortali principi, e quel
Governo sarà alla mercé del primo gruppo organizzato e deciso ad
abbatterlo. Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali.
Quando un gruppo o un partito é al potere, esso ha l'obbligo di fortificarvisi
e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque
non li abbia bendati dal dogmatismo, é che gli uomini sono forse stanchi di
libertà. Ne hanno fatto un'orgia. La libertà non é oggi piú la vergine
casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima
metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si
affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che
esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia,
disciplina. Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e
battagliando per una piú grande libertà, è singolarmente in ritardo. È
completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità. Si parla di semi
che ritroveranno la primavera. Facezie! Certi semi muoiono sotto la coltre
invernale. Il fascismo, che non ha temuto di chiamarsi reazionario
quando molti dei liberali odierni erano proni davanti alla bestia trionfante,
non ha oggi ritegno alcuno di dichiararsi illiberale e antiliberale. Il
fascismo non cade vittima di certi trucchi dozzinali. Si sappia dunque,
una volta per tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è
già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul
corpo piú o meno decomposto della Dea Libertà. Benito Mussolini, da
Gerarchia. SAGGIO DI DESANCTIS CHE MUSSOLINI VOLLE INCLUDERE scrivendo la
nuova edizione de IL PRINCIPE Testo integrale originale (che è comunque un
ottimo saggio, proprio utile per capire il ns. passato) DE SANCTIS:
Dicesi che Machiavelli fosse in Roma quando, il 1515, uscì in luce l'Orlando
furioso. Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere dimenticato
dall'Ariosto nella lunga lista, ch'egli stese nell'ultimo canto, dei poeti
italiani. Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il secolo nella
sua doppia faccia, ancorchè contemporanei e conoscenti, sembrano ignoti l'uno
all'altro. Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una fisionomia
essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de' Medici. Era
un piacevolone, che se la spassava ben volentieri tra le confraternite e le
liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e
beffardo che vede nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulce e in Lorenzo e nel
Berni. Poco agiato nei beni della fortuna, nel corso ordinario
delle cose sarebbe riuscito un letterato fra i tanti stipendiati a Roma o a
Firenze, e dello stesso stampo. Ma, caduti i Medici, restaurata la repubblica e
nominato segretario, ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende,
esercitò molte legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini
e delle cose, e si affezionò alla repubblica, per la quale non gli parve molto
il sostenere le torture, poiché tornarono i Medici. In quegli uffici e in
quelle lotte si raffermò le sue tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle
pubbliche faccende, nel suo ozio di San Casciano meditò sui fati dell'antica
Roma e sulle sorti di Firenze, anzi d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che
l'Italia non potesse mentenere le sue indipendenza se non fosse unita, tutta o
gran parte, sotto un solo principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a
Firenze, volesse pigliare l'imprese. Sperò pure che volesse accettare i suoi
servigi e trarlo di ozio e di miserie. All'ultimo, poco e male adoperato
dei Medici, finì la vita tristemente, lasciando non altra eredità ai figliuoli
che il nome. Di lui fu scritto: Tanto nomini nullum par elogium. I suoi
Decennali, arida cronaca delle fatiche
d'Italia di dieci anni, scritte in quindici dì; i suoi otto capitoli dell'Asino
d'oro, sotto nome di bestie satira dei degeneri fiorentini; gli altri suoi
capitoli dell'Occasione, delle Fortuna, dell'Ingratitudine, dell'Ambizione; i
suoi canti carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o
canzoni, sono lavori letterari sui quali è impressa le fisionomia di quel
tempo: alcuni tra il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi,
sempre aridi. Il verso rasenta le prose; il colorito è sobrio e spesso monco;
scarse e comuni sono le immagini. Ma in questo fondo comune e sgraziato
appaiono le vestigie di un nuovo essere, una profondità insolita di giudizio e
di osservazione. Manca l'immaginativa: sovrabbonda lo spirito. C è il critico:
non c è il poeta, non c è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e
fantastica, come era Ludovico Ariosto. C è l'uomo che si osserva anche soffrendo,
e sentenzia sulle sorti sue e dell'universo con tranquillità filosofica: il suo
poetare è un discorrere: Io spero, e lo sperar cresce il tormento; io piango, e
il pianger ciba il lasso core; io rido, e il rider mio non passa drento;
io ardo, e l'arsion non par di fuore; io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io
sento; ogni cosa mi dà nuovo dolore: così sperando piango, rido e
ardo, e paura ho di ciò ch'i' odo o guardo. Tali sono pure le sue
osservazioni sul variare delle cose mondane nel capitolo della Fortuna. Delle
sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso, come nei Decennali: la voce
d'un Cappon tra cento Galli,.....e qualche sentenza o concetto profondo, come
nel canto De' diavoli o de' romiti. Il suo capolavoro è il capitolo
dell'Occasione, massime la chiusa, che ti colpisce d'improvviso e ti fa
pensoso. Nel poeta si sente la scrittore del Principe e dei Discorsi. Anche in
prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano in
quella età. Talora si mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche
alle confraternite, nella descrizione della peste e ne' discorsi che mette in
bocca ai suoi personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna
in chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocini della retorica e gli
artifici dello stile; ciò che si chiamava eleganza. Ma nel Principe, nei
Discorsi, nelle lettere, nelle Relazioni, nei Dialoghi sulla milizia, nelle
Storie, Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria
di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso alle parole e ai'
periodi. Dove non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla
trovò la prosa italiana. E' visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito
incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana
in quel tempo. E aver pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini
e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra i principi, e che troviamo
generalmente negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a
Napoli, quando viveva Ferdinando d'Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il moro,
e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti
presso le quali dimoravano. C' era l'arte: mancava la scienza. Lorenzo era
l'artista: Machiavelli doveva essere il critico. Firenze era ancora il cuore
d'Italia: lì c' erano ancora i lineamenti di un popolo, c' era l'immagine della
patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea ghibellina e guelfa era
spenta, ma c' era invece l'idea repubblicana alla romana, effetto della coltura
classica, che, fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle
memorie gloriose del passato, resisteva ai Medici. L'uso della libertà e le
lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo, e rendevano possibile
Savonarola, Capponi, Michelangelo, Ferruccio e l'immortale resistenza agli
eserciti papali-imperiali. L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore
della libertà erano forze morali, tra quella corruzione medicea rese ancora più
acute e vivaci dal contrasto. Machiavelli, per la sua coltura letteraria, per
la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al
Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna
religione, e perciò le accetta tutte, e, magnificando la morale in astratto, vi
passa sopra nella pratica della vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e
rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e
solitari. E la sua coscienza non è vuota. C è lì dentro la libertà e
l'indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli
consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti del possibile. E quando vide
perduta la libertà, pensò all'indipendenza e cercò negli stessi Medici lo strumento
della salvezza. Certo, anche questa era un'utopia o una illusione, un'ultima
tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio; ma un'utopia
che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità della sua
fede. Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più esatto
sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua coscienza era già vuota e
petrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta ai posteri simpatica e
circondata di una aureola poetica per la forte tempra e la sincerità del
patriottismo e l'elevatezza del linguaggio, e per quella sua aria di virilità e
di dignità fra tanta folla di letterati venderecci. La sua influenza non fu
pari al suo merito. Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe oggi,
più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà, la vita scorretta, le
abitudini plebee e fuori della regola, come gli rimproverava il correttissimo
Guicciardini, non gli aumentavano reputazione. Consapevole della sua grandezza,
disprezzava quelle esteriorità delle forme e quei mezzi artificiali di farsi
via nel mondo, che sono sì familiari e sì facili ai mediocri. Ma la sua
influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua fama si è ita sempre
ingrandendo tra gli odii degli uni e le glorificazioni degli altri. Il suo nome
è rimasto la bandiera intorno alla quale hanno battagliato le nuove
generazioni, nel loro contraddittorio movimento ora indietro ora innanzi. C è
un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che
ha gettato nell'ombra le altre sue opere. L'autore è stato giudicato da questo
libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e
scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un
codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i
mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machiavellismo questa
dottrina. Molte difese si sono fatte di questo libro, ingegnosissime,
attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così
n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito. Questa
critica non è che una pedanteria. Ed è anche una meschinità porre la grandezza
di quell'uomo nella sua utopia italica, oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire
tutta intera l'immagine, e cercarvi i fondamenti della sua grandezza. Niccolò
Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e seria di tutto quel
movimento, che, nella sua spontaneità, dal Petrarca e dal Boccaccio si stende
sino alla seconda metà del Cinquecento. In lui comincia veramente la prosa,
cioè a dire la coscienza e la riflessione della vita. Anche lui è in mezzo a
quel movimento, e vi piglia parte, ne ha le passioni e le tendenze. Ma, passato
il momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio
e di Tacito, ha la forza di staccarsi dalla sua società e interrogarla: - Cosa
sei? dove vai? - L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e
guardava l'Europa con l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare
tutte le nazioni oltre le Alpi. Il suo modello era il mondo greco e romano, che
si studiava di assimilarsi. Sovrastava per coltura, per industrie, per
ricchezze, per opere d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato
intellettivo in Europa. Grave fu lo sgomento negl'italiani quando
ebbero gli stranieri in casa; ma vi si abituarono e trescarono con quelli,
confidando di cacciarli via tutti con la superiorità dell'ingegno. Spettacolo
pieno di ammaestramento è vedere, tra lanzi, svizzeri, tedeschi e francesi e
spagnoli, l'alto e spensierato riso di letterati, artisti, latinisti,
novellieri e buffoni nelle eleganti corti italiane. Fin nei campi i sonettisti
assediavano i principi: Giovanni de' Medici cadeva tra i lazzi di Pietro
Aretino. Gli stranieri guardavano attoniti le meraviglie di Firenze, di
Venezia, di Roma e tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi regalavano e
corteggiavano i letterati, che con la stessa indifferenza celebravano Francesco
primo e Carlo quinto. L'Italia era inchinata e studiata dai suoi devastatori,
come la Grecia fu dai romani. Fra tanto fiore di civiltà e in tanta
apparenza di forza e di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e
vide la malattia dove altri vedevano la più prospera salute. Quello che oggi
diciamo decadenza egli disse
corruttela, e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto: la
corruttela della razza italiana, anzi latina, e la sanità della germanica. La
forma più grossolana di questa corruttela era la licenza de' costumi e del
linguaggio, massime nel clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di
Caterina, ed ora messa in mostra nei dipinti e negli scritti, penetrata in
tutte le classi della società e in tutte le forme della letteratura, divenuta
come una salsa piccante che dava sapore alla vita. La licenza,
accompagnata con l'empietà e l'incredulità, aveva a suo principal centro la
corte romana, protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di
quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla separazione
Lutero e i suoi concittadini. Nondimeno il clero per abito tradizionale
tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale
non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il
pensiero non era più la parola, e la parola non era più l'azione; non c'era
armonia nella vita. In questa disarmonia era il principale motivo comico del
Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli. Nessun
italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, ai cui
allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E
nessuno poteva, non desiderare una riforma de' costumi, una restaurazione della
coscienza. Sentimenti e desideri vani, affogati nel rumore di quei baccanali.
Non c' era il tempo di piegarsi in sé, di considerare la vita seriamente. Pure
erano sentimenti e desideri che più tardi fruttificarono e agevolarono l'opera
del concilio di Trento e la reazione cattolica. Rifare il medioevo e
ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una ristaurazione
religiosa e morale, era stato il concetto di Geronimo Savonarola, ripreso poi e
purgato nel concilio di Trento. Era il concetto più accessibile alle
moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a' loro
mali nel passato. Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale
italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto. Essa era
non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella coscienza,
vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che pensasse di
ricondurre indietro l'Italia e di restaurare. il medio evo, concorse alla sua
demolizione. L'altro mondo, la cavalleria, l'amore platonico sono i tre
concetti fondamentali, intorno ai quali si aggira la letteratura nel medio evo,
de' quali la nuova letteratura è la parodia più o meno consapevole. Anche
nella faccia del Machiavelli sorprendi un momento ironico quando parla del
medio evo, sopratutto allora che affetta maggior serietà. La misura del
linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua opera demolitiva è
visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il suo Belfegor è
della stessa razza dalla quale era uscito Astarotte. Ma la sua negazione non è
pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza vuota. In quella
negazione c'è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua coscienza. E
perciò la sua negazione è seria ed eloquente. Papato e impero, guelfismo e
ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni sono
demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto un
nuovo edificio sociale e politico. Le idee che generarono quelle
istituzioni sono morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza,
rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana.
Questo popolo non si può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a
questo che attende Machiavelli. Con una mano distrugge, con l'altra edifica. Da
lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la
ricostruzione. Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare.
Basti qui accennare la idea fondamentale. Il medio evo riposa sopra questa
base: che il peccato è attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, e la
virtù è negazione della vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa
vita non è la realtà o la verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non
quello che è, ma quello che deve essere, e perciò il suo vero contenuto è
l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio, il paradiso, il mondo conforme alla
verità e alla giustizia. Da questo concetto della vita, teologico-etico, uscì
la Divina commedia e tutta la letteratura del Duecento e del Trecento. Il
simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La realtà
terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo, l'amore è un simbolo. E l'uomo e la
natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o nelle
universali, forze estramondane, che sono la maggiore del sillogismo,
l'universale da cui esce il particolare. Tutto questo, forma e concetto, era
già dal Boccaccio in qua negato, caricato, parodiato, materia di sollazzo e di
passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e licenziosa, che aveva a
base la glorificazione della carne o del peccato, la voluttà, l'epicureismo,
reazione all'ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e poeti, tutti
visionari: conclusione geniale della Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo
della luna ariostesco. In teoria c' era una piena indifferenza, e in pratica una
piena licenza. Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa
licenza nella vita e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è
straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di
erudizione. Di speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di
enunciazioni scolastiche e teologiche. E, a ogni modo, non se ne cura. Il suo
spirito è tutto nella vita pratica. Nelle scienze naturali non sembra sia
molto avanti, quando vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle
stelle. Battista Alberti avea certo una coltura più vasta e più compiuta.
Niccolò non è filosofo della natura: è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno
oltrepassa l'argomento e prepara Galileo. L'uomo, come Machiavelli lo concepisce,
non ha la faccia estatica e contemplativa del medio evo e non ha la faccia
tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo che
opera e lavora intorno ad uno scopo. Ciascun uomo ha la sua missione su questa
terra, secondo le sue attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione e non
è contemplazione. Non è teologia e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua
serietà, il suo scopo e i suoi mezzi. Riabilitare la vita terrena,
darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire
l'uomo nella sua serietà e nella sua attività : questo è lo spirito che aleggia
in tutte le opere del Machiavelli. E' negazione del medio evo, e insieme
negazione del Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa così poco come
la contemplazione artistica. La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non
tali però che debbano e possano costituire lo scopo della vita. Combatte
l'immaginazione come il nemico più pericoloso, e quel veder le cose in
immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la malattia che si ha da
curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicar le cose come sono e non come
debbono essere. Quel dover essere, a cui tende il contenuto nel medio evo
e la forma nel Risorgimento, deve far luogo all' essere
o, com'egli dice, alla verità
effettuale. Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e
come arte, al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e
dall'osservazione: questa è la base del Machiavelli. Risecati tutti gli
elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria.
La missione dell'uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo,
la gloria, la grandezza, la libertà della patria. Nel medio evo non c' era il
concetto di patria: c' era il concetto di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini
nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore, rappresentanti di Dio:
l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della società. Intorno a questi due Soli
stavano gli astri minori: re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di
contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era privilegio
papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e
perciò del papa o dell'imperatore, e spesso imploravano legati apostolici o
imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò re di Firenze Gesù
Cristo, ben inteso lasciando a sè il diritto di rappresentarlo e interpretarlo.
E' un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo. C'era ancora il
papa e c'era l'imperatore; ma l'opinione, sulla quale si fondava la loro
potenza, non c'era più nelle classi colte d'Italia. Il papa stesso e
l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio: il papa ingrandito di
territorio, diminuito di autorità; l'imperatore, debole e impacciato a casa. Di
papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per
riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di
quel mondo rimanevano avanzi, in Italia, il papa, i gentiluomini e gli
avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un
sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia.
Combatte il concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i
gentiluomini, reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o avventurieri la prima
cagione della debolezza italiana incontro allo straniero, e propone e svolge
largamente il concetto di una milizia nazionale. Nel papato temporale, nei
gentiluomini, negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo. La
patria del Machiavelli è naturalmente il Comune libero, libero per sua virtù e
non per grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti nell'interesse di
tutti. Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de'
grandi Stati che si erano formati in Europa, e come il Comune era destinato
anch'esso a sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo Comune
gli par cosa troppo piccola e non possibile a durare davanti a quelle potenti
agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano Stati o Nazioni. Già
Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, avea tentato una grande lega italica, che
assicurasse l' equilibrio tra i vari Stati e la mutua difesa, e che
pure non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo ottavo. Niccolò propone
addirittura la costituzione di un grande Stato italiano, che sia baluardo
d'Italia contro lo straniero. Il concetto di patria gli si allarga. Patria non
è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca
è il giardino dell'impero; nell'utopia del Machiavelli è la patria, nazione autonoma e
indipendente. La patria del Machiavelli è una divinità, superiore
anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici
assorbiva in sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli
eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata
sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. Ragion di Stato e
salute pubblica erano le formule volgari, nelle quali si esprimeva questo
diritto della patria, superiore ad ogni diritto. La divinità era scesa di cielo
in terra e si chiamava la patria, ed era
non meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era suprema lex. Era
sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere
collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi
la servitù. Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini
alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della
libertà. L'uomo non era un essere autonomo e di fine a se stesso: era lo
strumento della patria o, ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto
la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato
sull'arbitrio di uno solo. PATRIA era dove tutti concorrevano più o
meno al governo e, se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò dicevasi
repubblica. E dicevasi principato dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma,
repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo
assorbito nella società o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato.
Queste idee sono enunciate dal Machiavelli non come da lui trovate e
analizzate, ma come già per lunga tradizione ammesse e fortificate dalla
coltura classica. C è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la sua
immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva
alle menti modello non solo nell'arte e nella letteratura, ma ancora nello
Stato. La patria assorbe anche una religione. Uno Stato non può vivere senza
una religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è solo
perchè a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri,
ma ancora perché coi suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel
popolo l'autorità della religione. Ma egli vuole una religione di
Stato, che sia in mano del principe un mezzo di governo. Della religione si era
perduto il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento politico negli
statisti. Anche la moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza, l'osservanza
della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla
patria; e se le incontra sulla sua via non come istrumenti ma come ostacoli, li
spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre virtù de'
buoni principi; ma c è un po' odore di rettorica, che spicca più in quel fondo
ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi contemporanei
un sentimento religioso e morale schietto e semplice. Noi, che vediamo le cose
di lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla
teocrazia e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta era ancor viva, e
'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le esagerazioni, ciò che esce
dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile, che ha la sua
legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di
subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non c è alcun vestigio di diritto
divino. Il fondamento delle repubbliche è vox populi, il consenso di tutti. E
il fondamento de' principati è la forza, o la conquista legittima assicurata
dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa c'entra pure, ma come forze
atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi.
Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli
non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che
hanno disarmato il cielo ed effeminato
il mondo e che rendono l'uomo più atto
a sopportare le ingiurie che a
vendicarle. Agere et pati fortia romanum
est. Il cattolicesimo, male interpretato, rende l'uomo più atto a patire
che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e
contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani
inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza
della patria. La virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa forza,
energia, che renda gli uomini atti ai grandi sacrifici e alle grandi
imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne' singolari incontri
riescono spesso vittoriosì: manca l'educazione o la disciplina o, come egli
dice, i buoni ordini e le buone armi,
che fanno gagliardi e liberi i popoli. Alla virtù premio è la gloria.
Patria, virtù, gloria, sono le tre parole sacre, la triplice
base di questo mondo. Come gl'individui hanno la loro missione in terra, così
anche le nazioni. Gl'individui senza patria, senza virtù, senza gloria sono
atomi perduti, numerus fruges consumere nati. E parimente ci sono nazioni
oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè nel mondo. Nazioni
storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio nell'umanità o, come
dicevasi allora, nel genere umano, come
Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la
tempra, gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza
morale. Ma, come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando
le idee che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si
fiacca. E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e' passa ad altre
nazioni. Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo
spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il
fato storico non è la provvidenza e non è la fortuna, ma la forza delle cose, determinata dalle leggi
dello spirito e della na tura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed
immortale nella sua produzione. Perciò la storia non è accozzamento di fatti
fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di effetti,
il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e
dagl'interessi degli uomini. La politica o l'arte del governare ha per suo
campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il
mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere
e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa
calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini. La grandezza
e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti
necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le muovono. E
quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono. E a governare, quelli
che stanno solo a fare i leoni, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe o
la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che
muovono gli Stati. Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro,
diritti e doveri. E come c è un diritto privato, così c è un diritto pubblico o
diritto delle genti, o, come dicesi oggi, diritto internazionale. Anche la
guerra ha le sue leggi. Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai.
Eternamente giovane; passa da una nazione a un'altra, e continua secondo le sue
leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di
questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale o logica,
determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del
genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò
che poi fu detto filosofia della storia.
Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non c è nel
Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza segnato con
chiarezza e indicato a' suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e la
storia. Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i
poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le
conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche realista,
ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e
fantastici, e la conoscenza e il possesso di se stesso. E ai contemporanei non
parvero nuovi nè audaci, vedendo ivi formulato quello che in tutti era
sentimento vago. L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo:
anche in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e
imperiale, la Roma di Cesare; e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è
severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della repubblica miracoli della provvidenza, come preparazione
all'impero: dove per il Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i
buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà principalmente alla
virtù. Di lui è questo motto profondo: I
buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici
successi delle imprese. Il classicismo dunque era la semplice scorza, sotto
alla quale le due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di
Dante c'è il misticismo, il ghibellinismo: la corteccia è c lassica, il
nocciolo è medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli c' è lo spirito
moderno che ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quando biasima i suoi
tempi, dove non è cosa alcuna che gli
ricomperi di ogni estrema miseria, infamia vituperio, e non vi è osservanza di
religione, non di leggi e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione
bruttura. Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter
rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in
molte sentenze senti le vestigia di quell'antica sapienza. Da Roma gli viene
anche la nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare
un romano avvolto nel pallio, in quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci
troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco.
Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo
dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso
dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e al naturale. E'
in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de'
tempi moderni. Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi: religiosa,
morale, politica, intellettuale. E non è solo negazione vuota. E' affermazione,
è il verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un' affermazione. Non è la
caduta del mondo: è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge
l'autonomia e l'indipendenza dello Stato. Tra l'impero e la città o il feudo,
le due unità politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la nazione, alla
quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi; la razza, la lingua,
la storia, i confini. Tra le repubbliche e i principati spunta già
una specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli
altri e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità: governo che è un
presentimento dei nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i
primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in
Firenze. E' tutto un nuovo mondo politico che appare. Si veda, fra l'altro,
dove il Machiavelli parla della formazione de' grandi Stati, e sopratutto della
Francia. Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla
religione ogni temporalità e, come Dante, combatte la confusione de' due
reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la
profondità dell'ironia. La religione, ricondotta nella sua sfera
spirituale, è da lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione,
come strumento di grandezza nazionale. E' in fondo l'idea di una Chiesa
nazionale, dipendente dallo Stato e accomodata ai fini e agli interessi della
nazione. Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la
santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il
Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno
severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia : non è
la vita contemplativa, ma la vita attiva. E perciò la virtù è per lui la
vita attiva, vita di azione e in servizio della patria. I suoi santi sono più
simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O,
per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota. E si
rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli
non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e,
quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal
suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base
l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore
della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. E' il famoso cogito, nel
quale s'inizia la scienza moderna. E' l'uomo emancipato dal mondo
soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la
sua indipendenza e prende possesso del mondo. E si rinnova il metodo. Il
Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi astratti, e non riconosce
autorità di nessuno come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di
etica fa stima uguale: mondi d'immaginazione, fuori della realtà. La verità è
la cosa effettuale; e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata
con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti. Tutto il formolario
scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte
dell'intelletto, incardinate nella pretesa esistenza degli universali,
sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni
generali, le maggiori del sillogismo, sono capovolte, e compaiono
in ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In
luogo del sillogismo hai la serie, cioè a dire concatenazione di fatti, che
sono insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio: Avendo la città
di Firenze... perduta parte di terre del suo imperio, come Pisa e altre terre,
fu necessitata a fare guerra a coloro che le occupavano, e perché chi le
occupava era potente, ne seguiva che si spendeva molto nella guerra senza alcun
risultato: dallo spendere molto ne risultava molte imposte, imposte infinite,
insofferenze del popolo; e poichè questa guerra era amministrata da una
magistratura di dieci cittadini... la moltitudine cominciò ad arrabbiarsi con
loro come se fossero cagione e della guerra e delle spese di essa. Qui i fatti
sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una
doppia serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo
intelligente; l'altra semplicissima, che ti dà la causa apparente e
superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte
l'universale, con una serietà ed una sicurezza che rende profondamente ironica
la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella
natura e nell'uomo : non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi
sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il
suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha il suo ufficio in tutta
la catena: il fatto non è solo fatto o accidente, ma è ragione, considerazione:
sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche
pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo
alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anche essi fatti
intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra
nulla. Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da
un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di
questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di
tutti, com'è quel ritirare le cose ai
loro princìpi, o quell'ironia de'
profeti disarmati, o gli uomini
si stuccano del bene, e del male si affliggono, o gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli.
Di queste sentenze o pensieri ce ne sono molte raccolte. E sono un intero
arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie.
Come esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e
peregrina, ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi. Con la forma scolastica
rovina la forma letteraria, fondata sul periodo. Ne' lavori didascalici il
periodo era una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata
dalla sua maggiore e dalle sue idee medie: ciò che dicevasi dimostrazione, se
la materia era intellettuale, o
descrizione, se la materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà semplici
proposizioni, ripudiato ogni corteggio: non descrive e non dimostra; narra o
enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo uccide la forma
letteraria, ma uccide la forma stessa come forma; e fa questo nel secolo della
forma, la sola divinità riconosciuta. Appunto perchè ha piena la
coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma è
nulla. O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua
verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che
a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole o morale o bella, ma che la
sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è inutile cercare se
possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e perciò del sapere, è
il Nosce te ipsum, la conoscenza del
mondo nella sua realtà. Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il
moralizzare sono frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati
all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento astratto,
etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo motto
è: Nil admirari. Non si meraviglia e non
si appassiona, perchè comprende; come non dimostra e non descrive, perchè vede
e tocca. Investe la cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le
circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le figure, i
periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via
più breve, e perciò la diritta: non si distrae e non distrae. Ti dà
una serie stretta e rapida di proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee
medie, tutti gli accidenti e tutti gli episodi. Ha l'aria del pretore, che non
curat de minimis, di un uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo nè voglia
di guardarsi attorno. Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un
artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati; ma è naturale
chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli
spiriti mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza,
ed è insieme pienezza di cose, che non gli fa sentire necessità di riempiere
gli spazi vuoti con belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli
oziosi. La sua semplicità talora è negligenza, la sua sobrietà talora è
magrezza: difetti delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel
nell'uovo, e gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina
prosa trovino latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze. La
prosa del Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna
coesione vi abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto.
Nella prosa del Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura,
la cui espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel
lusso di congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione
interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e
scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori.
Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti
gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o
frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò retorica: l'animo
vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a
Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno: salvo che
qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti
riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel
tempo, come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di
fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la
principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi. Anche
l'intelletto, in quella sua virilità oziosa, poneva la principale importanza
della composizione ne' costumi e ne' modi ovvero nell'abito.
Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale,
un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo.
I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche; i poeti
petrarcheggiavano; i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e retorico,
con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o
indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di
tutta l'anima. C' era lo scrittore, non c' era l'uomo. E fin d'allora fu
considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che
dicevasi forma letteraria, nella piena
indifferenza dell'animo: divorzio compiuto tra l'uomo e lo scrittore.
Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche, comparve la prosa del
Machiavelli, presentimento della prosa moderna. Qui l'uomo è tutto, e non c è
lo scrittore, o c è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che
ci sia un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o
convenzione. Talora ci si prova e ci riesce maestro; ed è, quando vuol fare il
letterato, anche lui. L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive è - una
produzione immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro: cose e
impressioni, spesso condensate in una parola. Perché è un uomo che pensa e
sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e
presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con
le impressioni fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata
d'ironia, di malinconia, di indignazione, di dignità, ma principalmente lei
nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo, ma
un marmo qua è là venato. E' la grande maniera di Dante che vive là
dentro. Parlando dei mutamenti introdotti dal medio evo nei nomi
delle cose e degli uomini, finisce così: Gli uomini ancora, di Cesari e Pompei,
Pieri, Giovanni e Mattei diventarono. Qui non c è che il marmo, la cosa ignuda;
ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte da
quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei Cesari e Pompei il
disprezzo per quei Pieri e Mattei, lo sdegno di quel mutamento; e lo vedi alla
scelta caratteristica dei nomi, al loro collocamento in contrasto come nemici,
e a quell'ultimo ed energico diventarono, che accenna a mutamenti non solo di
nomi ma di animi. Questa prosa, asciutta, precisa e concisa, tutta
pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto già adulto, emancipato da elementi
mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo regolatore del mondo: la logica
o la forza delle cose, il fato moderno. Questo è in effetti il senso intimo del
mondo, come il Machiavelli lo concepisce. Lasciando da parte le sue origini, il
mondo è quello che è: un attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi
proprie. Ciò che dicesi fato, non è altro che la logica, il risultato
necessario di queste forze, appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie,
interessi, mosse e regolate da una forza superiore, lo spirito umano, il
pensiero, l'intelletto. Il Dio di Dante è l'amore, forza unitiva
dell'intelletto e dell'atto: il risultato era sapienza. Il Dio di Machiavelli è
l'intelletto, l'intelligenza e la regola delle forze mondane: il risultato è
scienza. - Bisogna amare - dice Dante. - Bisogna intendere - dice Machiavelli.
L'anima del mondo dantesco è il cuore, l'anima del mondo machiavellico è il
cervello. Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico: questo è
essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo significato: non è
sentimento morale, ma è semplicemente forzao energia, la tempra dell'animo; e
Cesare Borgia è virtuoso perchè avea la forza di operare secondo logica, cioè
di accettare i mezzi quando aveva accettato lo scopo. Se l'anima del mondo è il
cervello, hai una prosa che è tutta e sola cervello. Ora possiamo
comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni. La storia di Firenze sotto
forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino scrive col cuore commosso,
con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo, tutto offende il suo senso
morale. Vi domina il sentimento etico, come in Dante, nel Mussato, in tutti i
trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli è la spiegazione de' fatti
nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e meditativo, a modo di
filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I personaggi non sono còlti
nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non è una storia
drammatica. L'autore non è sulla scena nè dietro la scena, ma è nella sua
camera, e, mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i motivi. La sua
apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e tutto raccolto
in questo lavoro intellettivo, non distratto da emozioni e impressioni. E' l'apatia
dell'ingegno superiore, che guarda con compassione a' moti convulsi e nervosi
delle passioni. Ne' Discorsi ci è maggior vita intellettuale.
L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna per attingervi lena e ispirazione.
I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve, come chi ricordi
quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne. Ma, appena finito il racconto,
comincia il discorso. L'intelletto, come rinvigorito a quella fonte, se ne
spicca tutto pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e contento insieme. Senti
lì il piacere di quell'esercizio intellettuale e di quella originalità, di quel
dir cose che a' volgari sembrano paradossi. Quei pensieri sono come una
schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di fuori a turbarvi l'ordine. Non
è una mente agitata nel calore della produzione, tra quel flutto
d'immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione, come avviene
talora anche ai più grandi pensatori. E' l'intelletto pieno di gioventù e di
freschezza, tranquillo nella sua forza e in sospetto di tutto ciò che non è
lui. Digressioni, immagini, effetti, paragoni, giri viziosi, perplessità di
posizioni: tutto è bandito in queste serie disciplinate d'idee, mobili e
generative, venute fuori da un vigor d'analisi insolito e legate da una logica
inflessibile. Tutto è profondo, ed è così chiaro e semplice che ti pare
superficiale. Il fondamento dei' Discorsi è questo: che gli uomini non sanno essere nè in tutto buoni nè in
tutto tristi, e perciò non hanno tempra logica, non hanno virtù. Hanno
velleità, non hanno volontà. Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni,
superstizioni tolgono loro la risolutezza. Perciò stanno
volentieri in sull'ambiguo, e scelgono le vie di mezzo, e seguono le
apparenze. C è nello spirito umano uno stimolo o appetito insaziabile, che lo
tiene in continua opera e produce il progresso storico. Ond'è che gli uomini
non sono tranquilli e salgono di un'ambizione a un'altra, e prima si difendono
e poi offendono, e più uno ha, più desidera. Sicchè negli scopi gli uomini sono
infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e incerti. Quello che degli individui, si
può dire anche dell'uomo collettivo, come famiglia o classe. Nella società non
c' è in fondo che due sole classi: degli
abbienti e de' non abbienti, de'
ricchi e de' poveri. E la storia non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi
non ha. Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi.
E sono liberi quando hanno a fondamento l'
equalità. Perciò libertà non può essere dove sono gentiluomini
o classi privilegiate. E' chiaro che una scienza o arte politica non è
possibile quando non abbia per base la conoscenza della materia su che si ha a
esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come classe. Perciò una gran parte
di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi, degli
ottimati o gentiluomini, de' principi, de' francesi, de' tedeschi, degli
spagnoli, d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di
osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il carattere, cioè quelle forze che muovono
individui e popoli o classi ad operare così o così. Le sue osservazioni sono
frutto di una esperienza propria e immediata, e perciò freschissime e vive
anche oggi. Poiché il carattere umano ha questa base comune, che i
desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed esitante è la virtù di
conseguirli, hai sproporzione tra lo scopo e i mezzi; onde nascono le
oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza politica o l'arte di
condurre e governare gli uomini ha per base la precisione dello scopo e la
virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia intellettuale, che fa
grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il mondo. Questo punto di
vista logico, preponderante nella storia, comunica all'esposizione una calma
intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di uomo che sa e vuole. Il
cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa e più osa. Quando la
tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro. L'uomo allora non sa quello
che vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e dalle sue passioni,
com'è proprio del volgo. Un'applicazione di questa implacabile logica è il
Principe. Machiavelli biasima i principi che per frode o per forza tolgono la
libertà ai popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano
mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria, ma la conservazione del
principe: se non che il principe provvede a se stesso, provvedendo allo Stato.
L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non può dare, ma può dare
buone leggi che assicurino l'onore, la vita, là sostanza de' cittadini. Deve
mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i
gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non ammazzandoli, ma
studiandoli e comprendendoli: non ingannato da loro, ma ingannando loro. Come
stanno alle apparenze, il principe deve darsi tutte le buone apparenze, e, non
volendo essere, parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti
e degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto; perchè gli uomini sono naturalmente
semplici e creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il
principe miri a farsi temere più che amare. Sopratutto eviti di rendersi odioso
o spregevole. Chi legge il trattato De regimine principum di Egidio Colonna, vi
troverà un magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita reale. Chi
legge questo Principe del Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico,
fondato sullo studio dell'uomo e della vita. L'uomo vi è, come natura,
sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non secondo criteri morali, ma
secondo criteri logici. Ciò che gli si deve domandare non è se quello che egli
fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra i
mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza, ma dalla
forza come intelligenza. L'Italia non ti poteva dare più un mondo divino
ed etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in lei ancora intatto era
l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo dell'intelletto, purgato dalle
passioni e dalle immaginazioni. Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto
punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione
dello scopo, e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e
lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei. La
chiarezza dell'intelletto, non intorbidito da elementi soprannaturali o
fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il suo eroe è il domatore
dell'uomo e della natura, colui che comprende e regola le forze naturali e
umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e
se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome
del genere umano.Vedasi il capitolo decimo, una delle proteste più eloquenti
che siano uscite da un gran cuore, Ma, posto lo scopo, la sua ammirazione è
senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo. La responsabilità
morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel
non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il
terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole. L'odioso è il male fatto per
libidine o per passione o per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la
debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che
pur bisogna andare. Quando Machiavelli scriveva queste cose,
l'Italia si trastullava nei romanzi e nelle novelle, con lo straniero in casa.
Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta.
Tutti volevano cacciare lo straniero, a tutti puzzava il barbaro dominio; ma
erano solo velleità. E si comprende come il Machiavelli miri
principalmente a ristorare la tempra, attaccando il male nella sua radice.
Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al contrario,
quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli glorifica la
tempra anche del male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia, intelletto
chiaro e animo fermo, ancorachè destituito d'ogni senso morale, che il buon
Pier Soderini, cima di galantuomo, ma. anima sciocca, che per la sua incapacità
e la sua fiacchezza perdette la repubblica. Ma, se in Italia la tempra
era infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli poneva a base
della vita l'essere uomo, iniziando letà
virile della forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico
dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza
incoerente, cioè a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco,
com'era concepito in Italia, era ridicolo per questo: che si presentava
all'immaginazione come un esercizio incomposto di una forza gigantesca, senza
serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza nei fini più
seri e più frivoli: ciò che rende così comici Morgane, Mandricardo, Fracassa.
C' erano certo i fini cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa
degli oppressi; ma che parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici
non altrimenti che quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire,
di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano, quello che Doralice dicea a
Mandricardo, quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello
che aveva fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse: fu naturale ferità di core. - Lo
spirito italiano dunque da una parte metteva in caricatura il medio evo come un
giuoco disordinato di forze, e dall'altra gettava la base di una nuova età su
questo principio virile: che la forza è intelligenza, serietà di scopo e di
mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò che creava, rivelava una potenza
intellettuale, che precorreva l'Europa di un secolo. Ma in Italia c'era
l'intelligenza e non c'era la forza. E si credeva con la superiorità intellettuale
di potere cacciar gli stranieri. Era una intelligenza adulta, svegliatissima ma
astratta, una logica formale nella piena indifferenza dello scopo. Era la
scienza per la scienza, come l'arte per l'arte. Nella coscienza non c'era più
uno scopo nè un contenuto. E quando la coscienza è vuota, il cuore è freddo, e
la tempra è fiacca, anche nella maggiore virilità dell'intelletto. Il movimento
dello spirito era stato assolutamente negativo e comico. Agl'italiani era più
facile ridere delle forze indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere
degli stranieri che mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro
superiorità intellettuale e della loro decadenza morale. Mancava non la forza
fisica e non il coraggio che ne è la conseguenza, ma la forza morale, che ci
tenga stretti intorno ad una idea e risoluti a vivere e a morire per
quella. Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di questa decadenza o,
com'egli diceva, corruttela: Qui - scrive - è virtù grande nelle membra, quando
la non mancasse nei capi. Specchiatevi nei duelli e nei congressi de' pochi,
quanto gl'italiani siano superiori con le forze, con la destrezza, con
l'ingegno. Pure l'Italia era corrotta, perchè difettava di forze morali, e
perciò di un degno scopo che riempisse di sè la coscienza nazionale. Di lui è
questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono i danari nè le
fortezze nè i soldati, ma le forze morali o, com'egli dice, il patriottismo e
la disciplina. Di quella corruzione italiana la principal causa era il
pervertimento religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui Lutero
era il comento: La... religione, se nei principi della repubblica cristiana si
fusse mantenuta secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli
Stati e le repubbliche più unite e più felici assai ch'elle non sono. Nè si può
fare altra maggiore congettura della declinazione d'essa, quanto è vedere come
quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione
nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse
l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo senza
dubbio o la rovina o il flagello. Certo, non è ufficio grato dire dolorose
verità al proprio paese, ma è un dovere di cui l'illustre uomo sente tutta la
grandezza: Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia
oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi. Per
lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo. Il suo sguardo
abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in
Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de' franchi, il regno de'
turchi, quello del soldano, e le geste della
setta saracina, e le virtù de'
popoli della Magna al tempo suo. Lo spirito umano, immutabile e immortale,
passa di gente in gente e vi mostra la sua virtù. E quando getta l'occhio
sull'Italia, il paragone lo strazia. Le sue più belle pagine storiche sono dove
narra la decadenza di Genova, di Venezia, di altre città italiane, in tanto fiorire
degli Stati europei. Non adulare il suo paese, ma dirgli il vero, fargli
sentire la propria decadenza, perchè ne abbia vergogna e stimolo, descrivere la
malattia e notare i rimedi, gli pare ufficio di uomo dabbene. Questo sentimento
del dovere dà alle sue parole una grande elevatezza morale: Se la virtù che
allora regnava e il vizio che ora regna non fussero più chiari che il sole,
andrei col parlare più rattenuto. Ma, essendo la cosa così manifesta che
ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di
quelli e di questi tempi, acciocchè gli animi de' giovani, che questi miei
scritti leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli...
Perchè gli è ufficio d'uomo buono quel bene, che per la malignità de' tempi e
della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè,
essendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo.
Queste parole sono un monumento. Ci si sente dentro lo spirito di Dante.
Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con severità uomini e cose. Del
papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è più indulgente verso i principi:
Questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per
averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma l'ignavia loro; perchè, non
avendo mai ne' tempi quieti pensato che possano mutarsi... quando poi vennero i
tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a difendersi. Degli avventurieri De
Sanctis scrive: Il fine della loro virtù è stato che (Italia) è stata corsa
da Carlo, predata da Luigi, forzata da Ferrando e vituperata dai svizzeri;...
tanto che essi hanno condotta Italia schiava e vituperata. Ne è meno severo
verso i gentiluomini, avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa
maravigliosa pittura Gentiluomini sono
chiamati quelli che oziosi vivono dei proventi delle loro possessioni
abbondantemente, senza avere alcuna cura o di coltivare o di alcun'altra
necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni repubblica ed
in ogni provincia : ma più perniciosi sono quelli che, oltre alle predette
fortune, comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di
queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la
Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai stata
alcuna repubblica nè alcuno vivere politico, perchè tali generazioni d'uomini
sono nemici di ogni civiltà. Degna di nota è qui l'idea, tutta moderna, che il
fine dell'uomo è il lavoro e che il maggior nemico della civiltà è l'ozio: principio
che ha gettato giù i conventi ed ha rovinato dalla radice non solo il sistema
ascetico o contemplativo, ma anche il sistema feudale, fondato su questo fatto:
che l'ozio dei pochi viveva del lavoro dei molti. Un uomo, che con una sagacia
pari alla franchezza nota tutte le cause della decadenza italiana, poteva ben
dire, accennando a Savonarola: Ond'è che a Carlo, re di Francia, fu lecito
pigliare Italia col gesso; e chi diceva come di questo ne erano cagione i
peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quelli che credeva, ma questi
ch'io ho narrati. Gli oziosi sono fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna o la
sfortuna. Anche allora dei mali d'Italia accusavano la mala sorte. Machiavelli
scrive: La fortuna... dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a
resisterle, e quivi rivolge i suoi impeti dove sa che sono fatti gli argini e i
ripari a tenerla. E se voi considererete l'Italia, che è la sede di queste
variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza
argini e senza alcun riparo. Essendo l'Italia in quella corruttela,
Machiavelli invoca un redentore, un principe italiano, che, come Teseo o Ciro o
Mosè o Romolo, la riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda
l'opera di uno solo, a governarlo l'opera di tutti. Ne' grandi pericoli i
romani nominavano un dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non
vede altro scampo che nella dittatura: Cercando un principe la gloria del
mondo, dovrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla
in tutto, come Cesare, ma per riordinarla, come Romolo. Di Cesare -scrive un
giudizio originale rimasto celebre: Nè sia alcuno che s'inganni per la gloria
di Cesare, sentendo le massime celebrate dagli scrittori; perchè questi che lo
laudano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza
dell'imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli
scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli
scrittori liberi ne direbbero, veda quello che dicono di Catilina. E tanto è
più detestabile Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha fatto che
quello che ha voluto fare un male. Vedasi pure con quante laudi celebrano
Bruto; talchè, non potendo biasimare quello per la sua potenza, essi celebrano
il nemico suo... E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia e il
mondo abbia con Cesare. Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con la
forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo: Considerino
quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro proposte due vie:
l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte lì rende gloriosi; l'altra li fa
vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di sè una sempiterna
infamia. Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo, che sani l'Italia dalle
sue ferite, e ponga fine... a' sacchi di Lombardia, alle espilazioni e taglie
del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo
infistolite E' l'idea tradizionale del
redentore o del messia. Anche Dante invocava un messia politico, il
veltro. Se non che, il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di
Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell'impero: dove il
salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano, perchè la sua
Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di essa era straniero,
barbaro, oltramontano. Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano da
Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica Monarchia dell'uno col
Principe dell'altro, così moderno ne' concetti e nella forma. L'idea del
Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di Dante. Ed oggi è facile
assegnarne le ragioni. Patria, libertà, Italia,
buoni ordini, buone armi, erano
parole per le moltitudini, dove non era penetrato alcun raggio d'istruzione e
di educazione. Le classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita
privata, tra ozi idillici e letterari, erano cosmopolite, animate dagli
interessi generali dell'arte e della scienza, che non hanno patria. Quell'Italia
di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva
quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la spaventarono con la ferocia
degli atti e dei modi; poi la vinsero con le moine, inchinandola e celebrando
la sua sapienza. E per lungo tempo gl'italiani, perduta libertà e
indipendenza, continuarono a vantarsi, per bocca dei' loro poeti, signori del
mondo e a ricordare le avite glorie. Odio contro gli stranieri ce n' era,
ed anche buona volontà di liberarsene. Ma c'era così poca fibra, che di una
redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli fu
una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio, per giungere alla sua
attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e
poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le aspirazioni di un nobile
cuore che la calma persuasione di un uomo politico. Furono illusioni. Vedeva
l'Italia un po' di traverso dai suoi desidèri. Il suo onore, come cittadino, è
di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come pensatore, è di avere
stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e
della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno
lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la
verità del futuro. Non è meraviglia che il Machiavelli, con tanta esperienza
del mondo, con tanta sagacia d'osservazione, abbia avuto illusioni, perchè
nella sua natura c'è entrato molto del poetico. Vedilo nell'osteria giocare con
l'oste, con un mugnaio, con due fornaciari a
picca e a trie trac : E... nascono mille contese e
mille dispetti di parole ingiuriose, e il più delle volte si combatte un
quattrino, e siamo sentiti nondimanco gridare da San Casciano. Questo non
è che plebeo, ma diviene profondamente poetico nel comento appostovi: Rinvolto
in quella viltà, traggo il cervello di muffa e sfogo la malignità di questa mia
sorte, sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne
vergognasse. Vedilo tutto solo per il bosco, con un Petrarca o con un
Dante, libertineggiare con lo spirito, fantasticare, abbandonalo
alle onde dell'immaginazione: Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel
mio scrittoio; ed in sull'uscio mi spoglio quella vesta contadina piena di
fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito decentemente
entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto
amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui;
dove io non mi vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro
azioni, ed essi per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di
tempo alcuna noia, e dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi
sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro. Quel trasferirsi in loro, quel libertineggiare sono frasi energiche di uno spirito
contemplativo, estatico, entusiastico. C'è una parentela tra Dante e
Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito
del Boccaccio, che si beffa della divina
commedia e cerca la commedia in questo
mondo. Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e
divinatrice. Ecco il principe leva la bandiera, grida : - Fuori i barbari! ---
a modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua
immaginazione: Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero
l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe
l'ossequio? E finisce co' versi del Petrarca Virtù contro al Furore
prenderà l'arme, e fia il combatter corto : chè l'antico valore negl'italici
cuor non è ancor morto. Ma furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la
bella immagine di un mondo morale e civile e di un popolo virtuoso e
disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi
biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo disforme alla realtà,
ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo simile per molte parti
ai suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera musa non è l'entusiasmo: è
l'ironia. La sua aria beffarda, congiunta con la sagacia dell'osservazione, lo
chiariscono uomo del Risorgimento. De' principi ecclesiastici scrive:
Costoro soli hanno Stati e non li difendono, hanno sudditi e non li governano,
e gli Stati per essere indifesi non sono loro tolti, e i sudditi per non essere
governati non se ne curano, nè pensano nè possono alienarsi da loro... Essendo
quelli retti da cagione superiore, alla quale la mente umana non aggiugne,
lascerò il parlarne; perchè, essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe
ufficio d'uomo presuntuoso e temerario il discorrerne. In tanta riverenza di
parole, non è difficile sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio
ironico che trovi nei contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per
l'originalità e vivacità dell' osservazione. Dei francesi e spagnuoli scrive:
Il francese ruberia con lo alito, per mangiarselo e mandarlo a male, e
goderselo con colui a chi lo ha rubato. Natura contraria alla spagnuola, che di
quello che ti ruba mai ne vedi niente. Da questo profondo ed originale talento
di osservazione, da questo spirito ironico uscì la Mandragola: l'alto riso nel
quale finirono le sue illusioni e i suoi disinganni. Dopo i primi
tentativi idillici, la commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e di
Terenzio. L'Ariosto scriveva per la corte di Ferrara; il Cardinale di Bibbiena
scriveva per le corti di Urbino e di Roma. Vi si rappresentavano anche con
molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora gli attori erano fanciulli. Fu
pur troppo nuova cosa - scrive il Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un
palmo servare quella gravità, quelli gesti così severi, [simular] parassiti e
ciò che fece mai Menandro. Accompagnamento alla commedia era la musica, e
intermezzi o intromesse erano le moresche, balli mimici. Le decorazioni
magnifiche. Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi un
tempio... tanto ben finito - dice il Castiglione, - che... non saria possibile
a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con
istorie bellissime: finte le finestre d'alabastro: tutti gli architravi e le
cornici d'oro fino e azzurro oltramarino...: figure intorno tonde finte di
marmo...: colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era
finta di marmo, ma era pittura, la istoria delli tre Orazi, bellissima... In
cima dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un
bello atto, che feria con un'asta un nudo che gli era a' piedi. L'Italia
si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti: architettura, scultura,
pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro
intromesse, una moresca di Iasòn o Giasone, un carro di Venere, un carro di
Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal Castiglione:
La prima fu una moresca di Iasòn, il quale comparse nella scena da un capo
ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa bellissima;
dall'altro furon visti in un tratto due tori, tanto simili al vero che alcuni
pensaron che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca, ecc. A questi
s'accostò il buon Iasòn, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro; e poi
seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco, del palco, uomini armati
all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono una
fiera moresca, per ammazzar Iasòn; e poi, quando furono all'entrare,
s'ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se
n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando
eccellentissimamente. E questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa.
Finita la commedia nacque sul palco all'improvvisto un amorino, che dichiarò
con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi s'udì una musica nascosa
di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con
un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore; e così fu finita la
festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide;.....dice sempre il
Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte ad
ordinarla. Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e poi
Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un
facsimile di Calandrino, il marito sciocco: motivo comico del Decamerone,
rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante
o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e
una sorella similissimi di figura, che, vestiti or da uomo or da donna,
generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco c' è anche il furbo, e il
furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il
cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e
Fessenio: il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia. Come si
vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è antica,
lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche
novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è vivo e
fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di Lorenzo
de’MEDICI (si veda). E' uno sguardo allegro e superficiale gettato sul mondo. I
caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti
più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili
a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che
quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la
loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta
nelle gole dei cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie
dette d'intreccio, sullo stesso stampo
delle novelle. A prima vista, ti pare qualcosa di simile la Mandragola. Anche
qui vi è grande varietà d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani.
Ma niente è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia come ha
concepito la storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna
di qualità proprie, che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato.
L'interesse è perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è
il solito marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo
istruito e che sa di latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor
dottrina dì lui ma più pratica del mondo. C è già qui un concetto assai più
profondo che non in Calandro: si sente il grande pensatore. L'obbiettivo
dell'azione comica è la moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera
Lucrezia. E si tratta di vincerla non con la forza, ma con l'astuzia. Gli
antecedenti sono simili a quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto,
sente vantar la sua bellezza, e lascia Parigi e torna a Firenze sua patria,
risoluto di farla sua. La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina.
Il mondo è mutato e rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia. Come Machiavelli
ha potuto esercitare il suo ingegno a scriver commedie? Scusatelo con
questo: che s'ingegna con questi van pensieri fare il suo tristo
tempo più soave, perchè altrove non ave dove voltare il viso;
chè gli è stato interciso mostrar con altre imprese altre virtue, non
sendo premio alle fatiche sue. Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è
frutto di malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de' Medici e
Federigo d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore; il cardinale da
Bibbiena, assassinato di amore, e il
Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno scrivea gli Asolanie l'altro
la Calandria; e Machiavelli parlava al deserto, ammonendo, consigliando; e non
udito e non curato, fece come gli altri: scrisse commedie, ed ebbe l'onore di
far ridere molto il papa e i cardinali. Callimaco, l'innamorato di Lucrezia, si
associa all'impresa Ligurio, un parassito che usava in casa Nicia. Lo sciocco è
Nicia: il furbo è Ligurio, l'amico di casa, come si direbbe oggi. Ligurio tiene
le fila in mano, e fa muovere tutti gli attori a suo gusto, perchè conosce il
loro carattere, ciò che li muove. Ligurio è un essere destituito d'ogni senso
morale e che per un buon boccone tradirebbe Cristo. Non ha bisogno di essere
Jago, perchè Nicia non è Otello. E' un volgare mariuolo, che con un po' più di
spirito farebbe ridere. Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo di uomo che
abbia nel Principe concepito Machiavelli. Fessenio è più allegro e più
spiritoso, perciò più tollerabile. Ciò che muove Ligurio e gli aguzza lo
spirito è la pancia: finisce le sue geste in cantina. Ma questo suo lato comico
è appena indicato, e questa figura ti riesce volgare e fredda. Un altro
associato di Callimaco è il suo servo Siro. Costui ha poca parte, ma è assai
ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce tutto; ed ha aria di non udire,
non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo ai' suoni. Ma questo lato comico è
poco sviluppato, e ti riesce anche lui freddo: ciò che non guasta nulla,
essendo una parte secondaria. Colui, che è dietro la scena e fa ballare i suoi
figurini, è Ligurio. E sembra che l'ambizione di questo furfante sia di
nascondere sè e mettere in vista tutto il suo mondo. Poco interessante per se
stesso, lo ammiri nella sua opera e perdi lui di vista. Callimaco è un
innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false. La parte odiosa è
riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i deliri. Non è amore
petrarchesco e non è cinica volgarità: è vero amor naturale coi colori suoi,
rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende comico... Mi fo
di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte mi assalta tanto desio
d'essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante dei piè al capo
tutto alterare : le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si
sbarba del petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi
abbarbagliano, il cervello mi gira. Ma queste sono figure secondarie.
L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, sì sciocco che
diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui stesso al
letto nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie, concentra
il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi più acconci a
metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con tanta presunzione di
saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto comico se ne
accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene sempre la
candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle ultime scene c' è
una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel teatro antico e
moderno. Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia. L'azione,
così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e ti rivela
inesplorate profondità. Gli strumenti adoperati a vincer Lucrezia sono il
confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza superstiziosa
dell'altra. E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente
ignudo: scopre senza pietà quel putridume. Sostrata, la madre, in poche
pennellate è ammirabilmente dipinta. E' una brava donna, ma di poco criterio, e
avvezza a pensare col cervello del suo confessore. Alle ragioni
della figliuola risponde: - Io non ti so
dir tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà,
e farai quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol
bene. - E non si parte mai di là: è la sua idea fissa, la sua sola idea: - Io t'ho detto e ridicoti che, se fra Timoteo
ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi. -
Il confessore sa perfettamente che madre è questa. -... E'... una bestia - dice
- e mi sarà un grande aiuto a condurla (Lucrezia) alle mie voglie.
Il carattere più interessante è fra Timoteo, precursore di Tartufo: meno
artificiale, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa, della Madonna, del
purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega redde poco. E lui
aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che non sanno mantenere la
reputazione all'immagine miracolosa della Madonna: Io dissi il matutino, lessi
una Vita de' santi padri, andai in chiesa, ed accesi una lampada ch'era spenta,
mutai il velo ad una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi
frati che la tengano pulita? E si meravigliano poi se la devozione manca... Oh
quanto poco cervello è in questi miei frati! Il suo primo ingresso sulla scena
è pieno di significato: colto sul fatto in un dialogo con una sua penitente:
pittura di costumi profonda della sua semplicità. Sta spesso in chiesa, perché
in chiesa vale più la sua mercanzia. E' di mediocre levatura, buono a uccellar
donne:...Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà, e
tutte le donne hanno poco cervello; e come n'è una che sappia dire due parole,
e' se de predica; perché in terra di ciechi chi ha un occhio è signore. Conosce
bene i suoi polli: Le più caritative persone che ci siano son le donne, e le
più fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene,
ha l'utile e i fastidi insieme. Ed è il vero che non c è il miele senza le
mosche. Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del
mestiere con la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine. A Ligurio,
che, promettendo larga lemosina, gli richiede che procuri un aborto, risponde:
- Sia col nome di Dio, si faccia ciò che
volete, e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa... Datemi... cotesti denari,
da poter cominciare a far qualche bene. - Parla spesso solo, e sì fa il
suo esame, e si dà l'assoluzione, sempre che gliene venga utile: Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da
ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che sia
segreta, perchè l'importa così a loro dirla come a me. Sia come si voglia, io
non me ne pento. Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia Dio sa ch'io
non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio
officio, intratteneva i miei devoti. Mi capitò innanzi questo diavolo di
Ligurio, che mi fece intíngere il dito in un errore, donde io vi ho messo il
braccio e tutta la persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi
conforto che, quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura. Questo
è l'uomo a cui la madre conduce la figliuola. Il frate impiega tutta la sua
industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa
del Vangelo e della storia sacra: Io son contenta - conclude Lucrezia; - ma non
credo mai esser viva domattina. E il frate risponde: Non dubitare, figliuola
mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiol Raffaello, che
t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo misterio, chè si fa
sera. Rimanete in pace, padre - dice la madre; e la povera Lucrezia, che non è
ben persuasa, sospira Dio m'aiuti e la Nostra Donna ch'io non càpiti male. Quel
fatto il frate lo chiama un misterio, e
il mezzano è l' angiol Raffaello !
Queste cose movevano indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In
Italia faceva invece ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male
diviene così sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena e
non vi è rimedio. Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria,
passatempo. Nel riso del Machiavelli c'è alcunchè di tristo e di serio, che
oltrepassa la caricatura e nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia
confidenza con Timoteo, non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne
sta lontano, quasi abbia ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida,
senz'immaginazione e senza spirito: non è abbastanza idealizzato, ha colori
troppo crudi e cinici. Lo stile, nudo e naturale, ha aria più di discorso che
di dialogo. Senti meno il poeta che il critico, il grande osservatore e
ritrattista. Appunto perciò la Mandragola è una commedia che ha fatto il
suo tempo. E' troppo incorporata in quella società, in ciò ch'ella ha di più
reale e particolare. Quei sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono,
non li trovi oggi più. La depravazione del prete e la sua terribile influenza
sulla donna e sulla famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue non
possiamo farne una commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella
pittura di Nicia, qui perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assomiglia
piuttosto un anatomico che snuda le carni e mostra i nervi e i tendini.
Nella sua immaginazione non c'è il riso e non c'è l'indignazione al cospetto di
Timoteo: c'è quella spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe o
l'avventuriero o il gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso
osservatore, egli analizza e descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle
emozioni e alle impressioni. La Mandragola è la base di tutta una nuova
letteratura. E' un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità,
come un mondo governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si
nascondono le più profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso
dell'azione viene da forze spirituali, inevitabili come il fato. Basta
conoscere i personaggi per indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come
una conseguenza, le cui premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle
forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle, colui vince. Il
soprannaturale, il meraviglioso, il caso sono detronizzati. Succede il
carattere. Quello, che Machiavelli è nella storia e nella politica, è ancora
nell'arte. Si distinsero due specie di commedie : d'intrecci e di caratter.
Commedia d'intrecci fu detta dove l'interesse nasce dagli sviluppi dell'azione,
come erano tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche tragedie. Si
cercava l'effetto nella stranezza e nella complicazione degli accidenti. Commedia di carattere fu detta dove l'azione è mezzo a mettere in
mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da una parte commedie
sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra commedie scarne per troppa
povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due qualità. La sua commedia è una
vera e propria azione, vivacissima di movimenti e di situazioni, animata da
forze interiori, che ci stanno come forze o istrumenti e non come fini o
risultati. Il carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come
qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le
forme più allegre e più corpulente, fino della più volgare e cinica buffoneria,
come è il don Cuccù, e la palla di aloè. C'è lì tutto Machiavelli,
l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio. Di ogni
scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte è morta: quella
per la quale è venuto a triste celebrità. E' la sua parte più grossolana, è la
sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua vitale, così vitale che
è stata detta il machiavellismo. Anche oggi, quando uno straniero vuol
dire un complimento all'Italia, la chiama patria di Dante e di Savonarola, e
tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo chiamarci figli di Machiavelli. Tra
il grande uomo e noi c'è il machiavellismo. E' una parola, ma una parola
consacrata dal tempo, che parla all'immaginazione e ti spaventa come fosse
l'orco. Del Machiavelli è avvenuto quello che del Petrarca. Si è chiamato
petrarchismo quello che in lui è un incidente
ed è il tutto ne' suoi imitatori. E si è chiamato machiavellismo quello che nella sua dottrina è accessorio e
relativo, e si è dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente. Così
è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e dal meno
interessante. E' tempo di rintegrare l'immagine. C'è nel Machiavelli una
logica formale e c'è un contenuto. La sua logica ha per base la serietà
dello scopo, ciò ch'egli chiama virtù :
Proporti uno scopo quando non puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina. Essere
uomo significa marciare allo scopo. Ma nella loro marcia gli uomini errano
spesso, perchè hanno l'intelletto e la volontà intorbidata da fantasmi e da
sentimenti, e giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli
quelli che stimano le cose come le paiono e non come le sono, a quel modo che
fa la plebe. Cacciar via dunque tutte le vane apparenze e andare allo
scopo con lucidità di mente e fermezza di volontà, questo è essere un uomo,
aver la stoffa d'uomo. Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo
buono o un tristo. Ciò è fuori dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo.
Ciò che riguarda Machiavelli è di vedere se è un uomo: ciò che mira è rifare le
radici alla pianta uomo, in
declinazione. In questa sua logica la virtù è il carattere o la tempra, e il
vizio è l'incoerenza, la paura, l'oscillazione. Si comprende che in questa
generalità c'è lezioni per tutti, per ibuoni e per i birbanti, e che lo stesso
libro sembra agli uni il codice dei tiranni e agli altri il codice degli uomini
liberi. Ciò che vi s'impara è di essere un uomo, come base di tutto il
resto. Vi s'impara che la storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma
da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla concordanza dello scopo e
de' mezzi; e che l'uomo, come essere collettivo o individuo, non è degno di
questo nome se non sia anche esso una forza intelligente, coerenza di scopo e
di mezzi. Da questa base esce l'età virile del mondo, sottratta possibilmente
all'influsso dell'immaginazione e delle passioni, con uno scopo chiaro e serio
e con mezzi precisi. Questo è il concetto fondamentale, l'obbiettivo del
Machiavelli. Ma non è principio astratto e ozioso: c'è un contenuto, che
abbiamo già delineato ne' tratti essenziali. La serietà della vita
terrestre col suo strumento, il lavoro; col suo obbiettivo, la patria; col suo
principio, l'eguaglianza e la libertà; col suo vincolo morale, la nazione; col
suo fattore, lo spirito o il pensiero umano, immutabile ed immortale; col suo
organismo, lo Stato, autonomo e indipendente; con la disciplina delle forze;
con l'equilibrio degl'interessi: ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente
nel mondo del Machiavelli, a cui è di corona la gloria, cioè l'approvazione del
genere umano, ed è di base la virtù o il carattere: altere et pati fortia. Il fondamento
scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te la porge l'esperienza
e l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento, l'astrazione sono così
perniciosi nella scienza come nella vita. Muore la scolastica : nasce la
scienza. Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi giovane ancora. E' il
programma del mondo moderno, sviluppato, corretto, ampliato, più o meno
realizzato. E sono grandi le nazioni che più vi si avvicinano. Siano dunque
alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui quando crolla alcuna parte
dell'antico edificio, e gloria a lui quando si fabbrica alcuna parte del nuovo
! In questo momento che scrivo (1870), le campane suonano a distesa e
annunziano l'entrata degl'italiani a Roma. Il potere temporale crolla, e si
grida il viva all'unità d'Italia. Sia
gloria al Machiavelli ! Scrittore non solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle
sue transazioni politiche discerni sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale,
antifeudale, civile, moderno. E quando, stretto dal suo scopo, propone certi
mezzi, non di rado s'interrompe, protesta, ha quasi aria di chiederti scusa e
di dirti: - Guarda che siamo in tempi corrotti; e se i mezzi son questi e il
mondo è fatto così, la colpa non è mia. Ciò che è morto del Machiavelli
non e il sistema, è la sua esagerazione. La sua patria mi rassomiglia troppo
l'antica divinità, e assorbe in sè religione, moralità, individualità. Il
suo Stato non è contento di essere esso autonomo, ma
toglie l'autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i dritti dello Stato: mancano
i dritti dell'uomo. La ragione di
Stato ebbe le sue forche, come
l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la salute pubblica le sue mannaie.
Fu Stato di guerra, e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe
la sua culla sanguinosa il mondo moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da
quelle lotte uscì la libertà di coscienza, l'indipendenza del potere civile e
più tardi la libertà e la nazionalità. E se chiamate machiavellismo quei mezzi,
vogliate chiamare machiavellismo quei fini. Ma i mezzi sono relativi e si
trasformano, sono la parte che muore: i fini rimangono eterni. Gloria del
Machiavelli è il suo programma; e non è sua colpa che l'intelletto gli abbia
indicati de' mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò conformi alla logica
del mondo. Fu più facile il biasimarli che sceglierne altri. Dura lex, sed ita
lex. Certo, oggi il mondo è migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non
sarebbero più tollerati e produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne
attendeva Machiavelli: allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico, il
tradimento, la frode, le sètte, le congiure sono mezzi che tendono a
scomparire. Presentiamo già tempi più umani e civili, dove non sono più
possibili la guerra, il duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato
e la salute pubblica. Sarà l'età dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e
non ci sarà altra gara che d'industrie, di commerci e di studi. E' un bel
programma. E quantunque sembri un'utopia, non dispero. Ciò che lo spirito concepisce,
presto o tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso e nell'avvenire. Ma
siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche dai nostri tempi. E non è con i
criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che possiamo
giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: -
Crudele è la logica della storia; ma quella è. Nel machiavellismo c'è una
parte variabile nella qualità e nella quantità, relativa al tempo, al luogo,
allo stato della coltura, alle condizioni morali de' popoli. Questa parte, che
riguarda i mezzi, è molto mutata, e muterà in tutto, quando la società sarà
radicalmente rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è assoluta ed eterna, perchè
fondata sulle qualità immutabili della natura umana. Il principio, dal quale si
sviluppa quella teoria, è questo: che i mezzi debbono avere per base
l'intelligenza e il calcolo delle forze che muovono gli uomini. E' chiaro che
in queste forze c'è l'assoluto e il relativo; e il torto del Machiavelli,
comunissimo a tutti i grandi pensatori, è di avere espresso in modo assoluto
tutto, anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile. Il
machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l'uomo
considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua
natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua
grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società. Su questa base
sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze sociali. Gli inizi della
scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura classica
unisca esperienza grande e un intelletto chiaro e libero. Questo è il
machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la
sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo sui rottami del
medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i
vacillamenti dell'uomo politico: un mondo fondato sulla patria, sulla
nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità e
serietà dell'uomo. In letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è la
storia e la politica emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali, e
condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli studi positivi dell'uomo
e della natura, messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il
linguaggio purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico, e
ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. E'
l'ultimo e più maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima
Francesco Guicciardini, con tutti gli scrittori politici della scuola
fiorentina e veneta; poi GALILEI (si veda), con la sua illustre coorte di
naturalisti. GUICCIARDINI (si veda), di pochi anni più giovane di Machiavelli e
di BUONARROTI (si eda), già non sembra della stessa generazione. Senti in lui
il precursore di una generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli ha
scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli.
Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l'Italia unita. Vuole anche la libertà,
concepita a modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si
avvicina ai presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desidèri,
e non metterebbe un dito a realizzarli. Tre cose - scrive - desidero
vedere innanzi alla mia morte; ma dubito che io viva molto, da non vederne
alcuna: uno vivere in una repubblica bene ordinata nella città nostra; l'Italia
liberata da tutti i barbari; e liberato il mondo della tirannide di questi
scellerati preti. Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia delle
nazioni, l'affrancamento del laicato: ecco il programma del Machiavelli,
divenuto il testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di
tutta la parte civile europea. Si può credere che questi fossero i desidèri
anche delle classi colte. Ma erano amori platonici, senza influsso nella
pratica della vita. Il ritratto di quella società è il Guicciardini, che
scrive: Conoscere non è mettere in atto.
Altro è desiderare, altro è fare. La teoria non è la pratica. Pensa come vuoi,
ma fai come ti torna. La regola della vita è
l'interesse proprio, il tuo particulare. Il Guicciardini biasima l'ambizione, l'avarizia e la mollezza de'
preti e il dominio temporale
ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre questa caterva di scellerati ai tempi debiti,
a restare o senza vizi o senza autorità
; ma per il suo particulare è
necessitato amare la grandezza de' pontefici e servire ai preti e al dominio
temporale. Vuole emendata la religione in molte parti; ma non ci si
mescola, lui, non combatte con la
religione nè con le cose che pare che dipendono da Dio, perchè questo ha troppa
forza nella mente delli sciocchi. Ama la gloria e desidera di fare cose grandi
ed eccelse, ma a patto che non sia con suo danno o incomodità. Ama la patria,
e, se perisce, gliene duole, non per lei, perchè così ha a essere, ma per sè, nato in tempi di tanta infelicità. E' zelante
del ben pubblico, ma non s'ingolfa tanto
nello Stato da mettere in quello tutta
la sua fortuna. Vuole la libertà, ma, quando la sia perduta, non è bene fare
mutazioni, perchè mutano i visi delle
persone, non le cose, e non puoi fare fondamento sul popolo, e, quando la vada
male, ti tocca la vita spregiata del
fuoruscito. Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che governano non ti abbiano in sospetto e
neppure ti pongano fra' malcontenti. Quelli che altrimenti fanno sono
uomini leggeri. Molti, è vero,
gridano libertà, ma in quasi tutti prepondera il rispetto
dell'interesse suo. Essendo il mondo fatto così, devi pigliare il mondo com'è,
e far in modo che non te ne venga danno, anzi la maggiore comodità possibile.
Così fanno gli uomini savi. La
corruttela italiana era appunto in questo: che la coscienza era vuota e mancava
ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo al cammino della
vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non c'è più il cielo per lui,
ma c'è ancora la terra. Il Guicciardini ammette anche lui questi fini,
come cose belle e buone e desiderabili; ma li ammette sub conditione, a patto
che sieno conciliabili col tuo
particulare, come dice, cioè col tuo interesse personale. Non crede alla
virtù, alla generosità, al patriottismo, al sacrificio, al disinteresse. Ne'
più prepondera l'interesse proprio, e mette sè francamente tra questi più, che
sono i savi ; gli altri li chiama pazzi,
come furono i fiorentini, che vollero
contro ogni ragione opporsi, quando i
savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta, e intende dell'assedio di
Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra' quali erano
Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela italiana e non
dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella
generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e
non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia con la loro caduta. Nel
Guicciardini compare una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perché
non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure e ne fa la sua
saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana
codificata e innalzata a regola della vita. Il Dio del Guicciardini è il suo
particolare. Ed è un Dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici o lo
Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali scompaiono. Ogni vincolo religioso,
morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla
scena del mondo che l'individuo. Ciascuno per sè, verso e contro tutti. Questo non
è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e
inculcata, è l'arte della vita. Il Guicciardini si crede più savio del
Machiavelli, perché non ha le sue illusioni. Quel venir fuori sempre con
l'antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto sanguinoso: Quanto si
ingannano coloro che ad ogni parola allegano e' romani! Bisognerebbe avere una
città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esemplo:
il quale a chi ha le qualità disproporzionali è tanto disproporzionato, quanto
sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo. In questo
concetto della vita il Guicciardini è di così buona fede, che non sente rimorso
e non mostra la minima esitazione, e guarda con un'aria di superiorità sprezzante
gli uomini che fanno altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non per virtù o
altezza d'animo, ma per debolezza di
cervello, avendo offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni, dalle
vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui giunge
lo spirito italiano, già adulto e progredito, che caccia via l'immaginazione e
l'affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello o, come dice il
Guicciardini, ingegno positivo. Perché
l'ingegno sia positivo si richiede la
prudenza naturale, la
dottrina che dà le regole,
l' esperienza che dà gli esempli, e il naturale buono, tale cioè che stia al reale e
non abbia illusioni. E non basta. Si richiede anche la discrezione
o il discernimento, perché è
grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e
assolutamente e, per dire così, per regola, perché quasi tutte hanno
distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si trovano
scritte in su' libri, ma bisogna le insegni la discrezione. Il vero libro della
vita è dunque il libro della discrezione,
a leggere il quale si richiede da natura
buono e perspicace occhio. La dottrina sola non basta, e non è bene stare al giudicio di quelli che scrivono, e
in ogni cosa volere vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a
mettere in speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di
corpo, in modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di
dotti. L'uomo positivo vede il mondo diverso da quello che ai volgari
pare. Non crede agli astrologi, ai teologi, ai filosofi e a tutti quelli
che scrivono le cose sopra natura o che non si vedono e dicono mille pazzie : perchè in effetti gli uomini sono al buio
delle cose, e questa indagine ha servito e serve più a esercitare gli ingegni
che a trovare la verità. Questa base intellettuale è quella medesima del
Machiavelli: l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo speculare
o l'osservare. Nè altro è il sistema. Il Guicciardini nega tutto quello
che il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa; e ammette quello che il
Machiavelli ammette. Ma è più logico e più conseguente. Poichè la base è il
mondo com'è, crede un illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe
di cavallo quando esso le ha di asino; e lo piglia com'è, e vi si acconcia, e
ne fa la sua regola e il suo istrumento. Conoscere non è mettere in atto. Ciò
che è nella tua mente e nella tua coscienza non può essere di regola alla tua
vita. Vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con
tutti, perchè gli uomini si riscontrano.
Stai con chi vince, perchè te ne viene
parte di lode e di premio. Abbi appetito della roba, perchè la ti dà
reputazione, e la povertà è spregiata. Sii schietto, perchè, quando sia il caso
di simulare, più facilmente acquisti fede. Sii stretto nello spendere,
perchè più onore ti fa uno ducato che tu
hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi. Studia di parer buono, perchè il buon nome vale più che molte ricchezze.
Non meritarti nome di sospettoso; ma, perchè più sono i cattivi che i
buoni, credi poco e fidati
poco. Questo è il succo dell'arte della vita seguita da' più, ancorchè con
qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un
codice, fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza e sull'interesse
individuale. E' il codice di quella borghesia italiana, tranquilla, scettica,
intelligente, e positiva, succeduto ai codici d'amore e alle regole della
cavalleria. Ma il Guicciardini, con tutta la sua saggezza, trovò un altro più
saggio di lui, e, volendo usare Cosimo a benefizio suo, avvenne che fu lui
istrumento di Cosimo. Così finì la vita, come il Machiavelli, nella solitudine
e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni e i suoi disinganni, meno
nobili, meno degni della posterità, perchè si riferivano al suo particolare.
Ritirato nella sua villa d'Arcetri, il Guicciardini usò gli ozi a scrivere la
Storia d'Italia. Se guardiamo alla potenza intellettuale, è il lavoro più
importante che sia uscito da da mente italiana. Ciò che lo interessa non è la
scena, la parte teatrale o poetica, sulla quale facevano i loro esercizi
rettorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli altri storici. I fatti più
meravigliosi o commoventi sono da lui raccontati con una certa sprezzatura, come
di uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e non si commuove più di
nulla. Non ha simpatie o antipatie, non ha tenerezze e indignazioni, e neppure
ha programmi o preconcetti intorno ai risultati generali dei fatti e alle sorti
del suo paese. Il suo intelletto chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi
entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo svii. E' l'intelletto positivo, con
quelle qualità che abbiamo notate e che in lui sono egregie: la prudenza
naturale, la dottrina, l'esperienza, il naturale buono e la discrezione.
Meravigliosa è soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere
principi nè regole assolute, e giudicare caso per caso, guardando in ciascun
fatto la sua individualità, quel complesso di circostanze sue proprie, che lo fanno
esser quello e non un altro; dov'è la vera distinzione tra il pedante e l'uomo
d'ingegno. Con queste disposizioni, è naturale che lo interessa meno la scena
che il dietroscena, dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace. Ha
comune col Machiavelli il disprezzo della superficie, di ciò che si vede e si
dice il parere; e lo studio dell'essere, di ciò che è al di sotto e che non si
vede. Hai innanzi non la sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la
loro preparazione: li vedi nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e
vergognosi sono rivelati con la stessa calma di spirito che i motivi più
nobili. Ciò che l'interessa non è il carattere etico o morale di quelli, ma la
loro azione sui fatti. Il motivo determinante è l'interesse, ed è sagacissimo
nell'indagine non meno degl'interessi privati che degl'interessi detti
pubblici, e sono interessi di re e di corti. Ma gl'interessi hanno la
loro ipocrisia, e si nascondono sotto il manto di fini più nobili, come la
gloria, l'onore, la libertà, l'indipendenza: fini che escono in mezzo quando si
vuol cattivare i popoli o gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni,
una specie di rettorica ad usum delphini, voglio dire ad uso dei volgari, che
non guardano nel fondo e si lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e
gli eserciti vi stanno come strumenti, e i veri e principali attori sono pochi
uomini, che li muovono con la violenza e con l'astuzia, e li usano ai fini
loro. Lo storico avea intenzioni letterarie. La sua prosa, massime nei
Ricordi, ha la precisione lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e
semplicità e perfetta evidenza che l'avvicina agli esempli più finiti della
prosa francese, senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la lingua in questi
due scrittori giunge per vigore intellettuale ad un grado di perfezione che non
è stato più raggiunto. Ma GUICCIARDINI (si veda), di un giudizio così sano
nell'andamento de' fatti umani, aveva de' preconcetti in letteratura: opinioni
ammesse senza esame, solo perchè ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui, come
per i letterati di quel tempo, la tradizione del parlare e del discorso
naturale in un certo meccanismo molto complicato e a lui faticoso, quasi vi
facesse allora per la prima volta le sue prove. Molti uomini mediocri,
quali il Casa e il Castiglione e il Salviati e lo Speroni, vi riescono con
minore difficoltà, come disciplinati ed educati a quella forma. La sua
chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in visibile contrasto con
quei giri avviluppati e affannosi del suo periodo. Li diresti quasi artifici
diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le sue
intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza spinta sino al cinismo.
Sono artifici puramente letterari e rettorici. E sono rettorica le sue
circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue orazioni, le sue sentenze morali,
un certo calore d'immaginazione e di sentimento, una certa solennità di tuono.
Al di sotto di questi splendori artificiali trovi un mondo di una ossatura
solida e di un perfetto organismo, freddo come la logica ed esatto come la
meccanica, e che non è forse in fondo se non un corso di forze e d'interessi
seguiti nei loro più intimi recessi da un intelletto superiore. La Storia
d'Italia comincia con la calata di Carlo ottavo: finisce con la caduta di
Firenze. Appare in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo
terzo, il papa della Inquisizione e del concilio di Trento. Questo periodo
storico si può chiamare la tragedia
italiana, perchè in questo spazio di tempo l'Italia dopo un vano dibattersi
passa in potestà dello straniero. Ma lo storico non ha pur sentore
dell'unità e del significato di questa tragedia; e il protagonista non è
l'Italia e non è il popolo italiano. La tragedia c'è, e sono le grandi calamità
che colpiscono gl'individui: le arcioni, le prede, gli stupri, tutti i mali
della guerra. Avvolto fra tanti
atrocissimi accidenti, sagacissimo a indagarne i più riposti motivi nel
carattere degli attori e nelle loro forze, l'insieme gli fugge. La
Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e Francesco primo, la
trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l'Italia bilanciata di
Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e soggetta: questi fatti
generali preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più oscuri
pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista, che studi e classifichi
erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro
fisiologia, che li fa essere così o così. L'uomo vi appare come un essere
naturale, che operi così fatalmente come un animale, determinato all'azione da
passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa
necessità che l'animale è determinato da' suoi istinti e qualunque essere
vivente dalle sue leggi costitutive. Considerando l'uomo a questo
modo, lo storico conserva quella calma dell'intelletto, quell'apatia e
indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione de' fenomeni naturali.
Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è più
interessante, perchè la sua azione è meno spiegabile e attira più la sua
attenzione intellettuale. Di che si stacca questo concetto della storia: che
l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi
interni o dal suo carattere, e si può calcolare quello che farà e come
riuscirà, quasi con quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò
chi perde ha sempre torto, dovendo recarne la causa a se stesso, che ha mal
calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica storica
non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui come una specie di
macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla plebe: a noi poco interessanti,
perchè sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli, e
tutto il nostro interesse è concentrato nello studio dell'ingegno. Il
Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di fisica sociale, come si
direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gli individui, ma la
società e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi
sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gli
interessi, le opinioni, le forze che muovono gl'individui. E se vogliamo
trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo da imparare nelle
sue opere. Indi è che, come carattere morale, il segretario fiorentino
ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che sanno
mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine; e, come forza
intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù
sintetica, una larghezza di vedute, che manca in quello. E' un punto di
partenza nella storia, destinato a svilupparsi. Francesco De Sanctis. Nel 1512
quando ormai aveva più di quarant'anni (era nato a Firenze il 3 maggio 1469, da
antica e nobile famiglia) Niccolò Machiavelli veniva privato del suo ufficio e
veniva inviato al confino per un anno. Il provvedimento era abbastanza logico
perchè tutta l'attività diplomatica e politica di Machiavelli si era svolta al
servizio del regime repubblicano di Firenze e la sua continuazione non poteva
riuscire gradita ai Medici che rientravano nella loro città al seguito delle
vittoriose truppe spagnole. Machiavelli, dopo una giovinezza ( tra i grandi
scrittori italiani dedicata in parte agli studi e in parte agli svaghi, aveva
iniziato la sua attività pubblica nel maggio del 1498 (quando si era conclusa
col rogo l'avventura savonaroliana), ottenendo l'incarico di segretario della
seconda Cancelleria. Tale attività non aveva mai avuto un grande rilievo sul
piano della politica pratica, ma aveva permesso al segretario fiorentino di
acquistare esperienza diretta degli avvenimenti e dei rivolgimenti politici di
quegli anni tumultuosi che videro il crollo del sistema di stati italiani e
della nostra indipendenza e lo scontro, sul nostro territorio, delle due nuove
potenze europee, la Francia e la Spagna. E in Francia Machiavelli si recò
numerose volte, tanto da conoscere molto bene la struttura di questo stato e da
poter analizzare con precisione le ragioni della forza e del prestigio dei
Francesi e, insieme, le cause dei loro insuccessi. Ma non meno importanti
furono le esperienze che egli potè fare presso Cesare Borgia, l'inquieto
spregiudicato e ambizioso figlio naturale del papa Alessandro VI, che aspirava
alla creazione di un forte stato nell'Italia centrale e minacciava direttamente
e indirettamente Firenze. Presso il Valentino (così era chiamato il
Borgia) Machiavelli si recò due volte nel giugno e nell'ottobre del 1502 in
occasione della ribellione della Valle di Chiana contro il dominio fiorentino (
ribellione fomentata dal Valentino stesso ) e da tali legazioni potè trarre
argomento di ammirazione per l'energia, l'audacia, le capacità diplomatiche di
questo signore molto splendido e magnifico che diverrà poi quasi l'incarnazione
del suo principe. D'altra parte egli non fu solo testimone della fortuna del
Valentino, ma anche del crollo di tutte le sue ambizioni, perchè, dopo
l'improvvisa morte di Alessandro VI e il brevissimo pontificato di Pio III, fu
inviato dal governo fiorentino a Roma per seguire il conclave e potè assistere
all'elezione di Giulio II, nemico di Cesare Borgia e sua ultima ruina. In quella occasione, e in una
successiva legazione nel 1506, il Machiavelli potè anche rendersi conto del
temperamento del nuovo papa, dell'energia e del
furore che lo misero al centro
degli avvenimenti politici di quegli anni. Se si aggiunge che il 1507 il nostro
segretario si recò in Germania presso la corte imperiale ( rimanendovi per
oltre sei mesi ), che nel 1509 assistette alla resa di Pisa e soprattutto, alla
disfatta della maggiore potenza italiana, Venezia, e che, dal 1506 in poi,
negli intervalli fra una legazione e l'altra, fu incaricato di arruolare e
istruire un corpo di truppa cittadina, si vedrà quanto varia e complessa fosse
l'esperienza di Machiavelli. I problemi di fondo della politica europea
gli si erano così progressivamente chiariti: la necessità di uno stato unitario
moderno, la necessità di truppe non mercenarie, il dramma della divisione
italiana e della inettitudine della nostra classe dirigente. Questi problemi
egli era già venuto elaborando in una serie di scritti minori : Descrizione del
modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto
da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini; Del modo di trattare i
popoli della Valdichiana ribellati; Parole da dire sopra la provvisione del
denaio fatto in loco di pèroemio e di scusa; Discorso dell'ordinare lo stato di
Firenze in armi; Discorso sopra l'ordinanza e la milizia fiorentina; Ritratto
delle cose della Magna; Ritratto delle cose di Francia; il Decennale primo e il
Decennale secondo. E' del tutto comprensibile il cruccio del Machiavelli
vedendosi mettere da parte proprio nel momento in cui era giunto alla sua
completa maturità e poteva guardare le cose dall' alto di una ricchissima
esperienza. Ma i Medici furono inflessibili : in un primo tempo addirittura lo
imprigionarono ( e lo torturarono pure ), sospettando che avesse partecipato
alla congiura del Boscoli, poi lo tennero inoperoso per quasi otto anni, sino
al 1520, e infine gli assegnarono qualche incarico minore : di esprimere un
parere a riguardo della costituzione fiorentina ( e lui scrisse il Discorso
sopra il riformare lo stato di Firenze ), di narrare la storia della città ( di
qui le Istorie fiorentine ), di andare come ambasciatore presso la repubblica degli Zoccoli, cioè presso il
capitolo dei Frati minori di Carpi. Solo nel 1526 gli venne
affidato un incarico importante : quello di cancelliere dei Procuratori delle
mura, preposti alla difesa di Firenze. Ma i Medici vennero di nuovo scacciati e
Machiavelli, sospettato anche dal regime repubblicano, fu lasciato da parte.
Durante gli anni del suo ozio forzato, Machiavelli si ritira in una villa
presso San Casciano. Qui egli passava la giornata a caccia di uccelli, o nella
lettura dei poeti latini, o imbestialendosi nel giocare a tric-trac con l'oste,
il mugnaio, il beccaio, o infine standosene sulla porta dell'osteria e
scambiando impressioni e notizie coi passanti. Ma la sera si ritirava nel suo
studio e leggeva le antiche storie e interrogava gli antichi scrittori: e non
sento per quattro ore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la
povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro. E' dalle
meditazioni che ispira questa frequentazione con i vivi e con i morti, coi
passanti e i loro vari gusti e diverse fantasie e coi grandi uomini
dell'antichità, che nascono quasi d'un sol getto le grandi opere
machiavelliane: il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di LIVIO (si veda),
i dialoghi Dell'arte della guerra, la Vita di Castracani, La Mandragola.
Frequentazione con i vivi e con i morti, abbiamo detto. Ed è questo che fa
grande il Machiavelli, che gli permette di essere la coscienza più alta del
Rinascimento e di rappresentarlo nei suoi elementi dinamici, nel suo dramma
profondo, e non soltanto - come accadeva al Castiglione e al Bembo - nei suoi
elementi grandiosi ma statici. Il fatto, cioè, che egli sa stabilire, nello
stesso tempo, un contatto diretto col mondo classico e con le persone che lo
circondano. Per lui, rivolgersi all'antico non significa evadere dal presente.
Anzi. I problemi che affronta Machiavelli non sono mai problemi astratti (anche
quando sembra che lo siano ), non sono mai problemi che si pongono sul piano
delle categorie universali (moralità, utilità, politicità, e così via), ma sono
problemi collegati alla valutazione e alla soluzione di una situazione
storico-politica concreta, quella dell'Italia nei primi decenni del sec. XVI
Per questo non è la scoperta della categoria dell'utile diversa e distinta
dalla categoria della morale l'elemento caratterizzante del pensiero
machiavelliano: Non già che il problema dell'autonomia della politica, rispetto
alla morale, non sia stato effettivamente da lui posto. Basterebbe pensare al
capitolo del principe dedicato a coloro che per scelleranza sono venuti al
Principato con gli esempi di Agatocle e di Oliverotto da Fermo, all'esaltazione
del Valentino - ammirato nella sua abilità politica indipendentemente dai suoi
delitti - o al capitolo XVIII della stessa opera dove si pone il problema se i
principi debbano mantenere gli impegni presi. E se parlando di Agatocle il
Machiavelli sembrava ancora oscillare non sentendosela di identificare la virtù
- sia pure nella particolare accezione in cui egli usava questo termine di
energia e capacità - con le scelleratezze di Agatocle e di altri, qui egli non
manifesta più dubbi. La politica ha alcune leggi che non coincidono
sempre con con quella della morale: essere buono può sovente procurare la ruina
di un principe, al contrario, mancare di parola, ingannare, assassinare spesso
può salvare uno stato. Di qui l'accusa di immoralità che gli venne presto
rivolta, e la formula del fine che giustifica i mezzi che gli viene attribuita.
In realtà Machiavelli si limita a costatare scientificamente le due sfere
diverse in cui agiscono politica e morale. Si rende conto con chiarezza
dell'autonomia di una rispetto all'altra, non ne individua il punto di
congiunzione. Ma il secondo problema non lo interessava: la realtà effettuale
italiana non suggeriva certo un discorso sulla morale. Per questo l'interesse
del Principe si accentra tutto, invece, sulla figura del principe nuovo come la
sola che possa sciogliere positivamente la complessa trama della crisi
italiana: anzi fra l' elogio del Valentino e la condanna di Cesare.
Contraddizioni inesistenti se si considera che Il principe poneva soprattutto
il problema della creazione di uno stato nuovo nella situazione italiana di
quel periodo e i Discorsi pongono soprattutto il problema del mantenimento
dello stato, dei suoi ordinamenti migliori. Per la stessa ragione nei Discorsi
al popolo si dà un posto che non ha mai nel Principe, fino all'affermazione che
il popolo é più prudente, più stabile e
di migliore giudizio che un principe e
che se i principi sono superiori a'
popoli nello ordinare le leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed ordini
nuovi, i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate. Così
Machiavelli può arrivare a una stupefacente scoperta che sembra preludere alle
concezioni politiche moderne : che cioè le lotte fra patrizi e plebei non
indebolirono Roma, ma le permisero di raggiungere ordinamenti sempre più
perfetti. Insomma nei Discorsi l' argomentazione é più distesa e distaccata e
può, quindi, abbracciare un campo più vasto anche se meno omogeneo. Così
Machiavelli può riprendere il discorso sulla religione non tanto considerandola
uno strumento del potere costituito, quanto un costume morale che regola i
rapporti civili fra i cittadini come individui privati e, di conseguenza, rende
più ordinati e stabiliti i rapporti fra il cittadino e lo stato. Può riprendere
anche il discorso sulle milizie e sulla necessità di uno stato di ampliarsi,
ripudiando in questo modo definitivamente il concetto di città - stato e
sostenendo la necessità di uno stato con una larga base territoriale. Tale
collegamento alle cose e il carattere di ricerca della sua speculazione si
rivelano pienamente nella prosa e nello
stile stesso del segretario fiorentino, in questo tipo nuovo e liberale di
prosa in cui la sintassi é già consapevole della sua libertà ed
individualità e il ragionamento a piramide degli scolastici cede il posto al ragionamento a catena della prosa scientifica moderna. Il lettore
ha costantemente l' impressione di assistere e di essere chiamato a partecipare
a un laborioso processo di ricerca, irto di dubbi e di contraddizioni. La
prosa del Machiavelli non assomiglia mai a quella del maestro che squaderna
agli occhi del proprio allievo una verità della quale egli solo era in possesso
; essa piuttosto sollecita a provoca il lettore, cui si rivolge, di frequente,
con un tu perentorio e aggressivo, a farsi compagno e
sodale del suo autore, lo immedesima nei dubbi e nelle incertezze di questo. In
tal senso la prosa di MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda) é eminentemente
moderna. E quando d' improvviso il periodare serrato e incalzante del
segretario fiorentino s' impenna e si apre in una di quelle rappresentazioni o
formule condensate e chiarissime che sono tipiche della sua opera, il lettore
ha la sensazione di assistere al germinare di un' intuizione nuova preparata e
resa possibile da un lungo e penoso lavoro intellettuale, si sente partecipe
della gioia della scoperta e, al tempo stesso, stupito della semplicità
rivoluzionario della medesima. Insomma Machiavelli ha di fronte a sè una realtà
mortificante, la ruina d' Italia, nelle
sue istituzioni comunali o signorili, nei costumi dei suoi principi, nell'
avvilimento del popolo. Di qui il pessimismo della sua intelligenza, quel
contemplare distaccato e disgustare un mondo sordido e canagliesco, impastato
di bassi appetiti, di astuzie meschine, di stupidità e di ingordigia che sta al
fondo della Mandragola, il capolavoro del teatro del '500. Egli, però, ha
compreso l' importanza delle grandi formazioni di stati unitari verificatisi in
Europa, sa che in questa direzione si muove la storia e il progresso ed é
consapevole che il grande patrimonio della civiltà italiana potrebbe esprimere
il principe capace di imprimere un suggello su quella materia informe e
corrotta. Machiavelli non è un puro teorico, inteso a costruire
freddamente una teoria politica per così dire
in laboratorio : le sue concezioni scaturiscono dal rapporto diretto con
la realtà storica, in cui egli é impegnato in prima persona grazie agli
incarichi che ricopre nella Repubblica fiorentina, e mirano a loro volta ad
incidere in quella realtà, modificandola secondo determinate prospettive. Il
suo pensiero si presenta così come una stretta fusione di teoria e prassi : la
teoria nasce dalla prassi e tende a risolversi in essa. Alla base di tutta la
riflessione di Machiavelli vi é la coscienza lucida e sofferta della crisi che
l' Italia contemporanea sta attraversando : una crisi politica, in quanto l'
Italia non presenta quei solidi organismi statali unitari che caratterizzano le
maggiori potenze europee e appare frammentata in una serie di Stati regionali e
cittadini deboli e instabili ; crisi militare, in quanto si fonda ancora su
milizie mercenarie e compagnie di ventura, anzichè su eserciti cittadini, che soli possono garantire la
fedeltà, l' ubbidienza, la serietà di impegno ; ma anche crisi morale, perchè
sono scomparsi, o comunque si sono molto affievoliti, tutti quei valori che
danno fondamento saldo ad un vivere civile, e che per Machiavelli sono
rappresentati esemplarmente dall' antica Roma, l' amore per la patria, il senso
civico, lo spirito di sacrificio e lo slancio eroico, l' orgoglio e il senso
dell' onore, e sono stati sostituiti da un atteggiamento scettico e
rinunciatario, che induce ad abbandonarsi fatalisticamente al capriccio
mutevole della fortuna, senza reagire e senza lottare. Perciò, come hanno
dimostrato le guerre che si sono succedute dopo la calata dei Francesi, gli Stati
italiani sono prossimi a perdere la loro indipendenza politica e a divenire
satelliti delle potenze europee che si stanno disputando il territorio della
penisola. Per Machiavelli l' unica via d' uscita da una così straordinaria gravità de' tempi é un principe dalla straordinaria virtù
capace di organizzare le energie che potenzialmente ancora sussistono nelle
genti italiane e di costruire una compagine statale abbastanza forte da
contrastare le mire espansionistiche degli Stati vicini. A questo obiettivo
storicamente concreto é indirizzata tutta le teorizzazione politica di
Machiavelli, la quale perciò si riempie del calore passionale e dello slancio
di chi partecipa con fervore ad un momento decisivo della storia del proprio
paese. Ignorare queste radici pratiche immediate del pensiero machiavelliano
porterebbe a travisarne completamente il senso. Tuttavia quel pensiero non
resta limitato a quel campo così contingente, poichè altrimenti non avrebbe la
forza di sollecitare ancora tanto interesse : partendo da quella situazione
particolare, cercando di dare una risposta immediata ed efficace a quei
problemi di traumatica urgenza, Machiavelli elabora una teoria che aspira ad
avere una portata universale, a fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e
tutti i luoghi. Le radici pratiche immediate danno al suo pensiero quel calore,
quella passione che lo rendono affascinante e che conferiscono alle sue opere
uno straordinario valore letterario, ma poi la sua speculazione assume anche la
fisionomia di una vera teoria scientifica. Concordemente Machiavelli é
stato definito come il fondatore della moderna scienza politica: innanzitutto
egli determina nettamente il campo di questa scienza, distinguendolo da quello
di altre discipline che si occupano ugualmente dell' agire dell' uomo, come l'
etica. Machiavelli, poi, rivendica vigorosamente l' autonomia del campo dell'
azione politica : essa possiede delle proprie leggi specifiche, e l' agire
degli uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi : occorre
cioè, nell' analisi dell' operato di un principe, valutare esclusivamente se
esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere propri della politica,
rafforzare e mantenere lo Stato, garantire il bene dei cittadini. Ogni altro
criterio, se il sovrano sia stato giusto e mite o violento e crudele, se sia
stato fedele o abbia mancato alla parola data, non é pertinente alla
valutazione politica del suo operato. E' una teoria di sconvolgente novità,
veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura occidentale.
Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che avviene realmente nella
politica, non di delineare degli Stati ideali
che non si sono mai visti essere in vero. Proclama infatti di voler
andar dietro alla verità effettuale della cosa anzichè all'immaginazione di
essa, proprio perchè non gli interessa mettere insieme una bella costruzione
teorica, ma scrivere un' opera utile a
chi la intenda, fornire uno strumento concettuale di immediata applicabilità
alla politica reale e di sicura efficacia. Oltre al campo autonomo su cui
applica la nuova scienza, Machiavelli ne delinea chiaramente il metodo. Esso ha
il suo principio fondamentale nell' aderenza alla verità effettuale: proprio perchè vuole agire
sulla realtà ne deve tener conto e quindi per ogni sua costruzione teorica
parte sempre dall' indagine sulla realtà concreta, empiricamente verificabile,
mai da assiomi universali e astratti. Solo mettendo insieme tutte le varie
esperienze si può poi giungere a costruire principi generali. L' esperienza per
Machiavelli può essere di due tipi : quella diretta, ricavata dalla
partecipazione personale alle vicende presenti, e quella ricavata dalla lettura
degli autori antichi. Machiavelli le definisce ( nella dedica del
Principe ) rispettivamente esperienza
delle cose moderne e lezione delle antique. In realtà si tratta
solo apparentemente di due forme diverse perchè studiare il comportamento di un
politico contemporaneo o di uno vissuto cento anni fa é la stessa cosa, cambia
solo il veicolo della trasmissione dei dati, dell' informazione su cui lavorare,
ma il contenuto é lo stesso. Alla base di questo modo di accostarsi alla storia
vi é una concezione tipicamente naturalistica : Machiavelli é convinto che l'
uomo sia un fenomeno naturale al pari di altri e che quindi i suoi
comportamenti non variino nel tempo, come non variano il corso del sole e delle
stelle. Per questo ha fiducia nel fatto che, studiando il comportamento
umano attraverso le fonti storiche o l' esperienza diretta, si possa arrivare a
formulare delle vere e proprie leggi di validità universale. Proprio per questo
la sua storia é costellata di esempi tratti dalla storia antica : essi sono la
prova che il comportamento umano non varia e che quindi l' agire degli antichi
può essere di modello. Per lui gl’uomini
camminano sempre per vie battute da altri, perciò propone il principio
tipicamente rinascimentale dell' imitazione : Machiavelli nota che ai suoi
tempi l' imitazione degli antichi é pratica costante nelle arti figurative,
nella medicina, nel diritto e depreca quindi che lo stesso non avvenga nella
politica. Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di
Machiavelli in una teoria razionale dell' agire politico, che sappia
individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono necessariamente e quindi
sappia suggerire le sicure linee di condotta statistica. Il punto di partenza
per la formulazione di tali leggi é una visione crudamente pessimistica dell'
uomo come essere morale : l' uomo agli occhi di Machiavelli é malvagio : non ne
teorizza filosoficamente le cause, non indaga se lo sia per natura o in
conseguenza ad una colpa originariamente commessa, ma si limita a constatare
empiricamente gli effetti della sua malvagità sulla realtà. Gli uomini
sono ingrati, volubili, simulatori e
dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e dimenticano più facilmente l' uccisione del
padre che la perdita del patrimonio : la molla che li spinge é l' interesse
materiale e non sono i valori sentimentali disinteressati e nobili. Tra tanti
uomini malvagi il principe non deve nè può
fare in tutte le parti la professione di buono perchè andrebbe incontro alla rovina : deve
anche sapere essere non buono laddove lo richiedano le necessità dello
Stato. Il vero politico agli occhi di Machiavelli deve essere un centauro,
ossia un essere metà uomo e metà animale, deve cioè essere umano o feroce come
una bestia a seconda delle situazioni. Tuttavia Machiavelli sa bene
come il venir meno alla parola data o l' uccidere spietatamente i nemici per un
principe siano cose ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente
é malvagio in politica diventa buono, perchè uccide per difendere lo Stato e le
sue istituzioni ; allo stesso modo i buoni moralmente sarebbero cattivi politicamente perchè non uccidendo e non
compiendo azioni malvagie lascerebbe perire lo Stato. Machiavelli quindi non é
il fondatore di una nuova morale, anzi, moralmente parlando é un
tradizionalista e considera cattivo chi uccide o non mantiene la parola data ;
egli semplicemente individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su
altri criteri, non il bene o il male, ma l' utile o il danno politico. E'
interessante notare che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe
é chi usa metodi riprovevoli a fin di bene, in favore dello Stato ; tiranno,
invece, é chi li usa senza che ci sia necessità. E' solo lo Stato che può
costituire un rimedio alla malvagità dell' uomo, al suo egoismo che disgregherebbe
ogni comunità in un caos di spinte individualiste contrapposte le une alle
altre. Per quel che riguarda il rapporto con la religione, a Machiavelli
non interessa nella sua prospettiva concettuale, come contenuto di verità, nè
tanto meno nella sua dimensione spirituale, come garanzia di salvezza, ma solo
ed esclusivamente come instrumentum
regni, ossia come strumento di governo. La religione, in quanto fede in certi
principi comuni, obbliga i cittadini a rispettarsi reciprocamente e a mantenere
la parola data : questa era la funzione che la religione rivestiva già ai tempi
degli antichi Romani, secondo Machiavelli. Tuttavia nei Discorsi Machiavelli
muove anche un biasimo alla religione, accusandola di essere spesso stata
colpevole di rendere gli uomini miti e rassegnati, di far sì che essi
svalutassero le cose terrene per guardare solo al cielo. La forma di governo
che meglio compendia in sè l' idea di Stato per Machiavelli é quella repubblicana,
che argina e disciplina le forze anarchiche dell' uomo. Il principato é per
Machiavelli una forma d' eccezione e transitoria, indispensabile solo in certi
momenti, come quello che l' Italia sta vivendo ai suoi tempi, per costruire uno
Stato sufficientemente saldo. La forma repubblicana é la migliore perchè non si
fonda su un solo uomo, ma ha istituzioni stabili e durature. Dall' esilio
dell' Albergaccio, Machiavelli annunciava all' amico Vettori di aver composto
un opuscolo de principatibus, in cui si
trattava che cosa é principato, di quale
spetie sono, come e' si mantengono, perchè e' si perdono. L' indicazione fissa
il momento in cui l' opera può dirsi compiuta, ma lascia aperti altri problemi
di datazione : in quale periodo sia stata composta, se sia stata scritta
unitariamente o in fasi diverse e soprattutto quali siano i rapporti che legano
ai Discorsi sopra la prima deca di LIVIO (si veda). Oggi gli studiosi tendono a
collocare la composizione in una stesura di getto, mentre si ritiene che
posteriormente sia stata scritta la dedica a Lorenzo de' MEDICI (si veda) e
probabilmente anche il capitolo finale che, nel suo carattere di appassionata
esortazione a liberare l' Italia dai
barbari, sembra staccarsi dal tono lucidamente argomentativo del resto
del trattato. Per quanto riguarda i rapporti con I Discorsi si é pensato che la
stesura di tale opera sia iniziata precedentemente e sia stata interrotta nel
luglio per far posto alla composizione del trattatello, che rispondeva a
bisogni di maggiore urgenza, agganciandosi direttamente ai problemi attuali
della situazione italiana. Il principe é un' operetta molto breve, scritta
in forma concisa e incalzante, ma densissima di pensiero. Si articola in 26
capitoli, di lunghezza variabile, che recano dei titoli in latino come è usanza
dell' epoca. La materia é divisa in diverse sezioni. Esamina i vari tipi di
principato e mirano a individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e di
mantenerlo, conferendogli forza e stabilità. Machiavelli distingue tra
principati ereditari ( a cui é dedicato il capitolo II ) e nuovi ; questi
ultimi a loro volta possono essere misti, aggiunti come membri allo Stato
ereditario di un principe o del tutto nuovi; a loro volta questi possono essere
conquistati con la virtù e con armi proprie, oppure basandosi sulla fortuna e
su armi altrui ( capitolo VII, in cui si propone come esempio il duca Valentino
). Tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze, e qui
Machiavelli distingue tra la crudeltà
bene e male usata : la prima é
quella impiegata solo per stati di assoluta necessità e che si converte nella
maggiore utilità possibile per i sudditi ; male usata invece é quella che
cresce con il tempo anzichè cessare ed é compiuta per l' esclusivo vantaggio
del tiranno. Machiavelli affronta il principato civile, in cui cioè il principe riceve potere
dai cittadini stessi ; nel X si esamina come si debbano misurare le forze dei
principati e nell' XI si tratta dei principati ecclesiastici, in cui il potere
é detenuto dall' autorità religiosa, come nel caso dello Stato della Chiesa. I
capitoli XII - XIV sono dedicati al problema delle milizie : Machiavelli
giudica negativamente l' uso degli eserciti mercenari ( cosa che per altro
aveva fatto già Petrarca ), abituale nell' Italia del tempo, perchè essi
combattendo solo per denaro sono infidi e pertanto costituiscono una delle
cause principali della debolezza degli Stati italiani e delle pesanti sconfitte
subite nelle recenti guerre ; di conseguenza, per lui, la forza di uno Stato
consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie, su un esercito composto
dagli stessi cittadini in armi, che combattano per difendere i loro averi e la
loro vita stessa. Machiavelli tratta dei modi di comportarsi del principe con i
sudditi e con gli amici. E' questa la parte in cui il rovesciamento degli
schemi della trattatistica precedente é più radicale e polemico, in cui
Machiavelli, anzichè esibire il catalogo delle virtù morali che sarebbero
auspicabili in un principe va dietro alla
verità effettuale della cosa :
poichè gli uomini sono malvagi, avidi, mancatori della fede e violenti, il
principe che é costretto ad agire tra loro non può seguire in tutto le leggi
morali, ma deve imparare anche ad essere
non buono, dove le circostanze lo esigano ; deve guardare al fine, che é
vincere e mantenere lo Stato: i mezzi se vincerà saranno sempre considerati
onorevoli. Sono questi i capitoli che hanno immediatamente suscitato più
scalpore, ed hanno attirato per secoli su Machiavelli l' esecrazione e la
condanna. Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi italiani, nella
crisi (il crollo della libertà italiana ) hanno perso i loro Stati. La causa
per lo scrittore é essenzialmente l'
ignavia dei principi, che nei
tempi quieti non hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava ( solo
Savonarola aveva avuto l' intuizione ) e porvi i necessari ripari. Di qui
scaturisce naturalmente l' argomento, il rapporto tra virtù e fortuna, cioè la
capacità, che deve essere propria del politico, di porre argini alle variazioni
della fortuna, paragonata a un fiume in piena che quando straripa allaga le
campagne e devasta i raccolti e gli abitati. L' ultimo capitolo é, come
accennato, un' appassionata esortazione ad un principe nuovo, accorto ed
energico, che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l' Italia dai
barbari. (il testo sopra è di F. - visitate il suo sito di filosofia ).filosofico. Pellegrino.
Mangieri IL PENSIERO POLITICO DI MACHIAVELLI OPPURE SE L'AVETE GIA
LETTA ANDIAMO ALLORA DIRETTAMENTE ALL'OPERA INTEGRALE IL
PRINCIPE. STORIOLOGIA. Grice: When I created Deutero-Esperanto, I felt like the
principato senza il principe! --. Michele Ciliberto. Keywords: il principe, intelletuale
fascista, lessico, lessico di Bruno, lessico di grice, lessico filosofico
europeo, umbra profunda, implicatura in chiaroscuro, i contrari, il laico, il
libero, despotismo, immagine e concetto, parola, immagine, e concetto, il
pazzo, il ragionato, istituto su studi sul rinascimento, la tradizione
italiana, la tradizione filosofica italiana, democrazia rappresentativa,
concetto di rappresentazione, Grice e Ciliberto sulla rappresentazione. Il
primo ministro britannico ripresenta suoi costituenti. Il barone della camera
alta del parlamento, parlamento ed implicamento, il team di cricket rippresenta
Inghilterra: fa per Inghilterra quello che Inghilterra non puo fare: gioccare
cricket. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ciliberto” – The Swimming-Pool
Library. Ciliberto.
Luigi
Speranza -- Grice e Cilone: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Crotone). According to Giamblico. C. seeks to join the
circle of Pythagoras. He is rejected because Pythagoras sees in him a tendency
to violence and tyranny. In response, C. leads the people of Crotone in a
campaign against the sect -- as a result of which Pythagoras has to decamp to
Metaponto. “At least he left with his judgment vindicated – Pythagoras did.” Archita
said. Cilone.
Luigi Speranza -- Grice e Cimatti:
l’implicatura conversazinale del pooh-pooh and other products -- il
non-naturale -- fondamenti naturali della comunicazione – scuola di Roma –
filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Cimatti
– for one, he develops a biological semiotics, and he takes seriously the issue
that man IS an animal -- -- and has thus philosophised on animality!” Si laureato
sotto Mauro con “La communicazion animale” -- Insegna ad Arcavacata di Rende.
Altre opere: “Linguaggio ed esperienza visive” (Rende, Centro Editoriale e
Librario); “La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà
nell'animale umano” (Bollati Boringhieri); “Nel segno del cerchio. L'ontologia
semiotica di Giorgio Prodi, Manifestolibri La mente silenziosa. Come pensano
gli animali non umani” (Editori Riuniti); “Mente e linguaggio negli animali.
Introduzione alla zoosemiotica cognitiva” (Carocci); Il senso della mente. Per
una critica del cognitivismo” (Bollati Boringhieri); “Mente, segno e vita.
Elementi di filosofia per Scienze della comunicazione,Carocci); “Il volto e la
parola. Per una psicologia dell'apparenza, Quodlibet, Il possibile ed il reale. Il sacro dopo la
morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino Filosofico. Linguaggio ed emozioni”
(Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente
comunisti. Politica, linguaggio ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che
verrà. Biopolitica per Homo sapiens,, ombre corte, Filosofia della
psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno passi” (Quodlibet); Filosofia
dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e psicoanalisi” (Quodlibet); “A
come Animale: voci per un bestiario dei sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio
e pulsione di morte, Quodlibet);
Filosofia del linguaggio: storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot,
La psicoanalisi e l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per
una filosofia del reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il
linguaggio” (Orthotes, Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata);
“La fabbrica del ricordo (Il Mulino). Il linguaggio degli animali Del resto,
l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet te di distinguere anche tra il
linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali, questi ultimi essendo, per
altro, ugualmente vocali e interpretabili. Già la nozione di "voce"
(phone) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che
un suono può essere definito una "voce" quando è emesso da un essere
animato ed è dotato di significato -- semantikos. Ora, un suono emesso da un
animale non umano, per quanto definito psophos (''rumore" – cf. gemito,
riso, pianto), ha tutta via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li
distingue dalla voce emessa da un uomo sono due fattori: non è “convenzionale” --
e di conseguenza non può essere né simbolo né nome -- ma è "per na
tura" (De int.); ed è “a-grammatos”, cioè "inarticolabile" o
"non combinabile" (Pot.). La nozione di combinabilità, del resto,
come mostra Morpurgo-Tagliabue, è al centro stesso del carattere di semanticità
del linguaggio umano, i cui suoni semplici -- adiafretoi,
"invisibili" -- possono articolarsi in unità più grandi dotate di
significato. L’animale non umano, invece, emette solo un suono indivisibile, ma
non combinabili (Pot). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del
linguaggio umano in contrapposizione al suono emesso dall’animale non umano,
attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elementi
indivisibili combinabili e elementi divisibili - lettere - elementi dotati di
significato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura - elementi
indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d- loflsl)
qualcosa - non simboli - non nomi. Si deve rilevare, tra l'altro, che la
semanticità del suono emesso dall’animale non umano è espresse dal verbo
dlofìsi (''rivelano", De int.), fatto che conferma l'idea che per Aristotele,
quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del suono da un animale,
torna di nuovo in primo piano il carattere SEMIOTICO – SEMANTICO d'una
espressione. Il suono dell’animale è SINTOMO che rivela la loro causa. IDel
resto, l'opposizione convenzionale/naturale permette di distinguere anche tra
il linguaggio umano e il suono (vox, Grice’s ‘sound’, ‘groan’) emesso dall’animale,
questo ultimo essendo, per altro, ugualmente vocale (vox, vocatum, ‘sound’ –
the characterization of a product, groan) e interpretabile. Già la nozione di
"voce" (phone, vox – cf. Grice’s ‘sound’ ‘characterisation of a
product’, groan) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si
dice che un suono – cf. il ‘sound’ di Grice – ‘I shall use utterance to include
the characterization of a product (e.g. a sound)] può essere definito una
"voce" [phone, vox] quando: (i) sia emesso da un essere animato
(II); (ii) sia dotato di significato (semantikos) (Il, 420 b, 29-33). Ora, un
suono emesso da un animale, per quanto definito psophos (''rumore"), ha
tuttavia le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalls voce
emesse dagli uomini sono due fattori: (i) il suono no e convenzionale (e di
conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma è "per natura" phusei
(De int., 16 a, 26-30); (ii) e ‘a-grammatos,’ cioè "in-articolabili"
o "non combinabili" (Poet.). La nozione di "combinabilità",
del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (33 e sgg.), è al centro stesso del
carattere di semanticità del linguaggio umano, il cui suono (‘sound’) semplice
(“a-diafretos”, ‘in-divisibile’) puo articolarsi in unità più grandi dotate di
significato. L’animale, invece, emette solo un suono (Grice’s ‘sound’) in-divisibili,
ma non combinabili (Poet.). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri
di una lingua come il inglese linguaggio umano in contrapposizione al
repertorio di suoni emessi da un animali, attraverso uno schema. Lnguaggio
umano, e. g. Deutero-Esperanto: I. per convenzione, or decisione. II. Formato
di questo o quello elemento in-divisibile ma combinabile e questo o quello elemento
divisibili – fonema, lettere (cfr. Grice: utterer’s meaning, sentence-meaning,
word-meaning – below the word – meaning), di questo o quello elemento dotato di
significato - simbolo – nome. Questo o quello suono di questo o quello animale:
I. per natura. II. Elemento in-divisibili MA non combinabili - non lettere – elemento
che rivela o manifesta (deloflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve
rilevare, tra l'altro, che la semanticità di un suono emessi da un animali è
espressa dal verbo delofìsi (''rivelare", De int., 16 a, 28), fatto che
conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o la
decisione razionale (Deutero-Esperanto), come nel caso del repertorio
comunicativo di un animale, torna di nuovo in primo piano il carattere
semiotico d'una espressione. Il suono (voce, rumore) di un animale e un sintomo
o effeto che rivela naturalmente la sua causa – una affettazione dell’anima. The
Bow-Wow Theory. According to the bow-bow theory theory, language began when our
ancestors started imitating the natural sounds around them. The first speech
was onomatopoeic—marked by echoic words such as moo, meow, splash, cuckoo, and
bang. What's wrong with this theory? Relatively few words are
onomatopoeic, and these words vary from one language to another. For instance,
a dog's bark is heard as au au in Brazil, ham ham in Albania, and wang, wang in
China. In addition, many onomatopoeic words are of recent origin, and not all
are derived from natural sounds. The Ding-Dong Theory The
ding-dong theory, favoured by Plato and Pythagoras, maintains that speech arose
in response to the essential qualities of objects in the environment. The
original sounds people made were supposedly in harmony with the world around
them. What's wrong with this theory? Apart from some rare instances
of sound symbolism, there is no persuasive evidence, in any language, of an
innate connection between sound and meaning. The La-La Theory The
Danish linguist Jespersen put forward the la-la theory. He suggests that
language may have developed from sounds associated with love, play, and
(especially) song. What's wrong with this theory? As Crystal notes
in "How Language Works" (Penguin, 2005), this theory still fails to
account for the gap between the emotional and the rational aspects of speech
expression. The pooh-pooh theory holds that speech begins with an interjection
– a spontaneous cry or GROAN of (naturally meaning) pain ("Ouch!"),
surprise ("Oh!"), and other emotions ("Yabba dabba
do!"). What's wrong with this theory? No language contains
very many interjections, and, Crystal points out, "the clicks, intakes of
breath, and other noises which are used in this way bear little relationship to
the vowels and consonants found in phonology." The Yo-He-Ho
Theory According to the yo-he-ho theory, language evolves from the grunt,
the groan, and a snort evoked by heavy physical labour. What's wrong with
this theory? Though this notion may account for some of the rhythmic
features of the language, it doesn't go very far in explaining where words come
from. Wikipedia Ricerca Origine del linguaggio umano come, dove, quando e
perché è nato il linguaggio Lingua Segui Modifica L'origine del linguaggio
umano è un argomento che ha attratto una considerevole attenzione nel corso
della storia dell'uomo. L'uso della lingua è uno dei tratti più cospicui che
distingue l'Homo sapiens da altre specie. A differenza della scrittura,
l'oralità non lascia tracce evidenti della sua natura o della sua stessa
esistenza, perciò, i linguisti devono ricorrere a metodi indiretti per
decifrare le sue origini. Secondo la Genesi, la grande varietà di
lingue umane si originò dalla Torre di Babele con la confusione delle lingue
(immagine dalla Bibbia illustrata di Gustave Doré). I linguisti si trovano
d'accordo che non ci sono lingue primitive esistenti, e che tutte le
popolazioni umane moderne usano lingue di simile complessità[senza fonte].
Mentre le lingue esistenti si differenziano nei termini della grandezza e dei
temi del proprio lessico, tutte possiedono la grammatica e la sintassi
necessarie, e possono inventare, tradurre e prendere in prestito il vocabolario
necessario per esprimere l'intera gamma dei concetti che i parlanti vogliono
esprimere. Tutti gli esseri umani possiedono abilità linguistiche simili e
relative strutture biologiche preposte innate, ma nessun bambino nasce con una
predisposizione biologica ad imparare una data lingua invece di
un'altra[3]. Le lingue umane potrebbero essere emerse con la
transizione al comportamento umano moderno circa 164 000 anni fa (Paleolitico
superiore). Una supposizione comune è che il comportamento umano moderno e
l'emergere della lingua siano coincisi e fossero dipendenti l'uno dall'altro,
mentre altri spostano indietro nel tempo lo sviluppo della lingua a circa 200
000 anni fa, al momento in cui apparvero le prime forme di Homo sapiens arcaico
(Paleolitico medio), o addirittura al Paleolitico inferiore, a circa 500 000
anni fa. Tale questione dipende dal punto di vista sulle abilità comunicative
dell'Homo neanderthalensis. In tutti i casi, è necessario presumere un lungo
stadio di pre-lingua, tra le forme di comunicazione dei primati superiori e la
lingua umana completamente sviluppata. L’origine del linguaggio negli
studi di Schelling e GrimmModifica Il problema dell’origine del linguaggio fu
una tematica fondamentale del Romanticismo. Schelling (filosofo dell’idealismo)
e J. Grimm (glottologo, grammatico e autore di fiabe insieme al fratello) sono
due autori che hanno due posizioni differenti sull’origine del linguaggio.
Schelling, nel suo testo, parla di tre ipotesi fondamentali: Ipotesi
teologica, secondo la quale il linguaggio ha origine divina e viene tramandato
di generazione in generazione. Ipotesi istinto-naturalistica, secondo la quale
il linguaggio ha avuto origine grazie all’istinto, che è una qualità innata
dell’uomo. Ipotesi secondo la quale l’uomo ha imparato a parlare
progressivamente: partendo, cioè, dall’urlo e dai gesti, l’uomo è andato a mano
a mano costruendo il linguaggio. Il testo di Schelling rimane però indefinito,
non arriva cioè ad una conclusione. Il testo di Grimm[5] è stato scritto in
contrapposizione al testo di Schelling: egli parte nell’analizzare l’ipotesi
teologica, suddividendola in due sottoipotesi, una secondo cui il linguaggio è
stato creato insieme alla creazione dell’uomo ed una quella secondo la quale il
linguaggio è successivo alla creazione dell’uomo. Entrambe fanno comunque
giungere alla conclusione che la lingua appartiene solo alla specie umana e che
il linguaggio sia una conquista dell’uomo. La lingua è una conseguenza del
pensiero ed inizia nei bambini insieme ad esso[6]. Inoltre, Grimm analizza il
linguaggio nella sua evoluzione, suddividendolo in tre stadi: il primo stadio è
quello delle prime produzioni vocali, formate da una sillaba. Nel secondo
stadio vi è il passaggio dai monosillabi a parole composte da più sillabe e la
composizione del linguaggio non è più causale, ma ha un ordine sintattico, si è
in grado di esprimere pensieri ordinati e ben connessi. Il linguaggio, nel
terzo stadio, migliora sempre di più e si possono esprimere liberamente i
propri pensieri[7]. Grimm conclude affermando la grande complessità del tema
riguardo all’origine del linguaggio e riconosce che il linguaggio è una
proprietà fondamentale dell’uomo strettamente connessa con il pensiero.
Parola e linguaModifica I linguisti fanno distinzione tra il parlare, il
discorso e la lingua. Il parlare comporta la produzione di suoni dall'apparato
fonatorio. I volatili parlanti, come alcuni pappagalli, sono capaci di imitare
parole umane. Ad ogni modo, quest'abilità di imitare i suoni umani è molto
diversa dall'acquisizione di una sintassi. D'altro canto, i sordi generalmente non
usano il discorso parlato, ma sono in grado di comunicare usando la lingua dei
segni, che viene considerata una lingua moderna, complessa e pienamente
sviluppata. Ciò implica che l'evoluzione delle lingue umane moderne richiede
sia lo sviluppo dell'apparato anatomico per produrre foni sia specifici
mutamenti neurologici necessari a sostenere la lingua stessa.
Comunicazione animaleModifica Sebbene tutti gli animali usino una qualche forma
di comunicazione, i ricercatori generalmente non classificano questa
comunicazione come una lingua. Ad ogni modo, il sistema di comunicazione di
alcune specie animali condivide alcune caratteristiche con le lingue umane. I
delfini, ad esempio, sono in grado di comunicare come gli esseri umani,
chiamandosi per nome. Linguaggi dei primatiModifica Non si sa molto a proposito
della comunicazione tra i primati superiori nell'ambiente naturale. La
struttura anatomica della loro laringe non permette alle scimmie, come ai
bambini, di produrre la maggior parte dei suoni di cui sono capaci gli esseri
umani. In cattività è stata insegnata alle scimmie una rudimentale lingua dei
segni e l'uso dei lessigrammi — cioè simboli astratti corrispondenti a una
parola del vocabolario - e l'uso delle tastiere. Alcune scimmie, come Kanzi,
sono riuscite ad imparare ed usare correttamente centinaia di
lessigrammi. Le aree di Broca e di Wernicke nel cervello dei primati sono
responsabili del controllo dei muscoli della faccia, della lingua, della bocca
e della laringe, così come di riconoscere i suoni. I primati sono noti per le
loro "grida vocali", che vengono generate dai circuiti neurali
presenti nella corteccia cerebrale e nel sistema limbico. Nell'ambiente
naturale, la comunicazione tra le scimmie Chlorocebus è stata la più studiata[9].
Esse sono note per la produzione di dieci differenti vocalizzazioni. Molte di
queste vengono utilizzate per avvertire gli altri membri del gruppo di
predatori in avvicinamento ed includono un "grido del leopardo", un
"grido del serpente" ed un "grido dell'aquila". Ogni
allarme mette in moto una diversa strategia difensiva. Gli scienziati sono
stati in grado di ottenere risposte prevedibili dalle scimmie usando
altoparlanti e suoni pre-registrati. Le altre vocalizzazioni vengono
probabilmente usate per l'identificazione. Se un cucciolo di scimmia grida, la
madre si gira verso di lui, ma le altre scimmie si girano verso la madre per
osservare quel che essa fa[10]. Antichi ominidiModifica C'è una
speculazione considerevole sulle capacità linguistiche degli antichi ominidi.
Alcuni studiosi ritengono che l'avvento della postura eretta, circa 3,5 milioni
di anni fa, abbia apportato importanti cambiamenti al cranio umano, formando un
tratto vocale più a forma di L. La forma di tale tratto ed una laringe
relativamente bassa nel collo sono requisiti necessari per produrre molti dei
suoni che si producono nelle lingue umane, soprattutto le vocali. Altri
studiosi invece credono che, basandosi sulla posizione della laringe, neanche i
neanderthaliani avessero l'anatomia necessaria a produrre l'intera gamma di
suoni delle lingue dell'Homo sapiens. Un altro punto di vista considera invece
irrilevante l'abbassamento della laringe per lo sviluppo della parola. Una
proto-lingua assoluta, così come definita dal linguista Derek Bickerton, è una
forma di comunicazione primitiva, a cui manca: una sintassi pienamente
sviluppata; tempo, aspetto, verbi ausiliari, ecc.; un vocabolario chiuso (cioè
non lessicale). In breve, si tratterebbe di uno stadio nell'evoluzione del
linguaggio intermedio tra il linguaggio dei primati superiori e le lingue umane
moderne pienamente sviluppate. Le caratteristiche anatomiche come il
tratto vocale a forma di L erano in continua evoluzione, piuttosto che apparire
improvvisamente[13]. Anche se i primi ominidi utilizzavano una rozza tecnologia
basata sulla pietra, era già più avanzata di quella degli scimpanzé e dei
gorilla. Da ciò si deduce che probabilmente gli esseri umani possedessero già
una forma di comunicazione più sviluppata degli altri primati. Neanderthaliani La
scoperta nel 2007 di un osso ioide di un neanderthaliano ha suggerito l'idea
che i neanderthaliani potessero essere anatomicamente capaci di produrre suoni
simili a quelli moderni umani e altri studi indicano che 400 000 anni fa il
canale ipoglosso degli ominidi aveva raggiunto la dimensione di quello degli
umani moderni. Il canale ipoglosso trasmette i segnali nervosi al cervello e si
ritiene che la sua dimensione rifletta la capacità di parlare. Gli ominidi che
vivevano prima di 300 000 anni fa avevano canali ipoglossi simili più a quelli
di uno scimpanzé che a quelli umani. Comunque, anche se i neanderthaliani
fossero stati in grado di parlare, Richard G. Klein nel 2004 espresse il dubbio
che potessero possedere una lingua complessa come le nostre. Lo studioso basò
il suo dubbio sui resti fossili di esseri umani ed i loro attrezzi di pietra.
Per 2 milioni di anni dopo la comparsa dell'Homo habilis, la tecnologia degli
attrezzi in pietra cambiò molto poco. Klein, che ha lavorato intensamente sugli
antichi attrezzi in pietra, descrive l'attrezzatura degli antichi esseri umani
come impossibile da separare in categorie basate sulla loro funzione ed afferma
che i neanderthaliani sembravano avere uno scarso interesse per la forma finale
dei propri attrezzi. Klein sostiene che il cervello dei neanderthaliani
probabilmente non aveva raggiunto la complessità necessaria per una lingua
articolata, anche se l'apparato fisico per la produzione dei fonemi era già ben
sviluppato. La questione sul livello di sofisticatezza culturale e tecnologica
dei neanderthaliani rimane tutt'oggi controversa. Homo sapiens. I primi
esseri umani anatomicamente di tipo moderno apparvero per la prima volta nei
reperti fossili di 195 000 anni fa in Etiopia. Nonostante fossero
anatomicamente di stampo moderno, però, i ritrovamenti archeologici disponibili
non indicano che si comportassero diversamente dagli ominidi che li avevano
preceduti. Essi utilizzavano gli stessi attrezzi in pietra grezza e cacciavano
meno efficientemente degli esseri umani che li avrebbero seguiti[20]. Ad ogni
modo, all'incirca da 164 000 anni fa nell'Africa meridionale, ci sono prove di
un comportamento più sofisticato e, da quel momento, si ritiene si sia
sviluppato il comportamento moderno[20]. A quel punto, una vita di tipo
costiero e lo sviluppo dell'attrezzatura associata rimanda evidentemente ad un
consumo di molluschi. Questo stile di vita può essere dovuto a pressioni
climatiche, conseguenti a condizioni di glaciazione. Gli attrezzi in pietra del
periodo mostrano caratteristiche regolari che furono riprodotte o duplicate con
più precisione. In seguito, apparvero anche attrezzi fatti di materiale osseo e
corna. Questi artefatti possono essere facilmente suddivisi in base alla
funzione, come punte per scalfire, attrezzi di incisione, coltelli e attrezzi
per trapanare e forare[18]. Insegnare alla prole o ad altri membri del proprio
gruppo come produrre tali strumenti dettagliati sarebbe stato difficile senza
l'aiuto della lingua. Il passo più grande nell'evoluzione del linguaggio
fu probabilmente il passaggio da una comunicazione primitiva di tipo pidgin ad
un linguaggio di tipo creolo, con la grammatica e la sintassi di una lingua
moderna[9]. Molti studiosi ritengono che questo passaggio può essere stato
compiuto solamente insieme ad alcuni cambiamenti biologici nel cervello, come
una mutazione. È stato ipotizzato che un gene come il FOXP2 potrebbe aver
subito una mutazione che permise agli esseri umani di comunicare. Le prove
suggeriscono che questo cambiamento ebbe luogo in un punto imprecisato
dell'Africa orientale, all'incirca dai 100 000 ai 50 000 anni fa, cosa che
apportò cambiamenti significativi nei resti fossili[9]. Non è ancora chiaro se
le lingue si svilupparono gradualmente in migliaia di anni o apparvero
relativamente all'improvviso. Le aree di Broca e di Wernicke apparvero
anche nel cervello umano, la prima coinvolta in scopi cognitivi e percettivi,
la seconda collegata alle abilità linguistiche. Gli stessi percorsi neurali ed
il sistema limbico degli altri primati controllano i suoni non verbali anche
negli esseri umani (risata, pianto, ecc.), cosa che suggerisce che il centro
del linguaggio umano sia una modifica dei percorsi neurali comune a
"tutti" i primati. Questa modifica e le abilità per la comunicazione
linguistica sembrano essere uniche degli esseri umani e ciò implica che
l'insieme degli organi per il linguaggio parlato si sia sviluppato dopo che il
ramo evolutivo umano si è separato da quello degli altri primati. In tal modo,
il linguaggio parlato è una modificazione della laringe unica degli esseri
umani. Secondo la teoria dell'origine "Out of Africa"
("Uscendo dall'Africa" o "Dall'Africa verso il mondo"),
circa 50 000 anni fa[22] un gruppo di esseri umani lasciò l'Africa e procedette
nella colonizzazione del resto del mondo, inclusa l'Australia e le Americhe,
che non erano mai state popolate dagli ominidi che le avevano precedute. Alcuni
scienziati[23] ritengono che l'Homo sapiens non abbandonò l'Africa prima di
allora, perché non aveva ancora acquisito le cognizioni moderne ed il
linguaggio parlato e, perciò, non aveva le abilità, nonché il numero di persone
sufficienti a migrare. Ad ogni modo, dato il fatto che l'Homo erectus riuscì a
lasciare il continente molto prima (senza un utilizzo diffuso delle lingua,
attrezzi sofisticati né un'anatomia moderna), le ragioni per cui gli esseri
umani anatomicamente moderni rimasero in Africa probabilmente ebbe maggiormente
a che fare con le condizioni climatiche. MonogenesiModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua primigenia. La
teoria dell'origine monogenetica è l'ipotesi per cui ci sarebbe stata una
singola protolingua (la "lingua primigenia" o protolingua mondiale)
dalla quale si sarebbero poi distinte tutte le lingue parlate dagli esseri
umani. Tutta la popolazione umana, dagli aborigeni australiani ai fuegini,
possiede delle lingue. Questo include popoli, come gli aborigeni tasmaniani o
gli andamanesi, che sono rimasti isolati dagli altri popoli per anche 40 000
anni. Così, l'ipotesi dell'origine poligenetica comporterebbe che le lingue
moderne si siano evolute indipendentemente su tutti i continenti, un'ipotesi
considerata non plausibile dai sostenitori della monogenesi. Tutti gli
esseri umani odierni discendono da una Eva mitocondriale, una donna che si
ritiene vivesse in Africa circa 150 000 anni fa. Ciò ha sollevato la
possibilità che la lingua primigenia possa essere datata approssimativamente a
quel periodo[26]. Ci sono anche teorie su un effetto a collo di bottiglia sulla
popolazione umana, soprattutto la teoria della catastrofe di Toba, la quale
ipotizza che la popolazione umana ad un certo punto, circa 70 000 anni fa, si
sia ridotta a 15 000 o 2 000 individui[27]. Se ciò avvenne realmente, un tale
effetto a collo di bottiglia sarebbe un eccellente candidato per il momento
della protolingua mondiale, anche se ciò non implica che sia anche il momento
in cui sia emerso il linguaggio parlato come capacità. Alcuni sostenitori
di tale ipotesi, come Merritt Ruhlen, hanno tentato di ricostruire la lingua
primigenia. Ad ogni modo, la maggior parte dei linguisti rifiutano questi
tentativi ed i metodi utilizzati (come la comparazione lessicale di massa) per
varie ragioni. Scenari dell'evoluzione della linguaModifica Teoria dei
gestiModifica La teoria dei gesti afferma che il linguaggio umano parlato si
sia sviluppato dai gesti che venivano usati per la semplice
comunicazione. Due tipi di prove sostengono questa teoria. Il
linguaggio dei gesti e quello vocale dipendono da sistemi neurali simili. Le
regioni della corteccia cerebrale che sono responsabili dei movimenti della
bocca e di quelli delle mani si trovano a stretto contatto. I primati usano
gesti o simboli per una forma primitiva di comunicazione, ed alcuni di questi
gesti assomigliano a quelli umani, come la "posizione di richiesta",
con le mani allungate in fuori, che gli esseri umani hanno in comune con gli
scimpanzé.[30] La ricerca ha trovato un considerevole supporto per l'idea che il
linguaggio verbale e quello dei segni dipendano da strutture neurali simili.
Pazienti che usano la lingua dei segni e che hanno sofferto di una lesione
all'emisfero cerebrale sinistro, hanno dimostrato gli stessi disordini
linguistici nella lingua dei segni dei pazienti capaci di parlare.[31] Altri
ricercatori hanno rilevato che la stessa regione sinistra del cervello è attiva
sia durante la produzione di una lingua dei segni, sia durante l'uso di un
linguaggio vocale o scritto. La questione più importante per la teoria dei
gesti è per quale motivo ci fu un passaggio allo strumento vocale. Ci sono tre
possibili spiegazioni: I primi esseri umani cominciarono ad utilizzare
sempre più strumenti, che tenevano loro le mani occupate, senza poterle usare
per gesticolare. La gesticolazione richiede che gli individui si debbano vedere
tra di loro. Ci sono molte situazioni in cui gli individui hanno bisogno di
comunicare senza contatto visivo, ad esempio quando un predatore si avvicina a
qualcuno che è su un albero a raccogliere frutta. Il bisogno di cooperare
effettivamente con gli altri per sopravvivere. Un comando dato da un leader di
una tribù di 'trovare' 'pietre' per 'respingere' 'lupi' avrebbe creato un
gruppo di lavoro e una risposta più potente e coordinata. Gli esseri umani
utilizzano ancora i gesti manuali e facciali quando parlano, specialmente
quando le persone che comunicano non usano la stessa lingua.[33] I sordomuti
usano lingue composte interamente da segni e gesti. Pidgin e
creoliModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio:
Lingua creola e Pidgin. Un pidgin è una lingua semplificata che si sviluppa
come mezzo di comunicazione tra due o più gruppi che non parlano la medesima
lingua, in situazioni come il commercio, il cui vocabolario è generalmente
derivato dalle lingue dei vari gruppi. Il modo in cui i pidgin si sviluppano è
d'interesse per comprendere le origini del linguaggio verbale umano. I pidgin
sono lingue significativamente semplificate, con una grammatica rudimentale ed
un vocabolario ristretto. Nei primi stadi del loro sviluppo i pidgin consistono
soprattutto di nomi, verbi ed aggettivi, senza articoli e verbi ausiliari e con
pochissime preposizioni e congiunzioni. La grammatica consiste di parole senza
ordine fisso e senza desinenze di declinazione. Se questi contatti tra i gruppi
si mantengono saldi per lunghi periodi di tempo, i pidgin possono diventare
pian piano sempre più complessi attraverso le generazioni. Se i bambini di una
generazione adottano il pidgin come lingua madre, questa diventa una lingua
creola, che si fissa e acquisisce una grammatica più complessa, con una
fonetica fissa, una sintassi, una morfologia. La sintassi e la morfologia di
tali lingue presentano a volte delle innovazioni locali che non derivano dalle
lingue da cui sono nate. Gli studi sulle lingue creole del mondo hanno
dimostrato che possiedono somiglianze evidenti nella grammatica e si sono
sviluppate uniformemente dai pidgin in una singola generazione. Queste
somiglianze sono evidenti quando le lingue creole non condividono alcuna lingua
originale. Inoltre le lingue creole hanno delle somiglianze anche se si sono
sviluppate isolatamente rispetto alle altre. Le somiglianze sintattiche
includono l'ordine delle parole Soggetto Verbo Oggetto. Anche se una lingua
creola nasce da lingue con ordini delle parole differenti, sviluppa spesso un
ordine SVO. Le lingue creole tendono ad avere modelli di uso simili per gli
articoli determinativi ed indeterminativi e regole di movimento simili per le
strutture frasali anche quando le lingue-genitori non le hanno.[9]
Grammatica universaleModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento
in dettaglio: Grammatica universale. Dato che i bambini sono largamente
responsabili della creolizzazione di un pidgin, studiosi come Derek Bickerton e
Noam Chomsky hanno concluso che gli esseri umani nascono con una grammatica
universalegià inclusa nei loro cervelli. Questa grammatica universale consiste
di un'ampia gamma di modelli grammaticali che includono tutti i sistemi
grammaticali di tutte le lingue del mondo. Le impostazioni di base di questa
grammatica universale sono rappresentate dalle somiglianze evidenti nelle
lingue creole. Queste impostazioni di base vengono annullate dai bambini
durante il processo di acquisizione della lingua per adattarsi alla lingua
locale. Quando i bambini imparano una lingua, dapprima apprendono le
caratteristiche più simile a quelle creole, e poi quelle che entrano in
conflitto con la grammatica creola.[9] Un'altra questione che viene
spesso citata come supporto per la grammatica universale è il recente sviluppo
della lingua dei segni nicaraguense. Il governo del Nicaragua dette inizio al
primo sforzo diffuso del paese per educare i bambini sordomuti. Prima di ciò
non esisteva una comunità sordomuta nel paese. Un centro d'educazione speciale
stabilì un programma inizialmente seguito da 50 bambini sordomuti. Questo
centro non aveva accesso alle strutture di insegnamento di una delle lingue dei
segni usate nel mondo; perciò non veniva insegnato ai bambini nessun
linguaggio. Il programma linguistico invece enfatizzava lo spagnolo parlato e
la lettura delle labbra, nonché l'uso di segni da parte dell'insegnante che
assomigliassero alle parole dell'alfabeto. Il programma ebbe uno scarso successo
e la maggior parte degli studenti non riuscirono a comprendere il concetto
delle parole spagnole. I primi bambini arrivarono al centro con
pochissimi gesti sviluppati in precedenza all'interno delle proprie famiglie.
Ad ogni modo, quando i bambini vennero messi insieme per la prima volta
cominciarono a costruire una forma di comunicazione usando i vari segni di ogni
bambino. Più bambini si aggiungevano più la lingua diventava complessa. Gli
insegnanti dei bambini, che avevano avuto uno scarso successo nel comunicare
con i propri studenti, guardavano meravigliati i bambini che riuscivano a
comunicare tra di loro. In seguito il governo nicaraguense sollecitò
l'aiuto di Judy Kegl, un'esperta della lingua dei segni alla Northeastern
University. Quando Kegl ed altri ricercatori cominciarono ad analizzare la
lingua, notarono che i bambini più giovani avevano preso le forme pidgin dai
bambini più vecchi e le avevano portate ad un alto livello di complessità, con
un accordo verbale e altre convenzione della grammatica. Approccio sinergico La
Azerbaijan Linguistic School ritiene che il meccanismo per la nascita del
linguaggio umano moderno, sofisticato e complicato, sia identico al meccanismo
evolutivo della scrittura. Lo sviluppo della scrittura ha vissuto differenti
fasi: Fase I: Grafema = frase (scrittura pittografica) Fase II: Grafema =
parola o sintagma (scrittura ideografica) Fase III: Grafema = sillabario
(scrittura sillabica) Fase IV: Grafema = suono (scrittura fonetica) Allo stesso
modo una lingua avrebbe passato stadi simili: Fase I: Fonema = frase
(linguaggio pittografico) Fase II: Fonema = parola o sintagma (linguaggio
ideografico) Fase III: fonema = sillabario (linguaggio sillabico) Fase IV:
fonema = suono (linguaggio fonetico) Vale a shout, qualche grido, all'inizio
sostituiva l'intera frase, quindi soltanto una parte della frase, e poi la
parte della parola. Storia La ricerca delle origini della lingua ha una lunga
storia, come testimonia anche la mitologia classica. Storia della
ricercaModifica Verso la fine del XVIII secolo od agli inizi del XIX gli
studiosi europei ritenevano che le lingue del mondo riflettessero i vari stadi
dello sviluppo da una lingua primitiva a quelle più avanzate, culminando nella
famiglia indoeuropea, ritenuta la più avanzata. La linguistica moderna non
nacque prima del tardo XVIII secolo e le tesi romantiche di Johann Gottfried
Herdere di Johann Christoph Adelung rimasero molto influenti. La questione
delle origini della lingua si dimostrò inaccessibile agli approcci metodici, e
nel 1866 la Società Linguistica di Parigi vietò clamorosamente le discussioni
sull'origine della lingua, ritenendola un problema irrisolvibile. Un approccio
sistematico alla linguistica storica divenne possibile solamente con
l'approccio neogrammaticale di Karl Brugmann ed altri a partire dal 1890, ma
l'interesse degli studiosi per la questione riprese gradualmente piede a
partire dal 1950, con idee come la grammatica universale, la comparazione
lessicale di massa e la glottocronologia. L'"origine della lingua"
come materia a sé stante emerse dagli studi di neurolinguistica,
psicolinguistica e di evoluzione umana in generale. La bibliografia linguistica
introdusse l'"origine della lingua" come un capitolo separato nel
1988, come un argomento minore dalla psicolinguistica, mentre istituti di
ricerca di evoluzione linguistica emersero solo negli anni novanta.
Esperimenti storiciModifica La storia ha un vario numero di aneddoti su persone
che tentarono di scoprire le origini della lingua per esperimento. Il primo
tentativo viene riportato da Erodoto, che racconta che il faraone Psammetichus
(probabilmente Psametek) fece crescere due bambini da pastori sordomuti,
volendo vedere alla fine quale lingua avrebbero parlato senza influenze. Quando
i bambini furono portati di fronte a lui, uno di essi disse qualcosa che al
faraone suonò come bekos, la parola frigia per pane. Perciò Psammetichus
concluse che il frigio fosse la prima lingua. Si racconta che anche il re
Giacomo V di Scozia tentò un esperimento simile, e questi bambini avrebbero
infine parlato ebraico. Anche il monarca medievale Federico II ed Akbar, un
imperatore indiano del XVI secolo, tentarono un esperimento simile ma i bambini
utilizzati alla fine non parlarono e morirono. Nella religione e nella
mitologiaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Lingua sapienziale. Le religioni ed i miti etnici spesso danno delle
spiegazioni per le origini e lo sviluppo del linguaggio verbale. La maggior
parte delle mitologie non ritengono l'uomo inventore della lingua, ma credono
in una lingua divina, antecedente a quelle umane. Lingue mistico-magiche usate
per comunicare con gli animalio gli spiriti, come la lingua degli uccelli, sono
pure state analogamente ricercate, ed erano di particolare interesse durante il
Rinascimento, per la loro capacità di penetrare l'essenza della realtà tramite
un'apprensione immediata di natura intuitiva anziché discorsiva. Uno dei
migliori esempi nella cultura occidentale è il passaggio della Genesi nella
Bibbia riguardo alla Torre di Babele. Questo passaggio, comune a tutte le fedi
abramiche, racconta di come Dio punì gli uomini per aver costruito la torre,
confondendo la loro lingua e creandone di nuove (Genesi). Un gruppo di
persone dell'isola di Hao, in Polinesiaracconta una storia molto simile a
quella della torre di Babele, parlando di un dio che, "in preda alla
rabbia scacciò via i costruttori, distrusse l'edificio e cambiò la loro lingua,
così che parlassero differenti lingue". Primitive languages, su Language
Miniatures. Pinker, The Language Instinct: How the Mind Creates Language, New
York, Harper Perennial Modern Classics, The Handbook of Linguistics, eds.
Aronoff et JRees-Miller. Oxford: Blackwell. Vorbemerkungen zu der Frage über
den Ursprung der Sprache (Premesse alla questione sull'origine del linguaggio),
in: Schelling, Werke (a cura di. M. Schröter), 4. Ergänzungsband (volume
supplementare), Monaco; Über den ursprung der Sprache", ristampato in: J.
Grimm, Kleinere Schriften, Vol. 1, Berlino; Grimm, F.W.J. Schelling,
Sull'origine del linguaggio, Milano, Marinotti, Grimm, F.W.J. Schelling,
Sull'origine del linguaggio, Milano, Marinotti, Dolphins 'Have Their Own
Names', su BBC News;Diamond, The Third Chimpanzee: The Evolution and Future of
the Human Animal, New York, Harper Perennial, Wade, Nicholas, Nigerian Monkeys
Drop Hints on Language Origin, su nytimes.com, The New York Times, Fitch, W.
Tecumseh, The Evolution of Speech: A Comparative Review isrl.uiuc.edu;Ohala, The
irrelevance of the lowered larynx in modern man for the development of speech
Archiviato il 29 giugno 2011 in Internet Archive.. In Evolution of Language -
Paris conference, Internet Archive. Olson, Mapping Human History, Houghton
Mifflin Books, 2Ogni adattamento prodotto dall'evoluzione è utile solo nel
presente, e non in futuro indefinito. Così l'anatomica vocale ed i circuiti
neurali necessari per la produzione dei suoni delle lingue non possono essersi
evoluti per qualcosa che ancora non esisteva ^ Merritt Ruhlen, Origin of
Language, Earlier human ancestors, such as Homo habilis and Homo erectus, would
likely have possessed less developed forms of language, forms intermediate
between the rudimentary communicative systems of, say, chimpanzees and modern
human languages ^ Jungers, William L. et. al., Hypoglossal Canal Size in Living
Hominoids and the Evolution of Human Speech, in Human Biology, DeGusta, David
et. al., Hypoglossal Canal Size and Hominid Speech, in Proceedings of the
National Academy of Sciences of the United States of America, Hypoglossal canal
size has previously been used to date the origin of human-like speech
capabilities to at least 400,000 years ago and to assign modern human vocal
abilities to Neandertals. These conclusions are based on the hypothesis that
the size of the hypoglossal canal is indicative of speech capabilities. ^
Johansson, Sverker, Constraining the Time When Language Evolved ( PDF ), in
Evolution of Language: Sixth International Conference, Rome, Hyoid bones are
very rare as fossils, as they are not attached to the rest of the skeleton, but
one Neanderthal hyoid has been found (Arensburg), very similar to the hyoid of
modern Homo sapiens, leading to the conclusion that Neanderthals had a vocal
tract similar to ours (Houghton; Bo¨e, Maeda, et Heim, Klarreich, Erica,
Biography of Richard G. Klein, in Proceedings of the National Academy of
Sciences of the United States of America, Klein, Richard G., Three Distinct
Human Populations, su Biological and Behavioral Origins of Modern Humans, Access
Excellence @ The National Health Museum; Schwarz, J. uwnews.org uwnews Risorse
e informazione; Internet Archive. ^ Lewis Wolpert, Six impossible things before
breakfast, The evolutionary origins of belief; Minkel, J. R., Skulls Add to
"Out of Africa" Theory of Human Origins: Pattern of skull variation
bolsters the case that humans took over from earlier species, su sciam.com,
Scientific American; Klein, Richard, Three Distinct Populations, su
accessexcellence. You've had modern humans or people who look pretty modern in
Africa by 100,000 to 130,000 years ago and that's the fossil evidence behind
the recent "Out of Africa" hypothesis, but that they only spread from
Africa about 50,000 years ago. What took so long? Why that long lag, 80,000 years?
^ Wade, Nicholas, Early Voices: The Leap to Language, The New York Times, Sverker,
Johansson, Origins of Language - Constraints on Hypotheses su arthist.lu. Ruhlen,
Merritt, Language Origins, su findarticles.com, National Forum; Whitehouse,
David, When Humans Faced Extinction, su news.bbc.co.uk, BBC News; Rosenfelder,
Mark, Deriving Proto-World with Tools You Probably Have at Home, su Zompist; Salmons,
'Global Etymology' as Pre-Copernican Linguistics, in California IPA: lɪŋ gwɪs tɪk
Notes, Program in Linguistics, California State University, Premack, David et Premack,
Ann James. The Mind of an Ape, Kimura, Doreen, Neuromotor Mechanisms in Human
Communication, Oxford, Newman, A. J., et al., A Critical Period for Right
Hemisphere Recruitment in American Sign Language Processing, in Nature
Neuroscience; Kolb, Bryan, and Ian Q. Whishaw, Fundamentals of Human
Neuropsychology, 5th edition, Worth; A Linguistic Big Bang ^ Mammadov J.M.:
Origine della lingua. p.160-172 ^ Azerbaijan Linguistic School: The origin of
language ^ Maryanne Wolf,Proust e il calamaro.Storia e scienza del cervello che
legge, trad. di Stefano Galli, Vita e Pensiero, 2009, Milano, Re: Did hitler
experiment with babies ^ Linguistics 201: First Language Acquisition, su
pandora.Allott, Robin, The motor theory of language origin, Sussex, England,
Book Guild, Cangelosi, A., Greco, A. et Harnad, Symbol Grounding and the
Symbolic Theft Hypothesis. In: Cangelosi, A. et Parisi, D. (Eds.) Simulating
the Evolution of Language. London, Springer. Crystal, David, The Cambridge
encyclopedia of language, Cambridge, UK, Cambridge Deacon, Terrence William,
The symbolic species: the co-evolution of language and the brain, New York,
W.W. Norton; Dunbar, R. I. M., Grooming, gossip and the evolution of language,
Londra, Faber; Givón, The evolution of language out of pre-language,
Typological studies in language, vol. 53, Amsterdam: John Benjamins Harnad, SR,
Lancaster, JB; Steklis, HD, Origins and evolution of language and speech, New
York, N.Y., New York Academy of Sciences, Hauser, M.D., Chomsky, N.; Fitch, W.,
The Faculty of Language: What Is It, Who Has It, and How Did It Evolve?, in
Science, Hurford, Nativist and functional explanations in language acquisition;
in Roca, I.M., Logical issues in language acquisition, Foris, 1990, ISBN.
Komarova, N.L., Language and Mathematics: An evolutionary model of grammatical
communication. In: History et Mathematics. Ed. by Leonid Grinin, Victor C. de
Munck, and Andrey Korotayev. Moscow, KomKniga/URSS, Vajda, The Origin of
Language, su pandora. FBM de Waal, Pollick AS, Ape gestures and language
evolution, in Proceedings of the National Academy of Sciences; popular summary
in L Williams, Human language born from ape gestures, Cosmos, Wong, Yan;
Dawkins, Richard, The ancestor's tale: a pilgrimage to the dawn of life,
Londra, Weidenfeld et Nicolson, Grimm, F.W.J. Schelling, Sull'origine del
linguaggio, Milano, Marinotti, Lingua (linguistica) Linguaggio Oralità
Tradizione orale Teoria bau-bau Language and Social Organization, su evolution-of-man.info.
PAGINE CORRELATE Grammatica universale Teoria linguistica che postula che i
principi della grammatica siano condivisi da tutte le lingue, e siano innati
per tutti gli esseri umani. Rilessificazione Origine africana dell'Homo sapiens
Wikipedia Il Grice: “I share a lot with Cimatti; we both believe that there’s a
semiotic continuity, and more important that it’s psi-transmission that
matters: a pirot perceives that the a is b, and communicates that the a is b to
another pirot, who perceives the communicatum, ‘the a is b’ and comes to think
that the other pirot thinks that the a is b – I use ‘think’ as dummy. ‘accept’
may do, to cover willing, since it’s willing that’s basic, though! Felice
Cimatti. Keywords: fondamenti naturali della comunicazione, homo sapiens,
storia innaturale, non-naturale, unnatural – non-natural, naturalization, animale,
bestia, linguaggio, segno, vita, zoo-semiotica, prodi, corpo, codice, mente,
cognitivismo, comunicazione, animale, soglia semiotica, mentalismo, storia
innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti naturali della comunicazione,
percezione e comunicazione, comunicazione come percezione trasferita,
psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” – The Swimming-Pool
Library. Cimatti.
Luigi
Speranza -- Grice e Cincio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Firenze). A philosopher of the Porch.
Luigi
Speranza -- Grice e Cinna: il portico a Roma -- il tutore del principe – filosofia italiana (Roma). A member
of the Porch and tutor to Antonino. The emperor claims to have learned from C.
the value of friendship, children, and praise. Cina Catulo. Cinna.
Luigi Speranza -- Grice e Cione: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del corporazionismo -- Dedalo
ed Icaro – l’idea corporativa come interpretazione della storia – scuola di
Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo
italiano. Napoli, Campania. Grice: “I love Cione; my favourite is “The age of
Daedalus – which reminds me of Gilbert’s statuette and the Italian model who
posed for him – the story of a failure!” Grice: “But Cione philosophised on
various other subjects as well, such as Leibniz, and of course, Croce – in his
case, first-hand knowledge! – and mysticism, and Mussolini, and the rest of
them – He thinks there is a Neapolitan dialectic, and really is in love with
his environs – his study of ‘romantic Naples’ reminds me of my rules of
conversational etiquette! – especially the illustrations involving gentleman-lady
interaction!” Di tendenze socialiste, e in un primo momento anti-fasciste,
studia sotto Croce. Perseguitato della prima ora dal fascismo, viene rinchiuso
nel campo di Colfiorito di Foligno e poi mandato al confino a Montemurro. Attratto
dal nuovo indirizzo espresso dal Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica
Sociale Italiana. Chiede e ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende
esplicitamente concorde) per la costituzione di una formazione politica
indipendente dal Partito Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento
Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano
Socialista Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso
Mussolini, sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del
Popolo. Il Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa,
tanto che durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato
per una possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a
dichiarare: Per ingannare i nostri
avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia
fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra
l’altro ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di
C. Non ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta cercando
di crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta per il comitato
di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle epurazioni
partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia repubblicana.
Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il partito di
Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne eletto
consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al Senato
con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto. Deluso
dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una
militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il
messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la
cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso
con una completa della sua opere e degli
scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera
filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica”
(Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore);
“Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea
corporativa come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli
e Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale
italiana” (Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi);
“Crociana” (Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele);
“Fascino del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce”
(Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia
degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi,
Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica
editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta
di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli
Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di Salò crea un
"partito contro" su suggerimento del ministro dell'Educazione Biggini
di Silvio Bertoldi. Per ultimi ma non meno importante ricordiamo anche
l’esperienza della rivista La Verità diretta da Nicolò Bombacci, tra i
fondatori del partito comunista e in seguito avvicinatosi al Fascismo, pur con
posizioni indipendenti tendenti al socialismo nazionale, e dove ne sarà
portavoce anche nella successiva esperienza di Salò assieme ad altre
personalità come Giuseppe Solaro ed Edmondo Cione, e la magistrale figura del
poeta americano Ezra Pound, il quale giudicò positivamente il modello politico
ed economico dello stesso Fascismo. Home Cultura Cultura (di
G.Parlato). Perché leggere “Storia della Rsi” di C. By Redazione 4
anni Ago Il sigillo della Repubblica Sociale ItalianaIl sigillo della
Repubblica Sociale Italiana Sarà forse una caratteristica tipicamente italiana,
ma da noi persino le guerre civili lasciano molto, moltissimo spazio alle
mediazioni e ai tentativi di compromesso. Vi furono diversi tentativi, tutti
falliti, di dare alla guerra fratricida un altro esito, meno sanguinoso, più
indirizzato verso un passaggio “indolore” dei poteri dalla Rsi al movimento
partigiano e, infine, al Regno. Si trattò di operazioni sotterranee molto
complesse, spesso contraddittorie, che si fondavano su un equivoco: la
possibilità che una parte del movimento partigiano (i socialisti, e neppure
tutti) potessero staccarsi dalla opprimente pressione delle Brigate Garibaldi
gestite dal Pci e realizzare una soluzione pacifica di passaggio dei poteri nel
Nord Italia in nome di un socialismo che avrebbe dovuto riunire tutti, da
Mussolini a Nenni. Protagonisti di questo tentativo, un po’ nobile, un
po’ ingenuo, un po’ velleitario furono diversi personaggi di ambo le parti: da
parte fascista, i ministri della Rsi Carlo Alberto Biggini e Piero Pisenti, i
sindacalisti Manunta e Dinale, il capo della polizia di Salò Renzo Montagna, il
capo della Decima Junio Valerio Borghese, più altri minori; da parte
socialista, Bonfantini,Vigorelli, Silvestri, Zocchi e soprattutto Andreoni,
autore di un confuso ed equivoco tentativo di “collaborazione militare ma non
politica” (!!) tra fascisti di Salò e socialisti di sinistra contrari alla
egemonia comunista nel Cln. Punto di raccordo di molti di questi fiumi
sotterranei è C., filosofo, collaboratore di Croce, antifascista liberale,
confinato politico, il quale alla vigilia della guerra civile decide di puntare
sulla riconciliazione degl’italiani. Un progetto ambizioso, non sempre
sorretto da una vera lucidità politica, che comunque portò a tre risultati
importanti, nel crepuscolo della Rsi: in primo luogo, C. riuscì a catalizzare
attorno a sé un gruppo di fascisti e di antifascisti che opera per il passaggio
indolore dei poteri. In secondo luogo, riusce ad avere la fiducia di Mussolini
che gli finanzia un quotidiano, “L’Italia del Popolo”. Infine riusce a
costituire un movimento politico di opposizione in Repubblica Sociale, il
Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista che doveva essere il primo
segnale verso la liberalizzazione dei partiti in Rsi. Naturalmente ciò
avvenne con l’approvazione dei fascisti “moderati”, come Borsani, Agazio
e Pettinato, e con la violenta opposizione degli intransigenti, come Pavolini,
Mezzasoma ed Almirante. La dettagliata storia di queste più o meno
sottili trame, di questi tentativi è il filo conduttore del volume di C., STORIA
DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (Altergraf). Si tratta di una storia che, tra
le prime, ricostruisce le vicende della Rsi e il suo valore è soprattutto
questo. Il mondo variegato e talvolta contraddittorio di quelli che
cercarono di costruire dei ponti tra
fascismo e antifascismo è complesso ma, in genere, comprendefascisti di
sinistra -- più moderati e aperti al pluralismo -- e socialisti -- insofferenti
al peso del Pci. Che qui ci si trovi al cospetto di un liberale è senza dubbio
un elemento di novità. Perché un liberale e, pur con tutti i distinguo,
crociano accetta di sostenere i punti di Verona, la socializzazione, l’ultimo
fascismo mussoliniano, rivoluzionario, socialista e anticapitalista? Si tratta
effettivamente di un problema non da poco che può essere spiegato solo con il
costante richiamo alla CONCORDIA nazionale.
Una concordia che non è però soltanto un moto dell’animo, ma che si sostanzia
di un elemento a nostro avviso centrale: la necessità del superamento
dell’antitesi fascismo – antifascismo, considerando C. il fascismo un elemento
essenziale nella storia italiana, del quale è indispensabile tenere conto -- non
per esaltarlo ma piuttosto per proseguire nel cammino della comunità nazionale
senza parentesi e senza demonizzazioni. L’errore dell’antifascismo, per C., è
quello di ritenere di potere cancellare il periodo fascista dalla storia
italiana e soprattutto di potere non considerare con attenzione le
soluzioni che il fascismo, pur in un quadro autoritario, individua allo scopo
di contribuire a fare ritrovare unità e concordia nella società italiana. In
questo senso l’esperienza corporativa, che C. intese sempre in senso
produttivistico piuttosto che in termini rivoluzionari, può essere interessante
da recuperare in una chiave pluralistica. Più complessa la risoluzione
dell’altro problema che lo assilla e che, in qualche modo, è correlato con la
ricerca della concordia: il persistere, nella dinamica politica italiana, della
categoria del nemico assoluto da abbattere. Essendo più FILOSOFO che storico, C.
non si rende conto che l’Italia dopo la prima guerra mondiale non è più quella
precedente. Il pretendere che le contrapposizioni, giunte fino alla guerra
civile, si componessero con un semplice richiamo alla concordia, dimostra quello
che acutamente aveva colto Artieri, e che cioè C. pensava e scriveva come se
vivesse nell’Italia di Giolitti e di Scarfoglio. In questa sua incapacità
di leggere fino in fondo la lezione della storia si trova la inattualità
politica del saggio di C. sulla Rsi, ma
anche il fascino dell’impolitico, di chi cioè preferisce manifestare le proprie
convinzioni anche se esse non sono più in grado di produrre effetti
politici. La sua originalità risiede anche in un ultimo aspetto. Se è
vero che in Italia il filosofo tende a correre verso il carro del vincitore,
la storia di C. è quella di un filosofo che pur provenendo dalla parte dei
futuri vincitori, volle stare dalla parte dei perdenti per cercare, senza
riuscirci, di rendere meno dura la vendetta finale. C. compiuti i suoi
studi prima presso il consolato germanico, poi presso il Liceo-ginnasio
Vittorio Emanuele II, si iscrive al collegio militare della Nunziatella. C.,
sottoposto a una severa educazione familiare e a una altrettanto severa
disciplina scolastica, manifesta idealmente i primi segni di ribellione
rivolgendo precocemente il suo interesse verso la filosofia e allontanandosi
dall'ambiente autoritario della Nunziatella. Grazie a Secolo comincia a
frequentare la casa di Croce, del quale divenne allievo, accettandone in pieno
le idee e gli insegnamenti. Un saggio suo, pubblicato a Napoli e
intitolata "Il dramma religioso dello spirito moderno e la
Rinascenza", in cui prende posizione contro Gentile, gli procura violente
critiche da parte dei fascisti. La frequentazione di casa Croce non gli impedì
tuttavia, di collaborare con alcuni giornali e periodici del regime. Consegue
la laurea e concorsa a un posto di ordinatore di biblioteche e ne ottenne
l'incarico presso la Biblioteca di Venezia, poi trasferito presso la Biblioteca
di Firenze. A questi anni risalgono i suoi rapporti epistolari con alcuni
esponenti dell'opposizione liberale come Sforza, Vinciguerra, Casati ed altri. A
causa dell'intercettazione di una sua lettera, il cui contenuto era stato male
interpretato, C. è arrestato dalla polizia e internato nel campo di
concentramento di Colfiorito presso Foligno, e in seguito confinato a
Montemurro Lucano. Revisa le sue idee antifasciste e decide di abbandonare le
posizioni liberali. Eento non meno significativo nella vita di C. è la rottura
dei suoi rapporti con Croce, a causa della revoca da parte di Croce della
compilazione di un volume celebrativo, che C. aveva preparato sull'opera e sul
filosofo. Il volume è poi pubblicato dalla casa editrice Laterza di Bari
con il titolo "Croce". Dopo l'internamento e il confino,
ritornato in libertà, C. è in servizio come bibliotecario presso la Biblioteca
Braidense di Milano. Collabora alla rivista diretta da Chabod
"Popoli", dell'Istituto per gli studi di politica. Ottenne la libera
docenza di storia della filosofia. Tra i suoi saggi, il volume edito a Milano e
intitolato "Croce", la cui polemica prefazione era stata pubblicata
anticipatamente sul Corriere della Sera, procura a C. numerosi consensi anche
da parte di MUSSOLINI, che C. incontra personalmente grazie alla mediazione
dell'allora Ministro della Cultura Biggini. Cione fonda, col consenso di
Mussolini, il "Raggruppamento nazionale repubblicano socialista" e il
giornale "L'Italia del Popolo" che, sollevando l'ostilità dell'ala
fascista più estrema, dopo soli 12 numeri è sospeso a causa di una polemica con
l'Associazione dei mutilati. Soggetto all'epurazione alla fine della seconda
guerra mondiale, C. è reintegrato nel suo posto di professore di filosofia a Napoli.
Entra nel Movimento Sociale Italiano e fonda la rivista "Nazionalismo
popolare". Eletto consigliere e poi assessore allo Stato civile della
Giunta di Napoli, che ha alla sua testa Lauro. Dopo essersi candidato al Senato
come esponente del M.S.I. senza riuscire eletto, entra nelle file della
Democrazia Cristiana. Collabora con numerose riviste filosofiche e con diverse
testate giornalistiche, quali il "Roma" di Napoli, il
"Tempo" di Roma, la "Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari. Tra
le opere a stampa ricordiamo la "Bibliografia Crociana" -- nella
quale sono riportate sistematicamente e cronologicamente le opere DI Croce e le
opere SU Croce --; "Sanctis e i suoi tempi” -- vincitrice del Premio
Napoli --, e due volumi di resoconti di viaggi, "Quest'Europa" e
"Fascino del mondo arabo", pubblicate la prima a Napoli e la seconda
a Bologna. In esse l'autore sembra esprimere il senso finale che, personalmente
attribuiva all'esistenza umana. Muore a Napoli. Fra le sue ultime volontà vi fu
quella di donare all'Archivio di Stato di Napoli il suo archivio personale,
affinché esso non andasse disperso e perché fosse messo a disposizione degli
studiosi. documentazione collegata. C. fonti Incarnato, in Dizionario biografico
degli italiani. Klinkhammer, L'occupazione tedesca in Italia, Torino, Bollati
Boringhieri. C., Incarnato - Dizionario Biografico degli Italiani’ Condividi Pubblicità
C. Nato a Napoli da Stefano, avvocato di origine pugliese inurbatosi di recente
e artefice della sua fortuna, comincia a studiare presso il consolato
germanico, poi al liceo ginnasio "Vittorio Emanuele II", per
iscriversi infine alla Scuola militare della Nunziatella. L'accurata istruzione
integrò la severa educazione familiare tesa a salvaguardare una dignità ed un
decoro con fatica raggiunti e difficili da mantenere in una città come Napoli
in permanente e gravissima crisi economica. Alla Nunziatella si tende a
sviluppare l'attitudine al comando ponendo l'accento sull'educazione fisica
intesa come coercizione e disciplina. Le aspirazioni di C. ne sono frustrate
accentuandone le tendenze al ribellismo, tipiche di tanti meridionali e
l'indirizzo precoce agli STUDI FILOSOFICI nella ricerca di un'identità
ristretta al piano culturale, dati gl’ostacoli frapposti dall'ambiente
circostante ad altre vie di sviluppo più organiche e meno unilaterali. Le
stesse riserve verso l'autoritarismo ed il culto delle gerarchie che provocano
la rottura con l'ambiente della Nunziatella, da cui uscirà, lo allontanarono da
un'adesione piena al fascismo. Introdotto in casa CROCE (si veda) da
Secolo, ne accetta pienamente le idee, attirandosi col suo saggio, “Il dramma
religioso dello spirito moderno e la Rinascenza,” Napoli, di cui già manda una
parte a CROCE (si veda), in cui prese posizione contro GENTILE (si veda), gli
attacchi violenti dei coetanei fascisti. Lo difende Marzio che gl’apre le porte
del Meridiano di Roma ne gl’evita guai peggiori. Sono gli anni del consenso al
regime. La pregiudiziale antifascista e la frequenza di casa CROCE (si veda)
non impedirono a C., come ad altri, la collaborazione a giornali o periodici
del regime, ormai tanto forte da poter controllare e tollerare la fronda
liberale. L'assidua presenza in casa Croce lo gratifica e sembra soddisfarlo
pienamente. I numerosi saggi su SANCTIS (si veda), culminati nella
biografia, la continuazione dei lavori sulla Rinascenza e la Riforma sfociati
nel lavoro su Valdés e infine le ricerche sulla vita culturale di Napoli
rivelano tutti l'impronta di CROCE (si veda). Tuttavia si può cogliere una
costante della filosofia del C., la tendenza alla mediazione, non tanto
espressione di debole sincretismo, quanto costante rifiuto di ogni estremismo,
che gli fa preferire il sereno misticismo di Valdés ai rigori di Calvino ed il
tentativo di mediazione della cultura umanistica col vecchio mondo della Chiesa
e della cultura medioevale alla rottura drammatica della Riforma. 16 un
equilibrio raggiunto a fatica, non scevro di contraddizioni, presenti
soprattutto negli studi su Napoli. La ricerca appassionata e puntuale sulla
vita napoletana (Napoli romantica, Milano) non puo non approdare alla
constatazione del suo carattere provinciale. Le masse vi appaiono coine
comparse di secondo piano, quasi bozzetti a completamento di un disegno il cui
protagonista è lo sviluppo culturale. Scarsi i riferimenti al ciclo economico
europeo, non propriamente favorevole a Napoli, il malessere napoletano
interpretato come un'incapacità tutta locale di liberarsi dai languori e dalle
malinconie romantiche di origine più spirituale che socioeconomica. La
mediazione, eterno mito del C., riemerge con l'esortazione all'unione dei
giusti per la salvezza e lo sviluppo. Tale gli è già apparso il messaggio
dell'ultimo De Sanctis, di cui, a conclusione di numerosi saggi e la
pubblicazione (Milano) del famoso Viaggioelettorale, traccia una biogr. C. si
laurea in FILOSOFIA. Le fortune familiari registrano un tracollo che lo spinse
a concorrere ad un posto di ordinatore nelle biblioteche, un ruolo subalterno
per il quale non vienne ancora richiesta l'iscrizione al partito fascista. Ètrasferito
alla Nazionale di Firenze, sempre mantenendo ed ampliando i contatti con
l'opposizione liberale al fascismo; corrisponde con SFORZA (si veda) ed aveva
rapporti di amicizia e scambi epistolari con Vinciguerra, Rosselli, Casati,
Ramat, Russo ed altri, anche se spesso si aveva la sensazione che fosse
frequentato più perché allievo ed intimo di casa Croce che per i suoi meriti
intrinseci. L’adesione al sistema crociano è del resto indiscussa. Malgrado una
tendenza all'accentuazione dei valori individuali emergente dagli studi su
Berdjaev (di cui lo colpe durevolmente la critica al marxismo), su Valdès e dal
taglio stesso degli studi su SANCTIS (si veda), l'emancipazione non è così
consapevole come tenta ad affermare in seguito. L’intercettazione di una
lettera da parte della polizia, che ne interpreta malamente il contenuto,
provoca il suo internamento nel campo di concentramento di Colfiorito di
Foligno, i cui rigori sono mitigati dal confino a Montemurro Lucano. Qui matura
la sua crisi politica e la rottura col CROCE (si veda). La convivenza con
oppositori socialisti, anarchici e comunisti ha su di lui un effetto
contraddittorio. Il contatto con uomini che, non solo si opponeno al fascismo
sino alle ultime conseguenze, ma che non disdegnano nei loro programmi di far
uso degli stessi mezzi coercitivi del fascismo, sia pure per fini ad esso antitetici,
lo induce alla revisione e all'abbandono, dell'anti-fascismo. La
compilazione di un volume celebrativo di CROCE (si veda), una laboriosa ricerca
degli studi sul filosofo dallo stesso prima affidatagli e poi toltagli, sancì
la rottura definitiva con questo, anche se un compromesso rende possibile la
pubblicazione, L'OPERA FILOSOFICA, storica e letteraria di CROCE (si veda),
Bari, dopo strascichi giudiziari. Risolto il dissidio col fascismo, torna
nelle biblioteche, stavolta alla Braidense di Milano. Collabora alla rivista
Popoli dell'Istituto per gli studi di politica, diretta da Chabod. Consegue la
libera docenza in storia della filosofia; è professore di ruolo di storia e
filosofia nei licei, ed ottenne, sia pure non a pieni voti, un giudizio di maturità
in un concorso, poi annullato, a professore di storia della filosofia a Napoli.
Consegue la libera docenza in storia moderna. L'armistizio lo colge a
Roma in contatto col movimento "L'unione nazionale" di Martini, anti-fascista
di tendenze moderate e conciliatrici. Il movimento venne poi stroncato in
seguito all'arresto dello stesso Martini, il quale finisce trucidato alle Fosse
Ardeatine. C. ritorna a Milano con un giudizio negativo sull'anti-fascismo del
quale coglie solo gli atteggiamenti scomposti di una fazione politica che per
spirito di parte sembra gioire dalla disfatta. A Milano stampa il suo CROCE (si
veda). Il momento ed il luogo della pubblicazione, cui venne data ampia
risonanza con l'anticipata apparizione della polemica prefazione di C. sulle
colonne del Corriere della sera, nella Milano della ormai condannata Repubblica
di Salò, gli offrirono la soddisfazione di una momentanea popolarità.
Mussolini mostra d'apprezzarne l'opera e, con la mediazione di Biggini,
ministro della Cultura, s'incontra con C., libero docente all'università di
Milano, proprio in virtù dei suoi precedenti di antifascista. In una lettera a
Biggini C. Scrive. Il Duce ha scelto il momento buono per parlare il linguaggio
della conciliazione sconfessando così quello della minaccia e
dell'intimidazione usate da molti gerarchi e gerarchetti. Gl’anti-fascisti
hanno dubbi perché temono di avere a che fare con un movimento di copertura a
sinistra del fascismo. Il Duce si deve liberare del passato e puntare sulla
vecchia fama di socialista. La gente odia la Muti ed ha fatto buona impressione
l'eliminaziene della banda Koch, una polizia costituita da masnadieri"
(Archivio di Stato di Napoli, Carte Cione, 73). Sembra che Mussolini mirasse a
servirsi del C. per attenuare e confondere i rancori degli antifascisti.
Il C., sfruttando le tendenze "liberali" favorite da MUSSOLINI (si
veda) dopo il discorso alla brigata Resega, fondò, col suo consenso, il
Raggruppamento nazionale repubblicano socialista, col motto "Repubblica e
socializzazione" ed un organo di stampa dalla testata mazziniana
L'Italiadel popolo. Al movimento non erano estranee connivenze e
strumentalizzazioúi come il rilascio di alcuni dirigenti democristiani, operato
a fini puramente propagandistici. Si attirò così l'ostilità violenta dell'ala
estremista del fascismo ormai troppo compromessa. Spinelli, direttore dell'Ente
italiano audizioni radiofoniche gli nega la pubblicità per il giornale,
considerando il suo un tentativo di conciliazione sul piano dell'antifascismo.
Una polemica con l'Associazione dei mutilati provocò l'assalto all'Italiadel
popolo e la sua chiusura dopo appena dodici fascicoli, che riprese, ancora per
un numero, le pubblicazioni il 24 aprile, un giorno prima della Liberazione.
Il C. dovette sottostare ai rigori dell'epurazione, rivelatisi per sua stessa
ammissione meno duri del previsto. Venne reintegrato al posto di professore e
riammesso nel servizio universitario a Napoli. I numerosi attacchi ne
stimolarono il temperamento di polemista che si esercitava con virulenza a vari
livelli. I sarcasmi sul Merlo giallo di A. Giannini, e nei giornali locali
("6 e 22" e il Monsignor Perelli)offrono un quadro comico ed
esasperato di troppi disinvolti opportunismi. Sulle colonne del Brancaleone e
del Meridiano v'è un'appassionata difesa della sua azione al tempo della
Repubblica sociale che lo spingeva a scriverne la storia (Storia della
Repubblica sociale italiana, Caserta). C. pubblicato a Roma La filosofia
della personalità ove la polemica anti-crociana si stemperava in una graduale
adesione a valori tradizionali e nel recupero del cattolicesimo cui approderà,
salutato con soddisfazione, ma non con convinzione, dagli organi ecclesiastici.
Del resto non rinunciava alle premesse storiciste e restava a mezza via tra
l'adesione mistica al cristianesimo ed un'accettazione piena del neotomismo. I
numerosi lavori filosofici sono le tappe di questo processo (Dall'idealismo al
cristianesimo, Napoli 1960, Fede e ragione nella storia, Bologna 1963, ristampa
dell'opera sul Valdés, Napoli 1963, e Leibniz, ibid. 1964). Collaborò
alla rivista di C. Ottaviano Sophia, aRassegna ea Palaestra, tenne corsi di
filosofia all'università di Napoli; abbandonato l'insegnamento nei licei,
prestò servizio presso la Direzione generale dell'istruzione media non statale.
Aderì alle illusioni provocate in tanti dalla protesta dell'"Uomo
qualunque" ma ne uscì per contrasti con G. Giannini. Entrò nel Movimento
sociale italiano con una posizione personale espressa con la sua rivista
Nazionalismo popolare fondata nel'1951; precedentemente aveva collaborato agli
organi ufficiali del partito con articoli su Rivolta ideale epoi sul Secolo
d'Italia. Rimproverava al gruppo dirigente l'esasperazione del
nazionalismo e della gerarchia e l'abbandono delle tendenze socializzatrici
dell'ultimo Mussolini. Sospetto ai superstiti uommi di Salò, malgrado i suoi
sforzi, non entrò mai nella direzione nazionale dei partito. Sull'onda
dello spostamento a destra, espressione soprattutto dei disagio del Sud, venne
eletto prima consigliere e poi assessore allo Stato civile della giunta di
Napoli capeggiata da A. Lauro. Nel 1953 si presentò candidato al Senato, senza
essere eletto. Ormai deluso dei Movimento sociale aderì alla Democrazia
cristiana, ove però non svolse una milizia attiva, pur collaborando nel 1960 a
Europa sociale di S. Riccio. Nel 1953aveva iniziato la collaborazione al
Roma (Napoli) di Lauro, cui si, aggiunge quella più sporadica al Tempo (Roma)di
Angiolillo e alla Gazzetta del Mezzogiorno (Bari). Si accese di speranza per il
contenuto sociale del messaggio di Giovanni XXIII e per le speranze suscitate
dal mito di Chruščëv, di cui guardava con simpatia l'esperimento (Aldi là della
cortina, Napoli 1962). Intanto portò a termine la Bibliografia crociana
(Roma-Milano 1956) e riprese gli studi su F. De Sanctis e i suoi tempi (Napoli)
per cui ottenne il premio Napoli nel 1961.Ancora una miscellanea di saggi sul
concetto di estetica (L'età di Dedalo, ibid. 1960)affianca la rievocazione di
personaggi e momenti della vita meridionale del Paradiso dei diavoli, Milano
1949, Il suoconcetto finale dell'esistenza si può cogliere in due volumi di
impressioni di viaggi, Quest'Europa (Napoli [1958])e Fascino del mondo arabo
(Bologna 1962). Il C. morì a Napoli. Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di
Napoli, Carte C. (finora sono stati parzialmente riordinati 102, fasci); F.
Penati, Metodo storicoe ricostruz. storicistica..., in Cronache della FACOLTÀ
DI FILOSOFIA dell'Istituto magistero di Napoli; A. Manno, Dall'idealismo al
cristianesimo, in Studi francescani; F. W. Deakin, Storia della Repubblica di
Salò, Torino Battaglia, Storia della Resist. ital., Torino Capanna, Di una
polemica Croce-C., in Il Ponte; E. Santarelli, Storia del movimento e del
regime fascista, Roma Bocca, Storia dell'Italia partigiana. Settembre
1943-Maggio 1945, Bari La Repubblica di Mussolini, Bari Sulla bibliografia
Fascista Molti sarebbero i lavori di
carattere descrittivo meritevoli di essere ricordati i quali espongono e
commentano l’azione del fascismo in tutti i campi. Ottima la
Bibliografia del Fascismo, pubblicata a cura della Confederazione
Nazionale Professionisti ed Artisti, Poma Qui ricordiamo le
pubblicazioni riassuntive e quelle in Occasione del decennale: La civiltà
fascista, con introduzione di B. Mussolini, a cura di G. L. Pomba, Torino
1928 (complesso di 35 studi dei vari aspetti ed attività del Fascismo,
con saggio bibliografia fascista a cura di Màdaro); Il Libro (Vitaha; nel
decennale della Vittoria, Milano; Mussolini e il suo Fascismo, cur. Gutkind,
con introduzione di Mussolini, Heidelberg; Firenze. Studi vari : Opere e
leggi del Regime Fascista, Roma; Mussolini e il Fascismo, Roma; Dottrina e
Politica Fascista, Venezia, 1930 (scritti vari). Lo Stato Mussoliniano e
le realizzazioni del Fascismo nella Nazione, pubblicato a cura
della Rassegna Italiana Politica
Letteraria », Roma. Il Bilancio dello Stato e la Finanza Fascista a tutto Vanno
Vili. A cura del Ministero delle Finanze, Roma, Polig. dello Stato,
1931. Questo studio è aggiornato a tutto l’esercizio con la seguente
pubblicazione annuale a cura dello stesso Ministero: Il Bilancio e il
Conto Generale del Patrimonio dello Stato per l’esercizio
finanziario 19... ecc. Per la storia finanziaria fascista si vegga :
De Stefani A. La Restaurazione finanziaria. Bologna, Zanichelli; Volpi di
Misurata: Finanza Fascista, Roma, Libreria del Littorio; Gangemi: La
politica economica e finanziaria del Governo fascista nel periodo dei pieni
poteri, Bologna, Zanichelli Gangemi La politica finanziaria del
Governo Fascista, Palermo, Sandron, 1929; Gangemi L.: Le Società
Anonime miste, Firenze, La Nuova Italia
». Opere Pubbliche (pubblicazione a cura del Ministero dei Lavori
Pubblici). Roma, 1934. La Nuova Italia (F Oltremare (pubblicazione a cura del
Ministero delle Colonie, con prefazione di Mussolini). Mondadori, Milano.
Nei riguardi della difficile questione meridionale, si vegga l’esauriente
volume di Zincali G. : Liberalismo e Fascismo nel mezzogiorno d’Italia,
Milano, Treves, 1933. Fra le pubblicazioni straniere quelle
tedesche sono le più ricche e meglio informate. Le opere e
gli scritti dei seguenti autori sono più conosciuti in Italia come quelli che
meglio compresero il Fascismo e la sua organizzazione economica, e
cioè: Andreae W.; Beckerath (von) E.; Bernhard L.; Eberlein G.; Ermarth
F.; Eschmann E. W.; Heinrich W.; Heller H.; Leibholz G.; Leinert M.;
Mannhardt J. W.; Mehlis €.; Reupke H.; Vochting F.; (per i particolari
bibliografici si vegga: Bibliografia del Fascismo, Voi. 1., a cura della
C. N. P. A., Roma). Si vegga inoltre: Beckerath (von) E.:
Wirtschaftsverfassung des Faschismus; Singer (von) K. : Die
geistesgeschichtliche Bedeutung des italienischen Faschismus, entrambi
pubblicati in Festgabe fùr Werner
Sombart », lierauegegeben von Arthur Spiethoff, Munchen; ed anche: Die
fascistische JCirtschaft - Problema und Tatsachen, herausgegeben von G.
Dobbert, Berlin, Hobbing,(è una raccolta di studi dovuti ad italiani, tedeschi
e svizzeri). Bibliografia essenziale sulle interpretazioni
dell’azione economica corporativa Per una rassegna delle
interpretazioni dell’azione economica corporativa si veggano i nostri :
Lineamenti di politica economica corporativa. Catania, Studio Editoriale
Moderno Sono ivi ricordati i contributi più notevoli, teorici e
descrittivi, nel campo dell’azione economica corporativa. Si vegga pure il
nostro studio : Homo Oeconomicus » e
Stato Corporativo in : Giornale degli Economisti Riportiamo qui la bibliografia
essenziale dei contributi italiani allo studio dell’economia corporativa,
tralasciando di segnalare gli studi, numerosi, di carattere polemico e
giornalistico, ma privi di consapevolezza scientifica e, spesso,
deformatori della stessa realtà politica corporativa : Alberti L’ Homo
Oeconomicus di H. P. Grice e l’esperienza fascista in Giornale degli
economisti; Arias G. : L’Economia Nazionale corporativa, Roma, Libreria del
Littorio, 1929, idem. idem. Economia Corporativa, Firenze, Poligrafica
Universitaria, 1932; Amoroso L. e De’ Stefani A. : Scritti cit. ; Arena C. :
Scritti, cit. ; Benini R. ; Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di teoria
della politica economica, in
Giornale degli Economisti ». Febbraio 1934 (Classifica le varie
politiche economiche. Carattere di quella corporativa: autogoverni
economici particolari, con il compito di emanare misure rispondenti, nei
rami particolari, alla politica economica generale emanante dal governo
economico centrale. Le corporazioni sarebbero gli autogoverni economici
particolari). Bruguier G. : A proposito di interventi statali, in Archivio di
studi corporativi, Pisa; Borgatta G. : Prefazione al nostro volume av. cit. :
Lineamenti di politica economica corporativa; Carli F. : Teoria generale della
economia politica nazionale, Milano, Hoepli; e dello stesso: Le crisi
economiche delV ordinamento corporativo della produzione, in Atti del II Convegno di studi sindacali
corporativi», Ferrara; Chessa: Caratteri e forme delT attività economica,
in Rivista di Politica economica. (Secondo questo autore J economia
corporativa non è altro che un’ economia di complessi economici, che dev’
essere studiata nella sua realta concreta, prescindendo da erronee
identificazioni dell individuo con la società e di questa con lo
Stato). Dello stesso autore: Vecchio e nuovo corporativismo economico in
Saggi di Storia e Teoria economica, in onore di Prato, Torino. In questo
studio l’autore conclude che il corporativismo italiano pur traendo alcuni suoi
elementi dalle teorie enunciate dal Genovesi, dal Bastiat e dal List si
differenzia da queste in quanto che inquadra le sue idee in una
concezione piu larga, che non tiene solo conto degli interessi dei
singoli, ma anche di tutta la collettività nazionale, che per essere
sempre più aderente ai bisogni ed agli interessi della Nazione, viene
organizzata gerarchicamente dallo Stato); Degli Espinosa A.: La forma e
la sostanza della economia corporativa, Firenze Poligrafica Universitaria; Del
Vecchio G.: Teoremi economici deW ordinamento corporativo.
Comunicazione alla XIX riunione della Società pel Progresso della
Scienza», riassunta in Lo Stato; Einaudi
L. : Trincee economiche e corporativismo in
La Riforma Sociale; e dello stesso: Corporazione aperta in La
Riforma Sociale ». Fanno M. scritto cit.; Fasiani M.: Contributo alla
teoria delVuomo corporativo, in
Studi sassaresi; Ferri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di
vista economico, Padova, CEDAM,; Fovel M.: Economia e
corporativismo, Ferrara, S.A.T.E. e dello stesso: La rendita e il Regime
Fascista, Milano, Ediz. dei Problemi del
Lavoro; Politica economica ed economia corporativa, Ediz. Diritto del lavoro;
Camera corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara; Fossati A.: Premesse
per lo studio di ima economia e di una pplitica economica corporativa, in
: Rivista di Politica Economica.
Ritiene questo A. che tanto la politica economica corporativa,
quanto l’attività corporativa come condotta ipotetica degli individui dei
gruppi animati di una coscienza corporativa sono teorizzabili: il secondo per
definizione, e in tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi alla
coscienza corporativa (all’autore parendo il più adatto perchè conforme
alle direttive del Regime quello che ha a base 1 interesse della Nazione,
ossia il massimo be¬nessere individuale compatibile col benessere della
Nazione); ed il primo, quando le norme abbiano sufficiente chiarezza
(univocità) e costanza da consentire una costruzione logica di
conseguenze possibili. Purché non si mescolino precetti e teoremi, e peggio,
non si confondano gli uni con gli altri, è perfettamente legittimo
fare della economia corporativa una
economia » astratta, trovare il nocciolo razionale del concreto
empirico). Gobbi U. : Il procedimento sperimentale della economia
corporativa, Giornale degli economisti;
Galli Corso di economìa politica, Firenze, Poligrafico Universitario, e
dello stesso: Corso sulle imprese industriali, Firenze, Poligrafico
Universitario; Jannaccone P.: La scienza economica e Vinteresse nazionale
(Discorso tenuto all’inaugurazione dell’anno accademico della R. Università di
Torino), e dello stesso : Scienza, critica e realtà economica, in La Riforma Sociale »; Lanzillo A.: Studi di
economia applicata, Padova, Cedam, e dello stesso A.: Il contenuto dell’
economia corporativa, in Rivista Bancaria », novembre 1928, ed Economia
corporativa e politica economica, in
Giornale degli Economisti »; Lo Stato come fattore di produzione,
in Rivista Bancaria » (Lo Stato
come inserzione di volontà nell’ attività economical. Anche Ettore
Lolini, a parte la sua antipatia per la scienza economica tradizionale e
la notevole incomprensione degli economisti ortodossi i quali riescono
interessanti a seguire non come simpatizzanti delle idee lierali o di altre
tendenze, ma come scienziati dell’economia, riconosce che per dare un carattere
di socialità, che concili l’interesse privato con quello sociale o
nazionale, alla economia privata, non è necessario giungere alla totale
abolizione dell’economia privata ed alla identificazione dell’ economia
pubblica, come ha fatto Spirito, il quale col porre erroneamente al
centro dell attività economica umana la produzione e non lo scambio non
ha visto che nello scambio si ha la sintesi dell’ interesse individuale e
dell’interesse sociale, perchè nello scambio, mentre l’interesse è
individuale, il risultato è sociale. Per eliminare del tutto, come
vorrebbe Spirito, il carattere individualistico dei valori economici ed
il movente egoistico dei fatti economici e identificare F iniziativa economica
privata coll’ iniziativa economica pubblica o statale, bisognerebbe
trasformare la psicologia umana, abolire la personalità economica umana e con
essa tutte le diff erenze di bisogni, di desideri e di gusti che esistono
ed esisteranno sempre fra gli uomini, differenze che costituiscono la
base dello scambio e la molla del progresso economico e che nessun
sistema di economia socialista è mai riuscito a sopprimere. Il
porre a fondamento dell’economia corporativa la produzione e quindi
l’organizzazione e la gestione economica della produzione invece dello scambio,
inteso nel senso della ripartizione del prodotto di ogni grande
ciclo produttivo fra tutti i fattori della produzione mediante l’accordo
contrattuale dei prezzi del lavoro, del capitale, della direzione tecnica
e dell’opera degli intermediari, porta a delle conseguenze pratiche
fondamentali per la definizione dei fini e delle funzioni della
Corporazione. Nel primo caso, infatti, si dovrebbe giungere alla
Corporazione organo di gestione economica col passaggio di tutta l’iniziativa
economica privata alla Corporazione e con la conseguente trasformazione di
tutta l’economia privata in economia pubblica. Nel secondo caso, invece, la
Corporazione non assumerà la direzione della gestione economica della
produzione, ma avrà la funzione economico-sociale di eliminare il classismo o
particolarismo economico, di impedire che uno o più fattori della produzione si
facciano la parte del leone nei confronti con gli altri fattori e di
adeguare l’andamento dei prezzi al produttore con quello dei prezzi al
consumatore. Cfr. di questo A.: Il problema fondamentale dell’economia
corporativa, CRITICA FASCISTA; Masci F.: scritti cit. e: Saggi critici di
teoria e metodologia economica, Catania (Sono raccolti con lievi
modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni C.: A proposito
di un tentativo di teoria pura del corporativismo, in FIAMMA ITALA e dello stesso: Strumenti teorici di
corporativismo, in Giornale degli economisti», (in questi scritti
il Pagni critica a fondo la costruzione teorica corporativa di Fovel. Contro
questi si schiera anche Bruguier nel saggio sopra citato ed anche noi nei
nostri scritti av. cit. Contra anche Arias ed altri); Sensini G.:
L’equazione dell’equilibrio economico nei regimi corporativisti, Lo
Stato; Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in Educazione Fascista », e,
dello stesso: Economia corporativa e agricoltura, in Atti del II Convegno di studi sindacali
e corporativi», Ferrara; SPIRITO (si veda), La critica dell’economia
liberale, Milano, Treves, dello stesso: I fondamenti dell’ economia
corporativa, Milano, Treves, e Capitalismo e corporativismo,
Firenze, Sansoni. L’interesse suscitato degli scritti filosofici di
questo A. sono dovuti a ragioni di carattere esclusivamente
polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane filosofo. Nella critica
all’economia liberale, infatti non fa che ripetere, con sintesi
brillante, quanto è stato detto dai seguaci della scuola storica tedesca
e dagli istituzionalisti americani contro la economia liberale. È confusa
la scienza economica con la praxis dei governi liberali e demoliberali.
Nella critica al capitalismo non fa che ripetere, in linea essenziale,
quanto il Sombart ha espresso nella sua opera monumentale sul
capitalismo e quanto altri economisti contemporanei hanno scritto
contro il sistema capitalistico, e che l’A. si guarda bene dal ricordare.
Nè è fatta alcuna discriminazione, fra capitalismo e capitalismo, senza,
per es., ricordare che m Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio.
Nei tentativi di costruzione teorica del corporativismo fascista tiene
conto, in particolare delle dichiarazioni della << Carta del
Lavoro» che rincalzano la propria tesi per Ja quale vede la soluzione
corporativa n clini entità assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia
Hegel e Marx. Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione teorica la
quale e apparsa a sfondo social-comunista per l’ammissione della corporazione
come proprietaria. Propugna, inoltre, 1 A. il partecipazionismo operaio,
altro espediente vecchio e già discusso ampiamente nei tempi passati. Ma,
con buona volontà, si può Scorgere nel sistema di Spinto anche un
liberalismo assoluto per cui dopo aver letto gli scritti di questo A. del
corporativismo si riuscirà a capire meno di prima. E non m tenrnamo quii
su altri grossolani errori espressi dall A. nel campo delle realizzazioni
pratiche corporative, come per es. su quelle in cui consiglia per il
nostro Paese una industrializzazione ad oltranza, la emissione di
prestiti esteri, una politica commerciale che sara forse realizzata
nell’anno 2000, ecc (Tutte queste idee sono espresse nel voi.: Capitalismo
e Corporativismo, Sansoni, Firenze. Contra a Spirito, si vegga: Arias,
cit., Jannaccone, cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso cit.. Vinci,
appresso citato, ed i seguenti scritti: Croce B.: L’economia filosofata e
attualizzata, in Critica; Galli R. : SulF identità delV individuo con lo
Stato in La Vita Italiana; (jANGEMI L. : Individuo e Stato nella
concezione corporatina, m Atti del Secondo Convegno di Studi Sindacali e
Corporativi, Ferrara; Brucculeri A.: L economia corporativa, in La Civiltà
Cattolica», e Crisi e capitalismo, nella stessa rivista, etc.
Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e Stato nelle
Corporazioni ( Archivio di Studi Corpora .V'iV-’i) mostra come la
formula dell identità è chiarissima nel pensiero dei socialisti e dei
liberali. L’individualismo moltiplicando le sue forze non rinuncia ad
essere sè stesso. Il grande significato del Corporativismo è la
disciplina economica nazionale. Con il Corporativismo si passa dal
soggettivismo all’oggettivismo. Alla organizzazione professionale è
affidata, sopratutto la oggettivazione delle scelte economiche. Il
nuovo modello della realtà economica non potrà non essere anch’eseo,
naturalistico e deterministico: non c’è scienza senza determinismo.
Caratteristica delle concezioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello
Stato Corporativo non vi saranno più disoccupati!). La nostra
divergenza ideale con l’economia degl idealisti non va assolutamente confusa
con le invettive di quei messeri interessati ad un intervento che oggi
chiedono e ieri respingevano, nè con le interpretazioni di coloro che
hanno gli occhi sulla nuca! Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii
della Scienza Economica e l’economia corporativa (Rivista di
Politica Economica», marzo-aprile 1934). Il M. rifiuta 1 identificazione fra
Stato e Individuo. Integrando ® correggendo le opinioni di Arias e Fovel
considera l’economia corporativa come una economia non
euclidea. Papi U. : Un principio teorico deW economia corporativa, in Giornale degli Economisti, e più
diffusamente in Lezioni di Economia Generale e Corporativa», Gedam,
Padova. (Il P. ritiene che il sistema corporativo si possa
considerare come lo strumento capace di assicurare le imprese contro i
(risdhi extra-economici (guerre, crisi, scioperi, etc.). Rossi L. :
Economia e Finanza, cit. (Chiarifica il concetto di concorrenza e mostra
i caratteri della teoria dell’equilibrio economico generale.
L’ordinamento corporativo traduce nel diritto positivo un complesso
di norme di diritto naturale, che presiedono al fenomeno sociale della
ricchezza. Ne risulta un diritto corporativo, definizione giuridica della
libertà economica c e sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e
la figura dell’uomo corporativo si risolve nell’uomo economico libero.
L’economia corporativa importa la penetrazione nell’organismo produttivo di un
sistema organico, razionale di politica economica. L’economia corporativa
risolve il contrasto fra l’essere e il dover essere della vita economica.
Dover essere: razionalità (teoria economica pura), eticità (politica
economica). Le forze direttrici corporative devono fornire al dinamismo
economico il volano regolatore). Vinci F. : Il corporativismo e la
scienza economica (Rivista Italiana di Statistica» etc.. Questo A.,
conscio delle interdipendenze fra i vari fattori di produzione e fra le varie
imprese e delle condizioni di concorrenza mondiale, ha dimostrato che
la disciplina unitaria e
l’autodecisione, ove conducesse fino ala determinazione delle produzioni
e dei consumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni dell’uria o
dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti reciproci, non solo fra
due o tre, ma fra tutte le Corporazioni, imponendo al Consiglio Nazionale delle
Corporazioni un continuo, pericoloso compito di revisione e di
conciliazione in base a valutazioni complicatissime, a criteri di difficile
determinazione oggettiva ». Sulla Finanza Corporativa. Si
espressero anni addietro a favore del contingente : Griziotti, Finanza di
guerra e riforma tributaria, in La Riforma Sociale. Contro il
contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Finanze, Torino. Ed oggi, a
favore del contingente (citiamo gli scritti più seri): Benini, loco
cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa, in Echi e Commenti, e dello stesso : Ordinamento
corporativo e ordinamento tributario, in
Atti del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara;
Bonanno: L’extra-individualismo nelle entrate del bilancio dello Stato,
Dir. e prat. trib., e dello stesso: Lo Stato corporativo e la sua
finanza, in Diritto del Lavoro; Uckmar : Ordinamento Corporativo e
ordinamento tributario, Relazione al I
Convegno nazionale di Studi Corporativi», Roma, 1930, e dello stesso:
Verso una revisione corporativa della pubblica finanza, in Diritto del Lavoro », Roma; Riforme
tributarie e Stato corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma; Finanza
corporativa, in Diritto e Pratica Tributaria. Roma, ed infine, sempre
dello stesso: Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti
del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi, Ferrara. I ra questi autori
la corrente radicale trova favorevoli Benini, Bonanno e Montemurri.
Uckmar ritiene che la finanza sia individualista e perciò la vorrebbe riformata
in un senso meno individualista, ma nei suoi studi esprime delle proposte
che trova consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente, che
riconoscono doversi inserire nell’ordinamento corporativo anche la finanza allo
scopo di raggiungere quei fini che gli conferiscono caratteri
fascisti. Sono contro D’Alessio, in un suo articolo: Evasione
fiscale e riforma tributaria («Augustea»), e Genco («Comunicazione al II
Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara) i quali vorrebbero
arrivare all’abolizione o per lo meno alla riduzione degli organi
finanziari statali ed alla loro sostituzione con le Corporazioni!
Uckmar, contingentista moderato, riconosce che il potere imposizionale
tributario spetta allo Stato. Quest’autore quindi può inscriversi fra i fautori
di una finanza coordinata all’ordinamento corporativo, ma è lontano dalle
Improvvisate e rivoluzionarie trasformazioni. La finanza oltre a
presentare un contenuto politico, riveste un contenuto tecnico con il quale
male si accorda la improvvisazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la
soddistazione di essere considerati rivoluzionari al cento per cento,
mentre agli altri rimarrà la soddisfazione di non avere incoraggiato i
salti nel buio che in materia finanziaria si scontano amaramente dalla Nazione,
e perciò si ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non
meno rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano i ce piu radicali.
Il tempo sarà giudice sereno fra tanto contendere. Ricordiamo i seguenti
scritti fra i tanti che accolgono, con moderazione, una riforma
tributaria in ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino CaProblemi
di Finanza, Torino, Giappichelli; Scandali: E.: Imposizione tributaria e Stato
Corporativo in « Echi e Commenti, e dello TTr- A r-,ane r e
in «Giustizia tributaria», giugno 1929; Gangemi L rinanza
Corporativa, in « Rivista di Politica Economi Stato C e dell ° stesso: La
finanza nello Stato Corporativo, in « Commercio », Roma, e
S“,° £ r” cernii in
«Rivista di Politica Economica (e una carica a fondo contro la
funzione graduale, ransitona e limitata del contingente come è propugnata
da Montemurri e dal Cardelli il quale ultimo ha espresso la sua tesi
nella Rivista «Il Commercio» f, 7 iarzo \ a f, rlIe)i Toselli Colonna:
Teoria e problemi della- economia finanziaria corporativa, Alessandria
Colombani (è questa una diligente rassegna dei problemi corporativi della
finanza). Infine, si segnala 1 eccellente studio del Borgatta: Le
funzioni WaC “ f ’ in Lo Stato e CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t
SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova, CEDAM) non sembra opportuno affidare
all’Associazione Sindacale la ripartizione degli oneri tributari a gin
associati. Le associazioni sindacali, probabilmente « non sarebbero neppure
molto disposte ad assumersi tali compiti, ohe spesso non sarebbero
neppure in grado di svolgere efficientemente data la limitatezza e
l’inadeguatezza dei mezzi che hanno a propria disposizione, anche a
prescindere dal giusto timore dei dirigenti di potersi creare m tal modo
animosità lesive di quella compattezza dell’Associazione Fascista, che
costituisce uno dei suoi requisiti più essenziali in relazione ai
fini propostisi dal nostro legislatore». Un chiarimento sulla tesi
riformista del Benini. La ritorma propugnata da questo autore (studio
cit.), per quanto riguarda l’imposizione diretta, è vasta e coraggiosa:
due tipi di imposte dirette, proporzionali, l’una sul reddito totale di
famiglia, l’altra sul patrimonio-. Senza dubbio, la scienza
finanziaria ed il procèsso evolutivo della legislazione fiscale degli
Stati moderni pongono in evidenza i tributi globali e personali
come il fondamento di un corretto sistema di imposizione diretta in luogo
delle imposte reali imperfette e causa di sperequazioni gravi ed
inevitabili. Il nostro sistema attuale è fondato appunto sui tributi reali,
integrati da una imposta personale, la complementare, che con i
procedimenti fatti approvare dal Ministro Jung presenta una struttura che le
consente di assolvere agli importanti suoi compiti. Ma, appunto perchè la
riforma proposta dal Benini muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro
sistema d’imposizione diretta, sono necessari, per giungere ad essa,
lunghi e ponderati studi sulla entità, sulla composizione, sulla
distribuzione e sul raggruppamento dei redditi, sulla organizzazione
tecnica della nuova amministrazione; sopra tutto occorre, per concepire ed
attuare una riforma così vasta e complessa che le condizioni del1 economia
nazionale e della pubblica finanza entrino in un periodo di sufficiente
tranquillità e stabilità. Tutte cose queste di cui il Benini è
consapevole. Un posto a parte tiene il Griziotti il quale fra
le due opposte opinioni che esiste una finanza corporativa oppure il
contrario che questa non esiste sostiene una terza e differente che trova
riscontro nei seguenti scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche
nello Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro »); Idee
generali sulla trasformazione del nostro sistema tributario, esposte al
Primo Convegno di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del
Consi. glio Prov. dell’Economia di Pavia; Le finanze pubbliche e
l’ordinamento corporativo, in « Economia. Il Griziotti, se non erriamo,
desidera un sistema di imposte congegnate in modo da rispettare le
esigenze della produzione. Vuole un sistema tecnico e razionale che sodisfi
anche i criteri della giustizia nella ripartizione dei carichi pubblici.
Rico Gangemi, Dottrina Fasciata ed economia. nosce che l’opera del
primo periodo della finanza fascista ha tenuto conto delle esigenze della
produzione. Queste idee evidentemente indicano nel Grìzìotti un
fautore della finanza corporativa. Dove il nostro non ci trova
consenzienti è nei dettagli (ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva
delle rendite e dei sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il
discorso. Secondo un distinto allievo del Griziotti, il
Pugliese (La Finanza e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati
Moderni, Padova, GEDAM) « Nello Stato Corporativo l’economia continua a
basarsi fondamentalmente sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè
alcuno dei principi che reggono l’economia capitalista viene
apriosticamente ripudiato: ma vi si aggiunge un elemento che è quello del
controllo sociale che, sulla iniziativa privata e sul suo svolgersi,
viene attuato dallo Stato. Nello Stato corporativo anche la politica finanziaria
deve necessariamente seguire le direttive, che non coincidono nè con
quelle del sistema liberale-capitalista (benché ad esse siano assai più
vicine) nè con quelle del sistema collettivista. Essendo
l’imposta uno dei principali strumenti di cui lo Stato qualora rispetti il principio della proprietà
privata si può valere, per intervenire nel campo dell’economia, individuale, è
logico che ad essa faccia più largo ricorso uno Stato, che ha per
principio l’intervento, ogni qualvolta l’interesse nazionale lo
richieda. E essenziale rilevare che nel sistema corporativo,
mutano fondamentalmente i modi dell’azione statale: mentre nel sistema
liberale-capitalista lo Stato si propone fini di benessere e prosperità, che
vengono attuati mediante la protezione di tutte quelle forze
individuali che si dimostrano utili a tale intento, lo Stato corporativo,
oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa esso stesso agente
diretto e primario per l’attuazione degli scopi suddetti, non solo proteggendo
e favorendo le forze utili' ai propri fini, ma facendosi iniziatore
dei provvedimenti atti ai dirigere le forze individuali all’obbiettivo
prefisso. Non possiamo chiudere questa nota senza ricordare il
contributo che, anche in questo campo ha dato Pantaleoni col suo scritto:
Finanza fascista, in « Politica, scritto che i nuovatori sistematici ed i
creatori di schemi astratti farebbero bene a leggere ed a meditare se veramente
sono, come si ritengono, difensori dell’interesse nazionale. Capitoli
della storia: “Mussolini ed il fascismo” p. 1; “La respnsabilita della guerra
ed il “tradimento militare”; “La preparazione del colpo di Stato”,
“L’antifascismo del Governo Badoglio e la capitolazione”; “La liberazione di
Mussolini”; “La proclamazione della Repubblica Sociale”, “Il Manifesto di
Verona”, “In lotta per la difesa dell’onore italiano”, “La lotta per la difesa
del patrimonio nazionale italiano”, “La politica di conciliazione nazionale;”
“Conati di revision in senso liberale della tendenza autoritaria e per la
instaurazione della legalita”; “Il processo di Verona e quello degli
Ammiragli”; “La politica sociale, dindacale ed economica”; “Il regno d’Italia”,
“I comitati di liberazione”, “La guerra partigiana”, “Il Ragrgruppamento
Nazionale Repubblicano Socialista”, “La catastrophe militare”; “L’instruzione
dei ‘sanguinari’.” – Tra Croce e Mussolini, contributo a ”Gentile” –
“Nazionalismo Sociale” – contribute alla rivista La Verita (fascista).
“Nazionalismo Sociale”: L’idea corporative come INTERPRETAZIONE della storia –
con una conclusion politica di Augusto de Marsanich, Achille Celli Editore. Domenico
Edmondo Cione. Keywords: ICARO, l’idea corporativa, corporativismo, storia del
nazionalismo sociale, icaro, la caduta d’icaro, icaro caduto, dedalo e la
civilta greco-romana, corporativa, principio corporativo, principio cooperativo,
corpotivismo, corporatismo, corporativismo, ideale corporativo, conservativo come
corporativo, ugo spirito, “pocca testa”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cione”
– The Swimming-Pool Library.Cione
Luigi
Speranza -- Grice e Citrone: il cinargo a Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza
(Roma). A member of the Cinargo and a friend of Giuliano. Chytron
Luigi Speranza -- Grice e Civitella: la ragione
conversazionale e ’implicatura conversazionale – scuola di Teramo – filosofia
abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Montorio al Vomano). Filosofo abruzzese. Filosofo
italiano. Montorio al Vomano, Teramo, Abruzzo. Delfico-de-Civitella (under Ser
Marco). (Montorio al Vomano). Filosofo. Grice: “I love Delfico – while he wrote
on Roman jurisprudence – Hart’s favourite summer read! – mine is his
(Delfico’s, not Hart’s) little thing on the beautiful – we must remember that
back in them days of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a diminutive
of ‘bonus,,’ as in ‘bonello’ – the point is important for for Platonists, love
(that makes the world go round) is desire for the ‘bello’ including the MORAL
bello – so it is the key concept in philosophy – and not as Sibley and Scruton
narrowly conceive it!” C. è giustamente ritenuto il Nestore della filosofia napoletana.
Questo illustre filosofo, autore di molte opere di storia e di una varietà di
soggetti interessanti, unisce ad una vasta istruzione una accuratissima e
profondissima conoscenza di ogni aspetto che interessa la sua terra; e possede l'ancor
più raro merito di saper comunicare le preziose esperienze acquisite con una
amenità di maniere, una facilità e semplicità di espressione che le rendono più
apprezzate a quelli che le ricevono. Figlio di Berardo C. nasce nella villa di
Leognano, in provincia di Teramo. Le origini della sua famiglia risalivano
almeno a quando Pir (o Pyr) Giovanni di Ser Marco, generalmente riconosciuto
come il capostipite della famiglia, cambia il proprio cognome in “Delfico” e
adotta il motto “eat in posteros Delphica Laurus”. Secondo alcuni, e tra questi
Savorini, il cognome è “de C.”. All'interno della sua famiglia va individuato
come Melchiorre III. Rimasto ben presto orfano di madre, fu dapprima affidato
ad ecclesiastici ed in seguito inviato a Napoli, per il completamento degli studi. Nella
capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi per le materie filosofiche
per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno per il diritto e Mazzocchi
per l'archeologia. Nella città partenopea si laureò in utroque iure
sotto la direzione di Filangieri e redasse subito diverse memorie per il
governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se ne spogliò subito per
motivi di salute. Nella prima parte della vita si dedica in particolare
allo studio della giurisprudenza e dell'economia politica, scrivendo numerosi
trattati che esercitarono un grande influsso nel miglioramento e l'abolizione
di molti abusi. Con il ritorno in patria si inizia un periodo
fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di Napoli. Intorno a
loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le premesse per un
profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del territorio in cui
agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi, Quartapelle,
Tulli, Nolli, Orazio C., il figlio di Giamberardino, che fu allievo di Volta e
Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto noto in tutto l'Abruzzo. Si
appassiona al collezionismo, in particolare di libri antichi e monete di epoca
romana e pre-romana. Nominato presidente del Consiglio Supremo di Pescara
e poco dopo membro del governo provvisorio della Repubblica Partenopea.
Caduta la Repubblica Partenopea anda in esilio per sette anni nella Repubblica
di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza. Scrisse il saggio “Memorie
storiche della Repubblica di San Marino”, prima storia organica dell'antica
repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una serie di 12 francobolli e ha
coniato una moneta d'argento dal valore nominale di 5 euro per commemorare il
filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio territorio. Bonaparte,
nominato re di Napoli, entra a far parte del Consiglio di Stato, ricoprendo
varie cariche ministeriali. Restaurato il governo borbonico, fu nominato
presidente della commissione degli archivi e successivamente Presidente della
Reale Accademia delle Scienze. Venne eletto deputato al Parlamento
napoletano e fu chiamato alla presidenza della Giunta provvisoria di governo.
Si stabilì definitivamente a Teramo. La famiglia di C. si estingue con Marina, sposata
al conte Gregorio De Filippis di Longano, dando origine all'attuale famiglia
dei conti De Filippis marchesi Delfico. La filosofia di C. si forge nel fermento
culturale del Secolo dei Lumi e del diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche
furono compiutamente esposte da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in
quella di Rousseau, nelle quali i principi del diritto naturale erano
rappresentati dalle idee di libertà e di eguaglianza di tutti gli uomini. I
fermenti culturali del periodo assunsero una valenza rivoluzionaria e
contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale logora ed invecchiata,
che si reggeva ancora ai capricci bizantini dell'autorità invadente.
Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli strumenti a cui si richiamò
l'opera del C., permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma, dalla compressione
della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto dall'abbattimento del
monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del regime. Ciò che
caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione dello Stato, non
più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole della morale
corrente. Come politico e come giurista, e eminentemente pratico, così da
poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori del suo
tempo. Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto nazionale, il
Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede nel Palazzo
Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a filosofo. Altre a
Teramo e alla frazione di San Nicolò
(nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla Vibrata, Penna
Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo; Montesilvano,
Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche intestate a
Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato massone. Questo
interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non esisteva una risposta
documentale. Esistono invece molte prove indiziarie relative alla sua
appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo all'appendice del volume
di Eugeni, Forti, allievo di Fergola. I principali indizi si possono così
riassumere: I maestri ed amici di C., come Genovesi, Pagano, Filangeri,
furono tutti noti massoni; In un diario del curato Crocetti di Mosciano
appaiono notizie di una Loggia massonica esistente a Teramo. Assieme a Quartapelle,
subisce due processi per miscredenza. Promuove un movimento culturale detto
'’La Rinascenza'’ di chiaro stampo illuminista. Nella rinascenza militano tutti
i filosofi del tempo: i Tulli, i Quartapelle, Comi, Pradowski ed altri; La
poesia di Pradowski sembra proprio la descrizione di una Loggia. Manda il
nipote Orazio C., futuro Gran Maestro della Carboneria teramana, a studiare a
Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni, tre noti massoni del tempo.
Perrone pubblica un saggio basato sulla corrispondenza di Münter con noti
massoni napoletani lo dà come sicuramente massone, anche se "il suo
nome non s'incontra nelle logge razionaliste". Altre saggi: “Saggio
filosofico sul matrimonio” (s.n.tip. ma Teramo, Consorti e Felcini); Memoria
sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti
del regno” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Riflessioni su la vendita
de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Ricerche sul vero
carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori” (Napoli, presso
Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria e su l'incertezza ed inutilità
della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali Roveri); “Nuove ricerche sul
bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della antica numismatica della città
di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche” (Teramo,
Angeletti). Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il Palazzo Dèlfico, Edigrafita Perrone, La Loggia della Philantropia. Un
religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza
massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni,
Sulla vita e sugli scritti del commendatore C., in Giornale arcadico di
scienze, lettere ed arti, Raffaele
Liberatore, Melchiorre C.. Necrologia, in Annali civili del Regno delle Due Sicilie,
Ristampato come C. in: De Tipaldo Biografia degli Italiani illustri, Venezia,
Ferdinando Mozzetti, Degli studii, delle opere e delle virtù di C., Teramo,
Angeletti, Gregorio De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere, Teramo,
Angeletti, Aurini, C., in: Dizionario bibliografico della gente d'Abruzzo,
Teramo, Ars et Labor, ora in Nuova edizione, Colledara (Teramo), Andromeda
editrice, Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano,
l'attività presso il Consiglio delle finanze, Roma, Edizioni di storia e
letteratura, Clemente, Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia italiana, Donatella Striglioni ne' Tori, L'inventario del
Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, Teramo, Centro abruzzese di
ricerche storiche, Carletti, C.. Riforme politiche e riflessione teorica di un
moderato meridionale, Pisa, Edizioni ETS,
Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli
prima della rivoluzione, Palermo, Sellerio. Treccani. Il DRITTO ROMANO è sempre
incerto ed arbitrario. Tale il suo carattere, poichè, sebbene non gli mancassero
ancora degli altri nei, pure quelle sole qualità -- incertezza e arbitrarietà
-- sono bastanti per renderlo mostruoso e deforme. E di esse specialmente
imprendo a trattare, come quelle che portarono a luce LA VANTATA GIURISPRUDENZA
ROMANA. Ed accio questo ordinatamente si vegga, fiaci opportuno il seguir la
storia che della nascita e de felici progressi di essa ci somministra i lumi i
più importanti. Fra gl’innumerevoli doccumenti tal oggetto riguardanti, prescelgo
quello di cui tutti I FILOSOFI si servirono, quasi di testo alle loro ricerche
e commenti. Già si vede che io parlo delle opera del giureconsulto SESTO
POMPONIO, della quale si avvalsero i compilatori del dritto giustinianeo,
rapportando nel titolo dell’origine del dritto, tutto cid che il nomato
giureconsulto raccolgeo su tal oggetto nel suo manuale. E poichè POMPONIO incomincia
la storia del dritto da ROMOLO e dagl’altri seire di Roma, dello stesso momento
conviene seguirlo. In questa prima epoca, abbastanza oscura, non vi sarà pero
materia di dispute, poichè SESTO POMPONIO parlando conformemente alla ragione
ed alla storia dice che Roma da principio visse con incerte leggi e con dritto
incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè si deve intendere per
quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia – GL’OTTIMAT -- nella qual
forma Roma ha il suo incominciamento. Quindi POMPONIO si espresse nelle precise
parole. POPVLVS SINE LEGE CERTA SINE IVRE CERTO PRIMVM AGERE INSITVIT. N’altrimenti
dove avvenire, poichè quella prima associazione essendosi formata di gente
malatta al vivere socievole, e non avendo ancora positiva forma di società,
dove essere piuttosto REGOLATA DALLA FORZA DEL COMMANDO che da un stabilimento
positivo. Ciascuno sa che ROMOLO, per accrescere il numero de primi suoi
compagni, prese l’espediente d’APRIRE UN ASILO da era retto ve s9 da che si puo comprendere quali fossero i
primi fondatori di Roma. I di lui favoriti furono i più valorosi briganti, e
questi divenneno i padri della patria, i forti, i primi quiriti, e formano il SENATO.
Dopo questi primi tratti caratteristici relativi alla legge, POMPONIO segue a
raccontare tradizione, che essendo cresciuta in qualche modo la città, ROMOLO
divide il popolo in tante parti chiamate “LE CURIE” e col voto di esse prende. LA
CURA DELLA PUBBLICA COSA e in seguito FA LA LEGGE CHE CHIAMA “LEGGE CURIATA” -come
ne fanno ancora i sei re successivi. TUTTA LA LEGGE CURIATA è raccolta da SESTO
PAPIRIOS, il quale viv al tempo di TARQUINIO il superbo – e, dal nome dell'autore,
quella raccolta è chiamata il “DRITTO PAPIRIANO”. Non m'impegno nelle dispute
storiche e critiche delle quali si occuparono gl'interpreti di POMPONIO, ma
osservo che, sebbene da principio, parla dello stato informe di Roma e
dell’autorità regia non modificata dalle legge, fa dindi vedere come è data una
forma, non una costituzione, alla città, e come dai re è promulgata la legge
curiata. Per quanto durano i regii signori, Roma non ha dunque che QUESTA O
QUELLA legge occasionale, e LA SOCIETÀ È MANTENUTA PIÙ COL GOVERNO CHE COLLA
LEGGE. Prima intanto di passar oltre, e per la migliore intelligenza de’ tempi
seguenti, non è inutile il presentare lo stato politico del popolo romano sotto
l’epoca dei re, e quale è l’indole della legislazione per tutto quel tempo. E
poichè di cose che non hanno autori contemporanei o vicini, non è possibile il
ragionare con precisione ed esattezza; percio scortato dalla natura delle
circostanze e dalle tradizioni pervenutaci, m’ingegnero di esporle nell’aspetto
il più ragionevole. Fra l’oscurità delle origini romane possiamo rilevare che
quella società incomincia da un ADUNAMENTO DI PERSONE APPARTENENTI A VARI
POPOLI -- non solo ITALICI, ma greci e celtici ancora. Codesta tumultuaria
associazione, avendo ROMOLO per capo vive, da principio, di prede e di rapine, gusto
che fa il perpetuo carattere della nazione, trasformato poi in quello di
conquiste, come gli avoltoi comparsi a ROMOLO nel prendere gli’auguri sono
poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose, da principio NON
VI È BISOGNO DI LEGGE, poichè non vi era proprietà, essendochè Roma è fondata
come LIVIO si esprime in fondo alieno, e le piccole private dispute sono decise
dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari, e nelle società de’
briganti è sempre avvenuto. Avviene similmente che, nel formarsi tali
associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia – GL’OTTIMATI -- e così
avvenne di Roma. Il palagio di ROMOLO è una succida capanna. Il di lui TRONO
quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il SENATO è la scelta de’
commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che poterono vantare
certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto il resto è vile
plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale dell’aristocrazie
nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ sono nomi di versi appartenenti alle
stesse persone secondo i va apporti ne' quali sono considerati, o di Senato
consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata sulle
divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia
non ha alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi
autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle
parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagl’antichi autori,
parlando dell’origine del CLIENTE, si esprime in termini rappresentativi della
verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo. PATROCINIA
APPELARI CAPRA SVNT CVM PLEBS DISTRIBVIA EST INTER PARES. Ne si devono contare
per un ordine intermedio di cittadini quegli equiri o celeri o i fossuli nominati
fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato politico ma al stato
militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi di quella società
nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a consolidare in quella forma
nella quale da principio è stata abbozzata. Sotto il re NUMA vediamo i primi
passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento della proprietà territoriale:
la prima legge relativa alla religione ed al delitto, lo stabilimento dei
ministri e degl’interpreti della divinità. In somma, il principio di un GOVERNO
TEOCRATICO, pel quale pare che sieno passate tutte le nazioni prima di portare
sulle cose civili le considerazioni proprie della ragione. Ma quello che
specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel re teosofo hanno i primi
principi le scienze ancora della legge e del politico governo. Non si dee durar
gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in tutti gl’atti umani e farli
nascere ancora in UN POPOLO QUANTO IGNORANTE TANTO SUPERSTIZIOSO. Così par che
fa Numa o per idea propria o per imitare i stabilimenti della sua nazione o pel
natural corso del sociale andamento. Cosi gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia
sommamente poderosa poichè combina nello stesso corpo gl’interessi del
sacerdozio e dell’impero, o le due aristocrazie, politica e sacerdotale:
GL’OTTIMATI. Su questo piano Roma cresce successivament sotto i re. L’aristocrazia
è sempre salda contro le regie intraprese, e la storia ci mostra con quali
mezzi crudeli e sacri sa sostenersi. MASSACRARONO ROMOLO E NE FECERO UN DIO.
Tale idea pero del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta. Il primo
per quanto io so a darne l’idea è VICO, il quale, riunendo alla multiplicità
delle filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle origini sociali,
fra le tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le ricordanze degl’antichi
costumi sa scoprire come un principio naturale politico, che nel comune corso
delle nazioni la società primitiva comincia sempre dall’aristocrazia, la quale
nasce dalla qualità delle circostanze, dall’ignoranza de’ dritti, e della
compagna superstizione. Le luminose tracce di VICO sono poi seguite da DUNI, e
fermatosi particolarmente a considerare il governo romano, dimostra che Roma nasce
aristocratica – Gl’otimati --, che il RE non è che il capo dell’aristocrazia,
che i soli patrizi – gl’ottimati – hanno la quarta di cittadini che sono in perfetto
stato di combinazione l’aristocrazia POLITICA e l’aristocrazia sacerdotale, e
che il nome di ‘POPOLO’ ne’ primi tempi ai soli patrizi (ottimati) appartenne,
come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza – CIVES, POLIS -- i
quali poi sono gradatamente dalla PLEBE acquistati. DUNI concilia luminosamente
la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto POMPONIO e fa vedere
che il re NON HA CHE UNA *PARTE* del governo o dell’amministrazione, ma che LA
SOMMA DELL’AUTORITÀ, LA VERA SOVRANITÀ, il
potere legislativo, il dritto della pace e della guerra risedeno nel corpo de’
patrizi – L’OTTIMATI -- come anche il dritto di eliggersi il loro re o
principe. Sono essi i depositari delle leggi e delle medesime i (DUNI, Orig.
del Citted. Romano) ministri ed interpreti. E, siccome per un’eterna verità, l’aristocrazia
– GL’OTTIMATI -non si sostiene che sull’appoggio della SUPERSTIZIONE POLITICA. Cosi,
dal corpo aristocratico – Gl’OTTIMATI -- si sceglievano i vari sacerdozi, e fra
essi il corpo de’ pontefici è specialmente destinato a dar i giudici alle cose
umane. Quindi la CONOSCENZA della legge e l’amministrazione delle medesima è un
dritto esclusivo e divenne una dottrina arcana, conservata con tutta la gelosia
del mistero, dispensata solo a modo d’oracoli e strettamente CUSTODITA
NELL’ORDINE de’ patrizi – GL’OTTIMATI. Codesta emanazione della prima ‘teocratica’
idea non solo si conserva per quanto ha di durata il governo del re ma per
quanto vive la Roma. Una repubblica, colla sola differenza pero che come crescheno
le cognizioni ed i necessari riflessi della ragione, e da essi RIFLESSI DELLA
RAGIONE POLITCA nasceno i sentimenti di libertà e d’eguaglianza, così quelle
idee si andano a poco a poco estenuando, finchè non ne rimasero che i soli
simboli commemorativi, o il nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna effettiva
influenza. È necessaria questa breve esposizione, per cogoscere quale fosse lo
stato della legge, dell' amministrazione giudiziaria e della giurisprudenza ne’
primi tempi di Roma. Senza impegnarci nella particolari legge sotto il re
emanata dal senato regnante, possiamo con sicurezza affermare che la legge è
minima, eventuale ed incerta -- e che l’interpretazione delle medesine essendo
stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni individui, possiamo dire
ancora che la giurisprudenza è incerta, irregolare, arbitraria, e quale AD UNA
NAZIONE IGNORANTE E SUPERSTIZIOSA può solo convenire, e per conseguenza esser
stato pur vero ciocchè POMPONIO scrivee, che sotto i re sine lege Gerta – SINE
IVRE CERTO -- ine jure certo viveno i romani. Lascio agl’ambiziosi di glorie
filologiche legali l’andar raggruzzolando i pochi superstiti frammenti della
legge regia, poichè i stessi antichi giure-consulti ne fanno poco conto e le
lasciano perire. Chi vuole però riconoscerle, trova in esse la conferma di
quell’idea superstiziosa caratteristiche della prima aristocratiche
associazione. Espulso il re col ratto di LUCREZIA, si crede comunemente che il
governo di Roma cangia d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gl’eroi
della libertà. Ma chi giudica senza
prevenzione non vi trova che gl’eroi dell’aristocrazia. Anche quessti parlano
di libertà; della propria libertà però non della libertà pubblica -- per
servirmi delle parole di Dionisio, della libertà propria e del dominio sugl’altri.
Quindi, Roma non vide alero cangiamento che di due re invece di uno e la legge
e l’amministrazione politica e civile rimaneno nella stessa condizione.
L'incertezza è seguita dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio. Ciocchè ci dà
manifestamente ad intendere POMPONIO dicendo: EXACTIS DEINDE REGIBVS AE
ITERVMQUE CÆPIS POPVLVS ROMANVS INCERTO MAGIS IVRE ET CONSVETVDINE ALIQVAM PER
LATAM LEGEM IDQVE PROPE SEXAGINTA ANNIS PASSVS EST. L’aristocrazia è stata
alquanto abbassata dall’ultimo re, per cui ha fine il suo governo. Ma dopo la sua
espulsione ritorna presto nel primiero vigore. Quindi gl’effetti doveno essere
conseguenti, e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infattim si sa che DALL’ANNO
FATALE AI TARQUINI FINO AL TEMPO DELLA LEGGE DECEMVIRALE, il potere legislativo
ed il potere giudiziario sono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo è
ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i
plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della
forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale sono tenuti, tentano
de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano oppressi.
Ottenuto il TRIBUNATO si avvidero ben presto che esso è troppo debole ostacolo
contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente è annidata dentro la
stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo che fieramente la difende.
L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può escogitare un popolo schiavo
ancora dell'opinione, sono più volte ripetute. Ma le loro domande sono incerte,
le loro querele generali, ed i loro desideri si riduceno ad essere considerari
come uomini e come cittadini: Ut hominum ut civium numero simus. In questo
stato compassionevole compresero finalmente che niun mezzo vi può essere migliore
per ottenere l’intento che quello di formarsi una legislazione generale, poichè
la sola legge puo stabilire la libertà e l’uguaglianza civile, potevano esser
riguardati come uomini cittadini. Strano ed ARROGANTE sembra al patrizio il
desiderio della plebe, e strano pare sempre al possessore del potere arbitrario
il desiderio del ristabilimento della legge e della giustizia. Quindi il patrizio
non lascia mezzo intentato per frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione e
persuaderli che i patri costumi sono sufficienti e che di nuova legge non vi è
bisogno – MORES PATRIOS OBSERVANDOS LEGES FERRE NON OPORTERE. Sono intanto
inutili le persuasioni, e lo stato infelice nel quale il plebeo si trova detta suo
questo solo espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul
modo di sedare le civiche discordie rispose loro. Fatevi la legge; i Romani
plebei senteno l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je
gemevano. Vollero quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche
sono messe in uso per ingannare quel popolo che spesso riposa colla più buona
fede sopra i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i quali
doveno mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia a
raccorre la legge per la nascente regina del mondo, si occultano in qualche
luogo d'Italia, e la legge poi è tirata dall’arche pontificali e perchè nulla manca di condimento
aristocratico, si fanno poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da
Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle
XII tavole se è trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe, è un
articolo sommamente istruttivo. Ma questa ricerca veramente politica è stata
molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si dove
servire e che non dove aver più in luogo di una legge il capriccio o la privata
autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il patrizio risponde
che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastano l’usanza, no la legge. Il
popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la religione, e questa spesso
parla per bocca de buoi e d’altri animali, del linguaggio de quali si fa un
merito d'essere interprete. I plebei vuoleno che la legge si fa dal popolo
legitimamente e liberamente congregato. Il patrizi sostiene che non vi è altra
legge che quelle ch'essi stesse fanno: darurum legem neminem, nisi ex parribus
ajebant. Il popolo vuole una legge d’uguaglianza. Il patrizio le promette in
parole; sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente, dopo
tante vicende le X tavole furono pubblicate – E SUCCESSIVAMENTE L’ALTRE DUE -- come
ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e
resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il
popolo la esamina e la approva solennemente. Ma la storia stessa ci dice che
quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno che sconvolsero tuttol'ordine
pubblico e secondo LIVIO nihil juris in civitate reliquerant, che PER QUELLE
LEGGE OGNI CONSUETUDINE ARISTOCRATICA È CONSERVATA, che la vantata uguaglianza
resia in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconosce d'
essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata
pienamente scoverta da molti autori e specialmente da VICO, da Bonamy e da DUNIi:
la favola d;essere state leggi d’uguaglianza e di giustizia, la può scoprire
facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia gl’avanzi di quelle
leggi. La scovri ancora il [VICO, Scienza
nuova; Bonamy, Memoir. de litterar. de l' Accad. de Paris; Duni: Dėl Cittad.
Rom.] popolo, quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato può
tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse
la gente come uomini e come cittadini, non trova che UNA LEGGE CIVILE, una
legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco
l'interessano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi bisognano UNA
LEGGE COSTITUZIONALE che avessero ragguagliati i dritti, che li avesse
egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai suffragi.
Niente di tutto questo. E la plebe resta delusa della sua troppo malfondata
speranza. Ma sa rinnovare le giuste sue pretenzioni; ed in tanto senza voler
fare l'analisi di que’miseri frammenti delle leggi decein virali, è pur giusto
portarvi uno sguardo generale per vedere almeno, se meritano tutti gl’elogi de'
quali sono state ciecamente onorate dagl’antichi é da moderni; ed osservare in
seguito, se ne provenissero quegl’effetti felici, ai quali produrre sono
destinate. CICERONE in più luoghi esaltandole sopra tutte le leggi conosciute,
non è poi molto felice nel darne le pruove. Così condanna Solone, per non aver
imposto pera al parricidio, supponendolo impossibile, o volendolo supporre talo
tale per onore dell'umana natura; ed eleva la seviezza della Romana
legislazione per aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola,
sem sapientiam! esclama CICERONE dopo aver lungamente ragionato con logica
forense. Tale è la saviezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi;
poichè se si riguardano per la parte criminale esse sono aristocratiche,
ingiuste, severe, é crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale
poch’indizi ci sono restati, andano alla conservazione dell’aristocrazia: se
per quella della Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi
concepimenti del tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, doveno
esser analoghe alle leggi ed all'usanze: se per la parte testamentaria, è
facile il vedere, ch' esse conteneno la massima ingiustizia politica, per
conservare in forza gl’aristocratici dritti. Della stessa indole sono le
indegne leggi relative alla patria potestà ed alle altre relazioni domestiche
nelle quali sempre campeggia lo spirito di famiglia. In quanto al CONTRATTO, la
legge è pur sempli ci, come dove essere in un popolo barbaro con pochi rapporti
civili. Ma l’usure d'ogni specie sono terribili. Chiunque vuole esaminar quelle
leggi in buona fede, e misurarle secondo i vem ri rapporti che le leggi dove
avere colla natura e collo stato civile, trova senza fallo ingiusti ed
irragionevoli gl’encomj alle medesime attribuiti. Ma forse neppur in Roma si
pensa tanto favorevolmente di esse, poichè col tempo par che sono del tutte neglette
e dimenticate. CICERONE stesso riferisce che, al suo tempo neppure erano ben
intese, e sebbene egli nell'infanzia le avesse apprese a memoria, era poi
passato di moda tal costume -- discebamus enim pueri XII. ut carmen necessarium,
quas jam nemo discit. Ed in seguito al riferir di Gellio sono cadute. in tale
disprezzo ed obbllo, che sono derise come fossero le leggi dei Fauni e degl’aborigeni.
Si può trovar intanto qualche motivo, pel quale si possono difendere gl’antichi
panegiristi delle leggi decemvirali. Poichè per quanto fossero selvatiche
quelle leggi, godevam no pur dei dritti che danno l'opinione e l' antichità; e
paragonata la giurisprudenz'antica a quel la degl’ultimi tempi della Repubblica,
il paragone risulta in favore della prima. Ma che i giure-consulti moderni, e
quelli specialmente della setta degl’eruditi riguardino ancora lo studio dei mi
peri frammenti superstiti come il più interessante per la conoscenza del
giusto, e rincariscano sugl’elogj degl;antichi, cið non può essere che
l'effetto d'un letterario fanatismo Se LIVIO chiama le leggi delle XII tavole
fonté ogni equità è troppo credulo all’espressioni ed alle promesse degl’iniqui
decemviri. Qual nie è infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed
ingiusta costituzione non è cangiata, e da quella vantata uguaglianza la plebe
neppure ottenne di acquistar la condizione desiderata. Per quel principio teocratico,
di sopra accennato, ciò che distingue in tutti gl;effetti civili tanto pubblici
che privati, il patrizio dal plebeo, è il dritto degl’auspicj. È questo dritto
che da la vera qualità di cittadino negl’affari civili; ed incominciando dal
primo vincolo sociale, cioè dalle nozze ', con i soli auspicj si produce il
connubio o nozze solenni, dalle qua li deriva il carattere di padre di famiglia,
la patria potestà, e la facoltà di testare; e questa specie di nozze è de' soli
patrizi, poichè gl’altri ridotti al matrimonio civile o naturale senza prevj
auspicj non potevano godere delle stesse prerogative. Gli auspicj e
propriamente gl’auspicj maggiori poi sono i soli mezzi per aver drito alle
Magistrature, e far parte dell'ordine regnante dello stato. Or niun cangiamento
è fatto da quelle vantate leggi su di un articolo tanto importante in quella
costituzione nella quale tutto è sacro; e la Storia c'insegna, quanto poi
costasse di tranquillità alla Repubblica, il voler introdurre in qual che modo
l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria e la giurisprudenza de' tempi più
antichi di Roma, pure si può asserire ch ' esse non hanno propriamente la loro
origine che dopo la pubblicazione delle XII tavole. Si crede intanto che quel
prezioso codice avendo acquistata due qualità principali, cioè d'eso ser PUBBLICO
e generale, avesse resa certa e stabile
la legislazione. Autorizzato dal popolo, fisso nel foro e delle curie, ciascuno
dove trovarvi la certezza de' giudizj, la sicurezza de'suoi dritti la
legittimità de' suoi dominj. Ma su questa conseguenza ci fanno nascer gran
dubbj gl’antichi autori e molti fatti conosciuti. Convien sempre ricordare che
il principal caractere delle prische aristocrazie è la misteriosa custodia
delle leggi o consuetudini, e della religione, ciocchè forma il privilegio
esclusivo, o la privatiya di quella sola sapienza che gode del bujo et del [(Det
ZE =]; pro ice e della pubblica ignoranza. Ma codasta sapienza romana è fondata
parte sull’ingiustizia, parte su l'errore. Su questo, perchè la loro scienza
sacra ed arcana non consiste nel celare al volgo i misteri della natura,
l'origine della cose, l'energia della forza motrice, la fecondazione
dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani presso le altre nazioni:
la loro scienza arcana si raggira sul cantare o cibarsi dei polli, sul volo
degl’uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori delle viscere, e simili cose,
alle quali non può appartener mai il nobile titolo di scienza o sapienza, ma
quello solo di vane osservanze. L'errore poi lo fanno servire all'ingiustizia,
poichè con tali mezzi si manteneno nell'assoluta disposizione delle leggi,
facendole servire alla conservazione del preteso dritto del più forte, cioè
alla sovversion ne di tutte le idee del giusto. Or poichè quelle leggi
qualunque sono pur pubblicate, una parte della scienza arcana e dell'
aristocratico potere anda a svanire, se non si trova un modo col quale si
ripara una perdita si grave. Quessto si effetrul col conservare il potere
giudiziario Dell'ordine de' patrizj, e col rendere inutili le lege es za 7 bid
SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi (78 )* gi; se non sono avvalorate
dalla doro recondita sapienza. Essi doveno spiegarne il senso; essi conoscere
qual dritto nasce da una tal legge; qual era l'azione che ne provenne, quale il
modo o la formola di proporla, quale l'eccezione che può impedirla; e finanche
si arrogarono come un mistero sapere i giorni ne' quali si può amministrar la
giustizia senza offendere i numi. Ecco insomma la giurisprudenza, ossia il
mezzo di rendere inutile anzi dannoso alla società il beneficio d'una legislazione.
Essa vanta un origine aristocratica, un origine che si confonde coll' errore,
colla malizia, e colla prepotenza. Sebbene dunque la giurisprudenza è nata
subito che vi sono leggi incerte ed arbitrarie; pu e non si conferma, estese e
stabilì nelle forme, che dopo la pubblicazione delle XII. tavole; dopo questo
prezioso compendio dei dritti degl’uomini. POMPONIO conferma le mie parole.
Dopo pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente
avvenir suole, s'incomincia a desiderare per l'interpretazione delle medesime
l'autorità de' giurisprudenti, e le necessarie dispute del foro. Tali dispute e
tal dritto non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79 ) 9 ji però
un nome proprio come le altri parti del dritto, ma con vocabolo comune è
chiamato DRITTO CIVILE. Quasi nel tempo medesimo da quelle stesse leggi si fanno
nascere le azioni, colle quali si dove discettare a litigare: ed saccia non è in
libertà di ciascuno il farne uso, si pensa a farle essere certe e solenni; e
questa parte del dritto è denominata azioni della legge, o sia azioni legittime.
E cosi quasi ad un tempo nasceno queste tre specie di dritto cioè leggi delle
XII. tavole; dritta çivile derivato da esse; ed azioni della legge, composte
sui s dritti antecedenti, La scienza poi tanto delle leggi quanta
dell'interpretazione, e delle azioni %, stesse è riservata al collegio de
Pontefici, quali in ogni anno destinano persona che presedesse ai privati affari
o litigi; e con questa, consuetudine vive il popolo per cento anni in circa. Quale
orribile contradizione! Appena pubblicata una legislazione tanto vantata per la
sua perfezione, è trovata cosi insufficiente che ha immediato bisogno di
sostegni e di interpretazioni. E codesto è il codice superiore a tutte le
biblioteche de’ filosofi? Ogni parola di POMPONIO contiene una contradizione
alle idee di leggi e legislazione che somministra il buon senso il più comune.
Il dritto civile tanto encomiato non è altro dunque che il risultato dell’interpretazioni
de'Giurisprudenti e delle dispute forensi? E qual razza di prudenti sono mai
quelli! Ciascuno sa che quella è l’epoca della più crassa ignoranza; la spada,
la zappa, i polli e le usure sono le sole idee che fiorisceno in quelle teste
leggislatrici. Ma poichè col progresso del tempo, e colla frequenza de' giudizi
qualunque è stato quel dritto consuetudinario può pur ridursi in massime o in
principj di giustizia, e cosi divenire di comune intelligenza e di un uso
generale. Si pensa il modo onde questo non avvenisse, e si mantenne sempre le
leggi nel bujo e nell'incertezza. Ne cið è sicuramente per una vanità dottorale,
ma per conservare un potere ed una leggislazione arbitraria, qual è il grande
scopo dell'ordine aristocratico. L'unico mezzo che essi viddero il più opportuno
è quello d'inventare le azioni, cioè delle formole colle quali non solo si dove
agire o eccepire in giudizio, ma secondo le quali si dove regolare i contratti
e gl’altri atti civili, accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non
basta loro di aver la privativa de' giudizj; poichè colla legge certa
difficilmente si può abusarne: bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso
e della nuova pratica una nuova legislazione da surrogare all'antica scienza
mistica delle leggi, per tenerle sempre in quella severá custodia, colla quale
prima delle XII. tavole tenne le antiche consuetudini. E perchè non si manca di
venerazione a tale straordinario stabilimento, i pontefici ne sono fatti
depositarj egualmente e disponitori. Chi' può trovare in questa specie di
legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diretta non a
dispensar giustizia, ma a conservare ľaristocratico dispotismo, da segno, di
non aver mai idea di ciocchè costituisce il carattere delle leggi. Ma non si
tratta già di fare la legge, si tratta solo di tener il popolo in schiavitù:
perchè se avendo già esso acquistato i dritti di privata cittadinanza può
godere anche quello d'ISONOMIAI, cioè dell' eguaglianza delle legge, qual'è il
suo intendimento nel promuovere una pubblica leggislazione, ha un gran passo
verso quella libertà che tanto F ambe, ma che più sente che conosce. Escla. md
esso sovente contro quella specie di occulta o privata legislazione, dicendo,
che la sua condizione de ea in questo assai peggiore di quella dei popoli vinti;
essendogli negato il poter sapere cioc che riguarda i più comuni affari çivili,
e fino i giorni legali e feriali, ciocchè agl’altri non è ignoto: segno sicuro
che l'aristocrazia romana e inolto più feroce o severa di quella delle altre
città o popoli vicini. Il dottissimo VICO con gran proprietà d' intelligenza
pensa che quel notissimo motto di Solone: conasciti, è piuttosto un précetto
politico che morale. Pieno l'animo di tutti i sentimenti della vera giustizia
Solone ricorda con quel motto all'oppresso popolo di riconoscer se stesso, cioè
di riconoscersi per uomini ed uguali ip dritto a colo ro che li opprimevano. Il
popolo romano non ha un Solone, che gli da così utili ricordi; ne forse ne ha bisogno,
poichè abbastanza si riconosce, ed agl’insulti de'patrizi risponde, che non sono
fioalmente essi ne discendenti do’ Dei, nè venu i giù dall' Empireo. Avrebbe
però avuto bisogno di un Solone, per aver lidea d'una costituzione, senza la
quale arrivo si a distruge gero gere la maggior parte degl’abusi del potere aristocratico,
ma non giunse mai a formare una pefetta repubblica, fondata su i veri rapporti
sociali e su i dritti primitivi della giustizia naturale e positiva: per cui se
Roma corse rapidamente alla grandezza dell'impero e delle ricchezze, cadde
anche presto nella voragine del dispotismo. Ma ritornando a quella giurisprudenza
che succedè immediatamente alle XII tavole, e che da nascita a quel nuovo
dritto così stranamente amministrato, dico che, sebbene da quanto semplicemente
espone POMPONIO, se ne possa giustamente fare il carattere; pure ad esuberanza
aggiungerd, che l’illustre GRAVINA, tuttochè pieno d' entusiasmo per la romana giurisprudenza,
non sa nascondere, quanto fosse infelice quella de' tempi de'quali ragionamo.
Antiqua jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum
prodiit: aspera quidem illa tenebricosa et tristis non tam in æquitate quan in
verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiudizj filologici,
vuole mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. F 2 di giudicare giustamente,
come riconobbe per tenebrosa l'antica giurisprudenza, avrebbe riconosciute per
arbitrarie e maligne le successive giurisprudenze dette media e nuova, ed
avrebbe disconfessato gl 'inopportuni encomj, che in generale yolle ad esse
tributare. Per quanto però si è finora ragionato, non ho toccato che
leggermente la nequizia della giurisprudenza e della giustizia sacerdotale; ma
chiun que per poco abbia di buon senso converrà meco, che una delle tristizie
maggiori in fatto d'amministrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e
conoscenza, e ridurle per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani
misteriosi. Nascondere le leggi, è nascondere la luce civile, è precipitar gli
uomini ne' vizj e nella corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità
d'espressione si chiamano LA RAGIONE CIVILE la, onde il celarle, il corromperle,
val lo stesso che privare gl'individui del corpo politico di quella ragione che
loro deve servir di guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurisprudenti
non lasciano mezzo per tenere il popolo nell'oscurità, poichè non solo
coll'inventare le azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le
leggi e le guastarono; ma de' nuovi stabili menti anche s'impossessavano per
poterne disporre a loro talento. LIVIO n'è amplissimo testimone dicendo: institutum
etiam ab iisdem coss. (cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut senatusconsulta in ædem
Cereris ad ædiles plebis deferrentur, quia ante atobitrio Consulum supprimebantur
vitiabanturque. Non è però sufficiente questa legge, e i giurisperiti
seguitarono ad essere veri monopolisti della legge. Dobbiamo credere però che i
più virtuosi romani avessero a vile codesto mestiere d'ingan no e di
soverchieria; e perciò. la storia ci pre senta sempre con elogj coloro i quali
quasi senz’intervallo tornando dai campi di Marte cambiava no coglistrumenti
rurali gli arnesi guerrieri, o coronavano l'aratro di allori trionfali. Si sa
che Roma allora e per alui secoli non presenta alcuna occupazione che potesse
allettare alla vita cittadinesca, la quale dalle belle arti, dalle scienze, e
dal prodotto da, esse spirito sociale si rende solo piacevole; perciò chi non
ama l'intrigo, nè la vita oziosa soffre, in vece di darsi alla cabalistica (LIVIO)
e viziosa giurisprudenza, si ripara nella esercizio dell'agricoltura sempre
preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti la storia ci pudo istruire,
mostrandoci, che la famiglia la più infesta allo stato, la perpetua
persecutrice della libertà popolare e della giustizia pubblica è una famiglia
di giurisprudenti. Tale è LA CLAUDIA; e sempre si è veduto che dove dottori e
forensi sono, la discordia prende il luogo della pace e della naturale
tranquillità. Ma ritorniamo a POMPONIO. Egli ci dice che quella mistica
giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo: la storia pero agl’altri autori
dicono, che ha una durata eguana le a quella della Repubblica, toltene alcune
differenze dalle quali non è alterato il fondo del la cosa. Seguita dindi POMPONIO
a raccontare come quelle formole ed azioni, essendo RIDOTTE IN FORMA D’APPIO
CLAUDIO, cotal mistico libro gli è involato da GNEO FLAVIO, figlio d'un
libertino e scriba dello stesso Claudio: ed aver., dolo pubblicato e fattone un
dono al popolo, questo gli è si grato, che lo fa pervenire ad esser tribuno
della plebe, senatore, ed edile. Questo libro contenente quelle azioni delle
quali si è già parlato, dal nome dell'editore è deno. Si po, mitato DRITTO
CIVILE FLAVIANO, benchè egli nulla vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in
Roma la popolazione e nel multiplicarsi gl’affari maticando alcune specie di formole,
SESTO ELIO non » guari dopo compone nuove azioni e ne pubblico co un libro
chiamato DRITTO ELIANO,. trebbe" ragionevolmente pensare, che pubblicate
le leggi e resa publica la scienza arcana, il dritto cívile, le azioni, la
pratica, e le leggi stesse diven cassero di pubblica ragione; e che il popolo
illuminato su i principj legali, sulla condotta degl’affari, sul modo di
amministrar la giustizia, sull’ordine giudiziario, non avesse più bisogno della
maduduzione de' patriaj per distinguere il giusto, e sapere i mezzi d'ottenerlo.
Ma tuu ' altrimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i patrizj –
gl’ottimati -- perdere per alcun modo la custodia e la dispensazione di quella
scienz'arcana, che forma la base principale del loro ingiusto potere, trovano
il'modo, onde far rimaner il popolo defuso. E come nelle sette se si vengono a
scopris se i segni mistici destinati al riconoscimento, presstamente si
cangiano, e de ' nuovi si surrogano, onde sia salvo it mistero; cost i bravi
Giurispe siti eseguirono, cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti
dell'ordine, e conservano il grande arcano della giurisprudenza. Le formole e
le azioni sono cangiate, e forse in maggiori cifre involute onde potessero
rimanere ancora lungo tempo nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo. Ma
ascoltiamone, CICERONE, il qua le ce ne dà il più distinto divisamento.ERANT IN
INIGNA POTENTIA QVI CONSVLEBANTVR A QVIBVS ETIAM DIES TAMQVAM A CHALDÆIS
PETEBANTVR INVENTVS EST SCRIBA QVIDAM GNAIVS FLAVIVS QVI CORNICVM OCVULOS
CONFIXERIT ET SINGVLIS DIEBVS EDISCENDOS FASTOS POPVLO PROPOSVERIT ET AB IPSIS
CAVRIS IVRISCONSVLTIS CORVIN SAPIENTAM COMPILARIT ITAQVE IRATI ILLI QVOD SVNT
VERITI NE DIERVM RATIONE PERVULGATA ET COGNITA SINE SUA OPERA LEGE POSSET AGI
NOTAS QVASDAM COMPOSSVERVNT VT OMNIBVS IN REBVS IPSI INIERESSENI (CIC. PRO
PUR.) Non è d’alcun utile dunque l'aver trafitti gli occhj a quelle cornacchie
poichè in breve tempo seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi
prosegue, la storia troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro
secoli gli stessi sentimenti, gli stessi principj, la 2 stes cha stessa
condotta. La Giurisprudenza è latente, incerta, arbitraria, ignota al popolo, e
privativa del solo ordine patrizio sacerdotale, il quale lungi da quella virtù
che sola consiste nella beneficenza »da quella sapienza che cerca il vero, per
render lo di comune demanio; da quella giustizia trova i principj nella
ragione, e gli espansivi sentimenti nel cuore; da quella naturale benevolenza e
da quel sentimento di pietà, che distinguono l'uomo civilizzato; da'veri
sentimenti di patriotismą che non può essere mai scompagnato dalla giustizia; lungi
dico da tutte queste qualità e gl’eroi del Campidoglio non sembra che provassero
altri sentimenti che quelli dettati dallo spirito di corpo, sempre contrario,
anzi distruttivo de' sentimenti sociali, dal vile interesse personale e
pecuniario Fros, duttore di tutti i vizj, e dall'abuso d’un illegitimo potere.
E pure questi furono i patriarchi della giurisprudenza! Seguitando quindi POMPONIO
ad esporre i fonti del dritto romano ci accenna l'origine de' plebisciti e de'
senatusconsulti, specie di leggi dettate dal popolo o dal senato, e delle quali
si vedeno gli effetti ee'l'l valore, e soggiunge, che nel tempo stesso anche
dai magistrati nasce un' 1 el gobierno un' altra specie di dritto s poichè,
tecid saw pessero i cittadini, di qual dritto i magistrati in si sarebbero
serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura, e perchè vi andassero premuniti,
pubblicarono degl’editri, da quali si costitui IL DRITTO ONORARIO, cost detto
perchè proveniya DALL’ONOR del pretore. E dopo aver parlato finalmente
dell'altra parte del dritto che nasce delle costituzioni de' principi, cost ri-epiloga
tutti i fonti che costituiscono il 'dritto Romano., Nel la nostra Città dunque
dice egli ) la legislazione è costituita del dritto o sia legge; da quello che
propriamente si chiama DIRTTO CIVILE, che non è scritto, è consiste nella sola
interpretazione de' prudenti: dalle azioni della legge le quali contengono le formole di agire; dai plebisciti
che sono fatti senza l'autorità del Senato, dagl’edini de'magistrati, da' quali
nasce il dritto onorario; dai Senatusconsulti costituiti dal Senato senza legge
particolare; e finalmente, dalle costituzioni de' Principi, Ecco tutta la
Storia seguita, che POMPONIO ci ha lasciata del dritto Romano, ed intorno alla
quale presso a poco gl’autori tunti convengono. Abbiamo finora voduto quale è
il dritto é la giurisprudenza romana prima è dopo dello leggi decemvirali, e
quindi come per quattro secoat li e più le leggi e la Giurisprudenza avessero 1
caratteri d'irregolarità, d'incertezza e di arbitrio i é non ostanteche la
ragion popolare andasse acquistando qualche dritto su l'aristocrazia, puro
questa sostenuta dal sacerdozio, qnantunque per necessità cede in qualche cosa
de’dritti pubblici, fa perð ogni sforzo per tener recondita le legge, e sotto
le chiavi del mistero tutto quello che riguarda l'anministrazione della
giustizia. Conoscheno ben essi che nei stati di qualunque sorte, quel If anno
veramente il massimo di potere effettivo cho possono disporre a loro modo delle
leggi e della giustizia, e che tanto più diventa tale autorità efficace quanto
più la legge e oscura, incerta, ed arbitraria. Ma per vedere come questo
continuassets e come la giurisprudenza segue ad esser sempre della stessa
indole, prima di venir a ragioniare de' plebisciti e de' senatusconsulti ch'
ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel dritto cui si volle dare
il titolo di ONORARIO, ma che vedremo' non essere stato degno di alcun onore.
Se si vuole parlare del la ridevolezza di quelle vantate formole, che costituivano
la Romana Giurisprudenza, ci porterebbe a perdita di tempo, ma se i Romani di
buon senso e CICERONE stesso le. derideno e teneno in altissimo disprezzo,
credo che dopo due mille anni potremo far noi altrettanto, e chiunque non sia
un’ vero divoto, e cieco adoratore della Romana antichità e giurisprudenza.
Rifletterà solamente che quando di cose semplicissime si vogliono far misteri,
allora dovendo vi aver luogo l'arte d'imporre, le idee semplici si devono
involgere in un numero di parole non necessarie, e surrogare impropriamente le
immagini e le finzioni alla semplicità e realità delle cose e delle idee:
specie di geroglifici che deve ace: compagnar sempre il mistero, e l'impostura
Siccome non è mio intendimento però di fare la Storia del governo civile di
Roma, mà solo indicare il corso infelice delle legge e della giurisprudenza,
cosi non m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la plebe e i
patrizi, quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza, e questi per
allontanarli, fanno tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi IL FORO ROMANO. Ma
accennerò solamente ciocchè importa, per passare all'origine del dritto
onorario. La forza dell' opinione non ha più molio. scevano valore contro la
forza reale ed effettiva; per cuti essendo riusciti i plebei a partecipare ad
alcuni di quegli officj che fin allora sono privativi de patrizi, come è quello
della questura e de' TRIBUNI MILITARI, non parve foro di aversi assicuraii i
sospirati dritti, se non otteneno la massima delle magistrature, vale a dire il
consolato. E poichè già per lunga e dolorosa esperienza cono che sempre col
manto della religione i patrizj cercao coprire le loro pretese, o tependone
lungi il volgo profano, ailontanarlo da tutte le magistrature che de' sacri
auspicj abbisognayano; così i plebei videro che per farsi strada al consolato,
si rende necessario l’ardi mento di entrar ne' sacri pene trali, ed andar anche
essi a studiare e consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni
che fecero cor endo alla fine il quarto secolo di Roma, sono queste cose
combinate; cioè che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de
Decemviri, e che di questi V patrizj fossero ed altrettanti plebei: e che nella
nuova elezione de consoli l'uno fosse del loro ordine, e l'altro patrizio.
Invano APPIO CLAUDIO montà in tribuna per fare non arringa ma una predica teologica
contro le nuove idee filosofiche sorte negl’animi della plebe Romana: invano
ricorse alle idee teocrati che già fatte obsolete; invano minaccia d anate ma
quel popolo, che potea far a lui più reali mi nacce: Roma, dice egli, è fondata
cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico, di privato, di sacro, di profano,
in guerra, in pace, in cae sa e fuori, tutto doversi cogli auspicj trattare:
che i soli patrirj in esclusione de' plebei per inveterato costuma godevano del
dritto degli auspicj: che niun magistrato plebeo è mai creato cogl’auspicjse
che in fine canto è il creare i Consoli dalla plebe, quanto il rovesciare
interamente la religione, ed incorrere nell'ultima indignazione degli dei. Non
ostantino però tante e si gravi rimostranze LUCIO SESTIO ottenne finalmente il
consolato. Se questo colpo è doloroso a sostenere per i patrizi, è facile
l'immaginare; ma al male già accaduto non potendo portare alcun riparo efficace,
si rivolsero ad escogitare qualche rinfranco, per non perdere intieramente quel
privativo potere che dipende dal consolato. Pensano dunque sta (12 ) Lir. lib.
YI. cap. 36 mabilire una nuova magistratura che può conservare nell'ordine
patrizio l'amministrazione della Giustizia, il potere giudiziario, e tuttociò
che riguarda l'esecuzione della legge civile. Quindi col pretesto che i consoli
sono quasi sempre fuori di città alla testa degl’eserciti, onde non possono
adempire agl’ufficj della giudicatura, proposento di stabilire un nuovo
magistrato che adempisse e questa parte dell'amministrazione, ed è ordinato che
si traesse dai patrizj e si chiamasse PRETORE. La pretura dunque è stabilita
per conservare nell'ordine de' padri tutto il sistema giudiziario o forense del
quale hanno facto fin allora uno scempio cosi crudele. La legge e la
Giurisprudenza segueno ad essere malversate, ma per poia chi anni dura
privativamente nelle mani de' patrizj la Pretura. Eccoci intanto al tempo nel
quale si può fissare veramente l' epoca di quella Giurisprudenza che passo di
mano in mano fino agli ultimi tempi ne' quali ebbero qualche celebrità il nome
Romano e l'Impero. Questa parte del dritto, come testè ci ha insegnato POMPONIO,
nasce dagl’editti, che emanano į pretori nell'entrare in esercizio della loro magistratura,
ed essa fa il maggior latifondio della scienza forense. L'importanza dunque
della medesima ci merte nel dovere di portarvi sopra uno sguardo particolare,
seguendola brevemente nel corso della Storia, ve derne in qualche modo l'uso,
il carattere; e gl’effetti, Dopo lo stabilimento della pretura e della
comunicazione a tat officio delle plebe, e più dopo eseguito il censo di FABIO
MASSIMO il governo di Roma perde la forma Aristocratica, benchè non ne perdesse
lo spirito; ed io non ardirei dire col cos mune de' dotti, che si trasformasse
mai in quella forma costituzionale che si chiama Democrazia: La libertà
popolare è molta, e qualche volta eccessiva a segno che degenera in licenza,
poichè essa non era limitata dalla legge; ed il dritto de' suffraggj ed il
potere legislativo non hanno mai quela regolarità ed uniformità, che può
rendere nel tempo stesso un popolo regnante e tranquillo. E non è mai tale il
popolo Romano, poichè la forma del suo governo non è costituita su d'un piano
antecedentemente ragionato nel quale dalla considerazione de' varj rapporti
sociali si fosse rimontato alla necessaria divisione del pubblico potere, e
questo ripartito in modo che le varie parti non si potessero nuocere fra loro,
e non si po tes. → toa 97 ) tessero riunire; ma per un nesso naturale tutte
coordinatamente contribuissero al grande scopo della perpetua conservazione
sociale. Non avremo perciò quind' innanzi frequente occasione di parlare dei
disordini dell' Aristocrazia patrizia o sacerdotale, poichè gittati i semi del
disordine e della corruzione, essi si moltiplicarono dovunque trovarono suolo
adattato alla facile germinazione. Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki,
non però tutti quelli che sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione.
Ma passiamo finalmente a vedere quale fosse stato il fato della Giurisprudenza
in questo nuovo ordine di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più
accuratamente trattarono degli editti pretorj sono da distinguere il celebre
Giureconsulto Eineccio ed Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per
trattare il più compitamente che fosse possibile questo importantissimo
articolo relativo alla Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non tralasciarono
ricerca alcuna conducente al loa G TO Heinec. Hist. Edict. Memor. de l'Accadem.
des Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo. Trovarono che in Roma e per l'Impero
ancora non solo quelli che propriamente Mangistrati sono detti, ma diverse
altre cariche ed officj ancora che non avevano tal carattere, ebbe To pure il
dritto o il costume di fare deg’edinti Quante che fossero adunque le divisioni
e suddivisioni del potere esecutivo o giudiziario, ed in quanti diversi
rapporti fossero esse costituite, prendendo un tal dritto, hanno l'uso e la
facoltà di straordinariamente comandare. Cosi, incominciando dai pontefici e
dai tribuni della plebe, nè gli uni nè gli altri Magistrati, e passando ai
Consoli e Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vollero avere il
dritto di far editti, e godere di quel. Ja parte di potere che in tale facoltà
o prerogativa è compresa. Fra tanti Magistrati però che hanno o si arrogano
cotale autorità, gl’editti di maggiore celebrità, e che contribuirono a creare
una nuova Giurisprudenza sono quelli de'Pretori. Dai patrizj è inventata e
fatia stabilire questa nuova Magistratura a consolazione ed indennizzamento
della perdita che avevano fatta d'un Consolato passato al la plebe; e quindi
ottennero, che il pretore dal loro ordine dove essere prescelto Non dura mol, (99
molto intanto questo, privilegio poichè la plebe veggendo di quale importanza
fosse la Pretura, non molti anni dopo cioè nel 417. volle anche paratecipare a
tal carica, mentre ancora è unica e non divisa nei due Pretori Urbano e
Peregrino; ciocchè' avvenne circa un secolo dopo. Coll’andar del tempo si
multiplicarono maggiormente, ed oltre dei due mentovati e dei Pretori
Provinciali altri ve ne furono nella Città, de' quali alcuni sono addetti a
rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo detto del la
origine della Pretura, ciocchè ci viene attesta 10 da LIVIO e da altri, cioè
che essa è surrogata al potere giudiziario, che i Consoli esercitano, si
dovrebbe naturalmente pensare, che se i Pretori cagionarono alterazione
nell'antica Giurisprudenza, e ne fecero nascere una puova, çið essere accaduto
per effetto delle loro decisioni o decreti o sentenze, le quali avessero per la
loro giustizia meritata la conferma della pubblica autorità, e passate quindi
in dritto consuetudinario Ma non fu certamente per tal motivo, nè si potrebbe
facilmente immaginare, che essi a priori fossero autori di un nuovo dritto e
d'una nuova Giurisprudenza. Eppure non fu altrimente: essendo essi semplici
giudici o ministri di giustizia, colla facoltà di fare degli editti seppero per
tal modo usurpare l'autorità legislativa, che il dritto è cangiato, e gl’editti
più che la legge sono osservati, e maggior uso ed autorità hanno nel Foro. Ma
se i Pretori non erano altro che Giudici cioè Magistrati di Giustizia, il loro
officio è solo di applicare la legge al caso particolare, o sia ve der i
rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si disputa. Un Giudice non può
creare un dritto colle sue sentenze, poiché esse altro non sono che la
dichiarazione del dritto medesimo; cioè che la legge nel caso proposto si
verifica per la tale azione o d'eccezione dedotta in giudizio. E se decidendo,
cioè esercitando l'attualità della Magistratnra non può crear un dritto, molto
meno dee ciò poter fare per la sola qualità di Magistrato o in forza della
Magistratura. Gl’editti pretorii dunque per i quali si alterano, si cangiavano
le leggi, e se ne stabilivano delle altre temporarie, ci presentano degl’atti d’autorità
arbitraria, temporaria, ed incerta che non possono formar mai una parte del
dritto, il quale può solo emanare dalla potestà legislativa, e dev'essere certo
generale o perpetuo, fino a che non sia abrogato dalla stessa autorità. Quando
dunque in una carica siriuniscos no contro tutti i principi della ragion
pubblica quelle facoltà, che devono essere divise da limiti insurmontabili, si può
dire che tal carica contenga almeno in potenza, come diceno i scolastici, i
principj del disporisano, e dispotico si può chia mar il Magistrato che
l'esercita. Nel crearsi la Pretura io voglio supporre che non s'intese produrre
un mostro di tal fatta, ma come codesta carica è surrogata al potere
giudizionario che avevano prima i Consoli, il quale era riunito al potere
esecutivo, cosi' e per questo per quel grado d'autorità che prendevano dall’ordine
da cui erano tratti, non è difficile il farvi passare di tali abusi. A
considerar dunque giustamente la cosa non nasce nella Pretura tale abuso dal
semplice potere giudiziario, ma da quello di far gl’editti. In fatti se si va
all'origine di questo dritto, ne troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli
antichi) quod jubemtis fieri: espressione tanto generale, che potrebbe
comprendere l'esecuzione di tutte le potestà non esclusa la legislativa; e
perciò fiequentemente le parole di G leggi e di editti sono di uso promiscuo:
Ma PAPINIANO è quello che più nettamente
ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che è introdotto a
pubblica utilità, per adjuvare supplire, e corriggere il dritto civile. Jus
prætorium adjuvandi, vel supplendi, vel corrigendi juris gratia propter
publicam utilitatem introducium. Ecco dunque la vera origine del dritto
Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gl’editti. Ajutare
intanto indica debolezza, supplire, mancanza, correggere, errori. Si dice ch'è
nell' ordine naturale delle idee di amministrazione, che quando al caso non si
trovi alcun stabilimento di dritto, alcuna legge scritta, la volontà del
Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto che il loro
piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta, utile o
nociva alla Repubblica. Ma che altro è mai il dispotismo, l'odio de' popoli
czualmente e de' buoni regnanti: Se la legge manca, bisogna farla, e non solo
il Ministro di giustizia, ma niun Magistrato è mai autorizzato non dico a fare
alcu > o che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. (103 11 0 7 I na legge,
ma nè a soccorrerle cadenti, nè a sup plirle difettose, nè a correggerle
erronee, nè ad interpretarle oscure. Lascio le tre prime condizioni o
circostanze delle leggi, sopra le quali non può cadere alcun dubbio che il
restituirle in qualunque modo non possa spettare ad altri che al Sovrano. Ma in
quanto all'interpretarle,. sopra di cui il probabilismo forense pare che abbia
stabilita la sua autorità, rifletterò che l'interpetrare o interpatrare da
principio è in Roma del soto ordine del patrizi, quando tutti i poteri e
specialmente il legislativo sono ristretti nell'ordine aristocratico. Essi
dunque che fanno la legge sono i soli che potessero interpretarle, uno e
l'altro potere era illegitimamente stabilico ed abusivamente amministrato.
Quando una legge è oscura, non vuol dir altro, che il non sapersi precisamente,
ciocchè essa comandi o prescriva; lo spiegarlo deve venir dunque dalla stessa
autorità, che l'ha emanata, sola interprete legitima di se stessa. Ne i giudici
dunque nè i giurisperiti possono arrogarsi un autorità illegittima della quale
è tan 10 facile l'abusare; e percid gli ottimi legislatori e GIUSTINIANO stesso
ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10. (104 ) no. Le leggi bisognose di
sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i loro difetti, de' quali di
sopra abbiamo accennato il rimedio, ed il maggior male da esse prodotto è d'
aver fatta nascere la Giurisprudenza, ed in seguito la corruzione della
giustizia: nel qual fatto osserva l ' Eineccio, che i Romani furono cogli Ebrei
sotto lo stesso parallelo. Or l'autorità data ai pretori cogl’editti prova
visibilmente due punti: il primo che la legge è così incompleta, come è quella
dei popoli barabari; e che i Romani lo furono a tal segno, che non seppero
conoscere, quanto il confondere le potestà, ed il lasciar il poter arbitrario
ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia ed ai principi di ogni buon
governo. Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come scusare quel modello delle
Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù, e che connobbe più delle
altre la libercà e l'uguaglianza? Non togliamo a Roma gl’onori che merita. Essa
è la prima inventrice degli editti, essa è la sola Re. Heinec. De prohib. a
Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per quanto si sappia, che li
avesse in costume. A vedere quale è il dritto Pretorie lungi dal dover credere
i Pretori Magistrati giudiziarj, dovremmo anzi prenderli per riformatori o
correttori delle leggi. Tali sono in fatti, ma non per uno stabilimento
autorizzato dalla potestà legislativa: lo furono solo per abuso, vergognoso ai
costituenti di sì strana Magistratura, e pernicioso sommamente al popolo
soggetto. Se Roma avesse conosciuti i difetti delle sue leggi, e l'incongruenza
nella quale dovevano essere per la differenza de' tempi, e per i politici
cangiamenti; ed avesse voluto imitar veramente le leggi ed i stabilimenti d’Atene,
avrebbe trovato più opportuno mezzo a
correggere e modificare la sua barbara legislazione. Ciascuno sa che in Atene
vera un Magistrato detto de’ tesmoreti, il quale propone annualmente i
cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi, e queste sono poi approvate o
riggettate dal potere legislativo. Non deve farci intanto molta meraviglia che
la pretura s' introducesse con tali abusi e tant'autorità straordinaria, se
rifletteremo che quella. Magistratura è da principio stabilita privativamente
per l’ordine patrizio, il quale la conserva in suo potere per anni. Per sapere
poi come quell'abusivo potere si esercitasse, devo ricordare, che vi sono IV
specie di editti, cioè Repentina: perpetuæ jurisdi fionis caussa: translaticia:
nova. E senz' andar esponendo il valore di ciascuno, ciocche fino alla sazietà
da molti autori è stato eseguito, mi ristringo ad alquante osservazioni più
importanti. E primamente dirò, che quelli editti i quali dovevano contenere il
sistema giudiziario attuale del la pretura, sono quelli appunto, da'quali
derivarono maggiori abusi, cioè quelli perpetuæ jufts dictionis causa, pei
quali il pretore espone nell' albo le formole delle azioni, delle cauzioni,
delle eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto giustizia. Or avendo veduto che
la Giurisprudenza anzi il dritto civile de' Romani in tali formole è compreso,
chi è autore delle formole, lo è in conseguenza del dritto medesimo. Chiunque
nell'agire in giudizio manca a quelle formole per qualun que causa, cade dall '
azione, o rimane con inutile eccezione cioè perde la lite anche che
intrinsecamente avesse avuta dal canto suo la giustizia e la disposizione delle
leggi. Ecco dunque il Magistrato divenuto legislatore, ed arbitrario it sistema
di giudicare. Dobbiamo però credere, che tuttociò fosse fatto senza principj, e
che non avendo idee certe e generali de' principj del driito, facessero gl’editti
ciascuno secondo le proprie cognizioni ed idee: poichè come le ultime
derivazioni e ramificazioni delle leggi si possono ritrar tutte della retta
ragione e dalle idee di giustizia universale, cosi se i loro editti fossero
derivati da tali fonti, non sarebbero stati prescrizioni annuali, ma avrebbero
avuta una continuazione o vera perpetuità. NÈ SI FACCIA ILLUSIONE IL NOME DI
PERPETVÆ IVRISDICTIONIS, POICHÈ QUELLA PERPETUITÀ ERA RISTRETTA AD UN SOL ANNO.
Il Pretore o Pretori che succede alla carica, ha il dritto assoluto di proporre
nel nuovo albo un nuovo sistema giudiziario, e cangiare a lor grado la formola
ed i principj; e sebbene questo non si fosse fatto sempre nè in tutto, poichè
spesso i succes'sori conservano integralmente o parzialmente gl’edirii an
tecedenti, ciocchè diede il nome di translatixj agli editti di tal indole, è
sempre però in libertà de' nuovi Magistrati di farne di nuovo conio, che perciò
portarono il titolo di nova. Se maggiori irregolarità, incertezze; ed arbitrj.
si possono portare nell' ordine giudiziario e ne ! dritto, lo lascio giudicare
agl’amici della Giu stizia e della ragione. La Giustizia dipende solo dal
capriccio pretorio, e gl’attori in giudizio dovevano essere ben intrigati in
variar le loro formole, e su di esse disputare ed argumentare, per trarre le
disposizioni o le opinioni legali al loro partito. Questo porta col tempo, che
fossero molte le azioni per lo stesso giudizio, ciocchè fa un nuovo intrigo, ed
accresce l'arbitrio de’ magistrati. Più anche dovette crescere quando i Pretori
sono varj, e vi è in Roma quasi una popolazione di Magistrati, poichè ciascuno
a suo modo proponendo gl’editri, quel ch'era giusto presso di uno, si trova
ingiusto presso un altro. La morale pubblica e quella delle leggi
particolaramente è dunque così incerta che non ha per regola che le opinioni o
il capriccio, e si dilata o ristringe, allungava o accorciava secondo le
sublimi Teorie del probabile, le quali sorgono sempre dall'arbitrio e dalla
corruzione. Se il Pretore fosse stato uno solo, se l' Amministrazione
giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di Magistratura, non
avrebbe potuto 1 diffondersi tanto l'incertezza della Giustizia e la forza
dell' arbitrio: ma gl’ammiratori o visionarj della Sapienza Romana, trovano
ragioni sufficienti per ogni disordine. Il progressivo accrescimento della
Città o della Repubblica porto secondo essi multiplicità e varietà di affari,
per cui si doveano coerentemente multiplicare e variare le Magistrature e le
Giurisdizioni. Esempio pur croppo funestamente imitato nei vari stati di
Europa! Nel progresso delle Società si aumenta è vero la popolazione o il
numero degl'individui; ma non per questo crescono i rapporti naturali e
necessarj che essi hanno collo stato, col governo, e fra se stessi. Non
crescendo i rapporui non devono multiplicarsi e variarsi le leggi, le quali ne
sono I espressione; ne devono quindi crescere e diversificarsi in varj generi e
classi i Magistrati che ne sono i Ministri o dispensatori. Possono crescere in
numero bensi ed in divisioni, ma de vono essere costantemente della stessa
specie e con i stessi nomi. Quindi il dividere i giudizj criminali e civili in
tante varietà, giurisdizioni, e legislazioni differenti è il produrre
volontariamente una confusione, e multiplicare gl’abusi dell'arbitrario potere:
ciocchè però non accade quando si vedono nettamente e con precisione i rapporti
del cittadino. In questo caso, la legislazione sarà univoca, generale, uniforme;
i limiti del potere giudiziario resteranno distintamente marcati; e le
giurisdizioni, e le Maggistrature non saranno stabilite e divise sopra rapporti
immaginarj e fattizj. Più, non nascerà pelle Magistrature quello spirito di
corpo per cui sono in continua contesa o guerra fra loro, e, per conseguenza
col governo o collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inversa della
grandezza del corpo medesimo, onde più saranno piccoli, più avranno i difetti
della picciolezza, più saranno capricciosi, irragionevoli, ed abuseranno della
forza e dei momenti favorevoli:. Un gran corpo di Magistratura ben costituito e
convenevolmente diviso, senza gelosia e senza interessi contrarj avrà la
dignità che deve aver la Magistratura, ma non ne avrà le follie. Per quanto
però fosse ampio ed esteso il dritto o potere che i Pretori esercitavano, non
sembro loro ad ogni caso sufficiente; e poichè delle cari che non limitate o
mal circoscritte dalla legge si. passa facilmente da abusi in abuşi, essi non
fu sono contenti dover osservare i loro stessi princi pį idee e sistemi per
quella perpetuità annua, ma, pensarono d'abbreviarne il termine a loro piacere
Fenomeni di tal natura sono forse del tutto nuo vi nella storia ! Una
magistratura costituzional mente arbitraria, si arroga anche il dritto di can.
giar quelle norme legali divenute leggi per mezzo della pubblicazione, e farne
delle nuove senza pre, vio esame, come, un corpo leggislativo farebbe, ma di
propria volontà e piacere come un Despota potrebbe fare. Questo pur si faceva
nel foro Ro mano, e spesso durante l'anno della Pretura si vedeva quasi
magicamente scomparir l'albo espo sto, ed un altro a quello sostituito. Pensi
chi vuole, che fosse quella una sublimità di condos. ļa, o la surrogazione d'
idee più giuste ed al paba blico vantaggiose; io penserò cogli antichi, che i
pretori, nol fecero per altro che per favore, per interesse e per altre tali
cagioni, stimate ferite mortali per la Giustizia. Cosi penso anche l'Ei neccio,
il quale benchè impa stato di vecchia giu risprudenza, pure abominò il dritto
pretorio ed i più illegali abusi de' Pretori. Si erano essi accom modati
talmente a cotal giuoco, che portandolo, ormai all'eccesso, e facendo vero
scempio della giustizia, si svegliò finalmente un'anima virtuo sa
compassioneyole per la pubblica disgrazia, la qua la en le tentò d'apportarvi
riparo. Come infatti si pud vedere lo strazio che della giustizia fanno gli
stes si di lei sacerdoti, e non sentirsi l' animo com mosso da pietà egualmente
e da 'nobile disdegno. Paulo Emilio nudrito nelle semplici idee di quella véra
sapienza che accoppia i doveri alla beneficenza, e l'umanità alla virtù, vedeva
con orrore l ' amministrazione della giustizia Romana tanto nel la Città quanto
nelle più infelici provincie. Vede va condannati gl'innocenti, i deboli
oppressi, ed i Magistrati impuniti; e questo' nell'epoca la più memorevole
della Romana virtù. Sdegnò egli, come rapporta PLUTARCO, i studii che la nobile
gio venid coltivava ai suoi tempi per giungere alle cariche: quindi non
comparve mai nel foro, o a piatire innanzi ai Magistrati, o ad umiliarsi al po
polo per ambizione; ma corse libero la strada del la gloria e superò tutti i
suoi contemporanei in virtù ed in valore. Nè vi vuol meno d’un tal carattere
per attaccare i pregiudizj potenti, gli abu. 81 interessati, ed i sistemi di
corruzione. Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre le
sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su la
pub-. blica corruttela, stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare più i
loro Editri = V. K. Apria lis. Fasccs penes Æmilium S. C. factum est, uti
prætores ex suis perpetuis edictis jus dice teni. PAULO EMILIO fu in dovere di
partir subi. to per la Macedonia, dove ebbe più durevoli trion fi su i lontani
nimici, che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva dentro delle sue mura.
Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge; e non è raro che i nimici
del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più efficaci. Da quest'anno
cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal danzire alle spese della
Giustizia, e di quell' equirà medesima, che tanto vantavano nei loro editri a
nella loro giudicatura. La Repubblica sempre in disordini correva già al suo
termine per i vizi della casuale costituzio ne; ma tra i disordini, la
Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto insopportabile. A nulla valevano
le accuse contro de ' Magistrati, poiché i mezzi di salvarsi erano molto
conosciuti. Quello però a cui un Console non potè riuscire con ef fetto
susseguente, riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con tuttocchè fosse stato
contrariato dai suoi compagni. Questi fu C. CORNELLIO SILLA il quale o tocco
dai stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato specialmente dalle
depredazioni di Verre e de' simili a lui, fra le altre utili leggi, propose la
rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata cupidigia de' Pretori. LIVIO
e DION CASSIO ed altri autori ci attestano in que' tempi non solo la
sfrenatezza pretoria, ma il grand'
interesse de nobili specialmente a conservarsene il possesso; per cui la
proposta del Tribuno eccitd tumulto tale ne' Comizj, che i fasci Consolari
andiedero in pezzi, ed i sassi facendosi sentire più delle vo ci, convenne
dimettere, o posporre la lodevole im, presa ad altro tempo più tranquillo.
Infatti secondo ASCONIO PEDIANO la legge passò = Multis 12 mon invitis quæ res
tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie jus dicere assueverunt, sustit lit.
Gli oppositori della legge non avendo potuto impedirla, rivolsero lo sdegno
loro contro l'autore accusandolo di Fellonia, e Cornelio fu debitore della sua
salvezza alla facondia di CICERONE: Troppo tardi perd pel popolo Romano vena ne
quel beneficio; la Repubblica era già spirante i disordini irreparabili, ed
apparecchiati i ferri per le Ascon. in Orat. pro Cond. le nuove catene. Roma
non godè mai della liber ' tà, non seppe conoscerla, nè conobbe mai i moa menti
favorevoli, ne' quali avrebbe potuta ren: derla eterna, Se colla Repubblica
però fini la grande autorità de' Pretori, e se nuova Legislazione, nuova
Giurisprudenza e nuovo metodo giu diziario furono introdotti dal Dispotismo; la
legislazione, la Give risprudenza, l' ordine giadiziario restarono perd
perpetuamente infetti dagli usi o d'abusi, che l'ar te Pretoria figlia della
vecchia Giurisprudenza in trodotti y aveva. Nuove parole ', nuove azioni, nuovi
atti legittimi ingombrava no le leggi e la giurisprudenza; ma quello che poi fu
il colmo dell' abuso, ridicolo per se stesso, e tristo assai per gli effetti,
fu l'aver inventato un nuovo metoda di considerar in giudizio gli oggetti,.i
rapporti e le azioni; in sostanza le finzioni legali: Anche questo bel ritrovato
lo dobbiamo alla Romana intelligenza. Senz'averè molta perizia nella Giuris.
prudenza, basta la più semplice ragione per ve dere, che tali invenzioni furono
i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni della ingiustizia. Si possono perdonare
ai Romani; ma come perdonare a que' moderni Giureconsuli, i quali ancora dalla
Ro se 1 mulea feccia pretendono far sacri libamenti alla Giustizia? Tale fu l’ALTESERR,
il quale offerendo a Lamoignon l'opera de Fictionibus Juris, così s'espresse =
quid enim aliud istæ fictiones, quam juris remedia et jurisprudenium supulua IC,
qui bus difficiliores casus expediuntur, et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ
secreta aperiuntur? = e peg gio altrove. Tale fu EINECCIO ancora il quale nel
la Dissertazione, De Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione
per giustificare le finzioni legali, e farne vedere la bellezza e l'im portanza.
Chi sarà vago di conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza, potrà
consultare i cita ti autori e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti. lo
aggiungero soltanto, che esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la
prima av. venne, che nei progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị
barbarựci modi de' tesçamen tị, de contratti, de’ litigj, credettero quasi che
fosse cangiata la realità, e chiamarono finzioni i modi che a queli furono
surrogati. Per la secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per
eludere le loro prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano
espressamente par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo VICO
portando le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e richiamando,
le ai loro principi, chiamò il vecchio dritto. Roma-, no un Poema serio, poichè
le immagini si erano Sosti uite alla realità, e non si erano trovate poi
espressioni più semplici e più adattate.
In con , fum tà di tali nature (dice il lodato autore ) l'antica
Giurisprudenza tutia fu Poetica, la qua. le fingeva i farti non facii, i non
fatti, fatti, na y ti gli non nati ancora, mori i viventi, i morti vivere nelle
loro giacenti eredilà: introdusse tan, te maschere vane senza subjenti, che si
dissero, » jura imaginaria; ragioni favoleggiate da fanta e riponeva tutta la
sua riputazione in rim trovare sì fatte
favole, che alle leggi serbassero y la gravità, ed ai fatti somministrassero la
ragio talche tutte le finzioni dell’antica Giurism prudenza furono verità
mascherate, e le formo, s le colle quali parlavano le leggi, per le loro
circoscrit te misure di tante e tali parole, nè più, nè meno, nè altre si
dissero carmina. Ed altrove ragionando della Giurisprudenza Eroica ciod. H 3
bara sia: 99 he: (VICO Princ. della Scien. Nuo.) barbara de' Romani, la
paragona a quella della se. conda barbarie, dicendo, Cost a tempi barbari,,
ritornati la riputazion de' dottori era di trovar, cautele intorno a contratti,
o ultime volontà red in saper formare domande di ragioni ed ar ticoli, che era
appunto il cavere e de jure respon. dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò
si rileva, che sebbene la Romana Repubblica progredisse in quanto allo stato
politico verso la libertà, ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in
quanto alle leggi però ad alla Giurisprus, denza i Romani erano rimasti in
quello stato poetico, o barbaro, che caracterizza i primi passi sociali o lo
stato (dirò cost) di necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la
cagione, si troverà facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel
perfezionamento dello spirito o della Ragione; poichè da questo solo possono
essere migliorate le: costituzioni, le leggi politiche, e le civili. Mi
dispenso volentieri, è credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le
novità, che i Pre cori introdussero nel dritto, se da quanto si è detto finora,
la Giurisprudenza pretoria resta ab bastanza caratterizzata; e chi volesse
meglio istruir sene, può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno
sarà preventivamente infatuato del'no me di Roma, vi troverà cose maravigliose
e pelle grine, compiangerà l'attuale barbarie, e gemerà su le ruine del
Campidoglio: ma se sarà una persona ragionevole e senza prevenzione, riderà di
molte fole, compiangerà coloro che ne sono restati illu si, e farà voti
sinceri, accið tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell '
obblio. Volendo dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata
dall'ammirazione e dai pre giudizi della infanzia, dovremo dire, che i Preto -
ri poterono essere buoni o cattivi, come in tuli gl ' impieghi sociali accader
suole; e che perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative
', riducendo all' equità, o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità, le
leggi troppo se vere. o barbare che allora esistevano. Ma dall' al tra banda
dovremo pur confessare, che la maggior parte de pretori si abbandonarono
ciecamente ai nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare, per cui, più che
ministri o sacerdoti furono conculca tori della Giustizia. Riconosceremo nel
tempo stes 50, che questo nacque, dal non essere stata limi ta e legittimamente
circonscritta la di loro autori tà o potere; e per questo d'ogni arbitrio
abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario, la Giurise prudenza
equivoca ed incerta', e fecero nascere una nuova specie di dritto, che tali
qualità tutte in se comprendeva; e sebbene non autenticato da alcun atto del
potere legislativo, divenne. pure. un dritto consuetudinario più esteso e più
usato delle leggi, e durò con perpetua continuità insiem. me colla Repubblica e
coll' Impero Romano. Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto vantata eruiià
pretoria: l'equià ve a fu solo de' buoni, e quella specie di equità può solo
valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè giusta. Considerando
le antiche azioni della leg gé, gli atti legittimi, e le finzioni legali, ci
com parirà molto giusto che GIUSTINIANO le chiami favo le cioè azioni
Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si rappresentavano
innan zi ai Magistrati. Cosi tutte le azioni che si face Justin. In proem
instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis fabulis
discere, sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco difetto della
Romana Repub. blica non parmi che si pensasse gianımai a pora, tar un vero
rimedio., per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce,nè si può
sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere, e fuggi. finalmente di
mezzo a un popolo, che non la co nobbe, e non fu mai degno d'adorarla. Il latte
della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani, ne quina 7 vano per æs et libram,
le rivindicazioni, le cré zioni, le manomissioni, le nunciazioni di nuove opere,
le usutpazioni, le licitazioni, le antestazio lé elezioni et c. non solo erano
faite conceptis verbis, dalle quali non si poteva trascendere, me con azioni e
rappresentanze particolari, che rende. vanò comiche le processure giudiziarie.
Questo però non significa altro, se non che, nei tempi d'ignorana ga si
sostituisce il linguaggio d'azione all' espres sione naturale delle idee e de
sentimenti; e percið i simboli, i geroglifici, le gesticolazioni furono nei
tempi barbari il supplemento della lingua parlata é divennero poi il linguaggio
rituale solenne e sacro; in che principalmente consisteya la Giurisprudonza
Romana quindi conobbero mai i sentimenti di sociabilità, i piaceri della
società, le regole che all'adempimen to di essi prescrive la Natura. Perciò e
per effet to della loro barbarie ed ignoranza, si disputò, si discusse, si
combatte, si decise sempre sopra idee particolari, nè mai seppero elevarsi a
generalizza re i principi, che la ragione ci mostra per la buo na' costituzione
de corpi sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi continuo l alternativo
passaggio maquanto furono felici colla forza o colla frode altrettanto infelici
furono nell'uso della ragione. Essi non ebbero mai sentimenti univoci, e se la
plebe fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia conservò sempre la
sua condotta, ne seppero far cessare il nome di plebe, che vergognosamente li
caratterizzava, e distingueva pre giudizievolmente il cittadino dal cittadino.
Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea, e quindi non poterono averla
della libertà, che sola per quella sussiste, ed il vantato censo, non diro
quello di Seryio Tullio, ma quello stesso della Res pubblica non fu una
invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad alcuno superflue
in rapporto al soggetto della Giurisprudenza Romana, rispondero, che tali non
sono poic (Det poichè quando si parla delle leggi, convien neces sariamente
avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore, dei suoi sentimenti, e
della forma e condizione del potere legislativo. Or potrà sembrare strano il
dire, che Roma era formata quasi di due stati l'uno nell'altro, e che il potere
legislativo fosse diviso in due corpi o anche in tre, e che poi quelle leggi
fossero di un uso generale. E pure tal fu di Roma nel tempo in cui fu più
celebre e risplendente. $' egli è vero, che nella undecima delle dodici tavole
fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani, dobbiamo pur riconoscere che fu
la più negletta e la meno rammentata, poichè i fram menti o le quisquilie che
di essa ci rimangono sono le più meschine. E quantunque io sia nell' idea, che
quella tavola non contenesse che i prin cipali dritti dell' Aristocrazia, qual'
era appunto la legge de'cornubj, tanto detestata dalla plebe, e ro versciata
vittoriosamente da CANULEJO; pure in un frammento rimastoci, troviamo quale
avrebbe dovuto esser il vero stabilimento del dritto Legisla tivo, cioè QUOD
POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $ TO. Ma se vogliamo seguire, la
ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni, la parola popolo non fu ivi
presa nel senso proprio; e nel significato generale, per esprimere la collezio
ne di tutti gl'individui componenti lo stato, ma di quelli soli che godevano il
dritto, e meritava no il vero nome di Cittadini, quali erano i soli Patrizj.
Quando poi la plebe gradatamente venne a partecipare alle qualità civiche, la
parola po. " polo divenne generale, e non essendovi più di visione
privilegiata d'ordini nello stato, ma solo di classi, ciocchè la cennata legge
prescriveva, passò ad essere nel suo vero uso e valore, cioè, a far, sì che
legge si chiamasse, ctocchè l'intiero popolo avea prescritto e comandato. Se
tale è però il principio costitutivo delle Rear pubbliche, e secondo il Gravina
il più convenien te ancora alla natura umana, vi devono esse re delle regole,
accið lespressione della volon tà generale sia certa legittima libera ed uguale,
onde ciascun cittadino senta essere una parte in tegrante del Sovrano, dello
Stato, e della Patria: Tali sono le leggi costitu zionali, che riguardano il
dritto del suffragio, o la maniera di communi care la propria volontà al corpo
sociale, e fare che la volontà pubblica sia realmente il risultato del. le
volontà particolari. Il Dritto di suffragio costi tui yang tuisce dunque
principalmente la qualità di cittadi. no, e il modo di darlo, forina quasi una
misura di graduazione del Cittadino mede simo. cioè che tanto più si è
Gittadino, quanto più il dritto del suffragio è libero ed uguale. Troppo lungi
mi porterebbe l'andare esaminan do particolarinence colla Storia, come questo
drit to si stabilisse in Roma:, cioè nella formazione casuale di quella
Repubblica, alla quale contribul molto più la natura o il corso naturale delle
sa cietà, che i priacipj d'intelligenza e di ragione. Dirò solo, che quel
popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto lontano dal conoscere l'importanza di
queste idee, che şi conteniò di essere con vocato al suon d'un corno di bue
alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra od ovile fu chiamato quel luogo,
dove si radunava, per compir l'atto il più degno, il più glorioso p er un
popolo, cioè il dar leggi a se stesso. Ma cotai nomi ed usanze erano avanzi
dell'antico stato Aristocrațico; e pa stori e mandre sono correlativi
necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si diedero į suf DIONYS.
ANTIQV. ROMANARVM e i suffragj, quella de' Comizj tributi si può dire che
fondasse veramente la libertà o la potestà del po polo, giacchè i Comizj delle
Curie furono obblia ti, nè ebbero in effetto il potere legislativo; ed i Comizj
centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza alle ricchezze. Vi fu
inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro dritto, che di esaminare o
consultare, si arrogo pure in parte il potere legislativo. O la Nazione dunque
radu nata per Tribd, o essa stessa convocata per Centurie, o il Senato ebbero o
in dritto o in fatto l'esercizio del potere legislativo. Le risoluzioni per
tribù dette plebisciti, non ottennero che dopo molte contese la vera for za di
leggi, cioè di obbligare tutti i cittadi ni, giacchè da principio non
obbligavano che la plebe soltanto. Tanto è vero che i Patrizi si cre devano un
altro popolo un altra Nazione; che quelle leggi nelle quali non avevano potuto
far prevalere, le loro idee e le loro volontà, per mol to tempo non le fecero
valere per leggi. L'auto rità de' Senatusconsulti fu meramente abusiva, poichè
nè per le leggi Decemvirali ne per al cun stabilimento posteriore, il Senato da
se solo aveva in alcun modo la potestà legislasiva. el 3 2 tiva. Quelle
risoluzioni però che portarono parti colarmente il nome proprio di leggi,
furono le de cisioni dei Comizi centuriati, delle quali non oc corre ripetere
nè il metodo nelle proposizioni, nè quello della convocazione, nè quello delle
deci sioni. Tuttocið fu vario nel corso della Repubbli. ca, e si può trovare
presso mille autori, che del governo Romano anno ragionato. Ho voluto solo
ricordare queste poche notizia per mostrare, come il potere legislativo fu
stabie lito in Roma sotto varie forme, le quali influivano di molto su la
realità, e come il dritto di suffra. gio, non fu lo stesso nè uguale nei
diversi comizi. Nei centuriati la qualità di Cittadino era misurata su le
ricchezze, e non si può dire, che fosa se la volontà del maggior numero de'
cittadini, che rappresentasse la volontà generale, come don vrebb' essere per
natura. Și sa ancora quanti abu si vi s'introdussero per farle essere le
decisioni del minor numero, e spesso la quarta o quinta parte del popolo aveva
già decretata la legge, men tre la volontà di tutti gli altri rimaneva inutile
e, delusa. Che quello fosse un sistema meraviglioso lo potranno dir solamente
gli Entusiasti, ma non chi nel giudicare suol prendere per guida la ragione:
Dirò di più, e ciò fu contro i principi di ogni regolare amministrazione, che
quei comizj oltre al potere legislativo si arrogarono ancora la facoltà
governativa', ed in molte occasioni simil mente il potere giudiziario; ciocchè
indica, qua le idea essi avessero di un vero ' e buon Politico sistema. Fu
sicuramente un effetto delle distinzioni sco lastiche dell' antica Roma il dire,
che i Tribuni del popolo non fossero Magistrati, perchè non avevano nè imperio
nè dritto di vocazione, nè giu risdizione, nè auspicj, ma in verità se non
erano magistrati nominali, lo erano in effetto, ed eser citavano un potere
amplissimo su la plebe, sul Senato, e sopra tutta la Repubblica: ad es si
apparteneva il convocare i comizj tributi i quali secondo me formavano il vero
corpo le gislativo, se in essi il dritto del suffragio ap parteneva egualmente
ed integralınente ad ogni. cittadino. Il Cittadino vi figurava come Citra dino
libero, e non era il rango o la ricchezza, che davano la preponderanza. E pure
questa par te della legislazione non meritò mai il nome di legge, come l'ebbero
le risoluzioni de'Comizj cen turiati. lo non decido pai se al paragone le leggi
Orno proposte dại Tribuni fossero più giuste ed utili allo stato, che quelle
proposte nei Comizj centu riati dai Magistrati maggiori. Possiamo però ri
Aettere, che tutte le leggi riguardanti la costitu zione politica, o relative
alla libertà ed al lo stato popolare, le quali si possono chiamare leggi di
Umanità e di Giustizia uni versale, furono tutte o quasi tutte proposte dai
Tribuni. Nè si pud dubitare che esse fossero leggi necessarie, poi che erano le
leggi naturali della libertà, e quindi necessarie e costituzionali per un
popolo che voleva essere libero, Nè è da imputar loro che non fos sero migliori;
giacchè la mancanza d'idee e di buone cognizioni era comune ai patrizi ed ai
ple bei. Lo stesso Cicerone contuttoche fosse Aristo cratichissimo, non potè
far a meno, di con fessare, che se si avessero voluti annoverare i misfatti de'
Consoli, non sarebbero stati pochi, ma che toline i due GRACCHI, non si
potevano contare altri Tribuni perniciosi. Infatti, e varj plebisci ti furono
salutarissimi alla Repubbiica, e le leggi an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni
promosse furono effettiva. mente a pubblico vantaggio. La maggior parte però
delle leggi, dei plebisciti, e de' Senatusconsulti furono una specie di leggi
volanti o temporarie, essendo per lo più pro mosse per occasioni particolari; ¢
sebbene si procurasse di dare ad esse tutta l'autenticità so. lenne, non si
riducevano però in un corpo, che avesse l'autorità d'un codice di legislazione;
ne io credo, che ad uso pubblico sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di
bronzo, come pur ci vo. gliono far credere alcuni autori antichi. Sono in dotto
a pensar cosi da varie testimonianze, e spes cialmente da una di CICERONE.
Possiamo da esse raccogliere, che quando le leggi furono una scienza arcana de'
Patrizj e de' Pontefici, si conservaro no e custodirono con gelosia e con
mistero, trat tandosi quasi della loro proprietà più preziosa, e proprietà come
abbiamo veduto molto dispo nibile. Il tempio prima di Cerere par che fosa se a
ciò destinato, e poi il pubblico Erario, accid i Consoli'o i Senatori non le
corrompessero o in volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica,
gli antichi curatori non le curarono più, e funne generalmente negletta la
custodia Al (131 ) si. Almeno cosi ci attesta CICERONE, assicurandoci, che per
saperle, o per conoscerle, bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti =
Legum custodiam nullam habemus: itaque hæ leges sunt, quæ apparia tores nostri
volunt; a librariis petimus; pubblicis literis consignaram memoriam publicam
nullam ha bemus. Græci hoc diligentius, apud quos xquaquaames creantur: nec hi
solum literas (nam id quidem een iam apud majores nostros erat, sed etiam facta
hominùm obsesvabant, ad legesque revocabant. E la credė egli così necessaria,
che nel suo Co dice, legislazione stabilisce appunto nell'Erario la
conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i Romani si avvidero,
che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore. Ho avver che TACITO caratterizza
con molto favore le leggi Decemvirali, non perchè meritas sero elogj di equità
e di giustizia, ma perchè, al meno in apparenza, avevano avuta una certa re
golarità di formazione e di pubblicazione; ed a causa delle leggi posteriori,
prive di tali qualità. Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i
co tito di sopra, 1 (Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le
leggi oltre la viziosa costituzione, è da credere ancora, che il disordine e la
confusione sempre vi avesse ro luogo, e spesso vi avesse parte la violenza, la
cerruzione, e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità, da
privato interesse, e da spirito di vendetta. Cosi di fatti c'indica Tacito
dicendo compositæ duodecim tabulæ, finis omnis æqui juris: nam sequuræ leges,
etsi aliquando in maleficos ex delicto, sæpius tamen dissentione ordi hun, et
adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava,
per vim taie sunt. Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to abbiamo
detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono tanti
encomiatori. Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero e
giusto, avrebbero veramente meritate P adorazione, e l'accettazione della
posterità, se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci
avessero presentato un archetipo degno d'imitazione. Ma colla scorta della
Storia, e sce vri (TACITO, Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile
prevenzione tutt'altro abbiamo trovato. Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen
" ta Romolo come un legislatore Filosofo, ed in struito della storia degli
alui stati; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia pri
mitiva, cioè barbara e feroce, la quale risorin - geva nel suo ordine, tutte le
qualità di uomo e di cittadino: ma la storia del primo Regno e de gli alııi
successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa, come si potrebbe provare
su le poche tracce, che non sfuggono ai critici indagatori del le origini
civili. In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato, che dopo
una prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che le
consuetudini Aristocratiche, si co minciò a dare una forma alla nascenie
società. Il re videro, che il loro potere era un nulla, se invece di esser capi
de'patrizj, nol divenivano del la plebe o del popolo; ma Romulo scompar ve per
diventar Quirino ne' cieli, Servio fu tru cidato, ed il secondo Tarquinio
espulso. In tanta incertezza di cose, come i storici assai posteriori parlarono
dei tempi passati colle idee dei tempi loro, così si aprì la strada a credere,
che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee in epo che di is ble che
assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse seguenti si tormentarono
prima lo spirito in tante ricerche, e poi si distillarono il cervello per con
cordare le contradizioni, che ad ogni passo incon travano fra le idee prima
formatesi, ed i fatti che poi trovavano nella Storia. Quindi tante ricerche e
tante dispute inopportune e difficili per la man canza di monumenti, ed inutili
affatto ai progres si della ragione. La legge regia però non meri tando alcuna
particolare attenzione, importava so lo al nostro assunto il vedere, che l'
incertezza delle leggi cominciò col nome Romano, e porta rono questa marca
vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la durata della Repubblica. Tali poi
furono anche il dritto civile, le azioni legitime, gli Editri de' pretori o sia
il dritto onorario, e finalmente le leggi propriamente dette, le quali sempre
più confusero e resero incerto il drit, to e le leggi antecedenti. Parmi dunque
poter drittamente dai fatti con chiudere, che le leggi e la Giurisprudenza Roma
na furono immeritevoli di quelle lodi colle quali sono state esaltate, ed
indegne di reggere un po polo qualunque, mancando di quelle qualità che
poteyano renderle pregey oli e sacre, cioè collo stabilire la regola eterna
della giustizia, render P urmo suddito di esse, e non dipendente dall' arbitrio;
ciocchè positivamente distingue la libertà del dispotismo, qualunque sia del
resto la forma o la costituzione sociale. Se le specolazioni de' politici si
fossero fermate principalmente su quest'articolo, avrebbero facil mente
ravvisato, che Roma non cadde oppressa della sua grandezza, poichè per gli
edifici mate riali o politici è essa anzi una cagione di resi stenza e di
durata. Cadde quella mole immensa per mancanza di base, e per difetto di
Architettum ia. La base della Società è sempre la Giustizia tanto nella legge e
nel principio, quanto dell'amministrazione ed esecuzicne di esse. Che poi
l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un prodotto progressivo del caso,
credo averlo di sopra abba stanza dichiarato. La giustizia di Roma fir in principio
quale può essere nella barbarie; d'indi qua le suol' essere nell'amministrazione
arbitraria; e fi nalmente quale dev'essere nell’anarchia, nella confusione
della legge e nella generale corruzione. Dell' origine dell'idea che abbiamo
della Bellezza. Il Bello della Natura. Il Bello dell'arte, ossia della
imitazione e del Bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il
gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere
complete (Teramo, Fabbri). Indizi di morale. Il metodo della morale. Il
sentimento morale. L’origine del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment
morale. Divisione della morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà.
Lo vviluppo della morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere
morale. L’obbligazione morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler –
self-love). La virtù. La benevolenza – la benevolenza conversazionale. La
giustizia. L’educazione. La felicità. La passione. Note agli "Indizj di
Morale" di G. Pannella Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza
romana. La giurisprudenza romana dal tempo de' re fino all'estinzione
della repubblica. Sequela dei carattere della giurisprudenza romana sotto
gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza. L’amministrazione della giustizia.
Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. La Situazione corografica
della Repubblica di SAMMARINO e dei varii nomi dati successivamente al
capoluogo dello Stato. L’origine della Repubblica di S. Marino, e prime sue
memorie fino al secolo decimosecondo. Le memorie di S. Marino nel secolo
decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento delle memorie istoriche per tutto
il secolo decimoquarto. Proseguimento delle memorie per rutto il secolo
decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto il secolo decimosesto. Proseguimento
delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela del secolo decimottavo. Il governo
politico della Repubblica di San Marino. Diplomi ed altri monumenti citati
nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed inutilità. Ai dotti e agli studiosi
delle scienze della natura. L’origine naturale della storia e dei progressi ed
abusi della medesima. La storica incertezza. L’autorità degli storici contemporanei
del cavalier Tiraboschi. L’inutilità della storia e dei pregiudizi derivati
dalla medesima. Verificazione degli antecedenti principj con esempi tratti
dalla storia della romana repubblica. I bello. Ai giovani educati. L'origine
dell'idea che abbiamo del bello. Il bello della natura. Il bello dell'arte,
ossia della imitazione e del bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale.
Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del
bello. L’antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli
su le origini italiche. Alla reale accademia ercolanese di archeologia e
a S. E. reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società
Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri
nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte
sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D.
Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca
Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio
istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo
oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della
milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio
del marchese D. Francescantonio Grimaldi. Il tribunal della Grascia e sulle
leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere
uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità
di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea
riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria.
L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio
fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle
nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica
considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla
medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità
organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale
Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali
bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche
allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di
pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi
alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di
Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica
di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti
(Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene
(Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo
Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre C. Gaetano Filangieri a M.
C. Pietro Borghesi a M. C. F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis. Spallanzani all'abate
Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli. Spallanzani a M. C.. Luigi Grimaldi a C
Toaldo a M. C...Spannocchi a M. C..V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle].
Michele Torcia a G. Berardino C...Mollo a M. C.. Carli...Mùnter a M. C. Mùnter
a C. in Napoli. Mùnter a M. C...Filippo Mazzocchi a M. C...Gazola a M. C...Giuseppe
Micali a C...Bertola a G. Bernardino C...Il medesimo a M. C...Brugnatelli a M. C...Anutos
a M. C...Gio. Andrea Fontana a M. C.. Il Duca di Cantalupo a C...Palmieri a M. C....Gargallo
a M. C. in Teramo...Galante a M. C...Amaduzzi a M. C...Zarillo a M. C...Giovene
a M. C...Amoretti a M. C.. Francesco Soave a M. C...Acton a M. C. (Teramo).Fortis
a M. C...Zannoni a M. C. Bossi a M. C...Tommaso Frantoni a C...Felici a M. C. Napoleone
a. M. C..Trivulzio a C...Melzi a M. C...San Severino a C...Il duca di
Sant'Arpino a C. Tracy a M. C.. Antonio Canova a M. C...Ricci a M. C...Gioli a
M. C...Dragonetti a M. C...Zurlo a M. C. Michele Arditi a M. C....Orsini a M. C....Burini
a M. C....Taranto a M. C. Sorricchio a C...Cicognara a M. C...Santangelo a C....Ciampi
a C. Tommasi a M. C... Il Duca di Laurenzana a M. C. Grimaldi a M. C. Santangelo
a M. C...Lodovico Bianchini a M. D..Filangieri a Melchiorre C..Niccolini a M. C.
Rangone a M. C...Pilla a M. C. Il Duca di Gualtieri a M. C. II Barone Poerio a
M. C...Armaroli a M. C. Neroni a Leopoldo Armaroli.Fuoco a M. C. Micali a
Gregorio de Filippis..Aggiunta agli opuscoli. Fiera franca in Pescara..Al sig.
Pasquale Borelli..Al sig. Antonio Orsini..Al sig. Conte Armaroli..Volta a
Orazio C... Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M. C..
Piemonte. Liguria. Regno D' Italia. Toscana. Stati Romani.Napoli. Memoria per
la conservazione e riproduzione dei boschi nella provincia di Teramo.Discorso
del Cav. Comm. Gian Berardino C. letto in occasione del solenne giuramento
prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di Napoli e Sicilia dalla Città e
Provincia di Teramo..La famiglia e le opere di Melchiorre C.. I titoli
nobiliari. Episodi della vita del C.. Opere ignorate del C.. Il contenuto delle
opere. Catalogo per materia delle opere di M. C.. Lettere del C. e al C.. La
Repubblica di S. Marino in onore di M. C.. M. C. a Gaspero Selvaggio. A Paolo
D' Ambrosio M. C.. Il teramano Melchiorre C. è uno dei più cosmopoliti e al
tempo stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali
della seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo soggiorno a Napoli,
interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di emottisi, il giovane
intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio Genovesi e frequenta il
gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate, che costituisce il
fulcro del movimento riformatore meridionale. Sarà questa scuola composta da
Longano, Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed altri, ad imprimere
una benefica scossa alla cultura napoletana e avviare negli anni successivi un
serrato e articolato dibattito sui problemi più urgenti del Regno, suggerendo
le linee di un possibile rinnovamento della società civile che non di rado
contrasteranno con l'angusta politica del governo borbonico. È
soprattutto dalla rilettura del genovesiano Discorso sopra il vero fine delle
lettere e delle scienze, considerato il manifesto dell'illuminismo napoletano,
in cui viene rivendicato un uso pratico del sapere, che C. matura una nuova
concezione della cultura e dell'intellettuale, la cui attività sia, come diceva
Genovesi, più pratica che teoria» , e la convinzione della necessità di un
impegno politico più diretto. Un atteggiamento anticuriale e
giurisdizionalistico, di ascendenza giannoniana e di eredità genovesiana (8),
egli manifesta nei due lavori, con i quali inaugura la sua attività di
scrittore, in difesa dei diritti del Regno di Napoli sui territori di
Benevento, sotto il dominio pontificio, e di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266
annesso allo Stato ecclesiastico. Nelle due Memorie denuncia le tendenze
temporali dell'autorità ecclesiastica, dimostrando false o insussistenti» le
pretese giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, ottenuti non già
per legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione, titolo vergognoso»
perché prodotto per dolo o per frode. Sebbene notevole sia stata
l'influenza di Genovesi sul movimento illuminista meridionale, non tutte le
molteplici espressioni della cultura riformistica degli anni Settanta e Ottanta
possono essere ricondotte alla sola riflessione del pensatore salernitano.
Anche per i rappresentanti della corrente più provinciale», più tecnica e
descrittiva della scuola genovesiana, l'insegnamento del Maestro non sempre
costituirà l'unica matrice culturale. Lo stesso C., sebbene riconosca il suo
debito nei confronti dell'abate, non trova in lui il pensatore che la propria
ragione gli faceva desiderare, bensì il pubblicista che ricerca e analizza i
mali economici e sociali della sua terra. La fortuna però - scriverà più tardi
- avendomi fatto pervenir nelle mani le immortali opere di Loke [sic] e di
Condillac, parve che il mio spirito prendesse una nuova modificazione, e quindi
una inclinazione pel vero, ed un gusto particolare per i morali sentimenti. Già
nel Saggio filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo, alcuni anni dopo il suo
ritorno in provincia, s'intravede l'orientamento filosofico dello scrittore
abruzzese basato su una visione tutta empiristica e sensistica dei rapporti
umani, che indurrà la Congregazione del Sant'Uffizio a porre l'opuscolo
nell'Index librorum prohibitorum. L'opera è una vera e propria esaltazione sia
dello stato coniugale che dell'amore, inteso come desiderio, come piacere
fisico ma soprattutto morale. In polemica con Rousseau, C. considera il vincolo
matrimoniale una fonte continua di sensazioni e di sentimenti aggradevoli e
sostiene, richiamandosi a Hume, che esso debba essere il più possibile completo
e duraturo. La critica del celibato e più ancora del libertinaggio è l'occasione
per un'attenta disamina della condizione della donna, di cui sostiene
l'emancipazione e la rivalutazione nella famiglia e nella società, fino a
rivendicare una legislazione sulla parità dei diritti e dei doveri fra i
sessi. Sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine dell'assessore
Paolillo che ne dispone il sequestro mentre sono ancora in corso di stampa, i
quali svelano assai più a fondo e gl'ideali politici di C. e la sua cultura»
(15). Sul piano filosofico infatti essi segnano una piena adesione
all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei
due pensatori il Teramano non si discosterà più, restando sino alla fine legato
alla dottrina sensistica. Confessa ad un amico: Dopoché il mio spirito soffrì
la modificazione dal Trattato delle sensazioni, non l'ho turbato più perché mi
vi sono trovato comodo, non trascurando però le successive osservazioni le
quali hanno potuto migliorarlo. Egli riconosce alla morale il fondamento
empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce l'origine dei sentimenti
morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gl’uomini acquisiscono le
prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano utili o dannose, ne
consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella delle loro attività si
dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui maggiormente cresce la possibilità
di comprensione della qualità degl’oggetti e gli individui sono messi nelle
condizioni che meglio permettono la individuazione dell'amor proprio. È nel
passaggio dall'Aristocrazia allo stato popolare, scrive, che le nazioni godono
del colmo della virtù e nasce quella gara d’Eroismo che è difficile a trovarsi
nelle Monarchie e che si verifica ogni qualvolta l'interesse di tutti i
particolari va a riunirsi col pubblico e i cittadini partecipano maggiormente
alla sovranità e al potere. L'affermazione non si concreta in una scelta
della democrazia come forma di governo, né in una rivendicazione di ordinamenti
politici alternativi a quelli in cui si incarna la monarchia borbonica.
L'allusione alla repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque priva di
un reale contenuto politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la propria
simpatia per il despotisme éclairé. Vi è, da parte sua, una svalutazione della
politica in quanto problema teorico, a favore di un impegno politico più
immediatamente finalizzato alla soluzione di questioni politiche contingenti.
Suo obiettivo principale è il perseguimento del bene pubblico, realizzato
attraverso un'avveduta e coraggiosa politica di riforme. Un processo di
trasformazione che miri innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha
niente a che vedere con la fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e di
eterne contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche
costituiscono una imprescindibile componente, consente a C. di condurre a fondo
l'attacco contro la struttura feudale della società napoletana, in cui ancora
assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa generata dall'abuso del
potere che da quello delle ricchezze. Conosciuti i mali che provengono
dall'ineguaglianza - afferma a conclusione del capitolo sulla proprietà - deve
essere un canone politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad
altre ricompense che a quelle del merito personale e dell'industria. Al
contrario, il persistere dell'ineguaglianza non fa che produrre lusso e
corruzione» ed aggravare la già precaria condizione dei più miserevoli, privati
della loro stessa dignità perché costretti a mercanteggiare persino la vita,
l'onore, la stima, la virtù, ed i più sacrosanti doveri. Dopo il sequestro
degli Indizi di morale e la messa all'Indice del Saggio filosofico, C. incorre in un nuovo spiacevole episodio con
le autorità provinciali. Soprattutto a causa del vescovo Pirelli e
dell'assessore Dragonetti, con cui pure aveva avuto rapporti di amicizia, è
ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di certe monache dal monastero
di S. Matteo di Teramo. L'exequatur del
Tribunale del capoluogo abruzzese con il conseguente ordine di carcerazione,
emesso nei confronti suoi e di altri lajci seduttori presunti responsabili
dell'insubordinazione, lo costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a
Napoli, dove rimarrà circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda
giudiziaria, giunta con l'indulto regio. Questo secondo soggiorno partenopeo,
avvenuto a dieci anni di distanza dalla fine del primo, si rivela assai fecondo
per lo scrittore teramano che ha l'occasione di rinsaldare i legami con
gli ambienti riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti
della cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi,
Filangieri, Pagano, Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura
l'idea che la provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali
prodotti dal sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica
governativa ed avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra
capitale e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella
Napoli corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di
riforme. Ritornato a Teramo, C. pubblica il Discorso sullo stabilimento
della milizia provinciale, che gli varrà, l'anno successivo, la nomina ad
Assessore militare della sua provincia. Lo scritto, dedicato all'amico FILANGIERI,
inaugura un'intensa stagione che vede l'illuminista abruzzese farsi promotore
di numerose riforme. Nel Discorso la questione militare acquista rilevanza politica,
avendo intuito l'Autore l'importanza che una buona costituzione militare poteva
assumere per la vita di uno Stato. Criticando lo spirito di corpo» dei
militari, quel sentimento dissociale» che li porta a disprezzare la vita civile
e che fa di loro una classe di privilegiati distinta dal corpo sociale, egli
mira a riqualificare il ruolo del soldato all'interno della società, non
soltanto in tema di sicurezza, ma anche, soprattutto, di progresso civile,
riunendo, sull'esempio di Rousseau, la qualità di soldato a quella di
cittadino, così che i due termini diventino sinonimi fra loro. Ad
alimentare la fiducia nei primi anni Ottanta che si potesse realizzare sul
piano legislativo e amministrativo quanto si veniva sostenendo su quello
dottrinario, contribuirono sia la istituzione della Reale Accademia di Scienze
e Belle Lettere (che però tradì presto le attese suscitate) che quella del
Supremo Consiglio delle Finanze. Il Consiglio si prefiggeva di riformare gli
antichi e perniciosi abusi del sistema e di restituire l'abbattuto vigore alla
Nazione promuovendo i canali della ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso
C. vorrebbe sottoporre la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella
provincia di Teramo, pubblicata a Napoli. Considerato forse il più limpido e
ragionato dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni, il testo è una
dura requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni feudali e di
certi abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale coltivazione
in uno stato di sottosviluppo. La risposta delficina è in favore di un
ammodernamento della tecnica di produzione e della rimozione di tutti gli
ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni governative, che impediscono la
realizzazione di un'economia di mercato. È di nuovo a Napoli, dove si
fermerà fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa una permanenza piacevole.
All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto un sentimento di profonda
amarezza per l'andamento della vita politica della capitale. Egli prende coscienza
della incapacità dello Stato di dar vita ad un programma organico di
risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a dura prova dal terribile
terremoto calabrese. La condotta della corte borbonica gli appare quanto mai
improvvisata e piena di incertezze e di contraddizioni. Ritornato a
Teramo è raggiunto dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio
Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo, un Elogio che ne rievoca il pensiero
e il valore. Dopo un rapido excursus delle opere, lo scrittore abruzzese si
sofferma sulle Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini, pubblicate a
Napoli. In esse l'Autore confuta le tesi roussoiane
sull'uguaglianza tra gli uomini, correggendo quei paradossi»,
scrive C., che fra molte vere e nobili osservazioni sono racchiusi nel Discours
sur l'origine de l'inégalité. Contrariamente al Ginevrino, che ritiene
l'ineguaglianza essere presque nulle dans l'Etat de Nature, Grimaldi ne afferma
il principio dell'origine naturale, smentendo quanti sostenevano che gli uomini
nascono eguali. Una particolare attenzione rivolge infine all'ultimo incompiuto
lavoro di Grimaldi, gli Annali del Regno di Napoli. Sin da ora emerge chiara in
lui l'idea di una storia non più concepita come piacevole passatempo per gli
oziosi e gli annojati», ma in funzione d'un utile presente per l'umanità e, in
particolare, per la nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non è più
il nudo racconto di fatti isolati o di particolarità legate a circostanze del
momento, bensì la conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la vita
morale delle nazioni. Alla fine di giugno del 1785 C. si trasferisce di
nuovo a Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi nella città
natale. Risale a questo periodo l'incontro con il danese, di origine tedesca,
Friedrich Münter, venuto in Italia con l'incarico di propagandare l'Ordine
degli Illuminati di Baviera. A Münter, con il quale visiterà assieme a
Filangieri e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà
da profonda amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che
trentennale, accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto, per la
numismatica. A Napoli C. pubblica la Memoria sul Tribunal della Grascia,
considerata, assieme a pochi altri testi, il vangelo del liberismo napoletano»
(34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco contro il terribile mostro» del
Tribunale della Grascia, istituito lungo il confine tra l'Abruzzo e lo Stato
pontificio e simile per alcuni versi a quello più odioso dell'inquisizione»,
che impedisce ai due Stati pacifici di scambiarsi liberamente i prodotti,
fomentando dovunque corruzione e violenza e lasciando quelle popolazioni in un
languore di dissoluzione. Vi è nella Memoria l'affermazione del principio della
libertà di commercio e dell'abolizione del sistema protezionistico, a proposito
del quale vengono fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del celebre
Smith, di cui il Teramano è uno dei primi in Italia a citare La ricchezza delle
nazioni. Vede la luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia in cui C.
rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e
il mantenimento delle rendite, la divisione di quelle terre in favore dei
contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata
alla pastorizia. In un Paese così infelicemente» amministrato, dove regna una
troppo marcata diseguaglianza e una ripugnante ed infelice» contrapposizione
tra ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un obiettivo che risponde non
soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad una necessità dello Stato.
Tutti i più savj governi - scrive - distinsero sempre la classe dei
proprietarj, come quella che dava il vero carattere di cittadino. La proprietà
infatti è il primo e più saldo principio della società, poiché crea nei
proprietari sempre affezione» nei confronti dello Stato, a cui essi chiedono di
riconoscere e tutelare i loro diritti, interessati come sono, più di ogni altra
classe, al buon funzionamento delle sue istituzioni e alla corretta
applicazione delle sue leggi. Della parte settentrionale della Puglia
l'illuminista abruzzese si era occupato una prima volta nella pur breve ma
incisiva ricognizione geografico-economica del tratto costiero desolato» che va
dal Fortore al Tronto, in cui denunciava le gravi avarie» commesse dai
governanti con la creazione di continue dogane che, ostacolando il libero
scambio dei prodotti tra quelle popolazioni, finiva per immiserirle sempre
più. Si coglie in questi scritti non soltanto la totale adesione di C. al
liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza del ruolo che lo Stato è
chiamato a svolgere in favore di un sistema economico imperniato sulla libertà di
scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia di mercato, che egli
affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio della fine degli anni
Ottanta, in cui esalta il principio del laissez-faire contro le
regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il rifiuto di ogni
coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà (di produzione,
di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e uno sviluppo
economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che allo Stato
stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli governativi che
ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono che le attività economiche
si svolgano nei modi loro naturali che la scienza economica riesce a far fronte
al suo duplice compito di mantenimento dello Stato e di accrescimento della
ricchezza e del benessere individuali. In quest'ultimo soggiorno
napoletano prima dello scoppio della rivoluzione francese, C. si attiva non
poco, presso le Segreterie della capitale, per sollecitare iniziative e
soluzioni di problemi riguardanti le provincie del Regno. Ma le sue istanze non
sempre trovano il riscontro desiderato. Ciò non fa che accrescere in lui un
sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice del governo. Un'insofferenza,
quella nei confronti del potere politico partenopeo, che lo porterà ad
allontanarsi da un ambiente dove gli era diventato penoso vivere, non prima
però di aver presentato a Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria per la
vendita de' beni dello Stato d'Atri (41). Nello scritto condanna la
giurisdizione feudale in nome dei principi roussoiani di indivisibilità e
inalienabilità della sovranità fino a ritenere qualsiasi forma di alienazione o
di usurpazione della sovranità stessa non solo un atto nullo, ma anche
ingiusto. La notizia della rivoluzione francese raggiunge C. lontano dal
Regno napoletano, mentre si trova nel Nord Italia, dove si era recato per
accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze naturali sotto la
guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo soggiorno ha modo di frequentare
gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in contatto con Beccaria, il
filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli Verri, Parini, il giurista
senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso di scienze agrarie ed
economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà un
rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è difficile tenersi
informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli guardi con simpatia
a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la determinazione con cui si
conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono a ritenere che la
rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e rappresenti un
esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non indugino più sulla
strada delle riforme. Rianimato da queste speranze dopo aver fatto da
poco ritorno nella sua città natale, C. si trasferisce a Napoli, dove dà alle
stampe, nell'estate del 1790, le Riflessioni su la vendita dei feudi in cui,
ispirandosi al dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più
diretto ed esplicito contro il sistema feudale e la giurisdizione baronale in
particolare. Nel 1791 pubblica le Ricerche sul vero carattere della
giurisprudenza romana e de' suoi cultori, che rappresentano la più forte
manifestazione del pensiero illuministico italiano nei confronti del diritto
romano, cui viene negato ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema
legislativo nuovo, uguale ed uniforme per tutti gl'individui» che, a differenza
di quello vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più inerente
all'indole delle nazioni e dei governi presenti. Sull'esempio di quanto accade
in Francia, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile
e regolare, una legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne
costituisca il necessario fondamento. Il sistema politico che egli predilige si
fonda sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul
conferimento dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica
senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione
della giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e
provinciali. Da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale C. non si
allontanerà mai. Alla politica illuminata del sovrano restano per lui legate le
condizioni di cambiamento della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua
predilezione per la monarchia si ravvisa nel Teramano un conflitto tra
l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a credere ancora
nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il crescente scetticismo
nei confronti della volontà governativa di attuare un programma di
rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si sorprende
sempre più spesso scontentissimo». Il rientro a Teramo, nel dicembre del
1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e letterario, al
termine del quale egli vede svanire la possibilità che la rivoluzione francese
imprima un nuovo impulso alla politica del governo napoletano. È, questo, un
periodo di grande sconcerto e delusione per quanti, come C., avvertono i limiti
della politica ferdinandea. La consapevolezza che la grande stagione
riformistica sia definitivamente conclusa è radicata nel suo animo. Essa segna
l'inizio di una lunga interruzione della sua attività di scrittore, a conferma
di come egli ritenesse allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi
sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia
diverrà pressoché totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la
primavera e l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in una città in preda alla più
forte agitazione». È l'epoca della scoperta della congiura giacobina che porta
all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed esponenti giacobini.
Coinvolto è pure l'amico e concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera
innocente e spera invano venga presto scagionato. L'accentuarsi del
carattere reazionario della politica napoletana non determina tuttavia in C.,
come in altri illuministi, il passaggio da regalista in giacobino» o
repubblicano, anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede più
nella Francia del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici. L'avversione
per gli eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico
che avrà fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase
della rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza, ed una
fase successiva, il '93, caratterizzata da tanti orrori. C. lascia di
nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a
Roma, restandovi per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla
primavera successiva ed ha modo di rivedere gli amici Giovanni Fantoni e
Giuseppe Micali e legarsi al nobile fiorentino Neri Corsini e all'uomo di Stato
francese Miot. A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica
per quello Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che
ancora vi regnava. Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo
raggiungono le notizie dell'avanzata francese in Piemonte e in Lombardia.
Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova
non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche le
innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati. Nella
seconda metà del 1796 si riaccende nello scrittore teramano l'interesse per la
Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la
possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di
trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina; interesse
che si manifesta anche attraverso il desiderio, mai realizzato, di compiere un
viaggio transalpino (52). Ciò nonostante, appare poco probabile una sua
partecipazione al concorso indetto dall'Amministrazione generale della
Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della Repubblica francese sul quesito Quale
dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, di cui risulterà
vincitore il piacentino Gioia. Immutato è invece il giudizio sulla corte
napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una ripresa di
dialogo con il governo borbonico, non scorge alcun cambiamento nella sua
politica. Sempre più, inoltre, dovrà guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici,
soprattutto nel 1798, quando verrà nominato portolano della città di Teramo,
con responsabilità amministrative di rilievo. La situazione si aggraverà
nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni per una probabile
invasione straniera si uniranno quelle per il susseguirsi di infondate accuse
di giacobinismo costruite ai suoi danni da parte di anonimi concittadini. Già
nel 1793 era stato costretto a dare formale prova del suo lealismo monarchico
in seguito a delazioni da parte di alcuni malevoli di Napoli fra quali il
Vescovo in unione colla magistratura. Sempre più si alimenta il sospetto di una
sua cospirazione antimonarchica, tanto che è tratto in arresto, nel proprio
palazzo, assieme a tutta la famiglia. Liberato l'11 dicembre successivo
dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi, è dapprima posto a capo della
Municipalità della città e successivamente nominato presidente
dell'Amministrazione Centrale dell'Alto Abruzzo. Èchiamato a presiedere a
Pescara il Supremo Consiglio, l'organo politico più importante esistente in
Abruzzo, che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due
nuovi organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo -
in cui il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso
il territorio regionale. Non vi è dubbio che la collaborazione di C. con
i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di
reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre
confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore
teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella
repubblicano-giacobina (59), dal momento che l'esperienza non provoca quella
vera e propria lacerazione» e rottura» nella sua biografia intellettuale che è
stata riscontrata invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione.
Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la
parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del
passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei
Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni ( del 24 piovoso anno, l'atto
legislativo più importante del Consiglio Supremo pescarese col quale viene
introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza
egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni
precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di
riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana, sanciva,
in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento dell'autorità
giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale
per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministrazione gratuita della giustizia
e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a tutti coloro che
collaboravano all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la
prontezza» e l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione delle norme;
l'abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venisse provata la
frode» del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché la
possibilità di ricorrere in appello. Volentieri egli si sarebbe portato
nella capitale partenopea dove è nominato membro del Governo Provvisorio dal
comandante in capo Championnet. Ma a Napoli C. non potrà recarsi mai a causa
delle insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare
all'attività legislativa del Governo Provvisorio a cui muove l'accusa di aver
non solo abbandonato» ma addirittura obliato» le province abruzzesi, lasciando
che ovunque si verificassero le più ferali tragedie» ad opera di briganti e di
scorribande antifrancesi. Non è da escludere a questo punto che proprio durante
il periodo pescarese C. abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa
in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei Doveri
dell'uomo e del Cittadino. Il testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi
dei diritti, proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti
inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i
doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle
leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi
rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la
costituzione e il governo. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma
di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione,
ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori
dell'ordine pubblico, per odio forse delle sommosse che si stavano
verificando e di quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni.
Di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla
partenza dei Francesi da Teramo, C. preferisce, prima ancora della caduta della
Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo Cauti
riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo
San Marino. Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe
Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la
carica di consigliere di Stato. Durante il soggiorno sammarinese C. si
interrogherà a lungo sulla tempestosa crisi» di fine secolo di cui, come CUOCO
(si veda), critica l'immatura ed intempestiva» manifestazione, come pure il
metodo rivoluzionario, ritenuto distruttivo. La confusione dei princìpi,
l'eccesso di passioni assieme a mal fondati calcoli avevano fatto nascere delle
idee politiche così mostruose» che per i loro intrinseci difetti non avevano
potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia, afferma, a far sorgere dei canoni
politici falsi e irregolari». L'Italia, abbagliata ed attonita - scrive - non
ebbe tempo a riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le
provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi
politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai essa
veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né la finezza
del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le forze
intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale palingenesia.
Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria C. trae l'indicazione della
necessità di un recupero della tradizione storica nazionale: Se si fosse
consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo
spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la sede
della libertà nei secoli più remoti. A questo senso di moderazione l'Italia deve
continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed i fatti antichi devono
persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua tranquillità e alla sua
felicità. La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve, in
definitiva, nella ricerca di una linea politica saggia e realistica che non
miri alle magiche trasformazioni ma proceda per proporzionate graduazioni» alla
realizzazione di un programma costituzionale a cui è lecito aspirare. Tutta
l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi civili più adatti e
convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle forme politiche
stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una definizione vichiana,
nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San Marino, nonostante il
suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed involuzioni,
rappresentava un modello politico reale che, in modo non utopistico, mostrava
non essere impossibile alla specie umana una tal forma di società. Dalla
piccola Repubblica C. uscirà diverse volte per riordinare la biblioteca
pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni mesi nella casa del
marchese Belmonte, la cui amicizia risaliva, o per andare a Bologna dal suo
amico Fortis, in quel tempo prefetto della biblioteca nazionale della città. Soggiorna
ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Si porta a Milano per seguire la
stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel capoluogo lombardo, dove
sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della legislazione universale d’Avenstein,
rivedrà CUOCO (si veda) e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe
Bossi, Pietro Custodi e Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a
Gian Giacomo Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in
contatto con il celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana
Cislago, donna assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale
resterà, come con gli altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno
all'inverno di quello stesso anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo
fratello. È, quello sammarinese, un periodo in cui C., fuori dalla vita
politica attiva, riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della
Repubblica di S. Marino e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e
sull'incertezza ed inutilità della medesima che, usciti a Forlì nel 1808,
vedono in poco tempo altre due edizioni (70). Lo studio della storia in stretta
relazione con la realtà presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova
nelle Memorie storiche diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore
dichiari, nelle battute iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione
di coloro i quali riguardano la storia come maestra della vita e dispensatrice
della civile sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca diligente
e vasta, scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del mito» di San
Marino, di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria
libertas e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere
a modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini, Lodovico
Zuccolo e Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia della
piccola Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le
vicende di un popolo che poteva costituire un esempio degno d'imitazione.
Questa rivalutazione» dell'esperienza storica appare quanto meno strana in un
pensatore considerato da alcuni l'espressione più radicale dell'antistoricismo
italiano. Nei Pensieri C. affronta il problema della conoscenza storica
in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire se la scienza di ciò che
fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza. Con quest'opera esprime
l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una storia utile, che
indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma perché questo
avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla tradizione
storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi metodologici
inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata conoscenza del
passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert, Rousseau, Condorcet,
Volney, delle cui Leçons d'histoire risente la stesura dei Pensieri, nega che
le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte siano state in grado di
riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di certezza, la storia non
presenta alcuna vera utilità per il genere umano. Egli si pone principalmente
il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio della storiografia
illuministica. A tal fine, denuncia deficienze e manchevolezze che ancora
permangono negli studi storici e lamenta che la proliferazione incontrollata
degli stessi abbia dato luogo ad una loro stagnazione piuttosto che a un
ripensamento critico dei principi e dei criteri della pratica storiografica.
Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre il secco e nudo racconto» di
pochi avvenimenti, per indurla a valutare le circostanze nel loro complesso, ad
indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti e le loro cause. Essa
dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di fatti gli uni dipendenti
dagli altri, per scorgere come dai primi e più semplici siamo gradatamente
giunti alle attuali positive cognizioni, di modo che mostrandoci i due estremi
c'indicherebbe più facilmente la strada da percorrere, per andare in cerca
delle altre verità desiderose di venire alla luce. Così concepita, l'indagine
storica permetterebbe di recuperare positivamente l'eredità del passato, che
cesserebbe di appartenere alla memoria per divenire una componente integrante
del processo storico contemporaneo. Una convinzione, questa, che trova conferma
in un successivo scritto delficino, Discorso preliminare su le origini italiche
(79), in cui viene ribadita l'opportunità di interrogare il passato e
registrare i fatti del tempo» in funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di
cerniera tra il tempo andato e quello avvenire rappresenta l'aspetto più
interessante della storia. Essa la pone su un piano di parità con le altre
scienze a cui l'accomuna il merito di protendere al miglioramento fisico e
morale dell'uomo. Ma perché la ricerca storica possa adempiere a queste
funzioni conoscitive si richiede che essa sia qual non esiste», cioè una
disciplina nuova, ancora intentata, che C. chiama anche storia delle scienze».
Le cognizioni storiche perdono allora il carattere di sterile nozionismo, che
hanno sempre avuto, e acquistano un valore intrinseco: Sobriamente conoscendo
quel che fu», afferma a conclusione della sua opera, potremo facilitarci la
strada a saper ampiamente quel che è» (80). Un atteggiamento polemico
egli assume anche nei confronti delle mitologie la cui origine sarebbe dovuta a
superstizione, ad ignoranza o ad incapacità di fornire una spiegazione
razionale a fenomeni naturali. È il caso degli incantatori di serpenti e del
loro presunto potere antiofidico, contro cui egli insorge in una Lettera di
poche pagine, senza titolo, inserita a guisa di nota nel VI tomo degli Annali
del Regno di Napoli di Grimaldi e rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi. La
dissertazione, che si colloca nel filone della letteratura illuministica di
confutazione delle superstizioni, è una dura requisitoria contro gli impostori»
serpari, i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in realtà non
avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una conoscenza
particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti naturali. Una
diversa considerazione, invece, egli ha dei cosiddetti favoleggiatori». Come il
virtuoso» Socrate e il divino» Platone, C. tiene in grande considerazione il
racconto allegorico. Quando ancora lo spirito umano, afferma nel Discorso sulle
favole esopiane del 1792 (83), non aveva maturato le sensazioni e le esperienze
necessarie per poter generalizzare le idee ed esprimerle con precisione e proprietà
di linguaggio, fu naturale che i primi pensieri morali, il sentimento di
giustizia, le nozioni di bene e di male e molti altri concetti fossero
acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero così la morale dell'infanzia
dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno neppure nei tempi moderni dal
momento che gli apologhi, se convenientemente scelti, possono giovare non
soltanto ai giovani ma anche a quella parte del popolo che, ancora vittima
dell'errore» e del pregiudizio», si trova in uno stato più infelice» (84) di
quello dei secoli remoti. Il ritorno a Napoli dei Francesi, nel febbraio
del 1806, viene salutato come l'inizio di una nuova stagione politica. Esso
rappresenta per lo scrittore teramano quell'inversione di rotta che era ormai
tempo che si facesse e che lo induce a riportarsi, nel giugno di quell'anno,
dopo sette anni di esilio sammarinese, nella capitale partenopea dove farà
parte, per quasi un decennio, della nuova amministrazione francese. Nell'età
napoleonica egli intravede la possibilità di un recupero di quello spirito di
ragione e di moderazione», a cui riteneva necessario ricondurre la politica
dopo la crisi di fine secolo e che costituiva l'unica via possibile di
sviluppo, sia contro gli eccessi dei rivoluzionari, sia contro le intemperanze
dei reazionari. Nominato da Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato (3
giugno 1806), C. viene assegnato alla sezione delle Finanze, per poi passare
alla presidenza della sezione dell'Interno, divenendo uno dei quattro
presidenti del Consiglio di Stato. Regge più volte ad interim il ministero
dell'Interno, facendo parte delle Commissioni per le lauree, per le pensioni,
per le riforme del Codice civile, per la procedura delle cause feudali in
Cassazione, per la riforma della pubblica istruzione, per la ripartizione dei
demani, per la vendita dei beni dello Stato. Presidente della Commissione degli
Archivi generali del Regno, nominato commendatore dell'ordine delle Due
Sicilie, viene insignito da Murat del titolo di Barone. I numerosi
incarichi di responsabilità non lo distolgono dalla tensione intellettuale,
tutta incentrata sullo studio della fisiologia e di altre fisiche cognizioni.
Evidente appare il suo debito nei confronti di Cabanis, sostenitore della
sensibilità fisica quale fondamento dell'attività umana. Delle teorie dei
Rapports du physique et du moral de l'homme, l'opera più importante del
filosofo francese, risentono soprattutto le Ricerche su la sensibilità
imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e
del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni
e la Memoria su la perfettibilità organica considerata come il principio
fisico dell'educazione con alcune vedute sulla medesima del 1814, cui segue,
l'anno successivo, la Seconda memoria. Del 1818 sono, infine, le Nuove ricerche
sul Bello, pubblicate a Napoli da Agnello Nobile. Con la restaurazione
dei Borboni, nel 1815, C. dirada il suo impegno nella vita politica. Ciò
nonostante, all'indomani dello scoppio insurrezionale del 1820, Ferdinando I
gli affida l'incarico di tradurre la Costituzione spagnola del 1812 e subito
dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina (assieme ad altri 14) membro della Giunta
provvisoria di governo, chiamata a sostituire il Parlamento fino al suo
insediamento. Successivamente sarà uno degli 89 deputati di quel Parlamento che
vivrà solo fino a quando Ferdinando I chiederà l'intervento austriaco per porre
fine all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo governo reazionario.
Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli ambienti
governativi. Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli teme non
soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si
interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale,
avviato dai Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese.
Nell'azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della
ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede
profilarsi la minaccia di rendere il mondo stazionario» se non addirittura di
farlo a grandi passi o salti retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso,
ancora più probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, non
ultimo Niccolò Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali
ci si serve per sostenere fini politici particolari. Questo clima è per C.
l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del gran politico
pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così,
agli inizi degli anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune
dottrine politiche del Segretario fiorentino, nate dall'esigenza di
confrontarsi con Machiavelli intorno ad alcuni temi, come la religione, la
libertà, il problema costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni
pregiudizi che si sarebbero formati sotto la sua potente autorità, senza
tuttavia tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili
per le civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o
meno accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni
positive. Dell'illustre autore» C. sottolinea il realismo politico e
l'aderenza alla realtà effettuale. Egli guarda il Principe non come un'astratta
speculazione politica, bensì come uno scritto d'occasione contenente una
particolare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico
contingente, qual è la rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti i costi
un precorritore del Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo
un'interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in lui la
viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre
fine alla grave crisi della società italiana del Cinquecento. Ma la condizione
di immobilismo e di decadenza politica e civile dell'Italia, per la quale
Machiavelli suggerisce la soluzione del Valentino quale liberatore degli Stati
italiani, non porta lo scrittore teramano a condividere interamente tutte le
tesi del Segretario fiorentino: Se si possono giustificare le sue intenzioni, e
la persona» afferma questo non vale per le sue dottrine. Infatti, se da un lato
egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di
una prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso mezzi eccezionali,
dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo realismo politico,
non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione machiavelliana tra etica e
politica e il principio che per regnar tutto lice. Divergenze emergono
anche dal tentativo che C. in seguito compie di ricondurre il pensiero
machiavelliano ai tempi presenti per poi valutarlo sulla base delle proprie
convinzioni ed esperienze storiche, politiche e culturali maturate tra il XVIII
e il XIX secolo. Molte sono tuttavia le idee del Fiorentino che considera
ancora valide e attuali, come l'identificazione dell'origine dei conflitti
sociali con l'ineguaglianza giuridica ed economica, l'assoluta inconciliabilità
tra gli umori» del popolo e quelli dei grandi (95) o la condanna del ruolo
antisociale dei gentiluomini», di quegli uomini cioè che, oziosi», vivono dei
proventi dei loro ingenti possedimenti (96). Ma, soprattutto, riconosce a
Machiavelli il merito di aver legato la questione militare» alla questione
politica», di aver ritenuto la soluzione dell'una imprescindibile da quella
dell'altra. Tale correlazione presuppone ed implica un nuovo rapporto tra
governanti e governati basato sul reciproco impegno, da parte del popolo, di
assicurare la propria affezione» allo Stato, così da garantirgli una maggiore
stabilità; da parte dei governi, di soddisfare le aspirazioni dei sudditi,
migliorandone le condizioni. Lo sviluppo di questo vincolo, che con assoluta
originalità C. fa derivare dal nesso tra dimensione militare e dialettica
politica, è concepito all'interno di una monarchia costituzionale, considerata
la forma più conveniente all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta
soluzione tra rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale,
di cui aveva manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione
francese, risponde soprattutto all'esigenza di assicurare l'uguaglianza
politica e la tutela dei diritti individuali dei cittadini, garantendo loro la
sicurezza reale e personale. C. torna a Teramo, ma nell'autunno successivo
si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino a quando lascia la
Capitale per non farvi più ritorno. Nel capoluogo abruzzese, dove trascorre il
resto della sua vita, senza mai più allontanarsi, l'anziano scrittore continua
a studiare e a scrivere. Fra i lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora
inediti e, di questi, molti non terminati o soltanto abbozzati e frammentari)
ricordiamo la memoria Della importanza di far precedere le cognizioni
fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale, in cui ribadisce la sua
concezione materialistica della conoscenza e concepisce la ragione come
strumento critico e operativo, che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare
l'essenza delle cose e tutto ciò che non può realmente conoscere ma rivolgersi
alle cose utili e necessarie al benessere e alla felicità del genere umano, e
gli scritti sulla numismatica pubblicati a Teramo dai tipi Angeletti con il
titolo Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare
su le origini italiche. Non verrà meno neppure il suo impegno riformatore
che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti, dal titolo Fiera
franca in Pescara e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla
foce del fiume Pescara, con i quali si prefigge di rivitalizzare le attività
produttive in questa zona ancora poco sviluppata del Regno. Decisivo gli appare
a tal proposito un rilancio del commercio, considerato la sola sorgente
inesausta della ricchezza e floridezza delle Provincie», non senza però aver
prima creato le condizioni e le strutture necessarie per facilitarlo. Una di
queste potrebbe essere la realizzazione di un grande emporio o fiera franca,
che non solo ridurrebbe sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma
assicurerebbe un notevole afflusso di merci, di provenienza anche straniera,
senza l'imposizione di alcun dazio di importazione, che eviterebbe ai
negozianti, ai mercanti e a molti proprietari abruzzesi di rivolgersi, non
senza grave danno, ai mercati dello Stato pontificio di Fermo, di Ascoli o a
quello più grande e lontano di Senigallia. Tutto ciò non farebbe che
ripercuotersi favorevolmente sul commercio che potrebbe così finalmente divenir
attivo e moltiplicare i capitali e far nascere nuove attività economiche o
migliorare e accrescere quelle esistenti. La creazione di uno moderno
scalo marittimo alla foce del fiume Pescara costituisce l'oggetto della
riflessione che C. conduce nel Brevecenno. L'idea che il mare anziché separare
riavvicini le Nazioni fra loro, permettendo infinite comunicazioni tra i
popoli, costituisce la determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove
per sostenere l'utilità che la creazione di un porto sicuro per i naviganti
rivestirebbe per l'incremento del commercio e per lo sviluppo economico in
generale. La scelta di Pescara quale centro di scalo portuale trova
giustificazione nel fatto di avere la cittadina adriatica il fiume con la foce
più ampia e di essere punto centrale nel litorale degli Abruzzi», crocevia
delle tre principali strade, l'una diretta verso Napoli, le altre, entrambe
costiere, in direzione la prima verso lo stato pontificio, la seconda verso le
province meridionali. Non solo, ma sarebbe anche l'unico porto ad avvalersi di
una piazza forte» che renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione delle
merci. Così il porto di Pescara potrebbe riacquistare quell'importanza che
aveva avuto un tempo quando era conosciuto con il nome di Ostia Aterni e gli
imperatori romani vi avevano fatto confluire le tre strade, la Claudia, la
Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi commerciali. A metà
degli anni Venti un libro anonimo, dal titolo La vérité sur les cent jours,
principalement par rapport à la renaissance projetée de l'Empire Romain, par un
Citoyen de la Corse (H. Tarlier, Bruxelles), di cui uscirà una traduzione
italiana incompleta dal titolo Delle cause italiane nell'evasione
dell'imperatore Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del luogo e
dell'editore del testo originale, riferisce di una congiura che sarebbe stata
ordita da alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone
Bonaparte. Dei presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fa il
nome soltanto del conte Luigi Corvetto, justement regardé comme un des
meilleurs jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre C., un des hommes les plus
vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al
Teramano viene anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M.
l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie, sulle
condizioni politiche e morali dei vari Stati italiani, che sarebbe dovuto
servire all'imperatore francese per meglio valutare le possibilità di successo
dell'impresa. Ma nessuna conferma in proposito è mai venuta dalle carte
delficine, né da successive ricerche, per cui ancora oggi l'ipotesi di una
partecipazione del Nostro al progetto resta legata a quest'unica notizia. C.
pubblica la lettera Della preferenza de' sessi alla contessa Chiara Mucciarelli
Simonetti in cui riprende i temi della condizione ed emancipazione della donna
affrontati in gioventù nel Saggio filosofico sul matrimonio. Trascorre gli
ultimi anni della vita continuando a coltivare i suoi interessi intellettuali.
A questo periodo risalgono i suoi studi sulla scienza medica testimoniati da
numerose pagine, ancora inedite, conservate presso il Fondo C. della Biblioteca
Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni manoscritti di cui uno dal titolo
Sugli antichi confini del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e i
progressi delle Società civili che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti,
il quale ne caldeggia la pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende
rivederlo. Riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le regioni del Regno,
e viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di Commendatore
dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese C. muore. Dopo la
notorietà di cui aveva goduto in vita, alla sua morte C. cade in un lungo e
ingiustificato oblio. Uscito grazie a GENTILE (si veda) dal ristretto ambito
locale, che lo rende un filosofo sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in
una dimensione più ampia, nazionale, C. è oggetto di una diversa
considerazione. Una rivalutazione che si determina in coincidenza con il
rinnovato interesse storiografico per la cultura e la storia, e, in
particolare, per alcune esperienze intellettuali e politiche significative
dell'illuminismo. Merito di questa storiografia è quello di aver ricondotto e
legato il riformismo delficino all'esperienza e al fervore culturale del
movimento riformatore napoletano. Una lettura che ha privilegiato il C.
riformatore, la sua fase riformistica, contrapponendosi alle rivisitazioni
critiche precedenti, sia della storiografia neo-idealistica che del ventennio
fascista. Llinee interpretative stanno approfondendo altre fasi fondamentali
della biografia intellettuale di C. (alcune delle quali scarsamente
scandagliate), come quella relativa al decennio rivoluzionario o quelle che
contrassegnano la sua evoluzione durante la Restaurazione, da riformatore
nutrito dell'illuminismo napoletano a FILOSOFO della storia e della politica. Nato
in un paesino vicino Teramo, LEOGNANO, dove il genitore, Berardo C., si rifugia
durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Muore a Teramo. Per le
notizie biografiche, la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-C.,
Della vita e delle opere di C., Angeletti, Teramo, arricchita di un'elencazione
dei saggi editi ed inediti del Nostro, alcuni dei quali successivamente
pubblicati, nonché di quelli non terminati e dei frammenti. Rimasta incompiuta,
l'opera continua sul Giornale abruzzese di scienze lettere e arti», col titolo
Notizie intorno alle OPINIONI FILOSOFICHE ed alle opere di C. e, sempre sulla stessa rivista, col titolo
Notizie sulla vita e sulle opere di Melchiorre C. Molti degli amici e dei
discepoli del Genovesi furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre ai fratelli
Giamberardino, Gianfilippo e Melchiorre C., il teatino Romualdo de Sterlich,
Tommaso Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne, l'aquilano Giacinto
Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano Giammichele Thaulero e
Troiano Odazi di Atri, che succede al Maestro nella cattedra di economia. Sulla
presenza anche in Abruzzo di quello che è stato definito il partito
genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo borbonico. Cultura, società,
economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto; U. Russo, Studi sul
Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti, Diaz, Dal movimento dei lumi al
movimento dei popoli, Il Mulino, Bologna.Sul riformismo borbonico, cfr. F.
Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma; I Borbone di
Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di M. Di Pinto, Guida, Napoli Chiosi, Il
Regno, in Storia del Mezzogiorno, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Edizioni
del Sole, Roma, e la sintesi di a. M. Rao, Il riformismo borbonico a Napoli, in
Storia della società italiana, vol. 12, Il secolo dei lumi e delle riforme,
Teti, Milano e la ricca bibliografia in essa contenuta. Lo scritto, dedicato a
Bartolomeo Intieri e pubblicato assieme al Ragionamento sopra i mezzi più
necessari per far rifiorire l'agricoltura dell'abate Ubaldo Montelatici colla
Relazione dell'erba orobanche detta volgarmente succiamele e del modo di estirparla
di Pier-Antonio Micheli, uscì a Napoli. GENOVESI (si veda), Lettere
accademiche su la questione se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati
(Napoli), Lettera, Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G.
Savarese, Feltrinelli, Milano Per una valutazione dell'influenza di Pietro
Giannone sulla cultura napoletana oltre al lavoro sempre valido di L. Marini,
Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento. Lo svolgimento della
coscienza politica del ceto intellettuale del regno, Laterza, Bari 1950, cfr.
G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di GIANNONE (si veda),
Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R.
Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp. il contributo di E. Chiosi, La
tradizione giannoniana nella seconda metà del Settecento, Sulla posizione di
Genovesi nei confronti dell'autorità temporale e dottrinale della Chiesa, cfr.
E. Pii, GENOVESI (si veda). Dalla politica economica alla politica civile»,
Olschki, Firenze; G. Galasso, LA FILOSOFIA in soccorso de' governi. La cultura
napoletana del Settecento, Guida, Napoli Le due Memorie, dal titolo Intorno a'
dritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento e Saggio istorico delle
ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella
Marca, furono commissionate a C. dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon.
Della prima, tuttora inedita, esiste una copia autografa presso l'Archivio di
Stato di Teramo, Fondo C. fasc. dal titolo Del territorio beneventano. La
seconda, invece, fu pubblicata la prima volta su La Rivista abruzzese di
scienze e lettere, preceduta dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del
manoscritto. Il Saggio istorico è stato riedito nelle Opere complete, Fabbri,
Teramo. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei
quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a Teramo a cura
di Pannella e Savorini. M. C., Del territorio beneventano, Venturi,
Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani, Ricciardi,
Milano-Napoli G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C., C., Memoria
autobiografica, inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo,
fondo Manoscritti C.», Misc. C., Saggio filosofico sul matrimonio, in
Opere complete. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il
Carducci, Edizioni di Comunità, Milano Lettera di C. a Dragonetti, in
Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a
cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della Rassegna Nazionale,
Firenze La lettera è stata riedita nelle Opere complete, M. C., Indizi di
morale, in Opere complete, Sull'ambiguità concettuale di tale espressione cfr.
M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, La Nuova Italia,
Firenze, Guerci, L'Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, Pomba, Torino.
C., INDIZI di morale. Per una ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V.
Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano. L'attività di C. presso
il Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma; L'espressione
è ricorrente nella Relazione di Mons. Luigi Pirelli alla Sacra Congregazione
del Concilio, in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano. Cfr.
C., Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, in Opere complete,
F. Venturi, Nota introduttiva (a M. C.), in Riformatori napoletani; Favorevole
ad un più moderno sviluppo dell'attività risiera per una ripresa economica
della sua provincia, C. assumerà alcuni anni più tardi un atteggiamento
decisamente contrario alla risicoltura. Su tale mutamento, cfr. V. Clemente,
Cronache della defeudalizzazione in provincia di Teramo: le risaie atriane in
Itinerari», C., Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, presso
Vincenzo Orsino, Napoli, Opere complete, C. ammira soprattutto la Vita di
Ansaldo Grimaldi (Napoli), poiché in essa l'Autore era riuscito a saldare la
vicenda dell'uomo di Stato genovese con la storia politica dello Stato stesso e
a far vedere come la mancanza di costituzioni e di leggi fondamentali tenesse
lo Stato in continua rivoluzione» (Elogio di GRIMALDI (si veda), C., Elogio di
GRIMALDI (si veda), Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité
parmi les hommes, Oeuvres complètes, Gallimard, Paris. C., Elogio di
GRIMALDI (si veda). Su tale associazione, fondata ad Ingolstadt da Adam
Weishaupt, cfr. C. Francovich, Gli Illuminati di Baviera, in Storia della
massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, La Nuova Italia,
Firenze. Alcune lettere sono state pubblicate nel quarto volume delle Opere
complete di C.; altre sono apparse nel primo volume di Aus dem Briefwechsel
Friedrich Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen Gelehrten,
Andreasen, Haasse, Leipzig. Due di queste ultime sono state riprodotte in
appendice al libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre C.. (Studi e
ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi G. D'Annunzio», Facoltà di
Lettere e Filosofia, Chieti, il quale ha pubblicato altre lettere di C. a
Münter, assieme ad alcune lettere di C. alla sorella del Danese Federica Brun.
Altre, ancora inedite, sono conservate presso la Biblioteca Provinciale di
Teramo. C., Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche
nelle provincie confinanti del Regno, Porcelli, Napoli, Opere complete. Solari,
Studi su PAGANO (si veda), cur. Firpo, Giappichelli, Torino. Sullo stesso piano
l'Autore pone l'altro scritto di C., Memoria sulla libertà del commercio, e
l'opera sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo, pubblicata
anonima a Palermo; C., Memoria sul Tribunal della Grascia. C., Discorso sul
Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e
non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli 1788, ora in Opere
complete; C., Discorso sul Tavoliere di Puglia Il testo è stato pubblicato da
L. Tossini, Una lettera inedita di Melchiorre C. a Michele Torcia, in Nord e
Sud. La lettera è datata Teramo, su invito dell'Accademia di Padova agli
scrittori italiani di occuparsi del problema della libertà di commercio, la
Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso Destefanis,
Scrittori classici italiani di economia politica, cur. Custodi. L'opuscolo è
stato recentemente riedito (De Petris, Teramo) con un'introduzione di M.
Finoia. Sul problema C. tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento su le
carestie, in cui apporta alcune modificazioni e moderazioni» al principio della
libertà assoluta e illimitata di commercio, auspicando nel mercato l'intervento
diretto dello Stato, cui riconosce il compito di prevenire il terribile
flagello» delle carestie e di altri simili avvenimenti. Il testo, letto nella Reale
Accademia delle Scienze di Napoli e pubblicato negli Atti, è stato riedito a
Teramo assieme alla Memoria sulla libertà del commercio. Se, dopo varie
insistenze, all'inizio del 1788 ottiene, come aveva richiesto due anni prima
nella Memoria per il ristabilimento del Tribunale Collegiato nella Provincia di
Teramo (in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, il
ripristino a Teramo di detto Tribunale, in luogo dei magistrati unici, più
agevolmente portati all'abuso del potere, non altrettanta fortuna incontreranno
invece le sue richieste sia di abolizione della servitù degli Stucchi, del
1786, sia di istituzione di una Università degli Studi a Teramo ad indirizzo
fisico» ed orientamento laico. Sugli sviluppi delle iniziative delficine si
vedano R. Di Antonio, Stucchi e Doganelle nel teramano, Libera Università
Abruzzese degli Studi G. D'Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche, Teramo, la
quale pubblica in appendice la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un
nuovo sistema per le Doganelle, e G. Carletti, Introduzione a M. C., Una
piccola» Università a Teramo, Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo. La
Memoria è pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao, L'amaro della
feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli, Guida,
Napoli; C., Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, Memoria
delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata presso la
Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo Manoscritti C.», Ined. In Lombardia C.
si trattenne per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in
seguito a Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, rientra in patria. Su questo
viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di rinsaldare,
cfr. G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C.. Opere complete. L'opera,
che provocò subito molto chiasso», sia per le reazioni della classe togata, sia
per gli elogi che ricevette da più parti, fu pubblicata a Napoli, presso
Porcelli, ristampata a Firenze e Napoli; Ghisalberti, La giurisprudenza romana
nel pensiero di C., in Rivista italiana per le scienze giuridiche. C., Ricerche
sul vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete. Odazi,
nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani
della seconda metà del Settecento. Allievo del Genovesi ne cura l'edizione
milanese Delle lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato PROFESSORE
DI ETICA – non ‘moral philosophy,’ come a Oxford -- nel Reale convitto della
Nunziatella, è chiamato a ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era
stata del Genovesi e rimasta vacante per diversi anni. Esponente della
massoneria napoletana, è coinvolto nel fatti. Arrestato, muore suicida nelle
carceri della Vicaria. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani, Odazi. La prima
vittima del processo politico in Napoli, in Archivio storico per le province
napoletane», CROCE (si veda), La rivoluzione napoletana, Laterza, Bari, Sulle
tappe di questo viaggio, cfr. G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C.
Si veda la lettera di C. a Fortis da Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo per
l'epistolario di C., Rassegna della letteratura italiana. L'ipotesi di una
partecipazione al concorso origina da De Filippis-C., il quale riporta tra le
opere delficine non-terminate» (cfr. Della vita e delle opere di C., un
opuscolo privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito: Quale sia il
miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia, sia in merito
a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella ricostruzione
biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda Carletti, A proposito di
un'anonima dissertazione. Note sulla presunta partecipazione di C. al concorso,
in Trimestre. Sono le delficine Memoria per la Decima imposta al Regno;
Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva
monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli ed
infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per rapporto al
commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte
inedite. Lettera di C. a Fortis in M.G. Riccobono, Contributo per
l'epistolario di Melchiorre C.. Il vescovo a cui allude è Luigi Maria Pirelli,
nobile di Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo
e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia C.. Nella Relazione risponsiva alle
accuse (pubblicata da L. Tossini, Autodifesa di un illuminista, in Archivio
storico per le province napoletane», egli era costretto a difendere la propria
reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a causa di vaghe» e calunniose
imputazioni» di qualche delatore. La denuncia, pur non avendo gravi conseguenze,
riuscì tuttavia ad impedire che C. succedesse al fratello nella presidenza
della Società Patriottica di Teramo. Una nuova denuncia anonima èall'origine
del rifiuto del Supremo Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del
titolo di conte. Non avrebbe ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con
decreto Murat gli avrebbe conferito quello di barone. Il pretesto è
fornito da alcune lettere rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica, da
poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la donna
avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio Michitelli,
entrambi frequentatori di casa C.. Si veda in proposito la Memoria della
persecuzione subita dalla famiglia C., scritta presumibilmente da Giamberardino
C. allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei
propri beni», dopo che, condannato dai Regi inquisitori nel processo contro i
rei di Stato» e trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era
stato liberato in seguito all'indulto generale. Il testo è stato pubblicato da
Clemente su Storia e civiltà. L'episodio che portò all'arresto dei C. è a. I
Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre
1798. Arrivano a Teramo. Messe in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi
riconquisteranno la città, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne e Chieti.
Per una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L.
Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, Vecchioni, L'Aquila, Consorzio
Nazionale, Roma. Sull'arrivo e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr.
anche le tre cronache del periodo rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli
avvenimenti in Teramo ed altri luoghi d'Abruzzo in L. Coppa-Zuccari,
L'invasione francese negli Abruzzi; G. Tullj, Minuta relazione dei fatti
sanguinosi seguiti in Teramo, con postille e con la continuazione del canonico
Niccola Palma (pubblicata da V. Clemente col titolo Una cronaca inedita
teramana, Storia e Civiltà; C. Januarii, Avvenimenti seguiti nel Teramano dal
1798 al 1809, Teramo Il Consiglio, di cui fecero parte, oltre a C., i
lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Madonna, entrò in funzione subito dopo
e svolse la sua attività non oltre la fuga del suo presidente da Pescara
avvenuta il 28 aprile successivo. Cfr., in proposito, M. Battaglini, Abruzzo.
Una repubblica giacobina, in Rassegna storica del Risorgimento, La Repubblica
napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma; Sull'esperienza
pescarese di C., cfr. anche F. Masciangioli, C. e Pescara. Per una storia
del rapporto tra intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in
Trimestre», Sullo spirito di moderazione di C., interessato a trovare una
mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr. G. Carletti,
C.. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, ETS,
Pisa; Cfr. Galasso, I giacobini meridionali, in Rivista storica italiana», ora
in La filosofia in soccorso de' governi.Il testo è stato pubblicato da R.
Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi con documenti e
note, in Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti. Senz'altro meno
importante è l'altro atto a firma di C., Proclama sulla sicurezza pubblica del
ventoso anno, con il quale venivano fissate alcune disposizioni per combattere
il vagabondaggio. I due testi sono stati recentemente riediti assieme ad altri
scritti delficini da G. Carletti, La Pescara» di Melchiorre C., Edizioni
Tracce, Pescara. Cfr. la lettera di C. al Governo Provvisorio, da Pescara,
datata 7 germile an. 7 Rep., Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M.
Battaglini, Guida, Napoli. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra,
Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età moderna, in Storia e politica, e Per
una rilettura socio-antropologica dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni
Città del Sole, Napoli. Per il testo cfr. G. Carletti, C.. Sulla permanenza del
Teramano nella Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre C. e la
Repubblica di San Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino. Cfr. V. CUOCO
(si veda), Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, II ed. con aggiunte
dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano. Si veda l'ormai
nota Prefazione alle Memorie storiche della Repubblica di S. Marino (Milano
1804), in Opere complete. Il saggio, il cui titolo originale era Esame della
Storia, e dei suoi vantati pregi, vide la luce due anni dopo che C. l'aveva
consegnato alla stamperia Roveri e Casali. La seconda e la terza edizione
uscirono a Napoli. C., Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. Cfr. M.
Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia: Melchiorre C.,
in Itinerari», Cfr. GENTILE (si veda), Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della
Critica», Napoli, il quale afferma che nessuno prima di allora aveva negato la
storia nel modo assoluto del Teramano. Un estremo radicalismo
nell'antistoricismo» delficino è stato rilevato anche da CROCE (si veda), La
storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni
nostri: 1. Il «secolo della storia» e 2. Il nuovo pensiero
storiografico, in «La Critica», rielaborati nel volume Storia della STORIOGRAFIA
ITALIANA, Laterza, Bari, e da RUGGIERO (si veda), Il pensiero politico
meridionale, Laterza, Bari. C., Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed
inutilità della medesima, in Opere complete. Il titolo per esteso dell'opera è
Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale en l'an III de la République
française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson, Paris. Sull'affinità di vedute
dei due autori, cfr. Rosso, De Volney à C.: l'histoire, une discipline aussi
inutile que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues,
Angers, C. Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima,
Opere complete. C., Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della
medesima. Porcelli, Napoli, Epoca. Grimaldi si era rivolto all'amico teramano
per avere notizie sull'esistenza nella Marsica moderna di antiche costumanze di
carattere ofidico e su eventuali relazioni tra queste e i rituali moderni. La
Lettera delficina venne ricordata nella recensione al volume di Grimaldi, Nuovo
Giornale enciclopedico» per mano, molto probabilmente, del suo principale
estensore Alberto Fortis. Per un esame critico del testo, riprodotto in
appendice, cfr. G. Profeta, Una ignorata dissertazione di Melchiorre C. sugli
incantatori di serpenti, in «Lares, ora anche nel volume Lupari incantatori di
serpenti e santi guaritori nella tradizione popolare abruzzese, Japadre,
L'Aquila-Roma. Lo scritto, ideato e posto come prefazione alle ancora inedite
Favole morali di Alessio Tullj, è stato pubblicato da A. Marino, in «Aprutium»;
C., Discorso sulle favole esopiane, Lettera ad Onofri, in F. Balsimelli,
Epistolario di Melchiorre C.. Lettere sammarinesi, Arti grafiche Della
Balda, San Marino. Sull'attività del Teramano nell'amministrazione francese,
cfr. G. Palmieri, Melchiorre C. e il decennio francese, Edizioni del Gallo
Cedrone, L'Aquila , il quale riproduce in appendice alcuni scritti delficini
del periodo; R. Feola, La monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso
nelle Sicilie, Jovene, Napoli Ora in Opere complete. Ora in Opere complete. Ripubblicate
nelle Opere complete, le Nuove ricerche sul Bello sono state recentemente
riedite a cura di A. Marroni, Ediars, Pescara. Per un quadro d'insieme
dell'attività amministrativa e dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno
napoletano, oltre al volume, notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla
prima edizione, di A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi,
Torino, cfr. Villani, Il decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, Il Regno
dagli Angioini ai Borboni. Spunti critici anche in Studi sul Regno di Napoli
nel decennio francese, cur. Lepre, Liguori, Napoli. Rimasto inedito, il testo
finale è tuttora irreperito ma di esso si conservano due stesure pubblicate da
A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre C., Solfanelli, Chieti, C., Osservazioni
sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino. Cfr. N. Machiavelli,
Istorie fiorentine, in Opere di Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario
fiorentino, Italia. Cfr. MACHIAVELLO [si veda], Discorsi sopra la prima deca di
LIVIO [si veda], in Opere, Opere complete. L'opera, notevolmente ampliata, fu
ristampata a Napoli, per i tipi di Angelo Trani, col titolo Dell'antica
Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini
italiche, ora in Opere complete. Pubblicati nelle Opere complete, i due testi
sono stati riediti da Carletti, La Pescara di C.. C., Breve cenno. C., Fiera
franca in Pescara, Breve cenno. Ora, tradotto, in Opere complete, Rapporto
sull'Italia inviato a Napoleone e attribuito a C. C., Della preferenza de'
sessi. Lettera a Simonetti, pubblicata a Siena ed ora in Opere complete. Cfr.
la lettera di C. a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature nel carteggio
letterario e politico di Dragonetti. Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi.
Per un quadro d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto, Ricuperati,
L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza, Bari, e la ricca
bibliografia in esso contenuta. Per una ricognizione degli studi
delficini, cfr. Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una storia critica
della storiografia delficina, in «Trimestre», Saggio filosofico sul matrimonio,
segnato nell'indice de' libri proibiti, INDIZI di morale, proibito prima
di pubblicarsi. Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale.
TeramoMemoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo Napoli Porcelli Elogio del marchese D.
Francescantonio Grimaldi . Napoli, presso Orsino Memoria sul tribunale
della grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti
del regno. Napoli presso Porcelli. Memoria sulla necessità di
rendere uniformi i pesi e le misure del regno. I. voi. iti Napoli presso
Porcelli. Memoria su’ regii stucchi, o sia su la servitù de’ pascoli
invernali nelle provincie marittime degli Àpruzzi, Napoli; Discorso sul
tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale
presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli; Memoria
per la vendita de’ beni dello Stato d’Atri. I. yol. in 4 * Napoli, stampata
una col reai dispaccio di approvazione. Riflessioni su la vendita de’ feudi
umiliate a S. R. M. Napoli, presso Porcelli . Ricerche sul vero carattere
della giurisprudenza romana e de’ suoi cultori, Napoli, presso Porcelli, ristampato
in Firenze ed in Napoli; Lettera di Cantalupo su feudi, Napoli Memorie
storiche della repubblica di San Marino, Milano dalla tipografia di
Francesco Sonzogno . Memorie sulla libertà del commercio : (
stampate nella Collezione de classici italiani di Economia politica : parte
moderna : Milano i Pensieri su la storia e su la incertezza ed inutilità
della medesima, Forlì. Pensieri sopra alcuni articoli relativi all’
organizzazione de’ tribunali: stamperia reale di Napoli. Lettera a Selvaggi
sulla Tragedia. Pubblicata dal Giornale enciclopedico di Napoli An. Nuove
ricerche sul Bello. Napoli. Ricerche sulla sensibilità imitativa considerata
come il principio tìsico della sociabilità della specie, e del
civilizzamento de’ popoli e delle nazioni ( Memoria letta nella reale
Ac- cademia delle scienze di Napoli il: pubblicata tra gli Aiti della
medesima Napoli, insieme alle altre due seguenti Memorie. Memoiia su la
perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell’
educa- zione, con alcune vedute sulla medesima : Seconda memoria
sulla perfettibilità organica ec. Ragionamento su le carestie, letto
nell ’ Accademia delle Scienze di Napoli, e pubblicato negli Atti della
medesima voi. II. Napoli. Poche idee su V accusa de' ministri
. Pubblicate in uno de' giornali costituzionali di Napoli. Dell*
antica numismatica della città d’ Atri nel Piceno con un discorso
preliminare su le Origini italiche ed un appendice su’ Pelasgi ed i
Tirreni, Teramo, con tavole in rame .Rischiarimenti ad alcune osservazioni
fatte dal Micali su la stessa, e di una Lettera a Zuroli su le antiche
ghiande missili di piombo, Napoli, dalla tipografia di Angelo Trani
: con più tavole in rame . Della preferenza de’ sessi. Lettera a Simonelti.
Siena, Ristampata in Napoli insieme ad alcune poesie del Conte di Longano.
Lettera all’ autore delle Memorie intorno i letterati e gli artisti ascolani. (
Stampa- ta in fine delle stesse Memorie, Ascoli. Espressioni della parlicolar
riconoscenza della provincia e città di Teramo dovuta alla memoria
dell’ immortai Ferdinando I. Annali civili del regno delle due Sicilie
Inforno a’ dritti sovrani di Napoli sul- la città di Benevento. Memoria. Intorno
a’ diritti sovrani di Napoli sul- la città di Ascoli. Memoria. Lettera a' fratelli sulla eruzione del
Vesuvio Estratto ragionevole del trattato degli animali. Lettere sulla
cavalleria ed i romanzi. Lettera al sig. Michele Torcia sul tratto
di paese che si estende dal Fortore al Tronto. Supplemento alla Memoria
su la gra- scia, per rapporto all' estrazione degli animali vaccini
. Memoria per lo ristabilimento del tri- bunale collegiato nella
provincia di Teramo . Memoria per lo stabilimento d’ una uni-
versità in Teramo. I titoli in carattere corsivo sono per quegli scritti
che 1’autore lasciò senza una denominazione . S’ intende per lo più
di pagine scritte, come si dice, alta spagnola, ossia nella sola metà.
Pel resto si troverà sod- disfacente spiegazione nel prosieguo del libro
. Su' danni de' terremoti in Calabria nel iy . - 0 sii ministro
Corradini sulle maioliche de' Castelli. Lettera. Appendice al discorso
sul Tavoliere di Puglia . Sull’ aumento de' soldi a.' magistrati
nel iygo; Estratto ragionato del Saggio analiti- co su le facoltà dell’
anima di Bonnet. Seconda Memoria sulla vendita de’beni allodiali. Breve
Saggio su l’ importanza di abo- lire la giurisdizione feudale, e sul modo
di eseguirlo. Supplemento alla Memoria pe’ regii stucchi .Degli Appalti.
Memoria. Per la città di Teramo intorno d beni dell' abolito convento di
Agostino. Memoria per la decima impesta al regno . Memoria intorno a’ danni sofferti nella
provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e
de’ mezzi opportuni da ripararli. Osservazioni su la nuova
monetazione dello Stato papale per rapporto al commercio
delle provincie confinanti del regno . Discorso sulle Scienze morali, pag.
ira. Novena di San Marino . Intorno all’ imposizione per la caccia, ( Questo
ed i selle seguenti scritti si suppongono composti in Napoli dal Rapporto
alla reai società d’ incorag- giamento sul progetto di stabilire nelle
provin- cie del regno altre società simigliatiti, Considerazioni sul
debito pubblico, e su’ beni nazionali relativamente alla legge; Breve
esame dell’ indole delle dogane interne; Rapporto per gli stabilimenti di
uma- nità e di pubblica beneficenza Osservazioni su d’ un progetto d’
istruzione pubblica Sulla tassa fondiaria . Osservazioni sulle procedure
criminali die si chiamano Nullità. Parere intorno ad un’ opera del
Sig. Biie D. Davide JV'uispeare, intitolata : Storia degli abusi
feudali. Delle cause perchè siano molto scar- si i buoni scrittori .
Opuscolo, Lettera sulla imputabilità de’
muti. Pochi cenni su’fondamenti delle Scienze morali. Discorso letto nella
reale Accademia delle Scienze di Napoli nel iSlij, e destinato a stamparsi nel
voi. III. degli Aiti della medesima, insieme al seguente Opuscolo )
.Sulla necessitò di cangiare i metodi d’ istruzione usati in Europa
. Alla Giunta preparatoria del Parlamen- to nazionale . Allocuzione
. Memoria in favore di alcuni impie-gati destituiti Osservazioni sopra alcune
dottrine po- litiche del Secretano fiorentino. Proposta di alcuui mezzi
economici per supplire agli attuali bisogni dello Stato. Deli’ importanza
di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia
intellettuale . Discorso ( mandato alla reale Accademia delle Scienze di
Napoli. Elogio in morte della Duchessa di S. Clemente. Lettera al Cav. e
Ferri. Lettera in difesa de' Pensieri sulla Sto- ria e sulla incertezza
ed inutilità della medesi- ma, per risposta alle obiezioni di Amaury D
revai pubblicate nel Mercurio straniero tom . A ( Questa lettera, e tutti
gli altri scritti che seguono nella presente classe furono compo-
sti dopo V ultimo ritorno dell' Autore in Apruzzo ) Sulle origini ed i
progressi delle So- cietà ossia Saggio filosofico sulla storia del
genere umano Proposta di alcune riflessioni sulla filosofia medica ed
intellettuale. Opuscolo, Giudizio sulla storia fi losofica di Da - miron.
Lettera. Lettera su cF un manoscritto comuni- cato, riguardante politica.
Due biografie di se stesso; Delle cagioni per le quali il civilizza-
mento non ebbe molti progressi . Opuscolo Sulla perfettibilità. Sulla guerra.
Lettera Sulla medicina omiopatica . Lettere due. Sulla dottrina medica di
Samuele Hanhemann. Memoria sul riso secco cinese, Sullo stesso argomento
. Lettera al Mse. Tommasi. Sullo stesso argomento. Lettera polemica. De'
confini del regno di Napoli nella linea del Tronto ; ossia : Sugli
antichi confi- ni del regno, Sugli stabilimenti di beneficenza.
Lettere. Élen^UtmlnìxU Catechismo di moral ; civile, ossia trattato
pratico de’ doveri del cittadino. Del dritto naturale delle genti, ossia
della morale delle nazioni, Sistema di ragione e benevolenza uni-
versale. Sull’origine de’ popoli, Sulle Capitali. Opuscolo, Degli affari
fiscali. Memoria. Sulle proprietà. Sugli stabilimenti di umanità, Deir unione
della Ideologia colla Fi- losofia. Dissertazione, Dell’ eguaglianza de’
diritti delle donne, considerati specialmente nelle successioni,
Distinzione fral merito c la gloria. Dritti politici e dritti civili, Sul
quesito : Quale sia il miglior de governi per 1'Italia? Opuscolo; Ricerche
su le teorie fisiche della ragion degli Stati, o sia de’ veri principi
della Politica, Delle leggi e del regimento de’ comu- ni. Sulle
leggi forestali. Discorso, Sulla vociferata abolizione della provincia di
Teramo. Memoria. Ricerche su le leggi coniugali, considerate ne’ rapporti da’
quali devono sorgere, nelle cause produttrici, e negli efl’etti
inorali e civili; Sulla Vita e la Vitalità, Della specificità in
medicina. Pensieri; Osservazioni sull’opera intitolata De’principi della
scienza etimologica. Saggio filosofico su la guerra e su la pace. Igiene.
Fritmmitttt iti Di ciò che si chiama quadro dello stile. Su ORAZIO
(si veda). Critica, Pensieri divèrsi filosofici e letterarj. Qualche
osservazione sull' opera di Neker Sur 1’administration; Del Vesuvio; Del
tempo musico e filosofico, Idea d’ una legislazione, Per le origini civili,
Alle nobili fanciulle mie concittadinc. Prefazione per una raccolta di
aneddoti. Sulla Città di Reggio, Sul travaglio. Progressi dello Spirito
Orgoglio nazionale - Viaggiatori - Filosofia Eccesso di tipografia; Su’pastori.
Saggio sull’ adulazione (Progetto di un'opera ). Ricerche
storico-filosofico-poliliclie su la nobiltà (Progetto di un'opera ) .Istoria
dell’ anima. Sugli ospedali. Molti pensieri non legati. Progetto d’ un
nuovo giornale delle mode. Notizie su le opere impresse nel pri- mo
secolo della stampa, per ordine alfabetica. Qualche pensiero di dritto
pubblico, Delle raccomandazioni. Articolo morale. Considerazioni su’
magistrati municipali. Della Solitudine, Qualche osservazione sulle
Lezioni di Filosofia de Laromiguiere. Qualche osservazione sull’ opere
fisiologiche di Spurzheim. Della civiltà, Catechismo universale. Della ragion
di stato, Estratto della politica d’ Aristotile. Morale nelle leggi, Piano
di scienze morali. DELL’origine e SIGNIFICATO della parola morale, e delle
varie applicazioni della medesima Frammenti diversi sulle Leggi, Osservazioni sulla risposta di Serbatti ad
una lettera del cav. Monti sulla lingua italiana, Esame de' classici
italiani, Su' trecentisti, Romantici Osservazioni sull ’ opera di Lemercier
riguardante i teatri, Osservazioni sul passato secolo ad uti- lità del
presente Viste politiche e morali sugli effetti della rivoluzione Frammenti
diversi sugli affari politici L’ obolo della vedova . All’ Italia Qualche
ossen’azione sopra alcune espressioni di Romagnosi. Rapporto storico su’
progressi delle Scienze naturali, pag. io. A Jannelli.
Dell’uso vero della Storia, Meditazioni d’ un solitario che vive in mezzo
alla società. Sull’Inghilterra. Sopra un libretto che riguarda la
divozione pel Sangue di Gesù-Cristo Miscellanea di cose Jìsiologiche .Miscellanea
di cose economiche .Miscellanea di cose filosòfiche Miscellanea di cose
politiche. Il cavaliere Commendatore Melchiorre dei Marchesi Delfico.
Melchiorre III Delfico de Civitella. Melchiorre Delfico. Civitella. Civitella. Keywords:
giurisprudenza romana, sul bello, estetico, 'l’estetico, l’imitazione della
natura, naturale, contra-naturale, non naturale -- l’espressione. La storia
romana, incertezza e unitilita – la giurisprudenza romana fino alla caduta
della repubblica, aristocrazia versus benevolenza, benevolenza conversazionale
tra iguali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza --Grice
e Clarano: Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A friend of Seneca from
the time they study philosophy together under Attalo. In a letter to Lucilio the
Younger, Seneca contrasted the ugliness of his body with the beauty of his
soul. Grice: “Strictly, this is Chiarano – since the Italians, unlike the
Romans, seem unable to pronounce the ‘cl-‘ cluster.” Clarano.
Luigi Speranza --
Grice e Claudiano: l’anima di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Writes a treatise on the
sould against Fausto d Riez. Claudiano Mamerto. Claudiano.
Luigi Speranza --
Grice e Claudio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. best under Appius. Appius
Claudius. A reforming politician who, according to Cicerone, was at least
influenced by Pythagoreanism.
Luigi Speranza --
Grice e Claudio: la sofistica a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The son of the sophist
Marco Antonio Polemo. Primarily known as a sophist himself, he was also a
logician. Publio Claudio Attalo. Claudio.
Luigi Speranza --
LGrice e Claudio: Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofi italiano. A philosopher highly
regarded for his moral virtue. Claudio Antonino. Claudio.
Luigi Speranza --
Grice e Claudio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member of the Porch and
a friend of Antonino. He had a career in public life and was highly respected.
Antonino says he leart the value of self-control from him and admired him for
his cheerfulness, modesty, imperturbability, and generosity of spirity. He
presided over a trial involving Lucio Apuleio. Claudio Massimo. Claduio.
Luigi Speranza --
Grice e Claudio: il lizio a Roma – filosofia italiana – Luigi Spranza (Roma). FIlosofo italiano. A Lizio -- a friend of Antonino. The emperor admired him
for his kindness, warmth, and honesty, as well as for his dedication to
philosophy. Claudio Severo. Claudio.
Luigi Speranza --
Grice e Cleemporo: Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. According to Plinio
Maggiore, some attributed to Cleemporo a treatise on the property of herbs that
others attributed to Pythagoras.
Luigi Speranza --
Grice e Cleomene: la gnossi a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A gnostic who founded his
own set in Rome. Originally a pupil of Epigono.
Luigi Speranza --
Grice e Cleonte: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A
Pythagorean according to Giamblico di Calcide.
Luigi Speranza --
Grice e Cleofronte: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According
to Giamblico di Calcide, a Pythagorean.
Luigi Speranza --
Grice e Cleostene: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According
to Giamblico, a Pythagorean.
Luigi Speranza --
Grice e Clinagora: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According
to Giamblico, a Pythagorean.
Luigi Speranza --
Grice e Clinia: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. The information about
Clinia is confusing, but running through it all is the constnt theme that he
was a Pythagorean. Iamblicus di Calcide associates him with both Taranto and
Heraclea. Clinia and Amiclo are said to have prevailed upon Plato not to burn the
works of Democrito di Abdera. Iamblico mentions Clinia in an illustration of
Pythagorean friendship, claiming he went to the financial aid of Proro di Cirene
at considerable cost and risk to himself. Although neither story is possible to
date with any precision, if both are true, Clinias would appear to have lived a
very long time. A confusion of two people with the same name is perhaps more
likely.
Luigi Speranza --
Grice e Clitomaco: la setta di Thurii -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Thurii). Filosofo italiano. Probably a
pupil of Euclide di Megara. According to Diogenes Laerzio, Clinomaco was the
first to write about propositions and PREDICATES. He was interested in logic
and attached great value to the use of argument. Some regard him as the
initiator of the dialectical school.
Luigi Speranza --
Grice e Clodio – Roma: la setta di Napoli -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Napoli). Filosofo italiano. According
to Porfirio, Clodio wrote a book arguing against vegetarianism.
Luigi Speranza --
Grice e Clodio: all’isola -- Roma antica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo italiano Clodio Sesto – a
teacher of rhetoric.
Luigi
Speranza -- Grice e Cocconato: l’implicatura conversazionale -- scuola di Torino – filosofia torinese –
filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo
italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I like Coconato – I used to say that the
first task for the historian of Italian philosophy, unless you are a member of
La Crusca, is to decide on the surname – I like Cocconato! He spent some time
in London, as I did – and he shows that the average Italian philosopher is a
nobleman, or vice versa!” – Grice: “Venturi revived Cocconato, as did the
re-issuing of his “Moral Discourses”!” -- “Manhood and unbelief” -- Alberto Radicati, conte di Passerano e Cocconato
(Torino), filosofo. Libero pensatore, fu il «primo illuminista della penisola»,
secondo una definizione di Piero Gobetti. Cocconato matura il suo pensiero
anti-clericale nel clima dell'anticurialismo sabaudo ben presente in alcuni
settori della corte di Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. S'ignora tutto della
sua prima formazione, verosimilmente affidata a qualche ecclesiastico. Un
infelice matrimonio precoce, combinato dalle famiglie, lo coinvolge ventenne, e
già due volte padre, in una serie di penosi contrasti il cui significato travalica
i conflitti coniugali. Mentre a prendere le parti della moglie si mobilita il
partito devoto-clericale, Radicati trova sostegno a corte in chi appoggia il re
sabaudo nei suoi conflitti giurisdizionali con la Curia romana. Il
grottesco-ironico racconto della sua «conversion pubblicato a Londra e
ripubblicato con il titolo “A Comical and True Account of the Modern Cannibal's
Religion” induce a datare intorno agli anni venti il precipitare della crisi
della fede cattolica in cui il conte era stato cresciuto. Nell'opuscolo
autobiografico presenta la sua personale vicenda come un caso emblematico di
«uscita dalla minorità. Narra infatti come, a partire dal contrasto tra santoni
bianchi e santoni neri monaci cistercensi e quelli agostinianisui presunti
miracoli operati da un'immagine della Vergine, rinvenuta nel convento
agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la fede e come, verso i
vent'anni, avesse cominciato anche in campo religioso “a far uso della mia
ragione.”Importante per la sua ulteriore maturazione intellettuale è il viaggio
compiuto nella Francia della "Reggenza" tin cui poté ampliare il
raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi libertine come La Sagesse
di Charron, l'Hexameron rustique di Vayer o il Traité contre la Médisance di
Brosse, in cui ricorrono motivi che troveranno eco e sviluppo nelle sue
opere. Il suo scritto principaleI discorsi morali, storici e politici
redatti su diretto incarico di Vittorio Amedeo II nel mutato clima conseguente
alla ratifica del Concordato stipulato tra regno sabaudo e Benedetto XIII
diverrà anche la ragione vera del suo esilio. Il conte, che da un riacquisito
potere dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà e per la sua
stessa incolumità, lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a Londra,
dovendo poi subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il sequestro e
la confisca dei beni. A Londra pubblica con un discreto successo
l'instant book che ricostruisce i retroscena della recente abdicazione di
Vittorio Amedeo II mentre, al contempo, lavora alla stesura del più audace e
radicale dei suoi scritti, “La Dissertazione filosofica sulla morte,” che,
tradotta da JMorgan, uscirà dai torchi londinesi destando un enorme scandalo.
Nella Dissertazione, che gli costa anche l'esperienza delle carceri della
tollerante Inghilterra di Walpole, propugna il diritto al suicidio e
all'eutanasia sullo sfondo di una esplicita filosofia materialistica che scorge
nel Deus sive Natura spinoziano-tolandiano il suo unico grandioso orizzonte di
senso. Nella sua meditazione sulla morte e sulla liceità del suicidio si
inserisce in un dibattito che già Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere
Persiane, riprendendo una discussione inaugurata nel Seicento da Donne con il
suo Biothanatos. Interessato a proporre un progetto politico che esige come sua
prima tappa essenziale una riforma radicale della cristianità
occidentale, capace di affrancarla dal giogo clericale- o se si vuole, in
termini più neutri dal potere pastorale- la scelta del tema del diritto individuale
alla morte non è scelta casuale per quanto la meditazione sul suicidio non sia
priva di elementi autobiografici. Le chiese cristiane di ogni confessione
ritengono infatti un loro preciso dovere intervenire direttamente nella
gestione del trapasso a quella che esse, in base alla loro fede, considerano la
vera vita, quella ultraterrena. Del resto non solo il mondo cristiano, lo
stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire come un dogma
l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se stessi, per
secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e irreparabile
dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla volontà
divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano per la
crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei loro
eredi. Se i Discorsi partivano dalla morale ricavata essenzialmente da
una lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al pari
di Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore di
una democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo»per poi
occuparsi di politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella
Dissertazione filosofica fornisce una risposta alla legittimità del suicidio
muovendo da una concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana.
Nonostante il suo titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega
affatto l'istanza spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio
vitae, apertura mentale a una possibile transizione da una condizione di
servitù a una condizione di più ampia libertà che è, simultaneamente,
incremento della capacità del corpo di comporsi e ricomporsi con altri corpi
per realizzare la sua potenza e ampliare la sua capacità di comprendere le
cose. Definisce l'individualità umana a partire dalle relazioni che essa
intrattiene con il tutto. Per quanto grandezze infinitesimali noi siamo materia
della materia che costituisce l'Universo nella sua indefinita immensità. La
certezza che ci resta, quando ci liberiamo dall'ignoranza in cui nasciamo e
dagli idola tribus, i pregiudizi con cui siamo allevati, è che noi siamo
vicissitudini della materia. La materia a cui pensa tuttavia nel suo esilio
londinese e poi olandese non è lo squalificato sostrato inerte che dai greci
giunge fino a Cartesio che, limitandosi a identificare materia ed estensione,
continua ad aspettarsi dal Dio creatore l'impulso motore e la creazione
continua. Come per il Toland delle Lettere a Serena e del Pantheisticon, la
materia pensata dal Radicati è la materia actuosa che reingloba nel
meccanicismo moderno motivi provenienti dal naturalismo rinascimentale a cui
ineriscono direttamente movimento e autoregolazione. L'universo è un
mondo infinito in perpetuo movimento: in esso nulla continua ad essere anche
solo per un istante la stessa cosa. Le continue alterazioni, successioni,
rivoluzioni e trasmutazioni della materia non incrementano né diminuiscono
tuttavia il grande tutto, come nessuna lettera dell'alfabeto si aggiunge o si
perde per le infinite combinazioni e trasposizioni di essa in tante diverse
parole e linguaggi. La natura, mirabile architetta sa sempre come utilizzare
anche il minimo dei suoi atomi. La fine della nostra individualità costituita
dalla morte non è quindi fine assoluta, perché niente si annichila nella
materia e il principio vitale che ci anima come non è nato con noi troverà
sicuramente altre forme di esplicazione: come la nostra nascita non è avvenuta
dal nulla, non sarà nel nulla che ci dissolveremo.-- è estranea ogni forma di
lirismo e, tuttavia, una concezione non lontana dalla sua rifiorirà in una
delle pagine finali di uno dei maggiori romanzi lirici della modernità,
nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua eroina, Diotima: “Noi moriamo
per vivere: Oh, certo, i miserabili che non conoscono se non il ciarpame
arrabattato dalle loro mani, che sono esclusivamente servi del bisogno e
disprezzano il genio e non ti venerano, o fanciullesca vita della natura, a
ragione possono temere la morte. Il loro giogo è diventato il loro mondo, non
conoscono niente di meglio della loro schiavitù: c'è forse da stupirsi che
temano la libertà divina che ci offre la morte? Io no! Io l'ho sentita la vita
della natura, più alta di tutti i pensierie anche se diverrò una pianta, sarà
poi così grande il danno? Io sarò. Come potrei mai svanire dalla sfera della
vita, in cui l'amore eterno che è partecipato a tutti, riunifica le nature?
come potrei mai sciogliere il vincolo che riunisce tutti gli esseri?»
Opere Antologia di scritti, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed
economisti del primo Settecento, tomo V, F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi,
Dodici discorsi morali, storici e politici, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò
editori, Dissertazione filosofica sulla morte, T. Cavallo, Pisa, Ets Vite
parallele. Maometto e Mosè. Nazareno e Licurgo, T. Cavallo, Sestri Levante,
Gammarò editori, Discorsi morali, istorici e politici. Il Nazareno e Licurgo
messi in parallelo, introduzione di G. Ricuperati (check); edizione e commento
di D. Canestri, Torino, Nino Aragno Editore, Dissertazione filosofica sulla
morte, F. Ieva, Indiana, Milano Piero
Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi sul pensiero nel Risorgimento, Torino,
anche in Opere completeSpriano, Torino, Einaudi Franco Venturi, Adalberto
Radicati di Passerano, Torino, Einaudi,
Franco Venturi, Settecento riformatore, I, Torino, Einaudi, Silvia Berti, Radicati in Olanda. Nuovi
documenti sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti inediti, in
Rivista Storica Italiana», S. Berti, Radicali ai margini: materialismo, libero
pensiero e diritto al suicidio in Radicati di Passerano, in Rivista Storica
Italiana», Israel, Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of
Modernity Oxford, Cavallo, Introduzione a Radicati, Dissertazione filosofica
sulla morte, Pisa, Ets, Cavallo, Le divergenze parallele. Mosè, Maometto,
Nazareno e Licurgo: impostori e legislatori nell'opera di Alberto Radicati,
introduzione ad A. Radicati, Vite parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e
Licurgo, Sestri Levante, Gammarò, Vincenzo Sorella, Un partigiano della ragione
umana, in I Quaderni di Muscandia», Tarantino, “Alternative Hierarchies:
Manhood and Unbelief in Early Modern Europe, in Governing Masculinities:
Regulating Selves and Others in the Early Modern Period, ed. by Broomhall and
JGent, Ashgate, Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere, M. Cappitti, Le Vite Parallele di Alberto
Radicati su blog.carmillaonline. Se poca fortuna ebbe come uomo politico e
consigliere di monarchi, non diversa fu la sua sorte di filosofo; e la sua
filosofia che ha a tratti momenti di luce viva e che riuscirono a destare
interessi e preoccupazioni persino nelli liberi circoli, giacquero come cose
inanimate dopo la sua morte, come se questa le avesse private, come il loro
autore, di quello spirito vitale che le fa palpitare. E l'oblio scese su di
loro, crudele e inesorabile, facendo perdere la conoscenza di la sua filosofia.
Infatti il Saraceno pubblicando il
Manifesto» e le due Lettere »
indirizzate, l'una a Vittorio Amedeo II, l'altra a Carlo Emanuele III e
premettendo alla sua edizione alcune notizie di carattere biografico e
bibliografico, limita, pur credendo di darne l'elenco completo la sua filosofia
a quelli saggi da lui pubblicate e a quell'altre contenute nel Recueil edito a
Rotterdam. Cat. del British Museum sotto il nome di Thomas Joseph Morgan, il
suo traduttore. Più la “History” edita a Londra. Da quel momento, per quei
pochissimi che del nostro s'interessarono, le parole del Saraceno furono
vangelo, e la filosofia dimenticata scomparvero definitivamente, come
non-esistente, dalla sua bibliografìa. La sensazione iniziale di una possibile
lacuna nell’elenco della sua filosofia, divenuta certezza in seguito ad alcune
notizie rinvenute nel carteggio diplomatico tra l’inviato piemontese a Londra e
la Corte di Torino, in cui era fatta la sua parola, mi determinò alla ricerca
di questa filosofia sperduta. Quasi del tutto infruttuose furono le ricerche in
Italia -- due sole lettere rinvenni all'Ai-, di Stato di Torino --. Fortunate
invece all'estero e precisamente alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, al
British Museum di Londra, ed alla Staats Preusische Bibliothek di Berlino,
dimodoché tenendo conto dei nuovi materiali trovati, la sua filosofia risulta
in una elencazione definitive. Manifesto di A. I. R. di P. (Archivio R. di P.,
Castello di Passerano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. Memoria rilasciata
al Marchese d'Aix. Lettera scritta dal conte A. R. di P. a S. M. il Re Vittorio
Amedeo lì inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati e che
intendeva dedicare alla prelodata Maestà sua. (Ardi. Stat. di Tor., Storia
della Real Casa, Cat. terza, Storie pari). Lettera alla Contes. di S.
Sebastiano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. “Christianity set in a True
Light” in “XII Discourses Political and Historical. By a pagan philosopher
newly converted” (London. Printed for J. Peele at Lockes Head in
Pater-noster-Row; and sold by the Booksellers of London and Westminster). “The
History of the Abdication of Victor Amedeus II, Late King of Sardinia with his
confinement in the Castle of Rivole, Shewing the real Motives, which indue'd
that Prince to resign the Crown in Favour of his Son Charles Emanuel the
present King, as also how be came to repent of his Resignation with the secret
Reasons that urg’d him to attempt his Restauration. On a letter frorn the
Marquis de T... a Piemonlais now at the Court of Poland; to the Count de C. in
London. Printed and sold by A. Dodd without, Tempie-Bar; E. Mutt and E. Cooke,
at the Royal. Dell'opera n. 9 ne fa recentemente parola il NATALI, Milano.
Royal Exchange; and by the Booksellers and Pamphletsellers of London and
Westminster. “A phliosophical [sic] dissertation upon death composed for the
consolation of the unhappy, by a friend to Truth” (London. Printed for and sold
by W. Mears at the Lamb on Ludgate-Hill). Lettera a S. M. il Re Carlo Emanuele
III colla quale supplica la prelodata S. M. di voler gradire la dedica della
opera da lui composta e già presentata alla fu S. M. il Re Vittorio Amedeo IIC.
(Arch. Slato Torino - Storia Real Casa - Cat. Ili - Storie particolari). Twelve
discourses concerning Religion and Governement, Inscribed to all lovers of
Truth and Liberty by Albert Comte de Passeran, Written by Royal Command, The
second Edition” (London, printed for the Booksellers, and at the Pamplet shops
in London ad Westminster). Recueuil de pieces curieuses sur les matieres les
plus interessantes – Rotterdam, Chez la Veuve Thomas Johnson et Fils -
contenente: Dedica a Don Carlos; Factum d'A. R. de P. parce quel on voit les
motifs qui l'ont engagé a composer cet ouvrage. Douze Discours Moraux,
historiques et politiques, preceduti da una Declaration de l'Auteur, Histoire
abregée de la profession sacerdotal, ancienne et moderne a la tres illustre et
tres celèbre secte des esprit-forts par un Free-Thinker Chrètien, Nazarenus et
Licurgos mis en parallele par Lucius Sempronius neophyte, Epitre à l'Empereur
Trayan Auguste, Recit fìdelle et comique de la religion des Cannibales modernes
par Zelin Moslem, dans lequel l'auteur declare les motifs qu'il eut de quitter
celte abominable Idolatrie, traduit de l'Arabe a Rome par M. Machiavel [sic]
imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda fide, con prefazione
dell'editore. Projet facile, équitable et modeste, pour rendre utile à la
Nation un grand nombre de pauvres enfans, qui lui son maintenant fort à charhe,
traduit de l'Anglois. Sermon perché [sic] dans la grande assamblé des Quakers
par le fameux frere E. Elwall dit l'Inspirée, traduit de l'Anglois a Londres,
au depens de la Compagnie. La religion Muhammedane comparée à la paienne de
l'Indostan par Ali-Ebn-Ornar, Moslem epitre a C.inknin, Bramili de Visa - pour
traduit de l'Arabe. A Londres au depens de la Compagnie. Notiamo, ora di queste
opere le notizie e di caratteri più salienti. È edita dal Saraceno, nell'opera
più volte citata. Il testo rimane nella sua grafia del tutto immutato, con le
inconstanze di scrittura (et, ed; chino e hanno) caratteristiche del filosofo;
alquanto mutata è invece la punteggiatura, e gli alinea, la prima più scorretta
nel testo originale, i secondi inesistenti nel MS., che corre tutto di seguito.
Questa lettera con la quale comunica a Vittorio Amedeo II il suo desiderio di
fargli pervenire la cassetta e di cui abbiamo notizia sia dalla lett. del
March. d'Aix, sia dalla risposta del March, del Borgo, che c'informa pure del
suo contenuto, per quante ricerche abbia fatte all'Arch. di Stato di Torino,
non mi è stata possibile trovarla. Questa Memoria inedita si trova all'Ardi, di
Stato di Torino. Fu edita dal Saraceno ed è una copia della lettera originale
andata perduta. Delle lettere comprese sotto questi due numeri abbiamo notizia
da una lettera del Cav. Ossorio al March. Del Borgo e dalla risposta del Del
Borgo. Ma non mi è stato possibile poterle rintracciare. Quest'operetta edita,
in un elegante Vili0, dopo due anni di soggiorno in Inghilterra, doveva nella
mente dell'Autore essere composta di dodici discorsi. Fu edita invece
incompleta contenendo solamente un “Preliminary discourse in wich the Author
gives a particular account of his conversion” e il Discourse I, “Of the
Precepts and Life of Jesus Clirist”. Al primo di essi corrisponde alquanto
mutato nella forma e nell'estensione il Recit, contenuto nel Recueil. Al
secondo corrisponde invece esattamente il Discorso I. Cfr. Twelve Discourses
riprodotto poi integralmente dal Discours, Des Preceptes et des Mrnurs de Jesus
Christ, dei Douze Discours, moreaux ecc.editi nel Becueil . Ritornando al
Preliminary discourse abbiamo detto che questo discorso fu riprodotto nelle sue
linee sostanziali dal Recit incluso nel Recueil, ma molte varianti, e alcune di
valore capitale sussistono fra i due testi. Accenneremo, qui, da un punto di
vista generale, le caratteristiche più salienti dei due testi, e la maggior
importanza che può avere, da un punto di vista biografico, l'edizione inglese;
e infatti, pur essendo quest'ultima mancante dell'introduzione che troviamo nel
testo di Rotterdam. L'imprimeur au lecteur judicieux, e della apocrifa Bolla di
Benedetto XtlI, le numerosissime note esplicative, che svelano luoghi, nomi e
date, la rendono di una importanza capitale per la ricostruzione della vita del
filosofo. Senza questa edizione, corredata di note e di avvertimenti, veramente
preziosi, sarebbe stato impossibile, per qualsiasi biografo, fare risultare dal
semplice testo le notizie importantissime documentanti la conversione del
filosofo al calvinismo. L'assenza di note del Recit e l'espressione più
attenuata, in taluni punti, del testo inglese costituiscono i caratteri differenziali
fra le due edizioni. I titoli dei discorsi annunciati, ma non editi nellla
Christianity sono i seguenti: Discourse II: Of the Doctrine and Manners of the
Apostles and Primitive Christians. Discourse III: The Christian Religion to the
Religion of Nature itself. Discourse IV: What were the Causes of the Corruption
of the Christians. Discourse V. Of the Mischief done to Christianity by the
great Number of Churches and Ecclesiasticks. Discours VI. By what Means the
Bishop of Rome are become Souvereigns of that Capital of the world. Discourse
VII: That neither the spiritual nor temporal power of priests is authorized by
the Gospel. Discourse VIII. Of the claims, by which the Papal Monarchy has
maintained, continues to maintain and will maintain itself, as long as it can
make use of them. Discourse IX. Of the evils caused by priests to sovereigns
and their states. Discourse X: Of Natural right: Of the origin ond Nature of
Government. Discourse XI: Of Religion in General. That all authority Spiritual
as well as Temporal belongs, de jure, to the Sovereign; and how Ecclesiastical
Affair should be regulated. Discourse XII: Of the Advantage that will accrue to
Sovereigns and States, from the Observance of the Rules. Come si può presumere
dai titoli i discorsi mancanti non avrebbero dovuto essere altro che quelli
contenuti nei “Twelve Discourses” come di fatto prova il primo discorso
contenuto nella Christianity del tutto analogo al primo di quelli
contenut i nei “Twelve Discourses” cosa, del resto, ch e si può rilevar e
facilmente confrontando rispettivamente i titoli delle due edizioni, che, pur
essendo vi qualche tenue variante di espressione, sintettizzano reciprocamente
un analogo contenuto. Copia di questa edizione l'ho trovata soltanto al British
Museu m di Londra. Di quest’opera falsamente attribuita al Marchese Trivié o ad
un certo Lamberti ma che già il Saraceno ed il Carutti avevan o rivendicat a al
filosofo, furono fatte numerosissime edizioni. Citiamo quelle che abbiamo
potuto rintracciare e confrontar e con l'edizione inglese che possediamo. Anecdotes
de l'abdication du roy de Sardaigne Victor Amédée II, ou l'on trouve les vrais
motifs qui ont engagé ce prince a resigner la couronne en faveur de son fils
Charles-Emmanuel a présent roi de Sardaigne. Comment il s’en est repenti, avec
les raisons et les intrigues secretes qui l'ont porte à entreprendre son
rétablissement par le marquis de F*** piemontois, à present à la Gour de
Pologne; en forme de lettres écrite au comte de G*** a Londres. S. 1. in Vili.
Histoire de l'abdication de Victor Amédé e nel volumetto La politique des deux
partis, ou Recueil de pièces traduites de l'anglois de Bolingbroke et des Frère
s Walpole (la Haye). Con la stessa intitolazione: Génève contenente una seconda
lettera da Ghambery, probabilmente pur essa de filosofo. Histoire de
l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Paris, in 4°, erratament e
attribuiti dall'Oettinger ad un Lamberti non meglio identificato. L'Oettinger
dà una traduzione tedesca dell’Histoire edita a Francoforte. Histoire de
l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne, et de sa detention au Ghateau
de Rivoli. Où l'on voit les veritables motifs qui obligerent ce prince
d'abdiquer la couronne en faveur de Charles-Emmanuel, son fils, et ceux qu'il
eut ensuite de s'en repentir et de vouloir la reprendre. Lettre écrite au Conte
de C*** a Londres, par le marquis de Trivié, qui est à présent à la Gour du roi
de Pologne, edita nel " Recueil de pièces qui regardent le gouvernement du
royaume d'Angleterre, et qui ont rapport aux affaires présentes de l'Europe,
traduit de l'Anglois, la Haye. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi
de Sardaigne, Genève, pure attribuita dall'Oettinger al Lamberti. Cfr.
OETTINGER, Bibliographie biographique universale, Paris. Histoire de
l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne etc. de sa detention au Ghateau
de Rivoli et des moyens qu'il s'est servi pour remonter sur le trone, à Turiu.
De l'impremerie Royal. Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor
Amédée II, Anecdotes de l'abdication du
Roi de Sardaigne Victor Amédée II. Edita sotto il nome di Marchese di Fleury
che il Qnerard ritiene pseudonimo di Marchese di Trivié. Histoire de
l'abdication de Victor Amédée Roi de Sardaigne ecc. De sa detention au Ghateau
de Rivole, et des moyens dont il s'est servi pour remonter sur le trone. Nouvelle
édition sur celle de Turin de 1734-, a Londres, 1782. Non abbiamo creduto
necessario per quanto il testo inglese rappresenti il testo originale redatto
dal P. di annotare le poche varianti che esistono più di forma che di
contenuto. N. 9 di questa operetta, che ho trovato solamente al British Museum,
catalogata sotto il nome di Thomas Morgan (l'indicazione della bibliografia del
B. M. è: " A philosophical dissertation upon Death - Composed for the
consolation of the Unhappy (By A. Badicati Count di Passerano translated or
edited by John, or rather Thomas Morgan? era data notizia tanto dal Cav.
Ossorio, che ne espone in brevissime righe il contenuto e ci avverte che fu
causa di prigionia per l'autore e il traduttore, quanto dal Lilienthals, dal
Kahl e dall'Henke (1). Completamente dimenticata dai più recenti studiosi del
R. compare citata dal Natali senza indicazione nè di data nè di luogo di
stampa. Secondo quanto afferma l'Ossorio, l'operetta stesa in lingua italiana
dal R. sarebbe stata tradotta da " un de ses compagnons " en bon Anglois e sotto il nome di questo traduttore, che si
seppe più tardi essere, Thomas Morgan essa andò per alcun tempo. N. 10 fu edita
dal Saraceno ed è una copia della lettera originale andata smarrita. La
scoperta di questa nuova edizione, ricordata in alcune opere Cfr. HENKE loco
cit. LILIENTHALS loco cit. FREYTAG loco cit. VOGT loco cit. BAUER: loco cit.,
WAHIUS loco cit. Cfr. NATALI: II settecento. Ove però compare come semplice
elencazione bibliografica, senza indicazione nè di luogo di stampa, nè di data.
quasi contemporanee, fa cadere l'affermazione che i " Discours siano stati stampati per la prima volta a
Rotterdam nel " Recueil , e che quindi sino al 1736 i " Discours medesimi siano rimasti manoscritti nelle mani
del R. Risulta invece, (poiché posto che esista la primissima introvabile
edizione in tutti i casi non la possiamo ammettere edita prima per le ragioni
stesse che giustificano l'edizione) che il nostro si decise a dare alle stampe
i " Discours dopo aver visto che
non sarebbe mai riuscito a dedicarli a C. E. (3), e che di conseguenza dallo
stampare o no quanto aveva inviato a V. A. non sarebbe più dipesa la
possibilità di ritornare o meno in Piemonte. Comparve in tal modo l'edizione
inglese dei " Discours , la quale messa in confronto con quella di
Rotterdam ha dato i seguenti risultati: Mancano nell'edizione inglese la "
Dedica a Don Carlos (sedizione
Rotterdam) e il " Factum fonte di
preziose notizie biografiche (edizione Rotterdam da pag. 1 a pag. 10). mentre
che la Declaration de Vauteur contenente
i motivi che hanno spinto alla compilazione dell'opera, e i criteri seguiti nel
suo svolgimento, che nell'edizione londinese occupa dieci pagine (V-XV) e che
sotto riproduciamo è ridotta nell'ediz. di Rot. ad una pagina e un terzo. THE
AUTHOR' S DECLARATION. Tho' prefaces are quite out of fashion, I yet hope the
benevolent reader will forgive me for making a short declaration concerning the
publication of this work, as follows. BAUMGARTEN: Narichten von einer
Ilallischen Bibliothec, ENGEL: Bibliotheca selectissima seu catalogus librorum
omni scientiarum genere rarissimorum - BERNAE, TRINIUS: Freydenken Lexicon. -
Leipzig, und Bemberg, Erster Zugabe zu Freydenken Lexicon. MASCH I Beilriige
zur Geschichte merkwiirdiger Biicher, Wismar, SCHROCK: Cristliche
Kirchengeschichte seil deiReformation - Leipzig
SCHLEGELS: Kirchengeschichte des 18 Jahrunderts, Heidelberg. Il RENOUR D
nel suo " Catalogne d'un Amateur
citato dal QUERARD. Les supercheries litteraires dévoillés, Paris, sotto
il nome Ali-Ebn-Omar-Moslen) afferma parlando del P: Il n'existe de son Recueil
que deux exemplaires sur grand papier, celui de la Bibliotheque du Roi, et le
mien Di questa edizione, probabilmente
in foglio o in 4° grande, (" sur grand papier ) non siamo però riusciti ad
averne traccia nè notizia alcuna. Infatti la lettera indirizzata dal P. a CARLO
EMMANUEI.E rimase senza risposta. Cfr. lettera, cit. In primis et ante omnia. I
do declare that this Work was written at the Command of a great PRINCE, who
would be plainly inform'd of all the matters contain'd in it: and as that
PRINCE was then reputed to be one of the greatest Politicians of his Age, I was
oblig'd to proportionate my Labour to his profound Capacity. So that if I have
reveal'd some Religious or Civil Mystery, which had generally been conceal'd, I
have methink given a suffìcient Reason for it: However, I have alter'd some
Passages and soften'd some Expressions, to make them more intelligible and more
agreeable to the Reader. I do solemnly declare, that in all this Work I had
nothing in view but Truth, Equity, or Justice: In a word, the Good of Mankind
in general; and I flatter my self that all who shall peruse it with candour,
shall be convinced of the Rectitude of my Intentions. I do declare, that I have
kept dos e throughout this Work to the Doctrine and Morality of our Saviour,
occording to the best of my knowledge; and I hope I have not advanc'd anything
without good authorities. I do protest before GOD and Men, that whatever is
said in this Work concerning the Church or Clergy is to be understood of the
Popish Church and Clergy only (who really have long since abandon'd and
despis'd the most sacred Precepst of our Blessed LAWGIVER) and not of any other
church whatsoever; whose Clergy and Prelates being very humble, vastly
charitable, pious, and such utter Enemies to Grandeur and Riches; may justly be
stiled the true and only Imitators of Crist's Disciples, and of those primitive
good Prelates instituted by the Apostles. (*) See the 54th page of this Book,
and you will fìnd what their duty was, and with what Qualities they were
endued. Item. I do declare, that I have not her e opposed the superstitious
Tenets of the Popish Church; for this has been so often done ever since the
Reformation, and by so many Learned Divines, that it would be vain to attempt
it. Besides, Popish Princes little regard at this time wha t is said against
Transubstantiation, Purgatory, Confession, Invocation of Saints, and such like;
as things, which ways affect their
temporal Interest: so, whethe r these opinions are well or ill-grounded; whethe
r they spring from Heaven, or from Huma n Malice, 'tis no matter. But wer e
they to know how prejudicial the Popish Religion is to their AUTHORITY, and to
the WELFARE of their several Countries; they then would undoubtedly think upon
the proper Expedients to preserve themselves and their Subjects from Ruin; and
this is wha t I have endeavour'd (pag. XI ) to make evident in the ensuing Work.
I tlierefore hope it will prove very beneficiai to such Princes, and even be of
some service to this Country, particularly at this time, whe n " the
Emissaries of Popery (as a worthy Divine (*) has observed) have increased their
Diligence in gaining Proselytes, and are now more industriously employ'd in every
Corner of our Metropolis than ha s been any time known in the present Age . (*)
Dr. Clarke' s Sermons, pag. 18, LASTLY, ] declare that I have made use of
ali the Reason and Understanding 1 ara master of, to discover (pag. XII ) the
TRUTH S contained in the sacred Writings, so hidden and involv'd in Mysteries;
in order that by them TRUTH S I might procure my own Happiness and that of
others. I presume I have found them, and for that reason 1 now publish them.
But if I have unluckily fallen into any involuntary Error, as I know myself not
to be infallible. I earnestly entreat ali the orthodox and eminent Divines of
this happy Kingdom, to poiat them out to me, and to convince my Reason by
Reason itself, that I may both retract and avoid them. (pag. XIII ) And I
farther beg of our SPIRITUAL DIRECTORS that in case they, f'avour me with this
salutary Advice, to do it not with Passion and Bitterness, but LAWGiVER ha s
expressly commend (*). For nothing is paser, worlliy, and more scandalous; nay,
mor e contrary to the very Principles of the Christian Religion, tlian to rad,
calumniate, to load with odious Appellations, and persecute those who labour
Day and Night to find out the TRUTH, buried as it is in the dark Abvss of
Errors and Superstitions. (*) Matth, XVtlI, 21, ete. AFTER having made this
plain Declaration, as I know myself to be wholly destituted of Freinds; I hope
that the ALIGHTY GOD, whose Powe r is above ali Huma n Artifice and Malice,
will protect me against those, that will certainly promote my Destruction, for
having openly espoused the Cause of TRUTH and EQUITY. Il Discorso I (Ediz. lond.
pag. 1-13; Ediz. Rot. pag. 15-26 ) è integralmente riprodotto nella edizione
olandese: uniche varianti sono le seguenti: Pag. 2 - in not a Collins è
qualificato: 0 great and goodman
attribut i c h e mancan o nell'Ediz. .
- manc a la not a sul ministr o Jurie u ch e si trov a a pag. 2 4
dell'Edizion e di Rotterdam. Il Discors o II (Ediz. lond. pag. 14-25; Ediz. Rot.)
è pur e ess o integralment e riprodotto. Unich e varianti: pag. 21 - in not a
su Bayl e (cfr. pag. 3 5 ediz. di Bot.) è aggiunt o " and 1 shall not be
tought in the vrong for vanking him withe Heliogabalus „. nota, dop o le parol
e " universally observed „ " généralement observées „ ediz. Rot.) ch
e no n si trov a nell'edizion e del 1736: " I say universally observed:
for wer e there a Society or Republic, however great it might be, that should
be inclined to observe the Laws of Gbrist, it would be obliged for their own
preservation, to lay aside the laws of Christ, or suffer themselves to be
destroyed by following them. - In a word, a Society of true Christians, wer e
they as numerous as the whole Empire of China, could no more make head against
a single Infide], who had a mind to plunder them, than a hundred thousand
Rabbits could make head against a hungry Lion, that should fall in among
them. But if ali Men, without exception, were good Christians, it is most sure
they would be exceding happy. For, being without Ambition, Envy and Revenge,
nothing would be capable of di sturbing Iheir Quiet - Here on Gonsult - Bayle's
Pensées diverses chap. 141 - continuation des Pensées - Ghap. „. Il Discorso III (Ediz. lond.; Ediz. Rot.
pag. 38-60) ò invece del tutto diverso - Cfr. quindi il medesimo riportato in
Appendice. Il Discorso IV (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) è quasi del tutto
riprodotto integralmente; però da pag. 63 (dopo le parole " le
gouvernement de leur Eepublique „,
dell'ediz. di Rot.) il testo prosegue con 2 pagine in più che qui
appresso riproduciamo. But they wer e never practised, for, if we carni fully
examine the Epistles of the Apostles, we shall find that in effect they ali
agreed in acknowledging that the Christian Religion wa s the best, but differed
excedingly as to the Principles of it For, Paul proposing to persuade
Christians of the Trut h of that Religion, and shew them wherein it consisted,
says expressly, and in so many words, that we ar e " not to boast of our
good works, but of Faith alone in Jesus Ghrist, for that good works ncither
justify, nor save; but to him, saith he, that worketh not, but believeth on him
that justifieth the ungodly, his Faith is counted for Righteousness (**) and shall
save him „. James, on the other hand, in a few words summing up the Essentials
of Religion, and not amusing himself with vain disputes, as Paul did, tells us;
that " Faith without good woorks will neither justify, nor save „; and
gives us to' understand that " good works will save us independent of
Faith”This Doctrine is highly just and reasonable, and more orthodox than
Paul's. For wha t avails it for a man to bellieve that Ghrist dieci to save
him, so long as he is cruel, covetous, revengful, and i*) Rom. IV. 5.James II,
etc. (***) Rom III. 26, 27, 28. See also Gal lì. 16 {pag. 64) proud? were he
not better without that Belief, but good, charitable, and humble? it is much
better for a man to be a Christian in practice without speculation, than to be
a Christian in speculation, without the practice; that is, it wer e better
being a Savage, who. tho' without any Religion, stili practised the duties of a
true Christian, who is resolved absolutely to obey none of the precepts of his
Religion, tlio' he firmly believes in its mysterles. This notion, so agreeable
to the Justice and Wisdom of God, and Intentions of Ghrist, would be of great
advantage to Society, wer e it put in practice. Now it is indisputable that the
Apostles, by building Religion upon various. and different foundations bave
caused an infinite numbe r of Quarrels and Schisms to spring up in the
Christian Gommon-wealth, by whieh it ha s been, and will ever be tome
asunder most assuredly, if it does not lay aside the mysterious, or
incomprehensible speeulations of Divinity, and frx wholly to those most holy
and simple Tenets, which Christ hath taught us, and are very easy to be
observed, being the same as those of Nature, as he himself has told us, saying:
" Come unto me, ali ye that labour, and are heavy laden, and I will give
you Rest (*). Take my yoke upon you, and learn of me, for I am meek, and lowly
in heart, and ye shall find rest unto (pag. 65) your Souls. For my yoke is
easy, and my burden is light„, and not grievous and insupportable, like that of
cruel and ambitious men. (*) Mat. Xt. 28, 29, 30. Il Discorso V (Ediz. lond.
pag. 73-92; Ediz. Rot.) è riprodotto integralmente. Notiamo soltanto che a pag.
80, in nota su S. Cipriano dopo la parola " aucupari „, il testo segue:
" Non in Sacerdotibus Religio Devota, non Ministris fides integra, non in
operibns misericordia, non in moribus disciplina; sed ad decipienda corda
simplicium callide fraudes, circumveniendis fratribus subdolae voluntates -
Cyprian de Lapsis „, mentre è mutilo alla medesima parola “aucupari” nella
Edizione di Rotterdam. Il Discorso VI (Ediz. lond. pag. 93-124; Ediz. Rot.) è
riprodotto nell'Edizione Olandese fedelmente. Il Discorso VII (Ediz. lond. ppg.
125-144; Ediz. Rot.) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche
varianti sono: Pag. 129 nota (dopo le parole " alors soni fausses „ pag.
128 Ediz. Rot.): " See what Bayle Says in his Pensées diverses, eh. 49, et
Contin. des Pensées diverses eh. 47. in arder to shew how ridiculous it is lo
enquire whant a thind is, before we have examined whether it really exist „. Pag.
138 manca la nota della pag. 136 ediz. Rot. la parola “religion” è tradotta
nelle due ultime righe di pag. 139 dell'Edizione Rot. con " Superstition
„. Il Discorso Vili (Ediz. lond. pag. 145-164; Ediz. Rot.) è riprodotto
nell'Ediz. Olandese fedelmente. Il Discorso IX (Ediz. lond. pag. 165-188; Ediz.
Rot) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono: Pag. 166
manca la nota Ediz. Rot. Pag. 186 manca la nota " cependant ces Emissaires
„ di pag. 180 81 dell'Ediz. Rot. Il Discorso X (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) ha
subito una restrizione nelle pagine 189 a 200 ridotte nell'Ediz. Olandese a
sole cinque; riproduciamo qui di seguito il testo inglese. By natural
right (ius naturale), I mean the faculty given by nature to each individual,
whereby each of them is forced or determined to act, according as he finds it
necessary for the preservation of his own being. All animals are forced by
nature to eat, drink, sleep, etc. Therefore it follows, that they eat, drink,
and sleep of natural and absolute right, when they stand in need of them. In
the same manner, fish being by nature determined to swim, and the greater to
devour the smaller, consequently they enjoy water by natural right, and the
greater by the same right devour the smaller. Thus, birds are determined by
nature to fly, and by consequence possess the air by natural right, and birds
of prey by the same right feed upon the tame. For it is most certain that
Nature considered in the general, has an unlimited right over every part of
herself: that is, this right extends as far as her power extends, so that every
thing that she can do is lawful for her to do. For the power of nature is the
very same as that of God, whose right is eternal, and consequently unalterable.
Now as the power of nature is the same with that of every individual who make
up that Nature, without exception, it follows, that the right of no one is
limited, but extends as far as the strength and industry that nature has
bestowed on them; and as it is a general law for all beings, that each of them
in particular shall perpetuate his kind, as far as lies in his power, without
regarding anything save his own preservation. it follows, that the natural
right of every indivual is, to subsist and act to that end according to the
power which nature has given him. In this state man is not to be distinguished
from the rest of natural beings, no more than the words, reason, or wisdom, and
folly; virtue, and vice; honest, and dishonest, just and unjust are, etc.
Wherefore there is no difference between the wise and the foolish, the virtuous
and vicious; for every individual has a right to act according to the laws of
his constitution or organization. that is, according as he is determined by
nature to such and such a thing, without being able to act otherwise. So that
considering man under the empire of nature, as unacquainted with what
philosophers call reason, or virtue; and not having acquired a habit of either,
they have, I say, as much right to life in pursuing the dictates of their
appetite, as they have that live according to the laws of reason, virtue, and
justice, with which they have conneted their ideas. That is, that, as he who is
called wise in society has a right to do any thing that is dictaded to him by
reason, and to live according to the light of it; so the ignorant and foolish
man in the state of nature has a right to every thing his appetite suggests,
and to live according to its dictates. For, according to the apostle’s opinion
before the law, or in the natural state of man, no man could sin. Rom. It
is not then the business of that reason, or justice, to regulate the right of
nature, but of the desire or strength of every individual. For, so far is
nature from determining us to live according to the law and rules of this
reason, that, on the contrary, notwithstanding education, and the penalties
appointed in order to natural impulses. Such is the power of nature. New as we
are obliged, as far as in us lies, to preserve our natural being, so we cannot
do it but by acting in obedience to the laws of appetite, since nature denies
us the actual use of that reason, and none of us are more obliged to live
according to the rules of good sense, introduced among us by the civilised part
of mankind, than an ant is to live according to the nature of an elephant. From
whence it follows that, in the state of mere nature, we have a lawful right
(ius iudicatum) to all things whatever without exception, because nature has
given all to every man, and may use it without a crime, if we can get it,
whether by force, or cunning, by entreaties, or threats, so far as to look any
one as enemy, who hinders, or endeavours to hinder us from satisfying our
appetite. Therefore, by natural right, an animal may wish for whatever he
pleases, and do whatever is in his power to support his own individual, or
satisfy his inclination. However we are not to imagine that so unlimited a
liberty can produce any great disorder amongst animals of the same kind, as
many have thought, because nature has previded them necessaries in abundance;
upon which foot, they can have none, no, not thel esst dissension among them,
as I have Lions, Wolves with Wolves. Foxes with Foxes, Eagles with Eagles, and
so all other species who are in the state of nature. It is to be owned indeed
that *discord*, not con-cord, envy, and an implacable hatred reign between one
species and another. And this would in reality be a great defect and
imperfection in nature, if her wisdom consisted in making an animal happy for
ever. For, upon such a supposition, the pidgeon would have reason to complain
of nature for not bestowing upon him a sufficient strength to defend himself
against the eagle. A hare mìght make the same complaint as to a wolf; and he
again as to the lion. But each complaint would be unjust. For, Nature granted
an animal his life but for a certain limited time, which is an effect of her
infinite goodness, to the end that every being may succeed one another, and
enjoy her benefits. Which could never be, if an animal, once alive, were to be
immortal. Therefore, since he must necessarily die to make room for another, it
imports little whether he dies in this or that manner. Nay more, I insist that
a pidgeon that is the eagle's prey, and the wolf that is the lion’s, are
happier than the eagle or lion that have devoured them. For his death is
sudden, and his pain short, whereas the Eagle and Lion, languish and suffer
long before they die, if they die a natural death. Besides, a Lion or an Eagle
may at his death complain of nature's injustice, by making him the prey of
innumerable and invisihle animals, that lodge in their bones, and throughout
their whole bodies, which feeding upon the best and finest substance in
their blood, and wasting alt llieir animal spirit, kill him without mercy. For,
those invisible animals that kill not only a lion, but a man too, and every
beast that dies of a natural death has no more thought of the mischief they do
in feeding upon their blood, than a lion or a man when he kills another animals
for food without mercy, they having ali a power to do so by an absolute and
natural right. An animal therefore, far from complaining, tough constantly to
thank Nature for her infinite justice and goodnes to him, in giving them a
limited life only. For, had she created him immortal, she had shewed herself
exceeding cruel; considering we are all assured there is no condition of life,
however happy, but what at last grows rneasy and burthensom. As we see by
those, who having passed most of their time in the polite world, are desirous
of retiring, and leading a private life in the country; so he that lives in
solitude, often longs for the pleasures of the world; and lastly, he that has
long enjoyed bolli, grows tired and out of humour with them, and wishes for a
new life thro' death. Now since an animal is tired of life, he may be
perpetually diversifying his pleasure, considering the short date of his life;
what would it be, were they to live for ever, without ever varying the
pleasures they (See the account of the Strulbrugs in Gulliver's Travels) had
tasted in the first fifty years of life? Nay, how justly might not they
complain, who drag an uneasy languishiug life from the infirmities to which
they are subjects, or who perpetually groan under the yoke of another animal,
who makes himself no uneasiness in making him miserable, in order to gratifiy
his appetite? Every animal therefore ought to look upon death as the most
signal blessing he has received from the hands of Nature, and as the effect of
her incomparable wisdom; Death putting an end to their pain, aud making them
equal with his tyrant. What I have been now saying ought to surprise no man,
since Nature is not confined within the bounds of reason, or the instinct of an
animal; for the word Nature, of which an animal is but as so much a small
point, means an infìnity of other things that relate to an eternal order, and
that inviolable law, which gives being, life, and motion to all things. So that
what seems ridiculous, unjust, or wicked to an animal, and above all to a man,
appears such only because we know things but in part, and because we cannot
have an exact idea of the ties and relations of nature, we not comprehending
the immense extent of her wisdom and power. Whence it preceeds, that what
reason sets before us as an evil, is far from it in regard to the order and
laws of universal nature, but only in regard to those of our own. This supreme
natural right, which every animal enjoy, exclude not moral good and evil, which
is really to be found in the state of nature. I call “morally good” any action
of an animal tending to the preservation and propagation of his own individual
or his species, for he is then performing their duty, by aiming at the end,
proposed by Nature in their Greation. On the contrary, I cali moral evil ali
those actions of Animals, that are either in the whole, or in part contrary to
those notions, or sensations that Nature has implanted in each of them, that
they may perceive and know what is proper for their subsistance, and for
perpetuating their Species as far as in them lies. Allwise Nature, the tender
mother of ali Animals, not satisfied with impressing on their mind those
notions, has always affixed a proporlional recompense to moral good, and a like
punishment to moral evil, to the end that ali Animals may chuse the one, and
avoid the other with pleasure. Not that she had any occasion to setlle such
rewards and punishment in order lo be obeyed; for, as she is Almighty, she well
knew she should be obeyed, as she is in fact by ali except one Species, which
is Man. And it was for them se appointed them, because knowing they had several
cavities in their brains fdled with animai spirits, which by a high
fermentalion would so heat their imagination, as to make them fall into a sort
of madness, on Delirium. Nature, I say, to bring them back from their wandring,
has thought lil severely to punisti them, whenever they swerve from their duty
and act agreeably to the false notions with whict that madnes inspires them, which
notions tend to the destruction of their own individuai, and to make their
Species unhappy. I will explain my self. It is well known, that ali Animals,
except Man, act according to the notions infused into them by Nature, commonly
called Instinct, for instance, knows its proper food, and the actions to be
performed in order to live in health, and perpetuate its Species. Consequently
to these notions it acts, by chusing at first such places as are agreable to
it: some live in Marchs, some in the Fields, some in the Plains, and others on
Hills; some swim, other crawl, and in short, some, called amphibious, live bo!h
on Land, and in Water. Ali these Animals perceive what they are to do in order
to subsist Wherefore they eat, drink, and make use of their females, when they
have occasion; mor did, or do, any one of them ever force itself to eat, or
drilli or enjoy its females, when it was satisfied; nor did ever any of them
ever voluntarily refuse to eat, drink, or make use of their females, whenever
Nature required it; thus by denying themselves nothing necessary, and by never
forcing themselves to do what is beyond their strength, they lead a healthy and
a happy life. But this is not the case of Mankind. For, tho' they pretend to a
greater share of wisdom and reason than other Animals, their actions shew they
have less than the rest of them; some thro' excessive folly eating and drinking
when they are neither hungry, nor dry, so far as lo bring distemper upon
and kill Ihemselves; and forcing themselves upon venereal pleasure when they
are exhausted, is so much as to destroy themselves: Others from a contrary
madness, denying themselves meat, and drink, and the enjoyment o' Women, and
dragging a miserable life, consume and pine away. Thus by not allowing Nature
what she absolutely requires, or forcing her beyond her strength, they are guilty
of real moral evil, from whence the Physical takes its rise, which cruelly
torments them their whole life time. Anolher madness, to which Mankind are
subject, is Avarice, which puts Men upon perpetually heaping up riches, without
making any use of them, for fear of wanting; so that the Miser not only makes
himself miserable, but greatly contributes to the misery of others. There is
stili another kind of madness, called ambition, that lords it over Man, which
puts most Men upon depriving themselves of what is really necessary to life,
for Ghimeras, that are entirely useless and superfluous to them. The ili
effects of this last folly have not stopped there, but produced the greatest
disorders amongst Men, and made theme more unhappy than alt other Animals. For,
it has happened, that some of them thinlcing themselves better than others,
have endeavoured to get above them, appropriate to themselves what belonged to
the rest by Naturai right, and make their companions their slaves. which by the
opposition they have found, has occasioned tumults, and civil Wars. These
different Phrensies that have taken possession of the minds of Men, and that
have in ali times scattered trouble and confusion amongst the race of Men, have
from time to time obliged wise Men (who made use of their reason in order to
preserve themselves from falling into that sad and terrible Delirium to which
they were liable) to admonish the rest with a view of reclaiming them from
their errore; and those admonitions had sometimes so good an effect, that a
whole Nation perceiving anddetecting their Frenzy, voluntary submitted to the
decisions of those wise Men, and each Man, renouncing and disclaiming his
naturai right, promised obedience to them, upon condition that they on their
side should always endeavour to make that Nalion happy. This was the rise and
formation of Aristocratical Government.
(Ecliz.) il test o corrispond e esattament e nelle du e edizioni; salvo
le lievi differenz a qui sott o notate.
- i puntin i di quest a edizione son o son o sostituiti nell'edizione
olandes e " le coeur de Nobles en àrbitraire ou absolu „. Pag. 22 3:
mancano le ultime due righe del testo di pag. 20 6 ediz. Rol. 11 Discorso
(Ediz. lond.; Ediz. Rot.) Titolo: "Wherein it is proveci that religion was
introduced into Society by legislatore, in order to give a sanction to their
laivs; and that consequenty ali sacred and civil authority belong de jure to
the Prince „. Le pagine 224 e 236 costituiscono, in confronto
dell'edizione olandese, una parte del tutto nuova, e corrispondente alla prima
parte del titolo, che difatli non si trova nell'Ediz. Rot. Diamo un breve
riassunto di queste pagine, che non parve necessario trascrivere integralmente.
Il R. così comincia: My design then in this Discourse is to make Princes
sensible that Religion was institued by legislators, in order to give strength
and credit to their Laws, and that Sovereign Princes, having the administration
of civil Laws, ought by consequence too have that of Religion; and thereby 1
propose tvvo benefits. Tho first to Princes, by joining the sacred and civil
authority in one, and the second, to the People, by rescuing the from the
Tiranny of Priests. This then is what the most celebrated Historians teli us
concerning the Establishment of Religions „. A dimostrazione di questa tesi,
l'intera pagina è dedicata ad una di citazione Diodoro Siculo, libr. I pag. 49,
Ediz. Han.; l'inter pag. 227 ad una citazione di Strabone, Geograph. libr. 16
pag. 524, ecc.; indi dicendo di non voler citare anche Plutarco, Polibio,
Erodoto e Livio, il R. procede a citare " a Zaeloux and Leavned Jew „ cioè
Flav. Joseph, contra Appion., - Edit.
1634, in fol., e " a very candid popish Priest „ (pag. 230-235) è cioè
Gharron, of Widson, book 2 eh. 5. In nota a pag. 235, così meglio identifica il
Gharron: " Ile was Canon and Master of the School of the Church of
Bordeaux - He lived in Montagne's time, and ivas his intimate freind - See
Bayle's Did. Artide, Charron „. E con tutte queste citazioni la dimostrazione è
raggiunta: " Wherefore 1 may be allowed to say without any impietg, that
lleligion might be subject to the Prince, to Religion „. Dopo di che da pag.
236 a 248 continua con la seconda parte, che corrisposde all'intero Disc. XI
dell'Ediz. Rot. Unica differenza è che la nota a pag. " See in the life of
Peter, late Czar of Moscow how be wisely reduced the high Priest's exorbitant
authority io his own power „ è estesa nel testo a pag. 211 dell'Ediz. di
Rotterdam. " Enfin chacun fait toutes les autres nouveautéz „. Il
Discorso Ediz. lond.; Ediz. Rot.) è
riprodotto integralmente, ed unica differenza è data dalla mancanza a pag. 259
della esistente nell'Ediz. di Rot. a pag. 228. N. 12: Abbiamo già parlato a
proposito del N. 11 degli scritti " a-b-c „ contenuti nel " Recueil „
ed a proposito del N. 7 dello scritto " f „ ed abbiamo notato come la loro
prima comparsa, eccettuato per il " b „, sia avvenuta in lingua inglese, e
quali cambiamenti abbiano subito nella loro ultima redazione francese.
Notiamo invece per le operette " d „, " e „ che il testo dato dal
" Recueil „ deve presumibilmente essere l'unico lasciato dal P.; nè
infatti abbiamo trovato di esse ediz. inglesi, anteriori o posteriori al 1736,
nè elementi o prove che suffraghino questa possibilità; potrebbe essere
presumibile che queste operette scritte dal R. ancora in Inghilterra e forse
già pronte per essere tradotte, siano rimaste a noi nel loro testo originale
per la fuga del P. in Olanda, oppure che compossle in Olanda, non avendo più
possibilità di trovare un traduttore, le abbia conservate e poi edite nella
loro lingua originale. Lo scritto " g „ è la traduzione dell'operetta
analoga dello Svvift: " A modest proposai for preventnig the children of
poor people in Ireland from beìng a burden to their parents or country, and for
making them beneficiai io the publick „ (1). Non esiste tra le due edizioni
alcuna differenza, che possano mutare lo spirito del testo originale le due
uniche varianti che abbiamo notato sono; l'introduzione del " Recueil „
della parole: " Gastigat ridendo mores „ immediatamente dopo il titolo, e
omesso dall'originale; e la sostitutuzione della parola " Spain „ del
testo inglese, con la parola " Rome „ della versione del R. Fu fatta nel
1749 a Londra una ristampa di tutto il N. 12 (" Recueil de pieces
curieuses sur le matieres les plus interessantes par A. R. comte d. P. a
Londre) ma dall'esame di questa nuova ediz. posseduta dalla Bib. Querini-Stampalia
di Venezia, è risultata l'identità, persino negli errori di stampa coll'ediz.
di Rotterdam. N. 13-14 formano nell'Ediz. originale un volume solo, senza
titolo generale, con pagine numerate progressivamente (da 1 a 47 il testo n.
13, da 49 a 104 il testo n. 14). L'attribuzione di paternità al R. del primo di
questi opuscoli, e convalidata non solo da quanto afferma il " Dictionary
of National Uography „ edito dal Leslie Stephen, il Querard ed il Barbier, ma
dalla rispondenza che questo opuscolo ha con il Discorso III dei " Twelve
discours „. Notiamo le principali variati: Pag. 2: " peché originai „
manca la nota del testo ing. Pag. 4-, nota 2: manca la cit. del testo ingl.;
pag. 5, nota 1 e 3: manca il (1) Cfr. in: The Works of Swift, London. (2) Cfr.
Dictionary of national biography, edited by LESLIE STEPHEN, sotto 'Elicali.’ Cfr.
QUERAR D Col. 1231, T III. Cfr. BARBIER: Dictionaire des onorages anonymes et pseudonymes,
Paris. commento e la cit. del testo ingl.; pag. 8, nota. 1, mancal a cit.
del testo ingl.; pag. 10: " vòtre pere celeste „ manca la nota del testo
ingl.; pag. 11, nota 2: manca la nota del testo ingl.; pag. 12 nota 1: manca il
lungo commento del testo ingl.; pag. 17 " ces Docteurs „ il testo ingl. ha
“our Priest” e nota 2: manca la cit. e il comrn. del testo ingl.; pag. 18
" vous dis-je mes Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 19 nota 1: manca la
cit, del testo ingl.; pag. 21 nota 2: manca la spiegaz. esistente nel testo
ingl.; pag. 22: "et comment auroit-il mieux „ manca la nota del testo
ingl.;: " Amerique „ manca la nota del testo ingl.; pag. 27 e 28 sino ad:
" Enfiti temoin... „ mancano nel testo ingl.; pag. 32, nota 2: manca il
lungo coni, del testo ingl.; pag. 24 nota 2; manca la citaz. del testo ingl.;
pag. 35: " les hommes hereux „ manca nel testo ingl. la nota
corrispondente; pag. 38 dopo le parole "... leur dependence „ manca quasi
l'intera pagina 47 del testo ingl.; pag. 40: " mes cheres Frères „ manca
nel testo ingl.; pag. 4 nota 2: differisce dalla rispondente nel testo ingl.;:
l'ultimo periodo (“l'esprit... vrais Quakers”) manca nel testo ingl. In merito
al N. 14 l'attribuzione di esso al R., è affermata dal Querard (1) e dal
Barbier (2) che svolgono lo pseudonimo Ali-EbnOmar con il nome del R., è
confermata dal fatto che a pag. 100 dell'operetta in una nota l'autore citando
se stesso rinvia al " Discorso Ili „ dei “Twelve Discourse” e tale
attribuizione, per ambedue, N. 13 e 14, sostengono pure lo Henke, il
Lihienlhals, il Freytag (3). Anzi a proposito di quest'ultimo che viene ad
affermare che spesse volte l'opera n. 13 viene seguita dalla n. 14 con un
seguirsi di pagine progressivamente numerate (tale è l'ediz. da noi esaminata),
come facenti parli del " Recueil „ edito a Londra e Rotterdam nel 1736,
facciamo rilevare come ciò non risponda a verità. A parte la confusione
dell'ediz. londinese del “Recueil” con l'ediz. Olandese, tanto nell'una che
nell'altra non troviamo stampate le operette di cui si tratta, nè infatti
potevano essere incluse nell'ediz. del 1736 essendo venute alla luce la prima
volta nè nell'ediz. del 1749, che riproduce esattamente la precedente, nè
possiamo considerare questa ediz. dell'operette, che abbiamo esaminata, come
stralciata dal volume del 0 Recueil „ stante la appariscente diversità
dei caratteri di stampa. Come mai esse siano state edite a Londra, mentre già
da quattro anni almeno si trovava in Olanda, non siamo in grado di dire: forse
trovate fra le sue dopo la sua morte e fatte stampare da qualche suo amico
nella capitale inglese? e allora non perchè a Rotterdam dove era già uscito per
i tipi della Ved. Johnson il “Recueil” più volte citato? Sono questi tutti
interrogativi che ci poniamo senza avere la possibilità di potere rispondere,
per mancanza di documenti che giustifichino una ragione piuttosto che un'altra;
e questa è un'altra lacuna nella perfetta conoscenza della vita del
R. Cocconato. [H] Desideri: fenomenologia degenerativa e
strategie di controllo 1. I/epithymia nella fenomenologia
degenerativa Il processo degenerativo che dal nobile desiderio per
il sapere del filosofo giunge infine alla liberazione e soddisfazione dei
più feroci desideri attuata dal tiranno è innescato, da una prospettiva
psicodinamica, dall'adozione di particolari modalità repressive. Queste, e più
in generale le strategie paradigmatiche di controllo del desiderio, sono il
nostro oggetto d'indagine privilegiato. La loro analisi ci condurrà
direttamente alla disamina delle molteplici specie di desideri, alla
caratterologia e alle derive psicopatologiche tracciate da Platone nel
libro Vili, nonché alla dinamica dei processi onirici e alla mania
disegnate nel IX. Da ultimo ci soffermeremo sulla contrapposizione strutturale
tra repressione e canalizzazione, parimenti inerente a epithymiai ed
eros, che attraversa il grande dialogo. A monte, Yepithymia
platonica è un moto psichico volto a riempire, soddisfare, generando
piacere, una mancanza di origine somatica come di matrice intellettuale; 1 essa
viene così a convergere con l'ampio spettro semantico dischiuso dal
termi 1 sull'intera questione cfr. qui voi. Ili, [H], pp. 251 sgg.;
sulla "interiorizzazione" della sfera del desiderio cfr. M.
VEGETTI, L'io, l'anima, il soggetto, in S. SETTIS (a cura di), I Greci, voi. I,
Noi e i Greci, Torino; sul rapporto complessivo psyche-soma, cfr.
ROBINSON, Plato 's Psychology, Toronto LA REPUBBLICA ne
"desiderio". 2 Tale estensione, uno dei cardini metapsicologici della
fenomenologia degenerativa del libro Vili, fa tutt'uno con la diretta
attribuzione ad ogni istanza di una sfera "propria" di desideri
esplicitata nel libro IX: siccome tre sono le parti della psyche,
triplici mi sembrano anche i piaceri, ognuno proprio di ciascuna parte; e
similmente i desideri e il loro ruolo di comando. Con ciò la statica
tripartizione delineata nel libro viene calata, retroattivamente,
all'interno della dinamica psico-politica e quindi delle forme
caratteriali disegnata nell'VIII. Più da vicino, l'attribuzione
rende conto del legame tra il governo del logistikon e il desiderio di
sapere del filosofo, il governo dello thymoeide s e il desiderio di onori
e gloria del carattere timocratico, e le tre forme caratteriali dischiuse dal
governo del polimorfo epithymetikon, contenente tre specie di desideri e
piaceri: 1) i necessari», dei quali non ci si può liberare», quali fame, sete
ed eros riproduttivo, il cui appagamento è utile e salutare; 2) i non
necessari», che possono essere allontanati», la cui soddisfazione non frutta
alcun bene, talvolta anzi un male;
i paranomoi, fuorilegge, perversi e malvagi, sottospecie dei non
necessari, anch'essi allontanabili. Partizione metapsicologica sulla quale
poggia la fenomenologia caratteriale: l'avaro uomo oligarchico, dominato dai
desideri necessari, nel quale il legittimo desiderio per il denaro
degenera in ossessione; il disinvolto carattere democratico, assediato dalla
cangiante moltitudine dei desideri non necessari; le inquietanti e
parzialmente convergenti figure 2 La convergenza con il nostro
"desiderio" è già attestata in Marsilio Ficino, Sopra il Convito di
Platone, ove Amore è sempre "desiderio di bellezza"; soluzione
che venne a sciogliere, indirettamente, le tensioni tra concupiscentia,
appetitus e desiderium derivate dalle letture scolastiche della
metapsicologia aristotelica: cfr., per es., TOMMASO d'Aquino, Summa
theologiae; sulla revisione dell'impianto platonico dell'ultimo Aristotele cfr.
per es. A. GRAESER, Probleme der platonischen Seelenteilungslehre,
Mùnchen 1969, pp. 22-24. Vm E IX, [H] deYL'erottkos e
del tirannico, invasi e pervasi dai desideri paranomoi? Questa
diairesi delle specie del desiderio, tassonomicamente inerente d&
epithymetikon, eccede euristicamente la catalogazione tipologica su due fronti.
Su un versante viene con 3 Sulla convergenza tra la tripartizione delle
specie dei desideri e il polimorfo epithymetikon, cfr., per es., HELLWIG,
Adikia in Platons 'Politela'. Interpretationen zu den Bùchern Vili undlX,
Amsterdam 1980, pp. 47-50. Ha sostenuto la forte discrepanza» e aperta
contraddizione» tra la tripartizione psichica e rimprowisata» diairesi
dell' 'epithymetikon, N. BlÓéNER, Dialogform und Argument. Studien zu Platons
'Politeia', Stuttgart 1997, soprattutto pp. 61-62, 237-40, -appellandosi alla
possibilità che le forme costituzionali e caratteriali potrebbero essere più
numerose, e che la partizione psichica sia forzatamente modellata su
quella politica. Sebbene sia vero che rimangano delle tensioni nel testo
- soprattutto rispetto al desiderio necessario del carattere oligarchico:
l'ossessione per il denaro potrebbe a rigore esser interpretata quale
elemento appartenente al regno del non necessario - tuttavia Y epithymetikon
stesso, in ragione della sua natura polimorfa, supporta perfettamente i
tre tipi caratteriali degenerati, come anche eventuali altre forme
"intermedie". Sul rapporto complessivo tra la tripartizione psichica
e le cinque forme politiche cfr. TJ. Andersson, Polis and Psyche. A
motifin Plato's 'Republic', Goteborg. Ferrari, City and Soulin Plato's
'Republic', Sankt Augustin, ha ultimamente sostenuto, di contro a
Andersson, il carattere meramente analogico», non causale»
dell'isomorfismo, cfr. soprattutto pp. 50-53, 60, 65-66. Tale tesi implica però
l'esclusione della kallipolis e della tirannia (p: 53 e pp. 85 sgg.) nonché, di
fatto, della timocrazia; vi è poi una tendenza a caricare eccessivamente alcune
tensioni del testo (cfr. per es. p. 71) e a trascurare la dimensione
dialettica e temporale della dinamica degenerativa. Inoltre, Ferrari è
costretto a eludere interi brani, come 544d, e nello specifico la
dimensione sociale nella quale è calata la degenerazione caratteriale come ove
non considera che il giovane timocratico esce di casa» etc., e che la
figura paterna risulta infine sconfitta» perché è collocata in un contesto
etico-politico che osteggia il suo modello psicocaratteriale (549c, 550b);
analoga la questione rispetto al carattere oligarchico (pp. 71-71) ove
Ferrari elude 553a-d, e rispetto al carattere democratico ove tace. In breve
ritengo, di contro a Ferrari, che i due piani, psicologico e politico, siano in
una relazione di corrispondenza biunivoca circolare che garantisce ad
ognuno un'autonomia semi-ontologica dal punto di vista descrittivo,
statico, ma che preserva nel templata la possibilità che i
desideri possano essere allontanati o meno, approccio che mostra come la
materia epithymetica sia analizzata ad iniziare dalle strategie di
controllo adottabili nei suoi confronti. E questa la prospettiva
all'interno della quale si articola la catalogazione, non viceversa. Sull'altro
fronte, anche qui sorvolando al di sopra dei contenuti specifici
veicolati dalle singole epithymiai, viene rimarcato il peso che la loro
soddisfazione gioca rispetto al benessere o al malessere psicofisico
complessivo del soggetto. Questi due fattori, modalità di gestione tese
al contenimento e allontanamento del materiale epithymetico più
pericoloso, insidie e derive psicopatologiche ad esse correlate, sono i
primi due assi sui quali corre la degenerazione che conduce infine alla mania.
Essi trovano la loro unità nel concetto di repressione, dal quale
cominceremo, ripercorrendola a ritroso, la nostra ricostruzione della
degenerazione. 2. Repressione ed esilio Kolazomenai: i
desideri possono essere e talvolta vengono repressi: Fra i
piaceri e i desideri non necessari, alcuni mi sembrano essere contrari
alle leggi. Essi probabilmente nascono in ognuno, ma se vengono repressi
(kolazomenai) dalle leggi e dai desideri migliori con l'aiuto della
ragione, nel caso di alcuni uomini si allontanano del tutto oppure
restano pochi e deboli, in altri (restano) più forti e numerosi. La
repressione dei desideri non necessari, ed in particolare di quelli
paranomoi, genera una dislocazione topica, bipartita rispetto alla
modalità funzionale, tripartita quanto alle categorie caratterologiche.
contempo la relazione causale circolare dal punto di vista
dinamico-temporale, dialettico. E
IX, [H] 475 L'allontanamento: 1) nel primo caso i desideri repressi
si allontanano del tutto» (pantapasin apallattesthai). Stesso esito viene
ascritto, più in generale, alla repressione giovanile dei desideri
genericamente non necessari: si potrebbero allontanare (apallaxeien), se
ci si prendesse cura di farlo fin da giovani. Ancora: se il desiderio non
necessario è represso ed educato {kolazomene kai paideuomené) fin da
giovani, può essere tenuto lontano {apallattesthai) dalla maggior parte
degli uomini» (559b9-10). b) La permanenza: i desideri
repressi permangono esplicitamente (leipesthai) . Esito a sua volta ramificato:
2) in un caso permangono pochi e deboli» desideri; condizione che
non viene però contrapposta al loro intero allontanamento: le due
forme riguardano la stessa categoria di persone. Nel terzo caso
permangono desideri più forti e numerosi sì che viene delineata una
seconda categoria di persone. Per comprendere la dinamica, la forma, la topica
e le conseguenze che comporta l'adozione delle suddette strategie repressive
fornisce un contributo essenziale il brano sulla transizione dal carattere
oligarchico a quello democratico. Analizzando l'aspro conflitto
intrapsichico che lacera il giovane democratico, 5 Platone traccia
anzitutto una esplicita distinzione inerente alle strategie di
repressione e contenimento del desiderio: alcuni desideri (non necessari)
vengono distrutti {diephtharesan), altri banditi {exepeson). Abbandonati i
desideri banditi al proprio destino, Platone si con- Analoga la ricostruzione,
che coniuga le modalità che permettono di abwenden» i desideri non
necessari e il fortdauern» dei paranomoi attestata dall'analisi dei
processi onirici, di VoiGTLÀNDER, Die Lust und das Gute bei Platon,
Wurzburg. Cfr. 559e4-560a2: il conflitto vede ivi schierati su un fronte la
specie dei desideri necessari, "alleati" alla figura paterna,
rappresentanti della parte oligarchica, e la specie dei desideri non necessari,
fomentati dalle cattive compagnie, rappresentanti della parte
democratica. LA REPUBBLICA centra quindi sull'analisi di altri
desideri affini a quelli che sono stati messi al bando», dei quali scrive, in
un passaggio nevralgico, che, in talune occasioni, cresciuti di nascosto» (hypotrephomenai),
diventano infine molti e vigorosi. Hypotrephomenai: le epithymiai
crescono di nascosto, insensibilmente; carattere subito rimarcato da Platone:
esse unendosi di nascosto [tra loro] ne partoriscono una folla. Essendo
tale proliferazione nascosta», segreta», furtiva» {lathra), 6 siamo di
fronte ad una crescita effettivamente inconsapevole»: ciò alle spalle di cui
crescono, ciò da cui si nascondono non può essere se non ciò che noi
usualmente indichiamo con l'espressione coscienza». In breve, sfuggono alla
presa di coscienza. La proliferazione dei desideri non necessari è dunque
in questo caso collocata in un luogo intrapsichico oscuro, nascosto, tenebroso,
al di fuori della sfera cosciente. Tale sito è quasi certamente lo stesso dei
desideri paranomoi repressi nel caso in cui restano forti e
numerosi». L'individuazione e concettualizzazione di processi
psichici pacificamente definibili come inconsapevoli» è del resto
attestata in diversi altri brani della Repubblica. Ad esempio ove
leggiamo che si deve evitare che i giovani, frequentando persone viziose,
ammassino senza accorgersene {lanthanosin) un'unica grande mole di vizio nelle
loro psychai» e che, al contrario, devono crescere tra opere belle» così
che la loro aura», fin da bambini, inconsapevolmente {lanthane)», li
conduca all'armonico accordo con la bella ragione. 7 Ed an- Anche HELLWIG sottolinea
come le Begierden gewaltsam unterdriicken» rompano la Harmonie psichica e
possano poi rafforzarsi in heimlichem». 7 Jaeger, Paideia, Firenze,
parla a questo proposito di inconscio», così come Lear, La psicoanalisi e
i suoi nemici, Milano, XVIII; il termine inconscio» però, in questo caso
specifico, non può essere inteso nel senso classico e ristretto
(dinamico) di Freud, poiché slegato da processi riconducibili alla
rimozione. cora ove leggiamo che in certi casi un'opinione esce
dalla mente» in modo involontario, come accade in coloro che
vengono indotti a mutare le loro convinzioni e che se le dimenticano,
perché agli uni il tempo, agli altri il ragionamento, le portano via di
nascosto {exairoumenos lanthanei)». Ora, i suddetti processi repressivi
sono collocati da Platone all'interno di una ben precisa topica
metapsicologica: i desideri repressi, una volta rinvigoritisi e cresciuti di
nascosto, hanno infine conquistato l'acropoli della psyche.
L'acropoli raffigura il centro direttivo della psyche-polis, il luogo nel quale
si controlla l'azione, dal quale ognuna delle tre istanze e le
particolari sfere di desideri ad esse pertinenti possono governare l'individuo.
I conflitti, lo scontro tra sfere di desideri alternativi che segnano
intimamente la psyche hanno quindi un obbiettivo ultimo: conquistare la
regale fortezza», penetrare attraverso i portali» che conducono al cuore
del soggetto, al sé. La repressione che si limita ad
allontanare, ma forse anche a bandire, e comunque esclusivamente a
dislocare topicamente il desiderio senza distruggerlo, si lascia allora
intendere quale espulsione dall'acropoli e attività di continua difesa,
resistenza e opposizione al loro rientro in essa. Dinamica raffigurata
nel mettere guardie e sentinelle» ai suoi portali, che altro non sono che
discorsi, opinioni, convinzioni che sbarrano l'accesso alla pressione del
materiale pulsionale. Anche qui la politicizzazione platonica della
psyche mostra di non esser solo metafora, ma descrizione, non anatomica o
fisiologica, dei processi psicologici di per se stessi, che divengono
intelligibili, direttamente, in questa dimensione concettuale. Un
ultimo elemento chiave inerente alle strategie repressive, sempre di matrice
psico-politica, è la schiavitù cui sono soggetti i desideri repressi. Una
prima chiara indicazione in tal senso ci è data nella discussione del
carattere oligarchico che letteralmente rende schiavi», mette in
schiavitù» i desideri non necessari (554a7: doulomenos). Modalità che
riemerge, in generale, anche ove leggiamo che bisogna reprimere e mettere
in schiavitù» i desideri malvagi» (kolazein te kai doulousthai). Vedremo
meglio come anche nell'analisi dei processi onirici la schiavitù» (douleia),
cui sono soggette le opinioni che sorreggono i desideri paranomoi, svolga
un ruolo cruciale. Il punto che ora ci preme sottolineare è che la repressione
in taluni casi si configura come un processo seguito da una forma di
controllo radicale, di incatenamento. In conclusione, la
repressione dei desideri, paranomoi ma più in generale non necessari, è
un processo tale per cui essi vengono allontanati, non distrutti; in
alcuni casi essa comporta la loro esplicita permanenza, in catene, al di
fuori della coscienza, dell'acropoli; dimensione dalla quale,
rinvigorendosi di nascosto, inconsapevolmente, possono, in un secondo
momento, tentare un attacco alle sue porte. 3. Il ritomo onirico
del represso I desideri paranomoi repressi, scrive Platone
all'inizio del libro IX, sono quelli che si risvegliano nel sonno,
inaugurando così l'analisi dei processi onirici. Disamina che ci offre un
contributo tanto stringato quanto sorprendente per la sua modernità, essenziale
nell'architettura metapsicologica complessiva delle strategie di
controllo deH'epithymia nonché ai fini della definizione della specie dei
desideri paranomoi e della deriva psicopatologica complessiva della
fenomenologia degenerativa. II risveglio» avviene quando
il resto della psyche - il logistikon e ciò che è socievole e adatto al comando
- riposa, mentre la parte ferina e selvaggia, piena di cibo o di vino, si
sfrena nella sua danza e, scacciando il sonno, cerca di aprirsi la via
per dare sfogo ai suoi abituali costumi. Vi è, dunque, una
condizione positiva: Yepithymetikon, stimolato fisiologicamente (cibo e vino),
si sfrena e respinge via il sonno; ciò comporta il sincronico risveglio»
dei suoi desideri; ed una condizione negativa: il logistikon dorme,
perciò non può dominare la parte desiderante. E associato ad esso
anche ciò che è socievole», 8 probabilmente lo thymoeides. Il
proseguo del brano fa luce su tale stato psicologico: Sai bene che in un
simile stato essa osa fare di tutto, come sciolta e liberata da ogni
freno di vergogna e di ragionevolezza» (571c79). H sonno del logistikon,
l'istanza cui va ascritta la phronesis, e verosimilmente dello
thymoeides, al quale possiamo attribuire, quando è sotto l'egida della ragione,
Yaischyne, viene quindi a rappresentare la mancanza di quell'attività di
resistenza che impedisce la manifestazione dei desideri repressi. Il
fattore quantitativo e la struttura dinamica delle due precondizioni sono
perfettamente convergenti: al risveglio» indotto dall'eccitazione della parte
desiderante, quindi ad una rinnovata pressione dei desideri, segue la loro
emersione e soddisfazione permessa dall'inattività delle forze razionali,
morali. Date tali condizioni, tentare di accoppiarsi
con la madre (così s'immagina) non la imbarazza affatto, o con chiunque altro
fra uomini, dèi, animali, e commettere qualsiasi assassinio, e non astenersi da
alcun cibo. Quadro edipico», 9 perversione, aggressività
omicida. Questo l'inquietante scenario che si apre dinanzi agli
occhi dell'impotente sognatore. Posto che l'attività onirica
rappresenta la soddisfazione» immaginaria» o visionaria» di desideri
repressi, riprendendo la topica dell'acropoli la loro appari 8 Su hemeron
e thymoeides cfr. JAEGER, A New Greek Word in Plato's 'Republic', in
Scripta Minora, Roma. ' Hanno richiamato al riguardo l'edipo
freudiano, tra gli altri, POPPER, La società aperta e i suoi nemici, Milano;
Kahn, Plato's Theory of Desire, Review of Metaphysics; GlGON, Erlàuterungen, in
Plato. Der Staat, Munchen. zione e sincronico appagamento
potrebbero essere interpretati come se essi vi penetrassero nottetempo,
superando la vigilanza di sentinelle assopite. 10 Trattandosi di una
soddisfazione, anche se solo immaginaria, è difatti lecito raffigurarsela
nell'unico sito nel quale essa sembra poter realizzarsi. Nel sonno l'acropoli
si verrebbe così a configurare come sfera della coscienza, come teatro
dell'immaginazione nel quale i desideri impongono la visione della loro
drammatica rappresentazione, diventando coscienti e trovando soddisfazione
senza però attivare le funzioni psico-motorie. La ricostruzione di
quest'immagine, priva di riferimenti diretti, mira soltanto a rendere in
termini spaziali il fatto che, come emerge senza incertezze dal testo,
il sogno rappresenta il momento privilegiato grazie al quale è
possibile prendere coscienza di quei desideri repressi e tenuti in
schiavitù che nella veglia sfuggono al suo sguardo. 11 Platone ha
così dischiuso e percorso la via regia per l'inconscio» tracciata nel Novecento
da Sigmund Freud. A monte, la repressione platonica si lascia intendere
alla luce della rimozione {Verdràngung), o viceversa, anzitutto perché
quest'ultima, che è una forma particolare di repressione {Unterdrùcken),
12 Cfr. anche VEGLEEIS, Platone e il sogno della notte, GuiDOKIZZI (a cura
di), Il sogno in Grecia E IL SOGNO D’ENEA, Bari. La più articolata trattazione
platonica di ciò che noi indichiamo con le espressioni coscienza» e
autocoscienza» è probabilmente quella di Filebo 33b-42c. Ivi, utilizzando
la metafora del pittore, Platone scrive che un individuo vede in qualche modo
in se stesso le immagini delle cose dette o opinate, poi che egli scorge in sé
anche se stesso» (40a). Il passo della Repubblica, limitato alla percezione di
immagini prodotte psichicamente, pare presupporre una concezione della
coscienza» simile. u Parlano di desideri allo stato di latenza»
Kahn, e LEAR (n. 7), p. 142. 12 Ci sono nella vita psichica
desideri rimossi. Ci sono non è inteso storicamente, nel senso che simili
desideri sono esistiti e poi sono stati distrutti; per la teoria della
rimozione simili desideri rimossi esistono ancora, ma contemporaneamente
esiste un'inibizione che pesa su di essi. Il linguaggio COMMENTO Al LIBRI
Vm E LX, dal carattere morale», 13 tesa a contrastare una sfera di desideri
immorali, incestuosi e perversi, o di voglie omicide, sadiche», 14 anziché
condurre ad una completa distruzione» 15 dei desideri, si limita al loro
allontanamento» (Entfernung) dalla coscienza. Questi perciò permangono»
(Fortbesteben) al di là dei confini della sfera cosciente. 17 In una sola
parola, il rimosso è vogelfrei, 18 ovvero "bandito",
"proscritto", "fuorilegge". La rimozione
rappresenta, dunque, un'arma a doppio taglio. Su un fronte, al rimosso viene
normalmente impedito di scaricarsi nell'azione reale», gli viene
metaforicamente negato l'accesso alla Festung freudiana, la fortezza» dalla
quale si colpisce nel giusto quando parla della
"repressione" (Unterdrucken) di tali impulsi. L'organizzazione
psichica, che permette a codesti desideri repressi di realizzarsi, rimane
intatta e utilizzabile» (S. Freud, L 'interpretazione dei sogni, in Opere
complete, 12 voli., trad. it. Torino; DIE TRAUMDEUTUNG, in Gesammelte Werke, 18
voli., rist. Frankfurt a. M. 1999, voi. Il/in, p. 241; d'ora in poi,
tutti i richiami a Freud si riferiscono a queste edizioni). Freud,
L'Io e l'Es; cfr. anche Lo., Breve compendio di psicoanalisi, FREUD, Alcune
aggiunte d'insieme alla 'Interpretazione dei sogni'. Freud, Introduzione alla
psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI, p. 201 [FREUD, Neue Volge
der Vorlesungen zur Einfiihrung in die Psychoanalyse, voi. XV, p. 98: eine
vollstandige Zerstòrung»]; il richiamo successivo è certamente a Id., Il
tramonto del complesso edipico; cfr. anche S. Freud, Inibizione, sintomo
e angoscia, voi. X, p. 290. 16 S. FREUD, Metapsicologia, voi. Vili,
p. 40, e ivi p. 37: la sua essenza consiste semplicemente nelPespellere e
nel tener lontano qualcosa dalla coscienza» [Die Verdràngung]; cfr. anche Lo.,
L'Io e l'Es, FREUD, Metapsicologia, voi. Vili, p. 39 [Die Verdràngung, FREUD,
Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 300 [Hemmung, Symptom
undAngst, voi. XIV, p. 185]. FREUD, Al di là del principio di
piacere. LA REPUBBLICA domina la motilità». 20 Sull'altro però
esso sopravvive al di fuori» della coscienza godendo del privilegio della
Exterritorialùàt»: 21 una volta estromesso dal dominio cosciente può
sviluppare derivati e annodare connessioni», prolifera per così dire
nell'oscurità», im Dunkeln. 22 Proliferazione che rappresenta la possibilità
del suo sempre possibile ritorno». 23 Da qui la necessità di una costante
attività di resistenza» alle soglie della coscienza. In termini spaziali:
espulso un ospite indesiderato si deve poi far sorvegliare perennemente la
porta da un guardiano giacché altrimenti l'individuo respinto la
forzerebbe». 25 Poste queste premesse, Freud, ricalcando ancora le
orme platoniche, 26 individua nel sogno la via regia per
l'inconscio perché in esso i desideri repressi, approfittando del
cedimento della sorveglianza deU'Io dormiente», 27 e godendo del
casuale 20 S. Freud, L 'interpretazione dei sogni [Die Traumdeutung, voi. II/III, p. 573].
Riprende questa stessa immagine, accostandola ai conflitti della psyche
platonica, M. Stella. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, pp. 247-48
[Hemmung, Symptom und Angst,; cfr. anche Id., Il problema dell'analisi condotta
da non medici, Freud, Metapsicologia,
[Die Verdrdngung]. Sui meccanismi di difesa cfr., per es., S.
Freud, Metapsicologia, voi. VILT Sul dispendio psichico della resistenza
cfr. per es. S. Freud, Metapsicologia, voi. Vili, p. 41; Id., Inibizione, SINTOMO
(GRICE) e angoscia. Sulla distinzione tra derivati e rimosso originario,
e tra rimozione originaria e postrimozione, cfr. Id., Metapsicologia, Freud,
Metapsicologia, voi. Vili, p. 43 e nota; cfr. anche Id., Cinque
conferenze sulla psicoanalisi; Id., Introduzione alla psicoanalisi, Cfr. in
questo senso anche KENNY [citato da Grice, VOLITING – INTENTION AND UNCERTAINTY,
The Anatomy of the Soul – cf. Grice, THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL,
Oxford; FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), Vili E
IX, [H] 483 rinvestimento energetico pre-notturno, 28 riescono
talvolta a farsi breccia nelle porte custodite da resistenze» della
coscienza. 29 Non dunque nella Festung, la cui porta che conduce alla motilità»
durante il sonno viene chiusa» dal guardiano», 30 il sogno rappresenta infatti
la soddisfazione allucinatoria», non certo reale, del desiderio. 31 Al di là
dei meccanismi peculiari del sogno 32 e delle possibilità con le quali la
censura inconscia può deformare i pensieri onirici latenti, anche
per Freud accade talvolta, sebbene «raramente», che si formino
sogni che «significano proprio quello che dicono, e non hanno subito
alcuna deformazione dalla censura», 33 «come quello cui allude Giocasta
nell'Edipo re». 34 Infine, considerato che il concetto di inconscio
in senso stretto (dinamico e non descrittivobè direttamente
«ricavato» dalla dottrina della rimozione, nel senso che il rimosso «è
per FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 304; Id.,
Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), vMetapsicologia; in
Id., Analisi terminabile e interminabile, voi. XI, p. 509, viene ribadito
«l'irresistibile potere del fattore quantitativo» nei processi di rimozione;
sulla diversità dei vari stimoli cfr. per es. Id., L 'interpretazione dei
sogni, Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io; cfr. anche Id.,
Autobiografia, Freud, Il interpretazione dei sogni; al limite ci si può
rifare all'immagine delle «guardie alle porte dell'intelletto. Cfr. anche S.
FREUD, Introduzione alla psicoanalisi; Id., Introduzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni) Cfr., per es., FREUD, Introduzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni), FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla
'Interpretazione dei sogni', voi. X, p. 158. 34 Ibidem. Freud
allude qui al passo dell'Expo re in cui Giocasta dice: «Tu non temere le
nozze con tua madre: già molti mortali si giacquero in sogno con la propria
madre» (980-82; trad. it. di R. Cantarella). noi il modello
dell'inconscio», ove l'elemento essenziale è dato dal fatto che i
desideri confinati «non possono divenire coscienti perché una certa forza vi si
oppone», 35 esattamente come accade per i desideri repressi platonici tenuti in
schiavitù, possiamo concludere affermando che, di fronte alle
analogie tra le due concezioni complessive, questi ultimi possono
essere considerati alla stregua di desideri rimossi, dunque inconsci
in senso stretto (dinamico). Difese pre-oniriche La difesa
approntata dall’ACCADEMIA per prevenire l'emersione onirica dei desideri
repressi o se si vuole «rimossi» è così delineata: ci si deve «accostare al
sonno dopo aver tenuto ben desto il logistikon», facendo nel contempo «rimanere
assopito Yepithymetikon» - conducendolo cioè in una condizione tale per
cui non resti né «affamato» né sia «troppo riempito» - ed infiFreud, L'Io e
l'Es, voi. Cfr. nello stesso senso JAEGER; GOULD, Platonic Love, London; Lear;
HOBBS, Platon and the Hero. Courage, Manliness and the Impersonai Good,
Cambridge; GlGON; MONTONERI, Platone: l'eros, il piacere, la bellezza, in I
filosofi greci e il piacere,Bari; REALE (si veda), Corpo, anima e
salute, Milano. Nello stesso senso, ma un po' più cauti, cfr.
DODDS, Plato and the Irrational SOUL – cf. Grice --, Journal of Hellenic
Studies; KENNY [citato da Grice, VOLITING – INTENTION AND UNCERTAINTY. Di
diversa opinione FERRARI, 'AKRASIA' – cf. H. P. Grice ‘akrasia, incontentia,
weakness of the will -- as Neurosis in Plato's 'Protagoras', Boston Colloquium
in Ancient Philosophy, rispetto a Repubblica; egli rimanda però alla
messa in schiavitù del logistikon da parte déH'epithymetikon, che abbiamo visto
essere di natura diversa, in quanto tesa allo "sfruttamento" e non
all'allontanamento, dalla messa in schiavitù dei desideri paranomoi etc. Ho
cercato di affrontare l'intera questione in SOLINAS, Unterdrùckung, Traum und
Unbewusstes in Platons 'Politeia' und bei Freud, Philosophisches
Jahrbuch. ne «ammansendo lo thymoeides»; in questo caso «le
visioni fantasticate nei sogni sono le meno contrarie alle leggi. Rispetto
all'emersione" onirica lo thymoeides presenta un carattere
asimmetrico: la sua inattività sembra agevolare l'emersione del materiale
represso, il suo risveglio rappresenta però un pericolo. Ciò è
verosimilmente dovuto alla sua costitutiva ambivalenza: privo della guida del
logistikon mostra la sua natura bestiale, aggressiva (cfr. 441a sgg.,
590b); caratteristica che potrebbe suggerire che esso possa contribuire
alla manifestazione stessa dei desideri paranomoi nel loro carattere
marcatamente omicida, e che renderebbe conto del legame tra il logistikon ed un
vago «ciò che è socievole». Quanto all' epithymetikon, il rimarcare
la pericolosità del lasciarlo «affamato» può esser inteso sia come un
richiamo alla concezione del desiderio quale soddisfazione di una
mancanza, sia alla formazione di sogni non appaganti, avvalorata dal fatto che
l'attività onirica dell' 'epithymetikon è detta comprendere oltre alle
sue «gioie» anche i suoi «dolori» (%aipov r\ À.imo'unevov). Richiamo
all'incubo che trova un puntello già nel libro I: l'uomo ingiusto «spesso
si risveglia dal sonno, come i bambini, in preda al terrore»
(330e6-7). Anche rispetto al logistikon, ora nutrito da «buoni
discorsi e ricerche, emerge un'asimmetria funzionale: il sonno
rappresenta l'inattività delle sue funzioni di controllo e resistenza, il suo
risveglio non comporta però la capacità di svolgere alcuna attività inibente, è
limitata allo svolgimento di funzioni intellettuali interne: «solo in se stesso
nella sua purezza» potrà «venire in contatto con la verità. 38 Attività
che 37 Anche in Timeo 45e-46a emerge uno stretto legame tra
tranquillità e qualità dei sogni, e in 71c-d tra condizioni pre-notturna
e sogno. 38 Cfr. nello stesso senso anche VEGLERIS.
Profondamente diversa è la concezione del Timeo ove<è il fegato a fornire
una conoscenza non razionale che la ragione deve «interpretare con
non ha, quindi, niente a che fare con l'emersione dei
desideri repressi. (Rispetto a Freud si potrebbe pensare alla netta
distinzione tra il lavoro intellettuale preconscio svolto nel sonno
dall'Io e l'emersione onirica del rimosso). 39 Platone non afferma
del resto mai la possibilità di un intervento diretto (notturno) del logistikon
teso a calmare o sedare o compiere una qualsiasi operazione tesa ad
arginare eventuali intemperanze delle altre istanze. Il loro assopimento,
come viene ribadito due volte nel proseguo del passo, deve essere perseguito e
raggiunto prima di abbandonarsi al sonno; soltanto dopo aver assolto
questo compito ci si può finalmente concedere il riposo. La non-emersione dei
desideri è, dunque, garantita univocamente da un intervento consapevole, pre-notturno.
Le possibilità d’interrelazioni nei processi onirici paiono perciò
significativamente ridotte rispetto a quelle della veglia, tanto da non
contemplare casi di vero e proprio conflitto. Tutt'al più la parte
razionale può essere turbata dalle gioie o dai dolori dell' epithymetikon,
accenno che sembra indicare che essa si limiti a percepire
passivamente, ad assistere impotente alle sue turbolente
manifestazioni. In conclusione, il quadro dei processi onirici è
così articolato: o il logistikon è desto e le altri parti dormono, ed
allora «le visioni fantasticate nei sogni sono le meno contrarie
alle il ragionamento dopo il risveglio. Sempre diversi da quelli di
Repubblica sono i sogni quali appaiono in Fedone, Critone, Leg.,
Epinomide, poiché veicolano messaggi di origine extra-psichica: cfr. al
riguardo Dodds, I Greci e l'irrazionale, Firenze. Cfr., per es., S. FREUD,
L’io e l'Es: un lavoro intellettuale sottile e difficile, che normalmente
richiede una rigorosa meditazione, può essere effettuato in modo
preconscio senza pervenire alla coscienza. Non vi sono dubbi su casi del
genere: essi si verificano ad esempio nel sonno», e Id., Introduzione
alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni): la funzione preconscia svolta
dall'Io può ben accadere «durante la notte» ma «non ha nulla a che fare
con il lavoro onirico. leggi, ed esso può attivare le sue funzioni
intellettuali; oppure V epithymetikon e verosimilmente lo thymoeides son
desti e il logistikon dorme, ed allora emergono i desideri repressi.
Essendo l'esito univocamente determinato da un intervento indiretto e
consapevole, tale concezione non ha niente a che fare con la «difesa» di
Freud, incentrata sulla censura onirica, diretta ed inconscia. In Platone, nel
sogno, i desideri repressi o non compaiono affatto o dilagano senza
indossare maschera alcuna. 5. Strategie di controllo e caratteri
universali Ora, poiché leggiamo che proprio chi «si trovi in una
condizione di sanità e moderazione» deve ottemperare alle suddette misure
preventive prima di concedersi il riposo, sì da evitare la manifestazione delle
empie visioni, è necessario che sia presente, anzi incombente il pericolo
della loro comparsa. La ragione metapsicologica fondamentale della
precarietà di ogni forma di difesa nei confronti dei desideri paranomoi,
anche rispetto ai moderati, ci è data nel brano che chiude l'analisi dei
processi onirici: Però parlando di queste cose siamo andati troppo
lontano. Ma ciò che vogliamo capire è questo: in ognuno - anche in quei
pochi di noi che sembrano essere del tutto moderati - è senza dubbio
presente una forma di desideri terribile, selvaggia e illegale, che si
manifesta chiaramente appunto nel sonno. Il sogno
rappresenta, dunque, lo smascheramento delle apparenze, il riconoscimento che
«in ognuno», anche in coloro che più sembrano moderati, nonostante ciò
possa parere inam 40 Cfr. per es. S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi
(nuova serie di lezioni), voi; sulla metafora politica del sogno come
«conquista» e sulla «resistenza delle popolazioni soggiogate» cfr. Id.,
Compendio di psicoanalisi, voi. missibile, ebbene anche in loro, anzi in
«noi» - Platone qui sembrerebbe includere anche se stesso - questa specie
di desideri esiste: essa «si manifesta appunto nel sonno». Poiché il moderato
è sicuramente colui che ha operato la migliore repressione, i desideri
paranomoi in lui debbono essere stati «interamente allontanati, non sono perciò
né pochi né deboli né schiavi. Ciò nonostante tale operazione lascia
aperta la via alla possibilità del loro ritorno. Lo stesso pericolo affiorava
del resto nel brano sull'acropoli, ove Platone scriveva che gli uomini
«cari agli dèi», in altri termini i moderati, predispongono la «guardia» alle
porte dell'acropoli. Ta hautou ethe: nel sogno V epithymetikon
soddisfa «i suoi abituali costumi» o «i propri caratteri» (571c7). In
questa definizione sta la chiave che spiega l'incombenza del pericolo: siamo di
fronte ad una «specie di desideri tremenda, selvaggia e illegale» che
costituisce un elemento strutturale dell' 'epithymetikon. Trattandosi di
un'istanza costitutiva e originaria della psyche, la specie epithymetica ad
essa connaturata non può che essere presente in ogni uomo. E universale.
Con ciò Platone sembra fugare ogni dubbio rispetto al fatto che i
desideri paranomoi «probabilmente nascono in ognuno» C571b56). Del resto i
desideri non necessari bussano alle porte dell'acropoli fin dalla giovane età,
come mostrano i molteplici richiami ad operare una loro repressione ed
educazione «fin da giovani. Certo, il fatto che i desideri
paranomoi repressi e allontanati «esistano» anche nei moderati non significa
che il loro status sia lo stesso di quelli repressi e tenuti in schiavitù
nei non-moderati. Con ciò veniamo all'intreccio tra i vari tipi di repressione
i cui fili è giunto il momento di provare a dipanare. Bipartiamo
dal carattere oligarchico. Egli «rende schiavi» i desideri non necessari,
in altri termini essi «vengono tenuti sotto controllo con la forza»
(554cl: katechomenas bia); spiega ancor meglio Platone: il carattere
oligarchico] con una sorta di apprezzabile violenza su di sé tiene a
freno gli altri cattivi desideri interni che pure lo abitano, non perché
li convinca che non vanno nella direzione migliore, né li ammansisca con
un discorso razionale, ma con il peso della necessità e della paura
(554cl2-d3: èrcieiKeì xivi èonnou pm Karéicei oì> TteiOcov ot>8'
finepcòv A,óy(p). La capacità di convinzione e persuasione {peithó) della
sfera razionale è qui direttamente contrapposta alla forza o violenza (bia) di
una repressione che, sebbene nei suoi intenti sia apprezzabile, lodevole
(epieikei), con le catene della schiavitù non risolve il problema. Siamo
di fronte a due modelli di gestione del desiderio alternativi: l'uno repressivo,
negativo, l'altro persuasivo, positivo. 41 Di contro, è anche vero
che Platone discutendo del carattere democratico scrive: se accade
che qualcuno gli dica che alcuni piaceri sono relativi ai desideri belli e
buoni, altri a quelli malvagi, e che bisogna praticare e onorare i primi,
reprimere e mettere in schiavitù i secondi, in tutte queste occasioni
scuote la testa e afferma che essi sono tutti uguali e di pari rispetto
(561b8-c4). Poiché qui la messa in schiavitù assume un valore
positivo, sembra emergere una contraddizione. In verità però come
il processo di repressione svolto dall'oligarchico è «apprezzabile» nelle
intenzioni, è comunque meglio di niente per un individuo degenerato, così nel
«discorso vero» che deve esser fatto passare nella psyche del giovane
carattere democratico, che è ancora più avanti nel processo di
degenerazione, tanto da non 41 Anche D. Hellwig (n. 3), soprattutto
pp. 147-54, insiste su «die Alternative bia-peitho», ovvero tra
l'atteggiamento che «mit Gewalt unterdriickt» e quello «durch Peitho», non solo
rispetto al carattere ed alla costituzione oligarchica ma nei confronti
dell'intera fenomenologia degenerativa; la Hellwig inoltre riferisce tale
alternativa, ai paradigmi naturalistici di fondo adottati da Platone.
preoccuparsi ormai di controllare alcun desiderio, sarebbe già
sufficiente se egli comprendesse che deve tentare di contrastare perlomeno i
suoi desideri peggiori. Includendo a tal fine l'adozione della strategia più
drastica: la loro repressione e messa in schiavitù. Del resto, tale
strategia dovrebbe essere l'unica a disposizione dei degenerati caratteri
oligarchico e democratico (e anche del timocratico), nei quali il
logistikon, l'unico in grado di gestire i conflitti in modo «armonico», è ormai
«asservito» 42 all' ' epithymetikon (o allo thymoeides. Stringente il
parallelismo semantico e concettuale che si pone a livello politico
nell'oligarchia. Ivi la degenerazione politica e sociale permette la nascita e
proliferazione di «ladri, tagliaborse e saccheggiatori» «nascosti» negli angoli
della polis che «le autorità provvedono a tenere sotto controllo con la
forza» (ove, èni\i£teiq pUa KoaéxoDow ai àp%ou). Il circolo della
degenerazione, a livello sia psichico che politico, si avvita su stesso:
conflitto e disarmonia generano elementi conturbanti, laceranti, patogeni,
annidati negli anfratti di psyche e polis, di fronte ai quali l'unica
arma, ormai, è quella inefficace e patogena, ancorché lodevole, della repressione
violenta. In questo caso la «schiavitù» va intesa nel senso dell'asservimento,
dello sfruttamento positivo: «l'una calcolando e studiando il modo di
aumentare le ricchezze, l'altro onorando le ricchezze»; viceversa la
schiavitù dei desideri ha carattere esclusivamente negativo: di
incatenamento, espulsione, allontanamento. 43 Sull'armonia psichica
instaurata dal logistikon nel filosofo, e sulla sua contrapposizione con
la scissione psichica dei caratteri degenerati cfr. R. KRAUT, Plato's
Comparison of Just and Unjust Lives, in Hòffe, Platon. Politela, Berlin. Diversa
la questione che si pone rispetto alla kallipolis, ove Platone,
rimarcando il suo elitarismo e pessimismo antropologico, difende la necessità
di «asservire» ai filosofi, ovvero di «imporre dall'esterno le direttive
corrette» agli individui ed alle classi sociali da lui considerate non
pienamente educabili. Se in entrambi i casi si tratta di una extrema ratio,
nell'uno si fa fronte a differenze antropologiche costitutive, tali per
cui l'auspicata armonia sociale trova agli occhi di Platone dei limiti
invalicabili; nell'altro inve- Riprendendo i fili delle diverse strategie
di controllo dei desideri non necessari emergono allora quattro modelli
paradigmatici (escludendo la loro soddisfazione): due repressivi, uno
misto, uno persuasivo: 1) quello per cui essi vengono «distrutti»; 2) quello
che li «reprime e mette in schiavitù»; 3) quello in cui il desiderio «represso
ed educato» viene «allontanato»; 4) quello in cui il desiderio, anziché esser
«controllato con la forza», è convinto e ammansito. Ciò considerato,
l'indeterminata «repressione» dei desideri paranomoi che conduce al loro intero
allontanamento od alla loro esplicita permanenza in condizione di
schiavitù non è esattamente una medesima operazione repressiva come
l'abbiamo interpretata inizialmente, ma rimanda a due strategie affini ma
distinte. La prima rientra nel modello che «reprime e mette in schiavitù»
ed ha l'esito univoco di spostare e incatenare il desiderio. La seconda rientra
nel modello per cui il desiderio «represso ed educato viene allontanato». Qui
la compresenza di repressione e educazione, sì che il desiderio «allontanato»
non è né pienamente persuaso né brutalmente incatenato, designa un approccio
misto, e spiega l'unificazione in un'unica categoria di persone, i
moderati, di coloro che hanno interamente allontanato i desideri
paranomoi o nei quali permangono ma sono «pochi e deboli». Modalità nella quale
potremmo forse inserire anche quei desideri «banditi» che Platone abbandonava al
proprio destino: in tutti e tre i casi i desideri vengono repressi, non
distrutti, ma si tratta di una repressione per così dire morbida, tendente
perlomeno in parte alla loro «educazione», sì che essi non permangono, in
massa, alle porte dell'acropoli. Viceversa, la strategia puramente
repressiva, di ce viene criticata una modalità di controllo
metapsicologica che adotta, a priori ed unilateralmente, un approccio
brutalmente repressivo, lacerante. 45 Cfr. rispettivamente: 1)
560a5: diepbtbaresan: kolazein te hai doulousthai; anche:
douloumenos; kolazomene kaipaideuomene
apallattesthai; anche: apallaxeien; bia katechei oupeitho oud'henieron
logo. messa in schiavitù, lascia intonso il potenziale energetico
dei desideri; è questa la via che conduce prima al democratico,
poi' alla mania del tiranno. In conclusione, l'eventualità
che anche nei moderati emergano oniricamente i desideri paranomoi si lascia
intendere come se, piuttosto che singoli desideri incatenati che premono
ininterrottamente alle porte dell'acropoli, siano gli ethe originari e
costitutivi dell' ' epithymetikon a riuscire talvolta ad approfittare di una
certa eccitazione pre-notturna e del sonno del logistikon per mostrare le
strutture universali, esse stesse «inconsce», che generano e sospingono in
avanti i singoli desideri paranomoi - come sarà poi per l'Es, non solo
per i singoli desideri rimossi, di Freud -, Al di là di ogni modalità di
controllo adottata e adottabile, siano pure le più persuasive, il sogno
mostra che è impossibile sradicare definitivamente la «specie» dei
desideri paranomoi in quanto tale, parte propria di quella «bestia policefala»,
tremenda e selvaggia, che abita ogni uomo, e fa sentire, di tanto in
tanto, la sua minacciosa presenza, «anche in quei pochi di noi che
sembrano essere del tutto moderati». Jaeger scrive che siamo di fronte
alle «regioni istintive subcoscienti dell'anima»; cfr. nello stesso senso
Kenny [citato da Grice, VOLITING – “INTENTION AND UNCERTAINTY”]; Vegleris;
Janke, AAH0ELTATH TPAmiMA, «Archiv fiir Geschichte der Philosophie. Anche Freud
opera del resto una distinzione tra singolo desiderio rimosso e strutture
«istintuali», innate ed «inconsce» dell'Es, cfr. Freud, Compendio di
psicoanalisi; L’uomo Mosè e la religione monoteistica; Id.,
Metapsicologia; sulla differenza tra individuo e specie cfr. Id., Dalla
storia di una nevrosi infantile, voi. 47 Cfr., per es., S. FREUD,
Introduzione alla psicoanalisi, tutti gli uomini hanno questi sogni perversi,
incestuosi e omicidi», e Id., Alcune aggiunte d'insieme alla Interpretazione
dei sogni, I miei rapporti con Popper-Lynkeus; Gould. Sostengono
apertamente l'universalità dei desideri paranomoi, tra gli altri,
Guthrie, A History ofGreek Philosophy, IV: Plato, Cambridge Dal sogno alla
realtà: derive psicopatologiche Se ritorniamo alla degenerazione
caratteriale, è facile ora riconoscere come rispetto alle modalità
intrapsichiche di contenimento del desiderio l'approccio univocamente
repressivo alle epithymiai sia il principale responsabile della deriva
psicopatologica. La rottura dell'armonia intrapsichica, condizione
necessaria dell'integrità, salute e euàaimonia individuale assicurata dal
governo del logistikon, ha inizio con il carattere timocratico, che
colloca sul trono dell'acropoli lo thymoeides. Se egli non rappresenta ancora
una figura patologica in senso stretto le conseguenze del defenestramento
si fanno però sentire nella figura immediatamente successiva: il
carattere oligarchico, dominato ormai dai desideri necessari dell 1 '
epithymetikon, non trova altra strada che reprimere e mettere in schiavitù gli
altri desideri. Così facendo egli però non risolve ma acuisce la scissione e la
lacerazione intrapsichica: «un simile uomo non potrà dunque esser libero
da conflitti interiori, e non sarà uno ma in un certo senso doppio. In
negativo: «la vera virtù, quella della psyche concorde a armoniosa, fuggirà via
lontano da lui. La stessa strategia repressiva è adottata dal
giovane figlio democratico. Anche lui, dunque, si impegnerà a
governare con la forza quei piaceri che vi insorgono chiamati non; BlRAL,
L’ACCADEMIA e la conoscenza di sé, Bari. KAHN; Klosko, The "Rule" of Reason
in Plato s Psychology, «History of Philosophy Quarterly;VoiGTLÀNDER; Lear, con linguaggio freudiano scrive che
anche nel migliore dei casi nella psiche vi saranno sempre desideri
paranomoi da rendere inoffensivi o da rimuovere. L'approccio duramente
repressivo mostra in questo caso la sua nefasta presenza nell'interazione
psyche-polis: i timocrati sono «educati non con la persuasione ma con la
forza. Necessari. Bice Sri kou oinoc, ap^cov xcòv év anta» èSovcòv),
In questo modo però, se talvolta alcuni desideri vengono distrutti, talaltra
invece proliferano «inconsciamente», rafforzandosi fino alla conquista
dell'acropoli. Saranno allora «i discorsi cialtroni» di cui si fanno
scudo a «chiudere le porte della regale fortezza» a più miti consigli e
ad «esiliare il pudore. 30 Solitamente, tuttavia, superata la lacerante
fase adolescenziale, l'uomo democratico riequilibra parzialmente i suoi
desideri e richiama a sé alcuni degli elementi in passato
sconsideratamente «esiliati. Il passo che porta alla mania tirannica,
nell'arbitrario determinismo degenerativo disegnato da Platone, è però
ormai cortissimo: l'Eros tyrannos, che raccoglie intorno a sé
l'intero sciame dei desideri paranomoi, facendosene «capo» e «guida», e
quelle opinioni che gli fanno da «scorta», si liberano definitivamente «dalla
schiavitù», mentre prima, quando egli «si autogovernava in modo
democratico, esse [le opinioni] si liberavano solo in sogno, nel sonno.
51 Le catene della schiavitù sono state spezzate: Ma sotto la
tirannide di Eros, divenuto in ogni momento della sua vita da desto quello che
raramente gli capitava di essere in sogno, non si asterrà da alcun
tremendo assassinio né da alcun cibo né azione. L'uomo tirannico è
«colui che da sveglio è proprio come l'avevamo descritto nei suoi sogni.
Dal punto di vista della fenomenologia degenerativa questa figura è
dunque dovuta, a livello psicodinamico, al «ritorno» di un represso
che scavalca le barriere oniriche: si transita dall'appagamento
oni- [Cfr. anche Lear. La comparsa dell'uomo democratico è, in linea di
principio, il ritorno del represso nella generazione successiva»;
sull'oligarchico. Se sono le opinioni che si liberano dalla schiavitù, è però
l'Eros con i suoi desideri a riempire di contenuti sia le manifestazioni
oniriche sia le azioni dissolute del tiranno. rico a quello
reale dei desideri repressi, dall'estemporanea rappresentazione della loro
soddisfazione nel teatro dell'immaginazione alla conquista permanente
dell'acropoli. L'Eros «spadroneggia» ora incontrastato, «governa ogni
settore della psyche abitandovi come un tiranno. I rapporti di forza della
psyche-polis vengono nuovamente ribaltati: è l'Eros a «sopprimere e
scacciare fuori di sé i desideri e le opinioni oneste. Tirannia che
genera una profonda lacerazione, un'espropriazione della volontà. Il soggetto è
in balìa dei suoi desideri più selvaggi, rafforzatisi al grado estremo, ne ha
perso ormai completamente il controllo e, messo all'angolo dalla loro
inappagabile ed ininterrotta pressione, «ogni giorno e ogni notte», ne
cade preda. Siamo alla mania: l'uomo tirannico è «reso folle dai
suoi desideri e amori. Riepilogando, dal punto di vista intrapsichico il
processo di degenerazione avviato dal defenestramento dell'armonico
ed armonizzante logistikon e concludentesi con la tirannia dell'Eros si
configura, perlomeno nelle sue ultime tre fasi, quale risultato di un
approccio brutalmente repressivo del materiale epithymetico. La
repressione permette difatti la permanenza e il rafforzamento
«inconscio», accertato grazie all'analisi dei processi onirici, dei
desideri repressi, i quali, una volta rinvigoritisi, riescono a penetrare
nell'acropoli, generando stati psicopatologici di lacerazione, frammentazione,
dispersione ed espropriazione maniacale. Dalla nostra prospettiva
psicodinamica è dunque a tale strategia di controllo che deve essere attribuita
la più grave responsabilità della fenomenologia degenerativa. Sul doppio
livello psico-politico della «schiavitù» e sulla metameleia, cfr. GlGON,
Die Unseligkeit des Tyrannen in ACCADEMIA Staat, “Museum Helveticum”. all:
navvo|iévcp imo èniQv\ii&v te k<xì épcÓTCOV. L 'altra via: la
canalizzazione ACCADEMIA, LA REPUBBLICA La strategia antitetica alla
repressione è quella della persuasione e educazione del desiderio. L'architrave
metapsicologico sotto il quale si dispiega tale modalità è rappresentato
dall'adozione di un modello pulsionale "idraulico" che assicura
all' epithy mia, e all'eroi-, una intrinseca malleabilità.
Uepithymia, anzi le epithymiai dal punto di vista dinamico si
delineano quale forza fluida, canalizzabile, come emerge limpidamente nei
libri: «Sappiamo che quando le epithymiai di una persona si concentrano con
forza in una sola direzione, esse ne risultano indebolite nei riguardi di tutto
il resto, come una corrente lì incanalata. Così, prosegue L’ACCADEMIA,
in quella persona in cui esse (le epithymiai) sono rivolte agli
studi e a ogni attività simile, esse riguarderanno, credo, il
piacere della psyche per se stessa e trascureranno i piaceri del
corpo», come accade nel philosophos. Se, allora, si considera non
Yepithymia nella sua fenomenica e contingente singolarità, si tratti di
specifici desideri necessari, non necessari e/o paranomoi, ma le
epithymiai nella loro plurale unitarietà, esse risultano essere una forza
energetico-pulsionale unitaria, canalizzabile verso mete diverse, anche
opposte, secondo un modello economico. Anche da qui l'insistere di
Platone, a monte, piuttosto che sui contenuti specifici, sulle strategie
di gestione del materiale epithymetico. Questa è la ragione,
dalla nostra prospettiva psicodinamica, con la quale si spiega perché
l'estensione metapsicologica della tripartizione poteva coniugare
esplicitamente, in modo simultaneo e complementare, piaceri, desideri e
governi: ogni parte, in conformità con la sua natura intrinseca, «ha» dei
desideri specifici, ma essi possono essere preservati, rinforzati e
quindi soddisfatti soltanto in virtù dell'egemonia intrapsichica
raggiunta dalla singola istanza anche perché le Resp.: lóonep
pev\ia éiceìae àjicoxexE'Uiiévov. COMMENTO AI LIBRI VHI E epithymiai sono
una risorsa unitaria e limitata. Modello rafforzato, descrittivamente, da
una sorta di estremizzazione erotico-caratteriale operata da Platone: si
tratti del filosofo o meno, chi «ama» veramente una cosa la «ama in tutta
la sua forma, come chi «desidera qualcosa la desidera in tutta la
sua forma. Estremismo che conforta la tipologia caratteriale del libro
Vili. L'integrazione tra queste due dimensioni, psicodinamica e
caratterologica, è, infine, rinsaldata dall'eros: unità di misura comune
à tutti i tipi, dal filosofo, letteralmente erastes della verità, 57
aìl'erotikos e al tirannico. La stessa contrapposizione strutturale tra
repressione e canalizzazione risulta così radicalizzarsi nel nome dell'eros. Ai
due estremi: su un versante scorre il fiume impetuoso dell'eros tyrannos, ove
confluiscono i terribili desideri paranomoi, che trascina il soggetto verso il
mare .aperto deìl'adikia; sul versante opposto si distende l'intensa
ma benefica corrente epithymetica dell'eros filosofico, la sola
forza psichica che in virtù della sua potenza può supportare la
lunga navigazione che permette infine di approdare nel porto sicuro
della dikaiosyne. 38 In conclusione, posta la permanenza di specie
di desideri stabili, indissolubilmente legate alle tre istanze di
riferimento, come quella dei desideri paranomoi, dalle quali non si può
mai svincolarsi del tutto, una parte cospicua del materiale epithymetico,
decisivo rispetto agli equilibri o squilibri dei rapporti 56 Cfr.
in questo senso anche J. ANNAS, An Introduction to Plato's 'Republic', Oxford
-Sulla centralità psicologica, etica e politica dell'eros e la possibilità
di una sua «canalizzazione» o «sublimazione» nella Repubblica ma anche
nel Simposio e nel Fedro cfr. M. VEGETTI, Quindici lezioni su Platone,
Torino, Rimarca la necessità di non confinare l'eros nella dimensione
subconscia L.H. CRAIG, The War Lover. A Study of Plato's 'Republic', Toronto «a
psychology that confines eros to the sub-rational parts of the soul most
definitely falls short of the truth. LA REPUBBLICA di forza intrapsichici
complessivi, è intrinsecamente trasformabile, manipolabile. E questa l'energia
pulsionale, in gran parte riconducibile all'universo dell'eros, che non è
solo possibile ma doveroso utilizzare, canalizzandola verso nobili mete,
anziché tentare, inutilmente ed invero assai pericolosamente, di
annientarne il potenziale con strategie brutalmente repressive. E questo
lo snodo cruciale di fronte al quale vediamo divaricarsi i due approcci
fondamentali, le due strategie basilari di controllo del desiderio adottate da
Platone: repressione versus canalizzazione, violenza versus persuasione,
schiavizzazione versus educazione. È questo il bivio dal quale si può imboccare
la via che conduce all'armonia, alla salute, all' 'eudaimonia e
alla giustizia del filosofo, o invece il cammino psicopatologico
che sbocca, da ultimo, nella mania del tiranno. L'uomo massimamente
ingiusto, infelice, malato, espropriato, travolto da una massa di
epithymiai feroci, incontrollabili, ormai liberatesi dalle catene di quella
schiavitù che le relegava al di là dei confini della coscienza,
sottraendole ad ogni controllo diretto e permettendo così il rafforzamento fino
al massimo grado, e quindi l'esplosione finale del loro devastante
potenziale. Alberto Radicati, conte di Passerano e Cocconato. Keywords:
implicature della morte, eros e tanatos, amore e morte. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Cocconato” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Coco: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del mutuale prevalente
– il contratto di carattere mutuale prevalente – scuola di Crotone – scuola
d’Umbriatico – filosofia crotonese – filosofia calabrese -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Umbriatico). Filosofo crotonese. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Umbriatico, Crotone, Calabria.
Grice: “Typically, while in the Italian North, Conte can play with words, in
the Italian South, Coco must work for the workers! Is conversation a work? I
think so – lavoro – In the ‘codice civile’ or rather the ‘codice’ of the civil
laws – there is a section on ‘lavoro’, and a title on ‘co-operativa’, short for
‘cooperative society’ – This is all due to Coco – It sounds slightly fascist,
and he did write a little tract with ‘fascist’ in the subtitle! – Coco is a
performativist, so he understands that ius must ‘constitute’ and define: so he
goes on to analyse what I’ve been analysing too – what is to cooperate – in a
common task or ‘lavoro’ – what is ‘mutuality’ – what are the requirements for
mutuality, and so on – It’s not as legalese and boring as it sounds! And it
provides a framework for my pragmatics – since a lawyer, and especially a
Griceian one, can be VERY SMART! Coco is!” -- Dal punto di vista
sistematico molto vicino alla visione del grundnorm, teoria da Kelsen. Si
laurea a Napoli. Sostituto procuratore del Re a Cassino. La Regia Procura di
Roma. Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Roma. Fondatore
dell'Ufficio del Massimario. Insegna a Roma. Noto soprattutto per aver
partecipato ai lavori di stesura del nuovo codice civile italiano nonché del
codice di procedura civile, entrambi entrati in vigore nel 1942. Si occupa
prevalentemente della stesura di leggi in materia del contratto, obbligazione,
e diritto del lavoro. Altre opere: “Gli eclettismi contemporanei e le lezioni
di filosofia del diritto” (Lagonegro, M. Tancredi et Figli); “La filosofia del
diritto”; “Una quistione di diritto transitorio in tema di farmacie” (Milano,
Società Editrice Libraria); “Sull'ultimo capoverso dell'art. 375 del codice
penale” (Milano, Società Editrice Libraria); “Luce di pensiero italico nelle
tenebre della guerra” (Cassino, Soc. Tip. Ed. Meridionale); “Per la tradizione giuridica
italiana” (Milano, Società Editrice Libraria); “Saggio filosofico sulla
corporazione fascista” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Sulla
costituzione di parte civile delle associazioni sindacali” (Roma, Edizioni del
diritto del lavoro); “Corso di diritto inter-nazionale (recensita da Santi
Romano, seconda edizione riveduta ed ampliata, Padova, MILANI); “Intorno alla
pre-giudiziale penale nel giudizio del lavoro” (Roma, U.S.I.L.A.); “Raffaele
Garofalo” (Napoli, SIEM); “Il contratto collettivo di lavoro e la impresa
cooperativa” (Roma); “Una inchiesta sulla criminalità” (Napoli, SIEM). Annuario
Camera dei fasci e delle corporazioni. Rivista penale. Rassegna di dottrina,
legislazione, giurisprudenza, Roma, Libreria del Littorio, Rivista di diritto
pubblico. La giustizia amministrativa, Roma, Società per la Rivista di diritto
pubblico e la Giustizia amministrativa, Una vita per il Diritto Giusto, La
giustizia penale. Rivista critica settimanale di giurisprudenza, dottrina e
legislazione, Società editoriale del periodico La giustizia penale, Tale
trasferimento avvenne per via di un suggerimento pervenutogli al Re dagli
allora procuratori presso la Corte d'appello di Napoli Salvatore Pagliano e
Giacomo Calabria. La giustizia tributaria. Dottrina, giurisprudenza,
legislazione, Città di Castello, Società tipografica Leonardo da Vinci. Cfr.
Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno
d'Italia, La scuola positiva. Rivista di diritto e procedura penale, Milano,
Vallardi. Nominato pretore di Lagonegro. Pretore di Moliterno, assume in
seguito le funzioni di sostituto procuratore a Cassino. Venne trasferito a Roma
presso la Procura. Presidente di sezione della Corte Suprema di Cassazione,
oltre che Professore di Filosofia del diritto. Dotato di una solidissima
dottrina e di un rigorosissimo lavoro applicativo, partecipa ai lavori per la
stesura del Codice Civile e del Codice di Procedura Civile.Cura vari aspetti
della normativa: contratto, obbligazione, diritto del lavoro. Una delle sue
grandi doti è quella di riuscire a non farsi condizionare dal regime
dell’epoca. Non accetta la candidatura in parlamento offertagli dai suoi
conterranei della Calabria. “Una Vita per il diritto giusto” si lascia leggere
con piacere, in diversi passaggi si incontreranno i tratti che lo hanno
contraddistinto come uomo, come magistrato e giurista, troveremo, inoltre, la
sua attività di ricerca e di elaborazione teoretica. Sotto il profilo
sistematico si accosta alla visione di Kelsen per quanto riguarda l’ordinamento
e le codificazioni, nonché, proprio per la ricerca e per l’identificazione di
una grande norma fondamentale. Dal punto di vista epistemologico, rappresenta
la condanna dell’ideologia e della prassi delle scomposizioni in una galassia
di frammenti superficialistici. Lo sguardo al pensiero C. ci consente anche di
sottolineare la sua analisi critica, egli non si ferma alla semplice
stigmatizzazione della responsabilità oggettiva nei confronti del singolo.
Prende spunto da queste aberrazioni per sottolineare come all’accanimento
contro la condotta individuale della persona fisica non corrispondesse eguale
severità verso gl’atti illeciti e dannosi della pubblica amministrazione.
Scrive “la responsabilità della pubblica amministrazione”. -- è stato anche
filosofo e storico al tempo stesso. Un’uomo molto impegnato nel suo lavoro che
ci sembra doveroso ricordare. Dal padre, persona di cultu¬ra, ricevette i primi
rudimenti di storia, letteratura, e filosofia, che si ritroveranno,
successivamente, in taluni suoi saggi filo¬sofici su AQUINO (si veda). Inizia
la carriera giudiziaria come pretore di Lagonegro. Divenne Pretore di
Moliterno, per assumere successivamente le funzioni di Sostituto Procuratore
del Re a Cassino. Trasferito a Roma, presso quella Regia Procura, col viatico
di rapporti ol¬tremodo favorevoli e lusinghieri dei Procuratori Generali
Pagliano e Calabria della Corte d’Appello di Napoli, dove vi permarrà per
passare alla Procura Generale presso la Corte d’Appello. Ottenne la nomina a
Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello di Cagliari, ma non ne
assumerà di fatto la titolarità. Chiamato, invece, a presiedere il Tribunale
Supremo delle Acque, era Presidente di Sezione della Corte Suprema di
Cassazione. Il giornale “Il Tribunale”, pubblicazione mensile edita a Roma, lo
sa¬luta a tale nomina. È della nostra famiglia, di quell’aristocratica famiglia
giornalistica, alla quale non disdegna di apparte¬nere, nonostante l’altissimo
grado che ricopre nell’ordine giudiziario, oggi lieti di salutarlo, insieme con
quello forense, Presidente di Sezione della Suprema Corte. Noi lo abbiamo visto
nella Corte di Cassazione sin dagli anni ormai lon¬tani della sua felice
unificazione. E stato, infatti, tra i fondatori e promotori di quell’Ufficio
del Massimario che raccoglie il vasto e prezioso materiale giurisprudenziale
della Suprema Corte. Non appena conseguita la promozione al grado IV°; ha
ricoperto la carica di Consigliere, partecipando attivamente alla fun¬zione
giudiziaria di così eminente consesso. Ci asterremo, di proposito, da ogni
aggettivazione che non sa¬rebbe di buon gusto né riuscirebbe gradita al nostro
Amico e collaborato¬re; non possiamo, peraltro, esimerci dal ricordare fra le
benemerenze e il titolo di Professore di Filosofia del Diritto nel¬la Scuola di
Perfezionamento di Diritto Penale né l’altro, per noi particolarmente caro, di
Redattore Capo della Rivista di Diritto Pubblico. La recente nomina, se
indubbiamente costituisce un nuo¬vo riconoscimento dei meriti di così eletto Magistrato,
rappresenta però un onere, che si aggiunge all’onore di così ambita carica. Ma
l’accoglierà di buon grado, assolvendo anche dal nuovo seggio presidenziale le
delicate funzioni giudiziarie, alle quali porta il va¬lido contributo della sua
competen¬za, ma soprattutto una grande se¬renità ed equanimità. Riguardo ai
meriti illustrati dall’articolo dell’epoca, c’è da dire che il suo cursus
honorum non è stato caratterizzato soltanto da so¬lidissima dottrina e da
rigorosissi¬mo lavoro applicativo, ma anche dalla partecipazione costante
all’e¬voluzione dell’ordine giudiziario, e tappa importante in tale attività,
fu la Sua nomina a membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ossia
dell’organo po¬litico e politico-amministrativo, anche se in base alla
legislazione dell’epoca il Consiglio Superiore della Magistratura non aveva
ancora il potere e l’importanza che la Costituzione e la successi¬va normativa
di attuazione gli die¬dero. Ancora, circa la indicata fondazione del Massimario
civile della Corte di Cassazione Unificata va detto che Lui effettivamente fu
tra i principali ideatori; era, quello, un periodo di grandi innovazioni,
perchè all’atto dell’Unità d’Italia, oltre alla Corte di Cassazione di Torino
esistevano quella di Firenze nonchè le due Corti Supreme di Giustizia di Napoli
e di Palermo (che assunsero anch’esse la denomina¬zione di Corte di
Cassazione). Con la legge, vennero soppresse le Corti sopra indicate, mentre
quella di Roma fu trasfor¬mata in Corte di Cassazione del Regno. Fu titolare dell’insegnamento
di filosofia a Roma. In questo ambito, svolse attività accademica per quel
periodo che vide la Scuola annove¬rare i più bei nomi della dottrina
penalistica italiana, le cui teorie risultano, ancora oggi, alla base della
trattatistica più importante. Altro aspetto rilevante della sua eccezionale
figura di giurista, come si rileva da un saggio del nipote dell’alto
Magistrato, che porta con orgoglio lo stesso nome, il Professore Nicola Coco,
dell’Università di Roma “La Sapienza”, è costituito dal coerente ri¬ferimento
alla legalità, cioè allo stato e all’ordinamento giuridico quali unica garanzia
di contratto sociale. Per questo, il periodo che va dal primo dopoguerra all’
av¬vento del fascismo, costituisce una parentesi temporale di efficace e
prorompente elaborazione delle basi di quel diritto del lavoro e sin¬dacale, o
“giuslavorismo”, costi¬tuendo davvero una novità assolu¬ta nelle scienze
giuridiche del tem¬po. Così, quando si verificheranno gravissime crisi
socio0eco¬nomiche che metteranno a rischio l’assetto della produzione, la
poli¬tica e i sindacati troveranno i loro punti d’incontro nel noto Statuto del
Lavoratori, una ri-edizione ag¬giornata delle linee guida tracciate, agli inizi
del “secolo breve”, dai primi “giuslavoristi”, tra i quali ap¬punto C. Altro
aspetto qualificante del giurista è l’aver concorso alla stesura del Codice
Civile, ai cui lavori preparatori, dai Ministri Solmi e Grandi (che è il
sottoscrittore anche del Codice di Procedura Civile, emanato anch’esso, furono
chiamate le più belle e fertili menti di magistrati e giuristi. Cura vari
aspetti della normativa (il contratto, l’obbligazione, diritto del lavoro),
tant’è, che nell’immi¬nenza della promulgazione, il Ministro Grandi gli inviò
una lettera personale di ringraziamento per il prezioso contributo offerto per
il codice. Sua vita coincide con l’immane conflitto mondiale, con la guerra
civile e con la scia di vendette e iniquità che ne conseguirono. Dopo la fuga
del Re e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, viene invitato ad
assumere la Presidenza della Corte di Cassazione trasferitasi a Brescia e
fors’anche la carica di Ministro Guardasigilli, ma egli fermamente rifiuta. Ha,
nono¬stante tale ferma presa di posizione nei confronti del regime fascista, sulla
base di taluni articoli che ave¬va scritto su “Il Messaggero” di Perrone, di
commento a leggi e que¬stioni giuridiche di alto livello, ovviamente di epoca
fascista, l’occhiu¬ta Commissione di epurazione, su decine di articoli scritti
in una plu¬ridecennale collaborazione, ne sco¬va qualcuno che suona come
apologetico del Fascismo. Nulla di più falso, quando era nota a tutti la
dirittura morale del magistrato in¬tegerrimo, del quale va appena ri-cordato,
ammesso ve ne fosse biso¬gno, che la sorella del Duce, Edvige Mussolini, gli
fece pervenire solle¬citazioni per una causa che la inte¬ressava. Ebbene, Coco
pro¬cedette secondo coscienza, quindi non nel modo auspicato dalla sorella del
Duce! L’epurazione ingiusta, nella quale probabilmente influirono anche motivazioni
non occulte di gelosia e invidia da parte di taluni, soprattutto per il fatto
che per me¬riti poteva benissimo aspirare alle funzioni di Primo Presidente
della Suprema Corte, ne mina rapida¬mente le condizioni di salute. Negli ultimi
mesi non volle proporre ri¬corso contro i provvedimenti che lo avevano colpito
e rifiuta cortese¬mente anche una candidatura in Parlamento, per le elezioni,
che i conterranei di Calabria gli avevano offerto con affetto e ri¬conoscenza.
Spira serenamente, non mancando nel suo testamento di perdonare cristiana¬mente
quanti gli avevano provocato tanto immeritato dolore. Codice Civile. Del
Lavoro. Delle societa cooperative e della mutue assicuratrici, delle societa
cooperative – disposizione generali – cooperative a mutualita prevalente.
Articoli: societa cooperative; societa cooperative a mutualita prevalente,
criterio per la definizione della prevalenza, requisiti delle cooperative a
mutualita prevalente. Del Lavoro. Le Società di MUTO SOCCORSO in Italia. Gobbi,
nel suo pregevole saggio Le Società di MUTUO SOCCORSO – cfr. Grice, the
principle of conversational (i. e. mutual) helpfulness -- dice che il nome di
società di MUTUO SOCCORSO è comunemente assunto d’associazioni, le quali hanno
per loro scopo principale di dare ai soci sussidi in caso di malattia o in
altre eventualità che interessino la loro famiglia o l’esercizio della loro
attività economica, ricavando i mezzi all’uopo principalmente da contributi dei
soci stessi. Considerato così il carattere economico-sociale dei sodalizi
muralisti, non possiamo sicuramente affermare che le prime traccie di essi si
riscontrino nelle antiche corporazioni d’arti e mestieri, nelle maestranze, nei
collegi, nelle università. Queste associazioni si proponeno scopi di difesa
professionale, di perfezionamento nell’arti esercitate dagl’associati. Qualche
volta, in via secondaria, l’esercizio di pratiche religiose; e spesso assumeno
importanza politica di prim’ordine e conferivano dignità nobiliare, come
nell’arti della repubblica di FIRENZE. Abbiamo però nel nostro paese esempi di
società mutualiste scaturite dal vecchio tronco della corporazione o del
collegio, o meglio che'di questo possono reputarsi trasformazione. Così e non
altrimenti noi possiamo considerare la società fra i falegnami e fabbri di
Faenza; l’altra pure di Faenza fra calzolai ed arti affini; la società veneta
Sovvegno Calafati al R. Arsenale; la Società Calafati del porto di GENOVA; la
Società dei Cappellai di Padova; il Consorzio degli Orafi ed Argentieri capi
d’arte di Roma. Nè diverso giudizio possiamo recare sui sodalizi che sorsero
nel secolo decimosettimo e nella prima metà del decimottavo. E questi sono: la
Società dei calzolai di Cesena; le due Società Maestri falegnami, ebanisti e
carrozzai e fra falegnami ed arti affini di Torino; la Società fra carrozzai,
sellai, fabbricanti di Torino; la Società fra calzolai padroni di Asti; la
Società Archimede fra operai fabbri, meccanici ed affini e fra fabbri ferrai e
serraglieri (proprietari di officina) (1700); la Confraternita Sovvegno fra
israeliti di Padova; le Società Riunite Sovvegni spagnuoli e tedeschi di
Venezia; il Pio Istituto lavoranti Milano, Società editrice libraria, pellai di
Torino; la Società Cocchieri e palafrenieri di Torino. Quantunque sorta nel 1738,
la Unione Pio-Tipografica Italiana di Torino può dirsi la prima che abbia
assunto dalle sue origini e poi meglio perfezionati con successivi adattamenti,
i caratteri del mutuo soccorso. Essa fu approvata con Regie patenti e poi nel
suo riformato organismo con Regie patenti 28 settembre 1770. E ira i sodalizi
che sorsero nella seconda metà del secolo decimottavo e possiamo considerare,
al pari della Unione Pio Tipografica di Torino, come le più antiche Società di
mutuo soccorso, meritano particolar menzione: la Pia Unione fra lavoranti
calzolai di Torino del i/54 e la Società dei Servitori di Faenza T . 1 -^ a s ?
c °nda metà del secolo decimottavo sorsero quindi in rippnr, • P rim ? Società
di mutuo soccorso, secondo il concetto moDaese affe[>m are che di buon'ora
si manifestò nel nostro Fara il^KfrfSr? 11 6 J° Uta A } P rev idenza sociale.
Ed è cosa singoconcettn°df nnl a Che ’ “® ntre secoQdo la evoluzione logica del
Sassari dalIe, f orme più semplici di essa dovrebbe videnza tipIIa lesse, il
risparmio, forma primigenia della pre previdenza mutuaPs/nT 116 0I ! ganicile .
sorse in Italia più tardi della Hlllacoo^fonì qUale C r blna * due elementi del
risparmio auanrìn <yìà ^ !• ^ prime Casse di risparmio sorsero nel 1822,
litaria, la quale si esu M, Jl ns P arm io, che è virtù so adatto a
raccoglierlo duò P«p.»?r ma - pa e ® e quando trova l’organo domestiche, ed in
questa anche nel segreto delle pareti quanto l’economiaVonetaria dp? 0 ^^^
fumare che esso è antico che l’atto primo deTsodalizfo ? 10va inoltre
considerare contributo che versa il socio 1Sta + e Un atto dl ris P a nmio; il
fini della mutualità, rappresenta La - 1 fondi occorren ti ai “lata, sottratta
alle spese vofottSie sp t np dei SU01 guadagni risparoccorre per i bisogni
della vita 6 6 n pUre risecata su quanto me„fo 0 U“liX a .S a m m uta 4,I?5', ’
ec ?l° 1 . d!,olmo " 0 no rapido l'inoroprimo dofsecoli“orsòrKtcietó Fi ”
0 al società di MUUO SOCCORSO. di dii Gl0va rammentarle dl Bergamo . Pr«
’camnen*»! !’ ls p. tut0 n | armoniTo’dS el Teatr’f) 1 r?Ìni SU Ì“ t ^
municipale Simoiie Mayr ano. la Pia Unione tessitori in seta areento l a
Società di M. S. fra cap’ aigento e oro di Tonno; nel 1884, la Società Assieme
a’gli altri benefici di ordine politico e 'sociale che la unificazione del Regno
ci recò, dobbiamo segnalare anche il rapido incremento nelle Società di mutuo
soccorso. Durante il periodo della prima metà del secolo decimonono solo 48
Società nuove videro la luce, come abbiamo veduto. Al 31 dicembre 1885, cioè
dopo 35 anni soltanto, la statistica a quella data denunzia la esistenza di
4896 Sodalizi e ah 31 dicembre 1894, dopo nove anni, ne troviamo 6722, con un
aumento di 1826. Vedremo in seguito quante e di qual forza siano quei sodalizi
al 31 dicembre 1904, secondo la recente statistica, pubblicata dall’Ispettorato
Generale del Credito e della Previdenza. Le Società di mutuo soccorso italiane,
nella loro generalità, sono associazioni che esercitano in modo prevalente
funzioni di carattere assicurativo col principio della mutualità, aggiungendo
spesso a queste altre funzioni accessorie dirette ad accrescere le forze
economiche e intellettuali e morali dei soci. Fra le funzioni di carattere
assicurativo ha prevalenza in tutte l’assicurazione di un sussidio in caso di
malattia. Spesso vi si aggiungono le spese funerarie in caso di morte ed un
sussidio una volta tanto ai superstiti. I sussidi di malattia sono commisurati
ai contributi, spesso con calcoli empirici, qualche volta alla stregua di
previsioni tecnicamente calcolate. Quasi tutte le Societàc he concedono sussidi
di malattia, per conseguire il diritto al sussidio fissano un periodo di tempo
dall’ ammissione, che comunemente chiamasi periodo di noviziato. Sono poche le
Società che accordano il sussidio subito dopo l’ammissione: 45 secondo l’ultima
statistica (1); tutte le altre vanno da un minimo di un mese ad un massimo di
24 mesi, e ve ne ha 120 nelle quali il periodo di noviziato supera i 24 mesi.
Ma il numero maggiore si condenza intorno al periodo da uno a 12 mesi: il 76
per 100 del totale. Non tutte le Società concedono il sussidio dal primo giorno
della malattia, sono anzi pocchissime quelle che lo concedono; le altre fissano
un periodo, che chiamono periodo di carenza, nel quale i soci non hanno diritto
al sussidio. Il periodo di carenza è di ordinario di uno a tre giorni, ma
giunge sino a dieci e per poche Società va oltre i dieci giorni. orefici ed
arti aifiai di Bologna, la Società Sant’Anna fra i maestri muratori di
Pinerolo; nel' 1835, la Società cocchieri e domestici di Sant’Antonio Abate di
Verona; nel 1836, la Società •di M. S. fra parrucchieri di Novara, la Società
di M. S. fra brentatori di Vercelli, la Società di M. S. fra lavoranti guantai,
tintori e conciatori di pelle di guanto di Torino, la Società operaia di M. S. fra
conciatori di Torino, la Società di M. S. fra parrucchieri di "Torino, la
Società dì vi. s. fra barbieri, parrucchieri e profumieri di Bologna; nei 1444,
il Pio Istituto di M. S. pei medici e chirurgi della città e provincia di
Bologna, la Società fra medici e chirurgi di Lombardia in Milano, la Società di
M. S. fra farmacisti, medici e veterinari di Parma, la Società lavoranti
calzolai di Pinerolo, la Società di M. S. fra marinai pescatori di Trapani; nel
1846, la Società di M. S. dei medici-chirurgi della città e provincia di
Ferrara, l’Istituto di M. S. fra medici, chirurgi e farmacisti di Roma e sua
provincia, la Società mutua beneficenza di Citta di Castello; nel 1847, la
Società di M. S. tra calzolai di Alba, la Società medico-farmaceutica di
Padova, l’Unione operaia patriottica fratellanza di Asti, la Società Femminile
di M. S. S. Bonifacio di Pinerolo, la Società Generale fra gli operai di
Pinerolo, l’Unione per le malattie di Verona, la Federazione italiana fra
lavoranti del libro (compositori) di Tonno; nel 1849, la Società di M. S. fra i
pompieri municipali di Ancona ; nel 1764, la Università dei pescivendoli
patentati di Roma Questi dati e i seguenti concernono le Società riconosciute
soltanto, per la quale la statistica ha potuto registrare notizie più copiose.
Si tratta quindi di osservazioni che concernono 1548 Società soltanto. Nè il
sussidio è concesso per tutta la durata della malattia.Società soltanto
sussidiano la malattia fino al suo termine; ma nelle altre assai raramente il
sussidio va oltre i 180 giorni in un anno, e il numero maggiore si conta fra
quelle che non vanno oltre 120 giorni La misura del sussidio di malattia per mo
te Società (il 4-2 per 1001 rimane invariata per tutta la durata della
malattia, in molte altre (il 50.4 per 100) varia, sia aumentando dopo alquanti
giorni sia diminuendo. L’assicurazione obbligatoria contro gl infortuni del
lavoro tutela oggi in Italia una larga massa di operai, ma non H tutela tutti:
l’artigianato, la mano d’opera agricola, le industrie ohe non applicano
macchine, sono ancora oggi fuori il campo dell assicurazione obbligatoria. E’
confortante perciò osservare nell azione dei nostri sodalizi muralisti, in via
se pur vuoisi sussidiaria, un aiuto integratore pei casi di infortunio. Per
quanto concerne la invalidità temporanea il numero maggiore delle Società (823
su 965) considerano questa agli effetti-del sussidio come una malattia
ordinaria; le altre danno il sussidio in misura diversa. Piu scarso è il numero
delle Società che danno sussidio in caso d’invahdita permanente (542), e il
sussidio per alcune è determinato sia in un assegno una volta tanto, sia in
forma continuativa;- per altre, e sono il numero maggiore, il sussidio è
indeterminato, viene dato, cioè, secondo la entità e la disponibilità dei fondi
sociali. E ancora in minor numero sono le Società che danno sussidi in caso di
morte per fa,tto di infortunio sul lavoro (464 soltanto); e questi sussidi sono
in misura determinata sotto forma di assegni per una volta o continuativi o di
pensioni o di spese funerarie, o in misura indeterminata. Quantunque
riferentisi alle Società riconosciute soltanto, hanno valore, come indice
tecnico, i dati relativi ai casi di malattia sussidiati, ai soci sussidiati,
alle giornate di malattia sussidiate ed agli oneri finanziari che ne derivano
alla Società. Di questi dati ripor Per ogni Società, in media, sono sussidiati
45.1 soci all’ anno, per 52 6 casi di malattia e per 995.3 giornate di
malattia, con una spesa media di 1007.02. Su 100 soci si hanno 29.1 casi di
malattia, sussidiati e sono sussidiati 25 soci. Per ogni caso di malattia sono
sussidiate giornate 18.7; e per ogni socio esistente sono sussidiate giornate
5.52. Questa media può rappresentare l’indice di morbosità nei soci delia
Società di mutuo soccorso ed ha grande valore per il migliore ordinamento
tecnico di questi sodalizi, per una più razionale corrispondenza fra i mezzi di
cui dispongono e gli impegni che assumono con la promessa statutaria. La spesa
media pei sussidi di malattia, annualmente, risulta di lire 5.64 per ogni socio
esistente. Nell’ordine stesso del mutuo soccorso devono porsi i sussidi per
spese funerarie di soci defunti. Molte Società provvedono direttamente alle
spese funerarie, alcune concorrono con la famiglia alle spese stesse. Non sono
infrequenti poi i casi di Società che danno sussidi alle famiglie dei soci
morti sia una volta tanto sia in forma continuativa. Sono relativamente poche
le Società che concedono sussidi di puerperio e di baliatico (l’8.9 per 100).
Nè sono molte le Società che provvedono con sussidi ai soci disoccupati (il 6.5
per 5 100). Questi dati si riferiscono a tutte Società delle quali si occupa la
statistica recente. Carattere degno del maggiore studio delle nostre Società
muiualiste è di aver attinto alla forza delle loro organizzazioni per dar vita
ad istituzioni cooperative a vantaggio dei propri soci. Questa geniale
filiazione della cooperazione dal seno della previdenza mutualista fu rilevata
ed illustrata dal Mabilleau in occasione di uno studio che, per conto del Musee
Sociale di Parigi venne a fare in Italia delle nostre Istituzione di previdenza
assieme al Conte di Rocquigny ed al Rayneri (1). La statistica recente ne dà
una conferma luminosa. Nel quadro seguente è indicato il numero delle Società di
Mutuo Soccorso che esercitano funzioni cooperative. COMPARTIMENTI Prestiti ai
soci Magazzini di consumo Cooperative di lavoro Cooperative di credito
Piemonte. 174 281 2 Liguria 19 15 Lombardia 233 46 1 Veneto 161 32 Emilia. 182
23 1 Toscana. 92 58 1 Marche 128 24 1 Umbria. 72 18 Lazio 63 2 . Abruzzi. 82 5
Campania. 150 10 Puglie 1 • 57 7 1 Basilicata. 27 Calabria 47 14 Sicilia. 95 17
Sardegna 15 Regno . .1597 552 5 2 Nella maggior parte dei casi non si tratta di
istituzioni autonome fondate secondo le norme del codice di commercio, ma di
i-ami di attività della stessa Società di mutuo soccorso operante coi fondi di
questa. Le Casse di prestiti sono principalmente dirette al fine di produrre un
maggiore rendimento coi fondi sociali, e quindi si comprende come esse siano in
numero maggiore (il 24.9 per 100). I magazzini di consumo, che sul totale
rappresentano 8 6 per 100 delle Società esistenti, primeggiano nel Piemonte,
dove il 21.3 per 100 delle Società hanno annesso il magazzino di consumo, e
merita particolare mensione quello della Società Generale operaia di .Torino,
reso ancora più forte dalla alleanza con la Cooperativa di consumo dei
ferrovieri. La Prévoyance Sociale en Italie - Paris, Armand Colin et C.«
Editeurs Fra gli scopi accessori delle nostre Società mutualiste meritano poi
particolare mensione quelli diretti alla istruzione dei soci; le Società vi
contribuiscono mediante biblioteche, scuole serali o festive, scuole di disegno
o industriali, ó pure mediante I’ assegnazione di premi, la provvista dei libri
e così via. Altri scopi accessori sono il collocamento dei soci disoccupati^ ed
alcune Società hanno annessi veri e propri uffici di collocamento; il
conferimento di doti alle figlie dei soci; la costruzione di abitazioni
operaie; la concessione dei sussidi alle famiglie dei soci richiamati sotto le
armi. Nei riguardi della costruzione delle case operaie la legge del 1903 sulle
case popolari contempla in modo particolare le Società di mutuo soccorso, dando
ad esse facoltà di impiegare una parte dei loro fondi in costruzione di case
pei propri soci. La legge vuole soltanto che le Società, le quali questa
impresa intendono assumere, costituiscano una sezione speciale. E già sotto
l’impegno di quella legge parecchie Società hanno chiesto ed ottenuto 1’
autorizzazione di intraprendere la costruzione di case Operaie. Un nuovissimo
ufficio assunto delle nostre Società di mutuo soccorso è quello di promuovere
la iscrizione, collettiva o individuale, dei soci alla Cassa Nazionale di
providenza per la invalidità e la vecchiaia degli operai. Contiamo nel nostro
paese Società le quali assicurano pensioni di vecchiaia tecnicamente calcolate:
sono modelli del genere le due Società, maschile e femminile, di Cremona. E
sonovi Società le quali non pensioni ma sussidi di invalidità o di vecchiaia
promettono ai loro soci in misura e qualità corrispondenti ai fondi
disponibili. E siccome le Società che corrispondono pensioni o sussidi' di
vecchiaia ai soci hanno per tale servizio costituito un fondo speciale
alimentato da speciali contributi o da avanzi di bilancio, la legge
institutrice della Cassa Nazionale di previdenza consente’ a queste Società di
versare alla Cassa i fondi così raccolti e le future contribuzioni, inscrivendo
ad essa collettivamente i soci aventi diritto a pensione ed accorda a quei
soci, segnatamente i più anziani, qualche maggior favore. Quel precetto della
legge è provvido, contiene un germe che dovrebbe essere sviluppato, fecondato
da nuove e più larghe concessioni per condurre i sodalizi mutualisti a divenire
organi intermedi attivissimi fra l’operaio e la Cassa Nazionale, sull’esempio
di quanto con maravigliosi risultati viene praticandosi nel Belgio. Alcuni
credono che, per mantenere vivo lo spirito di fratellanza per aumentare gli
elementi che fanno fiorire e cementano la solidarietà mutualista, sia opportuno
conservare alle Società di mutuosoccorso il servizio di pensioni di vecchiaia,
di perfezionarlo. Ed altri persuasi che quei sodalizi non possono coi soli
contributi dei b^ C n t rni°HAi I ìr e i+ PenS10ni vec ?. hiaia sufficienti ai
più elementari vorrebbero che una parte delle risorse assicurate - e i ^ preTld
® nza 0 nu °ve risorse affluissero a quelle Società che intendono mstituire o
continuare un bene ordinato servizio di pensioni di vecchiaia. ordinato Io non
posso, senza venir meno alle mie convinzioni, manifestate già in pubbliche
conferenze, accogliere 1’ una tesi nè 1’ altra. Non occorrono lunghe
considerazioni per dimostrare condannevole la prima. In un paese in cui è sorto
un Istituto, il quale, con mezzi forniti dallo Stato, può assicurare pensioni
di vecchiaia in misura superiore a quella cui possono provvedere istituzioni o
sodalizi privati, si renderebbe un cattivo servizio ai lavoratori
consigliandoli a preferire la cassa pensioni della Società mutualista cui
appartengono. Nè si può ammettere che le inscrizioni dei soci di un gruppo
operaio alla Cassa Nazionale rallenti i vincoli della fratellanza e della
solidarietà. La Società, organo intermedio fra il socio e la Cassa Nazionale,
non affievolisce perciò i suoi rapporti coi soci, anzi li afforza, procurando
ad essi maggior vantaggio. E poi, come in tutti i fenomeni sociali ed
economici, vi sono virtù compensatoci che colmano le lacune e riconducono
rapidamente 1’ equilibrio per un momento turbato. La seconda tesi è pericolosa
per le conseguenze cui condurrebbe: il fatale spezzamento delle forze le quali
per dare il maggiore effetto utile devono convergere in un unico grande e
solido organismo, nel quale soltanto può giuocare, in tema di assicurazioni, la
legge così proficua dei grandi numeri. In un sistema d’assicurazione libera,
nel quale, pure come nella obbligatoria, devono nécessariamente concorrere i
tre elementi: lo Stato, il padrone, l’operaio, non si può ammettere che, accanto
all’Istituto nazionale, il quale può funzionare e divenire centro potente di
attrazione soltanto per la larghezza dei mezzi che gli si procurano, vivano
Istituti privati e diano gli stessi buoni risultati anche procurando ad essi
aiuti speciali e peggio ancora se questi vengono sottratti all’Istituto
Nazionale, L’esperimento dell’assicurazione libera non può farsi che all’ombra
di un grande Istituto verso il quale convergano le cure assidue dello Stato, la
simpatia delle classi dirigenti, la fiducia dei lavoratori. La legge operò
quindi saviamente quando volle associare alla grande opera dell’assicurazione
per la invalidità e la vecchiaia degli operai le forze, le iniziative dei
sodalizi mutualisti ; ed il legislatore farà ancora meglio se aumenterà gli
stimoli, con un ben congegnato sistema di premi, per la iscrizione dei soci
della Società di mutuo soccorso. Intanto sono salutari gl’incitamenti che
l’amministrazione del grande Istituto adopera presso le nostre Società
mutualiste, fu provvido il pensiero del Ministero di agricoltura, industria e
commercio, il quale, con R. Decreto 19 marzo 1905, bandì un concorso a premi in
danaro ed in medaglie d’oro e di argento da conferire a quelle Società di mutuo
soccorso che al 30 giugno del corrente anno dimostreranno di avere contribuito
efficacemente alla iscrizione dei propri soci alla Cassa Nazionale di
previdenza. Di queste buone iniziative già si raccolgono copiosi i primi
frutti. Sono molte le società che hanno inscritto collettivamente o procurato
le inscrizioni individuali dei loro soci. Si hanno notizie precise di 73
sodalizi a tutto il mese di febbraio scorso. Queste 73 Società hanno inscritto
alla Cassa Nazionale, 16,078 soci. Meritano particolare mensione: la Società di
m. s. della ditta Ginori, di Sesto Fiorentino che ha inscritto tutti i soci
(587); la Società Generale di m. s. per le operaie di Milano che ne ha
inscritto 568; la Società operaia di m. s. di Modena che ne ha inscritto 519;
la Società di m. s. di Molfetta. (Bari) che ne ha inscritto 512. 3.° La
legislazione e la giurisprudenza. Le Società di mutuo soccorso sono regolate in
Italia dalla legge 15 aprile 1886. Questa contempla però soltanto le Società
Operaie. Il legislatore temè che con le forme assai semplici per il
riconoscimento giuridico fissate nella legge, senza alcun controllo della
potestà politica, potessero rivivere, sotto la specie dell’ associazione
mutualistica. le soppresse corporazioni religiose e quindi volle che le Società
composte di operai soltanto potessero chiedere ed ottenere il riconoscimento
giuridico con il procedimento escogitato. La formula rigida della legge è stata
però largamente temperata dalla giurisprudenza; la quale ha ammesso che possa
considerarsi operaia una Società costituita in gran parte da operai. E così si
è potuto ammettere anche nelle Società operaie l’intervento di soci benemeriti,
di soci fondatori, che con largo concorso pecuniario esercitano il benefico
ufficio del patronato. Le Società di mutuo soccorso non composte di operai
possono ottenere il riconoscimento giuridico in base all’articolo 2 del codice
civile, come enti morali, e seguendo le norme che all’ uopo furono tracciate
dal Consiglio di Previdenza (1). Qui è opportuno rilevare che la giurisprudenza
ha riconosciuto nelle Società di mutuo soccorso i caratteri dell’ ente morale.
E quindi non ammette che in caso di scioglimento, il patrimonio sociale possa
essere distribuito fra i soci superstiti,jjma debba essere devoluto a scopi
afllni o in opere di beneficenza, e vuole che le Società di mutuo soccorso
nello acquisto di immobili, nell’accettazione di doni o di legati siano
autorizzate con decreto Reale, ai termini della legge del 1850 che contempla
appunto enti morali. a uà, ^aucenena aei j naie Civile, depositando copia
autentica dell’atto costitutivo e statuto. statuto. Le condizioni che la legge
vuole adempiute sono soltanto le seguenti : 1. Le Società devono proporsi tutti
o alcuni dei fini seguenti: assicurar ai soci un sussidio nei casi di malattia,
di impotenza al lavorò o di vecchiaia ; venir in aiuto alle famiglie dei soci
defunti. Possono inoltre; cooperare all’ educazione dei soci e delle loro
famiglie ; dare aiuto ai sòci per l’acquisto degli attrezzi del loro mestiere ;
esercitare altri uffici propri delle istituzioni di previdenza economica. 2.
Gli statuti delle Società devono determinare espressamente; la sede dèlia
Società; i Ani pei quali è costituita ; le condizioni, la modalità d’ammissione
e di eliminazione dei soci; i doveri che i soci contraggono e i diritti che ne acquistano
; le norme e le cautele per l’impiego e la conservazione del patrimonio sociale
; la disciplina alla cui osservanza è condizionata la validità delle assemblee
generali, delle elezioni e delle deliberazioni; la costituzione della
rappresentanza della Società in giudizio e fuori; le particolari cautele con
cui possono essere deliberati, lo scioglimento, la proroga della Società e le
modificazioni degli sta-, tuti, sempre che le medesime non. siano contrarie
alle disposizioni della legge. La concessione della personalità giuridica alla
Società di mutuo soccorso è quindi secondo la legge del 1886, subordinata
soltanto all’ esame estrinsero dell’adempimento delle condizioni dianzi
indicate. Non si chiede come ne fn manifestato il proposito in alcuni disegni,
di legge presentati prima che si giungesse alla legge del 1886, la
dimostrazione tecnica della corrispondenza fra contributi e sussidi, non si
impone l’impiego dei fondi sociali in determinate specie di investimenti. Deve
però avvertirsi che la legge parla di sussidi e dalla discussione parlamentare
risulta che si volle escludere pensatamente la parola pensioni, implicando un
regolare servizio di pensioni necessariamente la dimostrazione di un
ordinamento tecnico adatto allo scopo. Nè si può dire che la facoltà di
corrispondere pensioni possa vedersi compresa nella formula della legge : «
esercitare altri uffici propri delle istituzioni di previdenza economica ». Si
tratta di una funzione che ha speciale importanza che non può essere esercitata
senza un ordinamento tecnico preciso, che implica impegni a lunga scadenza e
non si può in modo assoluto ammettere, tenuto conto anche della discussione
parlamentare, che il legislatore abbia voluto concedere di straforo l’esercizio
di una . così importante funzione. B la giurisprudenza ha confermato il
pensiero del legislatore ammettendo che occorra una speciale concessione
governativa per' esercitare il ramo pensióni di vecchiaia o di invalidità;
concessione subordinata alla dimostrazione di un ordinamento tecnico che dia
sicurezza per il mantenimento degli impegni assunti (1). Nelle norme preparate
dal Consiglio della Prev^nza per a concessione della personalità giuridica
mediante deci eto .R®* 1 ® a “® Società di mutuo soccorso non operaie, si
chiede qualche cosa di più di quello che la legge del 1886 chiede alle Società
operaie. Può sembrare a una prima impressione, che ciò costituisce una c0I1 ^
10ne meno favorevole alle Società che non possono ottenere i 1 1 conoscimento
giuridico altrimenti che con un atto del potere esecutivo. Ma ove si consideri
che si tratta di Società fra persone che hanno qualche maggiore coltura, non
sembrerà eccessivo chiedere ad esse una più razionale discriminazione negli
scopi, qualche maggiore dettaglio negli Statuti. E nello stabilire quelle nome
il Consiglio della Previdenza si è anche proposto l’obbiettivo d additarle ad
esempio alle Società operaie. La legge chiede il minimo, e non può quinci
escludere che si faccia di più e meglio. I vantaggi che la legge del 1886
consente alle Società di mutuo soccorso riconosciute sono i seguenti: esenzione
dalle tasse di bollo e registro, conferita alla Società cooperative
dell’articolo 228 del codice di commercio; esenzione dalla tassa sulle
assicurazioni e dall' imposta di ricchezza mobile, come all’ articolo 8 della
legge 24 agosto 1877, numero 4021; parificazione alle Opere pie per il gratuito
patrocinio, per la esecuzione dalle tasse di bollo e registro e perla misura
dell’imposta di successione o di trasmissione per atti ira soci ; esenzione da
sequestro e pignoramento dei sussidi dovuti dalle Società ai soci. Gli obblighi
delle Società registrate, come anche di quelle riconosciute con decreto Reale,
si riassumono nell’invio del proprio Statuto al Ministero di agricoltura,
industria e commercio e nelle comunicazioni allo stesso Ministero dei
rendiconti annuali i quali sono compilati sopra moduli dal Ministero stesso
forniti gratuitamente. Il Ministero esamina i rendiconti annuali e spesso dà
buoni consigli per la migliore gestione del patrimonio sociale, mettendo in
guardia il sodalizio contro la tendenza di spese suutuarie, per un più cauto
impiego dei fondi disponibili. Nessun altra ingerenza il Ministero esercita
nelle Società registrate, nè esercita ufficio di vigilanza sovra di esse, non
potendo sottoporle ad ispezioni, scioglierne le amministrazioni, nominare
Commissari Regi. Nè la legge del 1886 nè altre leggi, oltre i vantaggi di
ordine fiscale, conferiscono alle Società di mutuo soccorso aiuti diretti o
inni Il Consiglio di Previdenza non espresse divei del 1897, cosi concepita «
Le Società di mutuo so< lità giuridica ai termini della legge del 15 aprile
- -.-e pensioni, ossia rendite vitalizie jn^misuraJìssa e prestabi i una nota
al modello di statuto spirano ad ottenere la personas possono proporsi di assi
diretti dello Stato. I nostri sodalizi mutualisti vivono esclusivamente, o
quasi, eccettuate le non frequenti obblazioni dei benefattori, attingendo le
proprie forze alle contribuzioni dei soci. E ciò, a mio giudizio, costituisce
il loro miglior vanto. Occorre però tener conto degli aiuti di carattere non
continuativo e straordinario che vengono ad esse nei concorsi a premio e da
sussidi speciali conferiti dal Ministero di agricoltura, industria e commercio.
Nel campo dei concorsi a premio meritano particolare mensione quelli che una
volta con alquanta frequenza indiceva la Cassa di Risparmio di Milano fra le
Società di mutuo soccorso meglio ordinate. Nel 1882 fu bandito un concorso a
premio, di lire 3000 (1500 offerte dal comm Besso e 1500 date dal Ministero)
per il miglior ordinamento delle Società di mutuo soccorso; enei 1901 ne fu
indetto un’altro dal Ministero con un premio di mille lire, due di cinquecento
e con medaglie di argento o di bronzo a quelle Società operaie di M. S. che
avessero meglio provveduto ad organizzare e garantire un servizio di rendite
Vitalizie ai soci nei casi di inabilità al lavoro o di vecchiaia, sia
direttamente con apposito fondo sociale, sia mediante l’inscrizione dei soci
alla Cassa Nazionale di previdenza. Ho rammentato più sopra il concorso a premi
del 1905. Incoraggiamenti morali vengono dal Governo alle Società di mutuo
soccorso, mediante concessione di medaglie di benemerenza. Nella occasione
della Esposizione Generale di Torino del 1882, il Ministero istituì premi
consistenti di quattro medaglie d’oro di prima Classe, cinque di seconda e 12
medaglie di argento da conferirsi a quelle Società Operaie che avessero dato
prova di miglior ordinamento e di più lunga esistenza con risultati efficaci,
giovando anche con le scuole e con le biblioteche alla istruzione degli operai.
E frequensemente il Ministero concede medaglie di Benemerenza ai sodalizi
operai che hanno dato prova per lunga serie di anni di buon ordinamento e di
costante devozione ai principii della mutualità. Nè sono infrequenti i sussidi
in denaro, non molto larghi data la parità dal fondo all’uopo stanziato, che il
Ministero dà alle Società operaie che più si addimostrano bisognose di aiuti.
A. Lo stato attuale. La recente statistica sulle Società di mutuo soccorso,
elaborate dell’ Ispettorato generale del credito della previdenza, registra la
esistenza in Italia al 31 dicembre 1904 di 6535 Società delle quali
riconosciute 1548 non riconosciute 4987 Abbiamo veduto più innanzi che la
statistica del 1892 denunziava al 31 dicembre di quell’ànno la esistenza di
6722 Società di mutuo soccorso; e quindi nel decennio, in luogo di riscontrare
un incremento, come erasi verificata, e notevole, dal 1885 al 1894, si constata
uua diminuzione di 187 Società, e cioè, in cifra media, del 2 - 8 per cento. La
diminuzione più notevole si osserva nell’Italia meridionale e nell’insulare ed
in parte della centrale; si giunge sino al 48. 1 per cent© nelle Puglie. Ma per
compenso si ha un aumento nell’ Italia settentrionale e nel rimanente della
centrale; aumento che riuscì notevole nel Veneto col 24.2 per cento e nella
Lombardia col .15.0 per cento. Abbiamo detto più innanzi che la diffusione
delle Società di mutuo soccorso, assai lenta nella prima metà del secolo decimonono,
andò accentuandosi dopo la unificazione del Regno, e riportammo, a
dimostrazione, le cifre delle statistiche del 1885 e del 1894. La dimostrazione
riesce più evidente classificando il numero delle Società per anno di
fondazione. Dai numeri assoluti si traggono le medie seguenti su 100 Società
esistenti al 31 dicembre 1904: Società fondate prima del 18*0 % . 1.0 dal 1850
al 1859 2.7 dal 1860 al 1869 10 . 3 dal 1870 al 1879 19 . 2 dal 1880 al 1884 18
. 9 » » dal 1885 al 1889 14 . 5 dal 1890 al 1894 12 . 6 dal 1896 al 1899 8.7
dal 1900 al 1904 12 . 1 Il decennio più fecondo è stato quello dal 1880 al
1889, con una inedia di 33 4: vien dopo il decennio 1890-99 con 21.3; e terzo
il decennio 1870-79 con 19 2. Ma l'incremento più rapido si determina appunto
dal 1860 in poi. Esaminando le cifre afferenti ai vari compartimenti è da
notare che, mentre nell’Italia settentrionale e centrale è piccolo il numero
delle Società instituite negli ultimi anni, questo numero è notevole
nell’Italia meridionale ed insulare. E siccome in queste regioni si riscontra
pure la maggior diminuzione delle Società nel periodo 18951904, si deve
concludere che in esse le Società hanno vita più breve. Tale ipotesi trova
conferma nelle cifre seguenti: Su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1891,
numero di quelle sciolte nel decennio: Piemonte Liguria Lombardia Veneto
Emilia. Toscana Marche Umbria Abruzzi Campania Puglie. Basilicata Calabria
Sicilia . Sardegna Regno 25 . 2 L’indice più alto di diminuzioni lo danno le
Puglie; seguono la Basilicata, la Calabria, la Campania, la Sardegna. ° Delle
6,535 Società esistenti al 31 dicembre 1904 sono composte di soli uomini . di
sole donne di uomini e donne se ne ignora la composizione . 5,078 252 1,017 189
Le Società esistenti al 31 dicembre 1904, abbiamo veduto, sono 1548. Di queste
42 soltanto sono riconosciute con decreto Reale e 1506 con provvedimento del
Tribunale, ai sensi della legge 15 aprile 1886. Al 31 dicembre 1894 le Società
riconosciute erano 1156; vi fu quindi nel decennio un aumento di 392 ed in
media del 33. 6 per %• L’aumento fu più sensibile nell’Italia meridionale. Su
100 Società esistenti, si contano 23.7 Società riconosciute. Quando si
consideri che la legge del 1886 è sufficientemente liberale, non impone vincoli
e formalità costose, lascia ai sodalizi la maggiore libertà di azione nello
esplicamento dei fini che si propongono, sullo impiego dei fondi, non le
asservisce ad alcuna vigilanza governativa, male si spiega il lento incremento
delle Società riconosciute e il loro scarso numero rispetto alla massa. Forse
deve rintracciarsi la ragione del fatto in pregiudizi non ancora rimossi
dall’animo dei nostri lavoratori, nella imperfetta conoscenza dei benefizi che
la personalità giuridica reca, indipendentemente da quelli d’ordine finanziario
conferiti dalla legge. Non vogliamo ammettere che influiscano anche tendenze
che esulano dal campo della mutualità, del fratellevole aiuto. Queste tendenze
trovano più conveniente esplicazione in altre forme di organizzazioni, che in
ben ordinato reggimento politico hanno diritto di cittadinanza per la legittima
difesa di interessi professionali e per la protezione del lavoro. Il,numero dei
soci aggregati alle Società di mutuo soccorso, secondo le statistiche alle tre
date, risulta nelle cifre seguenti: nel 1885 730,475 nel 1894 - 933,685 nel
1904 926,026 Siccome però non tutte le Società diedero sulle tre indagini le
indicazioni del numero dei soci, assumendo, per la integrazione, il criterio
della media dei soci per ciascuna Società, si avrebbero le cifre seguenti : nel
1885 — 760,085 nel 1894 — 956,328 nel 1904 — 953,455 La media dei soci per ogni
Società nel 1885 risulta di 153.2, nel 1894 di 142 . 3, nel 1904 di 145 . 9. Il
numero dei soci è aumentato in tutti i compartimenti dell’Italia settentrionale,
escluso il Piemonte: è aumentato anche nell’Emilia, nella Toscana, nell'Umbria
e nella Sicilia; ed è diminuito in tutti gli altri compartimenti. Nel periodo
1895-1904 il numero medio dei soci è aumentato in Liguria, Emilia, Campania,
Sicilia e Sardegna, si è mantenuto eguale in Lombardia ed è diminuito negli
altri compartimenti. Sopra 100 Società esistenti al 31 dicembre 1904, la
diversa composizione numerica di esse è indicata dalle cifre seguenti: Sino a
99 soci . — 53 . 6 Con soci da » » da » » da » » da » » da » » da b b da 1000 a
1500 — 0 . 5 b b oltre . 1500 0.3 100 a 199 — 27 . 6 200 a 299 27 . 3 300 a 399
4.5 400 a 499 2.3 500 a 699 1.2 700 a 899 0.8 In complesso, in tutti i
compartimenti, esclusa 1’ Emilia ove se ne ha il 43 . 2 per 100 e la Lombardia
ove se ne ha il 46 . 0 per 100, più della metà delle Società conta meno di 100
soci; ed in generale un quarto circa delle Società conta un numero di soci da
100 a 200. La statistica del 1904 discrimina anche i soci secondo i sessi. Dei
926,026, soci, 849,418 sono uomini, 76,608 sono donne. Sul movimento economico
dqlle Società di mutuo soccorso si possono fare raffronti con la statistica del
1885; quella del 1895 non contiene alcuna notizia sul patrimonio sociale. Ecco
i dati riferentisi alle due date: Entrata. Spese . Patrimonio L. 7. L.
14,632.425 .404.205 » 11.790.028 1.200.840 » 72.395.544 Il patrimonio medio per
ciascuna Società, che nel 1885 era di L. 9.147,97, nel 1904 ammonta a L.
12.-017,85. Volendo integrare le cifre per le Società, che nei due tempi non
diedero la indicazione del patrimonio sociale, assumendo come criterio il
patrimonio medio, si avrebbero le cifre seguenti: Con lo stesso metodo si
possono integrare le cifre afferenti alle entrate ed alle spese. Secondo tali
risultati,!che non si possono discostare molto dalla ventarsi ha nel 1904 in
confronto al 1885 un aumento di L. 4.919.727 nelle entrate, di L; 5.089.469
nelle spese; e di L 33.748 218 sul patrimonio, nella misura cioè del 75 . 13
per 100. t 9 o^? trata media .nell’ anno per ciascuna Società risulta di L.
2,342,43, con un mimmo di L. 861,63 per le Società degli Abruzzi e con un
massimo di L. 3833,27 per le Società della provincia di Roma. La media delle
entrate per ciascun socio è di L. 16 con un Lombardia L ’ 8 ’ 3 ° Pei> la
Calabria e un massimo di L. 18,92 per la „ n +S„ el ^ m . e ^ Ì prÌ - nc y? a À
i .’ di cui si compongono le entrate sono tre: “SJ on ? dl ® oc ì effettivi,
contribuzioni di soci non effettivi, donazioni ed altro (patronato), altre
entrate. Sopra ogni cento lire di entrate nel 1904,1 tre elementi davano le
cifre seguenti: Contribuzioni di soci effettivi .... 68 80 Contributi di soci
non effettivi, donazioni, ecc 7 28 Altre entrate . . y . . . 29 * 47 Il
cfflpite inabor 6 di entrata è dovuto, come abbiamo già notato, alle
contribuzioni dei soci effettivi. E la proporzione diventa maggiore quando si
consideri che le altre entrate slno in malsima dei fondi impiegati, i quali
alla loro volta derivano dalle contribuzioni dei soci. La media delle entrate
1eT3 V 9 ate 5 8 da nn ^urioni dei Soci effettivi Varia da^ SSmo Liguria 58 P
°° m Basillcata ad un mas simo dall’82 per 100 in Si hanno notizie più
particolareggiate sulle entrate delle Società riconosciute ; ma queste, desunte
dai loro rendiconti, si riferiscono al 1903. Le percentuali di queste entrate
sono le seguenti: Redditi patrimoniali Contribuzioni di soci Introiti lordi
Redditi straordinari Rendita di beni immobili ... 1. 69 ( Interessi attivi.17.
13 (effettivi.38.60 ^ non effettivi.0. 99 l di Magazzini di consumo 27. 58 1 di
aziende sociali.6.85 .7.16 Anche per queste Società, nella media generale del
Regno, il maggiore delle entrate deriva dalle contribuzioni dei soci effettivi,
esclusi però il Piemonte, la Toscana e la Calabria ove proviene dagli introiti
dei magazzini cooperativi, e la Sicilia ove la maggior parte delle entrate sono
dovute alla assunzione da parte di due Società di Palermo, quella fra la gente
di mare e l’altra dei capitani marittimi, di appalti di carico e scarico di
merci. In Lombardia le contribuzioni dei soci effettivi eguagliano quasi i
redditi patrimoniali; ivi infatti sono le Società più antiche e con patrimonio
più rilevante. Le contribuzioni dei soci non effettivi variano dal 2. per 109
nell’Umbria, al 0. 5 per 100 nelle Puglie, perchè appunto nelle Società di
questa regione è minimo il numero dei soci non effettivi. La spesa media per
ciascuna Società nel 1904 risulta di L. 1902,84 e per socio di lire 13. Nelle
medie per Società della spesa si va da un minimo di lire 679,30 per le Soc età
degli Abruzzi ad un massimo di lire 2925.51 per quelle della provincia di Roma;
il minimo ed il massimo delle spese si riscontrano quindi nelle stesse regioni
nelle quali si hanno il minimo ed il massimo delle entrate. La spesa per ciascun
socio oscilla fra un minimo di lire 6-,67 negli Abruzzi e un massimo di lire
16,51 in Liguria. Nello insieme delle Società non è riuscita possibile una
minuta discriminazione delle spese: si è dovuto star paghi alle due grandi
divisioni: spese per sussidi, altre spese. Nel 1904, rispettivamente ad ogni
100 lire di entrata, si hanno per il Regno le cifre seguenti: spese per
sussidi.51.4 altre spese.29.7 Le spese superarono le entrate dell’1.8 per 100
soltanto in Liguria: nelle altre regioni le spese furono inferiori alle
entrate. Nelle Società della Basilicata, della Calabria, della Sicilia la
proporzione delle altre spese alle entrate è superiore a quella delle spese per
sussidi ai soci e alle loro famiglie, indizio di non buono e parsimonioso ordinamento
amministrativo ; nel resto del Regno la parte maggiore delle spese fu assorbita
dai sussidi ai soci e alle loro famiglie. Come per le entrate così per le spese
si hanno più minuti ragguagli nelle spese delle Società riconosciute, erogate
durante l’anno 1903. Nelle cifre seguenti si dà la ripartizione di 100 lire di
spesa Spese di malattia j f^^se '. ! : Sussidi di cronicità ed impotenza al
lavoro Sussidi di vecchiaia. Soci defunti Altri sussidi l Onoranze funebri
Sussidi alle famiglie 19,45 3.01 4,40 10 87 0.75 2.62 1.34 03 ( Magazzini di
consumo . < Altre aziende sociali . ’S g ( Altre spese. Spese di
amministrazione Spese straordinarie. . . Le spese per sussidi assorbono il
42.44 per cento del totale delle spese e vanno da un minimo del 14.21 per cento
in Sicilia ad un massimo del 69.57 per cento nell’ Umbria. In tutte le regioni,
esclusa la Lombardia, si nota che la maggior parte delle spese per sussidi va
nei sussidi di malattie, col massimo del 50 per cento nell’Umbria. In Lombardia
invece hanno prevalenza i sussidi di vecchiaia. Le spese pei magazzini di
consumo sono rilevanti nel Piemonte (56.02 per cento), nella Toscana (43.51 per
cento), in Calabria (39.97 per cento). Le spese di amministrazione variano
dall’ 8.02 per cento in Piemonte, al 33.47 in Basilicata. . 28.78 . 7.05 . 2.6S
. 13.14 . 5.91 La sostanza patrimoniale delle Società al 31 dicembre 1902 che
come abbiamo veduto, è di lire 72.395.544. ragguagliata per Società e per soci
e distinta fra Società registrate e Società non registrate, dà le cifre
seguenti: patrimonio medio. per ciascuna Società Società riconosciuta 24.267,00
Società non riconosciuta 7.887,67 Riconosciute e non riconosciute 12.017,85 per
ciascun Sòcio 123.32 60,16 82,50 È più alta la media nelle Società
riconosciute; e ciò non dimostra che il riconoscimento giuridico sia stato per
quei Sodalizi elemento di singolare prosperità, ma che i sodalizi più forti
meglio dotati e quindi più evoluti hanno sentito e voluto tutti i vantaggi
della personalità giuridica. Dalla media generale del patrimonio per Società si
discostano, nel massimo la Lombardia con lire 20.655,70, nel minimo la Calabria
con lire 4 391,09; gli stessi scarti si riscontrano nella media del patrimonio
per socio : 122.97 in Lombardia, 40.15 in Calabria. Si hanno i dati della
composizione del patrimonio soltanto per le Società riconosciute, e si
riferiscono al 31 dicembre 1903. A quella data il patrimonio delle Società
riconosciute ammontava a lire 35.976.981 ed era cosi composto. Beni stabili L.
3.580.079 10,0 Titoli pubblici e privati 15.239,047 42,6 Mutui e depositi a
risparmio . « 14.648 374 40.7 Altre attività.» 2.50S.461 6,9 La misura massima
di impieghi in immobili è nelle Società delle Calabrie ove si ha il 33.5 per
cento, il minimo si riscontra in quelle della Campania col 2.5 per cento. Negli
investimenti in titoli pubblici e privati il massimo è nella provincia romana
col 70.3 per cento. Nelle Marche invece si ha il massimo in mutui e depositi a
risparmio con 1’ 81.9 per cento ; la Liguria presenta invece in questi impieghi
il minimo col 13.8 per cento. Hanno speciale importanza le cifre che
discriminano le Società di mutuo soccorso secondo la entità del patrimonio da
esse posseduto. Riferiamo qui le cifre assolute e proporzionali del numero
delle Società per entità patrimoniale, al 31 dicembre 1904. Numero delle
Società che hanno un patrimonio: Da L. 0 a 999 Cifre assolute 1.517 Su 100
Società 23.6 11 1000 a 4999 2.117 35,3 » 5000 a 9999 9S9 16.5 n 10.000 a 49.999
1.239 20.6 n 50.000 a 99.999 156 2.6 n 100.000 a 249.999 60 1.0 ii 250.000 a
49.1,999 12 0.2 n 500.000 a 1.000.000 5 0.1 Oltre un milione 4 tu Senza
indicazione del patrimonio 535 Di 5999 Società che hanno comunicato 1’
ammontare del loro patrimonio, solo 81, delle quali 54 riconosciute, hanno un
patrimonio superiore a lire 100,000 ossia circa 1' 1.10 per cento. 11 23.6 per
cento delle Società ha un patrimonio inferiore a lire 1000; il 35 3 per cento
un patrimonio da lire 1000 a 5000, il 16.5 per cento un patrimonio da lire
5.000 a 10.0000 ; il 20.6 per cento un patrimonio da lire 10.000 a lire 50 000
e il 2.6 per cento un patrimonio da lire 50.000 a 100.000. Le federazioni.
Nelle norme preparate dal Consiglio di Previdenza per il riconoscimento
giuridico delle Società composte di non operai è ammessa la costituzione di
consorzi fra Società riconosciute per formare un fondo di riserva consorziale,
per assumere impiegati comuni, per stipulare contratti con medici e farmacie,
per mettere in comune alcuni servizi, o anche alcune assicurazioni. Si può stringere
anche un accordo fra Società non tutte legalmente riconosciute per esercitare
un controllo sui soci sussidiati o per regolare il passaggio dall’uno all’
altro sodalizio di quei soci che cambiano resiTa legge francese del 1898 sulle
Società mutualiste consente la costituzione di unioni fra le Società,
conservando ciascuna la propria autonomia, aventi per oggetto principalmente :
l’organizzazione a favore dei membri effettivi delle cure e dei soccorsi
indicati nella legge e specialmente la instituzione di farmacie nelle
condizioni stabilite dalle leggi speciali sulla materia ; l’ammissione dei
membri effettivi che abbiano cambiato residenza; il regolamento delle pensioni
di vecchiaia; 1’ organizzazione di assicurazione mutua pei rischi diversi a cui
le Società debbano provvedere, specialmente la fondazione di Casse di pensioni
e di assicurazioni comuni a più Società per le operazioni a lunga scadenza e le
malattie di lunga durata; il servizio del collocamento gratuito. La statistica
ufficiale non registra la esistenza in Italia di Consorzi o d Unioni costituiti
per gli scopi predetti, che hanno alquanta analogia eon quelli indicati nelle
norme. In recenti Congressi regionali di Società di mutuo soccorso fu
deliberata la costituzione di unioni regionali, ma ancora non possiamo dire se
furono costituite e per quali scopi. Nel primo Congresso nazionale delle
Società di mutuo soccorso tenuto a Milano il 29 giugno 1900 fu deliberato
«d'organizzare fra m loro tutte le Società operaie di mutuo soccorso in federazione
nazionale, salvo studiare il modo di organizzarle razionalmente, con a nomma di
una Commissione esecutiva provvisoria », fissando intanto a Hi n^ ta 1 o annUa
dl, pre,. 5 per le Societ à aventi non più di 100 soci t pe f <3 £ e i e dl
- un numero superiore; e «di indire un mprf Ha] lavnnn Fede n azl one delle
Società operaie, quelle delle CaLa fnlliìl! 6 ?r e Ì Ie delle Cooperative per
un’intesa comune ». con?t^ a aduna " za deI 5 settembre dello stesso anno
1900, Essa G ha S «Tintento F ri? e n aZ10D H SOn ° P reyaIen temente d'indole
morale. Società federate ed?,?^ ed - ere . alla tutela de ^ interessi delle
nomico delle classi i a JÌ,!f + lb - U ^ re a miglioramento morale ed ecoraS
ungeretei intenti ^ per mezzo delIa Previdenza ». Per aggiungere p ento la
Federazione si propone in modo speciale: previdenza e cooperazionp A n< ?I 6
i ment + ) d '^ istituti di mutualità, di Sano effettì^SX*teoon P«r Chè ris
S°" fare opera di solidarietà con tutte le li“,QM . de ! lavoratori; e,SC
° P0 .iirftr 1 " t‘la<i'asse lavoratrice; “ P6r slazione che valga a
svfiunnare^Am 6 dÌ U ° . si,f tema completo di legia tutelare le ragioni
deMavoro “ p pi . u 1 . bene . fiz i dell’associazione, sulle classi
lavoratrici; 6 ad alIeviare i tributi che gravano nella m^deUo^ ifm^ 00Ì ^
Società federate, intervenendo mediante pubblicazionrco^fere^ze 0 ÒQWe CÌ *
ZÌOn - e 6 di P revid enza, meZ SelK^ UÌ Ia C ° n tUttÌ 1 mutuo soccorso
rTcoifosS^e Sf parte tutte le Soc ietà italiane di siano inspirate ai5? f a „
08,? ute 0 di fatto - P^chè videnza. P p l0 ndamentali della mutualità e della
pre di iirc 5 se hanno^^numero^i^ff 1 - 6 UDa quota annua anticipata: se hanno
da 100 a 500 soci di k p ® non superiore a 100; di lire 10 ài lire 20 se hanno
più di ìooo^om' 1 86 hann0 da 500 a 1000 soci ’ 6 «5dfott federa a e hano
diritt0: consigli ed aiuti morali^ ^ oinn: n ss mne esecutiva in ogni
circostanza teresse generale- 1 " 81 d<J1 seryizl che la Federazione
stabilirà nell’in àana, monitore della 6 P^derazton^^d^ giorna l e La Cooperazione
ItaCongresso; ^aerazione, ed una copia degli atti di ogni « d) di ottenere
gratuitamente consulti legali e pareri di indole amministrativa; « e) di
valersi del giornale La Cooperazione Italiana per trattare quelle questioni che
si riferiscono agli interessi della mutualità e della previdenza. Gli organi
della Federazione sono: il Congresso delle Società federate; il Consiglio
Generale composto di 50 consiglieri eletti dal Congresso fra i soci delle
Società federate; la Commissione esecutiva composta di nove membri scelti fra i
soci delle Società federate e residenti in Milano; i Comitati regionali,
secondo le circoscrizioni stabilite dalla Commissione esecutiva; il Collegio
dei Sindaci composto di tre sindaci effettivi e due supplenti, nominati dal
Congresso fra i soci delle Società federate residenti in Milano; le Commissioni
di consulenza, di statistica, di propaganda, ecc. quando ne fosse reclamata la
costituzione. La Federazione ha organizzato tre Congressi nazionali: quello di
Milano nel 1900; quello di Reggio Emilia nel 1901; quello di Firenze nel 1904.
Le Società federate sono andate crescendo nei cinque anni 1901-1905 nella
proporzione seguente: 1901 548 1902 573 1903 720 1904 733 1905 745 In un
Congresso internazionale e nel chiudere questa relazione la quale dimostra
quale sia la condizione delle organizzazioni mutualiste in Italia, io non credo
che si possano presentare, come epilogo dei fatti osservati, voti e proposte
che abbiano riferimento alle particolari condizioni delle nostre Mutue ed al
loro avvenire. Credo soltanto possibile esprimere un voto il quale ha
necessario legame con la proposta costituzione di una Federazione
internazionale della mutualità, che sarà vanto di questo III Congresso, poiché,
a mio giudizio, una Federazione internazionale deve trovare il suo principale
fondamento nelle organizzazioni federative nazionali. Ed il voto è il seguente:
Che si promuova in Italia la costituzione di Federazioni od Unioni regionali di
mutuo soccorso, le quali si propongano i fini additati dalle Norme e meglio
specificati dalla legge francese, in quanto siano applicabili alle particolari
condizioni e funzioni delle nostre Società ; Che le Federazioni regionali
facciano capo ad una Federazione Nazionale, la quale, pure esplicando l’azione
d’indole morale che è nel programma dell’attuale Federazione, compia anche
alcuni uffici propri delle federazioni regionali, specialmente quello di
sovvenire i soci dei sodalizi aggregati alle regionali, i quali, per ragioni di
lavoro o per altre ragioni, si trovino fuori del territorio nel quale la
Federazione regionale esplica la sua azione. Uo spirito cooperativo. Se il
tracollare di tante impresa o società sorrette da grossi capitali aggiunge
nuove pa^ne ai volume delle nostre afflizioni, è bello invece vedere per virtù
popolana sorreggersi liberi e sicuri nel loro corso anche in Italia i sodalizii
dèlia previdenza e* del mutuo soccorso. Animati nelle loro operazioni dal
sentimento della pietà, e non mossi da studio di soverchio guadagno, finiscono
col raccogliere anche la ricchezza, come premio della loro virtù e col dare
un'alta pro\a di quella verità che gli affari più cauti ed onesti sono sempre
in (in dei conti i più lucrosi. Così queste società nuove di operai e di
piccoli indaslriali, svincolale dai vecchi rancori, amiche deirordiiie e della
liherlA, v:inno sempre meglio disegnando ed aiiargaiido i contorni dell'
azione, c creando una buona Speranza per l'avvenire della nostra patria. Fatta
Tltalìa, è d'uopo per fare gP italiani che alle vecchie e cascanti passioni di
un popolo per secoli torpido e povero, sì sostituisca la fede energica nel
lavoro e neir associazione. Occorrono a ciò quelle tempre d^ uomini gagliardi
ai quali nulla di onesto e di utile pare impossibile, e che nel meditare al
proprio, tornaconto non dimenticano quello degli altri. Occorre che in tutte le
citlà^ d'Italia sorgano e iiros|u'rino gli spirili benevoli, i quali sappiano
inlendere l' iiulirizzo del nostro secolo, e prodighino le opere buono a quello
stesso modo, e sto per dire, con quella spensieratezza, colla quale i più le
stemperano nella cascafigine e nelT ozio. E queste qualità cominciano appunto a
ravvivarsi nei gruppi de' nostri cooperatori, le quali, mef^lio di tanti
discorsi accademici che entrano ed escono dalle orecchie 0 di certi volumi di
economia politica, senza lettori, valgono a provare colla evidenza dei fatti,
che la maggiore delle industrie è l'onestà dei costumi, e che il lavoro e r
associazione non accrescono soltanto la nostra fortuna materiale, ma ben di
più» il patrimonio dei nostri affetti e delle virtù nostre. Di fronte al
movimento d'associazione che si estende da tutte le parti, è. necessario
stabilire i cardini su cui s' aggiri ben definito l' oggetto e lo scopo dell'
associazione. Fino ad oggi te società di commercio e dMndostrla avevano per
unica mira il guadagno di coloro che le dirigevano. Questo guadagno talvolta
eccessivo, aveva per motore l'egoismo, c per mezzi i tranelli, la speculazione
e r aggiolag!2Ìo. E pur troppo mezzi così odiosi hanno fatto colossali e
scandalose fortune con desolazione c rovina di una falange di creduloni e di
delusi. Le società cooperative hanno invece per ragione la fraternità, per
principio l'eguaglianza, per mezzi l'onore, la probità e il lavoro dei
cooperatori associati ; e per ìscopo r emancipazipoe di tutti ; la cooperazione
dà aispiaiTo d' associazione. r uomo il mezzo di amministrare e di gestire da
sè stesso ciò che gli appartiene, ed a ciascun cooperatore accorda la facoltà
di aver parte air amministrazione delle cose comuni. Còsi la cooperazione
sorretta dall' intelligenza, vi* vificata dair amor fraterno, rivela air uomo T
arcano della sua forza e della sua potenza. Ma peicliè giunga agli sperati e
(Te ili senza deviare dai principii che sono fondamenlo di ogni rigenerazione
sociale, si addomanda ai cooperatori vigilanza attiva e studiosa, saggezza,
aniiegazione e virtù; nè, per evitare gli scogli contro cui ruppero tanti,
cessino di tenersi in guardia contro i funesti allctlamenli, i desiderii
ambiziosi, le passioni egoistiche e gelose. Bando sopratutto ai sistemi
esclusivi! essi contengono i germi di discordia e di dissoluzione che bisogna
sradicare dalla loro prima comj)arsa. Quanto allo socielà cooperative formate
lìnora in Italia, mentre dobbiamo conoscere la devozione, il disinteresse dei
loro fondatori ed aderenti e i risultati abbastanza felici, tenendo calcolo
delle difficoltà che erano da superare, converrà sìeno impiegate maggiori forze
e sieno sbandite tutte quelle mezze misure che conducono facilmente air aborto.
Si ha bisogno di uscire al più presto dalie vecchie abitudini, dai sistemi
restrittiyi, e rendersi p^puasi che un progresso non è realmente buono se non m
quanto possano tutti parteciparvi; che T eguaglianza è T anima della
cooperazionc, come d'ogni giustizia; che il genio cooperativo nel suo oggetto,
nel suo scopo e nelle sue conseguenze sociali, ha una missione immensa da
compiere, e che deve penetrare come il sole, tanlo nelle campagne quanto nelle
grandi città. Ma perchè le società di credito e di produzione possano agire
senza ostacoli deesi sgombrare il terreno dell' industria dall'impiccio delle
tante braccia strappate alle campagne e fioriate nelle città a far una
disastrosa concorrenza cogli operai. Per togliere dallo stato precario e dalla
miseria, ove si trovano, lutti questi campagnoli che disertano la gleba per
cercarsi lavoro nelle manifatture » bisognenibbe procurare la loro
emancipazione col mclterli anch'essi in grado di partecipare alla propriclà
territoriale per mozzo delle associazioni cooperative. Al che condurrebbero
quando si formassero de' sodalizii agricoli c industriali, abbastanza potenti
per oHrirc un asilo a coloro che non hanno una via aperta alla loro aUivilà.
Con questo mezzo il commercio e l’industria si troverebbero al riparo dalia
concorrensa industriaJi superflui, poiché ove le società cooperative non
propagassero ia loro azione nelle campagne, e restassero nelle sole pitià,
subirebbero i maggiori disinganni. Ed oltre a questa concorrenza dannosa,
aggiunge quella che i lavoratori si fanno fra essi e che forma reggette
dMndebite lagnanze. E infatti coltivatori, affitjtaìuoli, proprielarii si
lamentano troppo spesso dr questa concorrenza che, a detto loro, impedisce di
vendere i frulli del campo e del lavoro a buon prezzo, e non pensano intanto
che la concorrenza de'' produttori coi prezzi moderali suscita un'altra
concorrenza, quella de' consumatori; non pensano che se essi hanno quelle
vanghe, quelle zappe, quei martelli, quelle seghe a buon patio, e appunto per
la concorrenza delle fucine che procura a minor prezzo il ferro di che hanno
bisogno per gli isirumenti de' tgro mestieri ; che è la concorrenza dei
tessitori e de" granaiuoli che fa comperare ad essi con modici valori il
vestito e il nutrimento, e tutto quanto entra nei bisogni della vita. Ma quando
l’equilibrio si rompe anche la concorrenza diviene dannosa; le braccia divelle
dai campi e intrecciate agli ordigni de^ mestieri devono rompere Tarmonia che è
il supremo beneficio d^ogni sociale interesse > ed è appunto un gran prezzo
dell’opera il far in modo che ì campagnoli restino nelle campagne, nò depongano
la marra e il sarchiello pel maglio o pel telaio. La concorrenza è ìm gran
motore delle attività umane, e trova la sua perpetua alimentazione nelP interesse
individuale. Essa non e che il risultato dello sforzo che fa ciascuno pel
proprio interesse, e porta poi come ultima conseguenza il bene generale. Essa è
dunque il principio deir esistenza Jelle società, poiché dalla concorrenza
degli uni e degli altri promana il vantaggio di lutti; nè permeile ad' alcuno
di predominare a scapito degli altri, è una compensazione che ci facciamo a
vicenda. Senza la concorrenza dei produUori i consumatori pagherebbero tutto ad
una esorbitanza di prezzi, e senza la concorrenza clie i consomatori si fanno
tutto cadrebbe a prezzo sì abbietto che nessuno sarebbe più sollecitato alla
produzione. E chi sconoscerà il vantaggio che ne trae l’emulazione « che è uno
stimolante prezioso per T intelletto e per Fattività deir uomo, e ne sorregge
ne^ suoi lavori la meditazione e i sudori per trionfare sui competitori suoi.
Per studiare a tale intento, e trovare nuovi processi di produzione più
economica e più abbondante per accorciare il tempo e conseguire Y esito
migliore, e per soggiogare le forze delia natura, decuplicando e centuplicando
la forza deir uomo? Chi teme la concorrenza è solo colui che non sa far meglio
degli altri, o clic vagheggia guadagni più ghiotti; egli sa che il consumatore
si rivolgerà al fabbricatore che lavora meglio, e al venditore che spaccia a
minor prezzo; e chi invoca misure restrittive, chi domanda ai governi la
proibizione d' introdurre merci forestiere, attenta alla liberti, ed è un
egoista che vuoi prelevare a suo profitto la differenza tra i suoi prezzi e quelli
degli stranieri. Ha quando l’equilibrio delle classi si rompe allora la
concorrenza conduce diviato alla ruina. E pur troppo vediamo i giovani
campagnoli non rare volte dalla mal tollerata loro condizione sospìnti a quella
delP artigiano delle città, perchè a questo la giornata si paga più cara che ad
essi, ed ogni sabato esce dall'officina col suo salario alla mano. Queste
braccia divelle dai campi e iuirecciate agli ordigni degli opificii tolgono le
larghe emanazioni di quella occupazi.one che fin dai primi tempi alimentò
l'uomo «uila terra. Eppure l uomo della campagna quando pensa all'artiere della
città, dice: in (jual minor conto siamo ' noi tenuti! S'inganna esso a partito;
nessuno tiene in minor conto chi guida il solco e l’aratro, ed è necessario che
i contadini il sappiano, che abbiano ànch'essi le loro istituzioni da cui sieno
allettati, e che le provvide virtù camminino fra i popoli agricoli » sotto i
tetti di paglia, tra i novali e i vigneti, e che la vanga e il sarchiello non
restino mortificati dinanzi al maglio ed al telaio. Nicola Coco. Keywords:
mutuale prevalente, cooperativa, impresa cooperativa, luce di pensiero italico
nelle tenebre della guerra, giurisprudenza romana, giurisprudenza italiana,
eccletismi, filosofia dell’atto, corporazione, contratto e cooperazione, codice
civile italiano, codice di procedura civile italiano, la tradizione giuridica
italiana, associazione, sindaco, Kelsen, grundnorm, legalita, nipote: Nicola
Coco, ordine giuridico, unica garanzia del contratto sociale, mutuo soccorso,
la societa di mutuo soccorso, le societa di mutuo soccorso, mutualita,
mutualita prevalente, contratto di carattere mutuale prevalente, lo spirito
cooperativo, considerazione sullo spirito cooperative. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Coco” – The Swimming-Pool Library. Coco
Luigi Speranza -- Grice e Codronchi:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del contratto -- giochi
d’assardo – contratto – gioco aleatorio – Ercole, l’Ara Massima, e il patto
comunitario – scuola d’Imola – scuola di Bologna – filosofia bolgnese –
filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Imola). Filosofo
bolognese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Imola, Bologna,
Emilia-Romagna. Grice: “One would underestimate Codronchi if it were not for
the fact that he wrote a smartest little tracts on the two ways I see
conversation as: ‘game’ and ‘contract.’ In “Logic and conversation’ I do
confess to having been attracted for a while to a ‘quasi-contractualist’
approach to conversation alla Grice (i. e., G. R. Grice) – and I’m not sure the
reason I give there for rejecting the view is valid, or strong enough! As for
‘games’ – of course conversation is a game – but I never took that too
seriously – perhaps because Austin was obsessed with games and rules of games –
and the subject was worn out for me – when Hintikka came along all he did was
talk about ‘dialogue games’! – I do use ‘game’ terminology – and cf. ‘contract
bridge!” – such as ‘conversational move,’ ‘converaational rule’ of the
‘conversational game’ – and conversational ‘players’ – “Only this or that
‘move’ will be appropriate’, and so on.” Appartenente alla nobiltà, dopo la
laurea prosegue gli studi approfondendo la filosofia spinto dal padre. In
seguito entra alla corte del regno di Napoli, prima con Ferdinando I e poi con
Giuseppe Bonaparte, da cui ottiene la nomina a consigliere di stato. Le sue
saggi più celebri sono “Etica” e “Il contratto”, in cui affronta con semplicità
l'argomento del calcolo delle probabilità. Distingue in tre classi di
contratto. Contratto epistemico: C’e un contratto nel quale è noto il rapporto
tra eventi favorevoli e contrari. Contratto empirico. C’e un secondo contrato
nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario è fondato
sull'esperienza. Contratto misto Finalmente, c’e un terzo tipo di contratto nel
quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario si basa su una
legge sicura e in parte sull'esperienza. For a time, I was attracted by the
idea that observance of the CP and the maxims, in a talk exchange, could be
thought of as a quasi-contractual matter, with parallels outside the realm of
discourse. If you pass by when I am struggling with my stranded car, I no doubt
have some degree of expectation that you will offer help, but once you join me
in tinkering under the hood, my expectations become stronger and take more
specific forms (in the absence of indications that you are merely an
incompetent meddler); and talk exchanges seemed to me to exhibit,
characteristically, certain features that jointly distinguish cooperative
transactions: 1. The participants have some common immediate aim, like getting
a car mended; their ultimate aims may, of course, be independent and even in
conflict-each may want to get the car mended in order to drive off, leaving the
other stranded. In characteristic talk exchanges, there is a common aim even
if, as in an over-the-wall chat, it is a second-order one, namely, that each
party should, for the time being, identify himself with the transitory
conversational interests of the other. 2. The contributions of the participants.should
be dovetailed, mutually dependent. 3. There is some sort of understanding
(which may be explicit but which is often tacit) that, otl1er things being
equal, the transaction should continue in appropriate style unless both parties
are agreeable that it should terminate. You do not just shove off or start
doing something else. SAGGIO FILOSOFICO SUI CONTRATTI E GIOCHI D'AZZARDO.
C. Sor's incerta vagatur, Fertque refertque vices. Lucan. FIRENZE PER GAETANO
CAMBIAGI STAMPATOR GRAND. CON APPROVAZIONE. ALL’ALTEZZA REALE DI PIETRO
LEOPOLDO PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA D'AUSTRIA GRANDUCA DI
TOSCANA &c. &c. etc. Questa operetta che sottopone il CONTRATTO—cf.
Grice, quasi-contratto -- d’azzardo o aleatorio all'esame della filosofia per
fissare, quant'è possibile i I dati onde non discordino dalla giustizia, dovea
bene essere umiliata, a VOI, che pieno del le verità della prima, avete consacrati
tanti pensieri ad assi curare, e stabilir la seconda; onde può dirsi che il
vostro trono è il punto più luminoso della loro unione, che sola può formare la
felicità degli stati. Posta questa mia fatica, se non è degna dipresentarsi
all'illuminatissima vostra mente, non dispiacere al vostro cuore, che non
sdegnerà di riconoscere in esta una significazione dei sentimenti del mio,
penetrato del la più viva gratitudine al vostro real patrocinio, e alle copiose
beneficenze, auspici sotto de’ quali è nata, e condotta alla luce, e ai quali
desidero con tutto lo spirito che sempre più raccomandi l'autore. Non avvi
forſe negli uomini un sentimento più costante e universale del desiderio di
arricchire. L'uomo tende incessantemente a procacciarsi, ed assicurarsi i mezzi
necessari a sostenere e a rendere tranquilla e comoda la vita. La natura, che ha
voluto che ciò concorra alla sua felicità alla quale con tanta forza lo
stimola, gli ha inserito di sua mano nel petto questo vivissimo ardore;
acciocchè se dalla propria industria riconosce egli il sostentamento e gli agi
della vita, riconosca però dalle provvide mani di lei l'eccitamento e
l'efficacia di questa industria medesima. Questa fiamma sempre operosa accende
talvolta un cuore angusto che non ha altro oggetto che se medesimo, o un
piccolo e ristretto sistema di persone. Talvolta pero trionfa sovranamente in
un animo generoso, a che stima di se minori tutte le mire che non sian vaste e
sublimi. Patria, nazione, pubblica felicità, interessi dell’uman genere ecco i
grandi oggetti, che egli ha sempre davanti; ed ecco intorno a che si aggirano i
lumi del politico pensatore; ecco ciò che forma le vigilie dell’uom’di stato.
Quindi è che sempre nuove vie si spianano al commercio, nuovi mezzi si studiano
per facilitarlo, nuovi metodi si ritrovano per dilatarlo. Questo ardore
medesimo ha fatto sì, che gli uomini vadano sempre inventando un nuovo
contratto, o ai ritrovati già prima diano nuove sempre e più estese forme. Chi
avrebbe mai detto nei primi tempi delle nascenti civili società, quando altro
contratto non conoscevasi che quello di dare i grassi capi dell’armento in
cambio degli scelti frutti del campo, che vi sarebbero stati un giorno uomini,
che avrebbero ridotte a contratto non solo una cosa esistente, sicura, e da
esli ben conosciuta, ma la cosa non esistenti ancora, le incerta, la soggetta
al caso, la sconosciute? O chi persuaderebbe alle numerose carovane dei mori
che vanno nel fondo dell’Affrica a far coi negri il cambio del sale colla
polvere d’or, che sonvi e lecici, e un vantaggioso contratto, che si appoggia
solamente all’aleatorio pericoloso e al bizzarro capriccio della fortuna? Il
moro che mette il suo sale in un mucchio e lo va sminuendo, se gli pare che il
negro con cui commercia, non abbia ammassata in sufficiente quantità l'a
preziosa polvere; riderà di coloro che si espongono a gravi perdite delle loro
sostanze affidandole all'incertezza della sorte. Eppure, e vi e questo
contratti aleatorio, e puo esser ridotti a quella uguaglianza che dopo determinati,
o dalle leggi, o dalla consuetudine i prezzo della cosa è necessaria a render
giusto qualunque contratto. A fissare il limite e il grado di uguaglianza in
tale contratto aleatorio giova maravigliosamente quell’utilissima scienza che
arditamente calcola le probabilità e si rende soggetti, per così dire, i sempre
vari accidenti della fortuna. Questa scienza è stata chiamata finora aritmetica
politica perchè è stata ordinata soltanto a ricercare l’utilità e la miglior sorte
a 2 del commercio e di chi lo esercita, e ad apprestare dei nuovi dati a chi
veglia alla pubblica felicità. Ma io crederò di potere con parità di ragione
chiamarla “aritmetica del giusto” ed asserire che se il gran principio che fra
il certo presente e l'incerto avvenire trovasi una vera proporzione è stato
quel seme fecondo che ha germogliato al pubblico bene, è quello ancora che dee
produr nulla meno la sicurezza e la tranquillità nell’animo di chi sulle tracce
dell’onesto e del giusto voglia istituire tale contratto. Non farà però inutil
cosa se io cercherò di spogliare della austerità e difficoltà del calcolo una
sì vantaggiosa teoria e di ridurla a principi generali e semplici, facendo su
di essi opportunamente alcune riflessioni ed applicandone le regole al contratto
aleatorio, che verrò con la chiarezza e brevità maggiore che a me sia possibile
investigando. Mi lusingherò quindi di aver sempre pronta una misura, più o meno
esatta, a norma che eſli più o meno ne siano suscettibili, che ne determini l’uguaglianza,
é una bilancia che ne pesi l'equità e la giustizia. Contratto aleatorio io
chiamo quel contratto nel quale si fa acquisto di un diritto, o vogliam dire di
una speranza (res sperata – emptio spei, emptio rei separatae), il buon esito
della quale è affidato all’incertezza della sorte (cfr. Grice, “Intenzione e
incertezza”). E quì si osservi che si può nel medesimo contratto considerare
l’aleatorio relativamente ad ambedue i contraenti. (parola chiave: “ambedue i
contraenti”). Quello, il quale talvolta per far guadagno di una tenue somma di
denaro ma certa, vende la speranza incerta di un gran guadagno, sottopone
all'aleatorio tutto quel di più che avendo buon esito la ceduta speranza,
supera la tenue somma in cui la cambio. L'uguaglianza che dopo fissato dalla
legge o dalla consuetudine il prezzo della cosa ricercasa nel contratti perchè
sia giusto, vi è ſempre, quando esaminata la cosa che ne forma l'oggetto,
ritrovisi in Vedasi più sotto ove si parla del contratto di alii curazione un
vero senso egualmente pregevole ciò che danno nel contratto e reciprocamente
ricevono ambedue i contraenti. Or chi non vede che l'avere un diritto o una
speranza è molto più valutabile che il non averla? E se ciò è vero, è manifeſso
che questa speranza puo dirsi avere un vero e real prezzo nel commercio degli
uomini. Ma siccome tuttociò che ha prezzo pui avere un prezzo diverso, questa
speranza ha anch'essa la sua diversita e puo per conseguen prezzo calcolarsi in
guisa da poterne trovare il *rapporto* a quello per cui alcuno desideri di
farne acquistom che è quanto dire potrà ridursi ad una vera uguaglianza.
Stabiliscasi adunque l’incontrastabile fondamenza il suo tale TEOREMA. Nel
contratto aleatorio vi puo essere essere quella uguaglianza, che gli
caratterizzi per giusti. ng Too vorrei potere esporre con la maggior precisione
e chiarezza la serie delle idee che conducono a fissare il canone per cui si
puo in un contratto aleatorio rinvenire l'uguaglianza di cui si parla. Il
soggetto è molto arduo e per esporlo nel dovuto lume e farne poi l'opportuna
applicazione è neceſſario fare di tratto in tratto molte importanti
osservazioni che o sviluppino il principio fondamentale o vagliano a
dilucidarlo. E prima di tutto io intendo sempre per nome di prezzo tutto quello
o sia certo e determinato, o sia incerto anch'esso o per l'evento la quantità
che si espone per far l’acquisto di una speranza. Premio io chiamo quello per
cui ottenere si espone il prezzo così definite. Conviene pero osservare che per
nome di premio si può intendere, e l'oggetto solo a cui si aspira e il medeſimo
più il prezzo che si è o esposto o sborsato per acquistarne la speranza. Ciò
ben'inteso parmi che per rintracciare questa uguaglianza sia d'uopo conoscere i
o per 8 la diversa speranza. Di due elementi viene egli composto. Tanto è più
stimabile una speranza quanto ha un'oggetto più pregevole; e questo è ciò che
io intendo per valore intrinseco; ma tanto anche è più stimabile per altra
parte quanto è più probabile che ha un esito favorevole, e questo col nome di
estrinseco valore vuolsi significare. La probabilità è maggiore o minore
secondo che è maggiore o minore il numero di casi favorevoli all'evento
rispetto al numero de' sinistri; di modo che se si facesse una tavola che
gradatamente, e per serie e sprimeſle questi rapporti si avrebbe una vera
tavola delle probabilità. Conſiderando però ciascun evento separatamente e
senza rapporto ad altri; la probabilità che esso liegua, vien espressa dal *rapporto*
del numero de’ casi a lui favorevoli alla somma dei favorevoli insieme e de’
contrari. Poichè se sianvi in un urna 10 palle bianche e 10 nere; per definire
la probabilità dell'estrazione di una palla Bianca fa d' uopo conſiderare le 10
bianche in massa colle nere; giacchè in massa sono quando si fa l'estrazione
dall'urna. L'istesso avviene di ciascun evento che sia l’oggetto di una
speranza; giacchè deve distaccarsi dalla massa che è il cumulo degli eventi
favorevoli e dei sinistri che stan raccolti nell’urna sovrana regolatrice della
umana vicenda. Se dato un prezzo con cui si voglia fare acquisto di una
speranza, il numero dei casi favorevoli al buon esito sia uguale a quello dei
sinistri, è troppo chiaro che a volere la ricercata uguaglianza e necessario
che il valore intrinseco della speranza o sia dell'oggetto della medesima, sia *doppio*
del prezzo che si espone per acquistarlo; poichè in tal guisa la metà del
valore intrinseco resta compensata dal prezzo che si è pagato; l'altra metà,
che sola è un vero guadagno è uguale al prezzo medesimo che si è espoſto
all'aleatorio; e così deve essere essendo nel caso nostro uguale la probabilità
del buon esito e dell’infausto. E non altro appunto significa quella regola
infallibile secondo la quale è sempre 10 il valore (a) dell’aspettativa, quando
in ugual numero siano i casi favorevoli all’esito bramato e i sinistri. Che se
si accresca il numero de’ casi sinistri; siccome scema percið il valore
estrinſeco della speranza, converrà che si accresca *proporzionatamente*
l’intrinseco accrescendo il valore dell’oggetto medesimo. Per maggior chiarezza
di cio suppongasi il prezzo con cui si compra la speranza uguale ad un dato
numero e suppongasi il numero dei casi favorevoli uguale a quello dei sinistri.
In questo caso la probabilità del buon esito e uguale a quella dell'infausto e
la speranza si elide col timore, e per conseguenza il suo valore estrinſeco puo
considerarsi = 0; verrà dunque in confronto il solo prezzo col premio; che però
queste due quantità dovranno eſſere uguali, benchè il valore intrinſeco della
speranza, o sia il premio medesimo preso in una più estesa significazione 111
(a) L’aspettativa non è altro che il grado di probabilità che uno ha di
ottenere un’intento fortuito. II sia doppio del prezzo, poichè una metà del
premio medesimo non si può chiamare lucro, restando compensata col prezzo già
sbor fato ed esposto all’aleatorio. Stabilito adunque questo caso, come per
punto fisso dal quale si parte la serie dei valori, è chiaro ugualmente che se
il numero dei sinistri casi sia maggiore o minore di quello dei favorevoli, di
tanto la probabilità del buon esito a fronte della probabilità dell'infausto
farà a proporzione maggiore o minore di zero nel formare il valore totale della
speranza; lo che non altro significa, se non che ad avere l'uguaglianza
necessaria converrà che a proporzione l'oggetto della speranza superi nel primo
caso il prezzo con cui si acquista e nel secondo sia ad esso inferiore, e
quindi li puo universalmente stabilire. Nel secondo teorema, i valori delle
speranze sono in ragion composta del valore intrinseco dell’oggetto o cosa o
reale sperato (res sperata), o dell’spettativa. Ne terzo teorema, nel contratto
aleatorio allora visarà l'us 1. Il contratto aleatorio allora vi sarà
l'uguaglianza quando il prezzo che espone uno de contraenti stia al premio,
come il numero dei casi favorevoli a lui, alla ſomma dei favorevoli e dei
contrari. Notisi che quì per premio s’intende non solo la porzione che si
lucra, ma di più il prezzo istesso che si è aleatorio, aleatato. E siccome, per
quanti siano i prezzi dei contraenti, deve verificarsi in ciascun prezzo questo
rapporto al premio, ne verrà che i prezzi staranno fra di loro come il numero
dei casi favorevoli ad uno dei contraenti di viso per la somma de favorevoli e
de’ contrari al numero de favorevoli a quello con cui si istituisce il
paragone, diviso anch’esso per la somma dei favorevoli e dei contrari: e così
dicasi di quanti siano i contraenti. Da questo teorema si deduce il seguente
corollario. Nel contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando i
prezzi dei contraenti ſtiano fra di loro, come i numeri dei caſi ri
ſpettivamente favorevoli. Dagli enunciati Teoremi chiaramente ap pariſce, che
per bene applicarli agl' indivi dui caſi, è neceſſario eſaminare maturamente,
qual ſia il vero valore del prezzo con cui ſi compra la ſperanza; quali ſiano i
veri caſi favorevoli, e ſiniſtri; e fiflarne il numero con quella eſattezza che
convenga alla naturą del contratto in queſtione. Conſiderando at; tentamente la
natura e le leggi dei diverſi contratti di azzardo, mi è parſo che preſen tino
una facile e natural diviſione, per la quale in tre ſeparate, e diſtinte claſſi
li pof ſono comodamente diſtribuire. Imperciocchè dalla loro diverſa natura, e
dalle diverſe leg gi che gli coſtituiſcono, ne naſce una diverſa maniera di
fiſſare i rapporti del numero dei caſi favorevoli, a quello dei ſiniſtri. A tre
fi poſſono in fatti ridurre i metodi per fillare 1 14 gli accennati rapporti, e
quindi collocare in una di tre diſtinte claſli ciaſcun contratto di azzardo.
Primo metodo è quello per mezzo del quale conſiderata la natura, e le leggi del
contrat to rilevaſi il ricercato rapporto dal numero delle cauſe e delle
ragioni, che poſſono in fluire ſul buon eſito della ſperanza, numero
determinabile, e ragioni certe, e ſicure. Il ſecondo è quello nel quale per la
natura del contratto, non ſi può fondare il rapporto, ſe non che ſulla
ſperienza, e ſulle oſſerva zioni eſatte perd, e molte volte replicate; e ſopra
cagioni incerte, e variabiliffime per le quali il numero dei caſi favorevoli e
dei fi niſtri, non può mai eſſer certo, determinato, e ſicuro. Terzo metodo è
quello per cui ſi appoggia la indicata proporzione, parte alla conſiderazione
di leggi certe e ſicure, e par te alla ſperienza del paſſato, e a circoſtanze
incerte ', e di numero indefinito. Nei contratti adunque della prima fpecie,
conoſciutene le leggi, fiffato il numero delle cauſe che poſſono influire
ſull'oggetto del contratto, ed eſaminate le diverſe maniere nelle quali poſſono
combinarſi, ſi avrà un eſatta ed infallibile notizia del rapporto dei caſi
favorevoli ai finiftri. La ſcienza delle combinazioni, e permu tazioni è ſtata
nel noſtro ſecolo così illuſtra ta, e dall ’ Ugenio, e dal Bernullio, e dal
Moivre, ed è così vaſta ed eſteſa, che vo lendo io trattarne a lungo, non
potrei per l'una parte non oſcurare ciò che è ſtato detto con tanta preciſione,
e ſicurezza, e non fa prei per l'altra accennar poche coſe, che non laſciaffero
un neceffario deſiderio di molte più, intorno alle quali l'intertenermi, oltre
paſſerebbe di gran lunga il fine, e l'idea di queſto faggio; e tanto più, che
ſenza la fe verità del calcolo più aſtruſo non ſi potreb bero per avventura
trattare tutti i caſi par ticolari. Nel venire però eſaminando la na tura dei
diverſi contratti, ed applicando ad effi li ſtabiliti Teoremi, ſi vedranno di
trat to in tratto i principj di queſta ſcienza ſvi luppati, ed indicata la
maniera di applicarli ad alcuni caſi particolari, ſiccome con l'uſo ! 16 rétto,
e ſicuro del calcolo ſi poſſono adattare a tutti i caſi i più compoſti, ed
aſtruſi. Il gioco di pura ſorte è certamente uno dei contratti che alla prima
claſſe debbonſi riferire. Mi è noto quanto ha ſcritto il cele bre Giacomo
Bernulli, per dare le regole ficure onde fiſſare nei giochi di fortuna il
numero dei caſi favorevoli e dei contrari, i vantaggi reſpettivi dei giocatori,
e il pre mio che può uno eligere, dopo incominciato il gioco per ritirarſi
ſenza rinunziare alla miglior condizione, in cui l'hanno già poſto alcuni colpi
favorevoli. So che eſſendo la probabilità, o ſemplice, o compoſta, ne ha queſto
gran Matematico ridotta la miſura all'interſezione di una linea retta con una
curva logaritmica, o di queſta con una pa rabolica, e così ſucceſſivamente
aſcendendo alle curve dei gradi più alti. Ma laſciando da parte i profondi
calcoli, e i miſteri della fublime Geometria, i quali però ben pene trati
ſcuoprono il profondo e inventore in gegno di queſto grand' uomo, piacemi in
quella vece di eſaminare ſemplicemente ſen 17 za di effi la natura e le leggi
del gioco, per riconoſcere ſecondo l'accennato metodo, come ſi poſſa in eſſo e
dare e ſcoprire l'u guaglianza fra i giocatori, e in tal guiſa applicare a
queſto contratto gli enunciati univerſali Teoremi. Il gioco di pura ſorte è una
ſpecie di con tratto, nel quale due o più perſone, dopo di aver convenuto di
certe leggi, e condizio ni, ſi diſputano un premio, che ſi rilaſcia a chi ſarà
più felice, per rapporto a certi acci denti l'effetto dei quali non dipende per
ve run modo dalla loro induſtria. E quì cade in acconcio fare una rifleſſione
comune a tutti i contratti di azzardo. Il dire che una coſa accada caſualmente,
non altro ſignifica, ſe non che la cagione ne è a noi ſconoſciuta; e che
non vi abbiamo alcuna volontaria influenza. Per altro quan do fiegue in natura
un determinato effetto, qualunque ſiaſi, è certo che neceſſariamente dovea
ſeguire. Che due dadi gettati ſu di una tavola, ſcoprano piuttoſto un numero,
che un altro; noi ne ignoriamo la cagione b 18 nell'atto ſteſſo che ne ſegue
per le noſtre mani medeſime il tratto. E perd ugualmente vero, che dato quel
tal moto alla mano che gli getta, dato quel tal grado d'impeto, e non più nè
meno, data la mole dei medefi mi, e il piano ſu cui ſi aggirano, devono
neceſſariamente preſentar quel tal dato nu mero e non altro. Così dicaſi dei
giochi di carte le combinazioni delle quali dipendono dalla diverſa maniera di
meſcolarle, e di dividerle alzandone una parte di eſſe fovra il reſtante; anzi
pure non ſolo del gioco, ma dicaſi, come ſi avvertì di tutti i contratti di
azzardo, e generalmente di qualunque evento fortuito (a ), (a) Non ſolo ne'
contratti ove ciò che ſi perde o che ſi guadagna è riducibile ad una miſura
diſtinta in gradi coſtanti ed eſattamente marcati, ma anche in tutto il tenore
di una vita diretta a un fine fpe rato ma incerto ha luogo il prezzo ed il
premio. Le fatiche, gl'incomodi, le priyazioni dei piaceri formano il primo.
Nella gloria, nell'autorità, negli onori, nelle ricchezze è ripoſto il ſecondo,
che molte volte defrauda le meglio fondate ſperanze, o almeno ad effe
perfettamente non corriſponde; onde può dirlig.Varie ſono le ſpecie principali
dei giochi di pura ſorte, ſiccome varie ſono le maniere di diſputarſi il
premio.O due giocatori eſpon gono all'eſito della forte le loro reſpective
porzioni di depoſito con la legge che deb baſi tutto a quello rilaſciare, il
quale felice mente s'incontra prima dell'altro in un fa vorevole accidente, che
ambi ſi ſono propoſti d'incontrare; o a quello, che in ugual nu mero di faggi,
ſotto le medeſime leggi, di pendentemente dalle medeſime condizioni, 6 2 che
così in queſte ſecrete e non ftipulate aſpettative come in quelle per cui
s'inſtituiſcono e ſi celebrano i contratti,domina ugualmente quella inſtabile
divinità creata dall'ignoranza della conneſſione delle cagioni delle coſe, e
del compleſſo delle circoſtanze necef ſarie ai fortuiti eventi, ma che in tutti
i caſi ſuol chiamarſi ugualmente Saevo laeta negotio Et ludum inſolentem ludere
pertinax. Biſogna però rammentarſi ſempre che le parole che eſprimono gli
attributi della fortuna, o del caſo, quando ſono uſate dal Filoſofo, hanno un
fenſo di verſo da quello in cui le uſa il Poeta che simboleg gia, e il volgo
che non ragiona. << tro, così dire nega incontra quelle combinazioni che
preſen tano una maggior ſomma di quegli elementi ond'è compoſto il gioco, e
alla quale è at taccata la vincita del medeſimo. Oppure il contratto del gioco
è tale che un ſolo dei giocatori s'impegna in un dato numero di ſaggi, e ſotto
certe condizioni, d'incontrare un dato favorevole accidente o ſemplice ſia di
altri ' compoſto, e quale non incontran do, la ſorte s'intende aver deciſo per
l'al la ſperanza di cui per tiva, non ha altro oggetto che l'eſito infe lice
delle mire dell'avverſario, non obbli gandoſi intanto a tentare poſitivamente
ve run colpo di gioco. Nei priini due caſi egli è chiaro che devo no i giocatori
azzardare una egual fomma, o prezzo, altrimenti reſterebbe manifeſtamente tolta
di mezzo la neceſſaria uguaglianza. E' chiaro che allora il prezzo con cui ſi
acquiſta la ſperanza è eguale alla metà del valore dell' oggetto; poichè il
primo altro non è che la porzione di depoſito di uno dei giocatori e il ſecondo
è la ſomma delle due porzioni 2 1 uguali componenti il totaledepoſito.Ma co me
trovare in queſto caſo il numero dei caſi favorevoli uguale a quello dei
ſiniſtri come pure eſige la ſtabilita Teoria? E certamente ſe fi conſiderino i
caſi favorevoli, ei con trarj diſtintamente in ciaſcuno dei giocatori; non ſi
potrà fiſſare nè ragione di uguaglianza nè altra qualunque. E' queſta una
evidente verità, ſe ben ſi conſiderino le leggi di queſto gioco, per le quali
dipendendo la ſorte di un giocatore, non dai ſuoi colpi ſolamente ma da quelli
ancora dell'avverſario, i ter mini della proporzione ſaranno ſempre rela tivi,
e per conſeguenza variabili. Eſaminata però più maturamente la natura del gioco
di cui ſi tratta, fi dee riflettere, che il nu mero dei caſi favorevoli a un
giocatore, è compoſto non ſolo dei caſi propizi a lui di rettamente, ma dei
caſi altresì all'avverſario contrarj; e al contrario il numero dei finiſtri,
altro non è che la ſomma degl'infauſti a lui, e dei favorevoli all'avverſario.
Ma quando fi giochi con condizioni eguali, queſte due fomme fono eguali: dunque
anche in queſto 22 caſo può reſtare verificato il canone della ſtabilita
proporzione, e i prezzi ſtare fra loro come i caſi favorevoli ai finiſtri. Da
ciò ne ſegue, che ſe due giocatori proponganſi di incontrare la medeſima favo
revole combinazione o la medeſima ſomma di accidenti; ma che uno voglia far più
ſaggi del gioco, o cercar con più mezzi quelle combinazioni che preſentino
maggior ſomma degli elementi del gioco, nella guiſa di ſopra accennata; l'altro
in tal caſo dovrà eſami nare di quanto il numero delle combinazioni a ſe
favorevoli reſti fuperato dalle ſiniſtre, ed eligere che la porzione di
depoſito dell' avverſario ſuperi in tal proporzione quella che egli conferiſce
nel gioco. Sia concertato per eſempio, che abbia il premio del gioco quello che
fa più numeri con i dadi, ed uno voglia gettarli più volte, o in ugual numero
di volte gittarne un mag gior numero, è manifeſto, che dalla natura, e dalle
leggi di queſto gioco, ſi potrà con le note regole delle combinazioni ricavare
in che proporzione debba egli eſporre all'azzardo ſomma maggiore. Che ſe poi
trattiſi della ſeconda ſpecie di ſopra accennata, che è allor.quando uno ſolo
dei giocatori ſi eſpone ad incontrare una o più favorevoli combinazioni, in un
dato numero di faggi, e ſotto certe leggi, e l'altro guadagna full infauſto
eſito dell'avverſario, ſenza tentare egli di per ſe alcuna forte di gioco, è
più difficile allora, ed è più operoſo il fiſſare gli opportuni termini della
noſtra proporzione. L'intenzione e l'oggetto dei giocatori in tal caſo può
eſſere di eſporre all'azzardo una ugual porzione, o di eſporla diverſa. Nel
primo caſo il giocatore che intraprende, e faminata la natura del gioco, e le
leggi chę a lui propone l'avverſario, potrà ricavarne il numero dei caſi
favorevoli e quello dei ſiniſtri, e dimandare quelle condizioni nelle quali
queſti due numeri ſi uguaglino: nel ſe condo conviene che dimandi quelle condi
zioni nelle quali, il numero dei favorevoli caſi, ſuperi tanto quello dei
contrari, di quan to la ſua porzione di depoſito ſupera quella dell'altro, o al
contrario. Intraprende uno 14 di gettare un dado in maniera che ſi ſcuopra la
faccia la quale moſtra il numero 6. Se lo deve fare in una ſol volta, ſiccome
ha cin que combinazioni contrarie, e una ſola fa vorevole, converrà, che
l'altro azzardi una ſomma cinque volte maggiore, altrimente la proporzione
reſta alterata. Che ſe trattiſi di azzardare una fomma eguale da entrambi i
giocatori, e ſi voglia più volte ricominciare, erinovare il gioco, converrà
oflervare quanti tratti di dado ſiano neceſſarj per fare che il numero dei caſi
favorevoli, ſia uguale a quel lo dei contrarj, del che, e relativamente al
noſtro addotto caſo, e ai fimili, ne da una eſtefa tavola il gran Bernulli alla
propoſizio ne X. del libro primo del ſuo trattato inti tolato ars conje
&tandi; ove dimoſtra un ingan no che in fiſſare queſta proporzione è facile
a pigliarſi da chi eſamini queſta ſpecie di gioco ſulla prima apparenza, ſenza
internarſi profondamente nelle fue leggi. Diffi, quan do fi voglia più volte
ricominciare, e rino vare il gioco, per le ragioni addotte dal Ber nulli nel
loco citato; giacchè fe non ſi ri 25 novi ſucceſſivamente, egli è evidente che
chi deve con un ſol dado ſcoprire la faccia del numero 6. per eſempio, ed
azzardare una ſomma eguale a quella dell'avverſario, do vrà chiedere di gettare
il dado tre volte; e cid col patto che non s'intendano in queſto numero
compreſe quelle volte in cui ſi vol taſſe di nuovo una medeſima faccia del dado
già ſtata ſcoperta. Ciò che ſi è detto di due giocatori, dicaſi di più, e ſi
conſiderino diſtintamente tutti i contratti che fa ciaſcuno dei giocatori, e
l'azzardo a cui eſpone ciaſcuno la depoſitata porzione, e ſi vedrà che non
reſta punto terata la noſtra teoria, benchè coll’eſporre una determinata ſomma
ſi poſſa guadagnare la medeſima moltiplicata per il numero dei giocatori (a ).
Anzi è regola univerſale in tutti i caſi compleſſi di gioco, ridurli ai ſem
plici dei quali è compoſto, ed eſaminare in ciaſcuno di effi le ſovra ſtabilite
maſſime. Dalle medeſime troppo chiaro appariſce (a) Vedi il Corollario del
Teorema III. che i vantaggi, che ha in alcuni giochi il banchiere, per eſempio
nel faraone quello dei doppietti, quello dell'ultima carta, ed altri che ha
ſecondo i vari uſi dei paeſi ove giocaſi tolgono l'uguaglianza, perchè tur bano
la fiſſata da noi proporzione; poichè nei caſi medeſimi nei quali il premio che
dà il banchiere è uguale alla ſomma azzardata dal puntatore, il numero dei caſi
favorevoli al primo è maggiore del numero dei favo revoli al ſecondo; o in
ugual numero di caſi favorevoli il ſecondo azzarda più del primo. Si pretende
nonoſtante, che ſe ſi conſideri, non la relazione che ha ciaſcun giocatore in
particolare al banchiere ma bensì tutto il ſiſtema del gioco, vi ſiano molti
rifleſſi che giuſtifichino queſto vantaggio di condizione. Una ſplendida ſomma
ſottopone egli alla cie ca ſorte, e ſi obbliga di laſciarla ſempre in pericolo.
Il puntatore per lo contrario può voltar le ſpalle ſdegnoſo a quella avverſa
for tuna, che tenta in vano di placare; o aven dola provata propizia può
aſſicurare i ſuoi doni dalla capriccioſa ſua volubilità. Oltre 1 1 27 di ciò la
ineguaglianza delle ſomme eſpoſte dai vari giocatori, delle quali alcune per
dendo può il banchiere rimanere ftremo, ed eſauſto, ſenza ſperanza di tirar
profitto dalla incoſtanza della fortuna; le altre ſe vin ce appena gli recano
un tenuiſſimo guada gno; la non leggiere fatica per ultimo del banchiere
medeſimo poſſono baſtevolmente render leciti i vantaggi che egli ha nel liſte
ma del gioco. Io preſcindo dall' eſaminare quale, e quanta conſiderazione
eſigano le accennate circoſtanze. Due coſe ſolo aſſeri ſco. E che alcune di
queſte ſono quantità non già coſtanti ma variabiliſſime, eſſendo relative a
circoſtanze facilmente alterabili; e che conſiderato il gioco in ciaſcuno a par
te dei puntatori relativamente al banchiere, come par certamente debbaſi
conſiderare, la alterazione della proporzione ſtabilita è mol to notabile in
iſvantaggio dei primi, e in manifeſta utilità del ſecondo. Non voglio perd
omettere, che eſſendo ſta ta eſaminata con eſatto calcolo la ſerie dei vantaggi
del banchiere per ogni pofta femplice, cominciando dalla ſuppoſizione che vi
ſiano 52. carte fino a quella che ve ne ſia no quattro due delle quali ſiano
dell'iſteſſa figura, ſi è rilevato che la media, è il 5. per 100. Ma in tutto
un giro quando l'avi dità dei giocatori fa che per mezzo dei pa roli o delle
paci la forza del gioco ſi traſporti almeno verſo l'ultime 24. carte, allora la
media diventa il 9. incirca per 100. Ep pure le circoſtanze che eſigono
compenſa zione non variano in modo da efigere que Ita differenza (a ). Non ſi
ha dunque nell'attuale ſiſtema del faraone la vera maniera di trovare la com
penſazione delli ſvantaggi del banchiere. Bi ſognerà dunque per ottenerla, o
fiſſare il nu mero delle pofte: 0 por dei termini ſopra, e fotto de' quali non
poſſa ſalire o ribaſſarſi la poſta: 0 tentar di fiſſare più che fia poſſibile
una ſomma relativa alle diverſe poſte la quale (a) Si noti che il vantaggio di
ſopra indicato del ban chiere ſi ripete tante volte quante poite fi fanno, onde
ſi vede in un ſol giro quanto ſia enorme ed ecceffivo. 29 effendo un di più
della poſta medeſima, ma conoſciuto, non altererà le giuſte proporzioni fra il
prezzo ed il premio: o diſperare per ultimo di poter mai annoverare fra i con
tratti giuſti il gioco del faraone. Sogliono comunemente dalle fagge leggi
vietarſi i giochi di pura ſorte, come quelli che per una certa fatalità
luſinghiera, ſi uſur pano il tempo dovuto alle pubbliche cure, alle dotte
occupazioni, ed al domeſtico reg gimento delle famiglie, alle quali recano sì
di frequente irreparabile ruina; che non è già sì di rado, che una carta di
gioco, o un ſol colpo di dado decida della defolazione, e dell' inopia di molti
infelici. Si aggiunge a queſto, che la dura legge del biſogno, e la ſevera
faccia dell'avverſa fortuna dettano all'inaſprito giocatore le arti meno oneſte,
e i mezzi più indiretti nel gio co medeſimo; talchè ſi verificano di troppo i
celebri verſi di Madama Deshouliers. Le deſir de gagner qui nuit &jour
occupe Eft un dangereux aiguillon; Souvent quoique l'eſprit, quoique le coeur
foit bon, On commence paretre dupe, On finit par etre fripon. E quanto il gioco
di pura ſorte ſia ſtato ſempre deteſtato lo conoſcerà chi oſſervi le Leggi
Romane al tit. De aleatoribus, e nei digeſti, e nel codice, e legga i dotti
commenti degl' interpreti sù i medeſimi, e vedrà che ſi è ſempre riguardata
come oggetto di compal ſione e di orrore la miſera condizione di que gl’incauti
quos praeceps alea nudat. Io però e nel gioco, e in tutti i contratti di
azzardo eſamino la giuſtizia per rapporto ſoltanto alla ſovra eſpoſta
neceſſaria ugua glianza, preſcindendo affatto da qualunque carattere che poſſa
rendere i medeſimi, o conformi, o oppoſti alle provide leggi, e ai retti
coſtumi. Similiſſima al gioco è un'altra ſpecie di contratti d'azzardo, che
chiamaſi comune mente il lotto de go. numeri; cinque dei quali ſi eſtraggono da
un vaſo, e decidono della ſorte di chi ſulla ſperanza, che eſcano 31 dall'urna
miniſtra della fortuna, azzarda una data ſomma di denaro. Troppo ſon note le
leggi di queſto contratto, e troppo è facile il conoſcerne e combinarne gli
accidenti, per poter francamente aſſerire che non vi è forſe contratto di
azzardo nel quale, e più nota bilmente e più ſolennemente la ſtabilita pro
porzione reſti alterata. Sempliciſſimi elemen ti formano il ſiſtema di queſto
contratto, e una ſuperficialiſfima cognizione di calcolo è baſtevole per far
conoſcere, che ſebbene una tenue ſomma di denaro può cambiarſi in una ſplendida
maſſa di oro, pure a fronte di un caſo favorevole ve ne ſono tanti dei
ſiniſtri, che rieſce aſſai più ſuperata la probabilità di gua dagnare da quella
di perdere, che non la ſomma azzardata dal promeſſo premio per ricco e grande
che poſſa parere. Per ſalvare la giuſtizia di queſto gioco, non giova il dire,
che conſentendo i gioca tori con piena e perfetta libertà a queſta
diſuguaglianza, queſto baſta per rendere le gitima quella convenzione, che
ſarebbe al trimenti tanto leſiva. Queſto argomento proverebbe troppo in genere
di contratti, e per ciò deve conſiderarſi di neſſun vigore. Sareb be queſta
maſſima l'appoggio di moltilli mi contratti ingiuſti, e la difeſa di infiniti
illeciti guadagni. Oltre di ciò la maggior parte di quelli che giocano al lotto
neppure ardiſce di ſoſpet tare, che ſiavi a loro ſvantaggio una sì di chiarata
ſproporzione; anzi moltiſſimi rin graziano come generoſa e prodiga quella mano
che premia i vincitori, come ſe foſſe un gratuito dono ciò che non è ſe non una
piccola parte di un debito. Più ſolida difeſa potrebbe recarſi riflettendo
doverſi in queſto contratto dal padrone del lotto impiegare molti miniſtri, e
fare molte e gravi ſpeſe, per lo che può eſigere ragionevolmente un
riſarcimento; ma tutto ciò ancora non baſta a rendere giuſto queſto contratto
fe ad altri termini e ad altre maſſime non ſia ridotto. Troppo anche più enorme
era la diſugua glianza, prima che con lo ſtabilito aumento foſſe migliorata la
condizione dei giocatori; condizione però, che tuttora è aſſai inferio re a
quella del padrone del lotto. Quì però fa d'uopo dileguare un inganno comune a
moltiſſimi che hanno le vedute corte, e limitate dalla prima ſuperficie delle
coſe. Altro è l'aſferire, che il lotto conſide rato ſemplicemente come un
contratto è in giuſto; altro è il dire che un Principe giuſto non poſſa
ammetterlo nel ſuo ſtato, e debba toglierlo affatto, e ſradicarlo come un mal
nato germe della rovina di tanti ſconſigliati. Il lotto può conſiderarſi come
un tributo, che viene impoſto a chi ſpontaneamente con fente di pagarlo;
cangiandoſi così in vantag gioſo al pubblico, ciò che potrebbe eſſer tan to
pernicioſo al privato. Non ſi può deſcri vere l'ardore che muove ciaſcuno a
cercare in queſta guiſa un propizio ſguardo della for te; nè ſi può immaginare
quanto ſia pungen. te lo ſtimolo che ſpinge, e inquieta chi ri fiette che con
una tenue ſomma di denaro, che azzardi, può guadagnare di che ſoſten tare una
languente e numeroſa famiglia, o pur talora dilatare i confini del proprio luf
ſo, o accreſcer anco tal volta un nuovo peſo agl’inoperoſi forzieri. Quindi è
che tanti, e 34 tanti ſi affollano a tentare nel lotto la ſorte (a ). Penetrati
dall'idea, e ſedotti dalla luſinga di (a) Non può negarſi per altro, che
riccome tutte le cofe hanno un grado di valore e di eſtimazione ri Spettiva che
naſce dall' uſo che può o vuol farne chi ne è padrone: può conſiderarſi ſotto
l'iſteſſo aſpetto anche il denaro. Oltre il ſuo valor generale che na. ſce dal
rapporto che egli ha alla maſſa delle coſe che ſono in commercio, può dirſi che
un altro egli ne abbia privato e ſpeſſo mutabile, che naſce dalla qualità
e quantità deibiſogni, o reali, o di opinione che à nelle date particolari
circoſtanze, chi lo poſſiede; Può darli adunque che ciò che ſi azzarda al lotto,
levato da una gran quantità, fia una piccola por zione di eſſa, relativamente
ſuperflua; onde il ſuo valore ſia ſtimato sì tenue a fronte di una ſomma
ragguardevole che rappreſenta un gran numero di comodi e di piaceri benchè
fperabile ſolo per un piccoliſſimo grado di probabilità, che detto valore nella
eſtimazione di chi lo gioca ſia conſiderato come zero, o come una quantità più
o meno ad eſſo approf. fimante, formandoſi perciò, per così dire, una nuova e
riſpettiva proporzione, ſecondo la quale il vantaggio molte volte ſarebbe dalla
ſua parte. Queſto ſe non baſta, come ognun yede manifeſtamente, a render giuſto
il contratto ſerve a render qualche ragione del traſporto, che hanno a tentar
la forte in queſto gioco tanti che pur ne fanno ben conoſcere le condizioni, e
calcolar le ſperanze. 35 quel bene che ſperano, non penſano a mi. ſurare i
gradi della ſperanza medeſima; e il molto oro che già poſſeggono col penſiero,
getta ſugli occhi loro un lampo che abbaglia talvolta anche il più ſaggio
filoſofo, e il più freddo calcolatore. Quindi un tale impeto non conoſce freno
che poſſa reggerlo, e non legge che poſſa vincerlo. Se un Principe tol ga dal
proprio ſtato queſto oggetto dei co muni voti, la ſconſigliata avidità ad onta
delle più fagge leggi, e deludendo le più ve glianti ſollecitudini ſi
precipiterà in altri ſtati, che ſi arricchiranno a ſpeſe di quello onde il
lotto ſia proibito ed eſcluſo. Unſaggio Principe adunque che può far ar gine a
queſto torrente, accid non sbocchi al di fuori; deve procurare che ſi ſcarichi
tutto a pubblico vantaggio, e che quella porzione di ſoſtanze che fagrificano
follemente alla loro avidità i membri del corpo di cui egli è il capo circoli
per il medeſimo, e poichè i pri vati ſi eſpongono a riſentire dello ſvantaggio,
neſſun nocumento però ne venga alla Repub blica. Così facendo il faggio
Principe, e non 1fi attira la taccia di ingiuſto, e merita tutta la lode di
prudente, di politico, di difenſore e cuſtode della pubblica felicità. Di
queſta verità ne conoſcono per una fe lice eſperienza il frutto in più ſpecial
maniera quei popoli, che hanno la ſorte di eſſere go vernati da Principi umani
e benefici, che per l'uſo che fanno del loro erario, anzichè pof ſeſſori, ſe ne
moſtrano piuttoſto amminiſtra tori a pubblico e generale vantaggio. Havvi
un'altra ſpecie di lotti nei quali non è un ſolo il premio, nè un ſolo il colpo
fa vorevole della forte, ma molti ſono i premi, come molti e vari i caſi
propizi; e ſecondo l'ordine dell'eſtrazione dei numeri dall'ur na, o ſecondo
altre leggi convenute in pri ma ſi decide del maggiore, o minor premio. Tale è
il lotto che ſi è fatto in Spagna per la coſtruzione del canale di Murcia,
nella quale occaſione ſiccome ha fatta luminoſa comparſa la vaſtità, e
penetrazione di ſpirito di chi ha ideato il progetto della grand'ope ſi è
diſtinta non meno la finezza, e il di ſcernimento di chi ha regolato il metodo
di ra;. 2 37 accumulare le gravi ſomme di denaro neceſ fario ad un sì grandioſo
diſpendio. In queſto contratto come nei ſimili ad eſſo biſogna conſiderare, che
varie ſono le ſperanze e molte, perchè vari e molti ſono i premi, e che la
ſomma di tutti reſta come venduta a quelli che hanno comprati i viglietti.
Sicco me queſti hanno sborſato un ugual prezzo, così devono avere fra loro
ugual numero di caſi favorevoli e finiftri relativamente ai di verſi, o
maggiori o minori premi; quali eſſendo per lo più vitalizj, l'uguaglianza fra
gli azionarj e il padron dell'impreſa dipen de dalle regole, ſecondo le quali
ſi ſtabiliſce la giuſtiza dei vitalizj. Ma non ſi troverà mai eſatta queſta
uguaglianza, poichè una parte notabile del denaro che contribuiſcono gli
azionarj, non già nel numero o nel valore dei premi ſi impiega, ma ſi deſtina
alle ſpeſe delle ideate opere ſontuoſe. In queſto di Murcia però così ſono
ſtati bilanciati i di ritti degli azzionarj, e ſono ſtati così grada tamente
formati i premi, e in tal numero, e così bene è ſtata regolata l'economia di
queſta sì grandioſa impreſa, che forſe non vi è ſtato mai un'altro lotto, in
cui ſiaſi nel tempo iſteffo meglio aſſicurata la ſomma ne ceſſaria alla
deſtinata opera, e ſia ſtata me no alterata la proporzione a ſvantaggio de gli
azzionarj. Troppo ſon note le lotterie, che con al tro nome chiamanſi dai
Franceſi Blanques perchè io impieghi molto tempo in eſami nare le qualità, e i
caratteri di tale contrat to. Dall'economo del gioco ſi mette in un vaſo un
certo numero di viglietti, dei quali alcuni ſon bianchi ed altri neri, e ſi
vende il diritto di eſtrarne uno il quale ſe è nero apporta a chi lo eſtraſſe
il guadagno di un premio del valore che è notato ful viglietto medefimo. Ognun
vede, che accið ſiavi ugua glianza convien ricorrere alla regola mede ſima, che
ſi è data pei lotti che ſi fanno per grandioſe opere pubbliche, avuta anche quì
in conſiderazione la fatica, e il diſpendio dell'economo del gioco, e riflettendo
che in queſto caſo i premi non ſono vitalizj. Questo è un CONTRATTO – cfr.
Grice, quasi-contratto -- della natura di quello che dai 39 latini chiamavasi
olla FORTVNAE. In simil guisa OTTAVIANO (vedasi) dilettavasi al riferir di SVETONIO
(vedasi) di compartir doni ai suoi cortigiani, chiamando così la sorte ad esser
ministra della sua beneficenza. Talora un solo è il premio che si disputa fra
quelli che giocano alla lotteria, e allora se il premio non è denaro ma un
altra cosa qualunque che abbia prezzo, si giustifica più facilmente, giusta
l'opinione di Barbeirac, la notata disuguaglianza: e l'economo del gioco può
vendere non solo tanti viglietti quanti corrispondono al valore del premio, ma
ancora in maggior numero anche di quello che altronde eſiger pud e l'opera sua,
e il dispendio, quando ve n'ha. Questi lotti si riducono, dice Barbeirac, ad
una specie di compra che si fa in comune, a condizione che la sorte decida a
chi debba appartenere la cosa comprata. Se ſiavi adunque dell'alterazione nella
proporzione, ſi potrà conſiderare come se si fosse comprata la cosa ad un
prezzo un poco più alto del corrente; penſando che ciaſcuno tra 1 ! fcuri
queſto di più che in altra fpecie di con tratto gli parrebbe forſe notabile,
ſulla ſpe ranza di guadagnare il premio più o meno fondata a proporzione che
uno ha comprata maggiore, o minor quantità di viglietti. Queſta mallima, che
non è certamente di ri goroſa giuſtizia, non ſi potrebbe eſtendere
perfettamente a quei lotti nei quali, e molti e di vario prezzo ſono i
viglierti, e molti e di vario valore i premi; a tutti quelli in ſomma, nei
quali non ſia aſſolutamente u guale la condizione dei ſingoli poſſeſſori di
ciaſcun viglietto, benchè lo ſia riſpettiva mente. Prima di paſſare ad altri
contratti giovami riflettere, che anche quando il padron del gioco, o qualunque
altro che ne abbia di ritto pretende, che ſiano valutate le ſue fa tiche e il
ſuo difpendio, non tanto ſi può dire che v'intervenga una compenſazione; quanto
che ſi verifica di fatto a tutto rigore la noſtra proporzione, giacchè quel di
più che fi paga, non è a titolo di compra della speranza, ma bensì a titolo
dell'altrui di 41 ſpendio, e fatica; e per conſeguenza eſſendo una quantità
eſtranea alla detta proporzione non la può in verun modo alterare. Si poſſono
ridurre ad un contratto d'az zardo appartenente a queſta claſſe le ſorti ancora
propriamente dette. La ſorte, dice l'elegantiſſimo ſcrittore della ſtoria
degl'ora coli, è l'effetto dell'azzardo, e come la deci fione, o l'oracolo
della fortuna; ma le ſorti fono gli ſtrumenti di cui uno pud valerſi per ſapere
qual ſia queſta deciſione. Le ſorti ſono ſtate in uſo preſſo i più antichi
popoli; e la forte s'interrogava, o col gettare i dadi colle proprie mani, o
col gettarli da un urna: e ai caratteri, ed alle parole che ſu i dadi erano
ſegnate, corriſpondevano alcune tavole che ne contenevano la ſpiegazione. Altre
molte erano le maniere di tentare la ſorte, e di a ſcoltarne gli oracoli. E'
incredibile poi quan iti, e quanto gravi affari ſi regolaſſero a ta lento di
queſta cieca divinità. Baſta leggere gli autori che trattano dei voti che ſi
offe rivano a Preneſte, e ad Anzio, e che parlano diffuſamente delle forti
Omeriche, e Virgiliane. I verſi dell'immortale Epico Greco, nei quali dipinge
con sì vivi tratti l'impeto, e il furore dell'indomito Achille, ritrovati a
caſo nell'aprire l'lliade, erano talvolta la fola innocente cagione della
rovina delle più floride città, e della deſolazione d'intiere Provincie. E ſe
per lo contrario, aprendo i libri della divina Eneide s'incontravano gli amabili
colori coi quali ſi dipinge la man fuetudine e la pietà del figlio d' Anchiſe,
gli animi tutti non reſpiravan che pace, e quei pochi verſi baſtavano per dar
fine alle guerre più ſanguinoſe. Aleſſandro Severo, ſalito al foglio dei Ce
fari, credette di averne avuto un preſagio, quando privato ancora, anzi odioſo
all'Im peratore Eliogabalo, aprendo nel Tempio di Preneſte l'Eneide di Virgilio,
s'incontrò in quel tratto, ove queſto gran Poeta eſalta le virtù e piange
i'immatura morte di Marcel lo, e preciſamente gli ſi preſentarono quelle parole
fi qua fata aſpera rumpas Tu Marcellus eris. Ma io non parlo propriamente di
queſte forti, e confeſſo anzi eſſere le medeſime uno dei monumenti più ſolenni
dell'umana fol lìa. Io quì parlo delle ſorti, che chiamanlı elettive, diviſorie,
attributorie, e ſimili delle quali brevemente eſporrò la natura e le qua lità,
ed applicherò alle medeſime i più volte enunciati Teoremi. Due, o più perſone
han diritto ad una coſa medeſima; eſaminato il valore del lor diritto lo trovano
uguale; non vogliono gettare, nè tempo, nè denaro in ſuſcitare queſtioni;
aſcoltano anzi ſentimenti più miti, e commettono alla ſorte la deci fione
dell'affare, anzichè affidarlo alle lun ghe, e diſaſtroſe vie dei Tribunali.
Conſe gnano i loro nomi all'urna diſpenſatrice della forte, e quello è
giudicato favorito dalla me deſima, del quale vien eſtratto il nome; e vien
dichiarato pacifico, e ſolo padrone di quella coſa alla quale avea con gli
altri ugual diritto. Che ſia lecito commettere in talguiſa alla ſorte un affare
dubbioſo o controverſo non v'ha dubbio alcuno, giacchè non vi è ra gione per
cui non polfa uno obbligarſi ſotto una condizione tale, che il purificarſi la
mede fima dipenda dall'incerto, e vario evento della forte. Ora ſe i diritti
ſono uguali, ſe quanti fono i concorrenti tanti ſono i nomi che ſi conſegnano
all'urna, ecco che i prezzi che vengono rappreſentati dai diritti che ſi az
zardano, ſtaran fra loro come i numeri dei caſi favorevoli ad uno, al numero
dei caſi favorevoli a ciaſcuno degli altri riſpettiva mente; ed ecco ſalvata
l'uguaglianza di pro porzione fra i favorevoli, e ſiniſtri caſi, e fra i
riſpettivi prezzi della ſperanza, la ſomma dei quali è l'oggetto della medeſima
nel caſo di cui ſi tratta. L'iſteſſo può dirſi a proporzione, quando uno abbia
un diritto, per eſempio doppio di quello degli altri; e baſterà che in tal caſo
due volte ſi affidi il ſuo nome all' urna fata le; e così dicaſi di altri
ſimili caſi. E di fatto queſto contratto a farne una giuſta analiſi ſi riduce
ad un gioco di pura forte, in cui molti depoſitando ugual por zione un ſolo
guadagna tutte le porzioni de poſitate, del quale ſi è di ſopra parlato; e
ſi è detto, che uno depoſitando maggior
por zione, pud eſigere a proporzione condizioni più vantaggioſe. L'iſteſſe
maſſime regolar denno le ſorti elettive che ſi uſano, quando molti avendo un
privato diritto ad eſſere eletti a qualche onorifica o autorevole dignità,
troncano ogni ſorgente di diſcordanza col tentare la forte, L'iſteſſo dicaſi
delle ſorti diviſorie, e di quan te altre poſſono immaginarſi, che tutte ſi ap
poggiano ai medeſimi fondamenti, e in tutte nel modo iſteſſo ſi trova la
proporzione che coſtituiſce l'uguaglianza fra i contraenti, Fin quì fi è
parlato di quei contratti che alla prima delle ſopra indicate claſſi appar
tengono. In effi fra la ſperanza che ſi acqui ſta, e il prezzo con cui ſi
acquiſta ſi può fif fare un eſatta, inalterabile, e matematica proporzione.
Note fono tutte le cagioni che poſſono aver rapporto al favorevole o triſto
evento della ſorte, ſi conoſcono tutti gli ele menti dei quali ſi formano le
varie combi nazioni, e ſi fanno perfettamente tutti i modi 46 diverſi per mezzo
dei quali queſte fi forma no. E' queſto forſe l'unico caſo al quale ſi poſſa
applicare lo ſpiritoſo Emblema del ce lebre Moivre, rappreſentante la ruota
della fortuna, e ſopra di eſla una ſemicirconferen za di cerchio, che con le
ſue diviſioni ſerve a regolare quei capriccioſi giri, che ſono l'og getto di
tanti voti, e la cagione di tante vi cende dei mortali. Chi intraprende queſti
contratti pud, direi quafi, venire alle preſe con la ſorte, e conoſcendone la
forza e l'ar mi bilanciare il deſtino della lotta fatale. Non è così certamente
nei contratti che alla ſeconda claſſe ſi riferiſcono, ne' quali il rapporto
neceſſario a formare l'uguaglianza fra i contraenti, ſi appoggia alla ſola
ſperien za del paſſato, e a cagioni incerte, e varia: biliffime. lo ſo bene che
ſi ſono pur trovati dei Filoſofi che hanno francamente aſſerite due coſe. La
prima, che nelle umane vicen de che colpi chiamanſi della ſorte, e a noi pajono
fortunoſi e irregolari, ſiavi un ordine coſtante, eun'originale diſegno per cui
dirette da una provida mano che lor dà moto ſecon 47 1 do certe invariate
leggi, eſcano a ſuo tempo ad agire in queſto sì ben congegnato ſiſtema del mondo.
La ſeconda, che l'irregolarità, che non agli eventi medeſimi e alle vicende, ma
alle noſtre cortę vedute deveſi attribuire, ſcom parirà finalmente, e replicate
l'eſperienze fi vedrà quella conneſſione che ora ci è inco gnita, e ſi
conoſceranno i fottiliſſimi punti nei quali ſi uniſcono i tanti fili, che
regolano con sì bella armonia l'intero univerſo. Da queſte due propoſizioni
argomentano, che dunque dopo un dato tempo, ſiccome cre ſcendo il numero delle
ſperienze, queſte ci danno regola per conoſcere ſempre più la probabilità di un
evento, che anch'eſſa va ſempre aumentando a miſura che ſe ne co noſce la
regolarità, arriverà un giorno queſta probabilità a cangiarſi in certezza. Ecco
ciò che aſſeriſcono con molta ſicu rezza alcuni FILOSOFI, alla testa dei quali
è l'incomparabile Moivre più altero di aver rintracciato ne' ſuoi intimi
penetrali l'ordine della NATURA, e di averle ſtrappato queſto ſe 43 creto, che
non fu già il ſuo celebre concit tadino di aver conoſciuti, e indicati i rego
lari moti e le orbite dei pianeti per gl'im menſi ſpazi del cielo. Egli è
veriſſimo che la gran macchina dell univerſo ricevè dalle mani creatrici quel
grande impulſo, che poi la mantiene in moto coſtantemente, e dal quale come da
prima cagione derivano tutti i più piccoli moti della medeſima, benchè
immediatamente prodotti dalle ſottiliſſime e varie molle che la com pongono, e
le dan forza. Ad eſſo ſi riferiſce ugualmente un'auretta leggiera che diſſipa
per la ſelva poche aride foglie, e un procel loſo vento che ſull'immenſo Oceano
di ſperde e rompe una flotta ſuperba di mille vele. Le grandi vedute di un
politico illumi nato, che formano il ſoſtegno e la forza del Trono, non ſono
agli occhi dell' Onni potente niente più luminoſe delle ignobili e ſconoſciute
cure di un ſelvaggio, dirette ſoltanto a ſoſtentare la propria vita, e a
difenderſi dall'ingiuria delle ſtagioni. Che poi l'Eterna mente che tutto sà e
49 za, o del tutto regola, abbia voluto che fra i varj eventi che inteflono la
ſerie delle umane vicende, e che ſon chiamati in più ſtretto ſenſo fortunoſi
ſiavi un rapporto più che un altro, un tal'ordine e non un altro, queſto è
quello che io credo non poterſi ſcopriregiam mai. Che dopo un certo periodo
ricompa riſca di nuovo l'iſteſſo evento, chedopo certe rivoluzioni torni
l'iſteſla ſerie di coſe, ridon da egli forſe in maggior lode o della fapien
potere eterno, e ſovrano? Nell'immenſo vortice della divinità fi pers dono le
idee, che noi abbiamo di ordine, e conneſſione. O non vi è relativamente agli
occhi divini ordine e regola; o non potiam noi conoſcere in che conſiſta; o
tutto deve dirſi averla ugualmente. Chi vede inſieme col preſente ſiſtema di
coſe infiniti altri pof fibili, vede un punto che non è ſuſcettibile di quei
rapporti, che ſono idee relative a vedute limitate e finite; o ne vede infiniti
altri, per cagion dei quali pud agli occhi ſuoi parer regolato tutto ciò che
noi chiameremmo forſe diſordine, e confuſione. Ma non è forse neppur vero essere
più vantaggioſo all'uomo che ſiavi di fatto nelle umane vicende queſta
regolarità. Fra le infinite vedute, che l'occhio im menſo ha preſenti per il
vantaggio delle ſue creature, chi ſaprà dire quale abbia fillata a preferenza
dell'altre? Se un Sovrano cela ai ſuoi popoli i diſegni che forma, e le impreſe
che và maturando, queſta condotta è diretta a tenergli nella dovuta ſommiſſione,
e ad allontanarne l'orgoglio: e ſe un padre, ben chè benefico fa l'iſteſſo
co'propri figli, non lo fa ad altro oggetto, che ad animarne la cieca
confidenza che è uno dei più vivaci alimenti di un reciproco amore. Non vi è
dunque argomento che comprovi queſta preteſa regolarità degli eventi che ſi
fogliono chiamare fortuiti, e caſuali. Ma ſe ancor foſſevi, io ben non veggo ſu
che fondamento ſi aſſeriſca, che agli occhi mortali eziandío dovrà una volta
comparir chiara, e ſvanire per conſeguenza quella ap parente irregolarità che
alla ſcarſezza delle noſtre notizie, e alla mancanza di eſperien ze, in tale
ipoteſi deveſi attribuire. SI Quando ſi vuol fiſſare la contingibilità di un
evento, oſſervar dennoſi ogni volta ch ' ei compariſce, le circoſtanze che lo
accom pagnano, e l'intervallo di tempo che paſſa fra le diverſe ſue apparizioni.
Quanto più creſceranno di numero le oſſervazioni, tanto più potrà conoſcerſi in
quali circoſtanze ed in qual tempo debba arrivare. Da queſto ap punto
argomentano gl ' indicati filoſofi, che ciaſcuna ofſervazione è diretta a
ſcemare un grado della diſtanza che corre fralla irrego larità dipendente a
ſenſo loro dalle noſtre corte vedute, e la regolarità che eſiſte di fatti
nell'originale diſegno, e lega inſieme ed u niſce ſotto certe leggi tutte le
varie vicende. Replicando adunque le eſperienze, rinovan do le offervazioni, ſi
potrà arrivare a render nulla affatto queſta diſtanza; e a ſquarciare del tutto
quel velo che cela ai noſtri occhi queſta bella regolarità. Di fatto
ſoggiungono, che altro è la cer tezza ſe non un tutto di cui la probabilità è
una parte? Creſcendo adunque queſta per mezzo delle oſſervazioni, potrà
arrivare al 1 گرí grado di confonderſi col ſuo tutto: ed ecco fiſſata la
certezza di quegli eventi, che ſi fo no ſempre creduti giochi, e capricci di
una irregolare fortuna. E' egli per altro evidente queſto diſcorſo?
Potrebb'egli un animo, che non voglia ar renderſi ad altra forza, che a quella
della ve rità, dubitare ancora di ciò medeſimo che uomini di grande ingegno
hanno tenuto per certo? E prima di tutto nel formare la tavola dei tempi nei
quali ricompariſce l'evento medeſimo, convien riflettere di non notare ſe non
quelle volte, nelle quali ſi moſtra ri veſtito delle medeſime circoſtanze. Se
così è, e ſe queſte ſono preſſo che infinite, e in finitamente variabili, ne
verrà per conſeguen za che quella rivoluzione che dee ricondur l'iſteſſo evento
farà sì vaſta, e il circolo che la rappreſenta sì ampio, che o non ſi potran no
da chi oſſerva congiungere oſſervazioni sì diſparate e rimote, o sì poche ſe ne
po tranno fare, e la probabilità creſcerà sì len tamente da non potere giammai
arrivare al grado di confonderſi colla CERTEZZA – Grice, UNCERTAINTY. Tra=
laſcio di oſſervare che un evento può com parire a noi accompagnato dalle
medeſime circoſtanze, ed eſſervi nulladimeno tanta va rietà, che ſe foſle da
noi ben conoſciuta fa rebbe sì che a tutt'altra ſerie da quella di cui ſi fanno
le oſſervazioni, dovrebbeſi ri chiamare. Si conſideri ora ſeriamente qua lunque
di queſti eventi che fortuiti chiamat ſogliamo, da quante cauſe poſſa provenire,
e queſte in quante maniere poſſano combi narſi; e vedremo, ſe per quante ſi
vogliano replicate ſperienze ſi potrà giammai arrivare ad argomentare dalle
circoſtanze che altre volte fi videro accompagnare un evento, la eſiſtenza del
medeſimo. Quelle ragioni medeſime che immediata mente influiſcono ſugli eventi
fortuiti hanno conneſſione con vari ordini di cauſe più o meno rimote, che
innumerabili ſono ancor eſſe, e capaci di innumerabili gradi di alte razione. E
quì potrei ricorrere a tante fiſiche teorie, le quali dimoſtrano, che un gran
fe nomeno può avere la ſua prima ſorgente, tam 54 lora sì rimota che per
infiniti giri, e tortuoſi fentieri appena ſi può rintracciare; talvolta sì
piccola, che dopo averla conoſciuta, ap pena ſi può credere che da eſſa derivi.
E la ragione, e la immaginazione vanno in queſto caſo d'accordo a preſentare al
pen fiero l'enormiſſima ſproporzione che correrà ſempre fra un gran numero di
offervazioni quali peraltro non potranno eſſere moltiſſi me, (ſe vogliano porſi
in calcolo quelle ſolo che fimiliſſime ſono, è relative ad oggetti ſimili ) e
l'immenſo vortice fra cui fi aggi ra ľ apparente irregolarità. Di quì deriva,
che a rigore parlando dubitar deveſi di quella maſſima, che la probabilità di
queſti eventi arriverà una volta a cangiarſi in cer tezza. E quì fa d'uopo
riflettere, che la proba bilità, e la certezza ſono due atti eſſenzial mente
fra loro diverſi, come dicono i meta fiſici, e che fralla maſſima probabilità
che arrivi un evento, e la certezza, vi è di mez zo una ſerie infinita di
poflibili. Il timore di errare che ſi coinpone con la maſſiına probabilità e
viene eſcluſo dalla minima cer tezza, è una barriera inſuperabile, per cui non
ſi poſſono giammai fra loro confon dere, ed è quello appunto che le rende (ſia
mi lecito uſare un termine di matematica trattando di una materia nella quale
ſe n'è fatto uſo con tanto profitto ) quantità in commenſurabili. Le prime
oſſervazioni che fi fanno intorno a un determinato evento, non poſſono dargli
che un grado di pro babilità così piccolo riſpetto al vortice im menſo della
irregolarità, e all' infinita ſe rie dei poſſibili dall'evento medeſimo di
verſi, che queſto grado pud conſiderarſi co me un infiniteſimo. Siccome adunque
per trasformare un infiniteſimo in una quantità finita deveſi queſto moltiplicare
per l'in finito, così queſto grado di probabilità do vrebbe ricevere infiniti
aumenti per mezzo di infinite oflervazioni, prima che ſi poſſa chiamare ridotto
al carattere della cer tezza. Parlo di caſi nei quali la ſerie dei poſſibili,
che è di mezzo fralla probabilità e la cer 56 2 ! tezza, è compoſta di cauſe,
che ogn'uno fa eſſere non immaginate ma vere, e poterſi in infinite maniere
combinare. Poche oſſervazioni baſtano al filoſofo per render certe, o almeno
eſcludenti un pru dente dubbio, alcune ſempliciſſime leggi della natura, dove
tanto è lontano che ſi co noſca effervi infinite altre cagioni poſſibili, che
anzi per argomenti preſi dai principi delle ſcienze ſi deduce non eſſervi luogo
a ſoſpettare che altre ve ne ſiano. E' ben diverſo il caſo noftro ove trattaſi
degli eventi che danno occaſione ai contratti di azzardo; e riguardo a quali ſi
pretende ſolo di mettere in diffidenza la maſſima che promette che ſi abbia a
cangiare in una aſſo luta e rigoroſa certezza, quella che è mera probabilità, e
forſe capace di creſcer ſolo pochi gradi. Che non pud fare l'amor di ſiſtema?
Lo ſpirito calcolatore avvezzo a portar lume ai più aſtruſi miſteri della
geometria, e ad ana lizzare le coſtanti leggi della natura col più felice
ſucceſſo, ſi lancia ardito dal gabinetto $ 7 di un filoſofo, e prefume di porre
in mano ai mortali un filo che ſegni la traccia co ſtante degli eventi più
incerti, e di aſſoggets tare alla ſua eſattezza ed uniformità, quan to v'ha di
più vario, e mutabile. Non ſolo hanno cercato alcuni di ſcoprire un'ordine
conoſciuto dai naufragi, un'ordi ne riſpettato dai morbi, e dalla ineſorabil
morte; ma hanno fperato di poterlo tro vare anche in quegli eventi che più
dipen dono da cauſe morali e libere, le quali agi ſcono certamente, non perchè
così voglia un ordine e non un'altro, ma perchè così vo glion eſſe, e non
altrimenti. Si è perfino tro vato chi ha propoſto le tavole degl'incendii,
delle cadute fatali da un precipizio, e di molti altri ſimili fortunofi
accidenti come ſe ſi poteſſe ſcuoprire anche in eſſi a ſuo tempo regola, ed
ordine. Per quanto poſſa nei caſi dipendenti da fi fiche cauſe trovarſi una
conneſſione fralle me deſime per lunga ſerie concatenate, in guiſa che debbano
in un dato tempo produrre un effetto più che un'altro; non ſi potrà mai dire 1
1. $$ altrettanto quando vi abbia luogo una libera volontà che non ſiegue
ordine, o conneſ fione, e che può produrre un'atto ſenza rap porto a verun'
altro che abbia altre volte prodotto, o che ſia per produrre in appreſſo. E ſe
è vero, che negli eventi, e nei caſi preſi in compleſſo di tutte le loro
circoſtanze, e in quelli ſpecialmente che ſono il ſoggetto dei contratti di cui
parliamo, qualche o più proſſima, o più rimota influenza vi hanno le cauſe
morali; che ſi può egli penſare di più ſtravagante che il volergli ridurre
eſattamen te a regola e pretendere di cangiare la pro babilità in certezza? E
chi fu mai che tentaffe di ordinare le diſperſe, e confuſe foglie, che
contenevano le riſpoſte ſull'avvenire, della fatidica Sacer dotella di Cuma? Ma
quand'anche gli argomenti da me ad dotti non provaſſero l'impoſſibilità di
arriva re dopo un lunghiſſimo corſo di anni a can giare in qualche certezza la
probabilità, pro vano almeno, che per noi, e per ben mol te generazioni queſta
farà una ſterile ricer 59 ca; giacchè per molti, e molti ſecoli, (ac cordando
anche più di quello certamente, che ſi può ) non ſi potrà vincere quel diſordi
ne, e irregolarità almeno apparente, che of ſervaſi nelle umane vicende, e che
in ſomma il limite delle medeſime è tanto diſcoſto, che pud conſiderarſi come
infinitamente diſtante. Dal fin quì detto per altro non ſi può ra gionevolmente
inferire, che dunque dal com mercio degli uomini ſi debbano eſcludere i
contratti di azzardo che appartengono alla ſeconda delle ſopra indicate clafli.
Per provare la verità di queſta aſſerzione convien fiſſare due maſſime conformi
alla ragione, e che ſe non erro ſono il fonda mento al quale ſi appoggia la
giuſtizia di queſti contratti. Queſta uguaglianza fra i contraenti che è sì
neceſſaria a render giuſti i contratti è un termine vago, e che non ha affiffa
alcuna idea, ſe allo ſtato di natura vogliam rimon tare. Il prezzo delle coſe
introdotto o dalla legge, o dalla conſuetudine che imitatrice della legge la
vince di autorità, ecco ciò che ha chiamata l' uguaglianza a preſiedere ai
contratti. Alla ſocietà dunque, e alle fire maſſime deveſi attribuire. Si
eſamini pero lo ſpirito della ſocietà, e ſi vedrà che nelle ſue maſſime
generali non ſi devono comprendere quei caſi che è dello ſpirito della medeſima
l'eſcludergli, e l' eccettuarli. Si riduce al lora la queſtione, ad eſaminare
ſe ſiano utili alla ſocietà i contratti in queſtione; e ſe nelle bilance del
pubblico bene ſia di maggior mo mento il vantaggio che recano, o la preciſa
offervanza di quella perfetta uguaglianza ne contratti, che è tanto neceſſaria
generalmen te alla quiete, e felicità degli individui, e al buon ſiſtema, e
conſervazione di queſto cor po morale, e politico. Pochi elementi, e poche idee
ſciolgono il problema. Induſtria eccitata, commercio invigorito, circolazione
ampliata. Vantaggi fono queſti generalmente procurati da tali contratti ben
regolati, come ſi può ben co noſcere da chi ne eſamini lo ſpirito, e le
conſeguenze. Daqueſto argomento riceve gran forza un 61 ſecondo rifleflo. In
queſti contratti non ſi può avere fra i contraenti una perfetta ugua glianza di
condizione, perchè non ſi può eſattamente miſurare la loro forte. Ma ciò che
manca a queſta giuſta miſura è con une ad entrambi. Ad entrambi è egualme ite i
gnoto per chi debba eſſere il vantaggio, e per chi il diſcapito, potendo
ugualmente nel caſo noſtro, e l'uno, e l'altro a ciaſcun di loro arrivare; e
queſto medeſimo forma una ſpecie di ſorte uguale, la quale pud ſupplire a
quanto manca alla perfetta uguaglianza. Diſli alla perfetta uguaglianza, perchè
le maſſime ſopra eſpoſte ed impugnate, vacil lano ſoltanto, perchè oltrepaſſano
certi li miti, dentro dei quali rinchiuſe provano moltiſſimo, rapporto alla
uguaglianza che deve eſſere nei contratti della ſeconda claſſe. Inteſe le
maſſime con la dovuta moderazio ne, è veriſſimo che eſtraendo da un'urna ove
ſiano alla rinfufa molti viglietti bianchi e molti neri, quante più eſtrazioni
fi anderan no facendo, tanto più creſcerà la conoſcen za del rapporto che hanno
fra loro: è verif fimo che le oſſervazioni ſegnate in tavole danno ai giovani
la prudenza dei vecchi: ed è incontraſtabile che quanto più ſpeſſo ac caderà in
natura un evento, tanto più ſi po tranno attrappare le circoſtanze che lo ac
compagnano, e farà meno irragionevole l'in duzione che dalla eſiſtenza di queſte,
ſi farà della futura eſiſtenza di quello. Si potrà dun que avere un qualche
dato per eſaminare la probabilità di un'evento, e proporzionargli il prezzo con
cui ſe ne acquiſti la ſperanza. Per formare una ſerie dei diverſi gradi di tale
probabilità gioverà eſaminare un qualche contratto in ſpecie, e fiffare i punti
dai quali la ſerie ſi parte; poichè non ſi potrebbe con tanta facilità fare una
giuſta analiſi, o alme no egualmente chiara, ſe fi conſideraſſero le idee in
aſtratto, e ſenza applicarle ad un de terminato ſoggetto. Fra tutti i contratti
che ridur ſi poſſono a queſta ſeconda claſſe parmi che meriti di eſ ſere
diſtintamente eſaminata l'aſſicurazione, Efla è un contratto per cui uno dei
contraenti ſi obbliga a riparare tutti i danni che può un altro ſoffrire nelle
ſue merci per naufragio, o altre convenute cagioni; e queſti ſi obbli ga a
pagarli una determinata mercede in com penſo del pericolo al quale
volontariamente ſi eſpone. 1 Fiorentini che avendo già eſteſo il loro commercio
per tutto il Levante aveano fatto conoſcere a tutto il mondo quello ſpirito di
lo devole induſtria, e fagacità, che forma il nerbo e la floridezza di uno
ſtato, e che fu ſempre del loro carattere, furon quelli che riduſſero a certe
leggi queſto contratto, e gli diedero for ma e credito. Inſegnarono così alle
altre na zioni commercianti a tirarne quel profitto, che il profondo, ed
illuminato Melon aſſe riſce dover eſſere sì ampio per uno ſtato che abbondi di
eſperti, ed avveduti aſſicuratori. Di fatto alla Repubblica Fiorentina deb
bonſi i primi capitoli di aſſicurazione che furono diſteſi negli anni 1523., e
1525. A queſti ſucceſſero negli anni 1563., e 1570. le ordinazioni di Olanda.
Non è ſtata queſta l'unica occafionein cui abbiano, gareggiato in fatto di
commercio queſte due nazioni, la prima delle quali ha faputo ſempre profittar
pienamente delle fe lici fue circoſtanze, e la ſeconda compenſare ognora in
mille modi i danni della infelice ſua ſituazione; e inſultar quaſi alla natura
di ayerla in eſſa collocata. Gli ſcrittori che hanno trattato di queſto
contratto lo diſtinguono in due ſpecie. La prima chiamano eſſi aſſicurazione
propria mente detta, ed è quando le merci che ne ſono l'oggetto appartengono di
fatto a quello che ne chiede l'aſſicurazione; e queſto è ciò che intendono
ſotto il nome di riſico dell' aſſicurato; ed inoltre ſono eſſe realmente ſog
gette a pericolo, o com'eſſi dicono a ſiniſtro. Per la validità di queſto
contratto ricercaſi la coeſiſtenza del riſico, e del ſiniſtro; ed è quanto dire,
che l'aſſicuratore non deve pa gare la ſicurtà, nè l'aſſicurato la mercede, ſe
le merci avean corſo già il loro deſtino quan do fi ftipulò il contratto, o ſe
non apparten gono all'aſſicurato. Per maggior comodo poi, e dilatazione di
commercio fu introdotto il contratto di affi 65 curazione ſulle merci o proprie,
ma non nella ſomma che ſi afferiſce, e che cade ſotto l'aſſi curazione: o
appartenenti affatto ad altra perſona. In queſto contratto il fondamento
conſiſte nella fola eventualità dell'azione; e ſi può in eſſo ravviſare
un'apparenza di Scommeſſa della quale però gli mancano ſe condo molti, alcuni
caratteri. Anche in queſta ſeconda ſpecie comunemente ricer caſi, che le merci
ſiano in pericolo ancora quando ſi fa il contratto; benchè in alcune piazze ſi
ſoſtenga anche nel caſo che le merci aveſſero già corſa la loro forte quando ſi
ſti puld il contratto, purchè però queſto non foſſe a notizia dei contraenti.
Per ridurre pertanto in qualche vero ſenſo il contratto di aſſicurazione alla
Teoria ſopra eſpoſta regolatrice della uguaglianza neceſ faria nei contratti di
azzardo, fa d'uopo con ſiderare due fatta di caufe che influir poſſono
full'evento incerto, che ne forma l'oggetto. Altre ſono le cauſe fiſiche che
per un puro meccanico impulſo della materia agiſcono in dipendentemente da
qualunque libera determinazione di una cauſa ſeconda; il mare cioè più o meno
ſparſo di pericoli, agitato da vortici, terribile per gli ſcogli; il vento che
tormenta più un ſeno di mare che un altro, e domina più in una ſtagione, che in
un altra; la qualità del naviglio, più o me no capace di reſiſtere agli urti, e
di inſul tare gli Aquiloni; e finili altre che a que ſte ridur ſi ponno, anzi
con queſte confon derſi. Più incerte affai, e più indocili all'eſat tezza del
calcolo ſono quelle cagioni che mo rali ſi chiamano, perchè o conſiſtenti nella
libera determinazione di un ente creato, o da quella dipendenti almeno
mediatamente. La deſtrezza, e la buona fede del capitano: l'abilità dei
marinari e dei piloti: il nume ro, e la gagliardìa dell'equipaggio: la mag
giore o minor frequenza dei pirati che infi diano fraudolenti, e poi attaccano
rapaci; o dei nemici armatori che appoggiano le fan guinoſe loro infeſtazioni
ai tremendi diritti della guerra, ſono o le uniche, o le più con ſiderabili di
queſte cauſe morali. i Se il fondare un
calcolo eſatto ſulle fiſiche cagioni ſuaccennate è impoſſibile: il fondarlo che
ſi accoſti all'eſattezza difficiliſſimo: lo ſarà molto più l'appoggiarlo alle
cauſe morali che non agiſcono per una conneſſione di mo vimenti, e d'impulſi
che l'un l'altro fiſie guano neceſſariamente; ma che operano per una mera
libera determinazione, che per qualunque congettura la più apparentemente
probabile non ſi può preſagire; poichè anche preſa può ſul momento abbandonarſi,
per cangiarla in una affatto diverſa, e talora dia metralmente oppoſta, e
contraria. Un canone perd univerſaliſſimo, e da non preterirſi giammai in
queſto contratto, parmi quello di non conſiderare neſſuna cauſa, o fiſica, o
morale, ſeparatamente o iſolata dalle altre; ma di oſſervare l'influenza reci
proca che hanno tutte le cauſe l'una ſopra dell'altra, e quella non meno che
hanno ſulle morali; e l'iſteſſo dicaſi di queſte rapporto alle fiſiche. Il
momento di ciaſcuna cauſa ſi altera a miſura che diverſamente è combi nata, o
temperata colle altre. Per conoſcere però quanto poſſano queſte cagioni, e
ſingolarmente preſe, e in complef ſo, è neceſſaria una lunga ſperienza. In
queſto contratto, per caſi ſiniſtri non ſi intendono già tutte quelle
combinazioni, che realmente poſſono funeſtare l'aſſicuratore, e perder la nave,
nè per favorevoli quelle che ſalva dai naufragi, e dalle oſtili violenze, la
confe gnano al ſoſpirato porto. Fatta una tavola di accurate, e frequenti
oſſervazioni, e conoſciuto quante volte in parità di circoſtanze ſiaſi perduta
la nave, e quante ſia giunta felicemente al deſiato fuo termine; la ſomma delle
prime rappreſenta la ſomma dei caſi ſiniſtri; e quella delle ſe conde ſi tiene
per il numero dei favorevoli; e ſu queſti dati ſi forma la proporzione da noi
ſtabilita nel III. Teorema. Queſta è la ſpecifica differenza che paſſa fra i
contratti del primo genere, e queſti che al ſecondo appartengono. Nei primi
entrano in calcolo tutti quanti i poſſibili caſi e fini ſtri, e favorevoli,
perchè ſi fanno tutti, e ſe ne conoſce perfettamente il numero; noi 1 69
ſecondi fi calcolano quelli ſoltanto, che dopo una lunga ſperienza ſi ſono
oſſervati; reſtan done non compreſi nel calcolo tanti altri pof ſibili, i quali
perd dopo molte e molte oſler vazioni fi fuppongono in proporzione di no tati.
La proporzione ſi accoſta tanto più al vero, quanti più ſono i caſi oſſervati,
come appunto accade nell'urna che contiene un ignoto numero di palle bianche e
nere: delle quali con tanto minor pericolo di errore ſi può fiffare la
proporzione, quanto più copioſa ſe ne è fatta l'eſtrazione. In una parola, nei
primi è incerto l'eſito della ſorte; nei ſecondi è incerto anche ciò che può
determinarlo. Rariſſimi però ſono i caſi che ſieno riveſtiti perfettamente
delle medefine circoſtanze. Fa d'uopo adunque per formare la propor zione
ricorrere alle diverſe tavole, ove ſono notate le circoſtanze preſe
ſeparatamente; e conſiderarle come tanti elementi dei quali ſono compoſti i
dati della proporzione. Scioglie una nave dal Porto, e veleggia per un mare
tranquillo, e placido; queſta circoſtanza è un fondamento della propor 70 zione
da ſtabilirſi fra il valor delle merci, e il prezzo dell'aſſicurazione; e la
tavola delle navigazioni fatte in queſto mare lo additerà preciſamente. Ma fe
queſta nave corra un pericolo di pirati, o di nemici che le altre navi facendo
il medeſimo viaggio non avevan corſo giammai, nel formare la proporzione vi
entra anche queſto elemento, la di cui forza ſi miſura dalla tavola di altre
naviga zioni benchè fatte in altri mari, e ſi compone il minor pericolo che ha
queſta veleggiando per un mare tranquillo; col pericolo che cor ſer altre per
la ſola oſtile infeſtazione. Vaglia queſto per eſempio delle proporzioni com
poſte di varj elementi, il valor dei quali ſia regiſtrato in diverſe tavole,
non obliando giammai nel combinarli la forza che acqui ſtano dalla reciproca
loro influenza. Ma può talvolta non eſſervi l'eſperienza baſtante a far
conoſcere i gradi di probabi lità dell'eſito lieto, o infauſto. Monta per la
prima volta un vaſcello un Capitano, che non ha mai per l'avanti governato
naviglio alcuno: infeſta i mari una turma di corſari 1 1 71 sbucati da qualche
ſcoglio che alzava prima una barriera alla fanguinaria loro rapacità e dei
quali ignoraſi per anco il numero, ed il valore, o a meglio dire la violenza
della eſecrabile loro ſete dell'oro e del ſangue; chi potrà miſurare i gradi
dell'influenza che ha ſull'eſito felice la prụdenza e la deſtrezza del primo, e
ſull’infauſto l'ardire, e la forza dei ſecondi? In tal caſo per quanto vogliaſi
dare un va lore anche a queſte circoſtanze nuove; fon dandolo ſu qualche
piuttoſto appreſa, che conoſciuta ſomiglianza ad altri caſi; egli è certo però
che ſenza una più volte ripetu ta eſperienza, non può fiffarſi una propor zione
di cui ſi calcolino i gradi, e ſi nume rino i valori; e ſenza di eſſa non ſi
può for mare una ſerie che ſerva di norma all'u guaglianza ricercata in tali
contratti. Tutto alla fine ci conduce a riflettere, che una e fatta proporzione
nei contratti del ſecondo genere non può ſperarſi giammai; che in molti caſi ſi
potrà avere meño lontana dall' eſattezza; in altri ſi troverà dalla medeſima 72
più rimota, come dal fin qui detto chiara mente appariſce. Ma forſe gli
aſſicuratori interrogano que ſte tavole, formano calcoli, e ſciolgon pro blemi?
Il filoſofo che ſcortato dalla ragione fino ai loro principi eſamina le azioni
degli uomini e le bilancia, conoſce che queſti cal coli ſono neceſſarj a
ridurre i contratti all' uguaglianza e comprende che queſta tanto più ſi
otterrà facilmente, quanto più ſiano frequenti queſte tavole, e numeroſi i caſi
che ad eſſe, come a indicatrici della ſorte ſono af fidati; l'aſſicuratore poi
accorto ed illumi nato le conſulta, o le deſidera; l'indotto, e meno avveduto
ha preſente, almeno in con fuſo la maggiore, o minor frequenza de' fini ſtri
nelle date circoſtanze ſeguiti, e ſu queſto implicito calcolo forma il ſuo
giudicio più o meno eſatto, e non ſi affida totalmente alla cieca all'arbitrio
dell'incerta forte. In queſto contratto il prezzo che eſpone l'aſſicuratore, è
il valore delle merci, che egli ſi mette in azzardo di dover pagare all' aſſicurato;
quello dell'aſſicurato è la merce: 1 73 de che egli paga all'aſſicuratore in
compenſo di queſto azzardo medeſimo. Ma ſiccome fatto il contratto di aſſicura
zione, l'aſſicurato deve in qualunque evento pagare all'aſſicuratore la
convenuta merce de, pare a prima viſta che per l'aſſicurato non ſiavi azzardo
alcuno; poichè dal punto dello ſtabilito contratto è deciſa la ſua forte; o a
dir meglio riguardo a lui nel ſuo con tratto non ha luogo alcuno la forte.
Baſta però una giuſta rifleſſione ſulla natura di tal contratto, per vedere che
anche per l'aſſicu rato vi è l'eſito favorevole della ſorte ſicco meancora
l'infauſto. Caſo favorevole può chiamarſi quello che rende il contraente pago,
e contento di aver fatto il contratto; talmente che ſe aveſſe pre veduto
l'eſito, conſultando ſolo il ſuo van taggio, l'avrebbe nonoſtante fatto, anzi
con tanto maggiore alacrità. Per lo contrario infauſto può dirſi quello che in
qualche modo gli dà occaſione di pentimento, in guiſa che ſe aveſſe previſto
l'eſito avrebbe omeſſo di fare il contratto. Ora quantunque 74 l'aſſicurato,
fatto il contratto ſia già ſicuro di dover pagare la mercede, qualunque ſia
l'evento; quando però la nave giunga a ſal vamento, è in caſo di pentirſi del
ſuo con tratto; poichè ſe non lo aveſſe fatto, e avreb be avuta ſalva la nave,
e non avrebbe fof ferto il diſpendio della ſtabilita mercede. In queſto ſolo
ſenſo, e non in altro, che ſareb be troppo contrario all'umanità, poichè ſi
riſolverebbe in compiacerſi dell'altrui dan no, che neppur ridonda in proprio
vantaggio, ſi pud intendere ſiniſtro per l'aſſicurato il caſo del ſalvamento
della nave; e in queſto ſolo può ridurſi il contratto al carattere di una vera
ſcommeſſa, di cui è eſſenziale ſe condo alcuni, che l'avvenimento favorevole ad
uno dei contraenti, ſia per l'altro infau ſto, e ſiniſtro. Conchiuſo il
contratto, l'al ficurato che ha ſentimenti di umanità, deſi dera che ſi falvi
la nave, ma falvata la nave vorrebbe non aver fatto il contratto. Quello che
non ſi può in modo alcuno ri durre a calcolo, ſi è nella perdita di una na ve,
la minore, o maggior quantità di merci, ! 75 che ritoglier ſi potranno
all'ingordigia dell onde, e ritrarre al lido; lo che ſuccede mol te volte, e fa
che non debbanſi tutti i cafi ſiniſtri giudicare di un carattere egualmente
dannoſo; ma diverſi, a miſura, che più o meno delle aſſicurate merci, ſi perde,
e ro vinafi. Il poter prevedere, e calcolare in a vanti tal quantità
influirebbe molto a deter minare la mercede che l'aſſicurato promet te. Ma chi
potrà mai calcolare le tante cauſe che poſſono influire ſopra un sì variabile
accidente? Forſe l'aſſicurato avrà all'ingroſſo preſente queſta varietà di
combinazioni; ma potrà egli dare ai loro effetti un giuſto valore? I principj
fin'ora eſpoſti regolatori di que Ito contratto, quando ha per oggetto merci
affidate al pericoloſo traſporto di mare, pof ſono facilmente adattarſi alle
merci traſpor tate per terra; anzi alle merci, o ſituate nei magazzini, o in
altra maniera cuſtodite. Tutto ciò che può eſſer ſoggetto ad un fatal accidente,
e per quello perire, o deteriorarſi, fi fa eſſere oggetto di queſto contratto.
Anzi il guaſto di un incendio divoratore, le ruine 70 di un turbine procellofo
che abbatte caſe, porta la deſolazione per le campagne, la vio lenta incurſione
di rapaci aſſaſſini, o le ru berie affidate al ſegreto e alle tenebre della
notte dalle timide mani infidiatrici, ed altri pericoli di tal fatta, che a
prevederli biſogne rebbe nulla meno che lo ſpirito di divinazio ne,
ſomminiſtrano in alcuni paeſi occaſione di venire alle mani con la ſorte, ſenza
che nè l'una parte nè l'altra poſſa mai, neppure all'in groſſo e colla maggiore
ineſattezza, miſurarla. Un'altro contratto non meno intereſſante, e che
appartiene a queſta ſeconda claſſe ſi è quello che chiamaſi vitalizio. Gli
uomini non contenti di affidare la loro forte a tante, e sì varie combinazioni
che alterano, e modificano sì ſtranamente gli ef Teri inanimati; hanno voluto
che ella dipen da anche dalla vita dei loro ſimili, ed hanno fatto sì che un
uomo debba ftimarſi infelice ſe un altro gode per lungo tempo sì prezioſo dono
del cielo. La vita iſteſſa è venuta tal volta in bilancia con un tenuiſſimo
guadagno. Il vitalizio altro non è che l'annuo interesse di un capitale
collocato a fondo per duto. Chi colloca in tal guiſa il ſuo capitale lo fa ad
oggetto di ritrarne un profitto mag giore di quello che riſerbandoſene il
dominio potea ſperare. Suol eſſere comune queſto con tratto e a coloro che non
avendo perſone congiunte con ſtretto vincolo di ſangue o di amicizia, o che non
curando le veci dell' uno, o dell' altra, non hanno nulla che gli ritragga dal
provvederſi i mezzi di ſodisfare anche a quei biſogni che ſono figli del più
molle, e faſtoſo luſſo; e a quegl' infelici, che ſenza queſto compenſo condur
dovrebbero i triſti loro giorni in ſeno all'inopia, e allo ſqual lore. Il
vantaggio di liberarſi da tante fre quenti, e penoſe cure della domeſtica eco
nomia luſinga molto, ed è talor neceſſario, a chi trovandoſi in un'età cadente,
accom pagnata per lo più da una infaufta dote di mali, vedrebbe da mercenarie
mani rapaci diſperſi, e lacerati i ſuoi fondi, rendergli un frutto di gran
lunga inferiore a quello che potrebbe ritrarne perchè diviſo con tanci
domeſtici fti pendiati uſurpatori. 78 Quello poi che ſi carica di pagare un
frutto maggiore dell'ordinario ha per oggetto non folo di fare in un colpo l'acquiſto
di una ragguardevole ſomma, ma di vedere la vita di quello a cui lo paga non
oltrepaſſare un tal corſo di anni che la rendita ecceſſiva af forbiſca il
capitale, e la ſomma degli inte reſſi ordinarj, che egli ne ha ritratti. Aipri
mo arride la ſorte fe ſopravviva un tal nu mero di anni che fatta la ſomına
delle an nuali rendite vitalizie, queſta ſuperi il fondo perduto e di più le
rendite ordinarie del medeſimo. Favoriſce il ſecondo ſe la morte fi affretti a
troncare prima di tal termine i giorni dell'altro. Ecco lo ſpirito di queſto
contratto. Per rintracciare nel medeſimo la neceſſaria uguaglianza, e per
verificare i noſtri teore mi è neceſſario riflettere, che sborſato il ca pitale
che ſi perde, e fiſſata la rendita mag giore dell'ordinaria, vi ſarà un certo
nume ro di anni, per il corſo dei quali ſopravi vendo, la ſomma degli ecceſſi
della rendita vitalizia full' ordinaria uguaglierà il capitale. Se quello
adunque che perde il fondo foſſe ſicuro di ſopravivere un tal corſo d'an ni,
non potrebbe eſiger di più di queſta de terminata rendita vitalizia. Ma ſiccome
quel lo che dà a vitalizio non è ſicuro di vivere un determinato numero d'anni;
per poter rendere eguali le condizioni dei contraenti, è neceſſario fiſſare un
tal numero d'anni, che la probabilità di ſopravivere ſia uguale a quella di
premorire, e che al caſo che uno ſopraviva o due o tre anni, o qualunque altro
numero, ſi poſſa con ugual probabilità contrapporre il caſo che muoja un egual
nu, mero d'anni prima. Quando dunque ſi tratta di formare un vitalizio,
conviene eſaminare quanto abbia ſopraviſſuto un gran numero di perſone, per
eſempio mille, all'età di quello che vuol farlo. La ſomma di tutti gli anni che
tali perſone hanno ſopraviſſuto di viſa per il numero delle medeſime, dà un
numero, che ſi chiama l'età media. Trovato queſto, ſi ſuppone che chi fa il
vitalizio deb ba ſopravivere fino a tal termine, e ſi fa il diſcorſo che ſi è
detto di ſopra, quando ſi è 80 fatta l'ipoteſi che uno foſſe ſicuro di vivere
nè più nè meno un determinato numero d'anni. Nel fiſſare la media ſi ſono
conſide rati gli eventi che poſſono favorire il caſo della ſopravivenza eguali
in numero a quelli che vi ſi oppongono; uguaglianza che ſi ac coſterà tanto più
al vero quanto ſarà mag giore il numero delle vite dalle quali ſi ri cava la
media. Ecco dunque, come in queſto caſo la ſpe ranza può dirſi uguale al timore,
e per con ſeguenza può aver luogo l'azzardo ſenza op porſi alla giuſtizia, ed
ecco finalmente ridot to il contratto ai termini dei noſtri teore mi. La ſomma
del capitale più le rendite ordinarie, che è il prezzo eſpoſto da chi perde il
fondo, deve ſtare alla ſomma delle rendite vitalizie che formano il prezzo
eſpoſto dall' altro contraente, come il numero dei cafi favorevoli al primo, al
numero dei caſi fa vorevoli al ſecondo; i quali ſupponendoſi moralmente uguali
per l'accennata ragione, ne ſegue che la ſomma del capitale, e delle rendite
vitalizie dovrà eſſere eguale alla fom 81 ma del capitale, e delle rendite
ordinarie computando tal ſomma fino al termine del la vita media, che per
ipoteſi ſi dà ſtabilito per l'indicato calcolo. Si ridurrà dunque l'uguaglianza
di queſto contratto a diſtribui re per detto numero d'anni queſta ſomma; o ſia
a rendere anche più ſemplice l'eſpreſ fione, ſi tratterà di aggiungere alle
annue rendite ordinarie il capitale diſtribuito per detto numero d'anni.
E'evidente che per rendere in queſto contratto le condizioni più eguali convien
pigliare un grandiſſimo nu mero di vite per formar la media. E quì ſi oſſervi
che ſe poteſſe la probabilità della du rata di una vita fino a un dato numero
d'an ni cangiarſi in certezza, ſarebbe tolto affatto l'uſo di queſto contratto:
lo che dee dirſi di tutti i contratti di azzardo. Si penſa a can giare la
probabilità degli eventi in certezza. Se queſto ſi otteneſſe ſarebbe affatto
bandita quella cieca divinità alla quale ſi abbando nano gli uomini per
formarne un ramo di commercio. Vogliamo adunque miſurar la forte, non
eſpellerla. f 82 Tanto più farà facile in queſto contratto fiſſare la media,
quanto più ſaranno ridotte a claſſi diſtinte le perſone delle quali ſi ſom mano
le età. Qualità di profeſſione, carattere di temperamento, indole di clima,
eligono ſeparate oſſervazioni. In fatti, ſiccome per cali favorevoli
s'intendono quelli per i quali ſi prolungano le vite, per contrari quelli che
le abbreviano; e i ſecondi, nel fillarſi l'età media vengono conſiderati
moralmente ugua li di numero ai primi; queſta uguaglianza ſarà più vicina alla
vera, quanto maggiore ſarà la parità di circoſtanze. Se abbiaſi però riguardo
non ſolo alle an nue rendite vitalizie, ma al frutto delle me deſime, potendoſi
eſſe, e il frutto loro cangia re ſucceſſivamente in forte fruttifera; fic come
quello che paga l'annua rendita vita lizia paga un frutto maggiore di quello
che ritrae; dovrà a proporzione ſcemarſi l'ecceſſo della rendita vitalizia
ſull'ordinaria. Queſto però non ſi oppone alla verità del teorema terzo; poichè
in tal caſo il prezzo che eſpo ne quello che paga la rendita vitalizia non farà
più quell'ecceſſo della rendita vitalizia ſull' ordinaria, che naſcerebbe dalla
fillata proporzione; ma ſarà un ecceſſo tanto mino re, quanto è la differenza
del frutto della rendita vitalizia conſiderato ſucceſſivamente, e per ferie
cangiato in forte fruttifera, dal frutto della rendita ordinaria conſiderata
nell'iſteſſa maniera, e così cangiandoſi pro porzionalmente le eſpreſſioni dei
due prezzi, non ſi cangerà l'analogia. Non farà difficile il perſuaderſi
dell'indi cata differenza fe fi conſideri, che chiamata la ſorte totale per
eſempio A, e una di lei porzione C, alla quale corriſponda l'annuo frutto B,
ſarà la ſerie delle annue rate d'in tereſſe o ſia di ciò che ſi deve ogni anno
nella ipoteſi che il frutto ſi cangi in forte, eſpreſſa dalla ſeguente formola.
(C + B ) A,(B ) A (C (C + B С N o ſia eſprimendo per Nil numero degli anni
ſcorſi dal primo (C + B) À laddove quando il N frutto non ſi cangia in ſorte fi
avrà una ſe C_A f 2 rie aritmetica il di
cui primo numero cor riſpondente al primo anno farà il capitale col frutto; il
ſecondo il capitale col doppio del primo frutto; il terzo il capitale col tri
plo del primo frutto. Il valore adunque del frutto del primo anno ſarà la
differenza dei termini di queſta ſerie. Siccome poi nel caſo dell'ultima
ipoteſi, tanto la rendita ordiną ria, quanto la vitalizia ſi cangiano in forte;
fatte le due ſerie di potenze ſecondo la eſpo fta formula, e ridotte ai termini
individui del caſo di cui ſi cerca, ſi conoſcerà il valore della ricercata
differenza. Richiaminſi però a queſto contratto i prin cipj ſtabiliti in quello
dell'aſſicurazione, e ſi abbia in viſta che per caſi favorevoli, altro non
s'intende, che il numero di quelle per ſone che in parità di circoſtanze hanno
ſo pravviſſuto un dato numero d'anni, per ſi niſtri poi il numero di quelle che
ſono man cate prima; che queſta parità di circoſtanze vien compoſta talora da
molti elementi il valore de'quali dev'eſſere prima a parte no tato; e che la
vita dell'uomo dipendendo da cagioni fiſiche e morali, fa di meſtieri riflet
tere al diverſo loro carattere, e alla recipro ca influenza delle medeſime.
Lodevolilimo però è l'uſo di far le tavole, o regiſtri, nei quali ſi notino la
naſcita, la morte, e gli altri accidenti della vita umana; poichè queſte ſole
appreſtano il fondamento ſu cui ſi appoggiano tanti vantaggioſi con tratti; ed
elle ſole danno la miſura delle forti, e delle aſpettative dei contraenti.
Sarebbe in conſeguenza deſiderabile che ciaſcun medico regiſtraſſe privatamente
le qualità, e gli accidenti dellemalattie che egli tratta; ſiccome quelle del
temperamento di ciaſcun malato, che egli libera, o che non può ritrarre dalle
prepotenti fauci di morte. Queſte ridotte in ſiſtema, e reſe pubbliche
riſparmierebbero molte volte la pena di com binarne molte formate da indotti
oſſervatori, anzi fovente farebbero neceſſarie; poichè l'imperito regiſtratore
omettendo tutte le circoſtanze, o alcuna almeno delle eſſenziali, rende inutili
le ſue oſſervazioni, e appreſta piuttoſto occaſione all'altrui errore, o irri
fleſſione. Benchè e da quali tavole ſi potrà mai rica vare la giuſta miſura
della vita d'un uomo? Quot non ſunt caufae, dice S'graveſand intro duft. ad
Phil. a quibus vita hominis pendet? Una di queſte tavole forſe la più eccel
lente, perchè ricavata da regiſtri d'interi regni e provincie, è quella di
Pietro Süſmlich da lui intitolata: La divina providenza nelle vicende
dell'umana ſpecie, dimoſtrata dall'or dine delle naſcite, morti e
moltiplicazioni. Celebre è anche quella di Hocdſon fatta appunto per fillare le
annue penſioni vitali žie, e dedotta dai cataloghi di mortalità di Londra.
Gl’Italiani forſe ſono quelli che hanno traſcurato fin'ora più dell'altre
nazioni queſti importanti regiſtri. Oh ſe lo ſpirito d'indu ſtria, e di
curioſità, che non è l'ultimo pre gio di queſta nazione ſe l'intendeſſe ſempre
con la vera, ed utile filoſofia ! Sono ſtate fatte oſſervazioni meteorologiche,
ed ulti mamente l'aſtronomo di Padova il chiariſ fimo S: Toaldo ha dato alla
luce un libro nel quale ſono regiſtrate le oſſervazioni fatte í per un lungo corſo d'anni. Più palpabile
però, per ſervirmi di una eſpreſſione di un fommo Filoſofo, e più immediata
ſarebbe l'utilità delle tavole di cui ſi parla. Vi è tutta la ragione di
aſpettarla grandiſſima, dalla aſſiduità, ed efficacia dei noſtri Italiani
oſſervatori. Il preſagio comincia ad avve raríi felicemente. Già dai regiſtri
delle na ſcite, che la noſtra fanta religione rende neceffari, ſonoſi ricavate
delle conſeguenze ſull'articolo della popolazione: ficcome dalle oſſervazioni
delle frequenti morti dei bambi ni, ſi è preſa occaſione di rintracciarne la
cauſa, e d'indagare la maniera di ſalvare queſti teneri germi, che sì
facilmente foc combono anche ad un leggiero urto, e ad una tenue ſcoſſa. Al
genere dei vitalizj appartiene quella convenzione, che dal ſuo oggetto
chiamaſi: la dote della figlia. Un provido padre sborfa una determinata ſomma
di denaro con la condizione che fe una tal figlia di freſco natagli manchi
prima dell'età nubile, la sborſata ſomma cada in 88 proprietà di quello che
l'ha ricevuta; ma ſe la figlia arrivi all'età nubile riceva eſſa da queſto una
ſomma proporzionata agl'intereſſi decorſi del denaro, e al pericolo in cui ella
è ſtata di morire in tal intervallo, e di per der così la ſomma dal padre
sborſata. Dovrà in tal contratto rifletterſi che il prez zo, che sborſa il
padre per la figlia è uguale alla fomma più le rendite ordinarie fino all anno
prefiffo; quello che azzarda l'altro è l'ecceſſo della dote ſopra la sborfata
ſomma, e i frutti ordinari: ecceſſo che fi deve per l'incertezza della vita.
Deve dunque come il numero dei caſi favorevoli alla vita della figlia fino
alprefillo termine, ſta ai ſiniſtri (a), o fia ai favorevoli all'altro; così
ſtare la ſom ma sborſata dal padre, più le rendite ordi narie, all'ecceſſo
della dote che ſi dovrà alla figlia in caſo di ſopravvivenza ſulla ſomma
sborſata più le rendite ordinarie. Havvi un'altro contratto per cui un par
ticolare, che vuol comprare una conſidera (a) Anche in queſto contratto i caſi
favorevoli, e i finiftri s'intendono come fi dille parlando de' vitalizji 89
bile carica; per non privare della ſomma ne ceſſaria a tal acquiſto una
famiglia a lui ca ra che la ſua morte potrebbe mettere in braccio alla
deſolazione, e all'inopia; fi fa aſſicurare la propria vita per un dato corſo
di anni, pagando, o una ſomma, o un'an nua penſione all'aſſicuratore, che ſi
obbliga all'incontro di pagare agli eredi di lui la ſom ma ſpeſa nell'acquiſto
della carica, ſe egli muoja prima del termine ſtabilito. La eva luazione della
vita, si in queſto, come in tutti gli altri caſi ſi ricava dalle non mai ab
baſtanza commendate tavole. Si oſſervi, che in queſto contratto quello che
riceve la ſoin ma o l'annua penſione, trova vantaggio nella prolungazione della
vita di chi la sborſa, al contrario di ciò che accade nei vitalizj, e negli
altri contratti ad eſſi analoghi. Nel for mare adunque la proporzione cangian
nome fra loro i caſi che nei vitalizj ſi chiamano favorevoli, o ſiniſtri; del
reſto non vi è dif ferenza veruna. E' queſto un contratto di cui tanto meno
importa trattenerſi ad eſami nare i dettagli quanto importa più alla feli 1 $ 1
1 1 1 1 go cità di uno ſtato che non poſſa mai trovarſi occaſione d'iſtituirlo.
Diaſi però in quella vece una rapida oc chiata a quello che dal nome del ſuo
inven tore chiamaſi Tontina. Non differiſce que fto dal vitalizio, ſe non in
ciò che ove in quello la rendita annua ceſſa alla morte di colui, che collocò
il ſuo capitale a fondo per duto; in queſto ſi diſtribuiſce nei ſuperſtiti che
appartengono alla medeſiına claſſe, e che hanno fatto un ſimile contratto col
padro ne della tontina. L'ultimo però di ciaſcu na claſſe conſolida ſul ſuo
capo tutte le ren dite che ſi pagavano a quegli che gli ſono premorti nella ſua
claffe. A formare le diverſe claſli dà norma la diverſa età. E' celebre la
Vedova di un Chirurgo di Parigi la quale morì in età di 90. anni, e godeva
35000, lire di annua penlione frutto di uno sborſo di 600, lire. Dalle tavole
di mortalità ſi è ricavata la formula che eſprime in un dato numero di vite
coetanee quanti anni ſia per durare la più lunga. Da ciò il padrone della
tontina pud co 91 lui il pagare a o il noſcere per quanti anni dovrà pagare le
ren dite; poichè per il ſovra eſpoſto carattere di tal contratto, val lo ſteſſo
per ciaſcuno la ſua penſione col diritto di ac creſcere, che hanno quelliche
ſopravvivono, pagare la fomma di tutte a quella vita che durerà più dell'altre.
Potrà per conſe guenza fiſſare il valore di queſte annue pen ſioni. Si è in
oltre trovata la formola che eſpri me, dato qualunque numero di vite coetanee,
il tempo in cui uno, o due, o più manche ranno, la formola per il caſo che più
perſo ne comprino un annualità da dividerſi fra loro mentre vivono, da
dividerſi poi dopo la mor te di qualcuno di loro ugualmente fra i ſo
praviventi, e da ricadere finalmente tutta all'ultimo ſuperſtite da goderſi durante
la ſua vita; e queſta ancora dà lume agli azionari ſulla contribuzione che
devono preſtare. E faminate queſte formole, ed avuto in conſi derazione il
metodo tenuto nel fiſſare la pro porzione per i vitalizj, ſi ritrova facilmente
la medeſima anche per le contine. 1 1 E'
oltre ogni credere benemerito dell'u“ manità il gran inatematico Abramo Moivre,
che ha trovate, e applicate le anzidette, e molte altre formole, che ſi trovano
nella incomparabile ſua opera intitolata la dot trina degli azzardi. Io non le
ho riportate perchè il far ciò e troppo lungo ſarebbe, e devierebbe dallo ſcopo
fin da principio pro poſtomi. Benchè peraltro l'unico mio oggetto nell’
eſaminare i contratti d'azzardo ſia quello di fiſſare i principj sù cui ſi
fonda l'uguaglianza perchè ſian giuſti; voglio rammentare, che i più illuminati
politici hanno deteſtato l'a buſo di queſte pubbliche rendite, come ap punto
ſono le tontine, ed altre di fomi gliante natura. E' troppo chiaro che queſte
tendono a ſoffocare i germi dell'induſtria, e ad appreſtare alla parte ozioſa,
e indolente della ſocietà armi ſempre nuove per oppri inere la porzione che
co'ſuoi ſudori dà moto, ed anima al ben eſſere dello ſtato; oltre di che ſi
oppongono alla propagazione, allet tando eſſe a ſituarſi in uno ſtato nel quale
il 1 I generar figli ſarebbe
un'accreſcere il numero degl’infelici. En fin je ne me plaindrai plus De
l'etoile qui me domine; Il me reſte encore cent ecus Que je vais mettre a la
Tontine: O la charmante invention ! Sans avoir du Dieu Mars eſſuyé le orages,
Sans avoir fatiguè la cour de mes hom mages, Je ferai ſur l'etat, et j'aurai
penſion. Così cantò un elegante Poeta Franceſe in tendendo così di far la
ſatira delle tontine; e pare di fatto che il Poeta potrebbe ora viver quieto ſu
queſto articolo eſſendo eſſe molto ſcemate, e andate in diſuſo, benchè non così
gli altri contratti del genere di cui parliamo. Ma d'altra parte eſſendo
utiliſſimo, e tal volta neceſſario al ben dello ſtato il poter ſollecitamente
raccogliere una grandioſa ſomma di denaro, ſenza imporre perciò nuo ve
contribuzioni; ed effendovi talora molti cittadini, le circoſtanze dei quali
rendono ad eſſi neceſſario il ſoccorſo di queſte pen 94. fioni vitalizie ſi
potrebbero forſe ritrovare provvedimenti opportuni, per fare un eſame regolato
dell'età, e delle circoſtanze di quelli che doveſſero eſſere ammeſſi alla
compra delle azioni, e con i neceſſari regolamentipreveni re gl ' inganni, che
in queſto articolo intereſ fante poteſſero deludere le pubbliche vedute. Per
eſaminare i contratti della terza claſſe ne quali il rapporto su cui ſi fonda l
' ugua glianza fra i contraenti ſi appoggia in parte alla conſiderazione di
leggi certe, e ſicure, e in parte alla ſperienza del paſſato, e a cir coſtanze
incerte e di numero indeterminato, ſi ripigli l'eſempio dell'urna, nella quale
ab biavi un determinato numero, per eſempio di go. palle. Se la ſperanza
dell'eſito felice è affidata all'eſtrazione di una palla; per la natura di tal
contratto, o gioco che voglia chiamarſi, e per le ſue leggi, il numero dei caſi
favorevoli ai ſiniſtri farà come 1. 89,0 ſia chiamando il numero totale m farà
il mu mero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri come 1: m - 1 e per conſeguenza
l'aſpettativa del buon'eſito farà = mo ſia -112
Ma ſe ſia vero che la palla alla quale è affidata la ſperanza eſca più
frequentemente dall'urna che qualunque altra, e l'ecceſſo di tal frequenza ſu
quella delle altre ſia Þ; il numero dei caſi favorevoli non ſarà più i ma bensì
1 Xp; e quello dei ſiniſtri eſſendo m = 1, la probabilità della ſperata
eſtrazione farà Xp L'addotto eſempio è la norma coſtante di tutti i contratti
che poſſano mai cadere for to queſta terza claſſe, come comprendenti le
condizioni che ne formano il carattere. Di fatti la probabilità dell'eſtrazione
della palla fatale dipende dalle leggi del contratto certe, e ficure che danno
il rapporto di e dalla ſperienza, ed oſſervazione delle fre quenti eſtrazioni
della medeſima, che danno l'ecceſſo di p ſulla frequenza dell'eſtrazione
dell'altre palle nell' urna rinchiuſe, la quale i XP fa che l'aſpettativa
diventi I: m; Non è neceſſario che io offervi che per quanto ſiaſi oſſervato
queſto ecceſſo p, non 96 dimeno non è ſicuro e certo che piuttoſto eſca tal
palla, di quello che ne eſca un'al tra. E queſta è una di quelle circoſtanze
che io chiamo incerte e variabili. Che ſe ſi trattaſſe di paragonare la pro
babilità dell'eſtrazione fra due palle, ſicco rapporto che naſce dalle leggi
certe e ſicure è lo ſteſſo per tutte due, eſſendo in me il I tutte due ſi dovrebbe
attendere ſolamen in te la diverſa frequenza dell' eſtrazione di queſte due
palle. A queſto eſempio ſi poſſono ridurre fpe cialmente le offervazioni dei
giocatori di lotto, e di quelli che ſi travagliano in oſſer vare quali carte ſi
moſtrino più ſovente, o quali facce del volubil dado, ad avvicendare
nell'agitato cuore dei giocatori la gioja e la triſtezza. Ben' è vero però che
per quanto fiano replicate le eſperienze, in moltiſſimi caſi non apparendo
neppure in confuſo una minima conneſſione di tal frequenza con una vera cauſa
da cui derivi, non potranno giam mai meritare che le abbia in viſta, chi
ragiona ſu dati veri, e non fa caſo di mere e vaganti accidentalità. Se ſi
aveſſe a queſte riguardo, molti di quei contratti, che nella prima claſſe ho
eſa minati, a queſta terza dovrebbonſi riferire. Ma io per le indicate ragioni,
a quella ſola nei ſuoi veri termini inteſa giudico i mede ſimi appartenere.
Anche in tali caſi perd vi ſono inolti che credono doverſi fare ſcrupo lofo
conto dell'oſſervazioni, e per queſta ra gione ancora approverebbero la mia
diviſio ne; eſſendo queſta terza claſſe da me confi derata in modo che può, ſe
vogliaſi, compren dere le medeſime, anche quando non appa riſca la ſopra
indicata conneſſione. Che ſe il numero delle offervazioni ſia grande, e i
riſultati coſtanti, ed abbiavi qual che conneſſione fra l'eſito della ſperanza,
ed una cauſa dalla quale poſla derivare tal frequenza di oſſervazioni, allora
non v'ha dubbio che ſiamo nel caſo che caratterizza queſta terza claſſe, e la
diſtingue dalle altre. Vi ſono in fatti molti giochi, nei quali l'eſito
fortunato dipende in parte dalla pro g. 98 pizia ſorte, e in parte deveſi alla
propria in duſtria o deſtrezza nel combinare gli elemen ti del gioco, e
rendergli coſpiranti al termi ne a cui ſta anneſſo il guadagno del premio
deſiderato. L'induſtria però di un giocatore pud conſiſtere o nella ſola
avvedutezza e pre ciſione nell'oſſervare l'eſito delle varie coin binazioni del
gioco, che ſi vanno ſuccefliva mente preſentando, e la replicata ſperienza
delle quali porge la norma ai caſi avvenire; o nella deſtrezza maggiore di
combinare gli accidenti medeſimi del gioco, di dedurre, di ſcuoprire gli
artificj dell'avverſario; e in qualſivoglia di queſti due aſpetti ſi ravviſi
l'induſtria, è ſempre vero che i giochi che di effa, e della forte ſi chiamano
miſli, hanno un filo non traſcurabile per cui ſi attengono alla terza clafle
dei contratti di azzardo, In un gioco miſto è molto difficile che tornino per
appunto le medeſime circoſtan ze; e quindi è che le oſſervazioni ad e {To re
lative ſono della natura di quelle dei con tratti alla ſeconda claſſe
appartenenti; in certe cioè, e incapaci di rendere indubitato e ſicuro l'evento,
ma fiſabili quanto baſta per formarne un calcolo che miſuri l ' ugua glianza,
acciò il contratto ſia giuſto. Ma ſiccome in queſti giochi medeſimi vi ſono
dati ſicuri dipendenti dalle loro leggi inva riabili; quindi è che eſſi
appartengono alla terza claſſe, perchè regolati in parte da tali leggi, e in
parte da cagioni incerte e inde terminate, e dalla ſola ſperienza. Siccome però
poſſono eſſere o molte o poche le com binazioni che conducono all'eſito
medeſimo, a miſura che queſte ſono in maggiore o mi nor numero, prevale nei
giochi miſti l'in duſtria o la ſorte. Inoltre la deſtrezza di combinare, di de
durre, di rammentarſi gli elementi delle com binazioni che ſono uſcite
ſucceſſivamente dalla malla totale delle medeſime nel decorſo del gioco, è
variabile, come può ognuno of ſervare, quanto è variabile la tranquillità d'a
nimo neceſſaria, la perfetta diſpoſizione di ſa lute, e per conſeguenza
l'agilità degli ſpiriti, l'elaſticità delle fibre; in una parola l'atti vità
neceſſaria per ben riuſcire in qualunque 100 impreſa richiegga applicazione di
mente, e attuazione di fantasia. Conſiderate queſte come cauſe incerte ed
indeterminate, e che ſi poſſono ſoltanto dopo un lungo corſo di oſſervazioni
fatte giocando col medeſimo avverſario ridurre a calcolo, e quanto alla loro
frequenza, e quanto al grado d'influenza ſull'eſito del gioco; ecco anche in
ciò un motivo per cui il fiſſare l’u guaglianza fra i giocatori nei giochi
miſti, dipende, e dalle invariate e ſicure leggi del gioco, e da circoſtanze
incerte, e indeter minate, Certo è che nei giochi miſti l'induſtria sà tirar
profitto dai colpi della ſorte, e il gioca tore avveduto, dice la Bruyere,
imita in queſto un gran generale, e un abile politico. Al valore del primo, e
alle vedute del ſe condo è miniſtra la forte. Arrivano entrambi francamente al
loro intento per quelle ſtrade medeſime che aperſe il caſo; e che là metton
capo, ove forſe non gli avrebber condotti i mezzi più maturati, e i
piùmeditatiprogetti. Nei giochi miſti deve farſi la rifleſſione IOI medeſima di
cui ſi parlò trattando dei giochi di puro azzardo. O i giocatori tentano con
eguali condizioni l'evento medeſimo; o un folo tenta la ſorte del gioco, e
l'altro ſta ozioſo ſpettatore, e riduce la ſua ſperanza unicamente all'infauſto
eſito dell'avverſario. Nel primo caſo ſiccome il numero dei caſi favorevoli e
dei ſiniſtri dipendente dalle leggi del gioco, è l'iſteſſo per ambidue, ſi
riduce a calcolo l'eſperienza ed induſtria, la quale ſi oſſerva nelle medeſime
circoſtanze quante volte abbia ſaputo ridurre a buon termine il gioco; calcolo
che ſi fonda ſopra oſſervazioni molto difficili, e incerte. Giacchè farebbe d'
uopo che ſi foſſe ſempre giocato col mede fimo avverſario; eſſendo la deſtrezza,
e abi lità di un giocatore affatto relativa a quella dell'avverſario; e
potendoſi queſto rapporto variare ogni giorno, o reſtar coſtante ſecondo i
progrelli, o uguali, o proporzionali, o di verſi, che l'uno, o l'altro facciano
nel gio co. E' vero però non meno, che trattandoſi di rapporti, poſſono in
qualche modo gio vare le offervazioni fatte dell'abilità di un giocatore
riſpetto ad un terzo all'induſtria del quale è noto qual proporzione abbia
quella dell'avverſario. Nel ſecondo caſo poi l'induſtria non è più riſpettiva,
ma aſſoluta; e fi riduce a calcolo con l'offervare, nelle medeſime combina
zioni, o in non molto diffimili per la natura del gioco, quante volte
l'avverſario abbia ottenuto quell'intento che ſi era propoſto, fotto le date
condizioni; e quante volte non abbia toccato il termine al quale per otte nere
il premio dovea pervenire. Generalmente adunque ficcome il numero dei caſi
favorevoli e de'ſiniſtri è dipendente in parte dalle leggi del gioco, in parte
dalle oſſervazioni, che miſurano la riſpettiva, e afloluta induſtria, converrà
diſtinguere, e calcolare queſti due elementi componenti la ſomma dei caſi
favorevoli, e ſiniſtri; e formare poi la proporzione eſpoſta nel Teo rema
III.', e nel Corollario. Se non due, ina più ſiano i giocatori, ſi rammenti la
regola di ridurre i caſi compleſſi ai ſemplici componenti, e di eſaminare in
103 ciaſcuno a parte le ſtabilite maſſime. Sarebbe un ripetere il già detto; ſe
io voleſſi ram mentare i principj ſtabiliti nei contratti della prima claſſe, e
in quelli della feconda. Bafli l'avvertire che in queſti della terza claſſe ove
trattaſi dei caſi favorevoli o ſiniſtri, in quanto dipendono dalle leggi certe
e ſicure del contratto, convien ricorrere ai priini; ove poi fia queſtione di
offervazioni, e di cauſe indeterminate, conviene eſaminare i ſecondi; non
omettendo mai di riflettere quanta alterazione poſſa produrre l'influenza degli
uni, ſu gli altri, e la varia loro com binazione. Stabilite così le leggi ſulla
ſcorta delle quali ſi giunge a fiſſare la ricercata ugua glianza in qualunque
claſſe di contratti di azzardo; non devo diffimulare, che uno dei più grandi
Filoſofi il Signor d'Alembert ha preteſo di abbattere il calcolo delle pro
babilità quanto alla ſua applicazione agli ac cidenti umani. Accid, dic ' egli,
queſto cal colo foſſe applicabile, ſarebbe neceſſario, che tutti i caſi che
ſono ugualmente poſlibili ma 104 tematicamente parlando, lo foſſero anche di
fiſica poſſibilità. Sarebbe dunque neceſſario, che gettata infinite volte in
alto una moneta, ſopra una faccia della quale vi ſia impreſſa una marca, per
eſempio palle, e ſull' altra una diverſa, per eſempio croce, foſſe ugual mente
poſſibile che ſi ſcopriſſe ſempre palle, o croce; e che ſi ſcopriſſero
alternativamente queſte due diverſe marche. Ma benchè ciò ſia ugualmente
poſſibile matematicamente parlando, non lo è fiſicamente. E queſta di verſità
appunto è quella che fa sì, che il cal colo matematico delle probabilità, non è
applicabile ai caſi fiſici. Anzi non ſi potrà mai fissare il numero delle volte
per il quale duri la possibilità fiſica di ſcoprirſi ſempre l'iſtella faccia
della moneta, e il limite ol tre il quale non paſſi queſta fiſica poſlibilità,
durante però ſempre oltre ogni limnite com'è certiſſimo, ed oltre qualunque
aſſegnabile numero di getti, la matematica poſſibilità del continuo ſcoprirſi
della medeſima faccia.: Lo prova con una inafſima che egli ſtabi liſce per
certa: che non è in natura, che un effetto ſia ſempre, e coſtantemente il mede
fino; ſiccome non è in natura che tutti gli alberi, ſi raſſomiglino fra loro.
Queſta maf ſima lo induce ad argomentare che la pro babilità di una
combinazione, nella quale il medeſimo effetto ſi ſuppone accader più vol te, in
parità di circoſtanze è tanto più pic cola, quanto queſto numero di volte è più
grande, di modo tale che quando queſto è maſſimo, la probabilità è
aſſolutamente nulla, o quaſi nulla; e all'incontro quando queſto numero è aſſai
piccolo la probabilità non ne reſta che poco, o punto diminuita per queſto
riguardo. Adduce egli moltiſſimi eſempi compro vanti la ſua aſſerzione, e
conclude che i re ſultati della teoria dei probabili, quand'anche ſiano fuori
di ogni queſtione nell'aftrazion geometrica, ſono ſuſcettibili di molta reſtri
zione quando i medeſimi ſi applicano alla natura. Alle ragioni però
ingegnoſiſſime di un si grand' uomo converrà adunque arrenderſi, e diſperare
della cauſa del noſtro calcolo dei probabili? Parmi che ben'inteſi i noſtri
principj co me ſono ſtati da noi ſtabiliti, o non ſiano at taccati da tali
oppoſte difficoltà, o le mede fime reftino ſciolte. Prima di tutto ſi oflervi
che noi trattiamo ſolo di calcolare i gradi di probabilità nei caſi nei quali
ſi ſuppone po terſi efla rinvenire. Se diaſi dunque un caſo, che non cada in
modo alcuno forto la cate goria dei fiſicamente poflibili, e che per con
ſeguenza nè il minimo grado abbia di proba bilità; io dirò che queſto non è
oggetto delle mie teorie; ma non concederò mai che per queſto non ſi poſſano
eſſe applicare perfet tainente ai caſi, che ſiano di fatto filica mente
poſſibili. Per conoſcere poi quali ſiano i caſi o le combinazioni fiſicamente
poſſibili nel ſenſo del Sig. d'Alembert, è neceſſaria una fre quente e
replicata oflervazione. Che ſia fiſicamente impoſibiie (ſe pure ſi può uſar
queſto termine ) che una moneta moſtri un inaſſimo o un infinito numero di
volte la ſtella faccia, donde ſi ricava, fe non dall'avere offervato che una
tale continuazione dello ſcoprimento medeſimo non accade, ma che al contrario
ſi vanno alter nando, e cangiando di tanto in tanto le facce della moneta?
Benchè non può dirſi a rigore fiſicamente impoſſibile il caſo in cui per un
infinito numero di getti ſi paleſi ſempre l'iſteſſa fac cia, a meno che non vi
ſia nella moneta qualche fiſica e meccanica cagione che ciò non permetta. Se ſi
concedeſſe ancora (benchè non ſo quanto ſia dimoſtrato ) che ſia fiſicamente
impoſſibile, che ſi dia un albero perfetta mente ſimile ad un altro, non che,
come fi contenta di dire il Sig. d'Alembert, che ſi raſſomiglino tutti gli
alberi fra di loro; non correrebbe la parità, per dedurne che nel caſo di un
infinito numero di getti di una moneta, l'uniforme ſcoprimento di una fac cia
della medeſima ſia fiſicamente impoſſi bile. Poichè vi corre una notabiliflima
di ſparità. Tutte le combinazioni le quali fanno, che una coſa non ſia fimile
all'altra, danno tanti ios riſultati fra loro diverſi. Dalle diverſe com
binazioni infinite che faran caufa che l'ala bero A non ſia perfettamente
ſimile all'albe+ ro B, naſceranno tanti alberi fra loro diverſi; o altri corpi
dei quali ſi conoſcerà la diffe renza. Ma dalle diverſe combinazioni che
poſſono fare che non venga infinite volte di ſeguito la faccia palle della
moneta; non ne poſſono venire che riſultati affatto ſimili, cioè croce; poichè
ogni volta che non ſi ſcopra palle, ſi ſcoprirà croce. Queſto prova che le
combinazioni che ſono contrarie alla per fetta ſomiglianza di due coſe, formano
infi niti rapporti, infiniti riſultati dei medeſimi, infinite diverſe
compoſizioni di parti dipen denti da infinite meccaniche direzioni delle particelle
della materia di infinite poſſibili diverſe velocità, figure ec.: coſe tutte
che nel caſo noftro non ſi verificano. Di fatto gli elementi che formano la com
binazione, che per infinito numero di volte preſenta palle, ſono tutti ſimili
fra di loro, ed hanno fra di loro un folo invariato rap porto. Di modo che ſe
ſi ſupponeſſe mutato l'ordine col quale eſce prima la infinita ſerie di palle,
e ſi ricominciaſſe il getto, e ritor naſſe di nuovo a ſcuoprirſi infinite volte
la faccia che preſenta palle, ne verrebbe un or dine fimiliſfimo al primo,
potendoſi dire, che l'iſteſla relazione ha il primo ſcoprimento di palle al
milleſimo, che ha il ſecondo al cen teſimo, e così dicaſi di tutti. Talmentechè
a rigor parlando, non ſi può dire, che fra queſti getti vi ſia ordine che formi
fra effi un rapporto piuttoſto che un altro. Non così degli elementi che
formano un dato fiore, o albero; eſſendo combinabili fra di loro con infinite
varietà di ſopra ac cennate. Gli elementi fiſici adunque delle combinazioni nel
caſo della moneta ſono ſempliciſſimi, laddove nell'eſempio addotto dal Sig.
d'Alembert fono infiniti, dal che ne viene, che la parità non corre; e dalla
fiſica impoſſibilità (ſe fi ammetta ) di trovare mol te, o anche due coſe fra
loro ſimili; non ne viene la fiſica impoſſibilità che una monetan gettata in
aria infinite volte moſtri ſempre l' iſtefla faccia. La diſparità compariſce
più chiara, fe li rifletta che qualunque vedendo in un dato ſpazio tutte le
particelle più minute compo nenti i corpi; e riflettendo alle variazioni
poſſibili della velocità, e della figura delle medeſime; e vedendone in un
ſimile ſpazio un altro ſimile numero, avrebbe ſubito infe rita l'impoſſibilità
di una combinazione ta le, che ne riſultaſſero due alberi ſimili. Laddove
vedendo una moneta, e ſapendo che ſi deve gettare in aria infinite volte, non
avrebbe avuta una fiſica ragione di preſagire che non ſi ſarebbe un infinito
numero di volte ſcoperta l'iſteſſa faccia, e di credere tal combinazione
fiſicamente impoſſibile, come la pretende, fondato ſulle addotte ri fleſſioni,
il Sig. d'Alembert. In una parola della impoſſibilità (ſe tal vo glia chiamarſi
) della ſomiglianza di due al beri ſe ne può addurre a colpo d'occhio una
fiſica meccanica ragione; lo che non può dirſi dello ſcoprimento della faccia
di una moneta. Lo stesso a proporzione dicaſi delle diverſe, III combinazioni
delle lettere che formano la parola Conſtantinopolitanenfibus. Chi attribuirà
al caſo, dice d'Alembert, che ſi combinino in modo tante lettere che formino
queſta pa rola? chi vorrà crederlo poſſibile? Dunque conchiude egli ſarà
ugualmente impoſſibile il continuo per infinite volte ſcoprimento della faccia
medeſima di una moneta. Queſto eſempio è molto ſimile a quello dei due al beri
fimili; e ſi riſponde anche a queſto, che ciaſcuna lettera può variare rapporto
a tutte le altre, e che ciaſcun riſultato ſarà diverſo. La Luna, aggiunge il
Ch. Filoſofo, gira attorno al ſuo alle in un tempo preciſamente uguale a quello
che ella impiega nel deſcri vere la ſua orbita intorno alla terra; e queſta
eguaglianza di tempo produce ammirazione, e ſi vuol cercare qual n'è la cagione.
Se il rapporto dei due tempi foſſe quello di due numeri preſi all'azzardo, per
eſempio di 21: 33, niſſuno non ne ſarebbe ſorpreſo, e non ſe ne ricercherebbe
la cagione; e pure il rap porto di uguaglianza è matematicamente parlando
ugualmente poſſibile, che quello di 21:33; perchè dunque ſi cerca una cagione
del primo, che non ſi cercherebbe del ſe condo? Lo ſteſſo dicaſi della
ſituazione dei pianeti e del rapporto che ha la zona nella quale fono rinchiuſe
le orbite loro, alla sfera. Per chè ſi conchiude egli che queſto non è effet to
del caſo? perchè queſta combinazione, benchè matematicamente poſſibile al par
dell'altre, ſi riguarda.come effetto di un diſegno, e di una regolarità? E non
ſi crederà poi, che il ſolo caſo non può pro durre quella combinazione per la
quale la moneta ſcopra infinite volte di ſeguito fem pre palle; e non ſi
crederà queſta fiſicamente impoſſibile, benchè abbia una matematica poſſibilità
eguale a quella delle altre combi nazioni? Ma io riſpondo, che di fatto le com
binazioni dei citati eſempi hanno avuta una fiſica poſſibilità uguale a quella
di tutte l'al tre combinazioni; che non vi è forſe argo mento che provi che il
caſo non le aveſle po tute produrre; ma che anche ſe ſi vogliono LI3
fiſicamente impoſſibili al ſolo caso; ciò è per chè ſon compoſte di elementi
infinitamente variabili; lo che appariſce a chi ſi faccia di propofito a
conſiderare le diverſe cagioni, e le diverſe poſſibili combinazioni, che poſſon
far sì che i tempi dei due giri lunari non ſia no uguali; e che la zona delle
orbite plane tarie abbia alla sfera un rapporto diverſo da quello che ora ha
infatti; cagioni tutte fi fiche, e meccaniche. Di più dico, che l'uguaglianza
dei corſi della luna intanto a noi fa impreſſione, in quanto che il rapporto di
uguaglianza è quello al quale ſi fogliono riferire tutti gli altri; e tutta la
differenza che fra eſſo, e gli altri paffa, non è che metafiſica; e nulla po ne
di fiſico per cui tal combinazione debba eſſere più difficile dell'altre. Lo
ſteſſo dicaſi della parola Coſtantinopoli tanenſibus. Queſta combinazione di
lettere fa ſpecie a noi che intendiamo il ſenſo della parola, e che al ſuono
della medeſima abbia mo legataunidea; non così a un Turco idio ta il quale non
col nome di Coſtantinopli ma con quello di Stamboul è avvezzo a no minare la
ſuperba metropoli dell'Impero Ot tomano. Non contento Monſieur d'Alembert degli
eſempi addotti in conferma della ſua aſſer zione, l'appoggia ad altre due
rifleſſioni. Si fa che la durata media della vita di un uomo, contando dal
giorno della ſua naſcita è all'incirca di 27 anni; ſi è pure conoſciuto per
mezzo delle oſſervazioni, che la durata media delle ſucceſſive generazioni più
ome no è di 32 anni; finalmente ſi è provato per tutte le liſte della durata
dei regni di ciaſcu na parte d'Europa, che la durata media di ciaſcun regno è
di circa a 20 in 22 anni. Si può dunque dic' egli, ſcoinmettere non ſolo con
vantaggio ma a gioco ſicuro che 100. fanciulli nati nel medeſimo tempo non
vive-, ranno che 27 anni l ' un' per l'altro; che 20 generazioni non dureranno
più di 640 anni in circa; che 20 Re ſucceſſivi non viveran no che intorno a 420
anni. Una combina zione adunque che non daſſe intorno a 27. anni la durata
media della vita dell'uomo, IIS pigliandone cento a eſaminare, o non dalle di
32 anni la durata media di 100 fuccef five generazioni; oppure portaſſe che 20
Re ſucceſſivi regnaſſero, o molto più, o molto meno di 420 anni, non ſarebbe
fiſicamente poſſibile; eppure lo ſarebbe matematicamen te parlando. Dal che
riſulta che vi ſono al cune combinazioni matematicamente pofli bili, che ſi
denno eſcludere, quando eſſe fo no contrarie all'ordine coſtante della natu ra.
Dunque la combinazione in cui, o infi nite volte, o un gran numero veniſſe
ſcoperta ſempre la medeſima faccia della moneta, benchè di matematica
poſſibilità uguale a quella di qualunque altra combinazione, dev’ eſſere
rigettata. E' nell'ordine naturale, ché un banchiere di faraone, che ha dei
caſi favorevoli più che dei ſiniſtri ſi arricchiſca coll'andar del tempo. Di
fatti ſi oſſerva coſtantemente, che non vi è banchiere, che non accumuli groſſe
fomme di denaro. Queſto prova, che quelle combinazioni, che hanno più caſi
contrari che favorevoli, ſono alla fine di un certo tempo, meno fiſicamente
poſſibili che le al tre; quantunque matematicamente parlando tutte le
combinazioni ſiano ugualmente pof ſibili. Dunque conclude egli, la combina
zione, la quale preſenti ſucceſſivamente per un gran numero di volte ſempre la
ſteſſa fac cia della moneta dev'eſſere eſcluſa. Per riſpondere a queſti due
eſempi parmi che prima di tutto ſi poſſa negare la fiſica impoſſibilità, che
con tanta franchezza ſi af feriſce della durata media della vita di un' uomo
diverſa dallo ſpazio di circa 27 anni. Ed io ſono ben perſuaſo che eſaminando
il caſo della vita di molte centinaja d' uomini ſe ne troveranno di quelle, o
aſſai maggiori, o aiſai minori dello ſpazio di 27 anni; dun que tale
combinazione non fi deve ſcartare come fiſicamente impoſſibile. L'iſteſſo
dicafi di quella, per cui un banchiere in vece di arricchire ſi vedeſſe dal
gioco medeſimo ri dotto all' inopia; caſo che non è poi sì in frequente ad
accadere. Dicafi piuttoſto che l'una, e l'altra di queſte combinazioni con
tenute nei due eſempi addotti dal chiarillimo d'Alemberţ ſono molto difficili,
e tanto più, quanto l'ecceſſo dei caſi contrarj alle combinazioni medeſime
ſupera il numero dei favorevoli; lo che conviene appunto con li da me ſtabiliti
principj. Venendo poi al caſo noſtro dico, che fo no varie, e moltiſſime in
numero le cauſe vere, e fiſiche che influiſcono ſulla vita degli uomini. Ma
trattandoſi del getto della mo neta, non vi ſono principj fiſici diverſi, e
tali, che ſi debba in vigor deị medeſimi pre dire piuttoſto una, che l'altra
delle combi nazioni, che a rigor parlando non ſono che due, come più ſopra ſi è
offeryato. L'ordine delle umane coſe, e le fifiche qualità, e coſtituzioni
dell'uomo, e delle ca gioni che lo poſſono privar di vita, ſon con ſultati nel
primo caſo; nel ſecondo nulla hav: vi di fiſico che ſi poſſa conſultare a
formare il preſagio. Dunque fi pud predire, che ioo o maggior numero di uomini
avranno preſi inſieme un corſo di vita uguale a quello di altri 100 uomini;
benchè prima di aver faţte le offervazioni non ſi poſſa cal corſo file ſare;
così prima di aver’anche fatte le oſſer vazioni, conoſciuto il ſiſtema del
gioco del faraone ſi può predire che un numero molto maggiore farà quello dei
banchieri che arric chiſcono, che non ſarà quello degli altri che ſi rovinano.
E ciò perchè veramente vi ſono delle intrinſeche cagioni che portano a for mare
queſto preſagio, e cagioni che naſcono dal ſiſtema del gioco. Ma chi sà dire
qual fi fica ragione addur voglia uno, che vedendo gettarall'aria una moneta,
aſſeriſca che è fiſicamente impoſſibile, che o per un maſſimo, o anche infinito
numero di volte, pre ſenti ſempre la ſteſſa faccia? Varie poſſono eſſere le
maniere di gettare in alto la moneta. Si può gettare a una gran de altezza, e a
una piccola; con poca forza, e con molta; con tale direzione che la baſe faccia
angolo retto con l'orizzonte; o che lo faccia obliquo; oppure in modo che ſia
ad eſlo parallela. Si può anche gettare in ma niera che ſomigli quaſi il
laſciarla cadere leggermente da un punto fiſſo. Fermiamoci ad eſaminare queſt'
ultima ipoteſi; e ſi vede, che laſciandola in tal modo cadere, ſpecialmente a
piccola altezza, anche in finite volte, non vi è ragione di preſagire, che non
poſſa eſſere coſtante lo ſcoprimen to della faccia medeſima. La impoffiſibilità
di queſto uniforme ſcoprimento, la inten de egli il Signor d'Alembert in queſto
ca ſo, o negli altri caſi? Se la intende in queſto caſo, come dunque ſi
verifica, che il ſolo or dine della natura renda impoſſibile queſto u niforme
ſcoprimento? Se poi non la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica uni
verſalinente la ſua maſſima? Ma io aſſeriſco eſſere più conforme allo ſpirito
delle ragioni del Sig. d'Alembert, che anzi egli intenda di queſto ſolo caſo in
cui non altro appunto, che un non sò quale fatal ordine della natu ra,potrebbe
cagionare la preteſa variazione. Che ſe pure ſi trattaſſe degli altri caſi,
dico che nonoſtante la variabilità delle combina zionidell'impeto,dell'altezza,
della direzio ne; queſte non poſſono valutarſi in modo da rendere fiſicamente
impoſſibile l ' uniforme ſcoprimento; poichè gli effetti di queſte va 120
riabili combinazioni, non ſono che due; o lo ſcoprimento di palle, o lo
ſcoprimento di croce; e non ogni variazione, e combinazione di tali cauſe
influiſce a diverſificare gli ef fetti: come peraltro ſuccede negli eſempi ad
dotti dal Sig. d'Alembert, nei quali trattan doſi di rapporto, o di diverſa
conſociazione di parti, ognun vede, che ogni variazione influiſce a produrre un
effetto diverſo. O ſi riſguardi adunque la diverſità negli effetti; e negli
addotti eſempi, queſti ſono in finiti, nel caſo noftro non ſon che due non
potendoſi voltare, che palle, o croce; o ſi ri guardi la diverſità nelle
cagioni che tali ef fetti producono; e negli addotti eſempi, ſo no anch'eſſe
infinite, giacchè ogni minima variazione influiſce come nuova cauſa; nel caſo
della moneta non è così, potendoſi dare moltiſſime combinazioni di forza,
altezza, direzione, che producano ſempre l'iſteſſo effetto; potendoſi anche
dare che in infiniti getti, o in un numero aſſai grande, ſi man tenga l'iſteſſa
direzione, benchè obliqua; l'iſteſſa altezza benchè grande; l'iſteſſo im 1 1
pero, benchè forte; oppure che fi muti ad ogni getto. Parmi adunque che e
queſti ultimi e gli altri addotti eſempi, o non combinano con quello della
moneta; o al più provano una no tabile difficoltà nella combinazione che presenti
sempre l'iftessa faccia della moneta; verità che s’accorda perfettamente con gl’esposti
principj; poichè le osservazioni me deſime ce lo fanno conoscere,ed io suppongo
nell'applicargli, il caso probabile [GRICE, PROBABILITA E DESIDERABILITA], e
con la scorta dei medesimi ne cerco il grado di probabilità; dal che ne viene
che la teorìa non è applicabile ai casi ove o nessuna o quasi nessuna
probabilità del buon esito apparisca, per poterne formare la proporzione.
Quando poi cominci il numero in cui non sia sperabile un continuo discoprimento
di una sola faccia della moneta, le osservazioni, e non altro, possono mostrarlo.
Quelle osservazioni io dico, che io medesimo ho prefe per scorta in moltisimi
casi appartenenti alla materia dei CONTRATTI d’azzardo. E' poi tanto evidente
che la proposizione d’Alembert non atterra l'uso del CALCOLO DELLA PROBABILITA
O CREDIBILITA E DEL CALCOLO DELLA DESIDERABILITA, che anzi in qual che caso se
ne possono tirare delle conseguenze che lo conferinano. Chi gettando un dado
intraprende di scuoprire per esempio il 6 non vorrà gettarlo una sol volta,
quando debba azzardare una fom ma eguale a quella che azzarda l'avverſario; ma
vorrà gettarlo più volte. La ſua ſperan za è,che non voltandoſi ſempre
l'iſtello nu mero che al primo tratto ſi ſcuopre, e che può non eſſere il 6,
arrivi in più volte a vol tarſi anche il 6; altrimenti ſe non fcopren doſi alla
prima il 6 ſi doveſſe ſempre ſcopri re in tutti i tratti ſucceſſivi quel numero
che ſi ſcopre il primo, la ſua perdita ſarebbe ſicura. La ſperanza dunque di
queſto gio catore acquiſta tanto maggior fondamento quanto più è vero che ſia
impoſſibile che ſi volti ſempre quel numero che alla prima fi ſcoprì;
impoſſibilità, che reſta compreſa nel la impugnata opinione del Sig. d'Alembert.
Stabiliti i principj regolatori dell' ugua 123 glianza nei contratti d'azzardo,
e difeſane l'applicazione non reſta che a deſiderare, che uomini di ſublime
ingegno, e di pro fondo ſapere ſi applichino in gran numero ad eſtendere ſempre
più l'uſo di una dottri na sì utile. Quanto a me, mi pare di aver ottenuto il
mio intento, ſe poſſo luſingarmi di aver formate ed eſpoſte idee giuſte, e chia
in un articolo per una parte sì arduo, e per l'altra sì intereſſante. C. nasce
in Imola il ed alla patria e al casato accrebbe lustro e decoro: perchè già
rapidamente corsi gli studii delle amene lettere e della eloquenza sotto la
disciplina de’gesuiti, e con pubblico saggio nelle materie di filosofia
sperimentatosi, puo dallo stesso genitore nelle matematiche, delle quali è egli
peritissimo, essere ammaestrato. E col magistero di quella scienza sublime,
illuminando la mente già ordinata a diritti giudizii e scorto da precetti
delibati dalla scuola non fallibile degl’antichi esemplari, comforma la scrittura
alla altezza del pensiero, alla cultura dello spirito ed al candore dell'animo.
Nè i gravi studii della giurisprudenza cui tennesi in Roma applicato
(insegnatore monsignor Giovannardi concittadino di lui, e fiore de
giureconsulti) gli tolge di coltivare la poetica, alla quale sentesi per tal
guisa inclinato, che basta a dettare alcuni componimenti i quali resi pubblici
con le stampe trovano grazia e lode somma ne cultissimi, e sì pure tra
gl’ARCADII alla cui accademia appartenne col nome pastorale di Cratino. E sono
ne gli scritti di lui altri saggi in tal genere di lettere che a migliori
poeti, onde la città di Santerno si onora, il pareggiano: che se come ne sono
degni verranno presen tati al pubblico giudizio, ben si farà manifesto aver
egli con arte maestra saputi attingere da cia scuno de più valenti Imolesi quei
modi sceltissimi onde le loro ope re di bella luce risplendono mel l'italiano
parnaso. Il carme in fat to robusto e nervoso tal come u sciva dalla penna di
Antonio Zam pieri, e castigato ad un tempo ed elegante, quale il vedi in Camil
lo, muove in C. con quella spontanea e nobile sempli cità che t'invaghisce nel
Canti; 282 e si abbella di quelle grazie ed e leganze di che Zappi infioriva le
soavi e dolci sue rime. Tornato in Imola venne decorato della croce di Santo
Stefano, e nella Imolese accademia deg’INDUSTRIOSI di cui è socio si mostra
erudito ed elegante oratore e poeta. D'indi a non molto passato per le caro
vame a Pisa ha colà lezioni di pubblico diritto da quell'alto spirito di Lampredi,
che il tenne in istima d'ingegnoso e di colto, e che lo ha sempre carissimo.
Quindi il magnanimo gran duca Leopoldo gli confere la carica di ispettore delle
carovane, e ad un tempo la cattedra di etica; intorno a che compone un trattato
quasi corso di lezioni, degno per fermo d’essere fatto di pubblica ragione: ed
a quel principe intitola C. una eloquente e dotta orazione composta eletta, per
incarico da lui avutone, al capito lo de'cavalieri Circa l'origine, le leggi ed
i fasti dell'ordine, che è pubblicata pel Cambiagi in Firenze, dai torchi del
quale usce altro grave e prezioso volume col titolo di Saggio sui CONTRATTI e
giochi d'azzardo, ove risplende la dottrina di pubblico economista e di FILOSOFO;
ed ove la materia gravissima, e che diresti poter so lo dimostrarsi col
soccorso del calcolo, per la chiara sposizione pia ma e facile si mostra alla
intelligenza comune, Corse intanto tal fama del sapere di lui alla corte di
Ferdinando di Napoli, che con reale decreto, il nomina membro del supremo consiglio
di Finanze; nel qual tempo venne ad egual carica eletto quel sommo ingegno di FILANGIERI
(vedasi), cui C. è poi sempre stretto con vincoli di reciproca stima e di
amicizia tenerissima. E ben di questo è prova il parere da FILANGIERI (vedasi)
proposto al re intorno all'enfiteusi del così nomato Tavoliere di Puglia che
leggesi negli opuscoli di lui pubblicati per Silvestri in Milano ove egli da
maestro discorre ciò che con grave senno e sapere a veva il suo collega
consigliere C. proposto, quando a questo fine per sovrano volere ha a recarsi
in quella provincia. Del quale importantissimo servigio ha onore da maestrati
quivi preposti alla agraria economia che con parole di lode il provvedimen to
del principe ed il nome del benemerito consigliere in latina epigrafe eternano;
e n'ebbe dal monarca eziandio meritato pre mio: imperciocchè gli di grado di
consigliere effettivo con voto, e di sopra-intendente alle dogane ed alle
zecche del regno; nel che adopera a maniera, che sommo vantaggio m'ha lo stato
per la retta amministrazione di quegli ufficii, ed a lui vennero per mol te
lettere di mano della stessa regnante Carolina onorevolissime lodi. Segue C. la
real corte a Palermo quando dovè colà ri fuggirsi: e con essa lei torna al suo
impiego in Napoli. Salito al trono il re Giuseppe, volge tosto gli sguardi ad
esso lui come a specchio di sapiente reggimento e di non comune interesse, e
gli confere la carica di consiglier di stato, di cavaliere del nuovo ordine del
le due Sicilie da esso lui istituito. Ma la mal ferma salute che gli vietò
continuare a quel monarca i suoi servigi, e che il tolge a quel regno ove lascia
fama durabile del suo merito, procaccia alla patria il conforto di vederlo
tornare fra' suoi concittadini de quali è desiderio e delizia: e ben l'hanno
eglino zelantissimo della pubblica morale, e civile istruzione a quali col più
potente dei precetti, l'esempio, è di bel la guida e di stimolo; e per
l'importante buon regime delle acque operoso; e di quant'altro puo interessare
il pubblico vantaggio studiosissimo: nè mancano ai mendici dalla mano benefica
di lui generosi soccorsi i quali seppe providamente elargire, anzichè ad
alimento dell'ozio, a meritato sollievo della vera indigenza. Illi bato del
costume e per la esquisita erudizione della quale è fornito nella sociale
consuetudine piacentissimo, con la serena calma del giusto vide giungere l'ora
estrema del vivere, che a suoi cari ed alla patria il rapì: e della acerba
morte di lui amaramente si dolse l'universale della città desolato per la perdita
irreparabile di quest'uomo chiarissimo nel quale si ammirarono congiunte a
sapere profondo in o gni maniera di scienze e di lettere, integrità di vita e
dovizioso corredo di ogni bella virtù. Whoever has glanced through the pages
of any text-book on mercantile law will hardly deny that CONTRACT
is the handmaid if not actually the child of Trade. Merchants and bankers
must have what soldiers and farmers seldom need, the means of
making and enforcing various agreements with ease and certainty. Thus,
turning to the special case before us, we should expect to find that WHEN
ROME IS IN HER INFANCY and when her free inhabitants busied themselves
chiefly with tillage and with petty warfare, their rules of sale,
loan, suretyship, were few and clumsy. Villages do not contain
lawyers, and even in tdwns hucksters do not employ them. Poverty of
Contract was in fact a striking feature of the early Roman Law, and
can be readily understood in the light of the rule just stated. The
explanation given by Sir Henry Maine is doubtless true, but does not seem
altogether adequate. He points out 1 that the Roman household consisted
of many families under the rule of a Ancient Law. B. E. paternal
autocrat, so that few freemen had what we should call legal capacity, and
consequently there arose few occasions for Contract. This may
indeed account for the non-existence of Agency, but not for that of
all other contractual forms. For if the households had been trading
instead of farming corporations, they must necessarily have been more
richly provided in this respect. The fact that their commerce was
trivial, if it existed at all, alone accounts completely for the
insignificance of Contract in their early Law. The origin of
Contract as a feature of social life was therefore simultaneous with the
birth of Trade and requires no further explanation. It is with the
origin and history of its individual forms that the following pages have
to deal. As ROMAN CIVILISATION progresses we find Commerce extending and
Contract growing steadily to be more complex and more flexible.
Before the end of the Roman Republic the rudimentary modes of agreement
which sufficed for the requirements of a semi-barbarous people have
been almost wholly transformed into the elaborate system f of Contract
preserved for us in the fragments of the Antonine jurists. At the
most remote period concerning which statements of reasonable accuracy can
be made, and which for convenience we may call the Regal Period, we
can distinguish three ways of securing the fulfilment of a promise. The
promise could be enforced either by the person interested, or by the gods, or by the community. When however we speak
of enforcement, we must not think of what is now called specific
performance, a conception unknown to primitive Law. The only kind of
enforcement then possible was to make punishment the alternative of
performance. Self-help, the most obvious method of redress in a society
just emerging from barbarism, was doubtless the most ancient protection
to promises, since we find it to have been not only the mode by
which the anger of the individual was expressed, but also one of the
authorised means employed by the gods or the community to signify their
displeasure. This rough form of justice fell within the domain of
Law in the sense that the law allowed it, and even encouraged men to
punish the delinquent, whenever religion or custom had been violated. But
as people grew more civilized and the nation larger, self-help must
have proved a difficult and therefore inadequate remedy. Accordingly its scope
was by degrees narrowed, and at last with the introduction of surer
methods it became wholly obsolete. Religious Law, as administered by
the priests, the representatives of the gods, was another powerful
agency for the support of promises. A violation of Fides, the sacred bond
formed between the parties to an agreement, was an act of impiety
which laid a burden on the conscience of the delinquent and may even have
entailed religious disabilities. Fides was of the essence of every
compact, but there were certain cases in which its violation was
punished with exceptional severity. If an agreement had been solemnly
made in the presence of the gods, its breach was punishable as an act
of gross sacrilege. The third agency for the protection of promises
was legal in our sense of the word. It consisted of penalties imposed
upon bad faith by the laws of the nation, the rules of the gens, or
the by-laws of the guild to which the delinquent belonged. What the
sanction was in each case we are left to conjecture. It may have been
public disgrace, or exclusion from the guild, or the paying of a
fine. And as some promises might be strengthened by an appeal to the gods, so
might others by an invocation of the people as witnesses.
Agreements then might be of three kinds corresponding to the three kinds
of sanction. They might consist of an entirely formless compact, a
solemn appeal to the gods, or a solemn appeal to the people. A formless
compact is called pactum in the language of the twelve Tables. It was
merely a distinct understanding between parties who trusted to each
other's word, and in the infancy of Law it must have been the kind of
agreement most generally used in the ordinary business of life.
Such agreements are doubtless the oldest of all, since it is almost
impossible to conceive of a time when men did not barter acts and
promises as freely as they bartered goods and without the accompaniment
of any ceremony. Compacts of this sort were protected by the universal
respect for Fides, and their violation may perhaps have been visited
with penalties by the guild or by the gens. But intensely religious
as the early Romans were, there must have been cases in which conscience
was too weak a barrier against fraud, and slight penalties were
ineffectual. Fear of the gods had to be reinforced by the fear of man,
and self-help was the remedy which naturally suggested itself. In the
twelve Tables pactum appears in a negative shape, as a compact by
performing which retaliation or a law-suit could be avoided 1 . If this
compact was broken the offended party pursued his remedy. Similarly
where a positive pactum was violated, the injured person must have had the
option of chastising 1 GELLIO. Auct. ad Her. n. 13. 20. the
delinquent. His revenge might take the form of personal violence, seizure
of the other's goods, or the retention of a pawn already in his
possession. He could choose his own mode of punishment, but if his
adversary proved too strong for him, he doubtless had to go unavenged ;
whereas if the broken agreement belonged to either of the other classes,
the injured party had the whole support of the priesthood or the
community at his back, and thus was certain of obtaining satisfaction. It
is therefore plain that though formless agreements contained the
germ of Contract, they could not have produced a true law of Contract,
because by their very nature they lacked binding force. Their
sanction depended on the caprice of individuals, whereas the essence of
Contract is that the breach of an agreement is punishable in a particular
way. A further element was needed, and this was supplied by the
invocation of higher powers. II. At what period the feshion was
introduced of confirming promises by an appeal to the gods it would
be idle to guess. Originally, it seems, the plain meaning of such appeals
is alone considered, and their form is of no importance. But, under the
influence of custom or of the priesthood, they assume by degrees a formal
character, and it is thus that we find them in our earliest
authorities. Since religion and law – [“as H. L. A. Hart so well knows,
since he is a jew” – H. P. Grice] -- are both at first the monopoly of
the priestly order, and since the religious forms of promise have their
counterpart in the customs of Greece and other primitive
peoples, whereas the secular form is PECULIARLY Roman, the religious
form is evidently the older, and formal contract therefore has a religious
origin. Fides being a divine thing, the most natural means of
confirming a promise is to place it under divine protection. This may be
accomplished in two ways, by ius iurandum, or by sponsio -- each of
which is a solemn, Austinian-type performative declaration placing the
promise or agreement under the guardianship of the god, notably GIOVE. Each
form has a curious history, and as this is are the earliest specimen of a
contract, we should discuss them, and we might! Another method, and one
peculiar to the Romans, which naturally suggests itself for the
protection of agreements, is to perform the whole transaction in view of other
people. This publicity ensures the fairness of the agreement, and places
its existence beyond Cartesian – or Berkeleyian -- dispute. If the transaction is
essentially a public matter, such as the official sale of some public
land, or the giving out of a public contract, no formality seems ever to
have been required, so that even a formless agreement in in that
case is binding. The same validity may be secured for a private
contract, by having it publicly witnessed, and the nexum is but one
application of this principle. In testamentary law – “How my father,
Herbert Grice, inherited the property on the High Way of Halborne” – Grice -- it
seems probable that the public will in comitiis calatis is also
formless, whereas in private the testator may only give effect to his
will by formally saying to his fellow-citizens testimonium mihi
perhibetote. Thus the two elements which turned a bare agreement
into a contract were religion and publicity. The naked agreements (pacta)
need not concern us, since their validity as contracts never
received complete recognition. But it will be the object of the
following pages to show how agreements grew into contracts by being
invested with a religious or public dignity, and to trace the subsequent
process by which this outward clothing was slowly cast off.
Formalism was the only means by which Contract could have risen to an
established position, but when that position was folly attained we shall
find Contract discarding forms and returning to the state of bare
agreement from which it had sprung. Ivsivrandvm is derived by some
from Iouisiurandum 1, which merely indicates that Jupiter was the god by
whom men generally swore. To make an oath was to call upon some god
to witness the integrity of the swearer, and to punish him if he
swerved from it. This appears from the wording of the oath in LIVIO,
where SCIPIONE says: Si sciensfalloy turn me, Iuppiter optime maxime,
domum familiam remque rneam pessimo leto afficias" and from the
oath upon the Iuppiter lapis given by Polybius and Paulus Diaconus, where
a man throws down a flint and says : " Si sciens /alio, turn
me Dispiter salua urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc
lapidem" A promise accompanied by an oath was simply a unilateral
contract under religious sanction. And it would seem that the oath was in
fact used for purposes of contract. CICERONE remarks 8 that the
oath was proved by the language of the XII Tables to have been in
former times the most binding form of promise ; and since an oath was
still morally binding 1 Cf. Apul. de deo Socr. 5. a xzii.Off. ni.
31. 111.in the time of CICERONE, though it had then no legal force, the
point of his remark must be that in earlier times the oath was legally
binding also. From Dionysius we know that the altar of ERCOLE (called ARA
MASSIMA) was a place at which solemn compacts (ovvdfjtcai) were often
made 1, while Plautus and Cicero inform us that such compacts were
solemnized by grasping the altar and taking an oath 2 . It would seem
probable that the gods were consulted by the taking of auspices before
an oath was made. Cicero says that even in private affairs the
ancients used to take no step without asking the advice of the gods 8 ;
and we may safely conjecture that whenever a god was called upon to
witness a solemn promise, he was first enquired of, so that he might have
the option of refusing his assent by giving unfavourable auspices. The
terms of the oath were known as concepta uerba, at least in the
later Republic, and like the other forms of the period they were strictly
construed 4 . Periuriv/m did not mean then, as now, false swearing. It
meant the breach of an oath 5, the commission of any act at
variance with the uerha concepta There is some dispute as to what were the
exact consequences of such a breach. Voigt 7 thinks that it merely
entailed excommunication from religious rites, but Danz 8 is clearly
right in maintaining that its consequences in early times were far more
serious ; 1 Dion. i. 40. 2 Plaut. Rud. 5. 2. 49. Cio. Flacc. 36.
90. 8 Div. 1. 16. 28. 4 Seru. ad Aen. 12. 13. 6 i.e.
8ciem fallere, Plin. Paneg. 64. Seneca, Ben. in. 37. 4. 6 Off. in. 29.
108. 7 Ius Nat. Ram. RG. n. § 149. they amounted in fact to
complete outlawry. Cicero says that the sacratae leges of the
ancients confirmed the validity of oaths. Now a sacrata lex was one
which declared the transgressor to be sacer (i.e. a victim devoted) to
some particular god 1, and sacer in the so-called laws of Seruius Tullius
2 and in the XII Tables 8 was the epithet of condemnation applied to the
undutiful child and the unrighteous patron. So likewise it seems
highly probable that the breaker of an oath became sacer, and that
his punishment, as CICERONE hints, was usually death. The formula of an
oath given by Polybius 6 is more comprehensive than that given by
Paulus Diaconus, for in it the swearer prays that, if he should
transgress, he may forfeit not onry the religious but also the civil
rights of his countrymen. This shows that the oath-breaker was an
utter outcast; in fact, as the gods could not always execute vengeance in
person, what they did was to withdraw their protection from the
offender and leave him tolhe punishment of his fellow-men. The drawbacks
to this method of contract were the same as those of the old English Law,
which made hanging the penalty for a slight theft ; the penalty was
likely to be out of all proportion to the injury inflicted by a breach of
the promise. So awful indeed was it, that no promise of an ordinary
kind could well be given in such a dangerous form, and consequently
the oath was not available for the 1 Festus, p. 318, s.u. sacratae.
2 Fest. p. 230, s.u. plorare. 8 Seru. ad Aen. 6. 609. 4 Leg. n. 9.
22. B in. 25. 6 p. 114, s.u. lapidem. 7 Liu. v. 11. 16. common
affairs of daily life. The use of the oath therefore disappeared with the
rise of other forms of binding agreement, the severity of whose
remedies was proportionate to the rights which had been violated;
while at the same time the breaking of an oath came to be considered as a
moral, instead of a legal, offence, and by the end of the Republic
entailed nothing more serious than disgrace (dedecus). In one instance
only did the legal force of the oath survive. As late as the days of
Justinian^ the services due to patrons by their freedmen were still
promised under oath 1 . But the penalty for the neglect of those services
had changed with the development of the law. At and before the time
of the XII Tables, the freedman who neglected his patron, like the
patron who injured his freedman 2, no doubt became sacer, and was an
outlaw fleeing for his life, as we are told by DIONISIO. But in
classical times the heavy religious penalty had disappeared, and the
iurisiurandi obligatio was enforced by a special praetorian action, the
actio operarum*. By the time of Ulpian the effects of the iurata
operarum promissio seem indeed to have been identical with those of the
operarum stipulatio*, though the forms of the two were still quite
distinct. We may then summarise as follows our knowledge as
to this primitive mode of contract : The form was a verbal
declaration on the part of the promisor, couched in a solemn and
carefully 1 38 Dig. 1. 7. a Sera, ad Aen. 6. 609. 8 n. 10. 4
38 Dig. 1. 2 and 7. 5 Cf. 38 Dig. 1. 10. 1 worded 1 formula
(concepta tierba), wherein he called upon the gods {testari deos)*, to
behold his good faith and to punish him for a breach of it.
The sanction was the withdrawal of divine protection, so that the
delinquent was exposed to death at the hand of any man who chose to
slay him. The mode of release, if any, does not appear.
In classical times it was the acceptilatio*, but this Was clearly
anomalous and resulted from the similar juristic treatment of operae
promissae and operae iuratae. Though the point is contested by
high authority, yet it scarcely admits of a doubt that there existed from
very early times another form, known as sponsio, by which agreements
could be made under religious sanction. This method, as Danz has
pointed out, was originally connected with the preceding one. It was
derived from the stern and solemn compact made under an oath to the
gods. But Danz goes too far when he identifies the two, and states that
sponsio was but another name for the sworn promise. The stages
through which the sponsio seems to have passed tell a different
story. The word is closely connected with airovSij, tnrivSeiv, and hence
originally meant a pouring out of wine 8, quite distinct from the
convivial \ocfirf or libatio 6, so that " libation " is not its
proper equivalent. The other derivation given by Dig., fr. Plant. Rud.
Dig. 4. 13. 4 Danz, Sacr. Schutz Festus s.u. spondere. 6 Leist, Greco-It. R. O.
, note o. Varro 1 and Verrius from
sports, the will, whence according to Girtanner 8 sponsio must have meant
a declaration of the will, savours somewhat too strongly of
classical etymology. This pouring out of wine, as Leist 4 has shown,
was in the Homeric age a constant accompaniment to the conclusion of a sworn
compact of alliance (optcia iriara) between friendly nations. The
sacrificial wine seems originally to have added force to the oath by
symbolising the blood which would be spilt if the gods were insulted by a
breach of that oath. In this then its original form sponsio was
nothing more than an accessory piece of ceremonial. The second stage was
brought about by the omission of the oath and by the use of
wine-pouring alone as the principal ceremony in making less
important agreements of a private nature. In the Indian Sutras for
instance a sacrifice of wine is customary at betrothals 5, and comparison
shows that the marriage ceremonies of the Romans, in connection with
which we find sponsio and sponsalia applied to the betrothal and sponsa
to the bride 6, were very like those of other Aryan communities 7 . We
may therefore clearly infer that at Rome also there was a time when
the pouring out of wine was a part of the marriage-contract; and thus our
derivation of the word receives independent confirmation. In the third
and last stage sponsio meant 1 L. L. Festus, «. u. spondere. Stip
Greco-It. B. G. . 8 Leist, AlUAr. I. Civ. 8 Gell. iv. 4. Varro, L.
L. Leist, loc. ciu nothing more
than a particular form of promise, and it is easy to see how this came
about. At first the verbal promise took its name from the ceremony
of wine-pouring which gave to it binding force; but in course of
time this ceremony was left out as taken for granted, and then the
promise alone, provided words of style were correctly used, still
retained its old uses and its old name. Sponsio from being a
ceremonial act became a form of words. Such was the final stage of its
development. The importance attached to the use of the words
spondesne ?, spondeo in preference to all others 1 thus becomes clear.
Spondesne ? spondeo originally meant " Do you promise by the
sacrifice of wine V "I do so promise," just as we say, "I
give you my oath," when we do not dream of actually taking
one. Another peculiarity of sponsio, noticed though not
explained by GAIO, was the fact that it could be used in one exceptional
case to make a binding agreement between Romans and aliens, namely,
at the conclusion of a treaty. Gaius expresses surprise at this
exception. But if, as above stated, a sacrifice of pure wine {airovhal
a/cprjTot) was one of the early formalities of an international compact
(op/cia mard), it was natural that the word spondeo should survive
on such occasions, even after the oath and the winepouring had long since
vanished. Sponsio being then a religious act and subsequently a
religious formula, its sanctity was doubtless protected by the pontiffs
with suitable penalties. What these penalties were we cannot hope to
know, 1 Gai. in. 93. 2 in. 94. though clearly they were the
forerunners of the penal sponsio tertiae partis of the later
procedure. Varro 1 informs us that, besides being used at betrothals the
sponsio was employed in money (pecu/nia) transactions. If pecunia
includes more than money we may well suppose that cattle and other forms
of property, which could be designated by number and not by weight,
were capable of being promised in this manner. Indeed it is by no means
unlikely 2 that nexum was at one time the proper form for a loan of
money by weight, while sponsio was the proper form for a loan of coined
money (pecunia nwmerata). The making of a sponsio for a sum of
money was at all events the distinguishing feature of the afibio per
sponsionem, and though we cannot now enter upon the disputed history of
that action, its antiquity will hardly be denied. The account
here given of the origin and early history of the sponsio is so different
from the views taken by many excellent authorities that we must
examine their theories in order to see why they appear untenable. One great
class of commentators have held that the sponsio is not a primitive
institution, but was introduced at a date subsequent to the XII TABVLAE. The
adherents of this theory are afraid of admitting the existence, at so
early a period, of a form of contract so convenient and flexible as
the sponsio, and they also attach great weight to the fact that no
mention of sponsio occurs in our fragments of the XII Tables. While it
would doubtless be an anachronism to ascribe to the early 1
L. L. a Karsten, Stip. p.
42. J sponsio the actionability and breadth of scope which it
had in later times, still it may very well have been sanctioned by
religious law, in ways of which nothing can be known unless the
pontifical Commentaries of Papirius 1 should some day be discovered. As
to the silence of the XII Tables on this subject, we are told by
Pomponius that they were intended to define and reform the law rather
than to serve as a comprehensive code 2 . Therefore they may well
have passed over a subject like sponsio which was already regulated by
the priesthood. Or, if they did mention it, their provisions on the
subject may have been lost, like the provisions as to iusiurandum, which'
we know of only through a casual remark of CICERONE’s, The early date
here attributed to the sponsio cannot therefore be disproved by any such
negative evidence. Let us see how the case stands with regard to
the question of origin. (a) The theory best known in England, owing
to its support by Sir H. Maine, is that sponsio was a simplified form of
neocum, in which the ceremonial had fallen away and the nuncupatio had
alone been left 4 . This explanation is now so utterly obsolete
that it is not worth refuting, especially since Mr Hunter's exhaustive
criticism 5 . One fact which in itself is utterly fatal to such a theory
is that the nuncupatio was an assertion requiring no reply 6,
i Dion. in. 36. 2 1 Dig. 2. 2. 4. 8 Off. in. 31. 111. *
Maine, Am. Law, p. 326. 5 Hunter, Roman Law, p. 385. 6 Gai. n.
24. B. E. 2 whereas the essential thing about the
sponsio was a question coupled with an answer. (6) Voigt
follows Girtanner in maintaining that spondere signified originally
" to declare one's will," and he vaguely ascribes the use of
sponsiones in the making of agreements to an ancient custom
existing at Borne as well as in Latium 1 . He agrees with the view here
expressed that the sponsio was known prior to the XII Tables, but thinks
that before the XII Tables it was neither a contract (which is
strictly true if by contract we mean an agreement enforceable by action),
nor an act in the law, and that its use as a contract began in the
fourth century as a result of Latin influence 2 . In another place 8 he
expresses the opinion that its introduction as a contract was due to
legislation, and most probably to the Lex Silia. The objections to
this view are that the etymology is probably wrong, and that the
inference drawn as to the original meaning of spondere iuvolves us in
serious difficulties. An expression of the will can be made by a
formless declaration as well as by a formal one. And if a formless
agreement be a sponsio, as it must be if sponsio means any declaration of
the will, how are we to explain the formal importance attaching to
the use of the particular words " spondesne ? spondeo. This view ignores
the religious nature of the sponsio, which I have endeavoured to
establish, and (4) it forgets that sponsio, being part of the marriage
ceremonial, one of the first subjects 1 Rom. RG. Ius Nat. to be regulated by the
laws of Romulus 1, is most probably one of the oldest Roman
institutions. Again (5), as Esmarch has observed 2, the legislative
origin of the sponsio is a very rash hypothesis. We only know that the
Lex Silia introduced an improved procedure for matters which were already
actionable, and had a new formal contract been created by such a
definite act we should almost certainly have been informed of this by the
classical writers. (c) Danz also derives sponsio from sports,
the will; but he takes spondere to mean sua sponte iurare, and
thinks that the original sponsio was exactly the same as iusiurandum,
i.e. nothing more than an oath of a particular kind 3 . . His chief
argument for this view is to be found in PAOLO DIACONO, who gives
consponsor = coniurator. But why need we suppose that Paulus meant more
than to give a synonym ? in which case it by no means follows that
spondere = iurare. For such a statement as that we have absolutely no authority.
Moreover, as we saw above, iusiurandum was a one-sided declaration
on the part of the promisor only. How then could the sponsio,
consisting as it did of question and answer, have sprung from such a
source ? especially since the iusiurandum, though no longer armed
with a legal sanction, was still used as late as the days of
Plautus alongside of the sponsio and in complete contrast to it
? Girtanner, in his reply to the "Sacrale Schutz" of Danz
4, maintains that sponsio had nothing 1 Dion. n. 25. 2 K. V. filr
G. u. R. W. 3 Sacr. Schutz, p. 149. 4 Ueber die Sponsio, p. 4 fif. to
do with an oath, but was a simple declaration of the individual will, and
that stipulatio had its origin in the respect paid to Fides. This view
however is even less supported by evidence than that of Danz.
Arguing again from analogy Girtanner thinks that, as the Roman people
regulated its affairs by expressing its will publicly in the
Comitia, so we may conjecture that individuals could validly
express their will in private affairs, in other words could make a
binding sponsio. But this, as well as being a wrong analogy, is a
misapprehension of a leading principle of early Law. For, as we
have seen, no agreement resting simply upon the will of the parties
(i.e. pactum) was valid without some outward stamp being affixed to it,
in the shape of approval expressed by the gods or by the people. In
the language of the more modern law, we may say that such approval, tacit
or explicit, religious or secular, was the original causa ciuilis which
distinguished contractus from pactiones. Now a popular vote in the
Comitia bore the stamp of public approval as plainly as did the nexum.
But the sponsio, requiring no witnesses, was clearly not endorsed
by the people ; therefore the endorsement which it needed in order to
become a contractus iuris cvuilis must have been of a religious
nature, and that such was the case appears plainly if we admit that
sponsio originated in a religious ceremonial such as I have described.
To recapitulate the view here given, we may conclude that sponsio
was a primordial institution 1 See Windscheid, K. F. fiir G. «. R.
W. i. 291. of the Roman and Latin peoples, which grew into its later
form through three stages, It is originally a sacrifice of wine annexed
to a solemn compact of alliance or of peace made under an oath to the
gods. (b) Next it became a sacrifice used as an appeal to the gods
in compacts not made under oath such as betrothals. Just as iusiurandum
for many purposes was sufficient without the pouring out of wine, so
for other purposes sponsio came to be sufficient without the oath,
Lastly it becomes a verbal formula, expressed in language IMPLYING the
accompaniment of a wine-sacrifice, but at the making of which no
sacrifice was ever actually performed. In this final stage, which
continued as late as the days of Justinian, Its form was a question
put by the promisee, and an answer given by the promisor, each
using the verb spondere. Filiam mihi spondesne? Spondeo? Centum dari
spondes? Spondeo. Throughout its history this is a form which
Roman citizens alone may use, in which fact we clearly see religious
exclusiveness and a further proof of religious origin. Why they use
question and answer rather than plain statement is a minor point the
origin of which no theory – except Grice’s-- has yet accounted for.
The most plausible conjecture seems to be that the recapitulation
by the promisee was intended to secure the complete understanding by the
promisor of the exact nature of his promise. Its sanction in
the early period of which we are treating was doubtless imposed by the
priests, but owing to our almost complete ignorance of
the pontifical law we cannot tell what that sanction was.
Having now examined the ways in which an agreement could be made
binding under religious sanction, let us see how binding agreements
could be made with the approval of the community. There is reason
to believe that this secular class of contracts is less ancient than the
religious class, because nexum and mancipium were peculiar to the
Romans, whereas traces of iusiurandum and sponsio are found, as Leist has
shown, in other Aryan civilizations. Nexvm. There is no more disputed
subject in the whole history of Roman Law than the origin and development
of this one contract. Yet the facts are simple, and though we cannot be
sure that every detail is accurate, we have enough information to
see clearly what the transaction was like as a whole. We know that it was
a negotium per aes et libram, a weighing of raw copper or other
commodity measured by weight in the presence of witnesses 2 ; that the
commodity so weighed was a loan 8 ; and that default in the repayment of
a loan thus made exposed the borrower to bondage 4 and savage
punishment at the hands of the lender. We know also that it existed as a
loan before the XII Tables, for it is mentioned in them as
something quite different from mancipium. To assert, as Bechmann does,
that since nexum included conveyance as 1 Alt Ar. I. Civ. I« e Abt. pp.
435-443. 2 Gai. in. 173. 3 Muciu* in Varro, L. L.. 4 Varro, L.
L. Clark, E. R. L. well as loan " mancipiumque " must therefore be
an interpolation into the text of the XII Tables 1, is an arbitrary
and unnecessary conjecture. The etymology of nexwm, and of mancipium
shows that they were distinct conceptions. Mancipium implies the
transfer of mami8, ownership ; nexum implies the making of a bond
(cf. nectere, to bind), the precise equivalent of obligatio in the later
law. It is true that both nexwm and mancipium required the use of
copper and scales, to measure in one case the price, in the other
the amount of the loan. But this coincidence by no means proves that the
two transactions were identical. A modern deed is used both for leases
and for conveyances of real property, yet that would be a strange
argument to prove that a lease and a conveyance were originally the same
thing. Here however we are met by a difficulty. If, as some hold 8
and as I have tried to prove, we must regard mancipium as an institution
of prehistoric times distinct from the purely contractual nexwm,
how are we to explain the fact that nexwm is used by Cicero 8 and
by other classical writers 4 as equivalent to mancipium, or as a general term
signifying omne quod per aes et libram geritur, whether a loan, a
will, or a conveyance ? Now first we must notice the fact that neamm had
at any rate not always been synonymous with mancipium, for if it had been
so, there could have been no doubt in the minds of 1 Kauf f
Mommsen, Hist ad Fam. 7. 30 ; de Or. ; Top. ; Parad. . ; pro Mwr.
2. 4 Boethius lib. 3 ad Top. 5. 28 ; Gallus Aelius in Festas,
s.u. nexwm ; Manilim in Varro, L. L. Scaeuola and Varro that a res
nexa was the same thing as a res mamipata. This Scaeuola and Varro
both deny, and we must remember that Mucius Scaeuola was the Papinian of
his day. Manilius 1 on the other hand, struck perhaps by the likeness
in form of the obsolete nexum to other still existing negotia per
aes et libram, seems to have made nexum into a generic term for this
whole class of transactions. In this he was followed by Gallus Aelius.
The new and wider meaning, given by them to that which was a technical
term at the period of the XII Tables, apparently became general in
literature, partly for the very reason that nexum no longer had an
actual existence, partly because need liberatio, the old release of
nexum, had been adopted by custom as the proper form of release in
matters which had nothing to do with the original nexum, namely in
the release of judgment-debts and of legacies per damnationem. One
peculiarity mentioned by Gaius in the release of such legacies seems
altogether fatal to the theory that mandpium was but a species of the
genus nexum. Gaius says that nexi liberatio could be used only for
legacies of things measured by weight. Such things were the sole
objects of the true nexum, whereas res maricipi included land and cattle.
Therefore if mancipiwm were only a species of nexum we should
certainly find nexi liberatio applying to legacies of res mancipi,
but this, as Gaius shows, was not the case. The view that nexum was
the parent gestum per 1 Varro, L. L. vu. . a Festus, s. u.
nexum. 3 Gai. . aes et libram, and that mancipium was the
name given later to one particular form of nexum, is worth
examining at some length, because it is widely accepted 1, and because it
fundamentally affects our opinion concerning the early history of an
important contract. Bechmarm 2 thinks it more reasonable to suppose
that nexum narrowed from a general to a specific conception. But it is
scarcely conceivable that nexum should have had the vague generic
meaning of quodcumque per aes et libram geritur when it was still a
living mode of contract, and the technical meaning of obligatio per aes
et libram when such a contractual form no longer existed. What
seems far more likely is that nexum had a technical meaning until it
ceased to be practised subsequently to the Lex Poetilia, and that its
loose meaning was introduced in the later Bepublic, partly to
denote the binding force of any contract 4, partly as a convenient
expression for any transaction per aes et libram\ Even in CICERONE
(vedasi) we find ‘nexum’ used chiefly with a view to elegance of style in
places where mandpatio would have been a clumsy word and where 7 there
could be no doubt as to the real meaning. But when Cicero is
writing history, he uses nexum in its old technical SENSE (Grice, Do not
multiply senses beyond necessity) and actually tells us that it had
become obsolete. Bechmann, Kauf, ; Clark,
E. R. L. Varro, I. c. Festus,. u. nexum. Cf. nexu uetu&ti " in
Ulpian, 12 Dig. . 5 Cic. de Or. 6 Uar. Resp. vn. 14; ad
Fam.; Top. As in pro Mur. 2; Parad. 8 de Rep. and cf. Liu. mi. Rejecting then as untenable
the notion that nexum denoted a variety of transactions, let us see
how it originated. The most obvious way of lending corn or copper or any
other ponderable commodity, was to weigh it out to the borrower,
who would naturally at the same time specify by word of mouth the terms
on which he accepted the loan. In order to make the transaction
binding, an obvious precaution would be to call in witnesses, or if
the transaction took place, as it most likely would, in the market-place,
the mere publicity of the loan would be enough. Thus it was, we may
believe, that a nexurn was originally made. It was a formless agreement
necessarily accompanied by the act of weighing and made under public
supervision. It dealt only with commodities which could be measured with
the scales and weights, and did not recognize the distinction between res
mancipi and res nee mancipi, a strong argument that nescum and
mandpium were, as above said, totally distinct affairs. Its sanction lay
in the acts of violence which the creditor might see fit to commit
against the debtor, if payment was not performed according to the terms
of his agreement. Personal violence was regulated by the XII Tables, in
the rules of manus iniectio, but before that time it is safe to
conjecture that any form of retaliation against the person or property of
the debtor was freely allowed. The fixing of the number of witnesses at
five 1, which we find also in rnancipium, . is the only
modification of nexum that we know of prior to 1 Gai. hi. the XII
Tables. Bekker 1 suggests that this change was one of the reforms of
Seruius Tullius, and that the five witnesses, by representing the five
classes of the Servian ceruma, personified the whole people. This
is a mere conjecture, but a very plausible one. For we are told by
Dionysius 8 that Seruius made fifty enactments on the subject of Contract
and Crime, and in another passage of the same author 8, we find an
analogous case of a law which forbade the exposure of a child except with
the approval of five witnesses. But here a question has been raised as
to what the witnesses did. The correct answer, I believe, is that given
by Bechmann 4, who maintains that the witnesses approved the transaction
as a whole, and vouched for its being properly and fairly
performed. Huschke, on the other hand, claims that the function of the
witnesses was to superintend the weighing of the copper, and that before
the introduction of coined money some such public supervision was
necessary in order to convert the raw copper into a lawful medium of
exchange 5 . This view is part of Huschke's theory, that neacum had
two marked peculiarities: (1) it was a legal act performed under public
authority, and it was the recognised mode of measuring out copper money
by weight. The first part of Huschke's theory may be accepted
without reserve, but the second part seems quite untenable. We have no
evidence to show that nexum was confined to loans of money or of
1 Akt. 4 Kauf. Nexum, p. 16 ff. copper. Indeed we gather
from a passage of CICERONE (si veda) that far, corn, may have been the
earliest object of nexum 1, while GAIO (si veda) states that anything measurable
by weight could be dealt with by neari solvtio. No inference in favour of
Huschke's theory may be drawn from the name negotium per cms et
libram, for this phrase obviously dates from the more recent times
when the ceremony had only a formal significance, and when the aes
(ravduscvlum) was merely struck against the scales. If then we reject
the second part of Huschke's theory, and admit, as we certainly
should, that nexum could deal with any ponderable commodity, it is
evident that his whole view as to the function of the witnesses
must collapse also. The very notion of turning copper from
merchandise into legal tender is far too subtle to have ever occurred to
the minds of the early Romans. As Bechmann 8 rightly remarks, the
original object of the State in making coin was not to create an
authorised medium of exchange, but simply to warrant the weight and
fineness of the medium most generally used. The view of Buschke
seems therefore a complete anachronism. There is also another
interpretation of neawm radically different from the one here advocated,
and formerly given by some authorities 4, but which has few if any
supporters among modern jurists. This, view was founded upon a loosely
expressed remark of Varro's in which nexus is defined as CICERONE
(si veda) de Leg. Agr. Kauf. 4 See Sell, Scbeurl, Niebuhr, Christiansen,
Puchta, quoted in Danz, Rom. RG. n. 25. a freeman who gives himself
into slavery for a debt which he owes The inference drawn from this
remark was that the debtor's body, not the creditor's money, was the
object of nexwm, and that a debtor who sold himself by mancipium as a
pledge for the repayment of a loan was said to make a nexum. Such a
theory does not however harmonize with the facts. The evidence is
entirely opposed to it, for Varro's statement, as will be seen later on,
admits of quite another meaning. Neither nexum nor mancipium is ever
found practised by a man upon his own person. Nor could nexum have
applied to a debtors person, for the idea of treating a debtor like
a res mancipi or like a thing quod pondere numero constat, is absurd.
Again, if nexum = mancipium, the conveyance of the debtors body as a
pledge must have taken effect as soon as the money was lent,
therefore by thus becoming nexus he must have been in mancipio long
before a default could occur, which is too strange to be believed, and
(2) being in mancipio he must have been capite deminutus, which
Quintilian expressly states that no nexal debtor ever was 4 . Clearly then
mancipium was under no circumstances a factor in nexum. Thus it
would seem that the theory which regards nexum as a loan of raw copper or
other goods measurable by weight, is the one beset with fewest
difficulties. Such goods correspond pretty nearly to what in the later
law were called res fungibiles. VARRONE (si veda), L. L. nexum inire, Liu.
vn. Paul. Diao. u. deminutus. Decl. The borrower was not required to return the
very same thing, but an equal quantity of the same kind of thing.
And this explains why neanim, the first genuine contract of the Roman
Law, should have received such ample protection. A tool or a beast
of burden could be lent with but little risk, for either could be
easily identified ; but the loan of corn or of metal would have been
attended with very great risk, had not the law been careful to ensure
the publicity of every such transaction. lusiurandum or sponsio
might no doubt have been used for making loans, but they both lacked .
the great advantage of accurate measurement, which neanim owed to
its public character. It was the presence of witnesses which raised
neanim from a formless loan into a contract of loan. This
general sketch of the original neanim is all that can be given with
certainty. The details of the picture cannot be filled in, unless we draw
upon our imagination. We do not know what verbal agreement passed between
the borrower and the lender, though it is fairly certain that
payment of interest on the loan might be made a part of the contract.
We cannot even be quite sure whether the scale-holder (libripens) was an
official, as some have suggested, or a mere assistant. Our
description of the contract may then be briefly recapitulated as
follows: The form consisted of the weighing out and delivery
to the borrower of goods measurable by weight, in the presence of
witnesses, (five in number, probably since the time of Seruius Tullius),
whose attendance ensured the proper performance of the ceremony.
The ownership of the particular goods passed to the borrower, who was
merely bound to return an equal quantity of the same kind of goods,
but the terms of each contract were approximately fixed by a verbal
agreement uttered at the time. The sanction consisted of the violent
measures which the creditor might choose to take against a
defaulting debtor. Before the XII Tables there seems to have been no
limit to the creditor's power of punishment. Any violence against the
debtor was approved by custom and justified by the notoriety of the
transaction, so that self-help was more easily exercised and probably
more severe in the case of nexum than in that of any other
agreement. The release (nexi solutio) was a ceremony precisely similar to
that of the nexum itself, the amount of the loan being weighed and
delivered to the lender, in presence of witnesses. We have now examined
three methods by which a binding promise could be made in the
earliest period of the Roman Law. The next question which confronts us is
whether there existed at that time any other method. The other forms
of contract, besides those already described, which are found
existing at the period of the XII Tables, were fiducia, lex mancipi,
uadimonium, and dotis dictio. Did any of these have their origin before
this time ? Fiducia is doubtful, and lex mancipi, as we shall see,
owed its existence to an important provision Gai. \.t of that code.
As to the origin of uadirnonium, we cannot be certain, but judging from a
passage in Gellius 1 we are almost forced to the conclusion that
uadimonium also was a creation of the XII Tables. Gellius speaks of •'
uades et subuades et XX V asses et taliones omnisque ilia XII
Tabhlarum antiquitas. We know that twenty-five asses was the fine
imposed by the XII Tables for cutting down another man's tree, therefore
it would seem from the context that uades had also been introduced by
that code. The point cannot be settled, but since the XII Tables
were at any rate the first enactments on the subject of which anything is
known, we may discuss uadimonium in treating of the next period. The
only contract of which the remote antiquity is beyond dispute is the
dotis dictio. DOTIS DICTIO. Dionysius 8 informs us that in the earliest
times a dowry was given with daughters on their marriage, and that if the
father could not afford this expense his clients were bound to
contribute. Hence it is clear not only that dos existed from very early
times, but that custom even in remote antiquity had fenced it about with
strict rules. From Ulpian 8 we know that dos could be bestowed
either by dotis dictio, dotis promissio, or dotis datio. The promissio is
a promise by stipulation, and the datio was the transfer by mancipation
or tradition of the property constituting the dowry ; so that these two
are easy to understand. But dotis dictio is an obscure subject. It is
difficult to know whence it acquired its binding force as a contract, Reg.
since in form it was unlike all other contracts with which we are
acquainted. Its antiquity is evidenced not only by this peculiarity of
form, but 9,lso by a passage in the Theodosian Code which speaks of
dotis dictio as conforming with the ancient law 1 . An illustration
occurs in Terence, where the father says, Dos, Pamphile, est decern
talenta" and Pamphilus, the future son-in-law, replies,
"Accipio"; but we need not conclude that the transaction was
always formal, for the above Code 8, in permitting the use of any form,
seems rather to be restating the old law than making a new
enactment. A further peculiarity, stated by Ulpian 4 and by Gaius 5, was
that dotis dictio could be validly used only by the bride, by her father
or cognates on the fathers side, or by a debtor of the bride acting
with her authority. Dictio is a significant word, for Ulpian 6
distinguishes between dictum and promissum, the former, he says, being a mere
statement, the latter a binding promise. This distinction should
doubtless be applied in the present case, since dotis dictio and dotis
promissio were clearly different. The following theories seem to be
erroneous : Von Meykow 7 holds that dictio was adopted as a form of
promise instead of sponsio for this family affair of dos, in order not to
hurt the feelings of the bride and of her kinsmen by appearing to
question their bona fides. That theory would be a plausible
explanation, if dictio could ever have meant a 1 C. Th. 3. 12. 3. 2
And Reg. Epit.Dig. Diet. d. Rfim. Brautg. p. 5 ff. B. E.
3 promise, but from what Ulpian says, this can hardly be
admitted. Bechmann 1, again, connects dotis dictio with the ceremony
of sponsio at the betrothal of a daughter. The dos, he thinks, was
promised by a sponsio made at the betrothal, so that the peculiar form
known as dotis dictio was originally nothing more than the
specification of a dowry already promised. The dotis dictio would
therefore have been at first a mere pactum adiectum, which was made
actionable in later times, while still preserving its ancient form.
The objection to this theory is tKat it lacks evidence : indeed the only
passage (that of Terence) in which dotis dictio is presented to us with a
context goes to show that this contract was in no way connected
with the act of betrothal. (c) Another explanation is given by
Czylharz, ie. that dotis dictio was a formal contract. His view is
based on the scholia attached to the passage of Terence, which say of the
bridegroom's answer: "Mle nisi dixisset ' accipio' dos non
esset." Czylharz therefore looks upon the contract as an
inverted stipulation. The offer of a promise was made by the promisor,
and when accepted by the promisee became a contract. Though such a
process is quite in harmony with modern notions of Contract, it
would have been a complete anomaly at Rome. And we cannot believe that,
if acceptance by the promisee had been a necessary part of the
dotis dictio, we should not have been so informed by Gaius, when he
has been so careful to impress Rom. Dotalrecht. 2 Abt. a Z.f. R. G.
upon us that the dotis dictio could be made nulla interrogatione
praecedente. Thus the view of Czylharz besides being in itself improbable
is almost entirely unsupported by evidence. Even the scholiast on
Terence need not necessarily mean that ‘accipio’ is an indispensable part
of the transaction. He may merely have meant that the bridegroom at this
juncture could decline the proffered dos if he chose, and this
interpretation is borne out by Iulianus 1 and Marcellus 8, who give
formulae of dotis dictio without any words of acceptance. A
satisfactory solution of the problem seems to have been found by Danz. He
looks upon dos as having been due from the father or male
ascendants of the bride as an officium pietatis 4, and quotes passages
from the classical writers in which they speak of refusing to dower a
sister or a daughter as a most shameful thing 5 . The source of the
obligation lay in this relationship to the bride, not in any binding
effect of the dotis dictio itself. But in order that the obligation
might be actionable its amount had to be fixed, and this was just
what the dictio accomplished. It was an acknowledgment of the debt which
custom had decreed that the bride's family must pay to the
bridegroom. In this respect the dos was precisely analogous to the debt
of service which a freedman owed as an offidum to his patron, and which
he acknowledged by the iurata operarumpromissio. The dos and the
operae were both officio, pietatis, but Dig. Dig.
Rom. RO. I. 163.Dig. 3. 2. 5 Plaut. Trin.; Oic. Quint. it became
customary to specify their nature and their quantity. In the one case
this was done by an oath, in the other by a simple declaration, and
in both cases the law gave an action to protect these anomalous
forms of agreement. What kind of action could be brought on a dotis
dictio is not known. Voigt 1 states it to have been an actio dictae
dotis, for which he even gives the formula, but formula and action are
alike purely conjectural. We can only infer that the dotis dictio was
action- able since it constituted a valid contract. How or when
this came to pass we cannot tell. A further advantage of Danz' theory, and
one not mentioned by him, is that it explains the capacity of the
three classes of persons by whom alone dotis dictio could be performed.
(1) The father and male ascendants of the bride were bound to provide a
dos under penalty of ignominia; the bride, if sui iuris, was bound
to contribute to the support of her husband's household for exactly the
same reason; and a debtor of the bride was bound to carry out her
orders with respect to her assets in his possession, and supposing her whole
fortune to have con- sisted of a debt due to her, it is evident
that a dotis dictio by the debtor was the only way in which this
fortune could be settled as a dos at all. Thus the hypothesis that the
dos was a debt morally due from the father of the bride, or from
the bride herself, whenever a marriage took place, completely explains
the curious limitation with XII Taf. ii. § 123. 2 24 Dig CICERONE (si
veda), Top. FORM OF D0TI8 DICTIO regard to the parties who could perform
dotis dictio. The nature of the transaction may then be summarized
as follows : Its form was an oral declaration on the part of
the bride's father or male cognates, of the bride herself, or of a debtor
of the bride, setting forth the nature and amount of the property
which he or she meant to bestow as dowry, and spoken in the
presence of the bridegroom. Land as well as moveables could be settled in
this manner No particular formula is necessary. The bridegroom
might, if he liked, express himself satisfied with the dos so specified ;
but his acceptance does not seem to have been an essential feature of the
proceeding. Most probably he did not have to speak at all.
Its sanction does not appear, though we may be sure that there was
some action to compel perform- ance of the promise. This action, whatever
it may have been, could of course be brought by the bride's husband
against the maker of the dotis dictio. Perhaps in the earliest times the
sanction was a purely religious one. Art. 6. Now that we have
seen the various ways in which a binding contract could be made in
the earliest period of Roman history, we may con- sider briefly the
general characteristics of that primi- tive contractual system. The first
striking point is that all the contracts hitherto mentioned are
unilateral: the promisor alone was bound, and he was not entitled, in
virtue of the contract, to any counterperformance on the part of the
promisee. Gai. Ep. The second point is that the consent of the
parties was not sufficient to bind them. Over and above that
consent the agreement between them was required to bear the stamp of
popular or divine approval. Even in dotis dictio, as we have just
seen, a simple declaration uttered by the promisor was invested
with the force of a contract merely because the substance of that
declaration was a transfer of property approved and required by public
opinion. Thirdly we notice that the intention of the con- tracting
parties was verbally expressed, but that the language employed was not
originally of any impor- tance (except in the one case of sponsio),
provided the intention was clearly conveyed. We must
therefore modify the statement so commonly made that the earliest
known contracts were couched in a particular form of words. For how did
each of these particular forms originate and acquire the shape in
which we afterwards find it ? By having long been used to express agreements
which were binding though their language was informal, and by having
thus gradually obtained a technical significance. Conse- quently
the formal stage was not the earliest stage of Contract. The most
primitive contract of all was not an agreement clothed with a form, but an
agree- ment clothed with the approval of Church or State. Nicola
Codronchi. Niccola Codronchi. Keywords: Su i contratti e giochi d’assardo, contratto,
tre tipi di contratto, contratto epistemico, contratto empirico, contratto
misto, concordato puo essere informale o formale. tre tipi di concordi formali
nell’eta regale, il giuramento per giove, il sponsio (il vino come simbolo del
sangue dei vittimi) e il nesso. Il giuramento per Giove e lo sponsio sono ambi religiosi
in natura. Solo il ‘nesso’ e secular – e chiede o necessita la presenza della
comunita come testificatore – e una forma tipicamente romana e consequentemente
piu tard ache le forme religiose che vediamo in altre comuita arie. Il nesso si
manifesta nel templo publico – ara maxima per Ercole – e invoca la regola del
primo re Romolo, contratti bilaterali, forma dialogica, A esprime la
proposizione e B risponde assentendo alla comprehension e all’accettazione di
p. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Codronchi” – The Swimming-Pool Library. Codronchi.
Luigi Speranza -- Grie e Colazza: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’iniziazione – scuola
di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma).
Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “Having
gone to Clifton, I love Colazza – he is into ‘iniziazione’ – specially in the
equites of ancient Rome, but not much different from mine!” Di una famiglia
dell'alta borghesia romana, e istruito agli studi umanistici e si laurea a
Roma. Cultore dell'esoterismo e delle dottrine massoniche e teosofiche. Fonda
il club antroposofico in Italia. Dall'incontro con l'antroposofia C. apprese
l'esigenza di seguire pratiche spirituali di concentrazione adatte al contesto occidentale,
coltivando in particolare la «via del pensiero cosciente». Altre opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La
magia del noi di Ur (Edizioni Mediterranee). Evola e l'esperienza del Gruppo di
Ur. A strong anthroposophical influence
came from C. and Duke Giovanni Colonna di Cesard. Close to the group, which
adopted the name UR, were Kremmerz, founder of the Fraternity of Myriam. Sedute
spiritiche che si svolgevano in casa dell'amico C., e che talvolta si
protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA
DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA INTERIORE. Il saggio l’Iniziazione mi fu
consigliato da Steiner in francese a Piazza Spagna, come un saggio importante, da
tenere sempre presente come guida.
L’uomo così come nella vita quotidiana serve a poco o niente per il mondo
dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo poi altri insegnamenti
estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra persona, di cui
siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto utile per giungere
alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare in noi il pensare
che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di Eurialo e Niso,
che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente. L’esoterismo e facile,
se si conforta sempre donandoci personali indicazioni, circa gli esercizi e la
pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare fedelmente e scrupolosamente
quello che possiamo accogliere e applicare a noi stessi. Si dice che è importantissimo cominciare
sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il concetto
di venerazione con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento
che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o
sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da
riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima.
L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di
nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore
di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali
rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con
atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del
cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la
gerarchia. Tale stato di nostre anime
destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali,
ai quali siamo debitori. Astenersi dalla
critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la
qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia
perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità
dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo
sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore,
soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla
sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da
cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima.
Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare
immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa ricercando
nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate percezioni.
Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli,
senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le
concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano
esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale
ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel
nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un
perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione
su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali
esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la
nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un
grande nemico. Bisogna osservare una pianta in pieno sviluppo afferrando tutti
i dettagli; osservarla e riceverne una percezione così chiara che, chiudendo
gli occhi, possa rimanere come chiara immagine interiore di fronte a noi.
Esercitarsi con la forma esterna cercando ad occhi chiusi di ricordarla, visualizzandola.
Quando si riceve un’esperienza non bisogna assolutamente tradurla in concetti
con le parole: bensì mantenerla in sé e coltivarla. Altra cosa importante da
fare è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare e realizzare la
differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di natura vegetale
o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie nel vento, il
rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una diversa
manifestazione delle forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo prolungare in
noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite l’orecchio
dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in silenzio il sorgere di
qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come
avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne
la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi
percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo
se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni
immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad
impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione
soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è
affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come
manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico,
genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità
che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene
in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico
ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel
mondo spirituale come una ripetizione più sottile delle forme del mondo fisico.
Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna sviluppare
sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e sensibilità
per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL TIROCINIO. Spesso
il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti dagli
esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una
direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza
accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra
direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre
e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di
colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi
all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di
colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi,
nascendo dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver
avuto una vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il
sentimento di aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine
percepita ci è a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è
un qualcosa di già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o
lemurico). È un primo passo verso il
riconoscere in coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in
completa unione con il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli
occhi fisici un seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò,
occorre interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del
seme, sforzandosi di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi
chiusi. Si pensi che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera
pianta: vi è in lui un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la
quale manifesterà in un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente
contenuta. In lui dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla
nostra vista, invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di
crescita in successione, nel triplice ritmo della sua costituzione:
radice, fusto, fogliame, fiori, frutto.
Non è importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa
manifestazione, la potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente
delle forze insite nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva
è l’elemento invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo
vegetale trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e
percepibile. Ci si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad
esso l’intero processo immaginativo delle potenziali forme di crescita,
dell’invisibile che è diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà
in noi come facoltà di visione: una specie di nube luminosa, una specie di
piccola fiamma di colore lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la
vivente forza vitale che edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare
una pianta in completo sviluppo, sforzandosi di vedere in essa
immaginativamente l’attuarsi del ciclo seme-pianta-fiore-frutto seme,
realizzando così un senso di perennità della vita vegetale, espressa nella
sintesi della forma della pianta stessa. In un certo senso, è come se dalla
pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o
Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi
sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa
pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi
tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante.
Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna
sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che
appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta
morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare.
Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della
pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione
personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da
una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta,
solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare
la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il
modificare il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale. L’obiettivo
di questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per arrivare al suo
contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame il ricordo di un
evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei movimenti e nei gesti
di un individuo preda di un fortissimo desiderio. Sforzarsi di sentire in noi
quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo, trasferendo in noi tale
sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da poterlo osservare
obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri. Appariranno
diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi
inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza
spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza
stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o
intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente
protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale
qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse
verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia
in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da
evitare, anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso
immette nel sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una
specie di neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita,
distorce o impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del
mondo spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un
naturale disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono
l’irregolare autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa
paralizza le forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente
spirituale. I vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare,
come funghi, legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce
solare, come i pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI DAGL’ESERCIZI.
Tutti gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una maggiore mobilità
del corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si aiutava attraverso
particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali pratiche sono dannose:
si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il fisico; se tuttavia se
si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe priva di controllo,
casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A seguito degli esercizi
antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un nuovo ritmo. La
mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il proprio corpo
fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il tirocinio esoterico,
avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono venir interpretate
come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima, il proprio sistema
osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è sperimentare i propri muscoli
come percorsi da correnti; si sente scorrere qualcosa nel sistema muscolare, quale
moto del corpo eterico. Si può poi avere la sensazione che la nostra coscienza
sia distesa e diffusa non più solo nella testa, ma lungo tutto il sistema
circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro noi. Si avverte poi il il centro
del proprio essere nel centro del cervello, mentre nella periferia di esso si
percepisce la zona ove opera e agisce la memoria rappresentativa. Il sistema
nervoso comincia a rendersi indipendente dalla corrente sanguigna. Si ha poi la
percezione di avvertire l’indipendenza e l’individualità dei singoli organi
interni. Ciò vale anche per gli organi di senso, che sembrano come attaccati al
nostro essere. I SENSI. Il tatto non è un senso, ma un urto contro il mondo
esterno; tramite gli altri sensi, evocando le relative percezioni di gusto,
odore, suono e vista per poi cancellarle ispirativamente, è possibile ritrovare
la loro origine spirituale. Il gusto è un organo di percezione dell’etere
cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere vitale. L’udito è l’involuzione di un
organo dell’epoca lunare, allora predisposto per la percezione dell’armonia
delle sfere. Il senso del calore ci rimanda all’antico Saturno. La vista ci
permette di percepire la manifestazione dell’etere di luce. Un sintomo evidente
dell’effetto degli esercizi è sulla memoria: essa viene man mano a perdersi,
per venir sostituita da un’altra facoltà mnemonica non fondata come questa su
ricordi visivi e uditivi, ma su ricordi o immaginazioni eteriche. Il vero
serbatoio della memoria non è il cervello, ma il corpo eterico: qui ogni cosa
viene registrata, racchiusa e conservata. Procedendo dal presente a ritroso,
rievocando stati d’animo sperimentati, sarà possibile ritrovarvi eventi
dimenticati. Nel sentire, si risveglia la memoria. Occorre sviluppare presenza
di Spirito: abituarsi ad una grande autodeterminazione, imparando a decidere
con immediatezza, senza esitazioni. Occorre poi di decidere responsabilmente di
non tradire il mondo spirituale, una volta conseguite le facoltà iniziatiche.
Il comunicare insegnamenti a qualcuno che non ne sia preparato, significa
assumersi anche la responsabilità karmica delle eventuali conseguenze, circa il
buono o cattivo uso che questi ne farà. Lo stare in segreto non deve
significare darsi arie misteriose, ma solo non voler nuocere ad altri. Tutto
ciò che ci porta alla nostalgia del nostro passato, è una tentazione
luciferica. Bisogna cessare di contare i giorni, i mesi e gli anni trascorsi
senza risultati nella disciplina. La parola chiave è Pazienza. L’impazienza
rappresenta un ostacolo: il mondo spirituale per potersi rivelare, per aprirsi
un varco, ha bisogno di trovare nel discepolo calma attesa, per potervisi
riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le potenze spirituali sono in continuo fermento,
in perenne attesa per poter essere accolte dall’uomo, purché trovino le giuste
condizioni che glielo consentano: esse, datrici di Amore eterno e altruista,
trepidano nella fremente attesa di poter riabbracciare i loro fratelli minori.
Più che anelare di muoversi incontro a loro, è più giusto intendere che la via
giusta è sapersi aprire ad esse. Esse possono riversarsi in noi solo se trovano
purezza interiore; esse sono sempre pronte, dai limiti della nostra coscienza,
a connettersi con noi. Sono soltanto i veli della personalità soggettiva,
l’irrequietezza, i timori, gli impulsi inferiori, a impedire loro di
avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire fisico, ogni reazione istintiva,
paralizza i sensi spirituali. Bisogna rinunciare alla suscettibilità e alla
collericità: tacitare le passioni e i desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza
del desiderio, che impedisce la percezione dello Spirito. Padronanza di sé:
dominio dei sentimenti che sorgono spontaneamente in noi. È consigliabile nei
rapporti con gli altri, non la durezza, ma la mitezza. La durezza erige una
barriera invalicabile, spezzando un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio:
positività e astensione dalla critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto
dall’ambiente della vita di tutti i giorni, per raccogliersi e meditare in
mezzo alla Natura. Il rumore della vita quotidiana, può impedire il
manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il discepolo mano a mano si libera
così della vita istintiva e dei caratteri ereditari della sua razza e famiglia:
si svincola dall’azione delle entità spirituali corrispondenti. Occorre sempre
chiedersi se si è degni di questa libertà interiore che si vuole conseguire e
se si ritiene di avere le forze necessarie per sostenerla, affinché tale
libertà agisca positivamente e correttamente. LE sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE
ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è connessa al karma: molte volte occorre
chiedersi se non vi sia qualche cosa nel campo morale che gravi sul fisico, da
purificare o da espiare, che ne impedisca l’atteso miglioramento. Per la salute
del corpo occorre sopratutto coltivare la chiarezza del pensare e del
discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo esterno. Prima di parlare o
di esporre una propria considerazione o un’opinione, occorre stabilire con
chiarezza il pensiero da formulare in immagini: non è bene difatti cercare a
tutta prima le parole idonee, ma soprattutto la figura d’insieme da cui
partire. È l’immagine che deve far scaturire l’espressione dialettica. Sentirsi
un arto della vita universale, una parte di questa, superando ogni senso di
separazione. La sostanza divina è solo apparentemente e necessariamente
ripartita nel cosmo: lo scopo finale dell’evoluzione è comunque ricostituire
un’unica entità spirituale. Bisogna aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli
altri fossero. 3- Si deve divenire consapevoli che i pensieri e i sentimenti
hanno la stessa valenza e importanza che le proprie azioni: il movimento del
pensiero e dei sentimenti è altrettanto concreto quanto le azioni fisiche
operate sul mondo esteriore. Ciò originerà responsabilità per il circostante
ambiente animico e fisico. I pensieri permangono e si diffondono, comprendendo
nei suoi effetti una moltitudine di esseri. Operare secondo i puri impulsi
dell’Io superiore, non dell’Io inferiore. Si deve prendere coscienza che il corpo
fisico, nel quale solitamente ci s’identifica, è solo uno specchio, un arto
dell’interiorità. Educarsi al mantenimento di una decisione presa; il
rinunciare è un cadere nel vuoto dell’incoerenza e dell’indeterminatezza: è
mancanza di forza dell’Io. Non bisogna assolutamente mai, prendere decisioni o
fissare regole, mentre ci si trova travolti dall’onda di un moto passionale o
di un impulso emotivo. Occorre essere riconoscenti, grati al mondo esterno e
allo Spirituale. Si deve ricordare che nell’era di Saturno, Tutto era Uomo, e
che solo grazie al frutto del sacrificio di altri esseri spirituali e esseri
fisici rimasti indietro nei regni inferiori, è stato possibile configurare
l’umanità attuale. Ringraziare per il sostentamento giornaliero. Considerare la
vita e agire in essa, secondo la direzione enunciata nelle precedenti
condizioni: dare un’impronta unitaria ed equilibrata alla vita facendo in modo
che le finalità delle proprie azioni siano determinate dalle attitudini sopra
descritte. Molte cose devono essere abbandonate, e molte altre acquisite per
porsi al servizio del divino. LA POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa
perpendicolarmente e orizzontalmente da correnti, che possono favorire o
ostacolare la meditazione. Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre
pertanto avere la colonna vertebrale verticale rispetto alla superficie
terrestre. La posizione distesa, supina, invece accoglie le correnti
orizzontali dirette alle specie animali, inducendo automaticamente ad un tipico
stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il corpo eterico è percorso da
innumerevoli correnti che muovono in senso longitudinale o circolare radiale.
Durante la veglia, il corpo astrale rimane connesso spazialmente al corpo
fisico; quando si apre nel discepolo la coscienza spirituale, il corpo astrale
si espande in proporzione dello spazio che può essere percepito, ossia diviene
grande quanto il suo campo di percezione. Non si parla diffusamente del loto a
due petali, fra gli occhi, perché esso è connesso con il risveglio di forze che
appartengono alla chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni
di sicurezza, del loto della zona basale kundalini e del loto1000 petali, sul capo. In un lontano passato, i fiori di loto erano
attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente solo la loro
metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano, cominciando a
muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici (cuore)e dieci
petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta sull’Io inferiore.
IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della preparazione e dell’illuminazione
tendono ad attivare tale centro. Si tratta principalmente di lavorare nel campo
delle idee, curando la moralità nell’uso delle parole e la qualità di buon fine
delle proprie risoluzioni prese. Tale centro, attivato, conferisce la capacità
di entrare in comunicazione con altri Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le
condizioni da realizzare sono otto, ciascuna equivalente ad ogni petalo
dormiente: Formarsi rappresentazioni il più fedeli possibili del mondo esterno,
prive di fantasia personale, eliminare l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività;
le parole usate in un discorso devono essere sempre rigorosamente connesse
all’argomento; ogni gesto e atto deve
essere sempre in piena coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare,
pianificare concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità
e la giustezza delle proprie aspirazioni;
imparare ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita; la giornaliera meditazione per interrogarsi
sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È
di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità
promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo
interiore. A volte non è molto
altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza.
Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’
E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità:
anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione
sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a
due rami, con il compito di portare fuori il corpo eterico. Per mezzo di tale
centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il
cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio
reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione. Bisogna suscitare un rispettoso silenzio
riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre
accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni. Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a
trasformare tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta
incoerente e non ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle
forze spirituali. IL LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la
percezione delle forme. Come gli altri,
anche questo centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni da
realizzare sono sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad ogni
petalo dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema o da
un oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente, distaccandosi
così dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di persone che
parlano in modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non intervenire
correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri deformi e
correggerli dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé. Controllo
delle azioni; uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo dato dagli
istinti, prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai movimenti, in
modo che non avvenga che le nostre azioni possano venire determinate da impulsi
inconsci non passati al vaglio cosciente del nostro pensiero. Pratica della
Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità, compiendo e portando sempre
a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi, gli esercizi o le
determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare la conoscenza dei
motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla comprensione degli errori
altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di criticare o giudicare; occorre
far nascere in sé il desiderio di voler essere utili all’altro tramite consigli
o considerazioni costruttive, non con giudizi che bloccano la sua evoluzione. Pratica
dell’obiettività o spregiudicatezza; non respingere immediatamente qualcosa che
ci venga detta, e parimenti non rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose
da noi già appianate e conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità,
equilibrio degli esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere
le normali reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina
certamente difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un
buon esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente
importante ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con
un’altro pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici
PETALI (Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri
le potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo
sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma
piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera
condotta di Vita. Occorre considerare la
totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee
spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la
coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse
risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono
alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato
tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare
interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente
impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o
simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si
immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno
dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri
spirituali. Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e
spirito. Deve sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire
immersi nello spirito: incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e
insistere nel lottare duramente contro una propria inclinazione o tendenza
molto pronunciata; se tale difetto è così preponderante, a volte lo si può solo
dominare o controllare, ma non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare
e sublimare le proprie passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni
tendenti al voler tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di
sperimentare la gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE
PARTICOLARITA’ SUL CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre
in perenne movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente,
seguendo la circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da
localizzarsi nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono
agli altri centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale
imperfezione. Esso è un organo di natura Solare. Nella zona centrale della
testa vi è un punto specialissimo in cui corpo eterico e corpo fisico sono
congiunti; qui inizialmente si formano le correnti del corpo eterico. Prima di
rendere operativo il fiore a 12 petali, nel cuore, occorre predisporre un
centro provvisorio nella testa, per rendere possibile uno sviluppo interiore
condotto in piena coscienza. Successivamente, dopo aver raggiunto un giusto
stadio di controllo cosciente delle attività di pensiero, tale centro dovrà
venir trasferito nella sua vera sede, presso il Cuore. Gli esercizi di
concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare tale centro nella
testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore l’attivazione.
RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere il
vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei esercizi
fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA VIA
INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una specie
di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere pronti per
qualche cosa. E’ relativamente facile
contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un libro, difficile però
realizzarlo con la stessa continuità, puntualità, perseveranza e coerenza nella
vita: nella vita non è come nel libro, dove un passo viene descritto uno dopo
l’altro; a seconda delle occasioni e delle situazioni individuali ogni passo
può svilupparsi prima o dopo, in modo assolutamente non conseguente.
L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA CONTINUITA’ DELLA COSCIENZA. Il corpo eterico è di
per sé, un principio spirituale: è connaturato con il tempo, è fatto di
sostanza temporale. L’uomo non ha assolutamente alcun potere di interferire o
di influenzare le forme pensiero, di sentimento, di desideri o passioni da lui
generate. Una volta emanate, queste forme non possono più venire controllate.
Durante lo sviluppo occulto, in un primo momento, il sé superiore si pone di
fronte al proprio mondo inferiore, il suo Ego. Si ha la percezione che tutto che era la
nostra natura interiore, prende forme che tendono a venirci addosso, incontro
dal di fuori. Si verifica un rovesciamento delle immagini, tipico del mondo
astrale. Il praticare esercizi in modo
non corretto, disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida
base, potrebbe causare la percezione di queste forme pensiero in forme
ossessionanti ed aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e
anche possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però
indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che
comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia
quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale).
L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2
petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali. Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue
tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello
spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà
rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri
immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva,
passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è
rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir
sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà
spirituale si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo
apparire veri fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano
nella coscienza la sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere:
costruiscono quasi la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale
esperienza. Si arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene:
il karma. A questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la
sorgente del proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più
indietro perché, compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di
quanto gli è inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di
veglia, l’uomo si trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno
ha la possibilità di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La
coscienza di sonno senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà
percettiva corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si
percepiscono come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la
sensazione di parlare a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in
noi esseri spirituali. Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio:
sono cenni del progresso spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di
aver ricevuto qualcosa, qualcosa che non si riesce a definire. Poi, i rapporti con gli esseri spirituali
assumono la caratteristica di domanda e risposta; si sente al risveglio una
voce interna donante luce e chiarezza alla propria vita interiore e alla vita
esteriore. Non è bene sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno,
ma lasciarle sorgere spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al risveglio,
questi messaggi diventeranno sempre più chiari, così da portare nella vita di
veglia tutte le esperienze della vita spirituale vissuta durante la notte: si
instaurerà la continuità fra lo stato di veglia e lo stato di sonno senza
sogni. Una volta stabilita, tale continuità di coscienza verrà portata dal
discepolo anche attraverso le porte della morte, e con essa la stessa pienezza
del ricordo nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione indispensabile per
tale realizzazione è la pratica della concentrazione, meditazione e
contemplazione. Il discepolo potrà porre delle domande in meditazione, durante
lo stato di veglia: riceverà le risposte durante il sonno senza sogni: ciò è
l’inizio di un colloquio fra esseri spirituali. Il vero scopo dell’Iniziazione
consiste nell’instaurare la continuità della coscienza. Ciò è una mèta assai
lontana, ma dirigendosi verso di essa si possono cogliere degli sprazzi di luce
che indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza. LA SEPARAZIONE DEL
PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il discepolo ad esperienze
inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione delle tre facoltà umane
è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi spirituali. Sono tre i
pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare: divenire astratti
teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e indifferenti nei confronti
dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel proprio pensare in
solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può sentirsi trasportata
in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un estremo godimento
del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del Volere: divenire
super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il mondo esteriore,
lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E L’INDIVIDUALISMO
ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in modo immediato,
istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve distaccarsi da tale
automatismo innato, predisposto in lui.
Il fatto di poter dominare le reazioni e i sentimenti conferisce a tutto
l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché le emozioni non hanno
autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si deve fondare su di una
nuova personalità morale, il quale deve conferire al discepolo la coscienza di
ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo spirituale e a ciò a cui deve
la ragione della propria esistenza. La Libertà prevede che si sia superato
l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di moralità e di equilibrio da
poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma per l’umanità.Il discepolo
diviene consapevole di dipendere dai mondi superiori, con la libera decisione
di servire la Causa degli esseri spirituali. Solo in tal modo si può parlare di
una Libertà pura e vera, che non porti danno a lui stesso e agli altri. IL
GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato pensare, sentire e volere è
possibile accedere all’esperienza del guardiano della soglia. LA SOGLIA. Il liberare
le facoltà dell’anima significa assumersi direttamente la responsabilità delle
proprie azioni. Avendo liberato il corpo eterico e il corpo astrale dagli
automatismi del pensare, sentire e volere, si avvicina l’esperienza del
guardiano della soglia: si rende obiettivamente visibile il grado a cui si è
pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano diviene un essere indipendente,
al di fuori di noi. Mentre precedentemente si era intessuti con lui, ovvero con
ciò che rappresenta cosmicamente il nostro essere, ora si presenta esteriormente
la nostra interiorità. I propri moti interiori si traducono nella figura
esteriore di questo essere. Il guardiano si presenta all’improvviso, appena i
chakras cominciano ad attivarsi: è la prima esperienza soprasensibile. Tale
esperienza, può suscitare terrore. Molti, al cospetto del guardiano, che palesa
il grado di imperfezione e purezza da noi raggiunto sinora, riconoscono la
propria inadeguatezza, la propria immaturità nel sopportarne la visione, quindi
retrocedono. Si ravvisano le proprie limitazioni: i difetti assumono un
carattere obiettivo. Solitamente questo essere si presenta per la prima volta
al risveglio, la mattina, in un momento inaspettato, tanto da suscitare
terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO. Supponiamo che un uomo con il
viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai potuto specchiarsi; quale
sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando per la prima volta vedrà
la sua deformità? Prendere coscienza della propria figura interiore è
l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo all’esterno. IL
GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il nostro karma; la sua
figura riassume il nostro passato vivente con tutte le cause di dolore e gioia.
Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare in volto il guardiano, da
quel momento ci si assume coscientemente la responsabilità di pagare i propri
debiti karmici, quasi andando incontro a questi. Ci si accorge che ogni
tentativo di evadere o di rimandare il pagamento del proprio karma, provoca un disastro
nell’ordinamento spirituale. Ogni mancanza si riflette assumendo forma
demoniaca. Occorre assolutamente a cagion di ciò, quali discepoli, superare il
sentimento della paura. Il coraggio di
affrontare il guardiano è contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio
destino nelle proprie mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può
causare dolore, rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che
offre minore resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di
più difficile e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano
muterà di forma in modo direttamente proporzionale al nostro adempimento
karmico, sino ad assumere figure luminosissime nella misura in cui ci saremo
purificati. Fino al momento dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e
quanti pesi portiamo nel nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi
di prima, dopo aver visto la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più
possibile ingannare sé stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio
karma, non si può dire di essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida
delle Potenze del karma per prendere noi stessi la responsabile guida di tale
compito, solo allora si comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora
le forze del Cristo si sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI
CONFRONTI DELLE GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito
di popolo nel quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi
animici che condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente
spirituale, nel quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo.
Il riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo
che ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a
scorgere nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere
appieno la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi
a quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini
inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di
conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se
vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende
qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale
nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato
durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e
dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del
mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di
Adonai a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza
risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti
dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione
dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo
nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire:
offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente
proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA.
Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le
regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra
veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare,
sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa
stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La
vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in
coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande
tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato
dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non
detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura. L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale
seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel
mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento
egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa
da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato
partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti
gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali
porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha
compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo. Breno. Kur. Giardino
di Maturità, chiamano certi antichi saggi il luogo, in cui pone
piede l'uomo allorchè gli divengon palesi gli arcani del mondo. Secondo
quei saggi in quel giardino non ci sarebbe fiore, che non recasse il suo
frutto, non uovo, che non portasse .a maturità la vita in esso
germinante. Ma come oscure e- pericolose vengono al tempo stesso
descritte le vie che menano alla = Porta Stretta , la quale appunto
chiude quel giardino. Si assicura, però, che quell'oscurità diviene più chiara del
sole e che quei pericoli non hanno potere contro le forze di cui
ferve l'anima di colui, al quale queste vie sono mostrate con provvida
mano da un mistico da un niziato. Tutto ciò come puerile concezione di un'
epoca, in cui nulla si sapeva delle scienze dei giorni nostri, viene
ripudiato dall’ i/luminato, che crede di saper distinguere fra i
vaneggiamenti di una fantasia brancolante e le ponderate vedute
d'un intelletto scier- i So ca |
oggi tificamente disciplinato E chi, ciò nonostante, parla oggi di
coteste concezioni, può Al star certo di vedere sul volto di molti
dei È, suoi contemporanei un sorriso, se. non di di : ll sprezzo,
per lo meno di compassione. Ta Eppure, anche oggi, ciò malgrado, ci
sono I alcuni che, come quegli antichi saggi, parMAS lano del rondo dell'anima, e della paN Cuina 7a dello spirito . Costoro vengono
riputati | fe AMA ì È 3 | persone che parlano di un mondo immagifa
nario, figurato loro soltanto dalla propria Sbrigliata fantasia. Si
deplora perfino che essi, LA in mezzo a un mondo che ha raggiunto i
tanto grandiosi risultati, grazie alla pura e i, now austera logica,
vadano brancolando come ebbranco ‘@& bri, cui ad ogni momento viene meno
la li sicurezza, perchè non si attengono a ciò È che esiste positivamente,,.Ora, che cosa dicono questi
edbri stessi i a codesti contradittori ? Quando si sentono f
arrivati all'alto punto, in cui è loro conferito il diritto di parlare di
sè, allora dalle loro È labbra si odono uscire le parole seguenti. È Noi comprendiamo benissimo voi, ‘che
dovete essere i nostri oppositori. Sappiamo che molti di voi sono persone
da bene, che senza riserva si pongono al servizio del Vero e del
Buono; ma sappiamo altresì che Bee a), jr er => voi non ci potete
capire, fin tanto che pensate come appunto pensate. Sulle cose, delle
quali noi abbiamo da ragionare, potremo diiscorrere con voî, soltanto quando vi
sarete presi voi stessi la pena di apprendere il linguaggio nostro. Dopo
questa nostra dichiarazione molti di voi, certo, non vorranno più oltre
occuparsi di noi, perchè crederanno di aver riconosciuto che al
farneticamento della nostra fantasia si accoppia in noi anche un
immedicabile orgoglio. Noi però comprendiamo voi anche in siffatta
affermazione e sappiamo al tempo stesso che dobbiamo essere non già
superbi, ma modesti. Per incitarvi a tentare di entrare nel nostro ordine
di idee non ci resta che una cosa da dire: Credeteci, noi non
riconosciamo un vero diritto di parlare delle nostre conoscenze se non a colui,
il quale sia capace di sentire con voi ciò che vi costringe alle vostre
asserzioni, e che conosca a fondo la forza, la potenza convincente e la
portata della vostra scienza. Colui che non reca in sè la sicura consapevolezza
di poter pensare ponderatamente, scientifica mente, come l’
astronomo o il botanico 0 lo zoologo più obbiettivo, costui in fatto
di vita spirituale, di conoscenze mistiche do9 e =
e Re vrebbe contentarsi di apprendere, e non già volere
insegnare. Ma non ci si frain‘tenda: noi parliamo soltanto di
insegnanti, non di studiosi, Studioso di misticismo può: divenire
chiunque, giacchè nell’ anima di ogni persona si trovano le
facoltà, i poteri presaghi, che si schiudono al ‘Vero. Il Mistico
dovrebbe parlare in modo comprensibile, anche pei più indotti; e a coloro,
ai quali, secondo il grado del loro intendimento, egli non potrebbe
dire un centesimo della verità, ne dirà ‘solo un millesimo. Costoro
oggi riconoscono questa millesima parte ; domani riconosceranno la
centesima. Tutti possono essere
sfudiosi,, ma insegnante,,
non dovrebbe voler diventare nessuno, che sia incapace di assoggettarsi
alla disciplina del più austero intelletto e della scienza' più
severa. Sono veri insegnanti di misticismo soltanto coloro che sono stati
precedentemente rigidi cultori della scienza, e che sanno perciò che cosa
viga nella scienza. Anche il vero mistico ritiene visionario,
inebriato, chiunque non sia capace di deporre in qualunque momento il
solenne paludamento del mistico per indossare la modesta tunica del
fisico, del chimico, del botanico e dello zoologo , sitori ;'
con la massima modestia li assicura ‘che intende il loro linguaggio e che
non si arrogherebbe il diritto di essere un mistico, se si sapesse
ignaro del loro linguaggio. Allora, però, egli può anche aggiungere di saf
|pere, e di saperlo come si sanno i fatti della Ù vita esteriore, che,
qualora i suoi Opposi® \tori imparassero il suo linguaggio, cesserebbero di
essere suoi oppositori. Egli sa que sto come chiunque, il quale abbia
studiato chimica, sa che, date certe condizioni, dall'ossigeno e dall'
idrogeno si forma l' acqua. Che Platone non volesse ammettere ai
gradi superiori della sapienza nessuno che > mon
conoscesse la geometria, non significa già che egli facesse suoi alunni
soltanto i li Y T Così parla il vero mistico ai suoi oppoA
9 U L dotti in geometria, ma significa che quei
suoi alunni dovevano essersi educati alla severa, rigida, ed esatta
investigazione, prima che venissero loro schiusi gli arcani della
vita spirituale. Una tale esigenza ci appari sce nella sua giusta luce se
‘riflettiamo che nelle regioni trascendentali viene meno l'elemento di fatto,
a cui si saggia e corregge ad ogni piè sospinto l' investigazione ordinaria
del mondo. Se il botanico si forma concetti erronei, subito i suoi sensi
lo illu n conci Da (UR IZA minano circa il
suo errore. Tra lui e il mistico corre il rapporto stesso che intercede
fra chi cammina su strada piana e chi ascende una montagna: il primo può
cadere a terra, ma solo in casi eccezionali potrà causarsi la morte
; all’ altro, invece, questo pericolo sta sempre dinanzi, E certamente
nessuno che non abbia imparato a camminare può ascendere una
montagna. Poichè ; fatti spirituali non correggono i concetti allo stesso
modo che li correggono i fatti del mondo esteriore, un pensare
rigorosissimo e degno della massima attendibilità è un ovvio presupposto
per l'investigatore mistico. Quando ci si dà tutti a pensieri
siffatti, si riconosce che cosa intendevano dire quegli antichi saggi,
allorchè parlavano dei pericoli che minacciano chi voglia penetrare negli
arcani del mondo. Se alcuno si appressa a questi arcani con mente
indisciplinata, essi determinano nella sua anima deplorevoli disordini.
Divengono pericolosi come una bomba di dinamite nelle mani di un
fanciullo. Perciò da ogni investigatore mistico si esige rigorosamente che la
normalità del suo pensare, di tutta, anzi, la sua vita psichica, abbia saggiato
le proprie forze SE E attorno a problemi gravi e spinosi,
prima che egli si appressi ai compiti più elevati. Valga ciò come
accenno a quel che il mistico intenda dire, quando parla dei primi gradi
della Iniziazione nelle verità superiori. Moltissimi, i quali reputano di
starsi SUI Mrfica| più alti gradi della cultura moderna, stimano che sano
pensare e misticismo siano due termini incolta sano che una
illuminata educazione scientifica debba estirpare dall'individuo qualunque
| tendenza mistica. E costoro trovano in par- b cora di tali
tendenze chi conosca gli impor tantissimi risultati della moderna scienza
na| turale. Se avesse ragione chi la pensa così, | si dovrebbe allora,
certo, concedere che la Mistica non abbia nel nostro tempo se non |
piccola probabilità di trovare accesso alle anime dei nostri
contemporanei; giacchè nessuno, il quale abbia intendimento dei bisogni
spirituali di questa nostra età, può dubitare che siano pienamente giustificati
i trionfi della scienza naturale già conseguiti. e ancora da
conseguire in avvenire. Biso- vi MER Na bilmefite antitetici.
Essi pen- K pate ticolar modo incomprensibile che abbia an)
"fi LI Peli so Naturalistici
itreprimibili do u + Con una certa tr ‘ zione cotesti
insoddisfatti <j O Opère dei mistici, e ]} trovand ciò, I cui
le oro anime han Sete: ]ì gj affaccia loro ino Copiosa vena IÒ, di
cui il loro Cuore ha bj. Sogno: una effettiva aura di vita Spirituale!
Si In contatto con e Sa costoro sentono | Propria Crescere; ivi tr
aNo ciò che ] uomo | eve incessanternente ce vino! D’
rcare: l’ali Ta parte, Però, essi sj Petere ;l ito
diate a monito: Bj ‘formarvi,
mediante Ja cie rale, un pen | non vj chiappanuvole vai
monito, l’anima loro sj inaridisce, econdita, . tò, in fondo all’
an ogni individuo Verità, e i che grande maestra dell’uomo è
la ] mande AIR Chi potrebbe non
dare, per intimo consenso, ragione al Goethe, allorchè dice che
dagli errori e dalle disarmonie degli uomini egli si ritira sempre
con rinnovato contento, rivolgendosi alle eterne necessità della natura? E chi
potrebbe leggere senza incondizionato consenso quelle parole, con le quali il
grande poeta descrive i sentimenti che lo assalirono in una
solitaria meditazione sulle ferree leggi, secondo le quali la natura
forma le montagne? Seduto su di un’ alta e nuda vetta,
e spaziando con l'occhio su di una vasta sottostante regione, io posso
dirmi: qui tu poggi immediatamente
su di un suolo, che ‘arriva fin giù ai più profondi strati
della terra. In_questo istante, in cui le eterne forze di
attrazione e di movimento della terra quasi direttamente agiscono
su di me, in cui più presso a me aliano e mi avvolgono gli
influssi del cielo, vengo come sospinto a drizzare l'animo mio a studi
più alti sulla natura.... Così, dico fra me e me, mentre da questa
cima nuda volgo lo sguardo in giù, così sentesi solitario chi voglia
schiudere l'anima propria unicamente ai più primordiali, più antichi e più
profondi sentimenti del vero. Sì, egli può dire a se stesso: SONG).
pe Qui, sull'antichissimo ed eterno altare, immediatamente eretto
sul punto più basso della creazione, offro sacrifizio all'Essere di
tutti gli esseri. E' pur naturale che questa disposizione d'animo, per
cui si resta reverenti dinanzi alla grande istruttrice Natura, si
trasferisca sulla scienza ‘che ne discorre. Non deve esistere
antinomia fra i sentimenti che pervadono l'anima, quando essa si
approssima alle austere e
profondissime verità primordiali, circa la vita spirituale, e
quelli che v'irrompono, quando l'occhio si posa sull'attività
costruttrice della natura. Manca forse intelletto al mistico per
cotesta armonia della natura coi sentimenti più sacri all'anima umana?
Tutt'altro; giacchè al di sopra dell’altare, sul quale il vero mistico
offre i suoi sacrifizi, in ogni epoca, in cui può spingersi l'indagine
umana, stette scritto a lettere di fuoco fiammante, come legge.
suprema: Natura è la grande guida al divino, e la conscia ricerca umana
delle fonti del Vero deve seguire le orme della sua recondita,
volontà. Se i Mistici seguono questa loro norma suprema, nessuna antitesi
dovrebbe sussistere fra le vie loro e quelle su cui camminano gli investigatori
della Natura. E tanto meno tale antitesi dovrebbe determinarsi
in un'epoca, che tanto deve alla scienza naturale. Per
intendere bene quest’ ordine di de occorre domandarci: In che, dune ue consistere l’ accordo
fra la Scienza*fi Lie e il Misticismo ? E in che potrebbe, invece,
aversi un'antitesi? Ebbene, l'accordo non può venir cercato | se non nel
fatto che le rappresentazioni che ci facciamo intorno alla entità
dell’ uomo ‘non siano estranee a quelle che abbiamo in| torno agli altri
esseri della natura; nel ravvisare, quindi, nel ’opera della natura e nella
vita dell'uomo uno stesso e unico tipo di
ordine retto da leggi,. L Un'antitesi, invece, si avrebbe, se si
volesse vedere nell’uomo un essere di specie "completamente diversa
dalle creature naturali. Coloro che vogliono un' antitesi in tal senso si
sbigottirono fortemente quando, più di 40 anni fa, il grande scienziato
Huxley, informandosi allo spirito stesso della scienza naturale moderna,
sulla base della somipigliante struttura anatomica, concluse la stretta
parentela fra l’uomo e gli animali supeori con queste parole: Possiamo prendere in esame un sistema di
organi qualsiasi; l'esame comparativo di essi nella serie delle scimie ci
conduce sempre a questo me- È desimo risultato: che le diversità
anatomiche, per le quali l’uomo è distinto dal gorilla e dallo scimpanzè, non
sono tanto grandi quanto quelle che separano il gorilla dalle altre
scimie inferiori. Una. tale asserzione può, però, sbigottire solamente
quando la si riferisca in modo errato all’ essezza dell'uomo. Certo ne
può. facilmente rampollare il pensiero:
Ma come è vicino, dunque, l’uomo alle bestie |, Questa stretta
affinità non suscita però nel mistico nessuna preoccupazione, giacchè per
lui ne balza subito anche l' altro pensiero: | A quali fini superiori,
però, possono ser\vire gli organi che ritrovansi nelle bestie, allorchè
sono trasformati in organi umani! Il mistico sa che l'occulta volontà della natura
muta la percezione animale in percezione umana cofì lo sviluppare in altra
forma gli-organi animali. Egli segue le sicure orme della natura e
ne continua l'operato. Per lui i l'opera della natura non è punto
terminata con ciò che essa gli ha donato. Egli diviene un fido
discepolo della natura per il fatto appunto di portarne l’opera a
maggiore al 1 toi tezza. La natura lo ha portato fino
al pensare e al sentire umano; egli, però, non prende questo pensare e
questo sentire come qualcosa di fissato, d'immobile; ma li rende
capaci di attività superiori. Avviene per opera della sua volontà ciò,
che nell'ambiente naturale esteriore avviene indipendentemente da essa.
Gli occhi, come sono ora in lui, attestano che gli organi visivi sono
capaci di ben altro ufficio di quello che compiono ® © nelle
scimie. Così l’ occhio può venir trastormato. Le facoltà psichiche del
mistico evoluto sono, rispetto a quelle dell’ uomo non evoluto,
nello stesso rapporto in cui sono gli occhi umani rispetto a quelli
delle scimie. Si capisce che chi non è mistico.in- pelende tende
l’anima del_ mistico nella stessa scarsa 64 liel misura, in cui l’animale
può intendere il, mote pensare dell’uomo. E come alla creatura non
pensante si schiuderebbe tutto un nuovo mondo, se potesse svolgere in sè
la facoltà del pensare, così il mistico, dopo lo sviluppo delle sue
facoltà superiori acquista la visione di un altro mondo. In questo altro mondo,, egli è iniziato,. Chi_non di- Re Yiene Mistico
rinnega la natura. Ègli non È a progredire ciò che essa ha prodotto
senza di lui con la propria volontà occulta. Per di mati
Vella lastare Mor pTa ene dPR ULOPY CELL. PI | Peg) AM e? lug las }
"El n fe fest NL Los ; mid : ni gd ed deli è y villa mM ni
collo i fiat 1a CA di (ANI it pece iò egli si pone in contrasto con
la natura, giacchè questa trasmuta continuamente le
proprie forme: dal vecchio essa crea eterna mente il nuovo. Ora,
chi, conformemente %@. alla moderna scienza naturale, crede a
que sta trasmutazione, crede a questa evoluzione n) e, ciò
nonostante, non vuole trasmutare se esso, costui riconosce, sì, la
natura, ma A; nella sua propria vita si pone in
contradi &l-zione con essa. Non si deve soltanto ricenoscere
l'evoluzione, si seno ivato Non si limitino, dunque, le facoltà
della nostra vita ;, col tener conto esclusivamente della
nostra ‘ parentela con gli altri esseri. A chi per edu cazione
mistica diviene un fido alunno della natura, si schiude il senso
per la superiore evoluzione. A proposito di questi cenni
sulla Mistica e sulla /riziazione molti diranno: Ma che
ci giova questo discorrere di facoltà a noi sconosciute!
Dateci queste facoltà, e vi cre deremo !,. Nessuno, però, può dare a
un altro cosa che questi rifiuti. E il più delle volte
ciò che incontrano i nostri mistici è . un brusco rifiuto. Al
presente essi non pos sono fare. molto .di più che raccontare le
loro cognizioni mistiche a quelli che vo gliono prestare ascolto.
Ciò, naturalmente n nt x IE RAIPAT cn potima tl C j Pa ENTI OT le ero Art 1 er?
che, I,, a . = ì \ wr / a) i e. e 7 pederntdt
hern ci tCAns4- 1 È à a tutta prima un volersela cavare col
RE ce raccontare che cosa c'è in America a chi ci dicesse: Ajutatemi ad andarci!,,. Ma pare, non è
realmente una scappatoja, perchè i processi dello spirito sono
diversi da. quelli fisici Molto tempo prima che l'uomo sia in grado
di fissare la verità im piena luce, egli ha la possibilità di
intravederla, e di accoglierla nel suo sentimento. E questo sentimento
stesso è una forza, che lo può condurre più avanti. E' questa una
fase per cui è necessario passare Chi segue con ricettivo abbandono la
narrazione del Mistico, già calca il sentiero che mena alle
verità superiori. Solo l' Iniziatof'comprende completamente l’Iniziato:
ma angie per vero rende anche il non iniZiato ricettivo alle parole
del Mistico. E questa sua ricettività è strumento con. cui egli lavora a
schiudere i propri organi mistici. Ciò che prima-, mente occorre è che si
abbia questo senso | della possibilità di conoscenze superiori: al-
| lorà not si passa più incurantemente accanto alle persone che di queste
conoscenze superiori tengono parola. E' stato già detto che
anche al presente ci sono persone che si adoperano a rinnovare la vita
mistica. Up irene Kona diteou@ crt u pe ud)
fasi cl fa ine piftae 1 Om? eudere } fnmmale tri
rautwews i E Qui vi voglio intrattenere di due esempi
di tal genere, cioè del libro //
Cristianesimo esoterico, (o i Misteri minori),,, di Annie Besant, (1), e
su / grandi Iniziati el
geniale pensatore e poeta francese Edoardo Schuré (2). Ambedue queste
opere gettano luce sulla natura della così detta Iniziazione. Annie
Besant, mostra come il Cristianesimo debba venire compreso quale
risultato di codesta Iniziazione. Edoardo Schuré tratteggia le figure dei
massimi duci spirituali della umanità, fondandosi sulla convinzione
che le grandi confessioni religiose e le grandi filosofie
cosmologiche da quei duci dispen sate all'umanità, celano verità eferne,
che si possono cercare e re soltanto in quelle dottrine filosofiche
e religiose. Ambedue queste opere trovano la propria giustificazione
unicamente nel campo del Misticismo. Esse traggono la loro origine da
quella corrente spirituale dei tempi nostri, che è destinata ad elevare
l'umanità da un incivilimento puramente esteriore all'altezza
Traduzione Italiana di D. e O. Calvari, Roma. Traduzione Italiana edita da G.
Laterza, Bari, suh Tor ella Vea dii Conti | RA fOdeth4,
nu pori? IU) di vedute spirituali. Verrà tempo, in cui il pensiero
scientifico,, non potrà più contrapporsi _ostilmente a questa corrente.
La scienza naturale riconoscerà allora che non si comprendé lo spirito
col.negarlo, e che | non si contr lle leogi naturali col_cerre Treo © x
iii dpi uelle spirituali. Non si designeranno iù i Mistici come
oscurantisti, giacchè si saprà che soltanto pei loro avversari il
campo di cui essi ragionano è oscuro. E non s'irriderà più l'
Iniziazione, come i non si irride l'esigenza, che chi vuole inda- pla
2 gare la vita dei microrganismi deve prima 4, tyoex94
imparare a userei. microscopio. | "I vv trvalta L'indagine
implica la necessità di adem- ' 3 piere a certe condizioni
preliminari. Queste P** ic; condizioni per l'aspirante mistico non
consistono, naturalmente, in pratiche di tecni- | cismo esteriore, bensì
na osservanza di un determinato orientamento della..vita si- È ‘
chica. Grazie a tale A si dischiude Tide il senso per certe verità, le
quali non contemplano ciò che è FARA, ma ciò, di, A cui, secondo le
parole de Goethe ib.tran-\ itori v
Bi n_simbolo . In_s sid | oe alla esistenza umana giacciono capacità,su-
| CRA i GIONO CA \periori, come il frutto giace.in grembo al
fiore. E perciò nessuna creatura dovrebbe TI YOMOMono wu € 0kL Lia
UT E E I ipa ln Leno el muyert Sace caprata farvi vtuel' fa P
even ord LISI (NE presumere di dire che nel suo mondo vi i è qualche cosa di
esauriente, di compiuto . Il Se un uonio ha tanta presunzione, assomii
glia al verme che ritiene_come orizzonte i | della esistenza il mondo dei
suoi sensi. Li Giardino di maturità Chiamasi quel IR luogo, dove
divengono palesi gli arcani del mondo. Per accedere a tal luogo
bisogna tI che l’individuo stesso. tenda la sua volontà AU x al
raggiungimento della propria maturità. Ù" qultan Vé Bisogna che tu
rompa e getti via da te È, È quse: Vle 1 gusci del tuo essere quotidiano,
e svegli | see $ ÎN te la vita intima nascosta, se vuoi enn
trare per la Porta stretta Nel Giardino È di maturità,. TAR Come
molti uomini insigni, anche il p Goethe espresse numerose verità dalla
profonda vena del suo intuito, enunciandole non già in diffusi e
circostanziati discorsi, bensì in brevi e spesso enigmatici
accenni. sr Uno di tali accenni è in questo periodo: dg Nelle opere dell’ uomo, come in quelle
n e della Natura, sono le intenzioni, che meri / tano specialmente la
nostra attenzione. E' questo un aforisma che verrà compreso in
tutta Ia sua profondità quando lo Î si applichi ai più importanti
fenomeni della vita spirituale umana. Giacchè, come possiamo acquistarci
senso e comprensione per le azioni di un singolo individuo soltanto
quando ne veniamo a conoscere le_intenzioni, così ci accade anche per la storia
dell'intiero genere umano. Ma che abisso intercede fra l' osservazione degli
atti che si svolgono palesemente alla luce del giorno, e il
riconoscimento delle intenzioni che giacciono nelle regioni occulte dell'anima!
Si può essere addirittura rudimentali quanto a intuito e a
intendimento rispetto ‘a un altro uomo, ed essere tuttavia capaci di
osser varne le azioni; ma bisognerà avere almeno un po' delle sue
qualità di spirito e della sua levatura psichica, se si vuole penetrarne
le intenzioni. Senza di ciò la sorgente del suo ! agire rimane
un arcano, un enigma, alla cui soluzione ci manca la chiave, Non
accade diversamente con i grandi fatti della storia spirituale
dell'umanità. Questi fatti stessi son lì aperti davanti agli occhi dello
storico; ma le intenzioni giacciono in profondità molto recondite.
In queste profondità deve penefrare colui, che vuol procurarsi la chiave
per la comprensione. Orbene, l'iptenzione di un’azione giacerà tanto più
profondamente recondita, quanto più questa azione avrà importanza e quanto più
ampia sarà la sua portata. L'intenzione di un atto della vita
quotidiana non è difficile a penetratsi. Ma non può essere così,
naturalmente, di azioni, la cui portata abbraccia una serie di
secoli. Chi a ciò pon mente giunge a presentire che cosa siano i
Misteri: giacchè in cotesti Misteri sono riposte le irzfezzioni dei
grandi fatti dell’ umana evoluzione, involgenti il mondo intero
nella loro portata. E coloro che conoscono queste intenzioni e posseno
con ciò conferire alle proprie azioni stesse \ quel peso che le rende
realmente efficaci per lunga serie di secoli, sono gli /niziati.
Solo chi nella storia del mondo scorge unicamente una mèra successione di
casi fortuiti, può negare l'esistenza dei Misteri e degli Iniziati.
In tal caso non c'è che da attendere che un uomo siffatto si ponga
un bel giorno a studiare con occhio amorevole i fatti della storia.
Allora un po’ per volta albeggerà al suo sguardo un significato, un
nesso, ed egli finirà per non più considerare Tortuiti quei fatti storici, come
non considera automa un individuo che veda muoversi ed agire. Giungerà così
nella sua investigazione là, donde gli Iniziati dirigono il progresso
umano, secondo le conoscenze the sono avvolte nell'ombra dei
Misteri. AA vila AATZzat fer, i 40 dad x x £ > it hu
v da ORI ig tivfeco Vellar11W; 7 Di cotesti Misteri parlano i testi
religiosi di tutti i tempi. E ad essi vengono condotti coloro, che
non si fermano alla vita estrinseca dei fondatori delle varie religioni,
nè alle vicende storiche del propagamento delle loro dottrine; ma
che, invece, cercano di elevarsi alle intenzioni di quei fondatori di
| religioni. Non dovrebbe eccitare stupore il fatto che queste
intenzioni rimangano avvolte in arcana oscurità e vengano comunicate soltanto a
degli eletti entro le scuole di sapienza, che sono appunto i
Misteri; giacchè si fa opera saggia solo quando a un individuo si
comunica ciò che egli può capire, o, con altre parole, quando gli
si comunica qualcosa, soltanto quando egli si sia messo in
condizione di capirla. Per compiere azioni che abbiano peso e valore occorre
possedere un’alta sapienza, e per appropriarsi un'alta sapienza bisogna
passare per un periodo lungo e arduo di preparazione. Così avviene nei
Misteri. L’ evoluzione spirituale dell'umanità procede innanzi per
opera delle varie religioni e cosmologie. Chi co-opera a questa
evoluzione mette in movimento le forze spirituali degli uomini. Bisogna
che egli conosca le leggi da cui dipende questo movimento, DE:
pri come deve conoscere le leggi della chimica chi
vuol mescolare le sostanze con effettuale risultato. Néi Misteri vengono
insegnate le . leggi supreme della vita spirituale; viene insegnata la
chimica dell'anima. E bisogna cercare di penetrare nella natura di
queste leggi, se si vogliono sorprendere, o anche solo
presentire, i moventi che stanno alla i A base delle azioni dei grandi
Istruttori della umanità. All'unisono con tutti coloro che
cercano di schiudersi per tale visione gli occhi spi rituali,
Annie Besant parla nel suo libro Cristianesimo esoterico, (0 I
Misteri mino ré) , di un lato
occulto delle religioni, A lea Nell’analisi dei mistici arcani del
Cristiane 1% simo, del così detto suo contenuto esoterico, ne. essa
luminosamente si addentra e trascina. d il lettore nell'intimo
della questione relativa sperato! scopo delle religioni. ‘a questo pro-
| Posito l'autrice così scrive. Esse ven gono date al mondo da
uomini più saggi delle masse etniche, alle quali le
religioni Stesse sono dispensate e hanno appunto lo Vedi pure
Il Cristianesimo come fattore mistico di
Rudolf Steiner. (Deposito presso l'Ed. Bem- 7 porad, Firenze). Lolo
scrullo du fevomeri sia Pe i Dul th h Ha DI ire eSleeml
J > Uibftsore Sé Lap
de scopo di accelerare l'evoluzione dell'umanità. Per
conseguire ciò effettivamente esse deb- di bono giungere fino agli
individui e avere influenza su loro. Orbene, gli uomini non sono î tutti
allo stesso livello di evoluzione, anzi i l'evoluzione potrebbe venire
rappresentata come una scala ascendente di gradi, su ognuno asLelo
api dei quali si trovano uomini. I massimamente evoluti
stanno di un gran tratto più su dei meno evoluti, sia in intelligenza che
in ca- A rattere; ad ogni grado varia la capacità di 4 ..
comprendere egualmente che quella di agire. } E' perciò vano dare a tutti
ii medesimo in- FE segnamento religioso; quel che gioverebbe
all'uomo d'intelletto resterebbe inintelligibil all'uomo ottuso, laddove
ciò che leverebbe e in estasi il santo lascerebbe del tutto indif-
Ì ferente il delinquente...2 LE La religione deve essere graduata
con l’e- = voluzione, altrimenti essa manca al suc scopo SI UGANB:
Es. Chr.): ; Il modo, dunque, in cui il maestro di religione parla a uomini
di grado evolutivo i . diverso, dipende dai bisogni dello spirito e (1 .
del cuore di coloro, ai quali egli vuol giun- N | gere. Per riuscirvi
bisogna che egli stesso | porti nell'anima propria il nocciolo della sa-
"i | pienza, per mezzo della quale egli ha da
START. agire; e il modo come egli porta in sè questo nocciolo deve essere
tale da renderlo capace di parlare ad ognuno secondo la sua
comprensione. Perciò chi studia i discorsi degli Istruttori religiosi dal
loro lato esteriore, conosce soltanto un lato e precisamente quello più
estrinseco della loro sapienza. Acutamente accenna a questi fatti Edoardo
Schuré nel suo libro sui Grandi
Iniziati,. Ivi egli descrive i grandi Maestri di sapienza: Rama, Krishna,
Ermete, Mosè, Orfeo, Pitagora, Platone, Gesù, da quello
investigatore intuitivo, da quel nobile artista dei pensiero, da
quell'anima satura di profondo sentimento religioso ch’ egli è. Così
nell'introduzione al libro egli espone il suo. modo di vedere
: Tutte le grandi religioni hanno una storia esteriore ed una interiore;
l'una visibile, l'altra nascosta. Per istoria esteriore sono da
intendersi i dogmi et i miti pubblicamente © insegnati nei fémpli e nelle
scuole, riconosciuti nei culti e nelle superstizioni popolari. Per
istoria interiore è da intendersi la scienza profonda, la dottrina
segreta, l’occulto agire dei grandi Iniziati, profeti o riformatori
che hanno istituite, sorrette e propagate le religioni predette. La prima
la storia ufficiale, quella che si legge dovunque, si svolge alla vista
di tutti, ma non per questo è meno oscura, complicata, contradittoria. La
se‘conda, che io chiamo la tradizione esote- |, rica, o dottrina dei
misteri, è difficilissima € Î a districare dai veli che l’avvolgono. Essa
infatti si svolge nei penetrali dei templi, nelle segrete confraternite,
e i suoi drammi più appassionanti hanno intieramente per iscena
l’anima dei grandi profeti, che non hanno mai nè fissato in pergamena, nè
confidato ‘a nessun discepolo le proprie crisi più acute, o le
proprie estasi più paradisiache. Questa seconda storia vuole essere
indovinata, ma non appena si è scorta, apparisce luminosa,
organica, sempre in armonia con se stessa. Potrebbe essere anche chiamata
la storia della religione eterna e universale. In essa le cose
mostrano il loro rovescio e la coscienza umana il suo diritto, mentre la storia
non ne offre che il faticoso rovescio. In SD questa seconda storia
cogliamo il punto ge-N netico della religione e della filosofia, che si
ricongiungono all’ altro capo dell' ellisse 9/8, per mezzo della Scienza
integrale. Cotesto \T} unto è costituito dalle verità trascendenti.
N vi troviamo la causa, l'origine e il fine del tene prodigioso
lavoro dei secoli, l'azione della RES 1; RARO provvidenza
mediante i suoi agenti terrestri.,, Questi messaggeri terreni, lavorano
nell'officina Spiritualistica, nel laboratorio spiritualistico della umanità.
Ciò che li abilita a questo lavoro sono le leggi imperiture della
chimica spirituale ed i processi chimici spirituali che esse operano: vale a
dire i grandi prodotti intellettuali e morali della storia del
mondo. Ma ciò che fluisce dalle loro labbra è soltanto simbolo, immagine
della sapienza superiore dimorante nella profondità delle loro
anime, immagini e simboli proporzionati all'intendimento di coloro, che ad
essi porgono orecchio. Soltanto a coloro che adempiono alle
condizioni, che garantiscono la comprensione e il reffo uso
della sapienza superiore, questa può venire dischiusa. E allora.
nella Iniziazione mistica sentono l'immediato contatto coi primordiali
motivi spirituali, con le potenze genitrici della esistenza. Ascoltisi
ciò che dice un uomo tutto compenetrato di siffatti sentimenti: Clemente
Alessandrino, lo scrittore cristiano del 2° e 3° secolo della nostra èra,
il quale prima del suo battesimo fu un
Misto,, ossia A EE un alunno dei Misteri, esalta
questi con le seguenti parole : O veramente santi Misteri! O
purissima luce! Una face viene portata dinnanzi a me allorquando rimiro
il Cielo e Dio; io sono santificato, allorchè ricevo la consacrazione.
Gli arcani però me li rivela lo spirito primordiale e suggella in me
l’Iniziato con l'illuminazione; iniziato nella Fede mi presenta al
Tutt'Uno, affinchè io vega ser= bato in grembo all’eternità. Tali sono le
cerimonie iniziatiche dei miei Misteri! Se tu vuoi, fatti iniziare tu
pure, e con le forze spirituali dell'esistenza tu chiuderai la
santa carola attorno all’ increato, all'imperituro, al tutt'uno
spirito dei mondi, e la favella che a te dal Cosmo viene inspirata
intonerà gl'inni di lode a questo Tutt'Uno,.. Si comprende la
descrizione che fa Annie Besant dei Misteri, se si riflette che gli
Iniziati devono parlare di sè come lo fa Clemente Alessandrino con le parole
suriferite: I Misteri d'Egitto, continua l’autrice, erano il vanto
di quella vetusta contrada e i più nobili figli della Grecia, come ad
esempio | Platone, andavano a Sais e a Tebe per farsi | iniziare
nei Misteri dai maestri della sapienza | iniziatica egizia. I Misteri
Mithriaci dei Per. IDO. JIA siani, i Misteri Orfici e quelli
Bacchici, e i posteriori pseudomisteri di Eleusi in Grecia, i Misteri di
Samotracia, della Scizia, della Caldea, sono universalmente noti, almeno
di nome, come le parole d'uso familiare. Persino nella forma estremamente
attenuata dei Misteri eleusini il loro valore viene altamente magnificato
dai più eminenti uomini della Grecia, come Pindaro,
Sofocle, Isocrate, Platone e Plutarco. E nei Misteri non si mira soltanto
all’ ampliamento del sapere, alla sola spiegazione di cose
ignorate, ma alla elevazione di tutta la natura umana, di modo ch’ essa si
compenetri di quella sacra disposizione iniziatica, che pone in grado di
comprendere le fonti e principi del Cosmo. Il mistico non solo
conosce le cose superiori, ina oltre a ciò la sua propria natura si fonde
con esse. Egli deve quindi essere preparato al fine di potere accogliere
come si deve le fonti di ogni vita che in lui affluiscono. Appunto nel
nostro tempo, in cui si vuol riconoscere come attendibile soltanto ciò
che è scientifico in senso materiale, diviene difficile il credere
che, circa le cose supreme, quello, che imV. Esot. Chr., a porta
veramente è una disposizione d° animo. Per tal modo si fa della
cognizione un fatto intimo dell'anima umana: e tale essa è per il
Mistico. Si dica a qualcuno la soluzione di tutti gli enigmi del
mondo: Il Mistico troverà sempre che una siffatta esposizione è
vuota risonanza, che sfiora l'orecchio e svanisce, se |’ anima non. è
stata prima preparata ed innalzata ad un livello superiore; egli
troverà che il sentimento non ne resta affatto toccato, se non è staîc
disposto a sentire l'accoglimenio della sapienza come un Sacramento,. Solo chi intende ciò
conosce atmosfera spirituale dal’ alto della quale discendono certe
espressioni del Mistico, come quelle di Filone: Sovente, allorchè mi_riscuoto dal
sopore della corpo-4% reità e rientro in me, distogliendomi dal
mondo esteriore, e penetro dentro me stesso, . scorgo una mirabile
bellezza ; allora io sono certo di essermi internato nella parte migliore
di me; metto in attività la vita vera, sono unito col divino e in lui
fondato, e conseguo la forza di trasferirmi nel mondo
trascendentale. Quando, poi, da codesta contemplazione dell’ Altissimo, e dopo
questo riposo nell’ elemento spirituale del mondo, discendo
nuovamente alla consueta formazione di pensieri, allora mi domando come
potè avvenire che l’ anima mia si impigliasse nel vivere quotidiano,
posto che la sua patria è pur quella dove testè mi sono soffermato ! Chi sa
quale grado di purificazione del sentimento e della funzione intellettiva
sia necessario per arrivare a sentire così conosce anche le ragioni per
cui la sapienza mistica, la sapienza consacrata non può essere
oggetto della vita consueta quotidiana, nè dell’ insegnamento
ordinario, nè dei documenti della storia esteriore; e perchè essa
stia chiusa nell'anima dei divini messaggeri e debba costituire, come
dice Schurè, il riservato oggetto della iniziazione in fratellanze
appartate. Ma, quantunque questa immediata comprensione della verità
rimanga un fatto d’ insegnamento del tutto intimo, pure tutti gli uomini
partecipano dei benefici della sapienza. Come i benefici delle ferrovie
elettriche ricadono su tutta la popolazione, pur restando monopolio
degli elettrotecnici la conoscenza delle. leggi Pe così avviene,
quanto ai frutti, ella efficacia e della sapienza dei Misteri, E
come il beneficio delle cognizioni tecni che si traduce nelle istituzioni
esteriori della civiltà. così quello della sapienza dei Mistici si
esprime e distribuisce nel contenuto spirituale della vita dell'umanità:
cioè nei suoi miti, nei concetti informatori delle sue credenze e
delle sue religioni, nel suo mondo di leggende e di fiabe, non solo, ma
altresì nelle sue idee di morale e di diritto, e da ultimo anche
nella sua attività artistica, nelle sue scienze e nelle sue filosofie. Il
Mistico mostra che la sapienza più profonda della umanità è la
radice di tutti questi vari contenuti della vita, rendendosi ben conto
che essi tutti possono trovare la loro vera spiegazione soltanto in
quella sapienza. Clemente Alessandrino parla del fatto che un uomo può
avere la fede seriza possedere eru Izione,, ma al tempo stesso proclama essere
impossibile che un uomo senza sapienza comprenda gli oggetti che
vengono spiegati nella fede, (v. Besant, Esot. christ.). Ogni
Mistico conosce questo vero rapporto fra Fede re e sa che tra i due non
può esistere contraddizione j ma anche alla Mistica egli può fare
riconoscere valore unicamente sulla base della vera scienza. Anche di ciò
parla Clemente. Alcuni che si ritengono favoriti da natura, non desiderano di
occuparsi nè di filosofia, nè di logica; anzi essi non desiderano di studiare e
imparare la scienza naturale; essi richiedono nuda fede soltanto. Io, pertanto,
chiamo dotto veramente colui che tutto mette a contributo per la
verità, così che traendo dalla geometria e dalla musica, dalla grammatica
o dalla filosofia stessa, ciò che è utile, difende la fede da ogni
assalto. Quanto è necessario per chi desidera partecipare dei poteri di Dio il
trattare filosoficamente soggetti intellettuali! Lo gnostico (Mistico) si vale
del rami dello scibile vene di esercizi ausiliari vreparativi. (A. B. Es.
Chr.). Chi ha colto questo profondo accordo della Fede col Sapere si
trova costretto a rilevare sempre di nuovo una caratteristica peculiarità della
nostra civiltà moderna, la quale ha invece scavato un abisso tra Fede
e Scienza. E. Schurè accenna a questo abisso fin dai
periodi introduttivi del suo libro. Il peggior male del nostro tempo è il
mostrarsi la Scienza e la Religione come due forze nemiche e
irreducibili. Infermità intellettuale questa tanto più perniciosa
in quanto che deriva dall'alto e furtivamente s' infiltra, ma
sicuramente, in tutte le membra, come un veleno sottile che si respiri
nell’ aria. Orbene ogni infermità dell’ iritelligenza diviene a lungo andare
infermità dell'anima e in conseguenza un male sociale.
Fintanto che il Cristianesimo non fece che affermare ingenuamente la fede
cristiana in seno a una Europa ancor semibarbara, come era nel
medio evo, esso fu la più grande delle forze morali, e ha plasmato
l’anima dell'uomo moderno. Fin tanto che la scienza sperimentale,
apertamente ricostituitasi nel secolo 16°, non fece che rivendicare i
legittimi diritti della ragione e l’ illimitata sua libertà, essa fu la
più grande tra le forze intellettuali; essa ha cambiato faccia al mondo,
liberato l’uomo da secolari catene, e fornito la mente umana di
fondamenta incrollabili. Non meno energicamente Annie Besant accenna a
questa peculiarità della civiltà spirituale moderna. Per ognuno che studi
l’ultimo immediato quarantennio del secolo passato è chiaro che persone
meditative e morali sono in gran numero esulate dalle chiesé perchè gl’
insegnamenti che vi ricevevano urtavano, offendevano la loro intelligenza e il
loro senso morale. E' vano pretendere che l’agnosticismo
così ue. largamente diffuso in questi tempi abbia ra: dice solo nella
mancanza di moralità o in È; una deliberata involuzione della mente.
ChiunA que attentamente studi gli esposti fenomeni, ammetterà che uomini
di forte intelletto sono stati allontanati dal seno del
Cristianesimo per via della rude goffaggine delle idee religiose loro
presentate, delle contradizioni negli insegnamenti delle varie autorità,
nelle vedute circa Dio, l'uomo e l’universo, idee n che nessun
intelletto colto e metodicamente ; disciplinato potrebbe di leggeri
accettare . a (A. B. Cris, esot.). Alla domanda: Che cosa è da farsi in questa direzione
?, Annie Besant risponde inspirandosi alla veduta che anche la
radice del Cristianesimo giace in una sapienza occulta e che la Fede
deve, quindi, per susI sistere risospingersi a questa radice. Se il
Cristianesimo vuol continuare a vi i co vere, deve ricuperare il sapere
che ha e riad | vere la propria Mise € l propri insegnasd cculti; deve di nuovo
erigersi come. un istruttore autorevole di verità spirituali, ma
rivestito della sola autorità meritevole. Me, ù Mes di
essere alquanto apprezzata, l' autorità, cicè, della conoscenza. Se
questi insegnamenti ‘verranno recuperati, la loro influenza sarà subito
constatabile nelle più ampie e più profonde vedute che si avranno
circa la verità, dogmi che ora sembrano meri gusci ed impacci, saranno
riconosciuti subito quali parziali presentimenti di realtà fondamentali.
In primo luogo il Cristianesimo esoterico riapparirà nel /uogo santo, nel
Tempio, così che tutti i capaci di riceverlo possano seguirne le linee di
pensiero palese, e secondariamente il Cristianesimo occulto ridiscenderà
nell'adito celato dietro la Cortina che custodisce il Sancta Sanctorum, in cui può entrare l’
iniziato soltanto. (A. B. Es. Chris.). Mediante il senso della vista
l'uomo percepisce la natura con cento e cento sfumature di luce è di colore.
Sono i raggi della luce solare che, riverberati dagli oggetti, ne
determinano gli aspetti cromatici variamente sfumati. Sebbene per tal
fatto la percezione della luce solare sia una funzione abituale
dell'occhio, tuttavia questo non può impunemente fissare la fonte stessa de a
luce: Sole; esso viene accecato dal contatto immediato, diretto, dei
raggi solari. Ciò che 0° néi suoi effetti è adeguato al compito
quotidiano dell'occhio, dà occasione a una sofferenza, quando, come causa in
sè, colpisce l'organo sensorio. Chi sa applicare nel giusto modo questa
immagine alla vita spirituale dell'uomo, comprende perchè coloro che sanno parlano di
pericoli della Iniziazione ai Misteri. Cotesti pericoli esistono
innegabilmente; se non che, chi ne parla non va preso alla lettera,
interpretando la parola pericoli,,
nel senso usuale. La intelligenza e la ragione umana sono tanto
poco assuefatte a riconoscere le fonti del vero nel complesso totale del
mondo, quanto poco è capace l'occhio di fissare direttamente il
Sole. Come l'occhio sente a sè rispondenti gli effetti delia luce, così intelletto.
e ragione sentono a sè rispondenti gli effetti della sapienza
eterna nei fenomeni della natura e nel decorso della storia degli uomini.
Ma come l'occhio viene meno. di.fronte.alla sorgente stessa della
luce, così l'intelligenza umana vigne meno dinanzi alle fonti primordiali della
sapienza. Questo umano intendimento nel subito arretra, rinuncia. Or bisogna
assimilare nel debito modo ciò che allora succede nell’ uomo, al fatto
dell’ abbacinamento chel’ occhio.subisce dal sole. veg 3 fer: Poichè
l'uomo è assuefatto a scorgere nella Natura e nell'attività dello spirito
soltanto il riflesso della Verità, e non questa immediatamente, egli
viene meno di fronte alla verità stessa, quando questa gli si
presenta. Avvezzo a cogliere soltanto la realtà grossolana, che quotidianamente
I prnia, l'uomo sente le manifestazioni della sapienza superiore come
illusioni, come costruzioni di una fantasiosità irreale: esse non gli
possono dire nulla, sono per lui come forme aeree che svaniscono
quando egli le vuole afferrare, così come è solito afferrare gli oggetti
della realtà consueta. Questa lo avvince a sè con mille lacci; ciò
che essa gli può promettere egli lo conosce, lo ha imparato ad apprezzare
in mille modi. Chi qui vede giustamente, comprende che cosa intendano dire
le leggende religiose quando parlano del Tentatore, che promette tutte le
magnificenze di guesto mondo a coloro, i quali vogliono intraprendere il
sentiero della illuminazione superiore. Se noh è risvegliata in. loro la
forza di resistere a cotesto Tentatore, essi cadono inesorabilmente in sua
balia. Con ciò si accenna a quel che s'intende per pericoli della soglia,, che occorre
varcare, se si vuole calcare il
sentiero, della sapienza. Niuno può giungere a questo sentiero se
non intende valersi dell’ occhio spirituale, dell'intelletto e della
ragione, diversamente da come vengono adoperati) nella vita
quotidiana. L'uomo deve porre il piede sulla soglia come un trasmutato,
come "°° uno, il cni°occhio spirituale è stato rafforzato; ed è
singolarmente difficile nell’ età nostra attuale rinvigorire
così.quest'occhio, x giacchè appunto dalla nostra scienza esso
viene rivolto o a.ciò che è concreto li tangibile. Per compiere le sue
conquiste nel campo delle forze naturali esteriori que-, sta scienza dovè
rendere quest'occhio cieco alle potenze spirituali dell’esistenza. Non
si fraintenda tutto ciò, prendendolo per un rimprovero! Chi vuol
comprendere il mec-\l canismo di un orologio non ha certo biso i}
gno di risalire con l'indagine fino ai pensieri dell’ inventore dell’ orologio
; egli può mM bene attenersi a quanto ha imparato dalla
[RUN fisica; può comprendere l’ orologio dal suo stesso
meccanismo. a nessuno può com preridere come le forze e le cose che
coo perano nell’ orologio siano state originaria mente combinate, se
non va in traccia dello | spirito che le ha combinate e non
indaga le ragioni per cui esse sono state così comf frze
Tmnon © SEXI ma ) fe | fa meda; meo N el Mm NK ke bt re
e € o’ uc gi Riti fet rextore9 Lo
fel #0 A 0 è MT, ui gno PEA Vs. b- parte li (a È Logan Foe.
SP RTTO el ppartnzs ti dae binate. Il naturalista può comprendere
giustamente la Natura solo se in lei stessa ri- le cerca anzitutto le
forze con cui essa opera. Se afferma che queste si sono combinate | ®
cudl da sè, assomiglia a colui che non si perita Y0Me flat di
pensare che un orologio si sia congegnato da sè. S izione-è non il A | lo
spirito Ge Le cose, bensì il trasferirlo alla cieca me/le cose stesse.
Superstizioso è, non colui che cerca l'inventore dell’ orolo gio,
ma colui che nell’orologio stesso immagina ‘uno spirito, il quale manda avanti
Î le lancette. Soltanto quando in questo modo || sî fraintendono
coloro che vanno in traccia dello spirito dell'esistenza cosmica, si
può metterli in un fascio con quelli che a buon diritto sono
accusati di superstizione e che cen altrettanto buon diritto vengono
oggi riguardati come turbapace, perchè compromettono i benefizi, che la nostra coltura
scientifica ha prodotto. (Chi non ha l'occhio velato da. preconcetti saprà a
chi si vuol alludere nelle due categorie citate). Chi-pone il piede
sulla Sogliz che d accesso alla visione superiore,
se vuole riu i scire ad avanzare, deve essere provvisto della 2 sN forza
che mena ad avvertire il Reale là dov@mnn l'intelletto ordinario e la
ragione solita scor- x i T] x > l'intolegione I Lie ii
pai de Pe Pe Pietà sa desti Ann ie siii nc e a | na ta A in x gono
soltanto fantasticaggine ed illusione. Giacchè il perenne e l'eterno sono
appunto, là, dgye all'occhio rivolto soltanto al transi* torio e
temporaneo altro non appare che fantasticaggine ed illusione. Nessun
utile, dunque, risentirà un uomo che venga condotto dinnanzi alla
sorgente della eterna sapienza colgalo corredo.della.sua intelligenza
rdinaria. Perciò nei Misteri, il primo grado d Iniziazione non consiste
nell'impartire un nuovo sapere intellettuale, ma nella completa
trasmutazione delle forze conoscitive dell’uomo. Con fine intuito
pertanto, Edoardo Scuré descrive nei suoi
Grandi Iniziati, il cammino di chi tende al Sapere, mediante i Misteri:
ALE L’ iniziazione era a leaneno
r, le di futfo l'essere umano ad ascenlere le vette vertiginose dello spirito,
dall'alto delle quali si può dominare la vita. E più innanzi egli
dice: Per giungere a questa padronanza l’uomo ha bisogno di una
totale rifusione del proprio essere fisico, morale e intellettuale. Orbene,
questa rifusione non è possibile se non mediante |’ esercizio simultaneo
della volontà, dell’intuito e del raziocinio. Mercè il loro
completo accordo l’ uomo può svi } ;) I Fapiecinia TX.
iNalonta Ponso ; I he sli luppare le proprie
facoltà fino a limiti indefinibili. L’ anima ha sensi assopiti ; l' iniziazione
li risveglia. Mercè uno studio profondo e un'applicazione costante l’uomo può
mettersi in rapporto cosciente con le forze occulte dell'universo. Con
uno sforzo porentoso egli puo raggiungere la percezione spirituale
diretta, schiudersi i sentieri che portano. all’olt a, al superfisico, e
divenire capace di regolarvisi. oltanto allora può dire di aver vinto il
destino e di esSersi conquistato fin da quaggiù la propria tiliberi
divina. Soltanto allora l’iniziato può vi divenire inizi.tore, profeta e
teurgo, vale a dire veggente e formatore di anime. Infatti soltanto
colui, che comanda a se stesso può comandare agli altri, e soltanto chi
è libero può liberare . (Opera cit.). La missione
dei Misteri va intesa in tal senso, per quel che si riferisce al loro
primo grado. ‘Non si trattava solo fi una DUOSA scienza, ma della
produzione di nuove forze | pudore ‘L’individuo=doveva.
trasmutarsi, ivenire un altro, prima di venir condotto
al Sole spirituale, alla sorgente della sapienza. Colui, le cui
forze non sono temprate allorchè pone il piede sulla Soglia, non sente la realtà
dell’eterne. potenze spirituali, (}. che quivi gli si fanno incontro. In
luogo di entrare in rapporto con_un mondo superiore egli ricade nel mondo
inferiore. À questo pericolo trovasi esposto chi va in cerca delle
sorgenti della sapienza. Se egli soccombe, allora ha temporaneamente
ucciso in sè l'eterno germe. Questo era per l'innanzi dormente in lui,
ma, pur così dormente, era tuttavia ciò che nobilitava la passeggera,
inferiore natura e la trasfigura. Ingenuo ed inconsapevole, l' individuo
viveva con questo rudimento di spiritualità superiore. Dal mal riuscito
tentativo, di.iniziazione quel latente rudimento JÉne. distrutto. All'individuo
non resta che l'istinto di vivere nel transitorio, di yivere
Soltanto pel regno di guesto mondo. Per il fatto di. avere sentito
come_illusorio il divino spirituale,,
egli divinizza il sensibile_materiale,.
In tal modo, sulla Soglia,, può
andare perduto per l'individuo il suo più prezioso tesoro, la sua parte
immortale. Questo è il pericolo analogo all’ accecamento dell'occhio
nella similitudine su riferita. E' ovvio che coloro, cui nei
misteri incombeva l'ufficio d’iniziatori, erano per pro- .Wei Rito
fonda consapevolezza della propria responsabilità, estremamente esigenti verso
i discepoli, giacchè tali esigenze dovevano servire a temprare nel senso
indicato le loro forze spirituali. E. Schuré descrive la scala gra
duale della Iniziazion ‘a_praticata I riella scuola di Pitagora (a.
582-507 a. C.) e-la sua descrizione è tutta improntata di
geniale senso d’arte e di mistica profondità. Mi appoggerò appunto ad
essa per parlare di quei gradi iniziatici. Erano ammessi
all’Iniziazione soltanto coloro che offrivano sicurezza di riuscita per
la costituzione appropriata della loro natura intellettuale, morale e
spirituale. Per costoro cominciava allora il periodo della Preparazione,. Per molti anni essi
diventavano itori. Nel tempo nostro, in cui ciascuno sf crede
autorizzato a giudicare e criticare mon appena abbia appreso qualche
cosa, 0, torse anche più sovente, quando non ha ancora imparato nulla,
non è punto facile rendere simpatica l’idea" quel lungo uditorato.
All'uditore era imposto il più assoluto silenzio, inteso non nel senso
esteriore di ‘ astinenza da ogni parola, bensì nel senso di |
astinenza da qualsiasi critica, STdoveva Accogliere del tutto
spregiudicatamente l’istru due crilica PESTO, gp
zione, senza turbare questa spregiudicatezza con una prematura analisi
critica. Il saggio sapeva, e gli uditori avevano fiducia; per un
certo tempo non_.era loro Jlecito..criticare, giacchè il sapere che
ricevevano era appunto ciò che occorreva per renderli maturi all
critica. Come è possibile che impari vera[mente chi vuole immediatamente
criticare \{ quel che apprende? Con questo metodo di ascoltare in
silenzio i Pitagorici hanno reso maggio a una massima, che sola può
fare ascendere i gradini della conoscenza. Chi ha percorso la via
della conoscenza lo sa. Egli non può che sentire pietà per coloro,
che si creano intoppi su tale strada coi loro giudizi prematuri e con le
loro critiche. Il nostro tempo è tutto pieno di questo_immaturo spirito
di critica: basta osservare intorno a noi ciò che i nostri oratori dicono
e ciò che i nostri scrittori scrivono.,Se vi fosse ai tempi nostri solo
un pò di spirito pitagorico, resterebbero. inespressi più dei nove
decimi di quanto vien detto e altrettanto rimarrebbe non stampato di quanto
vien pubblicato. Oggidì, chi ha messo insieme un paio di osservazioni, o si è
appiccicato in testa un paio d'idee, si crede autorizzato a sputar
sentenze e giudizi sui sel RARI TESE, soggetti più essenziali.
Invece un tale diritto spetta soltanto a chi abbia imparato a contenere
per anni il suo giudizio e a porgere ascolto spregiudicat ea quanto i
savi dell'umanità hanno detto.
Esaminate tutto e tenetevi il meglio,, è una fallace norma
dell'anima di chi non è maturo per esaminare. Il nostro giudizio non vale
proprio nulla, nulla affatto di fronte alla Verità, fin tanto che non lo
abbiamo fatto esaminare dalla verità stessa. Invece di dire. Io esamino tutto e
voglio tenermi il meglio, molti dovrebbero dire. Io voglio fare esaminare
me stesso dalla Verità, e quando io sia sufficientemente buono per
essa, allora ch' essa mi prenda! Chi non si è esercitato per anni ad
adattare, a inalveare la propria vita in questo illimitato abbandono al
giudizio delle sagge guide della umanità, non arriverà mai a formulare
giudizi che siano più che fumo e vacua risonanza. Pa Una norma
siffatta è certamente invisa in questo nostro tempo illuminato,, in cui dominano la
pubblica criticaglia, e lo spirito gazzettaio ; invece gli uditori
pitagorici si attenevano appunto a cotesta norma. Raggiunta la voluta
maturità, l' uditore vedeva | 4 iena: acli Neggiunto per lui
il giorno d'oro col quale cominciavano le rivelazioni sull'essenza
della natura e dello spirito umano. A poco a poco i gli si fa
comprendere la zomìa [I am a zoologist – a philosophical zoologist – Grice], le
leggi della esistenza corporea e psichica. Be" 1 Voglia afferrare
questa romia col non raffinato intelletto ordinario non ne comprende
nulla. Goethe una volta accennò a questo. Allorchè nel SUO VIAGGIO PER
L’ITALIA e per la Sicilia si era dato con tutta lena allo studio delle
piante, e si era formato quelle sue vedute tanto citate ma tanto poco
comprese sulla pianta archetipa, scrive in Germania che avrebbe
voluto fare un viaggio in India, non per scoprire qualche cosa di
nuovo, bensi per guardare a Suo..modo_.il già scoperto. Quel che importa,
appunto, non è il conoscere le leggi messe in luce dalla botanica intellettuale vi bensi il penetrare
coll’aiuto di queste leggi nell’intima essenza della vita vegetale.
Si fica essere un erudito professore di botanica e non capir nulla di
questa vita vegetale. | nostri scienziati hauno veramente delle strane
idee a questo proposito. Essi o credono che, in genere, non si possa
penetrare nell'intimo della natura, o affermano che la nosira
indagine non è ancora fanto avanzata. Essi non sospettano che con questa
indagine mediante i sensi e l'intelletto possono, sì, moltiplicarsi con effetto
benefico le nostre cognizioni, ma che per investigare (| interno,, è, invece, necessaria una maniera
di pensare tutta diversa da quella che essi mettono in pratica. Non
vogliono saperne dell’inventore dell'orologio mentre studiano l'orologio alla
stregua dei principi della fisica. Poichè non possono trovare nell'orologio
nessuno spiritello che spinge avanti le lancette, o negano lo spirito,
che ha congegnato le ruote, o asseriscono che esso è inaccessibile all’umana
conoscenza, 0 del tutto o fino ad oggi. Chi parla dello spirito della
Natura viene accusato di sbizzarrirsi in vane parole. Ma non è
colpa sua se gli accusatori non sentono in ciò altro che parole! I discepoli
pitagorici, al secondo grado della loro istruzione, venivano introdotti
nelloSpirito della Natura. Soltanto: dopo RARO al questo
grado, potevano venir condotti alla
grande Iniziazione . A questo punto erano maturi per accogliere in
sè i Segreti della esistenza; il
loro occhio spirituale era ormai sufficientemente vigoroso; oramai non
apprendevano più a conoscere soltanto lo spirito delia nai tura, ma anche
le intenzioni di questo spii rito. Da questo punto in poi non sì può più
i parlare dei Misteri col solito linguaggio, ma soltanto per via d'immagini,
giacchè il no(a stro linguaggio è tutto adeguato all'intelletto e non ha
parola adatta alla conoscenza superiore, di cui qui ci occupiamo. In
questo È senso va inteso pure quanto segue. Prima di ogni altra cosa
l'individuo apprendeva a spingere lo sguardo oltre la propria esistenza
personale. Da ciò traeva l' esperienza che quella sua vita era la ripetiiS .
zione di vite anteriori a un nuovo gradino dell'esistenza. Si poteva
convincere che quel i che è lecito chiamare anima, nel giusto senso
della parola, si rincarna ripetutamente, e che le capacità, le vicende e
le azioni della Me sua vita presente erano da interpretarsi come
effetti di cause reperibili in quelle sue vite antecedenti. Egli si
rendeva anche conto che i fatti e gli eventi di quella sua vita
presente dovevano produrre i loro effetti in esistenze 1 avvenire.
i ; Su ciò bastino qui questi pochi cenni, da perchè ho intenzione
di parlare in altro luogo esaurientemente delle grandi leggi della rincorporazione,
e della legge cosmica, ovvero, in altre parole, della rincarnazione, e del
Karma. Queste verità potevano divenir convinzioni per il discepolo dei Misteri,
come è verità per l'uomo comune che 2 x 2-4; perchè al terzo grado il
discepolo era a ciò maturo. Ma anche a questo grado si può avere un
giudizio completamente sicuro su queste conoscenze, unicamente perchè si
è ormai acquistata la capacità di comprenderne giustamente il
significato. Anche oggi, come in ogni tempo, molto si criticano tali
concetti ;, ma ciò che viene criticato in realtà sono soltanto le
arbitrarie, concezioni dei critici stessi, che non hanno alcuna importanza.
Del resto, però, si deve anche pienamente convenire che pure molti
seguaci della idea della rincarnazione non hanno di essa concetti
migliori di quelli dei suoi oppositori. Non tutti coloro che oggi
difendono queste dottrine, le comprendono veramente. Anche tra questi
difensori ce ne sono molti che sono troppo scansafatiche 0
troppo.... consci di sè per apprendere in silenzio prima di far da
insegnanti. 0° Cfr. dello stesso autore gli scritti maggiori Teosofia Scienza occulta e i minori Azione del Karma. Rincarnazione e
Karma come leggi naturali. Ora, se non forse presso i Pitagorici, c'era,
però, in altri Misteri, dopo la grande
Iniziazione rivelatoria,, il grado della vera iniziazione mistica. In
essa non soltanto l'osservare e il pensare, ma tutto il vivere
conscio veniva esteso oltre l'immediata personalità dello individuo. Per essa
il discepolo non diveniva soltanto un sapiente, soltanto un
veggente. Egli ormai non percepiva l'essenza delle cose, ma la viveva con
esse. Molto arduo è dare una idea di ciò, di cui qui si tratta. Il
veggente non ha soltanto la sensazione degli oggetti, bensì sente regoli
oggetti stessi, trasferendosi nel loro interno; egli non pensa circa la
natura, bensì esce di se medesimo e s'interna, pensando, re//a
natura. (E' questo un procedimento noto al Teosofo, il quale lo chiama.
lo schiudersi dei sensi astrali. L'uomo intellettuale non bada ai
veggenti: essi debbono esser per lui dei visionari, se non peggio. Chi,
invece, ha senso per le loro doti, li ascolta con pio rispetto,
giacchè sente parlare in loro non più una persona umana, bensì la stessa
Saggezza vivente. Essi hanno fatto olocausto delle Cfr. dello stesso
autore: Come si acquista conoscenza dei mondi trascendentali
v. EA proprie inclinazioni, simpatie, opinioni personali per poter
prestare la propria bocca all’eterno Verbo, mediante il quale furono
fatte tutte le cose. Giacchè dove parla ancora l'opinione umana, dove
campeggiano ancora inclinazioni’e interessi, ivi tace la sapienza eterna.
E quando questa giunge all'orecchio di coloro che non ‘hanno ancora
sentimento per essa, appare loro soltanto come personale parola
umana, per quanto in essa possa chiudersi una forza divina. Ma dai
veggenti stessi, gli uomini ‘potrebbero imparare ad ascoltare, giacchè il
veggente fa tacere la sua umana personalità quando a lui parla la voce della
Verità. Il suo giudizio tace, i suoi interessi, le sue inclinazioni gli
stanno dinanzi altrettanto insignificanti quanto il tavolino che ha davanti
a sè: egli è tutto assorto nel| l'ascoltazione interiore. Solo il veggente
ascenderà al grado successivo, che gli antichi chiamavano del teurgo e
che nella nostra lingua può venire designato come quel grado, in cui
si opera una completa riversione, delle facoltà umane. Forze che, di
solito, affluiscono nell'individuo da/ di fuori, ora si effondono da /uîi. In
certi campi, nei quali 5 RS a l’uomo è soltanto un servitore,
diviene un dominatore colui, le cui facoltà sono trasmutate. E poichè
solo il veggente è in grado di giudicare la portata e la maniera a
d’'agire di coteste forze, l'uomo che ne verrà Ti in possesso senza aver
raggiunta la purità del veggente, ne farà mal uso. E questa do sapienza senza purità,, è possibile a
causa w di un cencatenamento di circostanze, di cui <a qui non è
il caso di tener discorso. Sulla Iniziazione superiore, a proposito dei
Pitagorici, E. Schuré ha il seguente magnifico passo : 1 i BRANO
Abbiamo, seguendo Pitagora, toccato la cima della iniziazione antica. Da
dr questa vetta la terra apparisce come im- cf ersa nell'ombra, come un astro
morente. Di lì si schiudono le prospettive sideree e eri dispiega nel
suo meraviglioso complesso. Le Scegatao ii a n 1 la vista dall'alto,
l'epifaria dell'universo. Ma \\®s4* scopo dell'insegnamento non era
l’assorbire VITA l'individuo nella contemplazione o nell'estasi.
È le regioni incommensurabili del Cosmo, li UH aveva tuffati negli
abissi dell'invisibile. I veri pauroso pellegrinaggio fatti migliori, più
forti e meglio temprati pei cimenti della vita. I, Il Maestro
aveva condotto i discepoli per iniziati dovevano ritornare sulla terra da
quei î =Sf ia Alla iniziazione della intelligenza
doveva seguire quella della volontà, ed era di tutte la più ardua,
giacchè ora per il discepolo si trattava di far discendere la verità
nelle profonde latebre dell’ esser suo, e di porla in azione nella
pratica della vita. Per raggiungere questo scopo ideale occorre
secondo Pitagora riunire tre perfezioni: avere realmente la verità
nell’intelletto, la virtù nell'animo, la purezza nel corpo.
Un'igiene sapiente, una regolata continenza dovevano serbare al corpo là
purezza che si richiedeva non come scopo, ma come mezzo. Ogni eccesso
corporeo lascia una traccia e quasi un imbratto nel corpo astrale,
vivente | organismo dell’ anima, e per conseguenza anche nello
spirito. A questa altezza l'individuo diviene un adepto, e, se possiede
bastante energia, entra in possesso di facoltà e di poteri novelli. Si
schiudono i sensi interni animici, e la volontà si riversa radiosa negli
altri sensi (vedi Schuré). Di tutto ciò che l'uomo compie prima di
raggiungere questo grado, le cause sono da ricercare in regioni a lui
completamente sconosciute. Lo sguardo del teurgo, invece, | spazia in
coteste regioni, e in perfetta consapevolezza, egli irradia da sè
quanto nell'uomo dorme di solito
inconsciamente, nelle più profonde latebre dell'anima, Egli
trovasi a faccia a faccia con la sua Guida, che per l’innanzi lo aveva
diretto invisibilmente da tergo. Col sussidio di siffatti pensieri si
dovrebbero leggere periodi come il seguente, tratto dall'antico testo di
sapienza chiamato il Mundakopanishad: Quando il veggente vede l'aureo
Creatore, il Signore, lo Spirito, il cui grembo è Brahman, allora il savi
o, dopo che ha gettato via merito e demerito, raggiunge immacolato
l'unione suprema. Alle vette, dunque, che vengono così con-.
quistate drizza lo sguardo E. Schuré; e la mistica fede nella fulgida
forza di codeste vette gli conferisce la capacità di trapassare.
alcuni dei nebulosi veli che nascondono la. vera natura delle grandi
Guide dell'Umani tà. Ciò lo rende capace di descriverli, questi grandi iniziati,:
Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Orfeo, Pitagora di CROTONE, Platone e Gesù.
A grado a grado da coteste Guide sono state irraggiate nell'umanità le
forze a_ seconda della maturità raggiunta dal genere umano nelle
diverse epoche. Rama condusse alla porta della sapienza; Krishna ed
Er-.ai mete ne misero le chiavi nelle mani di alcuni; Mosè, Orfeo e
Pitagora additarono l'interno, e Gesù, il Cristo, presentò il
Sancta Sanctorum, l'intimo sacro penetrale. Sarebbe sciupare tutto
il singolare incanto del libro dello Schuré il volerne raccontare il contenuto,
nel quale, così com'è ognuno dovrebbe profondarsi da sè. Ed, Schurè
accenna al fatto che pel tramite del Fondatore del Cristianesimo le forze
della sapienza dei Misteri sono state riversate nelle vene spirituali
dell’ umanità in forma tale, che le orecchie dell’ umanità hanno
potuto udirla. E anche in questo terreno la verità deve essere cercata pei
sentieri che E. Schurè ci presenta. La forza. che s' irradia dalla
personalità di Gesù, è forza vivente nei cuori di tutti coloro, che
la lasciano fluire in sè stessi. Comprendere la vivente Parola che in
questa forza agi| sce, può solo colui che se ne procaccia la chiave,
mercè la comprensione della sapienza dei Misteri. E a ciò fornisce, per
quanto è possibile, il fondamento Besant col suo cristianesimo esoterico. E'
questo un libro, per mezzo del quale l'occulto | significato delle parole
bibliche si svela al lettore che tutto vi si abbandona, Sg
VI Siffatti libri-chiave sono necessari ai no. stri giorni.
L'umanità era in condizione del F tutto diversa dall’odierna, quando
ricevè l’Evangelo, l'annunzio gioioso. Oggidì l’intelletto ha ben altro
allenamento che non ne avesse 19 secoli fa. Oggi l’uomo ‘può
trasmutare in vita propria la forza vivente della parola palese soltanto
se riesce ad afferrare cotesta forza mediante la propria facoltà
ragionante. Ma ciò che è vero, resta $ vero eternamente, anche se il modo
come i l'uomo deve afferrarlo si cambia nel corso i dei tempi. Che
oggi l’ intelletto e il raziocinio facciano valere i propri diritti è una
necessità ; chi conosce l’evoluzione umana sa che deve essere così. E
perciò egli dà oggi all’intelletto, ciò che secoli addietro è stato
dato ad altre forze dell'anima. Da que sta e da nessun’ altra cognizione
dovrebbe scaturire l'attività del vero teosofo, e così vuole essere
interpretato il Cristianesimo
esoterico, di Besant. Il teosofo sa che nel Cristianesimo c'è la Verità,
e sa altresì che Gesù, nel quale s'incarnò il Cristo, non è un Duce di morti, bensi un Duce di vivi,.
Il teosofo intende la grande parola del Maestro. Io sono con voi
tutti i giorni, sino alla fine,,. Alla Guida viven- Bla: £ @ÈS
te, non a quella dei ragguagli storici, si rivolge anzitutto chi, come
A. Besant, vuole spiegare il Cristianesimo. Ciò che la Parola vivente, ancora oggi,, annunzia
all'orecchio che vuol porgerle ascolto, è ciò che poi proietta la sua
luce sul racconto evangelico. Sì, certo, l' Annunziatore della
Parola è rimasto qui fino ad oggi e può dirci come dobbiamo intendere la
lettera dei ragguagli intorno ai Suoi atti e ai Suoi discorsi.
Le buone novelle debbono
essere intese esotericamente cioè,
bisogna, prima, che sia svegliata dentro di noi la forza vivente, che
imprime su di esse il sigillo di . Gò che è Santo,,. E poichè l'intelletto e il
razigcinio sono i grandi strumenti della civiltà d’oggi, bisogna ch’essi
vengano liberati dai lacci dell’ intendimento puramente sensistico, della
comprensione meramente positiva,
della realtà. L'intelletto stesso dell'umanità presente deve tuffarsi nel
mare che lo riempie di vera religiosità, giacchè non è esatto che
l’assennato intelletto non valga che a distruggere le illusioni, di cui il sentimento
religioso avvolge le cose. Ciò è opera solo dell'intelletto abbagliato
e inceppato dai successi riportati nella nozione ALI: 000
e nel dominio delle forze puramente materiali della natura. Gli uomini
del presente e con essi i nostri fisici, i nostri biologi e i
nostri storici, si credono Ziberi nel loro mondo intellettuale unicamente
edificato sul fatto positivo. In Verità essi vivono sotto l’azione
di una Suggestione dominante su tutto. Liberi, fino a un certo punto,
potreste diventare voi fisici, biologi e storici di oggi, se voleste
riconoscere che i vostri concetti di rea/tà anzi di materie e di forze
del mondo, di sforia umana e di evoluzione della civiltà, non sono
altro che sugge\stioni collettive,. Un
giorno vi cadrà la benda dagli.occhi, e allora soltanto sperimeénterete
fino a qual punto è verità e non errore quel che voi pensate dell'elettricità
e della luce, della evoluzione animale ed umana; giacchè, notate
bene, anche i teosofi riguardano le vostre asserzioni non come errori, ma
come verità. Infatti anche la vostra interpretazione della natura è per loro
una professione di fede, e quando
essi dicono di volere cercare il nucleò
della verità in tutte le religioni,, fanno ciò non solo riguardo a
Buddha, Mosè e Cristo, ma anche riguardo a Lamark, Darwin ed
Hickel, ay ( (A E opere come queile citate di Schuré e di
Besant sono destinate a togliervi la benda dagli occhi, debbono
insegnarvi a veder chiaro nelle
vostre suggestioni. Conseguentemente, in libri siffatti quel
che importa non è tanto il loro contenuto letterale, quanto le occulte
forze che mossero la penna dei loro autori e che si trasfondono nelle
vene dei lettori, così che questi vengono tutti pervasi da un nuovo
senso della verità. 1 lettori che subiscono il giusto effetto di tali
libri ricevono sotto un certo rispetto una /riziazione di tipo, diremo
così, intellettuale. Chi a questa frase mon arriccia il naso, come alla
asserzione di un miracolo, chi è in grado di scorgervi, invece,
qualche cosa di più che una vacua frase, potrà anche comprendere, come —
libri siffatti gli vengano presentati non già per allettarlo a fare una
delle solite letture, ma con l’altra ben diversa mira ch' essi,
per virtù delle forze con le quali sono stati scritti, debbono
suscitare in lui forze dormenti, anche se a tutta prima coteste forze
possano essere soltanto quelle dell'arimia intellettiva. Al nostro tempo,
peraltro, non c’è vera Iniziazione, che non passi per l'
intelletto. Chi vuole in oggi condurre agl’arcani superiori, evitando
di passare per l' intelletto, mon capisce nulla dei segni dei tempi, e non può
far altro che porre sugsa gestioni nuove al posto delle antiche. Grice:
“Of course, Austin thought that the Saturday mornings should be held on
Wednesday midnights at Parson’s Pleasure – we were into initiation!” Giovanni Colazza. Keywords. dell’iniziazione,
rito di passagio, rito di iniziazione, iniziazione nel misterio, iniziazione,
l’iniziazione di Bacco, la Baccanalia, il sacrifizio di Bacco, sacrifizio come
dolore e piacere, Prosimno, iniziazione di Bacco, la reazione della religione
romana al mistero bacchico, iniziazione, iniziazione del giovane romano, la
toga virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colazza” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza -- Grice e Colecchi: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di
Pescocostanzo –filosofia aquilese – filosofia abruzzese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Pescocostanzo). Filosofo aquilese. Filosofo abruzzese. Filosofo italiano. Pescocostanzo, L’Aquila, Abruzzo.
Grice: “What I love about Colecchi is that while he was a bad Kantian, he was
an excellent Vicoian!” Studia ad Ortona, dove sube diverse perquisizioni da
parte dell'Inquisizione per la sua tacita simpatia verso gli ideali
rivoluzionari. Insegna alla Reale Accademia Militare della Nunziatella. Venne
mandato in missione in Russia, dove si dedica alla filosofia speculative.Al
ritorno, soggiorna a Königsberg, dove ebbe modo di conoscere l'opera di Kant.
Fu uno dei primi filosofi italiani a studiare Kant.Rientrato in Italia, fonda a
Napoli una scuola privata di filosofia ed ha tra i suoi allievi i fratelli Spaventa,
Sanctis, Settembrini e Caracciolo. Il suo merito principale fu quello di
essere, insieme a Galluppi, un assertore del criticismo kantiano in Italia.
Altre opere: “Se la sola analisi sia un mezzo d'invenzione, o s'inventi colla
sintesi ancora?” La legge del pensiere; L’analisi e la sintesi; La legge
morale, La legge della ragione; “Se il raziocinio sia essenzialmente diverso
dalla intuizione”; “Se nell'invenzione eserciti maggior influenza la sintesi o
l'analisi; “Se li giudizi necessari sieno solamente gli analitici”; “Se
l’identità formale del raziocinio sia valevole a convertire il raziocinio
empirico in raziocinio misto?”; “Il principio sul quale poggia il raziocinio
quando classifica e quando istruisce”; “Quistioni ideologiche”; “Se diasi una
logica pura, ed una logica mista”; “Se una idea soggettiva non altro sia che
una idea di un rapporto, L’idea dello spazio e l’idea del tempo; Il primo
problema di filosofia: se la sensazione sia esterna di sua natura, o tale
diventa in forza del giudizio abituale? Alcune quistioni le più importanti
della filosofia; Psicologia, Logica applicata, Ideologia, Frammento
apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche storiche,
Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia della filosofia italiana dal Genovesi
al Galluppi, Firenze; Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a cura
dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F. Tessitore,
Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi filosofici,
Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa, Studi
sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di letteratura
italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura, filosofia e
critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis, La
lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema filosofico
di C. (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F. Amodeo, C., in «Atti della
Accademia Pontaniana», Discussioni biografiche e documenti inediti, Ravenna);
L'istruzione pubblica e privata nel Napoletano; Città di Castello, C. filosofo
e matematico: nuove notizie e nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese di storia
e d'arte», Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi,
II, Milano); Pedagogisti ed educatori, Milano); Capograssi, Nuovi documenti
sull'accusa di ateismo a C., in «Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi:
C., in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», A. Cristallini, C., un
filosofo da riscoprire, Padova, G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana
dell'Ottocento, Bari; Garin, Storia della filosofia italiana, III, Torino; F.
Tessitore, Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche,
Napoli; G. Cacciatore, Vico e Kant nella filosofia di C., Centro di studi
vichiani; Io e C.. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre Editore,
L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla tomba della setta
italica, tenendo dietro alle origini dell’antica lingua del Lazio – la lingua
romana -- trasse fuori VICO queste divine idee; ha lello forse BRUNO ancora,
perchè un’ombra d’idealismo copre spesso la sua filosofia, spezialmente nella
scienza nuova, dove l’uomo passa suo malgrado dalle selve allo stato civile per
la sola opera di una lupa (la lupa capitolina). Se non che l’uomo di VICO
rimane nello stesso stato in cui avealo lasciato ENEA. Devono le divine idee
rideslarsi all'occasione delle sensazioni; njun tentativo per ravvicinare la
sensazione all’idea; dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la ragione è sempre
scontenta di quanto scopre l’induzione. Non ancora siera mostrato Kant per
conciliar insieme la sensazione (sensus) e l'idea o concetto. Con questa
filosofia, appoggiata all’induzione, si dispone VICO a crear il diritto
universale della nazione del Lazio – la nazione romana. Ma preoccupalo sempre
delle civili cose di Roma, brillando sempre nel suo spirito l'immagine di Roma,
si risolge in fine di stabilire Roma come modello di civiltà. Il perchè nella
storia, della mitologia, nelle lingue, nel blasone, e pe’ feudi pur anche del
medio evo deesi Roma ripelere, e la romana giurisprudenza diventar quel la di
tutte le nazioni del mondo. E come i fatti hanno a servir di occasione per
ridestare la idea, così il diritto di Roma, le XII Tavole, tutta la storia,
tutta la mitologia concorrer devono a risvegliar le idee del vero, del giusto,
a dir breve l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che metafisica, logica,
morale, educazione, politica, geografia, astronomia si abbozzano prima della
religione de’ padri in mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla città di
Roma; dove il senato si compone degli stessi primi padri, riuniti in Ordini,
per reprimere le ribellioni degli ammutipali clienti. Di qui le lante critiche
sulla storia positiva per distruggerla. Sesostri e Tanai sono due simboli. La
sapienza del poeta vera immagine della sapienza o scienza del filosofo,
L’Eneide confuse con la sapienza dei romani. E tutto questo per via di
etimologie stirale, di mili forzati, di stranissime analogie. Egli è evidente
che tal metodo d’interpretazione deesi ridurre in fine ad una tortura, per
isforzare tutt’imonumenti della storia e delle favole a deporre in favore di un
sistema. Siegue da questa osservazione che quanlunque tutta la storia, tutta
l’erudizione, per la potente sintesi di VICO, pieghi sempre al modello DI ROMA,
NO DI KOESINGBERGA, e la sua civiltà a poco a poco siasi spenta, fino a che
passato il medio evo, col risorgimento delle lettere e delle scienze, ricomioci
il suo corso; può non pertanto rimaner il dubbio che il popolo romano altro
forse non sia che un fatto isolato. Essendo si in effetto limitato il Vico al
uomo del Lazio.VICO, dobbiamo pur dirlo a Gloria d'Italia,VICO è di gran lunga
superiore ad Herder, il quale nella sua Storia dell'umanità parla pur anche
dell'origine e del progresso della civiltà de’ popolo romano. Imperocchè se
Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del Lazio nella natura, e dalla
formazione del cristallo, per una ben lunga scala, va sino all'uomo che è la
corona dell'organizzazione. VICO, seguace di Platone e non d’Aristotele, con
maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo nell’uomo stesso
contempla. E se l'analisi di Herder vivamente rallegra l'immaginazione, la
sintesi di VICO sembra lalmente falla l'intelligenza per, che il lettore, in
onla del suo linguaggio enigmalico e della strapezza delle analogie, viene
attirato potentemente dalla magica forza della sua filosofia. Niuno più
originale di VICO, e pare che l’originalità dell’italico ingegno siesi
sventuratamente nel VICO spenta. De’ suoi principii intanlo, per quel che
riguarda il nostro assunto, egli è facile di raccorre, che avendo le legge per
iscopo di metter freno alla passione umana, e di render l'uomo migliore; ben
possono per esse la *forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che sono i tre vizi
pe’ quali corre a trovarsi il genere umano, convertirsi in *valor militare*,
*prudente mercatanzia* e *savio governo*. La legislazione dunque, considerando
l’uomo qual é, se dirige ad usi migliori la passione, lo riforma e trasmuta in
quello che esser deve. La massima di VICO pertanto, ben lunga dall’opporse alla
legge morale, la conferm viemaggiormente e ne presuppone l'esistenza. E qui
credo far cosa grata a miei lettori, se da VICO stesso tolgo le prove di questa
mia assertiva. L’unico principio e fine del diritto è per VICOla virtù del
vero. E chiama virtù del vero l’umana ragione -- la vernunft di Kant -- la
quale è virtù in quanto combatte con la cupidità -- è giustizia in quanto
regola e pondera la utilità. La utilità non e per sè stesse ne onesta nè turpe;
ma turpitudine è la sua ineguaglianza, onestà la sua eguaglianza. L’utilità
privata di un singolare individuo, o anche nazione o popolo di due uomini, è
labile, perchè finisce con l'individuo la diada dei due uomo o con la nazione;
ma l’eguaglianza delle utilità, che è figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è
cosa immutabile ed eterna. Una cosa caduca non puo produrre l’immutabile, nè un
corpo dar nascimeoto a ciò che li trascende. Il sistema dunque dei futilitari
utilitari, con questi pochi molli del VICO, è distrutto. Ciò si conferma con
quel celebre detto di Pedio presso Ulpiano: quante volte una od altra cosa
venne con la legge introdotta è buona occasione supplire con la legge stessa le
altre cose che tendono alla stessa utilità. Una buona occasione adunque e alla
divina provvidenza l’umana debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro
stessa spontaneità, ritrasse gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere
socievoli, uguagliando tra loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da
principio per intera onestà, ma per una parte di onestà. Or, la società è una
*comunione* di mutua utilità che interviene tra eguali. Si la socielà ineguale
è tra un padre (superiore) e un figlio (inferiore); tra la potesta civile e di
soggetti – l’eguale è tra fratelli ROMOLO E REMO o i dioscure – Castores
(dual), o Eurialo e Niso, i due amici, tra due cittadini. Di qui due spezie di
giustizia rellrice ed equatrice. L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica*
-- progressione geometrica -- misura determinata, è il subietto della giustizia
rettrice, della giustizia *distributive*, la quale mira alla dignità delle due
persone. L'eguaglianza poi delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression
aritmetica -- misura, è materia della giustizia equatrice, volgarmente detta
giustizia *commutativa*, la quale si rapporta al mio ed al tuo – al nostro --
-- ed ba luogo in ogni società eguale. Nè osta punto (come crede Grozio, il
quale dital L'occasione poi, per la quale una cosa accade, non è cagione della
cosa stessa, il che Grozio non vide, trattando dell'origine del diritto; e pur
doveva ia questa disamina por mente ad una osservazione tanto importante che ne
è il cardine. L' utilità dunque non fu produttrice del diritto, come piacque al
greco Epicuro, al etrusco Machiavelli, ad Obbes, i quali intesero per utilità
la cessazione o del bisogno, o della violenza, o del timore; ma fu l'occasione,
per la le gli uomini divisi, deboli, bisognosi tralti furono alla vita sociale.
qua. Siegue da ciò, che l'upa e l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice
hanno per fondamento l'onestà, e che non può avervi giustizia senza morale:
conseguenza importautissima, dedotta dal VICO da vero suo priocipio, e sfuggita
al positivista CARMIGNANI, il quale fa della morale e del diritto due cose
talmente distinte, quasi non avessero nulla di comune tra loro. Elementi del
giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la temperanza, la fortezza. La
prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta con ragione, von come della
la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle cose utili genera la
libertà. La potenza regolala dalla fortezza partorisce la incolpala tutela. La
tutela de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il diritto naturale, che
gli antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici appellano il principio
della natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono cose nalurali all’uomo, e
oale per le occasioni. Così la libertà del diritto era prima della guerra; ma
venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome, introdoltasi, per la guerra, la
schiavitu. Similmente con la divisione de'campi siammisero I dominii delle cose
del suolo; ma il giure coosultodice: non essersii dominii
introdotli:essersisolamente distinti con la divisione. Finalmente dalla
potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso. distinzione
siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di daparo,
prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono parli di
lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della persona che
li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne avrebbe preso,
se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della ragione su
iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti chiamalo
secondario, e dal PORTICO conseguenti della natura. Rimontiamo col VICO
all’origine di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere,
con la sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio deriva
del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra con cui
vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere
agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi
quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode
col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a
seguire le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito
nelle utili, e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con
seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di
cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita:
diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di respingere
da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione
de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo
conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della
natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli
uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del
diritto domina la prima: di guise che quando POMPEO, impedito dalla tempesta a
partire, disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era
siquesto suo dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è
necessario cioè dioperar rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima
parte del diritto naturale la ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa
vieta o comanda, e quello che comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa
seconda parte è immutabile ancor la prima, non potendosi le cose lecite di lor
natura vielar con le leggi, non essendo in potere di queste di far sì che non
sieno permesse. Vedano ora imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del
naturale diritto nel principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o
no rigettare! Rimembro di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio
aperlamente afferma:non esser ella di alcun uso, sen za avvedersi, dice il
nostro filosofo e giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e
della pace egli stesso l'ammelte tacitamente; perchè in questo appunto il suo
uso consiste, che nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è
da più del primo. Ma bisogna un VICO per rilevar il merito dell’antica
giurisprudenza, e mostrare a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si
reggeva! Il diritto naturale primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni
diritto volontario; il diritto naturale secondario de costituisce la forma, la
quale ove manchi, il diritto volontario è nullo. Perciò Ulpiano define il
diritto civile: per quello che nè al tutto dal diritto naturale si diparte, nè
inlullo adesso si uniforma; ma in parle viaggiugne, inparte vitoglie. Il perchè
la mente della legge e la ragione della legge sono due cose distinte. Mente
della legge è il legislatore; ragione dalla legge è l'uniformità della legge al
fatto. Possono si mutarsi i fatti, e la mente della legge si muta; tutti può
essa utilità riuscire tal fiata per altri iniqua. equa, La ragione della legge
fa che ella sia vera; il certo della legge la fa vera in parte, e questa parte
di vero sapno propria i legislatori, per ottenere con l’autorità ciò che dal
semplice pudore degli uomini conseguir non possono; il che rende ragione della
definizione del diritto civile, lestè data da Ulpiano. Ond’è che in ogni
fiozione della legge, la quale si rapporta al diritto volontario, evvi due sono
quindi i fonti della giurisprudenza: laragio ne e l’autorità. Il vero e della
ragione, il certo dell’autorità; ma non può l'autorità opporsi in tutto alla
ragione, altrimenti le leggi non sarebbero leggi, ma si mostri di leggi. È
dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità, la qual, dettando una
utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della libertà e della tutela,
che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza per la quale è l'uomo
da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio sopra tutta la natura;
dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza del suo essere
s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura mortale si
difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità,
seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al
fatto non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però
si muta o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la
quale variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità
della legge al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo
aspello di vero, che rende certa la legge, m a non del tutto vera; perchè
qualche ragione non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela
Sviela ile; laditt Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il
diritto naturale na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente
dalla tulela, nacque il diritto delle prime genti, che può dirsi; Diritto della
violenza. Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in
diritto delle genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si
fondasse, e si stabilissero le leggi: motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio,
Marte, egli altri numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali
sichiamarono dei delle genti maggiori.Geoli minori si dissero quelle che furono
dopo fondale la città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono
quelli che vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi. Pare a
VICO che tale divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè
denominarono patriziï delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da
Romolo discesero, e patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine
da'padri coscritti. Il diritto delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto
della privata violenza, con che gli uomini, senz’alcun freno di legge,
toglievano con la propria mano, ed usucapivano; con la forza si difendevano; il
proprio uso o possesso rapivano, e con la privata forza ricupera vano. Perciò i
mancipii erano cose in realtà per mano tolte; i debitori neri veramente legati;
vere erano le mancipazioni, usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi
ne’rapimenti del possesso, come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non
già nella potestà de’ mariti, usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà,
la tutela ha origine dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato,
come Vico sostiene, si manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta
buona ragione asseriscano che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale!
per tre nolti continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di
unannonon passassero in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi
costar il vero della ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed
essere stale queste due cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la
libertà, la tulela in qualunque stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi
però notare che il diritto, come che risulti sempre da questi tre elementi,fu
non pertanto ne’ governi divini ed eroici più certo che vero; negli umani più
vero che certo.Or siccome col diritto delle genti m a g giori,senza alcun freno
di legge, lecose, come testè dicemmo, si usu capivano, con l’uso e con la per
pelua adesione del corpo si ollenevano, con la forza si riacquistavano, ed
accadevano per questa violenza frequenta risse ed uccisione; si riunirono in
ordini i padri di famiglia, e poco fidandosi, per la licenza che tra gli uomini
regnava, del loro nalural pudore, conservarono per sè soli la forza, e posero
termine ad ogni ulteriore disordine in avvenire. Da ciò nacque la potestà
civile; la quale poche cose pubblicamente trallava con la forza: le punizioni
cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad essa potestà soggetti, fossero nelle
lor pretensioni tranquilli, introdusse certa corporea forma alla materia da
lraltarsi in privato, e coosacrò certa formola di parola, alle quali uniformar
dovessero la loro ipfioila e svariata volontà i cittadini. la forza di questa
formola, di proposito e seriamente, non per frode o inganno, polevano essi
acquistare diritti, conservare le proprietà o in altri trasferirle, con le
quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di privato diritto. In tal guisa la
civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla via ogni in certezza per la
solennità de’ giudizi, riforma il costume, e distribui fra i cittadini la cosa
certa e civile, che in buona ed in gran parte ricuperarono il vero ed il
pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto naturale. Da questa
metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e della tutela, per la
quale il diritto da violento che era si trasmuta in moderato, ebbe origine il
diritto civile; e la patura medesima delle cose insegna essere ciò avvenuto a
ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori vennero sollo la potestà
civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del diritto naturala all’uomo,
dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori, coo che il padre,
posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la terza acquisizione
introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio, la libertà, la
tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il privato diritto
del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col quale le cose che
ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore si ripetono; alla
libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende; all’azione, che allro
non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita questa dottrine, volgiamo
da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani Quiriti, e le vedremo
mirabilmente confirmata. Chiama VICO il romano diritto un serioso poema
dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni, delle quali è
ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta il diritto
delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le
mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la
liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione
del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la
usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto
significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi,ma con
certo legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle
mani con una paglia, dellaper. Ciò da GELLIO festucaria. Pernon diral la fine
di tanteal tre, l’azione personale chiamata “condictio” non più e l’andar unito
il creditore al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice
denunzia. Le quali cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni
si crede il poeta il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e
di Anfione vero. Ella è questa, secondo VICO, l'origine ed il progresso
dell’universale diritto delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di
VICO stesso, in istretta amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente.
Parlando in fatti questo gran filosofo della giustizia universale afferma che
siccome la virtù universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza,
perchè si oppongano alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda
alla prudenza, alla temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità.
Impone alla prudenza, che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla
temperanza di non appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il
proprio diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto
più il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla
verità della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al
pudor della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer
anche meglio l’accordo della filosofia di VICO con la legge morale, basta
osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo
in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente
nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo VICO, una sola
virtù, e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica
difatli, che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come
l'architetto alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile
potestà, e comanda a latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre
sì, come particolare virtù, nell'animo del sapienle, c regola gli uffizi di
tutte le virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè,
risponde VICO, v'ha unica ragione che così della, unico vero bene, unica
giustizia, e unico diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle
d'accordo il principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso
lui adottata del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere
il primo nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della
ragione: se quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che
comanda o vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario
altra cosa non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere
il diritto civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa
le genti maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola
seguendo che quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto
certo, tullo proprio dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione.
Il diritto però di violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero
diritto stato della repubblica e della monarchia. Or, nel primo stato non altra
guida ha l’uomo che quella dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e
l'animale; ma non è questo certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama
ad un bene essenzialmente diverso da quello che dipender potrebbe dal solo
istinto. Dev’egli per sè stesso crear questo bene, e passare perciò dalla
servitù dell’istinto allo stato di libertà: a quella condizione cioè, per quale
ubbidirebbe invariabilmenle alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito
aveva all’istinto. Deve l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di
automa trasformarsi in essere morale, ed un tal passaggio deve menar lo
all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno di congiungersi condonna, e la
nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione, qualunque sia si ella
stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe egli con la compagna
che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere in entrambi una
nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del primo. La
soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra per
l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero
il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era
semplicemente materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor
coniugale che è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne
seguì, un terzo ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli
strinsero insensibilmente tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo
e Remo che non è punto interessato. Stretti altri uomini dal bisogno,
palleggiarono con questa prima famiglia di prestar l'opera loro, a vantaggio lo
tantocon l'avanzar de’lumitutt’il membro della citta si crede idoneo alle
funzione che prima da’ soli padri si esercilavano, e sursero allora la repubblica
e la monarchia, dove si ni in gran parte il certo dell’autorita,e comincia il
vero della legge. Sollo queste forme di governo lulla si spiega la moralità
dell’azione, perchè si dissero azione della stessa, per una convenuta mercede.
Surse allora la società tra padroni, dove il padre comanda al proprio figlio, a
questi famoli ancora; e tale società dal nome de’ famoli si appellò famiglia.
Dalla famiglia surse ben toslo un certo naturale governo. Stabilita l’autorità
paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto e sui famoli ha già il fanciullo
contratto l’abito di rispettare la volontà del genitore. Quando fatto grande,
il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i di lui figli onorar colui verso
il quale vedevano che gran rispetto porta il padre loro; supposero quindi
nell’avo un’autorità superiore a quella del proprio padre. E perchè l’avo in
ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo, un taluso, per più a poi
osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere sovrano su tutt’i membri
della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale, che lungi dal
puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a garenlirla e
consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità riunite, costitusce
la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i cittadini dovellero
amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a Romolo, il capo
delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della famiglia presta
all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di vera stima verso
gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado disinteressata. Ma
qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo VICO, nei quattro stati su indicati noo
altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di solitudine in fatti cerca egli
semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e fatti figliuoli ama la sua
salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile ama la sua salvezza con
la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri popoli ama la sua
salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace, alleanza,
commercio, ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano. L'uomo,
conchiude Vico, in ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il
perchè non da altriche dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar
con giustizia la familiare, l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle
soltanto che si facevano nell’interesse della morale, senza domandare
anticipatamente, seerano gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si
manifesta si ridusse ne’ goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che
propongono farsi la tal cosa o non farsi, e la volontà ne decide dietro la
legge della ragione, o è la ragione che prende l’iniziativa, e la volontà
ubbidisce, senza consultare il senso. governo. Così è, diciamo pur noi, ma
perchè l’utile che cerca l’uomo, tosto che si è reso superiore all’istinto, è
subordinato ro a quello della famiglia; secondo a quello della città; terzo
all’utile del paese; quarto all'utile di tutto il genere umano; l’utile che
cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati non èl'utile variabile, ma quelloche
è figlio dell’onestà, la quale, come Vico si esprime, talmente dirige e pondera
le cose utili che a tutti giovano egualmente. ma di Ma perVico, si torna a
dire, lulto questo è opera della provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro
però il diritto naturale del giurecosulto, di lunga mano di verso dal diritto
naturale del filosofo che alla norma della ragione eterna lo agguagliano
sempre. Ma essendo la repubblica degli ottimati quasi tutte ridotte in
democrazia o principali, le qualidue forme di governo vengono regolate più
secondo l’ordine naturale che secondo il civile; per queste cagioni venne a
rallentarsi la custodia del diritto delle genti maggiori più antiche, sul quale
diritto poggiavano sopratutto la re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di
quello stato la custodia delle palric consucludini. Vico della provvidenza è
l'umano arbitrio, che ha per regola la sapienza volgare, la quale è il senso
comune di ciascun popolo o nazione che dirige in società la nostra azione,
sicchè facciano acconcezza con ciò che ne sentono tuttidi quell popolo o
nazione. Quando poi le nazioni per commerci, per paci, per alleanze sono si
conosciute, la convenienza del senso comune de’popoli o nazioni tra loro, è per
Vico la sapienza del genere umano. Or, il senso comune di ogni popolo e di ogni
nazione, il quale deve dirigere in società la nostre azione, acciò si accordion
con tutto ciò che ne peosa il genere omano: che altro può esser mai se non è la
legge morale? per perciò VICO, seguendo GAIO, chiama diritto civile comu. de il
diritto comune di ogni popolo. Perchè GAIO, ove define il diritto civile, dice:
Ogni popolo che e governato da una legge e da una consuetudine, in parte si
serve del proprio diritto, in parte del comune diritto di lultigli uomini, e
ció per la divina provvidenza, che secondo la stessa opportunità delle cose lo
spiegò Ira la pazione separatamente, con la loro costumanza, per la
tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto spiegato con la comune
costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio, dalla libertà nacquero,
secondo VICO, tre pure forme dello stato. Quella DEGL’OTTIMATI, la regia, e la
libera. FONDAMENTO DELLO STATO DEGL’OTTIMATI È LA TUTELA DELL’ORDINE, con che
venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano gl’auspicii, il campo, la
gente, i connubî, i maestrati, gl’imperî, e presso legenti i sacerdoti. La
regia risplende pel dominio di un solo, ROMOLO, e pel sommo e formisura libero
arbitrio di esso solo in tutte le cose. La libera vien celebrata
dall’eguaglianza de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per l’eguale
adito a ogni onore, il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di essi
comanda un solo,o come vuole TACITO: uno essere il corpo della repubblica, e
doversi governare con l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però
inciascun politico reggimento colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo
del pari che l’unico non si può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati,
benchè sieno da quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro
diverse; tultavolta allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione,
la volontà, il potere risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale,
e costituiscono irë parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per
tanto è l’anima di ogni stato, perchè regna in quest’ordine il vero che
all’ordine delle cose corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il
quale non è ordine, ma sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale
dello stato, dove il prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille
ubbidisce: quali furono i primi principii dello stato, la famiglia, la
clientela, gli antichissimi stati degli ottimati pur ordine civile quello che
per volere della legge all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi
ordine politico, misto di civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati
il senato si compone de’ sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il
popolo viengo ver pato dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio
il principe ROMOLO si vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può
definirsi successione dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole
come per fede, diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di
ascendere ad onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene
promosso: di guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi
degl’inferiori e li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li
distinsero dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero
seguì il certo, il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle
cose, ma della parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura. Imperoc
chè I primi imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni
popolo passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel
lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella
casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende
sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome
però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion
naturale per le cause di certo diritto, così l'ordine civile per natura sua fa
parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza,
ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene
conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso,
altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre
una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte
falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La
parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i
suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere Ma
questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza de
un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual cosa
l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino
sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il
quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò
che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E
come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa
mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia
commossa da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e
quella del popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro
popolo, con particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria
uomini di chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi
cittadini. Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or,
la parola sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di
chi ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con
giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e
per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine
concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e
da GAIO DIRITTO COMUNE a tutti i popoli, altro non è ch e il diritto naturale,
il quale h aperto della parola, o che torna lo stess, non secondo il certo
della legge, ma giusta il vero della legge stessa, reggano gli stati. E perchè
la leggr in moltissimi casi mancano ed è necessaria l’interpretazione che a la
deficienza supplisca; può accader ancora che sollo la stessa autorità del
diritto non solo qualche volta per ignoranza si erri, ma la stessa legge con
frode si eludano. Più felice dunque e quello stato, nel quale il civile ordine
e misto più secondo il naturale ordine o secondo l'ordine del vero che secondo
l’ordine del certo. Quindi ove si conservino la legge imposta dall’ordine, e
mollo più gli Ordini che le leggi si cuslodiscano, verranno gli Stati
conservati. Ma se le leggi mancano, gli stati rovinano. Perciòsiamo servi della
legge, diceva Tullio, per poter esser liberi. Convertendo dunque la massima si
dirà pure con verità: se ci libereremo dalla legge, saremo naturalmenle servi.
la legge morale; perchè, secondo Vico, non può darsi diritto senza morale.
Iolanlo è da nolarsi diligentemente che VICO distingue il diritto io diritto
vero, e diritto certo. Quello è per la ragione, questo per l'autorità. Il primo
dirige l'uomo libero, il secondo l'uomo che più della liberlà segue l’istinto.
Or cgli è evidente che negli stessi umani governi la più gran parte degli
uomini, tenendo più all’istinto che alla libera elezione, si lascia più
facilmente guidare dall’altrui autorità che dalla ragione. Di qui la necessità
di un diritto misto, secondo le esigenze de’ popoli e le diverse forme di
governo. Ma da ciò non segue che coloro i quali con la loro autorità oe
fondamento impongodo a’ popoli, essendo essii più sapienti, i più prudenti,
come vuole VICO, non si propongano per i scopo il diritto vero e che non sieno
al caso disco prirlo, senza darsi gran pena. La destinazione infalli del l'uomo
non può dipendere dall’istinto, e tosto che l'uomo si conosce libero e la sua
ragion consulta, questa gli ordina di conservarsi e di perfezionarsi: di essere
cioè savio, moderato, prudente; di collivar l’intellelto, e nel tumulto de’
sensi e degli affetti di cautelare la volontà: nel che propriamente consiste la
libertà dell'uomo interiore. E perchè egli scopre in altri esseri, a lui
simiglianti, la stessa attività libera, gli considera tutti eguali, e tale
scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di lasciar i suoi simili nella loro
indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso giudica di non aver diritto su
di ciò che è stato da altri prima di lui occupalo, e ciò che ha egli occupato
il primo, giudica che a lui spella solamente, nel che sla il dominio. Di qui
reciprocità del diritto e del dovere; di qui l’origine della giustizia che
gareolisce la proprietà. Tulli gli anzidelli del diritto e del dovere, perchè
fondati sulla libertà, sul dominio, e sulla tutela, o che lorna lo stesso,
sulla natura dell’uomo, stanno per sè, prima che l’uomo entri con altri in
società. La legge non li creano, perchè già erano prima della legge. Questa non
altro fanno che conservarlo. Lo stesso diritto e lo stesso dovere servono di
fondamento alla società, che il legislatore non crea ma dirige, perchè la
società già era, quando il governo non era ancora. La libertà del diritto, dice
VICO, fuprim a ch e si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il dominio
con la divisione de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di operare
infine nacque tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che, ammellendo
Vico nell’umana mente al cuni semi del vero che con l'andar del tempo si
sviluppano in cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che tratto tratto
si spiega la massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli in gran parte
seguace di Platone intorno all’origine di quella verità che si dice necessaria.
Or tale verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche ed una pratica,
diciamo, che rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il quale per un alto
di spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione, appoggiato alle
quattro idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di cagione, riduce
all’unità tutto il vario della rappresentazione che a lui offer il senso.
Riguardo poi alle verita pratica, essendo elleno legge pratica o comando di
fare, si contiene in una massima universalisabile. Quando ti determini
all’azione, esamina te stesso e vedi se la tua volontà sia di accordo con la
volontà generale di ogni persona. Una tal massima universalisabile è la suprema
legge della morale. Che che sia però della filosofia di Vico, a noi basta di
aver provato che le due sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial la
legge morale, la confermano mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre elementi
del diritto; tre elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non può
avervi diritto senza morale. La filosofia perciò di VICO si accorda
perfettamente con la morale. All natios bostna viSing to
derive merit from the splendonr of their original. And irhere history ii uleot,
they fueiuenJiy anpply the defect with fable, THE ROMANS were particnlaHy
dcH^OB of being thought DESCENDED FROM THE GODS, m if to hide the meaaDess of
their real ancestry. Mueas, the Bon of Veona AocUaei. having escaped ftvm the
deitniotioii of Ttey, after'11MU17 adventures and dangers, atrived octet a in
Italy, where Aeneas was kindly received by Latinus, king of the latins, who
gave him his daughter Lavinia in marriage. Italy was then, as it is now,
divided into a number of small states, independent of each other, and
consequntly subject to frequent contentions among themselves. Turnus, king of
the Rutnti, is the first who opposes Aeneas, he having long made pret^uions to
Lavinia himself. A war ensues, in which the Trojan hero is victorious, and
Tornus sfadn. In consequence of this, Aeneas built a city, which was eded
Lavimnm, in honour of his wife, and some time after, engaging in another war against
Hezentius, one of the petty Ungs of the country, he was vanquished in turn, and
died in battie, after a reign of four years. Ascanius, his son, succeeds to the
kingdom, and to him Silvius, a second son, ^lom be had by lAvioia. It would be
tedious and unninterealing to recite a dry catalogue of the kings that
followed, and of whom we know little mtae than the names. It will be sufficient
to say, that the sacoesnoD coatiDiied for near four hundred years in the
family, and that Numitor, the fifteenth from Aeneas, is the last king of Alba.
Numitor, vho took posseBsitHi of the kingdom in consequence of his father's
will, had abrpther named Amnlius, to whom are left the treasures which had been
brought from Troy. As riches but too generally prev^ against right, Amolins
made use of his wealth to supplant his brother,a nd aooo foDod means top ossess
himself of the kingdom, ot content with the crime of usurpation, he added that
of murder also. Nnmitor's sons first fell a sacrifice to his suspicions, and to
remove all apprehensions of being one day distorbed in his ill-gotten power, he
caused Rhea Silvia, his brother's only daughter, to become a vestal virgin,
which office obliging her to perpetual celibacy, made him less uneasy as to the
claims of posterity. His precautions, however, are all frustrated in the event;
for Rhea Silvia, going to fetch wator frqip a Qeighbopring grove, was met and
ravished by a man, whom, pei^tqw to palliate her offence, she avers to be
MARTE, the god of war. Whoever this lover of hers was, whether some person had
deceived her by assuming so great a name, or Amnlins himself, as some writers
are pleased to a£Srm, it matters not.Certain it is, that, in due time she was
broug:lit to bed of two boys, who were no sooner bom than devoted by the
usurper to destmction. The mother is condemned to be buried alive -the usual
punishment for vestals who had violated their chasti^, and the twins are
ordered to be flung into tbe riverTiber.It happens, however, at the time this
rigorous sentence was put into eieculion, that the river had more than usually
overflowed its banks, so that the place where the children are thrown, being at
a distance from thei main cnirent, the water is too shallow to drown them. In
this ntoation, therefore, they continued without harm; and that no part of
their preservatioD might want its wonders, we are told, that they were for some
time suckled there by a wolf, until Fanstulos, the king's herdsman, finding
ihem exposed, brought them home to Acca Laurentia, his wife, who brought them
up as her own. Some, however, will have it; that the nurse's name was Lupa,
which gave rise to the stoijr vt their being nouriihed by a wolf; but it is
needless to vfad Do,l,,-cdtyS oirt a iwglH MBpg«b«ba% fian 'venevntB vbtfe die
vkote « omgrowB with ftUe. Boraoloa and Bemna, Ae twins thtu strangely
prcwcved. Memed eariy to diacover afai)iti«i uid desiret above the me«i- noH of
thor aapposed origiiuL The ahepkenl's life be^an to di^leaae them, aod fnaa
tending the flock, or hantiag wild beasts, they soon tnmed their strength
agsinst the robben lonnd the eonntry, whom they efien atfipt of their [daader
to share it among their feUew-shepherds. In one of these ezcmnons it was that
Remus is taken priaoner by Nvmttor's berdsmen, who bring him before the king,
and aoensed him of the very crime which he bad ao t^tea attempted to sappresa.
Bomnlaa, bowerer, beii^ informed 1^ FaiiBtaliu of his real birth, was not
remisa in assembling ft munber of hia fbllow^epherds, in order to resooe bis
brother from posoD, and foroe the kingdtmi from tbe bands of tbe nsnrper. Yet,
being too feeble to act openly, he direcs bis followers to assemUe near the
place by different ways, while Beniiis with eqnal vigilaooe gm&ed npon tbe
dtiuua within. AmalioB, tfans beaet on all sides, and not knowing iriiat
expedient to thinkof for bit seoiuity, was,daring hia amasenent and
distraotion, taken and daio, while Numitor who had been deposed forty-two
years, recognised bis grandscns, and is restored to the throne. Nnmitor being
tints in qvet posiewion of the kingdom, hot grandaou resolred to bnild a eify
npoo those hills whoe they had formerly lived as aheiriierda. The king had too
many oUigations to them not to approve their des^; he appointed tbem lands, and
gave pennisnoB to .snoh of hia subjects a» thoo proper to settie in their new
colony. Many of the neil^draariiig shejdierda also, and sncb as were fond of
change, lepabed to the intended dty, and prepared to raise. For the more speedy
oarrybg on this work, the people were divided into two parts, each of whioh, it
was sapposed, woidd indoatriondy emnlate the otfaer. Bat what was designed fi»
an advantage proved nearly fatal to this infimt oolony: it gives birth to two
factions, one preferring Romulus, the other Remus,who themselves arenot agreed
upon the spot where the city shonld stand. To terminate this difference, they
are recommended by the kingto take an omen from the flight of birds; and that
be, whose ome should be most favoorable^ afaonld in all reepeots direct die
odier. In ooatflSaaoe wiOl this advice,thej both take their stations npon
diffra«nt hilk. To Remus appear six vultures, to Romulus, twice that number, to
ttwt each party thongfat itielf viotoriovi, the one tiaviog the *first* omen,
the other the most nnmeroiu. Tbifl prodnoed a contest, whitdi ended ui a batde,
wherein Bemoa is slain, and it is even said, that he was kiUed by his brother,
who, facingprovoked at his leaping contemptnoasly over the city wbU, itrack him
dead upon tbe qrat, at the same time proKssio^, that nooe shonld ever inanlt
his walla withim punity. Romoltu, being now sole coHunuider, and eighteen yean
of age, b^an the fonndation of acity, that was one day to give laws to the
woild. It was called Rorne after the uaaie of the founder, and bnilt npon the
Palatine hill, on which he had taken lus ancceflsfol omen. The city was at
first almost square, oontaining «bont a tlwiisand houss. It was near a mile in
compass, and commanded a small territory ranod it of about eight miles over.
However, smallas it appears, it was, ootwithstandiiy, vone inhabited; and the
first method made uae of to increase its numbers vaa the opemng a sanctosry for
all male&otors, slaves, aod snch as wm« desirons of novelty. These came in
great multitudes, and cootibated to increase the number of our legtslatoi'B new
subjects. To have a just idea ther^re of Rome in its infant stale, we have only
to iwsgine a coUec- tion o( cottages, sairotinded by a feeble wall, rather
built to serve as a military retreat, than for the purposes of civil >o- cie^,
rather filled with a tnmoltuoas and vicious rabble, thaD with subjects bred to
obedience and control.We have only to conceive men bred to rapine, Iwing in a
place that merelj seemed calculated for the security of plonder; and yet, to
our astonishment, we shall soon find this tumulbioas coocouise unit> ingin
the strictest bonds of sode^; this lawless rabble putting OB the most sincere
regard for religion; end, thouf^ composed of the dr^s of mankind, setting
examples, to all the worid, of valour and riitne. Doiii,,ih,. WWLOU SoARGB mm
tbe city rnsed abore iti &niid«tioB. vhen Hs rade mhalulsBtB hegaa to
tfauik of gmag some fonn to their. MoslitBtioii. Their first object was to
unite lifoer^ and empire; to fonn a kiod of mixed monncby, by irfaicfa all
power vw to be dividad between the prince and the peopte. Bo- nlna, by an act
of great geoeromtf, left them at liberty to dwose whom they wonld for dieir
king, and tliey in gnrtitiide eoBcmred to elect their founder; be was
accordingly acknowledged as chief of dieir religion, sovereign magistrate of
Rorne, md geoeral of Ae army. Beside a guard to attend his person, it was
agreed that he should be preceded wherever be went by tweW e mCT, armed with
axes tied op in a bnadle of rods, who were to serve as execntioners of the law,
and to impress hii new subjeots with an idea of his authority. Yet stUl tUa
aKiboriQr was ondw very great restriotii»ig, as his whole power CMisisted in
caQing the THE SENATEsenate togedier, in assembling the peo tMibstont and
fierce as the first Romans, it was wise to enforce obedience t &6 most
reqnidte dnty. lie first care of the new-created king is to attend to the
interests of religion, and to endeavour to hnmantse his subjects, by the notion
of other rewards and pnnishnients than diose of hnman law. The precise form of
their worship is nn- known; bat die greatest part of the religion of that age
con- siMed in a firm relianoe upon Ae credit of their soothsi^ers, irito
fvetended, from observations on the flight of birds and the entrails of beasts,
to direct the present, and to dive into fntmrity. This pioos fhrad, wbich first
uvse from ignorance, soon became a most usefnl machine in the hands of
government. Romnlns, by an express law, commanded, that no election should be
made, no enterprise undertaken, witfa- flat first conaolting die soothsayers.
With equal wisdom he ordained, that no new divinities should be introdoced into
pnhlic worship, that the priesthood should continue for fif, and that Aone
shonM be elected into it before the age of fifty. He fort>ade them to mix
fable witb the masteries of their reUgion; And, timt they mi^t be quaKfied to
teach others, he ordered Aat tiiey should be tiie iHstoriographns of tiie
times; so tiia^ while instructed by priests Bk^ these, the people cordd never
degenerate into total barbarity. Of his other laws we have but few fragments
remmnii. In these, however, we learn, that wives were forbid, upon any pretext
whatsoever, to separate from tbeir husbands; wUle, on the contrary, the husbaod
was empowered to repudiate the wife, and even to put her to death with the
consent of hef retatioQB, inc ase she was detected in adultery, in attempting
to poison, in making false keys,. or even of having drunk too much vine. His
laws between children and their parents w«'e yet sdll more severe; the father
had entire power over his offspring, both of fortune and fife; he conid ell
them or imprison them at any time of their lives, or in any ttations to which
they were arrived. The father might expose his clnldren, if bom witii any
deformities, having previoasly eommunicated bis intentions to his five next of
kindred. Our lawgiver seemed moze kind even to his enemies, for his
subjectswere prt^hited from killing them after they bad surren- dM«d, m even
from sdling them: his ambition only aiaied at .,Coo many endeaToiiTs to
inoraase bia BnbjeotBi aad m mmy Inra to r^nlate them, he next gave ordeis to
ascertna tbeir numbers. Tbb whole amoanled bat to three tbooMnd foot, and about
as many bnndred horsemen, capable of beari^ arms. These, therdbre were divided
equally into three tribes, and to each he asiigaed a different part of the
taty. Each of these tribes were sabdivided into ten cmin or compame, consiBting
of an hundred men each, with a oentnrioB to command it, a priest c^ed curio to
perform the sacrifioes, and two of the principal inhatntants, called duumviri,
to distribute jnstioe. Aocordijigly to the number of ooriv he divides the lands
into thirty parts, reserving one portion for public uses, and another for
religiaus ceremonies. Tbo «m- phaty and fingality of tha times will be best
iindeistood by observing, that dach citizen had not id>ove two ictea of
ground for his owB subsistence. Of the horsemen mentioned above, dtere were
chosen ten from eei^ curia; tfaey were particularly appointed to fi^t round the
person of the king; of them hU gaud was composed, and from tbeir alacrity in
battle, or fhuB the >ame of their first commander, ^ey were called ceUrat, a
word equivalent to our light horsemen. A goremmcot thus wisely instituted, it
may be suppoaed, nduced numbers to come and live under it: each day added to
its strength, maltitudes flocked in from all the adjacent towns, and it only
seemed to waqt women to ascertain its duration. In this exiaeiatx, Romulus, by
the advice of the senate, sent deputies among the Sabines, his neighbours,
entreatingtheir alliance, and upon these terms- ofiering to cement the most
strict confederacy with them. The Sabines, who were then considered as the moat
warlike people of Italy, r^ected the proposition with disdain, and some even
added raillery to the refusal, demanding, that as he had opened a sanctuary for
fugitive slaves, why he had not also opened another for prostitute women. Tbis
answer quickly raised the indignation of the Rpmans; and the king, in order to
gratify their resentaient, while he at the same time should people hb ci^,
resolved to obtain by force what was denied to intrea^. For this purpose he
proclaimed a feast, in honour of N^tane, diron^ut all the nMghboitring villagea,
and made the meet KAPB OF THK BABINBS. t mmgaiAMat pnftamtkmi for it Tbets
feuta wen guan^ preceded by sacrifices, and ended in shows of wreeden, ^ft-
diaton, and chariot-^onrses. The Salnnes, as he had expected, were among the
foremost who came to be spectalon^ fannging their wives and daughters with them
to share t^ pkasore of the sight. The inhabitants also of maaj of tht
ueig^hoariDg to^os came, who were received by the RomaM with marks of the most
cordial hospitality. lo the mean time the games began, and while the strangers
were most intent upon the spectacle, a number of the Roman yonth rushed la
mnoag them wiUi drawn swords seized the yotingedt and meet beaatilid women, and
earned them off by violence., In vain the parents protested against this bre&cfa
of hospitali^; in vain the virgins themselves at first opposed the attempts of
th^ raviBfaers; perseverance and caresses obtained those &• TOWS which
timidi^ at firstdenied: so that the betrayera, frma being objects of aversion,
soon became partners of their dearest affections. But however the afiront might
have been botne by them, it was not BO easily pnt up by their parents; a bloody
war ei^ sued. The cities of Cenioa, Antemna, and Cnutuminm, wen the &at who
resolved to revenge the common cause, which the Salnses seemed too dilatory in
pursuing. These, by making aeparate inroads, becamea more easy conquest to
Romulus, who first ovothrew the Ceoinenses, slew dieir king Acron in sio
combat, -and made an offering of the royal spoils to Jupiter Feretrius, on the
spot where the capitol was afterwards built The Antemnates and Crustuminians
shared the same. fate; their armies were overthrowu, and their cities takes.
The conqueror, however, made the most merciful use of las victny; for instead
(rf destroying their towns, or lessemi^l tbent nnmbeis, he only placed colonies
of Romana in them, to. serve as a frontier to repress more distant
invasions.Tattos, king of Cures, a Sabine city, was the last, althou^ the most
formidable who undertook to cevuige the disgrace his country had suffered. He
entered the Roman territoriea at the head of twenty-five thousand men| and not
content with a superiority of forces, he added stratagem also. Tarpeia, who was
daughter to the commander of. the Cajutolme hill, happened to &11 into his
hands, as she went without 4>e walls of the city to fetch water. Upon her he
prevailed, by meant of hrga pttuSaet, to bebrajr aae of the ^^ates to his army.
Tlie i«<irwd she eagdgei for was vfaat the soldiers wore on their atteB, by
vfaich the meaot their bracelets. They, however, cotber miataking^ her meaning,
or wiUing to panish her peifidy, ttvew tlieir bncklera upon her as they
entered, and crushed ber to death beneath them. The Sabines, being thus
possessed of the Capitoline, had the advantage of continning the War at tbeir
pleasure; and for some time only slight enconnters passed between them. At
length, however, the tedionsness of this contest began to weary out both
parties, so that each wished, but neither would stoop to sue for peace. The desire
of peace ofteii gives vigour to measures in war ; wherefore boUt sides
resolving to terminate their doubts by a detMsive action, a general engagement
ensued, which was renewed for several days, with almost equal success. They
both fon^t for all that was vEduable in life, and neither could think of
submitting: it was in the valley between the Capitoline and Qui- rinal hills,
that the last engagement was fought between the Romans and the Sabines. The
engem«it became general, and the slaughter prod^ioua, when the attention of
both sides was suddenly turned from the scene of horror before them, to (mother
infinitely more striking. The Sabine women, who h^ been carried off by the
Romans, were seen with their hair loose and iheir ornaments neglected, fiying
in between tbe combatants, regardless of their own danger, and with loud
outcries only solicitous for that of their parents, their husbands, and their
cUIdren. " If," cped ihey, " you are resolved upon daughter,
turn your atma upon us, since we only are the cause <tf your animosity. If
any must die, let it be us; since if oar parents orour husbands faU, we must be
equally miserable in being the surviving cause." A spectacle so moving
could not be resisted by the combatants; both sides for a wtiile, as if by
mutual impulse, let fall their weapons, and beheld the distress - in silent
wnazement The tears and entreaties of thdr wives and daughters at length
prevaUed; an accommodation ensued, by which it was' agreed, that Romulus and
Tatius should t«ign jointly in Rome, with equal power and prerogative; diat an
bailed Sabines should be admitted into the senate; that the city should still
retain its farmer name, but that As citizens should bctdled Qnirites, after
Cures, the principal town of the Sabines; and that both nations being thus
united. 11 •aoh of the Sabtees u i^ose it shoiM be sdnAted to Bniad eDJoy all
the privilegea of citizens oi Rome. llaH erery •torm, vhich seemed to threateo
this growing empire, only served to increase itvigour. That army, wfaich in die
mondug had resolved upon its destruction, came in the evetlin^ with j(^ to be
enrolled uiDoag the number of its ctttzens. RomfoloB saw his dominions and his
sul^ects increased by more then half in the space of a few hours; and, as if
fortune meant every way to assist his greatness, Tatins, his partner in the
govem- ment, was killed about five years after by the Lavinians, for having
protected some servants of his, who had plundered them and slain their
ambassadors; so that by this accident Romulus once more saw himself sole
monarch of Rome. Rome being greatly strengthened by this new acquisition of
power, began to grow formidable to her neighbours ; and it -aiay be supposed,
that pretexts for war were not wanting, when prompted by jealousy on their ride,
and by ambition on that of the Romans. Fidena and Cameria, two oe^hbonring
cities, were stibdoed and tAken. Veii also, one of the most power Ail states of
Etruria, shared nearly the same fate; after two fierce engagements tiiey sued
ftM* a peace and a league, which was granted upon giving np the seventh part of
tbev dominions, their salt-pits near the river, and hostages for greater
security. Successes like these produced an equal share of pride in the
oonqneror. From being contented with those limits which had been wisely fixed
to his power he began to affect absolute sway, and to govern those laws, to
which he had himself formerly professed implicit obedience. The senate was
particularly displeased at his conduct, finding themselves only used as instrom^its
to ratify the rigour of his commands. We are not told the precise manner which
they made use of to get rid of the tyrant: some say that be was torn in pieces
in the senate botise; otiters that he disappeared while reviewing his army:
eertain it is, that from the secrecy of the fact, and the concealment of the
body, tbey took occasion to persuade the multitude, that he was taken np into
heaven; thus him whom they oonld not bear as a king, tbey were contented to
worship as a god: Romnlns reigned tlnrty-seven yean, and after his death bad a
temple built to turn under the name of Quirinus, one of the Hwrton wilwMly
vffiiniaff, that be had appeared to hm, and desired to be isTtAed by that tide.
We see little more in the obaraeter of this princ, than vhat mi^t be expected
in andk an a^, great temperance and great valour, wbich generally make np the
catalt^e of sar^^e virtues. Howeva, the gnndenr of an empire, admired by the
whole irorid, creates in u an adnuration of tiie founder, viftoat mnch
raamimng' hia. Grice: “Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s
easy enough to check his references to other Italian philosophers – not just
Vico, as I have done – but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero –
and perhaps more importantly his influence on the so-called Neapolitan
Hegelians!” -- Ottavio Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi,
Cacciatore, Macchiaveli, Lazio, Romolo e Remo, Kant, categoric imperative,
massima, first-hand knowledge of Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico –
il kantismo di Colecchi – l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario
kantiano in Colecchi – analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio
necessario – Romolo e Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno,
Giove, etimologia di Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di
Roma, diritto romano, psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto,
la passione, la ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione,
l’agire como reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la
rifutazione di Vico all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di
Bentham, lo caduco e lo no caduco, ius naturale, ius artificiale, ius como la
virtu unica, giustizia equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia
distritutiva, l’ordine aritmetico e l’ordine geometrico – progression
arimmetica, progressioe geometrica, la base matematica della filosofia di
Colecchi, l’amore, amore interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo,
padre e figlio, uomo come cittadino, il genere umano, la massima
universalisabile, l’onesto, fortezza, prudenza, toleranza, virtu, vizio, il
vero versus il certo, la nascita della morale dal ordine agglomerazione
sociale, la potesta naturale, il dominio, la tutela, la liberta, libero
arbitrio e passione, autorita e ragione, forza, autorita e raggione, l’ubbidenza
che il figio mostra al padre, il ruolo dell’avo, la societa di equali, il
modello della societa romana antica, la societa dell’amicizia, Eurialo e Niso,
L’Enneada, la lingua del contratto come requisite del patto sociale, la parola
e il concetto, la formola della parola, verbum/res, res pubblica, communita,
diritto comune, bene comune, l’ordine: primo stato dell’uomo in solitudine,
l’ordine della famiglia: societa di inequali, padre/figlio, terzo stadio: la
tribu di Romolo, la citta di Romolo, il paese di Romolo, il genero umano,
diritto universale di Vico e Kant, Hampshire on Vico. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Colecchi” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Colletti:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei curiazi,
ovvero, politica romana – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Colletti
– he takes political philosophy seriously unlike we of the Lit. Hum, not PPE
school, at Oxford! But then he is a Roman and has all the Orazi and Curiazi
traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a Roma. “Partito Socialista
Italiano”. Altre saggi: “Il marxismo e Hegel, in Lenin, Quaderni filosofici,
Milano, Feltrinelli, Ideologia e società, Bari, Laterza, Il marxismo e Hegel,
Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, e con Claudio
Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista politico-filosofica, con un saggio su
Marxismo e dialettica, Roma-Bari, Laterza, Il marxismo e il "crollo"
del capitalismo, a cura di, Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo e no, Roma-Bari,
Laterza, Tramonto dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a oggi; Dialettica e
non-contraddizione; Kelsen e il marxismo], Roma-Bari, Laterza, Crisi delle
ideologie. Intervista politico-filosofica, Il marxismo, Le ideologie dal '68 a
oggi, Milano, Club degli editori, Pagine di filosofia e politica, Milano,
Rizzoli, La logica di Benedetto Croce, Lungro di Cosenza, Marco, Fine della
filosofia e altri saggi, Roma, Ideazione, Lezioni tedesche. Con Kant, alla
ricerca di un'etica laica, Roma, Liberal, È morto C. voce "contro" di
Forza Italia, su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo Parlamentare di Forza
Italia, Ricordo di C., Roma, Stampa e servizi, Orlando Tambosi, Perché il
marxismo ha fallito C. e la storia di una grande illusione, Milano, Mondadori,
Ministero per i beni e le attività culturali, C.: il cammino di un filosofo
contemporaneo, Roma, Essetre, Pino Bongiorno, Ricci, C. scienza e libertà,
Roma, Ideazione, Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, Manifesto libri.
C., LaTreccani L'Enciclopedia Italiana. C.
su Camera XIII legislatura, Parlamento italiano. Lucio Colletti, su CameraXIV legislatura,
Parlamento italiano. La storia di C. di Preve, nel sito Kelebek Roma. Partito
Comunista Italiano” Forza Italia”. Il saggio di C. Marxismo e dialettica fu
scritto «a chiarimento di alcuni temi toccati» nell’intervista apparsa sulla
“New Left Review”, e pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista. Più
esattamente Colletti si propone di chiarire la «differenza tra opposizione
reale (la Realopposition o Realrepugnanz di Kant) e contraddizione dialettica. Si
tratta di opposizioni radicalmente diverse: la prima è «senza contraddizione
(ohne Widerspruch)», la seconda è «per contraddizione (durch den Widerspruch). La
opposizione dialettica è espressa dalla formula A non-A, nella quale ciascun
opposto è solo la negazione dell’altro, ma non è niente in sé e per sé. I poli
dell’opposizione sono cioè ambedue negativi, più esattamente ciascuno è la
negazione dell’altro, ma solo all’interno dell’unità con l’altro. Quindi
«entrambi gli opposti sono negativi, nel senso che sono ir-reali, non-cose
(Undinge), ma idee». Ciascun opposto ha la sua essenza fuori di sé, nell’altro
di cui è la negazione. L’origine dell’opposizione dialettica, e della stessa
dialettica, è platonica: l’unità degli opposti è la koinona ton genon.
L’opposizione reale è espressa dalla formula A e B, nella quale ciascun opposto
sussiste di per sé, è positivo, e perciò è esclusivo dell’altro. La cosa più
importante è che Biscuso. Opposizione reale, contraddizione logica e
contraddizione dialettica 4 «nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà
(Gegenverhältnis), gli estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga
indicato come il contrario negativo dell’altro. Questo accade ad esempio quando
ci rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione
contraria: il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo
qualcosa possiamo rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di
contrarietà che è l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso
che uno dei due termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè
come non-essere». Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il pdnc,
proprio perché sono senza contraddizione (dove è già implicito, come sarà
confermato in seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il marxismo
non ha mai avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi generi di
opposizione, e non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con sufficiente
rigorosità il suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la dialettica
delle idee è al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso preciso che
è impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si presta
attenzione, si vede subito che il rapporto finito-infinito, essere-pensiero,
segue il modello della contraddizione A non-A. Fuori l’uno dell’altro, cioè al
di fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi astratti, irreali, e
l’unità che include il finito e il falso infinito (falso perché altrettanto
finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al finito) è l’Idea, il vero
infinito. Dunque, commenta C., «dov’era la cosa è ora subentrata la
contraddizione logica (– si badi bene: contraddizione logica e non, come ci si
attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il «dramma del marxismo» è aver
«ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana della materia, scambiandola per
una forma superiore di materialismo. Dramma, perché quella dialettica era
volta: a) alla distruzione del finito, b) alla negazione del pdnc; cioè proprio
a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi da cui si deve necessariamente
muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul pdnc, «è il solo modo di
apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo). Avvertiti di questa
difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni marxisti polacchi e tedesco-orientali
cercarono di mostrare che «ciò che i “materialisti dialettici” presentano come
contraddizioni nella natura sono, in realtà, contrarietà, cioè opposizioni ohne
Widerspruch; e che, dunque, il marxismo può benissimo continuare a parlare di
conflitti e di opposizioni oggettive, senza, per questo, essere costretto a
dichiarare guerra al principio di (non-)contraddizione e mettersi così in rotta
con la scienza. Tali risultati convergevano con quelli della ricerca di Volpe:
a costo di liquidare gran parte dell’opera filosofica di Engels in quanto fonte
del Diamat, sembrava però legittimarsi l’aspirazione del marxismo a costituirsi
come la fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società. In
realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a che fare
con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione
dell’astratto, filosofia-italiana.net l’inversione di soggetto e
predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della
logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava nella
struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa. Vi sono
dunque «due Marx» (99): lo scienziato dell’economia politica e il critico
dell’economia politica. Questo significa riconoscere i limiti della stessa
lettura dellavolpiana, che condivide con molte altre letture marxiste il
difetto di non cogliere le due facce del pensiero di Marx. «Quando il marxismo
è una teoria scientifica del divenire sociale, è tutt’al più una “teoria del
crollo”1, ma non una teoria della rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria
della rivoluzione, essendo solo una “critica dell’economia politica”, rischia
di risultare il progetto di una soggettività utopica. Dunque per lo stesso Marx
le contraddizioni del capitalismo sono non opposizioni reali, bensì
contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola. Da un passo delle
Teorie sul plusvalore (la possibilità della crisi è la possibilità che momenti
che sono inseparabili si separino e quindi vengano riuniti violentemente) C.
conclude che i poli dell’opposizione, separandosi, si sono fatti reali, pur non
essendolo veramente: «sono, in breve, un prodotto dell’alienazione, sono entità
per sé irreali seppur reificate. Teoria dell’alienazione e teoria della
contraddizione, dunque, come una sola e identica teoria. la contraddizione
nasce dal fatto che l’aspetto individuale e quello sociale del lavoro, pur
essendo intimamente connessi, si danno un’esistenza separata. È la
contraddizione di individuo e genere, di natura e cultura, già rilevata dai
maggiori analisti della società civile borghese del Settecento. «La società
moderna è la società della divisione (alienazione, contraddizione). Ciò che un
tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È rotta l’“unità originaria”
dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo, dove l’unità, essendo data, non
deve essere spiegata, mentre è da spiegare la divisione. «Seppure modificato,
riaffiora lo schema della filosofia della storia di Hegel. E questo, ci si
scopre essere il secondo volto di Marx, accanto a quello dello scienziato,
naturalista e empirico. Hegel versuchte, um die von ihm vertretene Dialektik
(im Sinne einer Lehre von den Gegensätzen in den Dingen) durchzusetzen, die
Logik in einer Weise zu erweitern (sog. dialektische Logik), die den Satz vom
Widerspruch außer Geltung setzt. Damit versuchte Hegel, die Kantische
Widerlegung des sogenannten Dogmatismus in der Metaphysik zu umgehen. Der
Wissenschaftstheoretiker Karl Popper kommentiert: „Diese Widerlegung Kants
betrachtet Hegel als gültig nur für Systeme, die metaphysisch in seinem engeren
Sinne sind, jedoch nicht für den dialektischen Rationalismus, der die
Entwicklung der Vernunft berücksichtigt und deshalb Widersprüche nicht zu
fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische Kritik in dieser Weise umgeht,
stürzt er sich in ein äußerst gefährliches Abenteuer, das zur Katastrophe
führen muss; denn er argumentiert etwa folgendermaßen: ‚Kant widerlegte den
Rationalismus durch die Feststellung, er müsse zu Widersprüchen führen. Dies
gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses Argument seine Stärke aus dem Gesetz
vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur solche Systeme, die dieses Gesetz
akzeptieren, also solche, die beabsichtigen, frei von Widersprüchen zu sein.
Das Argument ist nicht gefährlich für ein System wie das meinige, das bereit
ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für ein dialektisches System.‘ Es
besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen Dogmatismus von äußerst
gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der keinerlei Angriff mehr zu
fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie]. Denn jeder Angriff, jede
Kritik irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode stützen, irgendwelche
Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie selbst oder zwischen einer
Theorie und irgendwelchen Fakten. Logisches Quadrat Das logische Quadrat
Unter der Voraussetzung, dass ihre Subjekte keine leeren Begriffe sind,
bestehen zwischen den unterschiedlichen Aussagentypen verschiedene
Beziehungen: Zwei Aussagen bilden einen kontradiktorischen Gegensatz
genau dann, wenn beide weder gleichzeitig wahr noch gleichzeitig falsch sein
können, mit anderen Worten: Wenn beide unterschiedliche Wahrheitswerte haben
müssen. Das wiederum ist genau dann der Fall, wenn die eine Aussage die
Negation der anderen ist (und umgekehrt). Für die syllogistischen Aussagentypen
trifft das kontradiktorische Verhältnis auf die Paare A–O und I–E zu. Zwei
Aussagen bilden einen konträren Gegensatz genau dann, wenn sie zwar nicht beide
zugleich wahr, wohl aber beide falsch sein können. In der Syllogistik steht nur
das Aussagenpaar A–E in konträrem Gegensatz. Zwei Aussagen bilden einen
subkonträren Gegensatz genau dann, wenn nicht beide zugleich falsch (wohl aber
beide zugleich wahr) sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar
I–O in subkonträrem Gegensatz. Zwischen den Aussagetypen A und I einerseits und
E und O andererseits besteht ein Folgerungszusammenhang (traditionell wird
dieser Folgerungszusammenhang im logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus
A folgt I, d. h., wenn alle S P sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P
sind; und aus E folgt O, d. h., wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich
S, die nicht P sind. Diese Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter
dem Namen „Logisches Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung).
Die älteste bekannte Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem
zweiten nachchristlichen Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros zugeschrieben.
Orazi e Curiazi figure leggendarie dell'antica Roma Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Orazi
e Curiazi (disambigua). Gli Orazi e i Curiazi sono figure leggendarie della
Roma antica. Il giuramento degli Orazi, di David, Museo del Louvre
Leggenda Secondo la versione riportata da Tito Livio (Hist.), durante il regno
di Tullo Ostilio. Roma e Alba Longa entrarono in guerra, affrontandosi con gli
eserciti schierati lungo le Fossae Cluiliae(sull'attuale via Appia Antica), al
confine fra i loro territori. Ma Roma e Alba Longa condividevano
attraverso il mito di Romolo una sacra discendenza che rendeva empia questa
guerra, perciò i rispettivi sovrani decisero di affidare a due gruppi di
rappresentanti le sorti del conflitto fra le due città, evitando ulteriori
spargimenti di sangue. Furono scelti per Roma gli Orazi, tre fratelli
figli di Publio Orazio, e per Alba Longa i tre gemelli Curiazi, che si
sarebbero affrontati a duello alla spada. Livio afferma che gli storici non
erano concordi nello stabilire quale delle due triadi fosse quella romana;
propende per gli Orazi perché la maggior parte degli studiosi sceglie quella
versione. Iniziato il combattimento, quasi subito due Orazi furono
uccisi, mentre due dei Curiazi riportarono solo lievi ferite; il terzo Orazio,
che non avrebbe potuto affrontare da solo tre nemici, trovandosi in difficoltà,
pensò di ricorrere all'astuzia e finse di scappare verso Roma. Come aveva
previsto, i tre Curiazi lo inseguirono, ma nel correre si distanziarono fra
loro, perché, feriti in modo differente, inseguivano a velocità
differenti. Per primo fu raggiunto dal Curiazio che non era stato ferito
e, voltandosi a sorpresa, lo trafisse. Riprese a correre e fu raggiunto da
ciascuno degli altri due, che a causa delle ferite erano sfiniti, e gli fu
facile ucciderli uno alla volta. La vittoria dell'Orazio fu la vittoria di
Roma, cui Alba Longa si sottomise. Camilla Orazia, sorella dell'Orazio
superstite, era promessa sposa di uno dei Curiazi uccisi e rimproverò
violentemente del delitto il fratello, tanto che questi la uccise per farla
tacere. Per purificarsi dovette passare sotto il giogo del Tigillum Sororium, che
da allora i Romani festeggiavano come rito di purificazione dei soldati ogni 1º
ottobre. Inoltre, per il processo al delitto di perduellio (delitto contro le
libertà del cittadino, reato che in realtà fu istituito dopo la fase regia di
Roma), di cui si era macchiato uccidendo Camilla Orazia, la cui vita - essendo
ella estranea al duello pattuito - era sacra per legge, Tullo Ostilio istituì,
secondo la leggenda rielaborata nel tempo, dei giudici appositi: i duumviri
perduellionis (anch'essi da ricondurre, in realtà, alla successiva fase
repubblicana). Le parentele fra Orazi e Curiazi erano ulteriormente
intrecciate, secondo versioni successive della leggenda, essendo Sabina -
nativa di Alba Longa ma romana d'adozione - sia sorella di uno dei Curiazi sia
moglie di Marco Orazio. Realtà storica Il cosiddetto Sepolcro degli Orazi
e Curiazi ad Albano Laziale Nell'antica Roma si trovano testimonianze di età
augustea attinenti alla leggenda, come una colonnadel Foro alla quale sarebbero
state appese le spoglie dei Curiazi e il Mausoleo degli Orazi al sesto miglio
della via Appia. Ad Albano Laziale, lungo l'attuale via della Stella, si
trova un sepolcro tardo-repubblicano detto degli "Orazi e Curiazi",
ma si ipotizza che sia tomba di altri personaggi. Nella realtà la guerra
fra Roma e Alba Longa fu cruenta e il re della città sconfitta, Mezio Fufezio,
venne squartato. C'è chi indica San Giovanni in Campo Orazio, nel
territorio di Poli, come luogo dove avvenne la cruenta battaglia. Orazi e
Curiazi nelle artiModifica Gli eroi di questa disfida sono citati da Dante (Che
i tre a' tre pugnar per lui ancora, Par. VI, 39), a essi è dedicata la Sala
degli Orazi e Curiazi del Campidoglio. TeatroModifica Sulla vicenda degli
Orazi e Curiazi si basano alcune opere liriche: Gli Orazi e i Curiazi di
Domenico Cimarosa, opera in tre atti su libretto di Antonio Simeone Sografi, la
cui prima esecuzione ebbe luogo al Teatro La Fenice di Venezia Orazi e Curiazi
di Saverio Mercadante, opera in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano,
eseguita per la prima volta al teatro San Carlo di Napoli. The Horatian - Three
Songs di Heiner Goebbels Orazi e Curiazi è anche uno dei drammi didattici
scritti da Bertold Brecht. CinemaModifica Orazi e Curiazi, cortometraggio muto.
Orazi e Curiazi, film di Ferdinando Baldi e Terence Young. Orazi e Curiazi, film-rivisitazione
in chiave farsesca del mito. Curiosità La vicenda dello scontro tra gli
Orazi e i Curiazi viene rievocata nella miniserie "L'ombra nera del
Vesuvio" di Steno con Massimo Ranieri, Carlo Giuffré e Claudio Amendola.
Molto evidente il riferimento al mito quando, per regolare i conti tra due
clan, si scelgono tre rappresentanti per ciascuna delle due organizzazioni
criminali: i fratelli Carità, figli del boss Don Peppe Carità, e i tre fratelli
Sposito per il clan di Gaetano Bonanno. Uno dei fratelli Carità è sposato con
la sorella degli Sposito, e la stessa sorella dei Carità era promessa come
sposa al più giovane degli Sposito. Anche le dinamiche del combattimento e le
relative conseguenze sono identiche. Livio, Ab Urbe condita libri, Is
quibusdam piacularibus sacrificiis factis quae deinde genti Horatiae tradita
sunt, transmisso per viam tigillo, capite adoperto velut sub iugum misit
iuvenem.Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di
Bernardo Santalucia, Osservazioni sulla repressione criminale romana in età
regia, di Bernardo Santalucia, Orazi e Curiazi, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma Portale Mitologia
Tullo Ostilio terzo re di Roma Gens Horatia famiglie romane che
condividevano il nomen Horatius Il giuramento degli Orazi dipinto di
Jacques-Louis David Grice: “Colletti takes negation more seriously than
Popper does. Colletti examines Hegel’s target, which is Kant’s distinction
between ‘real opposition’ or ‘real repugnance’ and ‘dialectical contradiction.’
Both can combine. Hegel indeed wishes to go beyond the principle of
non-contradiction instituted in Velia by Parmenides. The Italian language
allows for some distinction that the English language doesn’t. There’s the
opposto, which is combined of posto, posto is cognate with ponere, as in modus
ponens, and it’s also the root for ‘positive’ (as opposed to negative, or
strictly, togliere, tollere modus tollens – to deny). So the the posto, we have
the opposto. On the other hand, there’s the ‘contra’, which translates Greek
‘anti’ – so that ‘apo-phasis’ becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate
with ‘deixis,’ and so more to do with dictiveness and indicativeness than with
‘vocalisation’ qua ‘vox’ (if not with ‘vocation’ – cf. my extended use of
‘utterance’ to include the characterization of something that need not be
linguistic or conventional but a characterization of a deed or a product which
may be a ‘sound’ among others. The Germans deal with the ‘widerspruch’ but
that’s THEIR problem. So to the posto we have the opposto. But after Cicero,
the use of ‘contrario’ becomes important. Il contrario and l’opposto then
pretty much covered all I failed to see back with my ‘Negation and privation,’
and my later lectures on ‘Negation’ simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and
I, allow for the good old tilde ‘~’ being all we need!” Lucio Colletti.
Keywords: curiazi, ovvero, filosofia romana, opposition, negazione, la
contraddizione dialettica e la non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian,
“Negation and Privation” “Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das
Quadrat – contradictum – the deicticness of the dictum – contra – counter –
anti – antithesis – apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario, l’opposto,
contra-dictio and contrario, il contrario, il contradditorio, dialettica
ateniese, dialettica oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colletti” – The
Swimming-Pool Library. Colletti.
Luigi Speranza -- Grice e Colizzi: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Norcia –
filosofia perugina – filosofia umbra -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Norcia). Filosofo
perugino. Filosofo umbro. Filosofo italiano. Norcia, Perugia, Umbria. Grice:“By
focusing on ‘desire,’ focuses Collizi on Thales who famously, for fixing on the
stars, de-fixed from the ground!” Grice: “If I had to chose one philosophical
word I adore is ‘desideratum,’ and Collizi tells it right – while Short and
Lewis doubt it, to desire is like to consider – and the ‘sidus’ is involved!” Compone
il saggio “De amore fundamenta mundis ac ethicae”. C. si è appreso attraverso i
riferimenti in Bruno e Mersenne. Il nucleo centrale dela sua filosofia consiste
nell'unione dell'idea di dio come amore con uno spunto, totalmente ri-adattato,
di derivazione platonica, secondo cui il reale è emanazione, a partire da
livelli di purezza e deità più elevati. Facendo dell'amore la caratteristica
principale di dio – IVS PATER, arriva a dire che il reale coincide con l'amore,
in forme più o meno degradate. Da questo concetto fa derivare una forte istanza
di svelamento. Nonostante l'apparente neutralità emotiva del reale, il vero
fondamento divino, e quindi dell'universo, è l'amore. Il vero si consegue
quindi applicando questo principio ad una apparenza fenomenica, in modo da
svelarne il vero essere, cioè il principio di amore – Grice: “Not to be
confused with my principle of conversational self-love!” -Il suo passo più
celebre, tuttavia, riguarda l'etimologia della parola “de-sider-ium”, che
collega all'espressione “de sidera”. Come una stella, infatti, un de-sider-io e
qualcosa che percepiamo con i sensi, ma senza potere esperire direttamente
l'amore che da loro scaturisce, così il “de-siderio” è mera APPARENZA sotto la
quale si cela un bisogno. Il “de-siderio,” questo tendere all'apparenza,
scompare completamente solo una volta compreso fino in fondo il fondamento
dell'essere, nella “mystica copulatio” raggiungibile attraverso la filosofia.
La sua filosofia quindi, sembra unire una forte istanza metafisica a
un'altrettanto forte istanza etica, cercando nel reale una fondamentale armonia
di senso che è compito di ogni uomo, scopertala, riprodurre e preservare. Cf.
Bruno, “De l'infinito, universo e mondi,” Bruno,“Praxis descensus seu
applicatio entis,”D.Cantimori,“Storia ereticale” (Laterza). Bolgiani,
“Ortodossia ed eresia : il problema storiografico nella storia e la
situazione ortodossia-eresia agli inizi della storia (CELID). A compimento di
questo settimo Libro ed in osservanza alla regola fin qui seguita, rimanci di
far menzione di que'nostri Concittadini, che per meriti di santità, o per
dottrina, ovvero per singolare valore nelle scienze,se ne resero meritevoli. E
primo ci si presenta il Ven. Fr. Agostino da Norcia della famiglia C., emulo
delle virtù del suo zio Fr. Giustino da noi ricordato Degl’eroici furori di
Bruno Letteratura italiana Einaudi Edizione di riferimento: Bruno
Nolano, De gli eroici furori.Parigi, appresso Baio, in Dialoghi filosofici
italiani, a cura di Ciliberto, Mondadori, Milano Letteratura italiana Einaudi
Sommario Argomento del Nolano Avertimento a’ lettori Iscusazion del
Nolano de gli Eroici Furori Dialogo primo Dialogo secondo Dialogo Dialogo
Dialogo Seconda parte de gli Eroici Furori Al molto illustre et eccellente
cavalliero Signor Filippo Sidneo Bruno De gli eroici furori ARGOMENTO DEL
NOLANO sopra GLI EROICI FURORI: scritto al molto illustre SIGNOR FILIPPO SIDNEO
È cosa veramente, o generosissimo Cavalliero, da basso, bruto e sporco ingegno,
d’essersi fatto constantemente studioso, et aver affisso un curioso pensiero
circa o sopra la bellezza d’un corpo femenile. Che spettacolo (o Dio buono) più
vile et ignobile può presentarsi ad un occhio di terso sentimento, che un uomo
cogitabundo, afflitto, tormentato, triste, maninconioso: per dovenir or freddo,
or caldo, or fervente, or tremante, or pallido, or rosso, or in mina di
perplesso, or in atto di risoluto; un che spende il meglior intervallo di
tempo, e gli più scelti frutti di sua vita corrente, destillando l’elixir del
cervello con mettere in concetto, scritto, e sigillar in publichi monumenti,
quelle continue torture, que’ gravi tormenti, que’ razionali discorsi, que’
faticosi pensieri, e quelli amarissimi studi destinati sotto la tirannide d’una
indegna, imbecille, stolta e sozza sporcaria? Che tragicomedia? che atto, dico,
degno più di compassione e riso può esserne ripresentato in questo teatro del
mondo, in questa scena delle nostre conscienze, che di tali e tanto numerosi
suppositi fatti penserosi, contemplativi, constanti, fermi, fideli, amanti,
coltori, adoratori e servi di cosa senza fede, priva d’ogni costanza, destituta
d’ogni ingegno, vacua d’ogni merito, senza riconoscenza e gratitudine alcuna,
dove non può capir più senso, intelletto e bontade, che trovarsi possa in una
statua, o imagine depinta al muro? e dove è più superbia, arroganza, protervia,
orgoglio, ira, sdegno, falsitade, libidine, avarizia, ingratitudine et altri
crimi exiziali, che avessero possuto uscir veneni et instrumenti di morte Bruno
De gli eroici furori dal vascello di Pandora, per aver pur troppo largo ricetto
dentro il cervello di mostro tale? Ecco vergato in carte, rinchiuso in libri,
messo avanti gli occhi, et intonato a gli orecchi un rumore, un strepito, un
fracasso d’insegne, d’imprese, de motti, d’epistole, de sonetti, d’epigrammi,
de libri, de prolissi scartafazzi, de sudori estremi, de vite consumate, con
strida ch’assordiscon gli astri, lamenti che fanno ribombar gli antri infernali,
doglie che fanno stupefar l’anime viventi, suspiri da far exinanire e compatir
gli dèi, per quegli occhi, per quelle guance, per quel busto, per quel bianco,
per quel vermiglio, per quella lingua, per quel dente, per quel labro, quel
crine, quella veste, quel manto, quel guanto, quella scarpetta, quella
pianella, quella parsimonia, quel risetto, quel sdegnosetto, quella vedova
fenestra, quell’eclissato sole, quel martello; quel schifo, quel puzzo, quel
sepolcro, quel cesso, quel mestruo, quella carogna, quella febre quartana,
quella estrema ingiuria e torto di natura: che con una superficie, un’ombra, un
fantasma, un sogno, un circeo incantesimo ordinato al serviggio della
generazione, ne inganna in specie di bellezza. La quale insieme insieme viene e
passa, nasce e muore, fiorisce e marcisce; et è bella cossì un pochettino a
l’esterno, che nel suo intrinseco vera e stabilmente è contenuto un navilio,
una bottega, una dogana, un mercato de quante sporcarie, tossichi e veneni
abbia possuti produre la nostra madrigna natura; la quale dopo aver riscosso
quel seme di cui la si serva, ne viene sovente a paga d’un lezzo, d’un
pentimento, d’una tristizia, d’una fiacchezza, d’un dolor di capo, d’una
lassitudine, d’altri et altri malanni che son manifesti a tutto il mondo; a fin
che amaramente dolga, dove suavemente proriva. Ma che fo io? che penso? son
forse nemico della generazione? ho forse in odio il sole? Rincrescemi forse il
mio et altrui essere messo al mondo? Voglio forse ridur gli uomini a non raccòrre
quel più dolce pomo che può produr l’orto del nostro terrestre paradiso? Son
forse io per impedir l’instituto santo della natura? Debbo tentare di suttrarmi
io o altro dal dolce amaro giogo che n’ha messo al collo la divina providenza?
Ho forse da persuader a me et ad altri, che gli nostri predecessori sieno nati
per noi, e noi non siamo nati per gli nostri successori? Non voglia, non voglia
Dio che questo giamai abbia possuto cadermi nel pensiero. Anzi aggiongo che per
quanti regni e beatitudini mi s’abbiano possuti proporre e nominare, mai fui
tanto savio o buono che mi potesse venir voglia de castrarmi o dovenir eunuco.
Anzi mi vergognarei se cossì come mi trovo in apparenza, volesse cedere pur un
pelo a qualsivoglia che mangia degnamente il pane per servire alla natura e Dio
benedetto. E se alla buona volontà soccorrer possano o soccorrano
gl’instrumenti e gli lavori, lo lascio considerar solo a chi ne può far
giudicio e donar sentenza. Io non credo d’esser legato: perché son certo che
non bastarebbono tutte le stringhe e tutti gli lacci che abbian saputo e
sappian mai intessere et annodare quanti furo e sono stringari e lacciaiuoli,
(non so se posso dir) se fusse con essi la morte istessa, che volessero
maleficiarmi. Né credo d’esser freddo, se a refrigerar il mio caldo non penso
che bastarebbono le nevi del monte Caucaso o Rifeo. Or vedete dumque se è la
raggione o qualche difetto che mi fa parlare. Che dumque voglio dire? che
voglio conchiudere? che voglio determinare? Quel che voglio conchiudere e dire,
o Cavalliero illustre, è che quel ch’è di Cesare sia donato a Cesare, e quel
ch’è de Dio, sia renduto a Dio. Voglio dire che a le donne, benché talvolta non
bastino gli onori et ossequii divini, non perciò se gli denno onori et ossequii
divini. Voglio che le donne siano cossì onorate et amate, come denno essere
amate et onorate le donne; per tal causa dico, e per tanto, per quanto si deve
a quel poco, a quel tempo e quella occasione, se non hanno altra virtù che
naturale, cioè di quella bellezza, di quel splendore, di quel serviggio: senza
il quale denno esser stimate più vanamente nate al mondo che un morboso fungo,
qual con pregiudicio de meglior piante occupa la terra; e più noiosamente che
qualsivoglia napello o vipera che caccia il capo fuor di quella. Voglio dire
che tutte le cose de l’universo, perché possano aver fermezza e consistenza,
hanno gli suoi pondi, numeri, ordini e misure, a fin che siano dispensate e
governate con ogni giustizia e raggione. Là onde Sileno, Bacco, Pomona,
Vertunno, il dio di Lampsaco, et altri simili che son dèi da tinello, da
cervosa forte e vino rinversato, come non siedeno in cielo a bever nettare e
gustar ambrosia nella mensa di Giove, Saturno, Pallade, Febo et altri simili:
cossì gli lor fani, tempii, sacrificio e culti denno essere differenti da
quelli de costoro. Voglio finalmente dire che questi furori eroici ottegnono
suggetto et oggetto eroico: e però non ponno più cadere in stima d’amori
volgari e naturaleschi, che veder si possano delfini su gli alberi de le selve,
e porci cinghiali sotto gli marini scogli. Però per liberare tutti da tal
suspizione, avevo pensato prima di donar a questo libro un titolo simile a
quello di Salomone, il quale sotto la scorza d’amori et affetti ordinaria,
contiene similmente divini et eroici furori, come interpretano gli mistici e
cabalisti dottori: volevo (per dirla) chiamarlo Cantica. Ma per più caggioni mi
sono astenuto al fine: de le quali ne voglio referir due sole. L’una per il
timor ch’ho conceputo dal rigoroso supercilio de certi farisei, che cossì mi
stimarebono profano per usurpar in mio naturale e fisico discorso titoli sacri
e sopranaturali; come essi sceleratissimi e ministri d’ogni ribaldaria si
usurpano più altamente che dir si possa gli titoli de sacri, de santi, de divini
oratori, de figli de Dio, de sacerdoti, de regi: stante che stiamo aspettando
quel giudicio divino che farà manifesta la lor maligna ignoranza et altrui
dottrina, la nostra simplice libertà e l’altrui maliciose regole, censure et
instituzioni. L’altra per la grande dissimilitudine che si vede fra il volto di
questa opra e quella, quantunque medesimo misterio e sustanza d’anima sia
compreso sotto l’ombra dell’una e l’altra: stante che là nessuno dubita che il
primo instituto del sapiente fusse più tosto di figurar cose divine che di
presentar altro; perché ivi le figure sono aperta e manifestamente figure, et
il senso metaforico è conosciuto di sorte che non può esser negato per
metaforico: dove odi quelli occhi di colombe, quel collo di torre, quella lingua
di latte, quella fragranzia d’incenso, que’ denti che paiono greggi de pecore
che descendono dal lavatoio, que’ capelli che sembrano le capre che vegnono giù
da la montagna di Galaad. Ma in questo poema non si scorge volto che cossì al
vivo ti spinga a cercar latente et occolto sentimento: atteso che per
l’ordinario modo di parlare e de similitudini più accomodate a gli sensi
communi, che ordinariamente fanno gli accorti amanti, e soglion mettere in
versi e rime gli usati poeti, son simili a i sentimenti de coloro che parlarono
a Citereida, a Licori, a Dori, a Cinzia, a Lesbia, a Corinna, a Laura et altre
simili: onde facilmente ogn’uno potrebbe esser persuaso che la fondamentale e
prima intenzion mia sia stata addirizzata da ordinario amore, che m’abbia dettati
concetti tali; il quale appresso per forza de sdegno s’abbia improntate l’ali e
dovenuto eroico; come è possibile di convertir qualsivoglia fola, romanzo,
sogno e profetico enigma, e transferirle in virtù di metafora e pretesto
d’allegoria a significar tutto quello che piace a chi più comodamente è atto a
stiracchiar gli sentimenti: e far cossì tutto di tutto, come tutto essere in
tutto disse il profondo Anaxagora. Ma pensi chi vuol quel che gli pare e piace,
ch’alfine o voglia o non, per giustizia la deve ognuno intendere e definire
come l’intendo e definisco io, non io come l’intende e definisce lui: perché
come gli furori di quel sapiente Ebreo hanno gli proprii modi ordini e titolo
che nessuno ha possuto intendere e potrebbe meglio dichiarar che lui se fusse
presente; cossì questi Cantici hanno il proprio titolo ordine e modo che nessun
può meglio dechiarar et intendere che io medesimo quando non sono absente.
D’una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello per il che io mi essagito
in questo proemiale argomento, dove singularmente parlo a voi eccellente
Signore, e ne gli Dialogi formati sopra gli seguenti articoli, sonetti e
stanze, è ch’io voglio ch’ogn’un sappia ch’io mi stimarei molto vituperoso e
bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi fusse mai delettato o
delettasse de imitar (come dicono) un Orfeo circa il culto d’una donna in vita,
e dopo morte, se possibil fia, ricovrarla da l’inferno: se a pena la stimarei
degna, senza arrossir il volto, d’amarla sul naturale di quell’istante del
fiore della sua beltade, e facultà di far figlioli alla natura e dio; tanto
manca che vorrei parer simile a certi poeti e versificanti in far trionfo d’una
perpetua perseveranza di tale amore, come d’una cossì pertinace pazzia, la qual
sicuramente può competere con tutte l’altre specie che possano far residenza in
un cervello umano: tanto, dico, son lontano da quella vanissima, vilissima e
vituperosissima gloria, che non posso credere ch’un uomo che si trova un
granello di senso e spirito, possa spendere più amore in cosa simile che io
abbia speso al passato e possa spendere al presente. E per mia fede, se io
voglio adattarmi a defendere per nobile l’ingegno di quel tosco poeta che si
mostrò tanto spasimare alle rive di Sorga per una di Valclusa, e non voglio
dire che sia stato un pazzo da catene, donarommi a credere, e forzarommi di
persuader ad altri, che lui per non aver ingegno atto a cose megliori, volse
studiosamente nodrir quella melancolia, per celebrar non meno il proprio
ingegno su quella matassa, con esplicar gli affetti d’un ostinato amor volgare,
animale e bestiale, ch’abbiano fatto gli altri ch’han parlato delle lodi della
mosca, del scarafone, de l’asino, de Sileno, de Priapo, scimie de quali son
coloro ch’han poetato a’ nostri tempi delle lodi de gli orinali, de la piva,
della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del martello,
della caristia, de la peste; le quali non meno forse sen denno gir altere e
superbe per la celebre bocca de canzonieri suoi, che debbano e possano le
prefate et altre dame per gli suoi. Or (perché non si faccia errore) qua [non]
voglio che sia tassata la dignità di quelle che son state e sono degnamente
lodate e lodabili: non quelle che possono essere e sono particolarmente in
questo paese Britannico, a cui doviamo la fideltà et amore ospitale: perché
dove si biasimasse tutto l’orbe, non si biasima questo che in tal proposito non
è orbe, né parte d’orbe: ma diviso da quello in tutto, come sapete; dove si
raggionasse de tutto il sesso femenile, non si deve né può intendere de alcune
vostre, che non denno esser stimate parte di quel sesso: perché non son femine,
non son donne, ma (in similitudine di quelle) son nimfe, son dive, son di
sustanza celeste; tra le quali è lecito di contemplar quell’unica Diana, che in
questo numero e proposito non voglio nominare. Comprendasi dumque il geno
ordinario. E di quello ancora indegna et ingiustamente perseguitarci le
persone: perciò che a nessuna particolare deve essere impreparato l’imbecillità
e condizion del sesso, come né il difetto e vizio di complessione: atteso che
se in ciò è fallo et errore, deve essere attribuito per la specie alla natura,
e non per particolare a gl’individui. Certamente quello che circa tai supposti
abomino è quel studioso e disordinato amor venereo che sogliono alcuni
spendervi, de maniera che se gli fanno servi con l’ingegno, e vi vegnono a
cattivar le potenze et atti più nobili de l’anima intellettiva. Il qual intento
essendo considerato, non sarà donna casta et onesta che voglia per nostro
naturale e veridico discorso contrastarsi e farmisi più tosto irata, che
sottoscrivendomi amarmi di vantaggio, vituperando passivamente quell’amor nelle
donne verso gli uomini, che io attivamente riprovo ne gli uomini verso le
donne. Tal dumque essendo il mio animo, ingegno, parere e determinazione, mi
protesto che il mio primo e principale, mezzano et accessorio, ultimo e finale
intento in questa tessitura fu et è d’apportare contemplazion divina, e metter
avanti a gli occhi et orecchie altrui furori non de volgari, ma eroici amori,
impiegati in due parti: de le quali ciascuna è divisa in cinque dialogi.
argomento de’ cinque dialogi de la prima parte Nel Primo dialogo della prima
parte son cinque articoli, dove per ordine: nel primo si mostrano le cause e
principiii motivi intrinseci sotto nome e figura del monte, e del fiume, e de
muse che si dechiarano presenti, non perché chiamate, invocate e cercate, ma
più tosto come quelle che più volte importunamente si sono offerte: onde vegna
significato che la divina luce è sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama
e batte a le porte de nostri sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive:
come pure è significato nella Cantica di Salomone dove si dice: En ipse stat
post parietem nostrum, respiciens per cancellos, et prospiciens per fenestras.
La qual spesso per varie occasioni et impedimenti avvien che rimagna esclusa
fuori e trattenuta. Nel secondo articolo si mostra quali sieno que’ suggetti,
oggetti, affetti, instrumenti et effetti per li quali s’introduce, si mostra e
prende il possesso nell’anima questa divina luce: perché la inalze e la
converta in Dio. Nel terzo il proponimento, definizione e determinazione che fa
l’anima ben informata circa l’uno, perfetto et ultimo fine. Nel quarto la guerra
civile che séguita e si discuopre contra il spirito dopo tal proponimento; onde
disse la Cantica: Noli mirari quia nigra sum: decoloravit enim me sol, quia
fratres mei pugnaverunt contro me, quam posuerunt custodem in vineis. Là sono
esplicati solamente come quattro antesignani: l’Affetto, l’Appulso fatale, la
Specie del bene, et il Rimorso; che son seguitati da tante coorte militari de
tante, contrarie, varie e diverse potenze, con gli lor ministri, mezzi et
organi che sono in questo composto. Nel quinto s’ispiega una naturale
contemplazione in cui si mostra che ogni contrarietà si riduce a l’amicizia: o
per vittoria de l’uno de’ contrarii, o per armonia e contemperamento, o per
qualch’altra raggione di vicissitudine; ogni lite alla concordia, ogni diversità
a l’unità: la qual dottrina è stata da noi distesa ne gli discorsi d’altri
dialogi. Nel Secondo dialogo viene più esplicatamente descritto l’ordine et
atto della milizia che si ritrova nella sustanza di questa composizione del
furioso; et ivi: nel primo articolo si mostrano tre sorte di contrarietà: la
prima d’un affetto et atto contra l’altro, come dove son le speranze fredde e
gli desideri caldi; la seconda de medesimi affetti et atti in se stessi, non
solo in diversi, ma et in medesimi tempi; come quando ciascuno non si contenta
di sé, ma attende ad altro: et insieme insieme ama et odia; la terza tra la
potenza che séguita et aspira, e l’oggetto che fugge e si suttrae. Nel secondo
articolo si manifesta la contrarietà ch’è come di doi contrari appulsi in
generale; alli quali si rapportano tutte le particolari e subalternate
contrarietadi, mentre come a doi luoghi e sedie contrarie si monta o scende:
anzi il composto tutto per la diversità de le inclinazioni che son nelle
diverse parti, e varietà de disposizioni che accade nelle medesime, viene
insieme insieme a salire et abbassare, a farsi avanti et adietro, ad
allontanarsi da sé e tenersi ristretto in sé. Nel terzo articolo si discorre
circa la conseguenza da tal contrarietade. Nel Terzo dialogo si fa aperto
quanta forza abbia la volontarie in questa milizia, come quella a cui sola
appartiene ordinare, cominciare, exeguire e compire; cui vien intonato nella
Cantica: Surge, propera, columba mea, et veni: iam enim hiems transiit, imber
abiit, flores apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit. Questa
somministra forza ad altri in molte maniere, et a se medesima specialmente
quando si reflette in se stessa, e si radoppia; all’or che vuol volere, e gli
piace che voglia quel che vuole; o si ritratta, all’or che non vuol quel che
vuole, e gli dispiace che voglia quel che vuole: cossì in tutto e per tutto
approva quel ch’è bene e quel tanto che la natural legge e giustizia gli
definisce: e mai affatto approva quel che è altrimente. E questo è quanto si
esplica nel primo e secondo articolo. Nel terzo si vede il gemino frutto di tal
efficacia, secondo che (per consequenza de l’affetto che le attira e rapisce)
le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte; come per forza de
vertiginoso appulso e vicissitudinal successo dicono che la fiamma s’inspessa
in aere, vapore et acqua; e l’acqua s’assottiglia in vapore, aere e fiamma. In
sette articoli del Quarto dialogo si contempla l’impeto e vigor de
l’intelletto, che rapisce l’affetto seco, et il progresso de pensieri del
furioso composto, e delle passioni de l’anima che si trova al governo di questa
Republica cossì turbulenta. Là non è oscuro chi sia il cacciatore,
l’ucellatore, la fiera, gli cagnuoli, gli pulcini, la tana, il nido, la rocca,
la preda, il compimento de tante fatiche, la pace, riposo e bramato fine de sì
travaglioso conflitto. Nel Quinto dialogo si descrive il stato del furioso in
questo mentre, et è mostro l’ordine, raggione e condizion de studii e fortune.
Nel primo articolo per quanto appartiene a perseguitar l’oggetto che si fa
scarso di sé. Nel secondo quanto al continuo e non remittente concorso de gli
affetti. Nel terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti. Nel
quarto quanto al volontario volere. Nel quinto quanto a gli pronti e forti
ripari e soccorsi. Ne gli seguenti si mostra variamente la condizion di sua
fortuna, studio e stato, con la raggione e convenienza di quelli, per le
antitesi, similitudini e comparazioni espresse in ciascuno di essi articoli.
argomento de’ cinque dialogi della seconda parte Nel Primo dialogo della
seconda parte s’adduce un seminario delle maniere e raggioni del stato
dell’eroico furioso. Ove nel primo sonetto vien descritto il stato di quello
sotto la ruota del tempo. Nel secondo viene ad iscusarsi dalla stima d’ignobile
occupazione et indegna iattura della angustia e brevità del tempo. Nel terzo
accusa l’impotenza de suoi studi gli quali quantunque all’interno sieno
illustrati dall’eccellenza de l’oggetto, questo per l’incontro viene ad essere
offoscato et annuvolato da quelli. Nel quarto è il compianto del sforzo senza
profitto delle facultadi de l’anima mentre cerca risorgere con l’imparità de le
potenze a quel stato che pretende e mira. Nel quinto vien rammentata la
contrarietà e domestico conflitto che si trova in un suggetto, onde non possa
intieramente appigliarsi ad un termine o fine. Nel sesto vien espresso
l’affetto aspirante. Nel settimo vien messa in considerazione la mala
corrispondenza che si trova tra colui ch’aspira, e quello a cui s’aspira.
Nell’ottavo è messa avanti gli occhi la distrazzion dell’anima, conseguente
della contrarietà de cose esterne et interne tra loro, e de le cose interne in
se stesse, e de le cose esterne in se medesime. Nel nono è ispiegata l’etate et
il tempo del corso de la vita ordinaria all’atto de l’alta e profonda
contemplazione: per quel che non vi conturba il flusso o reflusso della
complessione vegetante, ma l’anima si trova, in condizione stazionaria e come
quieta. Nel decimo l’ordine e maniera in cui l’eroico amore tal’or ne assale,
fere e sveglia. Nell’undecimo la moltitudine delle specie et idee particolari
che mostrano l’eccellenza della marca dell’unico fonte di quelle, mediante le
quali vien incitato l’affetto verso alto. Nel duodecimo s’esprime la condizion
del studio umano verso le divine imprese, perché molto si presume prima che vi
s’entri, e nell’entrare istesso: ma quando poi s’ingolfa e vassi più verso il
profondo, viene ad essere smorzato il fervido spirito di presunzione, vegnono relassati
i nervi, dismessi gli ordegni, inviliti gli pensieri, svaniti tutti dissegni, e
riman l’animo confuso, vinto et exinanito. Al qual proposito fu detto dal
sapiente: qui scrutator est maiestatis, opprimetur a gloria. Nell’ultimo è più
manifestamente espresso quello che nel duodecimo è mostrato in similitudine e
figura. Nel Secondo dialogo è in un sonetto, et un discorso dialogale sopra di
quello, specificato il primo motivo che domò il forte, ramollò il duro, et il
rese sotto l’amoroso imperio di Cupidine superiore, con celebrar tal vigilanza,
studio, elezzione e scopo. Nel Terzo dialogo in quattro proposte e quattro
risposte del core a gli occhi, e de gli occhi al core, è dichiarato l’essere e
modo delle potenze cognoscitive et appetitive. Là si manifesta qualmente la
volontà è risvegliata, addirizzata, mossa e condotta dalla cognizione; e
reciprocamente la cognizione è suscitata, formata e ravvivata dalla volontade,
procedendo or l’una da l’altra, or l’altra da l’una. Là si fa dubio se
l’intelletto o generalmente la potenza conoscitiva, o pur l’atto della
cognizione, sia maggior de la volontà o generalmente della potenza appetitiva,
o pur de l’affetto: se non si può amare più che intendere, e tutto quello ch’in
certo modo si desidera, in certo modo ancora si conosce, e per il roverso; onde
è consueto di chiamar l’appetito cognizione, perché veggiamo che gli
Peripatetici nella dottrina de quali siamo allievati e nodriti in gioventù, sin
a l’appetito in potenza et atto naturale chiamano cognizione; onde tutti
effetti, fini e mezzi, principii, cause et elementi distingueno in prima,
media, et ultimamente noti secondo la natura: nella quale fanno in conclusione
concorrere l’appetito e la cognizione. Là si propone infinita la potenza della
materia, et il soccorso dell’atto che non fa essere la potenza vana. Laonde
cossì non è terminato l’atto della volontà circa il bene, come è infinito et
interminabile l’atto della cognizione circa il vero: onde ente, vero e buono
son presi per medesimo significante, circa medesima cosa significata. Nel
Quarto dialogo son figurate et alcunamente ispiegate le nove raggioni della
inabilità, improporzionalità e difetto dell’umano sguardo e potenza apprensiva
de cose divine. Dove nel primo cieco, che è da natività, è notata la raggione
ch’è per la natura che ne umilia et abbassa. Nel secondo cieco per il tossico
della gelosia è notata quella ch’è per l’irascibile e concupiscibile che ne
diverte e desvia. Nel terzo cieco per repentino apparimento d’intensa luce si
mostra quella che procede dalla chiarezza de l’oggetto che ne abbaglia. Nel
quarto, allievato e nodrito a lungo a l’aspetto del sole, quella che da troppo
alta contemplazione de l’unità, che ne fura alla moltitudine. Nel quinto, che
sempre mai ha gli occhi colmi de spesse lacrime, è designata
l’improporzionalità de mezzi tra la potenza et oggetto che ne impedisce. Nel
sesto che per molto lacrimar have svanito l’umor organico visivo, è figurato il
mancamento de la vera pastura intellettuale che ne indebolisce. Nel settimo cui
gli occhi sono inceneriti da l’ardor del core, è notato l’ardente affetto che
disperge, attenua e divora tal volta la potenza discretiva. Nell’ottavo, orbo
per la ferita d’una punta di strale, quello che proviene dall’istesso atto
dell’unione della specie de l’oggetto; la qual vince, altera e corrompe la
potenza apprensiva, che è suppressa dal peso, e cade sotto l’impeto de la
presenza di quello; onde non senza raggion talvolta la sua vista è figurata per
l’aspetto di folgore penetrativo. Nel nono, che per esser mutolo non può
ispiegar la causa della sua cecitade, vien significata la raggion de le
raggioni, la quale è l’occolto giudicio divino che a gli uomini ha donato
questo studio e pensiero d’investigare, de sorte che non possa mai gionger più
alto che alla cognizione della sua cecità et ignoranza, e stimar più degno il
silenzio ch’il parlare. Dal che non vien iscusata né favorita l’ordinaria
ignoranza; perché è doppiamente cieco chi non vede la sua cecità: e questa è la
differenza tra gli profettivamente studiosi, e gli ociosi insipienti: che
questi son sepolti nel letargo della privazion del giudicio di suo non vedere,
e quelli sono accorti, svegliati e prudenti giudici della sua cecità; e però
son nell’inquisizione, e nelle porte de l’acquisizione della luce: delle quali
son lungamente banditi gli altri. argomento et allegoria del quinto dialogo Nel
Quinto dialogo, perché vi sono introdotte due donne, alle quali (secondo la
consuetudine del mio paese) non sta bene di commentare, argumentare, desciferare,
saper molto et esser dottoresse per usurparsi ufficio d’insegnare e donar
instituzione, regola e dottrina a gli uomini; ma ben de divinar e profetar
qualche volta che si trovano il spirito in corpo: però gli ha bastato de farsi
solamente recitatrici della figura lasciando a qualche maschio ingegno il
pensiero e negocio di chiarir la cosa significata. Al quale (per alleviar
overamente tòrgli la fatica) fo intendere qualmente questi nove ciechi, come in
forma d’ufficio e cause esterne, cossì con molte altre differenze suggettive
correno con altra significazione, che gli nove del dialogo precedente: atteso
che secondo la volgare imaginazione delle nove sfere, mostrano il numero,
ordine e diversità de tutte le cose che sono subsistenti infra unità absoluta,
nelle quali e sopra le quali tutte sono ordinate le proprie intelligenze che
secondo certa similitudine analogale dependono dalla prima et unica. Queste da
Cabalisti, da Caldei, da Maghi, da Platonici e da cristiani teologi son
distinte in nove ordini per la perfezzione del numero che domina
nell’università de le cose, et in certa maniera formaliza il tutto: e però con
semplice raggione fanno che si significhe la divinità, e secondo la reflessione
e quadratura in se stesso, il numero e la sustanza de tutte le cose dependenti.
Tutti gli contemplatori più illustri, o sieno filosofi, o siano teologi, o
parlino per raggione e proprio lume, o parlino per fede e lume superiore,
intendano in queste intelligenze il circolo di ascenso e descenso. Quindi
dicono gli Platonici che per certa conversione accade che quelle che son sopra
il fato si facciano sotto il fato del tempo e mutazione, e da qua montano altre
al luogo di quelle. Medesima conversione è significata dal pitagorico poeta,
dove dice: Has omnes ubi mille rotam volvere per annos Lethaeum ad fluvium deus
evocat agmine magno: rursus ut incipiant in corpora velle reverti. Questo
(dicono alcuni) è significato dove è detto in revelazione che il drago starà
avvinto nelle catene per mille anni, e passati quelli sarà disciolto. A cotal
significazione voglion che mirino molti altri luoghi dove il millenario ora è
espresso, ora è significato per uno anno, ora per una etade, ora per un cubito,
ora per una et un’altra maniera. Oltre che certo il millenario istesso non si
prende secondo le rivoluzioni definite da gli anni del sole, ma secondo le
diverse raggioni delle diverse misure et ordini con li quali son dispensate
diverse cose: perché cossì son differenti gli anni de gli astri, come le specie
de particolari non son medesime. Or quanto al fatto della rivoluzione, è
divolgato appresso gli cristiani teologi, che da ciascuno de’ nove ordini de
spiriti sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste basse et oscure
regioni; e che per non esser quelle sedie vacanti, vuole la divina providenza
che di queste anime che vivono in corpi umani siano assumpte a quella eminenza.
Ma tra filosofi Plotino solo ho visto dire espressamente come tutti teologi
grandi, che cotal rivoluzione non è de tutti, né sempre: ma una volta. E tra teologi
Origene solamente come tutti filosofi grandi, dopo gli Saduchini et altri molti
riprovati, have ardito de dire che la revoluzione è vicissitudinale e
sempiterna; e che tutto quel medesimo che ascende ha da ricalar a basso: come
si vede in tutti gli elementi e cose che sono nella superficie, grembo e ventre
de la natura. Et io per mia fede dico e confermo per convenientissimo, con gli
teologi e color che versano su le leggi et instituzioni de popoli, quel senso
loro: come non manco d’affirmare et accettar questo senso di quei che parlano
secondo la raggion naturale tra’ pochi, buoni e sapienti. L’opinion de quali
degnamente è stata riprovata per esser divolgata a gli occhi della moltitudine;
la quale se a gran pena può essere refrenata da vizii e spronata ad atti
virtuosi per la fede de pene sempiterne, che sarrebe se la si persuadesse
qualche più leggiera condizione in premiar gli eroici et umani gesti, e
castigare gli delitti e sceleragini? Ma per venire alla conclusione di questo
mio progresso: dico che da qua si prende la raggione e discorso della cecità e
luce di questi nove, or vedenti, or ciechi, or illuminati; quali son rivali ora
nell’ombre e vestigii della divina beltade, or sono al tutto orbi, ora nella
più aperta luce pacificamente si godeno. All’or che sono nella prima
condizione, son ridutti alla stanza di Circe, la qual significa la omniparente
materia, et è detta figlia del sole, perché da quel padre de le forme ha
l’eredità e possesso di tutte quelle le quali con l’aspersion de le acqui, cioè
con l’atto della generazione, per forza d’incanto, cioè d’occolta armonica
raggione, cangia il tutto, facendo dovenir ciechi quelli che vedeno: perché la
generazione e corrozzione è causa d’oblio e cecità, come esplicano gli antichi
con la figura de le anime che si bagnano et inebriano di Lete. Quindi dove gli
ciechi si lamentano dicendo: Figlia e madre di tenebre et orrore, è significata
la conturbazion e contristazion de l’anima che ha perse l’ali, la quale se gli
mitiga all’or che è messa in speranza di ricovrarle. Dove Circe dice: Prendete
un altro mio vase fatale, è significato che seco portano il decreto e destino
del suo cangiamento, il qual però è detto essergli porgiuto dalla medesima
Circe; perché un contrario è originalmente nell’altro, quantunque non vi sia
effettualmente: onde disse lei, che sua medesima mano non vale aprirlo, ma
commetterlo. Significa ancora che son due sorte d’acqui: inferiori sotto il
firmamento che acciecano, e superiori, sopra il firmamento che illuminano:
quelle che sono significate da Pitagorici e Platonici nel descenso da un
tropico et ascenso da un altro. Là dove dice Per largo e per profondo
peregrinate il mondo, cercate tutti gli numerosi regni, significa che non è
progresso immediato da una forma contraria a l’altra, né regresso immediato da
una forma a la medesima: però bisogna trascorrere, se non tutte le forme che
sono nella ruota delle specie naturali, certamente molte e molte di quelle. Là
s’intendeno illuminati da la vista de l’oggetto, in cui concorre il ternario
delle perfezzioni, che sono beltà, sapienza e verità, per l’aspersion de
l’acqui che negli sacri libri son dette acqui de sapienza, fiumi d’acqua di
vita etema. Queste non si trovano nel continente del mondo, ma penitus toto
divisim ab orbe, nel seno dell’Oceano, dell’Amfitrite, della divinità, dove è
quel fiume che apparve revelato procedente dalla sedia divina, che have altro
flusso che ordinario naturale. Ivi son le Ninfe, cioè le beate e divine
intelligenze che assistenti et amministrano alla prima intelligenza, la quale è
come la Diana tra le nimfe de gli deserti. Quella sola tra tutte l’altre è per
la triplicata virtude, potente ad aprir ogni sigillo, asciòrre ogni nodo, a
discuoprir ogni secreto, e disserrar qualsivoglia cosa rinchiusa. Quella con la
sua sola presenza e gemino splendore del bene e vero, di bontà e bellezza
appaga le volontadi e gl’intelletti tutti: aspergendoli con l’acqui salutifere
di ripurgazione. Qua è conseguente il canto e suono, dove son nove
intelligenze, nove muse, secondo l’ordine de nove sfere; dove prima si
contempla l’armonia di ciascuna, che è continuata con l’armonia de l’altra;
perché il fine et ultimo della superiore è principio e capo dell’inferiore,
perché non sia mezzo e vacuo tra l’una et altra: e l’ultimo de l’ultima per via
de circolazione concorre con il principio della prima. Perché medesimo è più
chiaro e più occolto, principio e fine, altissima luce e profondissimo abisso,
infinita potenza et infinito atto, secondo le raggioni e modi esplicati da noi
in altri luoghi. Appresso si contempla l’armonia e consonanza de tutte le
sfere, intelligenze, muse et instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de’
mondi, l’opre della natura, il discorso de gl’intelletti, la contemplazion
della mente, il decreto della divina providenza, tutti d’accordo celebrano
l’alta e magnifica vicissitudine che agguaglia l’acqui inferiori alle
superiori, cangia la notte col giorno, et il giorno con la notte, a fin che la
divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l’infinita
bontà infinitamente si communiche secondo tutta la capacità de le cose. Questi
son que’ discorsi, gli quali a nessuno son parsi più convenevoli ad essere
addirizzati e raccomandati che a voi, Signor eccellente: a fin ch’io non vegna
a fare, come penso aver fatto alcuna volta per poca advertenza, e molti altri
fanno quasi per ordinario, come colui che presenta la lira ad un sordo et il
specchio ad un cieco. A voi dumque si presentano, perché l’Italiano raggioni
con chi l’intende; gli versi sien sotto la censura e protezzion d’un poeta; la
filosofia si mostre ignuda ad un sì terso ingegno come il vostro; le cose
eroiche siano addirizzate ad un eroico e generoso animo, di qual vi mostrate
dotato; gli officii s’offrano ad un suggetto sì grato, e gli ossequii ad un
signor talmente degno qualmente vi siete manifestato per sempre. E nel mio
particolare vi scorgo quello che con maggior magnanimità m’avete prevenuto ne
gli officii, che alcuni altri con riconoscenza m’abbiano seguitato. vale.
avertimento a’ lettori Amico lettore, m’occorre al fine da obviare al rigore
d’alcuno a cui piacesse che tre de’ sonetti che si trovano nel primo dialogo
della seconda parte de’ Furori eroici, siano in forma simili a gli altri, che
sono nel medesimo dialogo: voglio che vi piaccia d’aggiongere a tutti tre gli
suoi tornelli. A quello che comincia Quel ch’il mio cor, giongete in fine: Onde
di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival
d’Endimion si duole. A quello che comincia Se da gli eroi, giongete in fine:
Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’e accende et èmmi a lato, farammi
illustre, potente e beato. A quello che comincia Avida di trovar, giongete al
fine: Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che lemmi a
lungo infortunato amante. alcuni errori di stampa piùurgenti Piacciavi, benigno
lettore, prima che leggere di corregere. Da A in sino a Q significano gli
quinterni; il numero seguente quella lettera, significa la carta; f significa
la faccia prima o seconda; l significa la linea. A 1, f 2, l 2: correte a’ miei
dolori; A 2, f 1, li 12: ritenendolo da cose; f 2, li 30: homerica poesia; A 4,
f 1, li 15: illustre mentre canto di morte cipressi et inferni; A 7, f 1, li 4:
la gelosia sconsola; li 11: di regione; B 1, f 2, li 7: potran ben soli con sua
diva corte; C 2, f 1, li 2: sappia certo che se quei; lin 4: seguite che
parlino; li 23: son divini; C 7, f 2, l 15: suspicientes in; D 8, f 1, [l 26]:
Alti, profondi; f 2, l 10, compagni del mio core; E 6, f 1, l 21: intrattiene
in quel essere; F 1, f 1, li 16: dice quell’altezza; G 8, f 1, l 2: che fa
volgar; I 2, f 1, li 17: per quanto mi si diè; K 5, f 2, li 19: Del gratioso
sguardo apri le porte; L 6, f 2, li 21: XII, Cesa; L 7, f 1, l 10: da cure
moleste; M 4, f 1, li 15: ergo; Cor.; N 5, f 1, lin penultima: Deucalion; O 3,
f 1, li 14: hammi si crudament’ il spirto infetto; O 4, f 2, li 10: Il Nil
d’ogn’altro suon; O 5, f 2, li 13: intromettea la luce; O 7, f 1, li 6: Aspra
ferit’ empio ardor; li 13: appresso Dite; f 2, li ultima: in quello aspira per
certo più; O 8, f 2, li ultima: alli quali si mostra, non proviene con misura
di moto et tempo, come accade nelle; P 6, f 1, li antepenultima: quale chiumque
have ingegno; P 7, f 1, li 12: Siam nove spirti che molt’anni; Q 1, f 1, li 10:
Ch’io possa esprimere. Q 4, f 1, l 1: De le dimore alterne. ISCUSAZION DEL
NOLANO alle più virituose e leggiadre dame De l’Inghilterra o vaghe Ninfe e
Belle, non voi ha nostro spirt’ in schif’, e sdegna; né per mettervi giù suo
stil s’ingegna, se non convien che femine v’appelle. Né computar, né eccettuar
da quelle, son certo che voi dive mi convegna: se l’influsso commun in voi non
regna, e siete in terra quel ch’in ciel le stelle. De voi, o Dame, la beltà
sovrana nostro rigor né morder può, né vuole, che non fa mira a specie
sopr’umana. Lungi arsenico tal quindi s’invole, dove si scorge l’unica Diana,
qual è tra voi quel che tra gli astri il sole. L’ingegno, le parole e ’l mio
(qualumque sia) vergar di carte faranv’ossequios’il studio e l’arte. DE GLI EROICI FURORI Bruno De gli eroici
furori DIALOGO PRIMO interlocutori Tansillo, Cicada. tansillo Gli furori
dumque, atti più ad esser qua primieramente locati e considerati, son questi
che ti pono avanti secondo l’ordine a me parso più conveniente. cicada
Cominciate pur a leggerli. tansillo [1] Muse che tante volte ributtai,
importune correte a’ miei dolori, per consolarmi sole ne’ miei guai con tai
versi, tai rime e tai furori, con quali ad altri vi mostraste mai, che de mirti
si vantan et allori; or sia appo voi mia aura, àncora e porto, se non mi lice
altrov’ir a diporto. (3) O monte, o dive, o fonte ov’abito, converso e mi
nodrisco; dove quieto imparo et imbellisco; alzo, avviv’, orno, il cor, il
spirto e fronte: morte, cipressi, inferni cangiate in vita, in lauri, in astri
eterni. 1. È da credere che più volte e per più caggioni le ributtasse, tra le
quali possono esser queste. Prima perché, come deve il sacerdote de le muse,
non ha possut’esser ocioso: perché l’ocio non può trovarsi là dove si combatte
contra gli ministri e servi de l’invidia, ignoranza e malignitade. Secondo, per
non assistergli degni protectori e difensori che l’assicurassero, iuxta quello.
Non mancaranno, o Flacco, gli Maroni, se penuria non è de Mecenati. Appresso,
per trovarsi ubligato alla contemplazion, e studi de filosofia: li quali se non
son più maturi, denno però come parenti de le Muse esser predecessori a quelle.
Oltre perché traendolo da un canto la tragica Melpomene con più materia che
vena, e la comica Talia con più vena che materia da l’altro, accadeva che l’una
suffurandolo a l’altra, lui rimanesse in mezzo più tosto neutrale e sfacendato,
che comunmente negocioso. Finalmente per l’autorità de censori che ritenendolo
da cose più degne et alte alle quali era naturalmente inchinato, cattivavano il
suo ingegno: perché da libero sotto la virtù lo rendesser cattivo sott’una
vilissima e stolta ipocrisia. Al fine, nel maggior fervor de fastidi nelli
quali incorse, è avvenuto che non avend’altronde da consolarsi, accettasse
l’invito di costoro, che son dette inebriarlo de tai furori, versi e rime, con
quali non si mostraro ad altri: perché in quest’opra più riluce d’invenzione
che d’imitazione. cicada Dite: che intende per quei che si vantano de mirti et
allori? tansillo Si vantano e possono vantarsi de mirto quei che cantano
d’amori: alli quali (se nobilmente si portano) tocca la corona di tal pianta
consecrata a Venere, dalla quale riconoscono il furore. Possono vantarsi
d’allori quei che degnamente cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici
per la filosofia speculativa e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per
specchio exemplare a gli gesti politici e civili. cicada Dumque son più specie
de poeti e de corone? tansillo Non solamente quante son le muse, ma e di gran
numero di vantaggio: perché quantunque sieno certi geni, non possono però esser
determinate certe specie e modi d’ingegni umani. cicada Son certi regolisti de
poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovidio,
Marziale, Exiodo, Lucrezio et altri molti in numero de versificatori,
esaminandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele. tansillo Sappi certo,
fratel mio, che questi son vere bestie: perché non considerano quelle regole
principalmente servir per pittura dell’omerica poesia o altra simile in
particolare; e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e
non per instituir altri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori,
equali, simili e maggiori, de diversi geni. cicada Sì che come Omero nel suo
geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che serveno a
coloro che son più atti ad imitare che ad inventare; e son state raccolte da
colui che non era poeta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di
quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia, in serviggio di qualch’uno che
volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero: non di propria musa, ma
scimia de la musa altrui. tansillo Conchiudi bene, che la poesia non nasce da
le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le
poesie: e però tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie
de veri poeti. cicada Or come dumque saranno conosciuti gli veramente poeti?
tansillo Dal cantar de versi: con questo, che cantando o vegnano a delettare, o
vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme. cicada A chi dumque serveno
le regole d’Aristotele? tansillo A chi non potesse come Omero, Exiodo, Orfeo et
altri poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver propria musa, vuolesse
far l’amore con quella d’Omero. cicada Dumque han torto certi pedantacci de
tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti alcuni, o perché non apportino
favole e metafore conformi, o perché non hanno principii de libri e canti
conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non osservano la consuetudine di
far l’invocazione, o perché intesseno una istoria o favola con l’altra, o
perché [non] finiscono gli canti epilogando di quel ch’è detto e proponendo per
quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine, per censure e regole in
virtù di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere che essi loro a un
proposito (se gli venesse de fantasia) sarrebono gli veri poeti, et
arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son altro che vermi
che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per rodere, insporcare e
stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per
propria virtude et ingegno, cercano di mettersi avanti o a dritto o a torto,
per altrui vizio et errore. tansillo Or per tornar là donde l’affezzione n’ha
fatto alquanto a lungo digredire: dico che sono e possono essere tante sorte de
poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti et invenzioni umane,
alli quali son possibili d’adattarsi ghirlande non solo da tutti geni e specie
de piante, ma et oltre d’altri geni e specie di materie. Però corone a’ poeti
non si fanno solamente de mirti e lauri: ma anco de pampino per versi
fescennini, d’edera per baccanali, d’oliva per sacrifici e leggi; di pioppa,
olmo e spighe per l’agricoltura; de cipresso per funerali: e d’altre
innumerabili per altre tante occasioni. E se vi piacesse anco di quella materia
che mostrò un galantuomo quando disse: O fra Porro poeta da scazzate, ch’a
Milano t’affibbi la ghirlanda di boldoni, busecche e cervellate. Letteratura
italiana Einaudi 27 Giordano Bruno De gli eroici furori cicada Or
dumque sicuramente costui per diverse vene che mostra in diversi propositi e
sensi, potrà infrascarsi de rami de diverse piante, e potrà degnamente parlar
con le Muse: perché sia appo loro sua aura con cui si conforte, ancora in cui
si sustegna, e porto al qual si retire nel tempo de fatiche, exagitazioni e
tempeste. Onde dice: O monte Parnaso dove abito, Muse con le quali converso,
fonte cliconio o altro dove mi nodrisco, monte che mi doni quieto aroggiamento,
Muse che m’inspirate profonda dottrina, fonte che mi fai ripolito e terso;
monte dove ascendendo inalzo il core; Muse con le quali versando avvivo il
spirito; fonte sotto li cui arbori poggiando adorno la fronte; cangiate la mia
morte in vita, gli miei cipressi in lauri, e gli miei inferni in cieli: cioè
destinatemi immortale, fatemi poeta, rendetemi illustre, mentre canto di morte,
cipressi et inferni. tansillo Bene, perché a color che son favoriti dal cielo,
gli più gran mali si converteno in beni tanto maggiori: perché le necessitadi
parturiscono le fatiche e studi, e questi per il più de le volte la gloria
d’immortal splendore. cicada E la morte d’un secolo, fa vivo in tutti gli altri.
Séguita. tansillo Dice appresso: In luogo e forma di Parnaso ho ’l core, dove
per scampo mio convien ch’io monte; son mie muse i pensier ch’a tutte l’ore mi
fan presenti le bellezze conte; onde sovente versan gli occhi fore lacrime
molte, ho l’Eliconio fonte: per tai montagne, per tai ninfe et acqui, com’ha
piaciut’al ciel poeta nacqui. Or non alcun de reggi, non favorevol man
d’imperatore, non sommo sacerdot’, e gran pastore, mi dien tai grazie, onori e
privileggi; ma di lauro m’infronde mio cor, gli miei pensieri, e le mie onde.
1. Qua dechiara: prima qual sia il suo monte, dicendo esser l’alto affetto del
suo core; secondo, quai sieno le sue muse, dicendo esser le bellezze e
prorogative del suo oggetto; terzo, quai sieno gli fonti, e questi dice esser
le lacrime. In quel monte s’accende l’affetto; da quelle bellezze si concepe il
furore; e da quelle lacrime il furioso affetto si dimostra. 2. Cossì se stima
di non posser essere meno illustremente coronato per via del suo core, pensieri
e lacrime, che altri per man de regi, imperadori e papi. cicada Dechiarami quel
ch’intende per ciò che dice: il core in forma di Parnaso. tansillo Perché cossì
il cuor umano ha doi capi che vanno a terminarsi a una radice, e spiritualmente
da uno affetto del core procede l’odio et amore di doi contrarii; come have
sotto due teste una base il monte Parnaso. cicada A l’altro. tansillo Dice:
Chiama per suon di tromb’ il capitano tutti gli suoi guerrier sott’un’insegna;
dove s’avvien che per alcun in vano udir si faccia, perché pronto vegna, qual
nemico l’uccide, o a qual insano gli dona bando dal suo camp’e ’l sdegna: cossì
l’alm’i dissegni non accolti sott’un stendardo, o gli vuol morti, o tolti. (2)
Un oggetto riguardo, chi la mente m’ingombr’, è un sol viso, ad una beltà sola
io resto affiso, chi sì m’ha punt’il cor è un sol dardo, per un sol fuoco
m’ardo, e non conosco più ch’un paradiso. 1. Questo capitano è la voluntade
umana che siede in poppa de l’anima, con un picciol temone de la raggione
governando gli affetti d’alcune potenze interiori, contra l’onde de gli émpiti
naturali. Egli con il suono de la tromba, cioè della determinata elezzione,
chiama tutti gli guerrieri, cioè provoca tutte le potenze (le quali s’appellano
guerriere per esserno in continua ripugnanza e contrasto) o pur gli effetti di
quelle, che son gli contrariia pensieri; de quali altri verso l’una, altri
verso l’altra parte inchinano: e cerca constituirgli tutti sott’un’insegna d’un
determinato fine. Dove s’accade ch’alcun d’essi vegna chiamato in vano a farsi
prontamente vedere ossequioso (massime quei che procedono dalle potenze
naturali quali o nullamente o poco ubediscono alla raggione), al meno
forzandosi d’impedir gli loro atti, e dannar quei che non possono essere
impediti, viene a mostrarsi come uccidesse quelli, e donasse bando a questi:
procedendo contra gli altri con la spada de l’ira, et altri con la sferza del
sdegno. 2. Qua un oggetto riguarda, a cui è volto con l’intenzione. Per un
viso, con cui s’appaga ingombra la mente. In una sola beltade si diletta e
compiace; e dicesi restarvi affiso, perché l’opra d’intelligenza non è
operazion di moto, ma di quiete. E da là solamente concepe quel dardo che
l’uccide, cioè che gli constituisce l’ultimo fine di perfezione. Arde per un
sol fuoco, cioè dolcemente si consuma in uno amore. cicada Perché l’amore è
significato per il fuoco? tansillo Lascio molte altre caggioni, bastiti per ora
questa: perché cossì la cosa amata l’amore converte ne l’amante, come il fuoco
tra tutti gli elementi attivissimo è potente a convertire tutti quell’altri
semplici e composti in se stesso. cicada Or séguita. tansillo Conosce un
paradiso: cioè un fine principale, perché paradiso comunmente significa il
fine, il qual si distingue in quello ch’è absoluto, in verità et essenza, e
l’altro che è in similitudine, ombra e participazione. Del primo modo non può
essere più che uno, come non è più che uno l’ultimo et il primo bene. Del
secondo modo sono infiniti. Amor, sorte, l’oggetto e gelosia m’appaga, affanna,
content’e sconsola; il putto irrazional, la cieca e ria, l’alta bellezza, la
mia morte sola: mi mostr’il paradis’, il toglie via, ogni ben mi presenta, me
l’invola; tanto ch’il cor, la mente, il spirto, l’alma ha gioia, ha noia, ha
refrigerio, ha salma. Chi mi terrà di guerra? Chi mi farà fruir mio ben in
pace? Chi quel ch’annoia e quel che sì mi piacefarà lungi disgionti, per gradir
le mie fiamme e gli miei fonti? Mostra la caggion et origine onde si concepe il
furore e nasce l’entusiasmo, per solcar il campo de le muse, spargendo il seme
de suoi pensieri, aspirando a l’amorosa messe, scorgendo in sé il fervor de gli
affetti in vece del sole, e l’umor de gli occhi in luogo de le piogge. Mette
quattro cose avanti: l’amore, la sorte, l’oggetto, la gelosia. Dove l’amore non
è un basso, ignobile et indegno motore, ma un eroico signor e duce de lui; la
sorte non è altro che la disposizion fatale et ordine d’accidenti, alli quali è
suggetto per il suo destino; l’oggetto è la cosa amabile, et il correlativo de
l’amante; la gelosia è chiaro che sia un zelo de l’amante circa la cosa amata,
il quale non bisogna donarlo a intendere a chi ha gustato amore, et in vano ne
forzaremo dechiararlo ad altri. L’amore appaga: perché a chi ama, piace
l’amare; e colui che veramente ama non vorrebbe non amare. Onde non voglio
lasciar de referire quel che ne mostrai in questo mio sonetto: Cara, soave et
onorata piaga del più bel dardo che mai scelse amore; alto, leggiadro e
precioso ardore, che gir fai l’alma di sempr’arder vaga: qual forza d’erba e virtù
d’arte maga ti torrà mai dal centro del mio core, se chi vi porge ogn’or fresco
vigore quanto più mi tormenta, più m’appaga? Dolce mio duol, novo nel mond’e
raro, quando del peso tuo girò mai scarco, s’il rimedio m’è noia, e ’l mal
diretto? Occhi, del mio signor facelle et arco, doppiate fiamme a l’alma e
strali al petto, poich’il languir m’è dolce e l’ardor caro. La sorte affanna
per non felici e non bramati successi, o perché faccia stimar il suggetto men
degno de la fruizion de l’oggetto, e men proporzionato a la dignità di quello;
o perché non faccia reciproca correlazione, o per altre caggioni et impedimenti
che s’attraversano. L’oggetto contenta il suggetto, che non si pasce d’altro,
altro non cerca, non s’occupa in altro, e per quello bandisce ogni altro
pensiero. La gelosia sconsola, perché quantunque sia figlia dell’amore da cui
deriva, compagna di quello con cui va sempre insieme, segno del medesimo,
perché quello s’intende per necessaria conseguenza dove lei si dimostra (come
sen può far esperienza nelle generazioni intiere, che per freddezza di regione,
e tardezza d’ingegno, meno apprendono, poco amano, e niente hanno di gelosia),
tutta volta con la sua figliolanza, compagnia e significazione vien a perturbar
et attossicare tutto quel che si trova di bello e buono nell’amore. Là onde
dissi in un altro mio sonetto: O d’invidia et amor figlia sì ria, che le gioie
del padre volgi in pene, caut’Argo al male, e cieca talpa al bene, ministra di
tormento, Gelosia; Tisifone infernal fetid’Arpia, che l’altrui dolce rapi et
avvelene, austro crudel per cui languir conviene il più bel fior de la speranza
mia; fiera da te medesma disamata, augel di duol non d’altro mai presago, pena,
ch’entri nel cor per mille porte: se si potesse a te chiuder l’entrata, tant’il
regno d’amor saria più vago, quant’il mondo senz’odio e senza morte. Giongi a
quel ch’è detto che la Gelosia non sol tal volta è la morte e ruina de
l’amante, ma per le spesse volte uccide l’istesso amore, massime quando
parturisce il sdegno: percioché viene ad essere talmente dal suo figlio
affetta, che spinge l’amore e mette in dispreggio l’oggetto, anzi non lo fa più
essere oggetto. cicada Dechiara ora l’altre particole che siegueno, cioè perché
l’amore si dice putto irrazionale? tansillo Dirò tutto. Putto irrazionale si
dice l’amore non perché egli per sé sia tale; ma per ciò, che per il più fa
tali suggetti, et è in sugetti tali: atteso che in qualumque è più
intellettuale e speculativo, inalza più l’ingegno e più purifica l’intelletto,
facendolo svegliato, studioso e circonspetto, promovendolo ad un’animositate
eroica et emulazion di virtudi e grandezza, per il desio di piacere e farsi
degno della cosa amata. In altri poi (che son la massima parte) s’intende pazzo
e stolto, perché le fa uscir de proprii sentimenti, e le precipita a far delle
extravaganze, perché ritrova il spirito, anima e corpo mal complessionati, et
inetti a considerar e distinguere quel che gli è decente da quel che le rende
più sconci: facendoli suggetto di dispreggio, riso e vituperio. cicada Dicono
volgarmente e per proverbio, che l’amor fa dovenir gli vecchi pazzi, e gli
giovani savii. tansillo Questo inconveniente non accade a tutti vecchi, né quel
conveniente a tutti giovani; ma è vero de quelli ben complessionati, e de mal
complessionati quest’altri. E con questo è certo, che chi è avezzo nella
gioventù d’amar circonspettamente, amarà vecchio senza straviare. Ma il spasso
e riso è di quelli alli quali nella matura etade l’amor mette l’alfabeto in
mano. cicada Ditemi adesso, perché cieca e ria se dice la sorte o fato?
tansillo Cieca e ria si dice la sorte ancora, non per sé, perché è l’istesso
ordine de numeri e misure de l’universo; ma per raggion de suggetti si dice et
è cieca: perché le rende ciechi al suo riguardo, per esser ella incertissima. È
detta similmente ria, perché nullo de mortali è che in qualche maniera
lamentandosi e querelandosi di lei, non la incolpe. Onde disse il pugliese
poeta: Che vuol dir, Mecenate, che nessuno al mondo appar contento de la sorte,
che gli ha porgiuta la raggion o cielo? Cossì chiama l’oggetto alta bellezza,
perché a lui è unico e più eminente, et efficace per tirarlo a sé; e però lo
stima più degno, più nobile, e però sel sente predominante e superiore: come
lui gli vien fatto suddito e cattivo. La mia morte sola dice de la gelosia,
perché come l’amore non ha più stretta compagna che costei, cossì anco non ha
senso di maggior nemica: come nessuna cosa è più nemica al ferro che la
ruggine, che nasce da lui medesimo. cicada Or poi ch’hai cominciato a far
cossì, séguita a mostrar parte per parte quel che resta. tansillo Cossì farò.
Dice appresso de l’amore: Mi mostra il paradiso; onde fa veder che l’amore non
è cieco in sé, e per sé non rende ciechi alcuni amanti, ma per l’ignobili
disposizioni del suggetto: qualmente avviene che gli ucelli notturni dovegnon
ciechi per la presenza del sole. Quanto a sé dumque l’amore illustra,
chiarisce, apre l’intelletto e fa penetrar il tutto e suscita miracolosi
effetti. cicada Molto mi par che questo il Nolano lo dimostre in un altro suo
sonetto: Amor per cui tant’alto il ver discerno, ch’apre le porte di diamante
nere, per gli occhi entra il mio nume, e per vedere nasce, vive, si nutre, ha
regno eterno; fa scorger quant’ha ’l ciel, terr’, et inferno; fa presenti
d’absenti effiggie vere, repiglia forze, e col trar dritto, fere; e impiaga
sempr’il cor, scuopre l’interno. O dumque, volgo vile, al vero attendi, porgi
l’orecchio al mio dir non fallace, apri, apri, se puoi, gli occhi, insano e
bieco: fanciullo il credi perché poco intendi, perché ratto ti cangi ei par
fugace, per esser orbo tu lo chiami cieco. Mostra dumque il paradiso amore, per
far intendere, capire et effettuar cose altissime; o perché fa grandi almeno in
apparenza le cose amate. Il toglie via, dice de la sorte: perché questa
sovente, a mal grado de l’amante, non concede quel tanto che l’amor dimostra, e
quel che vede e brama, gli è lontano et adversario. Ogni ben mi presenta, dice
de l’oggetto: perché questo che vien dimostrato da l’indice de l’amore, gli par
la cosa unica, principale, et il tutto. Me l’invola, dice della Gelosia, non
già per non farlo presente togliendolo d’avanti gli occhi; ma in far ch’il bene
non sia bene, ma un angoscioso male; il dolce non sia dolce, ma un angoscioso
languire. Tanto ch’il cor, cioè la volontà, ha gioia nel suo volere per forza
d’amore, qualunque sia il successo. La mente, cioè la parte intellettuale, ha
noia, per l’apprension de la sorte, qual non aggradisce l’amante. Il spirito,
cioè l’affetto naturale, ha refrigerio, per esser rapito da quell’oggetto che
dà gioia al core, e potrebbe aggradir la mente. L’alma, cioè la sustanza
passibile e sensitiva, ha salma, cioè si trova oppressa dal grave peso de la
gelosia che la tormenta. Appresso la considerazion del stato suo, soggionge il
lacrimoso lamento, e dice: Chi mi torrà di guerra, e metterammi in pace; o chi
disunirà quel che m’annoia e danna, da quel che sì mi piace et apremi le porte
de cielo, perché gradite sieno le fervide fiamme del mio core, e fortunati i
fonti de gli occhi miei? Appresso continuando il suo proposito, soggionge:
Premi (oimè) gli altri, o mia nemica sorte; vatten via, Gelosia, dal mondo
fore: potran ben soli con sua diva corte far tutto nobil faccia e vago amore.
Lui mi tolga de vita, lei de morte; lei me l’impenne, lui brugge il mio core;
lui me l’ancide, lei ravvive l’alma; lei mio sustegno, lui mia grieve salma. Ma
che dic’io d’amore? se lui e lei son un suggetto o forma, se con medesm’imperio
et una norma fann’un vestigio al centro del mio core? Non son doi dumque: è una
che fa gioconda e triste mia fortuna. Quattro principii et estremi de due
contrarietadi vuol ridurre a doi principii et una contrarietade. Dice dumque:
Premi (oimè) gli altri, cioè basti a te, o mia sorte, d’avermi sin a tanto
oppresso, e (perché non puoi essere senza il tuo essercizio) volta altrove il
tuo sdegno. E vatten via fuori del mondo, tu, Gelosia: perché uno di que’ doi
altri che rimagnono potrà supplire alle vostre vicende et offici; se pur tu,
mia sorte, non sei altro ch’il mio Amore, e tu Gelosia, non sei estranea dalla
sustanza del medesimo. Reste dumque lui per privarmi de vita, per bruggiarmi,
per donarmi la morte, e per salma de le mie ossa: con questo che lei mi tolga
di morte, mi impenne, mi avvive e mi sustente. Appresso, doi principii et una
contrarietade riduce ad un principio et una efficacia, dicendo: Ma che dich’io
d’Amore? Se questa faccia, questo oggetto è l’imperio suo, e non par altro che
l’imperio de l’amore; la norma de l’amore è la sua medesima norma; l’impression
d’amore ch’appare nella sustanza del cor mio, non è certo altra impression che
la sua: perché dumque dopo aver detto nobil faccia, replico dicendo vago amore?
tansillo Or qua comincia il furioso a mostrar gli affetti suoi e discuoprir le
piaghe che sono per segno nel corpo, et in sustanza o in essenza nell’anima, e
dice cossì: Io che porto d’amor l’alto vessillo, gelate ho spene, e gli desir
cuocenti: a un tempo triemo, agghiaccio, ardo e sfavillo, son muto, e colmo il
ciel de strida ardenti; dal cor scintill’, e da gli occhi acqua stillo; e vivo
e muoio, e fo ris’e lamenti: son vive l’acqui, e l’incendio non more, ch’a gli
occhi ho Teti, et ho Vulcan al core, altr’amo, odio me stesso: ma s’io
m’impiumo, altri si cangia in sasso; poggi’altr’al ciel, s’io mi ripogno al
basso; sempr’altri fugge, s’io seguir non cesso; s’io chiamo, non risponde: e
quant’io cerco più, più mi s’asconde. A proposito di questo voglio seguitar
quel che poco avanti ti dicevo: che non bisogna affatigarsi per provare quel
che tanto manifestamente si vede, cioè che nessuna cosa è pura e schetta (onde
diceano alcuni, nessuna cosa composta esser vero ente: come l’oro composto non
è vero oro, il vino composto non è puro vero e mero vino); appresso, tutte le
cose constano de contrarii: da onde avviene che gli successi de li nostri
affetti per la composizione ch’è nelle cose, non hanno mai delettazion alcuna
senza qualch’amaro; anzi dico, e noto di più, che se non fusse l’amaro nelle
cose, non sarrebe la delettazione, atteso che la fatica fa che troviamo
delettazione nel riposo; la separazioLetteratura italiana ne è causa che
troviamo piacere nella congiunzione: e generalmente essaminando, si trovarà
sempre che un contrario è caggione che l’altro contrario sia bramato e piaccia.
cicada Non è dumque delettazione senza contrarietà? tansillo Certo non, come
senza contrarietà non è dolore, qualmente manifesta quel pitagorico poeta
quando dice: Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, nec auras respiciunt,
clausae tenebris et carcere caeco. Ecco dumque quel che caggiona la composizion
de le cose. Quindi aviene che nessuno s’appaga del stato suo, eccetto
qualch’insensato e stolto, e tanto più quanto più si ritrova nel maggior grado
del fosco intervallo de la sua pazzia: all’ora ha poca o nulla apprension del
suo male, gode l’esser presente senza temer del futuro; gioisce di quel ch’è e
per quello in che si trova, e non ha rimorso o cura di quel ch’è o può essere,
et in fine non ha senso della contrarietade la quale è figurata per l’arbore
della scienza del bene e del male. cicada Da qua si vede che l’ignoranza è
madre della felicità e beatitudine sensuale, e questa medesima è l’orto del
paradiso de gli animali; come si fa chiaro nelli dialogi de la Cabala del
cavallo Pegaseo e per quel che dice il sapiente Salomone: chi aumenta sapienza,
aumenta dolore. tansillo Da qua avviene che l’amore eroico è un tormento,
perché non gode del presente come il brutale amore; ma e del futuro e de
l’absente; e del contrario sente l’ambizione, emulazione, suspetto e timore.
Indi dicendo una sera dopo cena un certo de nostri vicini: Giamai fui tanto
allegro quanto sono adesso gli rispose Gioan Bruno, padre del Nolano: Mai fuste
più pazzo che adesso. cicada Volete dumque che colui che è triste sia savio, e
quell’altro ch’è più triste, sia più savio? tansillo Non, anzi intendo in
questi essere un’altra specie di pazzia, et oltre peggiore. cicada Chi dumque
sarà savio, se pazzo è colui ch’è contento, e pazzo è colui ch’è triste?
tansillo Quel che non è contento né triste. cicada Chi? quel che dome? quel
ch’è privo di sentimento? quel ch’è morto? tansillo No: ma quel ch’è vivo,
vegghia et intende; il quale considerando il male et il bene, stimando l’uno e
l’altro come cosa variabile e consistente in moto, mutazione e vicissitudine
(di sorte ch’il fine d’un contrario è principio de l’altro, e l’estremo de
l’uno è cominciamento de l’altro), non si dismette, né si gonfia di spirito,
vien continente nell’inclinazioni e temperato nelle voluptadi: stante ch’a lui
il piacere non è piacere, per aver come presente il suo fine. Parimente la pena
non gli è pena, perché con la forza della considerazione ha presente il termine
di quella. Cossì il sapiente ha tutte le cose mutabili come cose che non sono,
et afferma quelle non esser altro che vanità et un niente: perché il tempo a
l’eternità ha proporzione come il punto a la linea. cicada Sì che mai possiamo
tener proposito d’esser contenti o mal contenti, senza tener proposito de la
nostra pazzia, la qual espressamente confessiamo; là onde nessun che ne
raggiona, e per conseguenza nessun che n’è partecipe, sarà savio: et infine
tutti gli omini saran pazzi. tansillo Non tendo ad inferir questo, perché dirò
massime savio colui che potesse veramente dire talvolta il contrario di quel
che quell’altro: Giamai fui men allegro che adesso over: Giamai fui men triste
che ora. cicada Come non fai due contrarie qualitadi dove son doi affetti
contrarii? perché, dico, intendi come due virtudi, e non come un vizio et una
virtude, l’esser minimamente allegro, e l’esser minimamente triste? tansillo
Perché ambi doi li contrarii in eccesso (cioè per quanto vanno a dar su quel
più) son vizii, perché passano la linea; e gli medesimi in quanto vanno a dar
sul meno, vegnono ad esser virtude, perché si contegnono e rinchiudono intra
gli termini. cicada Come l’esser men contento e l’esser men triste non son una
virtù et uno vizio, ma son due virtudi? tansillo Anzi dico che son una e
medesima virtude: perché il vizio è là dove è la contrarietade; la contrarietade
è massime là dove è l’estremo; la contrarietà maggiore è la più vicina
all’estremo; la minima o nulla è nel mezzo, dove gli contrarii convegnono e son
uno et indifferente: come tra il freddissimo e caldissimo è il più caldo et il
più freddo; e nel mezzo puntuale è quello che puoi dire o caldo e freddo, o né
caldo né freddo, senza contrarietade. In cotal modo chi è minimamente contento
e minimamente triste, è nel grado della indifferenza, si trova nella casa della
temperanza, e là dove consiste la virtude e condizion d’un animo forte, che non
vien piegato da l’Austro né da l’Aquilone. Ecco dumque (per venir al proposito)
come questo furor eroico, che si chiarisce nella presente parte, è differente
da gli altri furori più bassi, non come virtù dal vizio: ma come un vizio ch’è
in un suggetto più divino o divinamente, da un vizio ch’è in un suggetto più
ferino o ferinamente. Di maniera che la differenza è secondo gli suggetti e
modi differenti, e non secondo la forma de l’esser vizio. cicada Molto ben posso
da quel ch’avete detto, conchiudere la condizion di questo eroico furore che
dice gelate ho spene, e li desir cuocenti; perché non è nella temperanza della
mediocrità, ma nell’eccesso delle contrarietadi ha l’anima discordevole: se
triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti desiri; è per l’avidità
stridolo, mutolo per il timore; Sfavilla dal core per cura d’altrui, e per
compassion sé versa lacrime da gli occhi; muore ne l’altrui risa, vive ne’
proprii lamenti; e (come colui che non è più suo) altri ama, odia se stesso:
perché la materia (come dicono gli fisici) con quella misura ch’ama la forma
absente, odia la presente. E cossì conclude nell’ottava la guerra ch’ha l’anima
in se stessa; e poi quando dice ne la sestina ma s’io m’impiumo, altri si
cangia in sasso e quel che séguita, mostra le sue passioni per la guerra
ch’essercita con li contrarii esterni. Mi ricordo aver letto in Iamblico, dove
tratta de gli Egizii misterii, questa sentenza: Impius animam dissidentem
habet: unde nec secum ipse convenire potest neque cum aliis. tansillo Or odi un
altro sonetto di senso consequente al detto: Ahi, qual condizioni natura, o
sorte: in viva morte morta vita vivo. Amor m’ha morto (ahi lasso) di tal morte,
che son di vit’insiem’e morte privo. Voto di spene, d’inferno a le porte, e
colmo di desio al ciel arrivo: talché suggetto a doi contrarii eterno, bandito
son dal ciel e da l’inferno. Non han mie pene triegua, perch’in mezzo di due
scorrenti ruote, de quai qua l’una, là l’altra mi scuote, qual Ixion convien mi
fugga e siegua: perché al dubbio discorso dan lezzion contraria il sprone e ’l
morso. Mostra qualmente patisca quel disquarto e distrazione in se medesimo:
mentre l’affetto, lasciando il mezzo e meta de la temperanza, tende a l’uno e
l’altro estremo; e talmente si trasporta alto o a destra, che anco si trasporta
a basso et a sinistra. cicada Come con questo che non è proprio de l’uno né de
l’altro estremo, non viene ad essere in stato o termine di virtude? tansillo
All’ora è in stato di virtude, quando si tiene al mezzo declinando da l’uno e
l’altro contrario: ma quando tende a gli estremi inchinando a l’uno e l’altr di
quelli, tanto gli manca de esser virtude, che è doppio vizio, il qual consiste
in questo che la cosa recede dalla sua natura, la perfezzion della quale
consiste nell’unità: e là dove convegnono gli contrarii, consta la
composizione, e consiste la virtude. Ecco dumque come è morto vivente, o vivo
moriente; là onde dice: in viva morte morta vita vivo. Non è morto, perché vive
ne l’oggetto; non è vivo, perché è morto in se stesso: privo di morte, perché
parturisce pensieri in quello; privo di vita, perché non vegeta o sente in se
medesimo. Appresso è bassissimo per la considerazion de l’alto intelligibile e
la compresa imbecillità della potenza; è altissimo per l’aspirazione
dell’eroico desio che trapassa di gran lunga gli suoi termini, et è altissimo
per l’appetito intellettuale che non ha modo e fine di gionger numero a numero;
è bassissimo per la violenza fattagli dal contrario sensuale che verso
l’inferno impiomba. Onde trovandosi talmente poggiar e descendere, sente ne
l’alma il più gran dissidio che sentir si possa; e confuso rimane per la
ribellion del senso, che lo sprona là d’onde la raggion l’affrena, e per il
contrario. – Il medesimo affatto si dimostra nella seguente sentenza dove la
raggione in nome de Filenio dimanda, et il furioso risponde in nome di Pastore,
che alla cura del gregge o armento de suoi pensieri si travaglia; quai pasce in
ossequio e serviggio de la sua ninfa, ch’è l’affezzione di quell’oggetto alla
cui osservanza è fatto cattivo: fileno Pastor. pastore Che vuoi? fileno pastore
fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore
fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore
fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore
fileno pastore fileno pastore fileno Che fai? Doglio. Perché? Perché non m’ha
per suo vita, né morte. Chi fallo? Amor. Quel rio? Quel rio. Dov’è? Nel centro
del mio cor se tien sì forte. Che fa? Fere. Chi? Me. Te? Sì. Con che? Con gli
occhi de l’inferno e del ciel porte. Speri? Spero. Mercé? Mercé. Da chi? Da chi
sì mi martóra nott’e dì. Hanne? Non so. Sei folle. Che, se cotal follia a
l’alma piace? Promette? Non. Niega? Nemeno. Tace? Sì, perché ardir tant’onestà
mi tolle. Vaneggi. In che? Nei stenti. pastore Temo il suo sdegno, più che miei
tormenti. Qua dice che spasma: lamentasi dell’amore, non già perché ami (atteso
che a nessuno veramente amante dispiace l’amare), ma perché infelicemente ami:
mentre escono que’ strali che son gli raggi di quei lumi, che medesimi secondo
che son protervi e ritrosi, overamente benigni e graziosi, vegnono ad esser
porte che guidano al cielo, overamente a l’inferno. Con questo vien mantenuto
in speranza di futura et incerta mercé, et in effetto di presente e certo
martìre. E quantunque molto apertamente vegga la sua follia, non per tanto
avvien che in punto alcuno si correga, o che almen possa conciperne dispiacere;
perché tanto ne manca, che più tosto in essa si compiace, come mostra dove
dice: Mai fia che dell’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’esser
felice. Appresso, mostra un’altra specie di furore parturita da qualche lume di
raggione, la qual suscita il timore, e supprime la già detta, a fin che non
proceda a fatto, che possa inasprir o sdegnar la cosa amata. Dice dumque la
speranza esser fondata sul futuro, senza che cosa alcuna se gli prometta o
nieghe: per che lui tace, e non dimanda, per téma d’offender l’onestade. Non ardisce
esplicarsi e proporsi, onde fia o con ripudio escluso, overamente con promessa
accettato: perché nel suo pensiero più contrapesa quel che potrebbe esser di
male in un caso, che bene in un altro. Mostrasi dumque disposto di suffrir più
presto per sempre il proprio tormento, che di poter aprir la porta a
l’occasione per la quale la cosa amata si turbe e contriste. cicada Con questo
dimostra l’amor suo esser veramente eroico: perché si propone per più principal
fine la grazia del spirito e la inclinazion de l’affetto, che la bellezza del
corpo, in cui si termina quell’amor ch’ha del divino. tansillo Sai bene che il
rapto platonico è di tre specie, de quali l’uno tende alla vita contemplativa o
speculativa, l’altro a l’attiva morale, l’altro a l’ociosa e voluptuaria: cossì
son tre specie d’amori; de quali l’uno dall’aspetto della forma corporale
s’inalza alla considerazione della spirituale e divina; l’altro solamente
persevera nella delettazion del vedere e conversare; l’altro dal vedere va a
precipitarsi nella concupiscenza del toccare. Di questi tre modi si componenti
altri, secondo che o il primo s’accompagna col secondo, o che s’accompagna col
terzo, o che con correno tutti tre modi insieme: de li quali ciascuno e tutti
oltre si moltiplicano in altri, secondo gli affetti de furiosi che tendeno o
più verso l’obietto spirituale, o più verso l’obietto corporale, o equalmente
verso l’uno e l’altro. Onde avviene che di quei che si ritrovano in questa
milizia e son compresi nelle reti d’amore, altri tendeno a fin del gusto che si
prende dal raccòrre le poma da l’arbore de la corporal bellezza, senz’il qual
ottento (o speranza al meno) stimano degno di riso e vano ogn’amoroso studio:
et in cotal modo corrono tutti quei che son di barbaro ingegno, che non possono
né cercano magnificarsi amando cose degne, aspirando a cose illustri, e più
alto a cose divine accomodando gli suoi studi e gesti, a i quali non è chi
possa più ricca e commodamente suppeditar l’ali, che l’eroico amore. Altri si
fanno avanti a fin del frutto della delettazione che prendeno da l’aspetto
della bellezza e grazia del spirito che risplende e riluce nella leggiadria del
corpo; e de tali alcuni benché amino il corpo e bramino assai d’esser uniti a
quello, della cui lontananza si lagnano, e disunion s’attristano, tutta volta
temeno che presumendo in questo non vegnan privi di quell’affabilità,
conversazione, amicizia et accordo che gli è più principale: essendo e dal
tentare non più può aver sicurezza di successo grato, che gran téma di cader da
quella grazia qual come cosa tanto gloriosa e degna gli versa avanti gli occhi
del pensiero. cicada È cosa degna, o Tansillo, per molte virtudi e perfezzioni
che quindi derivano nell’umano ingegno, cercar, accettar, nodrire e conservar
un simile amore: ma si deve ancora aver gran cura di non abbattersi ad
ubligarsi ad un oggetto indegno e basso, a fin che non vegna a farsi partecipe
della bassezza et indignità del medesimo; in proposito de quali intendo il
consiglio del poeta ferrarese: Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi
ritrarlo, e non v’inveschi l’ali. tansillo A dir il vero, l’oggetto ch’oltre la
bellezza del corpo non hav’altro splendore, non è degno d’esser amato ad altro
fine che di far (come dicono) la razza: e mi par cosa da porco o da cavallo di
tormentarvici su; et io (per me) mai fui più fascinato da cosa simile, che
potesse al presente esser fascinato da qualche statua o pittura, dalle quali mi
pare indifferente. Sarebbe dumque un vituperio grande ad un animo generoso, se
d’un sporco, vile, bardo et ignobile ingegno (quantunque sotto eccellente
figura venesse ricuoperto) dica: Temo il suo sdegno più ch’il mio
tormento. tansillo Poneno, e sono più
specie de furori, li quali tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non
mostrano che cecità, stupidità et impeto irrazionale, che tende al ferino
insensato; altri consistono in certa divina abstrazzione per cui dovegnono
alcuni megliori in fatto che uomini ordinarii. E questi sono de due specie
perché: altri per esserno fatti stanza de dèi o spiriti divini, dicono et
operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e
tali per l’ordinario sono promossi a questo da l’esser stati prima
indisciplinati et ignoranti, nelli quali come vòti di proprio spirito e senso,
come in una stanza purgata, s’intrude il senso e spirto divino; il qual meno
può aver luogo e mostrarsi in quei che son colmi de propria raggione e senso,
perché tal volta vuole ch’il mondo sappia certo che se quei non parlano per
proprio studio et esperienza come è manifesto, séguite che parlino et oprino
per intelligenza superiore: e con questo la moltitudine de gli uomini in tali
degnamente ha maggior admirazion e fede. Altri, per essere avezzi o abili alla
contemplazione, e per aver innato un spirito lucido et intellettuale, da uno
interno stimolo e fervor naturale suscitato da l’amor della divinitate, della
giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio
dell’intenzione acuiscono gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade
accendono il lume razionale con cui veggono più che ordinariamente: e questi
non vegnono al fine a parlar et operar come vasi et instrumenti, ma come
principali artefici et efficienti. cicada Di questi doi geni quali stimi
megliori? tansillo Gli primi hanno più dignità, potestà et efficacia in sé:
perché hanno la divinità. Gli secondi seri essi più degni, più potenti et
efficaci, e son divini. Gli primi son degni come l’asino che porta li
sacramenti: gli secondi come una cosa sacra. Nelli primi si considera e vede in
effetto la divinità e quella s’admira, adora et obedisce. Ne gli secondi si
considera e vede l’eccellenza della propria umanitade. – Or venemo al
proposito. Questi furori de quali noi raggioniamo, e che veggiamo messi in
esecuzione in queste sentenze, non son oblio, ma una memoria; non son
negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e buono con cui si procure
farsi perfetto con transformarsi et assomigliarsi a quello. Non è un raptamento
sotto le leggi d’un fato indegno, con gli lacci de ferine affezzioni: ma un
impeto razionale che siegue l’apprension intellettuale del buono e bello che
conosce; a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere, di sorte che della
nobiltà e luce di quello viene ad accendersi, et investirsi de qualitade e
condizione per cui appaia illustre e degno. Doviene un dio dal contatto
intellettuale di quel nume oggetto; e d’altro non ha pensiero che de cose
divine, e mostrasi insensibile et impassibile in quelle cose che comunmente
massime senteno, e da le quali più vegnon altri tormentati; niente teme, e per
amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de
la vita. Non è furor d’atra bile che fuor di consiglio, raggione et atti di
prudenza lo faccia vagare guidato dal caso e rapito dalla disordinata tempesta;
come quei ch’avendo prevaricato da certa legge de la divina Adrastia vegnono
condannati sotto la carnificina de le Furie: acciò sieno essagitati da una
dissonanza tanto corporale per sedizioni, ruine e morbi, quanto spirituale per
la iattura dell’armonia delle potenze cognoscitive et appetitive. Ma è un calor
acceso dal sole intelligenziale ne l’anima et impeto divino che gl’impronta
l’ali: onde più e più avvicinandosi al sole intelligenziale, rigettando la
ruggine de le umane cure, dovien un oro probato e puro, ha sentimento della
divina et interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria
della legge insita in tutte le cose. Non come inebriato da le tazze di Circe va
cespitando et urtando or in questo, or in quell’altro fosso, or a questo or a
quell’altro scoglio; o come un Proteo vago or in questa or in quell’altra
faccia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo, né materia di fermarsi e
stabilirsi. Ma senza distemprar l’armonia vince e supera gli orrendi mostri; e
per tanto che vegna a dechinare, facilmente ritorna al sesto con quelli intimi
instinti, che come nove muse saltano e cantano circa il splender
dell’universale Apolline: e sotto l’imagini sensibili e cose materiali va
comprendendo divini ordini e consegli. È vero che tal volta avendo per fida
scorta l’amore, ch’è gemino, e perché tal volta per occorrenti impedimenti si
vede defraudato dal suo sforzo, all’ora come insano e furioso mette in
precipizio l’amor di quello che non può comprendere: onde confuso da l’abisso della
divinità tal volta dismette le mani, e poi ritorna pure a forzarsi con la
voluntade verso là dove non può arrivare con l’intelletto. È vero pure che
ordinariamente va spasseggiando, et or più in una, or più in un’altra forma del
gemino Cupido si trasporta; perché la lezzion principale che gli dona Amore è
che in ombra contempla (quando non puote in specchio) la divina beltate: e come
gli proci di Penelope s’intrattegna con le fante quando non gli lice conversar
con la padrona. Or dumque, per conchiudere, possete da quel ch’è detto
comprendere qual sia questo furioso di cui l’imagine ne vien messa avanti,
quando si dice: Se la farfalla al suo splendor ameno vola, non sa cb’è fiamm’al
fin discara; se quand’il cervio per sete vien meno, al rio va, non sa della
freccia amara; s’il lioncorno corre al casto seno non vede il laccio che se gli
prepara: i’al lum’, al font’, al grembo del mio bene, veggio le fiamme, i
strali e le catene. S’è dolce il mio languire, perché quell’alta face sì
m’appaga, perché l’arco divin sì dolce impiaga, perché in quel nodo è avolto il
mio desire: mi sien eterni impacci fiamme al cor, strali al petto, a l’alma
lacci. Dove dimostra l’amor suo non esser come de la farfalla, del cervio e del
lioncorno, che fuggirebono s’avesser giudizio del fuoco, della saetta e de gli
lacci, e che non han senso d’altro che del piacere: ma vien guidato da un
sensatissimo e pur troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco che
altro refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più que’ legami che altra
libertade. Perché questo male non è absolutamente male: ma per certo rispetto
al bene secondo l’opinione, e falso; quale il vecchio Saturno ha per condimento
nel devorar che fa de proprii figli. Perché questo male absolutamente ne
l’occhio de l’eternitade è compreso o per bene, o per guida che ne conduce a
quello; atteso che questo fuoco è l’ardente desio de le cose divine, questa
saetta è l’impression del raggio della beltade della superna luce, questi lacci
son le specie del vero che uniscono la nostra mente alla prima verità: e le
specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo e sommo bene. A quel senso
io m’accostai quando dissi: D’un sì bel fuoco e d’un sì nobil laccio beltà
m’accende, et onestà m’annoda, ch’in fiamm’e servitù convien ch’io goda, fugga
la libertade e tema il ghiaccio; l’incendio è tal ch’io m’ard’e non mi sfaccio,
el nodo è tal ch’il mondo meco il loda, né mi gela timor, né duol mi snoda; ma
tranquill’è l’ardor, dolce l’impaccio. Scorgo tant’alto il lume che m’infiamma,
el laccio ordito di sì ricco stame, che nascend’il pensier, more il desio.
Poiché mi splend’al cor sì bella fiamma, e mi stringe il voler sì bel legame,
sia serva l’ombra, et arda il cener mio. Tutti gli amori (se sono eroici e non
son puri animali, che chiamano naturali e cattivi alla generazione, come
instrumenti de la natura in certo modo) hanno per oggetto la divinità, tendeno
alla divina bellezza, la quale prima si comunica all’anime e risplende in
quelle, e da quelle poi o (per dir meglio) per quelle poi si comunica alli
corpi: onde è che l’affetto ben formato ama gli corpi o la corporal bellezza,
per quel che è indice della bellezza del spirito. Anzi quello che n’innamora
del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la qual si chiama bellezza;
la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli determinati
colori o forme, ma in certa armonia e consonanza de membri e colori . Questa
mostra certa sensibile affinità col spirito a gli sensi più acuti e
penetrativi: onde séguita che tali più facilmente et intensamente s’innamorano,
et anco più facilmente si disamorano, e più intensamente si sdegnano, con
quella facilità et intensione, che potrebbe essere nel cangiamento del spirito
brutto, che in qualche gesto et espressa intenzione si faccia aperto: di sorte
che tal bruttezza trascorre da l’anima al corpo, a farlo non apparir oltre come
gli apparia bello. La beltà dumque del corpo ha forza d’accendere; ma non già
di legare e far che l’amante non possa fuggire, se la grazia che si richiede
nel spirito non soccorre, come la onestà, la gratitudine, la cortesia,
l’accortezza: però dissi bello quel fuoco che m’accese, perché ancor fu nobile
il laccio che m’annodava. cicada Non creder sempre cossì, Tansillo; perché
qualche volta quantunque discuopriamo vizioso il spirito non lasciamo però di
rimaner accesi et allacciati: di maniera che quantunque la raggion veda il male
et indignità di tale amore, non ha però efficacia di alienar il disordinato
appetito. Nella qual disposizion credo che fusse il Nolano quando disse: Oimè
che son constretto dal furore d’appigliarmi al mio male, ch’apparir fammi un
sommo ben Amore. Lasso, a l’alma non cale ch’a contrarii consigli umqua
ritenti; e del fero tiranno, che mi nodrisce in stenti, e poté pormi da me
stess’in bando, più che di libertad’ i’ son contento. Spiego le vele al vento,
che mi suttraga a l’odioso bene: e tempestoso al dolce danno amene. tansillo
Questo accade, quando l’uno e l’altro spirto è vizioso, e son tinti come di
medesimo inchiostro, atteso che dalla conformità si suscita, accende e si
confirma l’amore. Cossì gli viziosi facilmente concordano in atti di medesimo
vizio. E non voglio lasciar de dire ancora quel che per esperienza conosco, che
quantunque in un animo abbia discuoperti vizii molto abominati da me, com’è
dire una sporca avarizia, una vilissima ingordiggia sul danaio, irreconoscenza
di ricevuti favori e cortesie, un amor di persone al tutto vili (de quali vizii
questo ultimo massime dispiace perché toglie la speranza a l’amante che per
esser egli, o farsi più degno, possa da lei esser più accettato), tutta volta
non mancava ch’io ardesse per la beltà corporale. Ma che? io l’amavo senza
buona volontà, essendo che non per questo m’arrei più contristato che allegrato
delle sue disgrazie et infortunii. cicada Però è molto propria et a proposito
quella distinzion che fanno intra l’amare e voler bene. tansillo È vero, perché
a molti vogliamo bene, cioè desideramo che siano savii e giusti: ma non le
amiamo, perché sono iniqui et ignoranti; molti amiamo perché son belli, ma non
gli vogliamo bene, perché non meritano: e tra l’altre cose che stima l’amante
quello non meritare, la prima è d’essere amato; e però benché non possa astenersi
d’amare, niente di meno gli ne rincresce e mostra il suo rincrescimento: come
costui che diceva, Oimè ch’io son costretto dal furore d’appigliarmi al mio
male. In contraria disposizione fu, o per altro oggetto corporale in
similitudine, o per suggetto divino in verità, quando disse: Bench’a tanti
martir mi fai suggetto, pur ti ringrazio, e assai ti deggio, Amore, che con sì
nobil piaga apriste il petto, e tal impadroniste del mio core, per cui fia ver
ch’un divo e viv’oggetto, de Dio più bella imago ’n terra adore; pensi chi vuol
ch’il mio destin sia rio, ch’uccid’in speme, e fa viv’in desio. Pascomi in alta
impresa; e bench’il fin bramato non consegua, e ’n tanto studio l’alma si
dilegua, basta che sia sì nobilment’ accesa: basta ch’alto mi tolsi, e da l’ignobil
numero mi sciolsi. L’amor suo qua è a fatto eroico e divino, e per tale voglio
intenderlo: benché per esso si dica suggetto a tanti martìri; perché ogni
amante ch’è disunito e separato da la cosa amata (alla quale com’è congionto
con l’affetto, vorrebe essere con l’effetto) si trova in cordoglio e pena, si
crucia e si tormenta: non già perché ami, atteso che degnissima e
nobilissimamente sente impiegato l’amore; ma perché è privo di quella fruizione
la quale ottenerebbe se fusse gionto a quel termine al qual tende: non dole per
il desio che ravviva, ma per la difficultà del studio ch’il martora. Stiminlo
dumque altri a sua posta infelice per questa apparenza de rio destino, come che
l’abbia condannato a cotai pene: perché egli non lasciarà per tanto de
riconoscer l’obligo ch’have ad Amore, e rendergli grazie, perché gli abbia
presentato avanti gli occhi de la mente una specie intelligibile, nella quale
in questa terrena vita (rinchiuso in questa priggione de la carne, et avvinto
da questi nervi, e confirmato da queste ossa) li sia lecito di contemplar più
altamente la divinitade, che se altra specie e similitudine di quella si fusse
offerta. cicada Il divo dumque e vivo oggetto, ch’ei dice, è la specie
intelligibile più alta che egli s’abbia possuto formar della divinità; e non è
qualche corporal bellezza che gli adombrasse il pensiero come appare in
superficie del senso? tansillo Vero: perché nessuna cosa sensibile, né specie
di quella, può inalzarsi a tanta dignitade. cicada Come dumque fa menzione di
quella specie per oggetto, se (come mi pare) il vero oggetto è la divinità
istessa? tansillo La è oggetto finale, ultimo e perfettissimo; non già in
questo stato dove non possemo veder Dio se non come in ombra e specchio, e però
non ne può esser oggetto se non in qualche similitudine; non tale Lequal possa
esser abstratta et acquistata da bellezza et eccellenza corporea per virtù del
senso: ma qual può esser formata nella mente per virtù de l’intelletto. Nel
qual stato ritrovandosi, viene a perder l’amore et affezzion d’ogni altra cosa
tanto sensibile quanto intelligibile; perché questa congionta a quel lume
dovien lume essa ancora, e per conseguenza si fa un Dio: perché contrae la
divinità in sé essendo ella in Dio per la intenzione con cui penetra nella
divinità (per quanto si può), et essendo Dio in ella, per quanto dopo aver
penetrato viene a conciperla e (per quanto si può) a ricettarla e comprenderla
nel suo concetto. Or di queste specie e similitudini si pasce l’intelletto
umano da questo mondo inferiore, sin tanto che non gli sia lecito de mirar con
più puri occhi la bellezza della divinitade: come accade a colui che è gionto a
qualch’edificio eccellentissimo et ornatissimo, mentre va considerando cosa per
cosa in quello, si aggrada, si contenta, si pasce d’una nobil maraviglia; ma se
avverà poi che vegga il signor di quelle imagini, di bellezza incomparabilmente
maggiore, lasciata ogni cura e pensiero di esse, tutto è volto et intento a
considerar quell’uno. Ecco dumque come è differenza in questo stato dove
veggiamo la divina bellezza in specie intelligibili tolte da gli effetti, opre,
magisteri, ombre e similitudini di quella, et in quell’altro stato dove sia
lecito di vederla in propria presenza. – Dice appresso: Pascomi d’alt’impresa,
perché (come notano gli Pitagorici) cossì l’anima si versa e muove circa Dio,
come il corpo circa l’anima. cicada Dumque il corpo non è luogo de l’anima?
tansillo Non: perché l’anima non è nel corpo localmente, ma come forma
intrinseca e formatore estrinseco; come quella che fa gli membri, e figura il
composto da dentro e da fuori. Il corpo dumque è ne l’anima, l’anima nella
mente, la mente o è Dio, o è in Dio, come disse Plotino: cossì come per essenza
è in Dio che è la sua vita, similmente per l’operazione intellettuale e la
voluntà conseguente dopo tale operazione, si riferisce alla sua luce e
beatifico oggetto. Degnamente dumque questo affetto del eroico furore si pasce
de sì alta impresa. Né per questo che l’obietto è infinito, in atto
simplicissimo, e la nostra potenza intellettiva non può apprendere l’infinito
se non in discorso, o in certa maniera de discorso, com’è dire in certa
raggione potenziale o aptitudinale, è come colui che s’amena a la consecuzion
de l’immenso onde vegna a constituirse un fine dove non è fine. cicada
Degnamente, perché l’ultimo fine non deve aver fine, atteso che non sarebe
ultimo. È dumque infinito in intenzione, in perfezzione, in essenza et in
qualsivoglia altra maniera d’esser fine. [tansillo] Dici il vero. Or in questa
vita tal pastura è di maniera tale, che più accende, che possa appagar il
desio, come ben mostra quel divino poeta che disse: Bramando è lassa l’alma a
Dio vivente, et in altro luogo: Attenuati sunt oculi mei suspicientes in
excelsum. Però dice: E bench’il fin bramato non consegua, E ’n tanto studio
l’alma si dilegua, Basta che sia sì nobilmente accesa: vuol dire ch’in tanto
l’anima si consola e riceve tutta la gloria che può ricevere in cotal stato, e
che sia partecipe di quel ultimo furor de l’uomo in quanto uomo di questa
condizione, nella qual si trova adesso, e come ne veggiamo. cicada Mi par che
gli peripatetici (come esplicò Averroe) vogliano intender questo quando dicono
la somma felicità de l’uomo consistere nella perfezzione per le scienze
speculative. tansillo È vero, e dicono molto bene: perché noi in questo stato
nel qual ne ritroviamo, non possiamo desiderar né ottener maggior perfezzione
che quella in cui siamo quando il nostro intelletto mediante qualche nobil
specie intelligibile s’unisce o alle sustanze seperate, come dicono costoro, o
a la divina mente, come è modo de dir de Platonici. Lascio per ora di raggionar
de l’anima o uomo in altro stato e modo di essere che possa trovarsi o
credersi. cicada Ma che perfezzione o satisfazzione può trovar l’uomo in quella
cognizione la quale non è perfetta? tansillo Non sarà mai perfetta per quanto
l’altissimo oggetto possa esser capito, ma per quanto l’intelletto nostro possa
capire: basta che in questo et altro stato gli sia presente la divina bellezza
per quanto s’estende l’orizonte della vista sua. cicada Ma de gli uomini non
tutti possono giongere a quello dove può arrivar uno o doi. tansillo Basta che
tutti corrano; assai è ch’ognun faccia il suo possibile; perché l’eroico
ingegno si contenta più tosto di cascar o mancar degnamente e nell’alte
imprese, dove mostre la dignità del suo ingegno, che riuscir a perfezzione in
cose men nobili e basse. cicada Certo che meglio è una degna et eroica morte,
che un indegno e vil trionfo. tansillo A cotal proposito feci questo sonetto:
Poi che spiegat’ho l’ali al bel desio, quanto più sott’il piè l’aria mi scorgo,
più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e vers’il ciel
m’invio. Né del figliuol di Dedalo il fin rio fa che giù pieghi, anzi via più
risorgo; ch’i’cadrò morto a terra ben m’accorgo: ma qual vita pareggia al morir
mio? La voce del mio cor per l’aria sento: Ove mi porti, temerario? china, che
raro è senza duol tropp’ardimento; Non temer (respond’io) l’alta ruina. Fendi
sicur le nubi, e muor contento: s’il ciel sì illustre morte ne destina. cicada
Io intendo quel che dice: basta ch’alto mi tolsi; ma non quando dice: e da
l’ignobil numero mi sciolsi, s’egli non intende d’esser uscito fuor de l’antro
platonico, rimosso dalla condizion della sciocca et ignobilissima moltitudine;
essendo che quei che profittano in questa contemplazione non possono esser
molti e numerosi. tansillo Intendi molto bene; oltre, per l’ignobil numero può
intendere il corpo e sensual cognizione dalla quale bisogna alzarsi e disciòrsi
chi vuol unirsi alla natura di contrario geno. cicada Dicono gli Platonici due
sorte de nodi con gli quali l’anima è legata al corpo. L’uno è certo atto
vivifico che da l’anima come un raggio scende nel corpo; l’altro è certa
qualità vitale che da quell’atto resulta nel corpo. Or questo numero
nobilissimo movente ch’è l’anima, come intendete che sia disciolto da l’ignobil
numero ch’è il corpo? tansillo Certo non s’intendeva secondo alcun modo di
questi: ma secondo quel modo con cui le potenze che non son comprese e
cattivate nel grembo de la materia, e qualche volta come sopite et inebriate si
trovano quasi ancora esse occupate nella formazion della materia e vivificazion
del corpo; tal’or come risvegliate e ricordate di se stesse riconoscendo il suo
principio e geno, si voltano alle cose superiori, si forzano al mondo
intelligibile come al natio soggiorno; quali tal volta da là per la conversione
alle cose inferiori, si son trabalsate sotto il fato e termini della
generazione. Questi doi appolsi son figurati nelle due specie de metamorfosi
espresse nel presente articolo che dice: Quel dio che scuot’il folgore sonoro,
Asterie vedde furtivo aquilone, Mnemosine pastor, Danae oro, Alcmena sposo,
Antiopa caprone; fu di Cadmo a le suore bianco toro, a Leda cigno, a Dolida
dragane: io per l’altezza de l’oggetto mio da suggetto più vil dovegno un dio.
Fu cavallo Saturno, Nettun delfin, e vitello si tenne Ibi, e pastor Mercurio
dovenne, un’uva Bacco, Apollo un corvo furno: et io (mercé d’amore) mi cangio
in dio da cosa inferiore. Nella natura è una revoluzione et un circolo per cui,
per l’altrui perfezzione e soccorso, le cose superiori s’inchinano
all’inferiori, e per la propria eccellenza e felicitade le cose inferiori
s’inalzano alle superiori. Però vogliono i Pitagorici e Platonici esser donato
a l’anima ch’a certi tempi non solo per spontanea voluntà, la qual le rivolta
alla comprension de le nature, ma et anco della necessità d’una legge interna
scritta e registrata dal decreto fatale vanno a trovar la propria sorte
giustamente determinata. E dicono che l’anime non tanto per certa
determinazione e proprio volere come ribelle declinano dalla divinità, quanto
per certo ordine per cui vegnono affette verso la materia: onde non come per
libera intenzione, ma come per certa occolta conseguenza vegnono a cadere; e
questa è l’inclinazion ch’hanno alla generazione, come a certo minor bene.
(Minor bene dico per quanto appartiene a quella natura particolare, non già per
quanto appartiene alla natura universale dove niente accade senza ottimo fine
che dispone il tutto secondo la giustizia.) Nella qual generazione ritrovandosi
(per la conversione che vicissitudinalmente succede) de nuovo ritornano a gli
abiti superiori. cicada Sì che vogliono costoro che l’anime sieno spinte dalla
necessità del fato, e non hanno proprio consiglio che le guide a fatto?
tansillo Necessità, fato, natura, consiglio, voluntà, nelle cose giustamente e
senza errore ordinate, tutti concorrenti in uno. Oltre che (come riferisce
Plotino) vogliono alcuni che certe anime possono fuggir quel proprio male, le
quali prima che se gli confirme l’abito corporale, conoscendo il periglio
rifuggono alla mente. Perché la mente l’inalza alle cose sublimi, come
l’imaginazion l’abbassa alle cose inferiori: la mente le mantiene nel stato et
identità come l’imaginazione nel moto e diversità; la mente sempre intende uno,
come l’imaginazione sempre vassi fingendo varie imagini. In mezzo è la facultà
razionale la quale è composta de tutto, come quella in cui concorre l’uno con
la moltitudine, il medesimo col diverso, il moto col stato, l’inferiore col
superiore. – Or questa conversione e vicissitudine è figurata nella ruota delle
metamorfosi, dove siede l’uomo nella parte eminente, giace una bestia al fondo,
un mezzo uomo e mezzo bestia descende dalla sinistra, et un mezzo bestia e
mezzo uomo ascende da la destra. Questa conversione si mostra dove Giove,
secondo la diversità de affetti e maniere di quelli verso le cose inferiori,
s’investisce de diverse figure dovenendo in forma de bestie; e cossi gli altri
dèi transmigrano in forme basse et aliene. E per il contrario, per sentimento
della propria nobiltà, ripigliano la propria e divina forma: come il furioso
eroico inalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontade, con
l’ali de l’intelletto e voluntade intellettiva s’inalza alla divinitade
lasciando la forma de suggetto più basso. E però disse: Da suggetto più vil
dovegno un Dio, Mi cangio in Dio da cosa inferiore. tansillo Cossì si descrive il discorso de
l’amor eroico per quanto tende al proprio oggetto ch’è il sommo bene; e
l’eroico intelletto che gionger si studia al proprio oggetto che è il primo
vero o la verità absoluta. Or nel primo discorso apporta tutta la somma di
questo, e l’intenzione: l’ordine della quale vien descritto in cinque altri
seguenti. Dice dumque: Alle selve i mastini e i veltri slaccia il giovan
Atteon, quand’il destino gli drizz’il dubio et incauto camino, di boscareccie
fiere appo la traccia. Ecco tra l’acqui il più bel busto e faccia che veder
poss’il mortal e divino, in ostro et alabastro et oro fino vedde: e ’l gran
cacciator dovenne caccia. Il cervio ch’a’ più folti luoghi drizzav’i passi più
leggieri, ratto voraro i suoi gran cani e molti. I’allargo i miei pensieri ad
alta preda, et essi a me rivolti morte mi dan con morsi crudi e fieri. Atteone
significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza,
all’apprension della beltà divina. Costui slaccia i mastini et i veltri: de
quai questi son più veloci, quelli più forti. Perché l’operazion de
l’intelletto precede l’operazion della voluntade; ma questa è più vigorosa et
efficace che quella: atteso che a l’intelletto umano è più amabile che
comprensibile la bontade e bellezza divina, oltre che l’amore è quello che
muove e spinge l’intelletto acciò che lo preceda come lanterna. Alle selve,
luoghi inculti e solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi, e però dove
non son impresse l’orme de molti uomini, il giovane poco esperto e prattico,
come quello di cui la vita è breve et instabile il furore, nel dubio camino de
l’incerta et ancipite raggione et affetto designato nel carattere di Pitagora,
dove si vede più spinoso, inculto e deserto il destro et arduo camino, e per
dove costui slaccia i veltri e mastini appo la traccia di boscareccie fiere che
sono le specie intelligibili de concetti ideali, che sono occolte, perseguitate
da pochi, visitate da rarissimi, e che non s’offreno a tutti quelli che le
cercano: Ecco tra l’acqui, cioè nel specchio de le similitudini, nell’opre dove
riluce l’efficacia della bontade e splender divino: le quali opre vegnon
significate per il suggetto de l’acqui superiori et inferiori, che son sotto e
sopra il firmamento; vede il più bel busto e faccia, cioè potenza et operazion
esterna che vedersi possa per abito et atto di contemplazione et applicazion di
mente mortal o divina, d’uomo o dio alcuno. cicada Credo che non faccia
comparazione, e pena come in medesimo geno la divina et umana apprensione
quanto al modo di comprendere, il quale è diversissimo, ma quanto al suggetto
che è medesimo. tansillo Cossì è. Dice in ostro, alabastro et oro, perché
quello che in figura nella corporal bellezza è vermiglio, bianco e biondo,
nella divinità significa l’ostro della divina vigorosa potenza, l’oro della
divina sapienza, l’alabastro della beltade divina, nella contemplazion della
quale gli Pitagorici, Caldei, Platonici et altri al meglior modo che possono,
s’ingegnano d’inalzarsi. Vedde il gran cacciator: comprese quanto è possibile,
e dovenne caccia: andava per predare e rimase preda, questo cacciator per
l’operazion de l’intelletto con cui converte le cose apprese in sé. (cicada Intendo, perché forma le specie
intelligibili a suo modo e le proporziona alla sua capacità, perché son
ricevute a modo de chi le riceve. tansillo) E questa caccia per l’operazion
della voluntade, per atto della quale lui si converte nell’oggetto. cicada
Intendo: perché lo amore transforma e converte nella cosa amata. tansillo Sai
bene che l’intelletto apprende le cose intelligibilmente, idest secondo il suo
modo; e la voluntà perseguita le cose naturalmente, cioè secondo la raggione
con la quale sono in sé. Cossì Atteone con que’ pensieri, que’ cani che
cercavano estra di sé il bene, la sapienza, la beltade, la fiera boscareccia,
et in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta
bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e s’accorse
che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la
bramata preda, perché già avendola contratta in sé, non era necessario di
cercare fuor di sé la divinità. cicada Però ben si dice il regno de Dio esser
in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del riformato intelletto e
voluntade. tansillo Cossì è: ecco dumque come l’Atteone, messo in preda de suoi
cani, perseguitato da proprii pensieri, corre e drizza i novi passi: è rinovato
a procedere divinamente e più leggermente, cioè con maggior facilità e con una
più efficace lena a’ luoghi più folti, alli deserti, alla reggion de cose incomprensibili;
da quel ch’era un uom volgare e commune, dovien raro et eroico, ha costumi e
concetti rari, e fa estraordinaria vita. Qua gli dan morte i suoi gran cani e
molti: qua finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sensuale, cieco e
fantastico; e comincia a vivere intellettualmente: vive vita de dèi, pascesi
d’ambrosia et inebriasi di nettare. – Appresso sotto forma d’un’altra similitudine
descrive la maniera con cui s’arma alla ottenzion de l’oggetto, e dice: Mio
pàssar solitario, a quella parte ch’adombr’ e ingombra tutt’il mio pensiero,
tosto t’annida: ivi ogni tuo mestiero rafferma, ivi l’industria spendi, e
l’arte. Rinasci là, là su vogli allevarte gli tuoi vaghi pulcini omai ch’il
fiero destin hav’espedit’il cors’intiero contra l’impres’, onde solea ritrarte.
Và, più nobil ricetto bramo ti godi, e arai per guida un dio che da chi nulla
vede, è cieco detto. Và, ti sia sempre pio ogni nume di quest’ampio architetto,
e non tornar a me se non sei mio. Il progresso sopra significato per il
cacciator che agita gli suoi cani, vien qua ad esser figurato per un cuor
alato, che è inviato da la gabbia in cui si stava ocioso e quieto, ad annidarsi
alto, ad allievar gli pulcini suoi pensieri, essendo venuto il tempo in cui
cessano gli impedimenti che da fuori mille occasioni, e da dentro la natural
imbecillità subministravano. Licenzialo dumque per fargli più magnifica
condizione, applicandolo a più alto proposito et intento, or che son più
fermamente impiumate quelle potenze de l’anima significate anco da Platonici
per le due ali. E gli commette per guida quel dio che dal cieco volgo è stimato
insano e cieco, cioè l’amore: il qual per mercé e favor del cielo è potente di
trasformarlo come in quell’altra natura alla quale aspira o quel stato dal
quale va peregrinando bandito. Onde disse: E non tornar a me che non sei mio,
di sorte che non con indignità possa io dire con quell’altro: Lasciato m’hai,
cuor mio, e lume d’occhi miei non sei più meco. Appresso descrive la morte de
l’anima, che da Cabalisti è chiamata morte di bacio figurata nella Cantica di
Salomone dove l’amica dice: Che mi bacie col bacio de sua bocca, perché col suo
ferire un troppo crudo amor mi fa languire. Da altri è chiamata sonno, dove
dice il Salmista: S’avverrà, ch’io dia sonno a gli occhi miei, e le palpebre
mie dormitaransi, arrò ’n colui pacifico riposo. Dice dumque cossì l’alma, come
languida per esser morta in sé, e viva ne l’oggetto: Abiate cur’ o furiosi al
core: ché tropp’ il mio da me fatto lontano, condotto in crud’e dispietata
mano, lieto soggiorn’ove si spasma e muore. Co i pensier mel richiamo a tutte
l’ore: et ei rubello qual girfalco insano, non più conosce quell’amica mano,
onde per non tornar è uscito fore. Bella fera, ch’in pene tante contenti, il
cor, spirt’, alma annodi con tue punte, tuoi vampi e tue catene, de sguardi,
accenti e modi; quel che languisc’et arde, e non riviene, chi fia che saldi,
refrigere e snodi? Ivi l’anima dolente non già per vera discontentezza, ma con
affetto di certo amoroso martìre parla come drizzando il suo sermone a gli
similmente appassionati: come se non a felice suo grado abbia donato congedo al
core, che corre dove non può arrivare, si stende dove non può giongere, e vuol
abbracciare quel che non può comprendere; e con ciò perché in vano s’allontana
da lei, mai sempre più e più va accendendosi verso l’infinito. cicada Onde
procede, o Tansillo, che l’animo in tal progresso s’appaga del suo tormento?
onde procede quel sprone ch’il stimola sempre oltre quel che possiede? tansillo
Da questo che ti dirò adesso. Essendo l’intelletto divenuto all’apprension
d’una certa e definita forma intelligibile, e la volontà all’affezzione
commensurata a tale apprensione, l’intelletto non si ferma là: perché dal
proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene in sé ogni geno de
intelligibile et appetibile, sin che vegna ad apprendere con l’intelletto
l’eminenza del fonte de l’idee, oceano d’ogni verità e bontade. Indi aviene che
qualunque specie gli vegna presentata e da lei vegna compresa: da questo che è
presentata e compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore e maggiore, con
ciò sempre ritrovandosi in discorso e moto in certa maniera. Perché sempre vede
che quel tutto che possiede è cosa misurata, e però non può essere bastante per
sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è l’universo, non è
l’ente absoluto: ma contratto ad esser questa natura, ad esser questa specie,
questa forma rapresentata a l’intelletto e presente a l’animo. Sempre dumque
dal bello compreso, e per conseguenza misurato, e conseguentemente bello per
participazione, fa progresso verso quello che è veramente bello, che non ha
margine e circonscrizzione alcuna. cicada Questa prosecuzione mi par vana.
tansillo Anzi non, atteso che non è cosa naturale né tansillo cicada tansillo conveniente
che l’infinito sia compreso, né esso può donarsi finito: percioché non sarrebe
infinito; ma è conveniente e naturale che l’infinito per essere infinito sia
infinitamente perseguitato (in quel modo di persecuzione il quale non ha
raggion di moto fisico, ma di certo moto metafisica; et il quale non è da
imperfetto al perfetto: ma va circuendo per gli gradi della perfezzione, per
giongere a quel centro infinito il quale non è formato né forma). cicada Vorrei
sapere come circuendo si puo arrivare al centro. Non posso saperlo. Perché lo
dici? Perché posso dirlo, e lasciarvel considerare. Se non volete dire che quel
che perséguita l’infinito, è come colui che discorrendo per la circonferenza
cerca il centro, io non so quel che vogliate dire. tansillo Altro. cicada Or se
non vuoi dechiararti, io non voglio intenderti. Ma dimmi, se ti piace: che
intende per quel che dice il core esser condotto in cruda e dispietata mano?
tansillo Intende una similitudine o metafora tolta da quel, che comunmente si
dice crudele chi non si lascia fruire o non pienamente fruire, e che è più in
desio che in possessione; onde per quel che possiede alcuno, non al tutto lieto
soggiorna, perché brama, si spasma e muore. cicada Quali son quei pensieri che
il richiamano a dietro, per ritrarlo da sì generosa impresa? tansillo Gli
affetti sensitivi et altri naturali che guardano al regimento del corpo. cicada
Che hanno a far quelli di questo che in modo alcuno non può aggiutargli, né
favorirgli? tansillo Non hanno a far di lui, ma de l’anima: la quale essendo
troppo intenta ad una opra o studio, dovien remissa e poco sollecita ne
l’altra. cicada tansillo cicada sanno. Perché lo chiama qual insano? Perché
soprasape. Sogliono esser chiamati insani quei che men tansillo Anzi insani son
chiamati quelli che non sanno secondo l’ordinario, o che tendano più basso per
aver men senso, o che tendano più alto per aver più intelletto. cicada
M’accorgo che dici il vero. Or dimmi appresso: quai sono le punte, gli vampi e
le catene? tansillo Punte son quelle nuove che stimulano e risvegliano
l’affetto perché attenda; vampi son gli raggi della bellezza presente che
accende quel che gli attende; catene son le parti e circonstanze che tegnono
fissi gli occhi de l’attenzione et uniti insieme gli oggetti e le potenze.
cicada Che son gli sguardi, accenti e modi? tansillo Sguardi son le raggioni
con le quali l’oggetto (come ne mirasse) ci si fa presente; accenti son le
raggioni con le quali ci inspira et informa; modi son le circonstanze con le
quali ci piace sempre et aggrada. Di sorte ch’il cor che dolcemente languisce,
suavemente arde e constantemente nell’opra persevera; teme che la sua ferita si
salde, ch’il suo incendio si smorze e che si sciolga il suo laccio. cicada Or
recita quel che seguita. tansillo ch’uscir volete da materne fasce de
l’afflitt’alma, e siete acconci arcieri per tirar al versagli’ onde vi nasce
l’alto concetto: in questi erti sentieri scontrarvi a cruda fier’il ciel non
lasce. Sovvengav’il tornar, e richiamate il cor ch’in man di dea selvaggia
late. Armatevi d’amore di domestiche fiamme, et il vedere reprimete sì forte,
che straniere non vi rendan compagni del mio core. Al men portate nuova di quel
ch’a lui tanto diletta e giova. Qua descrive la natural sollecitudine de
l’anima attenta circa la generazione per l’amicizia ch’ha contratta con la
materia. Ispedisce gli armati pensieri che sollecitati e spinti dalla querela
della natura inferiore, son inviati a richiamar il core. L’anima l’instruisce
come si debbano portare perché invaghiti et attratti dal oggetto non facilmente
vegnano anch’essi sedotti a rimaner cattivi e compagni del core. Dice dumque
che s’armino d’amore: di quello amore che accende con domestiche fiamme, cioè
quello che è amico della generazione alla quale son ubligati, e nella cui
legazione, ministerio e milizia si ritrovano. Appresso li dà ordine che
reprimano il vedere chiudendo gli occhi, perché non mirino altra beltade o
bontade che quella qual gli è presente, amica e madre. E conchiude al fine che
se per altro ufficio non vogliono farsi rivedere, rivegnano al manco per
donargli saggio delle raggioni e stato del suo core. cicada Prima che
procediate ad altro, vorrei intender da voi che è quello che intende l’anima
quando dice a gli pensieri: il vedere reprimete sì forte. tansillo Ti dirò.
Ogni amore procede dal vedere: l’amore intelligibile dal vedere
intelligibilmente; il sensibile dal vedere sensibilmente. Or questo vedere ha
due significazioni: perché o significa la potenza visiva, cioè la vista, che è
l’intelletto, overamente senso; o significa l’atto di quella potenza, cioè
quell’applicazione che fa l’occhio o l’intelletto a l’oggetto materiale o
intellettuale. Quando dumque si consegliano gli pensieri di reprimere il
vedere, non s’intende del primo modo, ma del secondo; perché questo è il padre
della seguente affezzione del appetito sensitivo o intellettivo. cicada Questo
è quello ch’io volevo udir da voi. Or se l’atto della potenza visiva è causa
del male o bene che procede dal vedere, onde avviene che amiamo e desideramo di
vedere? Et onde avviene che nelle cose divine abbiamo più amore che notizia?
tansillo Desideriamo il vedere, perché in qualche modo veggiamo la bontà del
vedere; perché siamo informati che per l’atto del vedere le cose belle
s’offreno: però desiderano quell’atto, perché desideriamo le cose belle. cicada
Desideriamo il bello e buono; ma il vedere non è bello, né buono, anzi più
tosto quello è parangone o luce per cui veggiamo non solamente il bello e
buono, ma anco il rio e brutto. Però mi pare ch’il vedere tanto può esser bello
o buono, quanto la vista può esser bianco o nero: se dumque la vista (la quale
è atto) non è bello né buono, come può cadere in desiderio? tansillo Se non per
sé, certamente per altro è desiderata, essendo che l’apprension di quell’altro
senza lei non si faccia. cicada Che dirai se quell’altro non è in notizia di
senso né d’intelletto? come, dico, può esser desiderato almanco d’esser visto,
se di esso non è notizia alcuna, se verso quello né l’intelletto né il senso ha
esercitato atto alcuno, anzi è in dubio se sia intelligibile o sensibile, se
sia cosa corporea o incorporea, se sia uno o doi o più, d’una o d’un’altra
maniera? tansillo Rispondo che nel senso e l’intelletto è un appetito et
appulso al sensibile in generale; perché l’intelletto vuol intender tutto il
vero, perché s’apprenda poi tutto quello che è bello o buono intelligibile: la
potenza sensitiva vuol informarsi de tutto il sensibile, per che s’apprenda poi
quanto è buono o bello sensibile. Indi aviene che non meno desiderano vedere le
cose ignote e mai viste, che le cose conosciute e viste. E da questo non
séguita ch’il desiderio non proceda da la cognizione, e che qualche cosa
desideriamo che non è conosciuta; ma dico che sta pur raro e fermo che non
desideriamo cose incognite. Perché se sono occorre quanto all’esser
particulare, non sono occolte quanto a l’esser generale: come in tutta la
potenza visiva si trova tutto il visibile in attitudine, nella intellettiva
tutto l’intelligibile. Però come ne l’attitudine è l’inclinazione a l’atto,
aviene che l’una e l’altra potenza è inchinata a l’atto in universale, come a
cosa naturalmente appresa per buona. Non parlava dumque a sordi o ciechi
l’anima, quando consultava con suoi pensieri de reprimere il vedere, il quale
quantunque non sia causa prossima del volere, è però causa prima e principale.
cicada Che intendete per questo ultimamente detto? tansillo Intendo che non è
la figura o la specie sensibilmente o intelligibilmente representata, la quale
per sé muove: perché mentre alcuno sta mirando la figura manifesta a gli occhi,
non viene ancora ad amare; ma da quello instante che l’animo concipe in se
stesso quella figurata non più visibile ma cogitabile, non più dividua ma
individua, non più sotto specie di cosa, ma sotto specie di buono o bello,
all’ora subito nasce l’amore. Or questo è quel vedere dal quale l’anima
vorrebbe divertir gli occhi de suoi pensieri. Qua la vista suole promuovere
l’affetto ad amar più che non è quel che vede; perché, come poco fa ho detto,
sempre considera (per la notizia universale che tiene del bello e buono) che
oltre li gradi della compresa specie de buono e bello, sono altri et altri in
infinito. cicada Onde procede che dopo che siamo informati de la specie del
bello la quale è conceputa nell’animo, pure desideriamo di pascere la vista
esteriore? tansillo Da quel, che l’animo vorrebbe sempre amare quel che ama,
vuol sempre vedere quel che vede. Però vuole che quella specie che gli è stata
parturita dal vedere non vegna ad attenuarsi, snervarsi e perdersi. Vuol dumque
sempre oltre et oltre vedere, perché quello che potrebe oscurarsi nell’affetto
interiore, vegna spesso illustrato dall’aspetto esteriore: il quale come è
principio de l’essere, bisogna che sia principio del conservare. Proporzionalmente
accade ne l’atto del intendere e considerare: perché come la vista si riferisce
alle cose visibili, cossì l’intelletto alle cose intelligibili. Credo dumque
ch’intendiate a che fine et in che modo l’anima intenda quando dice:
reprimet’il vedere. cicada Intendo molto bene. Or seguitate a riportar quel
ch’avvenne di questi pensieri. tansillo Séguita la querela de la madre contra
gli detti figli li quali, per aver contra l’ordinazion sua aperti gli occhi et
affissigli al splendor de l’oggetto, erano rimasi in compagnia del core. Dice
dumque: E voi ancor a me figli crudeli, per più inasprir mia doglia, mi
lasciaste; e perché senza fin più mi quereli, ogni mia spene con voi
n’amenaste. A che il senso riman, o avari cieli? a che queste potenze tronche e
guaste, se non per farmi materia et essempio de sì grave martir, sì lungo
scempio? Deh (per dio) cari figli, lasciate pur mio fuoco alato in preda, e
fate ch’io di voi alcun riveda tornato a me da que’ tenaci artigli. Lassa,
nessun riviene per tardo refrigerio de mie pene. Eccomi misera priva del core,
abandonata da gli pensieri, lasciata da la speranza, la qual tutta avevo fissa
in essi; altro non mi rimane che il senso della mia povertà, infelicità e
miseria. E perché non son oltre lasciata da questo? perché non mi soccorre la
morte, ora che son priva de la vita? A che mi trovo le potenze naturali prive
de gli atti suoi? Come potrò io sol pascermi di specie intelligibili, come di
pane intellettuale, se la sustanza di questo supposito è composta? Come potrò
io trattenirmi nella domestichezza di queste amiche e care membra, che m’ho
intessute in circa, contemprandole con la simmetria de le qualitadi elementari,
se mi abandonano gli miei pensieri tutti et affetti, intenti verso la cura del
pane immateriale e divino? Su su, o miei fugaci pensieri, o mio rubelle cuore:
viva il senso di cose sensibili e l’intelletto de cose intelligibili.
Soccorrasi al corpo con la materia e suggetto corporeo, e l’intelletto con gli
suoi oggetti s’appaghe: a fin che conste questa composizione, non si dissolva
questa machina, dove per mezzo del spirito l’anima è unita al corpo. Come,
misera, per opra domestica più tosto che per esterna violenza ho da veder
quest’orribil divorzio ne le mie parti e membra? Perché l’intelletto s’impaccia
di donar legge al senso e privarlo de suoi cibi? e questo per il contrario
resiste a quello, volendo vivere secondo gli proprii e non secondo l’altrui
statuti? perché questi e non quelli possono mantenerlo e bearlo, percioché deve
essere attento alla sua comoditade e vita, non a l’altrui. Non è armonia e
concordia dove è unità, dove un essere vuol assorbir tutto l’essere; ma dove è
ordine et analogia di cose diverse; dove ogni cosa serva la sua natura. Pascasi
dumque il senso secondo la sua legge de cose sensibili, la carne serva alla
legge de la carne, il spirito alla legge del spirito, la raggione a la legge de
la raggione: non si confondano, non si conturbino. Basta che uno non guaste o
pregiudiche alla legge de l’altro, se non è giusto che il senso oltragge alla
legge della raggione. È pur cosa vituperosa che quella tirannegge su la legge
di questo, massime dove l’intelletto è più peregrino e straniero, et il senso è
più domestico e come in propria patria. – Ecco dumque, o miei pensieri, come di
voi, altri son ubligati di rimanere alla cura di casa, et altri possono andar a
procacciare altrove. Questa è legge di natura, questa per conseguenza è legge
dell’autore e principio della natura. Peccate dumque or che tutti sedotti dalla
vaghezza de l’intelletto lasciate al periglio de la morte l’altra parte di me.
Onde vi è nato questo malencolico e perverso umore di rompere le certe e
naturali leggi de la vita vera che sta nelle vostre mani, per una incerta e che
non è se non in ombra oltre gli limiti del fantastico pensiero? Vi par cosa
naturale che non vivano animale et umanamente, ma divina, se elli non sono dèi
ma uomini et animali? È legge del fato e della natura che ogni cosa s’adopre
secondo la condizion de l’esser suo: per che dumque mentre perseguitate il
nettare avaro de gli dèi, perdete il vostro presente e proprio, affligendovi
forse sotto la vana speranza de l’altrui? Credete che non si debba sdegnar la
natura di donarvi l’altro bene, se quello che presentanearnente v’offre tanto
stoltamente dispreggiate? Sdegnarà il ciel dar il secondo bene a chi ’l
primiero don caro non tiene. Con queste e simili raggioni l’anima prendendo la
causa de la parte più inferma, cerca de richiamar gli pensieri alla cura del
corpo. Ma quelli (benché al tardi) vegnono a mostrarsegli non già di quella
forma con cui si partiro, ma sol per dichiarargli la sua ribellione, e forzarla
tutta a seguitarli. Là onde in questa forma si lagna la dolente: Ahi cani
d’Atteon, o fiere ingrate, che drizzai al ricetto de mia diva, e vòti di
speranza mi tornate; anzi venendo a la materna riva, tropp’infelice fio mi
riportate: mi sbranate, e volete ch’i’ non viva. Lasciami, vita, ch’al mio sol
rimonte, fatta gemino rio senz’il mio fonte. Quand’il mio pondo greve converrà
che natura mi disciolga? Quand’avverrà ch’anch’io da qua mi tolga, e ratt’a
l’alt’oggetto mi sulleve; e insieme col mio core e i communi pulcini ivi
dimore? Vogliono gli Platonici che l’anima, quanto alla parte superiore, sempre
consista ne l’intelletto, dove ha raggione d’intelligenza più che de anima:
atteso che anima è nomata per quanto vivifica il corpo e lo sustenta. Cossì qua
la medesima essenza che nodrisce e mantiene li pensieri in alto insieme col
magnificato cuore, se induce dalla parte inferiore contrastarsi e richiamar
quelli come ribelli. cicada Sì che non sono due essenze contrarie, ma una
suggetta a doi termini di contrarietade? tansillo Cossì è a punto; come il
raggio del sole il quale quindi tocca la terra et è gionto a cose inferiori et
oscure che illustra, vivifica et accende, indi è gionto a l’elemento del fuoco,
cioè a la stella da cui procede, ha principio, è diffuso, et in cui ha propria
et originale sussistenza: cossì l’anima ch’è nell’orizonte della natura
corporea et incorporea, ha con che s’inalze alle cose superiori, et inchine a
cose inferiori. E ciò puoi vedere non accadere per raggion et ordine di moto
locale, ma solamente per appulso d’una e d’un’altra potenza o facultade. Come
quando il senso monta all’imaginazione, l’imaginazione alla raggione, la
raggione a l’intelletto, l’intelletto a la mente, all’ora l’anima tutta si
converte in Dio, et abita il mondo intelligibile. Onde per il contrario
descende per conversion al mondo sensibile per via de l’intelletto, raggione,
imaginazione, senso, vegetazione. cicada È vero ch’ho inteso che per trovarsi
l’anima nell’ultimo grado de cose divine, meritamente descende nel corpo
mortale, e da questo risale di nuovo alli divini gradi; e che son tre gradi
d’intelligenze: perché son altre nelle quali l’intellettuale supera l’animale,
quali dicono essere l’intelligenze celesti; altre nelle quali l’animale supera
l’intellettuale, quali son l’intelligenze umane; altre sono nelle quali l’uno e
l’altro si portano ugualmente, come quelle de demoni o eroi. tansillo Nell’apprender
dumque che fa la mente, non può desiderare se non quanto gli è vicino,
prossimo, noto e familiare. Cossì il porco non può desiderar esser uomo, né
quelle cose che son convenienti all’appetito umano. Ama più d’isvoltarsi per la
luta che per un letto de bissino; ama d’unirsi ad una scrofa, non a la più
bella donna che produca la natura: perché l’affetto séguita la raggion della
specie (e tra gli uomini si può vedere il simile, secondo che altri son più
simili a una specie de bruti animali, altri ad un’altra: questi hanno del
quadrupede, quelli [del] volatile; e forse hanno qualche vicinanza, la qual non
voglio dire, per cui si son trovati quei che sono affetti a certe sorte di
bestie). Or a la mente (che trovasi oppressa dalla material congionzione de
l’anima) se fia lecito di alzarsi alla contemplazione d’un altro stato in cui
l’anima può arrivare, potrà certo far differenza da questo a quello, e per il
futuro spreggiar il presente. Come se una bestia avesse senso della differenza
che è tra le sue condizioni e quelle de l’uomo, e l’ignobiltà del stato suo
dalla nobiltà del stato umano, al quale non stimasse impossibile di poter
pervenire; amarebbe più la morte che li donasse quel camino et ispedizione, che
la vita quale l’intrattiene in quel essere presente. Qua dumque quando l’anima
si lagna dicendo O cani d’Atteon, viene introdotta come cosa che consta di
potenze inferiori solamente, e da cui la mente è ribellata con aver menato seco
il core, cioè gl’intieri affetti, con tutto l’exercito de pensieri: là onde per
apprension del stato presente et ignoranza d’ogni altro stato, il quale non più
lo stima essere, che da lei possa esser conosciuto, si lamenta de pensieri li
quali al tardi convertendosi a lei vegnono per tirarla su più tosto che a farsi
ricettar da lei. E qua per la distrazzione che patisce dal commune amore della
materia e di cose intelligibili, si sente lacerare e sbranare di sorte che
bisogna al fine di cedere a l’appulso più vigoroso e forte. Qua se per virtù di
contemplazione ascende o è rapita sopra l’orizonte de gli affetti naturali,
onde con più puro occhio apprenda la differenza de l’una e l’altra vita,
all’ora vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto; e
benché viva nel corpo, vi vegeta come morta, e vi è presente in atto de
animazione et absente in atto d’operazioni; non perché non vi operi mentre il
corpo è vivo, ma perché l’operazioni del composto sono rimesse, fiacche e come
dispenserate. cicada Cossì un certo Teologo, che si disse rapito sin al terzo
cielo, invaghito da la vista di quello, disse che desiderava la dissoluzione
dal suo corpo. tansillo In questo modo, dove prima si lamentava del core e
querelavasi de pensieri, ora desidera d’alzarsi con quelli in alto, e mostra il
rincrescimento suo per la communicazione e familiarità contratta con la materia
corporale, e dice: Lasciami vita corporale, e non m’impacciar ch’io rimonti al
mio più natio albergo, al mio sole: lasciami ormai che più non verse pianto da
gli occhi miei, o perché mal posso soccorrerli, o perché rimagno divisa dal mio
bene; lasciami, che non è decente né possibile che questi doi rivi scorrano
senza il suo fonte, cioè senza il core: non bisogna (dico), che io faccia dei
fiumi de lacrime qua basso, se il mio core il quale è fonte de tai fiumi, se
n’è volato ad alto con le sue ninfe, che son gli miei pensieri. Cossì a poco a
poco, da quel disamore e rincrescimento procede a l’odio de cose inferiori;
come quasi dimostra dicendo: Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi
disciolga? e quel che seguita appresso. cicada Intendo molto bene questo, e
quello che per questo volete inferire a proposito della principale intenzione:
cioè che son gli gradi de gli amori, affezzioni e furori, secondo gli gradi di
maggior o minore lume di cognizione et intelligenza. tansillo Intendi bene. Da
qua devi apprendere quella dottrina che comunmente, tolta da’ Pitagorici e
Platonici vuole che l’anima fa gli doi progressi d’ascenso e descenso, per la
cura ch’ha di sé e de la materia; per quel ch’è mossa dal proprio appetito del
bene, e per quel ch’è spinta da la providenza del fato. cicada Ma di grazia
dimmi brevemente quel che intendi de l’anima del mondo: se ella ancora non può
ascendere né descendere? tansillo Se tu dimandi del mondo secondo la volgar
significazione, cioè in quanto significa l’universo, dico che quello per essere
infinito e senza dimensione o misura, viene a essere inmobile et inanimato et
informe, quantunque sia luogo de mondi infiniti mobili in esso, et abbia spacio
infinito, dove son tanti animali grandi che son chiamati astri. Se dimandi
secondo la significazione che tiene appresso gli veri filosofi, cioè in quanto
significa ogni globo, ogni astro, come è questa terra, il corpo del sole, luna
et altri, dico che tal anima non ascende né descende, ma si volta in circolo.
Cossì essendo composta de potenze superiori et inferiori, con le superiori
versa circa la divinitade, con l’inferiori circa la mole la qual viene da essa
vivificata e mantenuta intra gli tropici della generazione e corrozzione de le cose
viventi in essi mondi, servando la propria vita eternamente: perché l’atto
della divina providenza sempre con misura et ordine medesimo, con divino calore
e lume le conserva nell’ordinario e medesimo essere. cicada Mi basta aver udito
questo a tal proposito. tansillo Come dumque accade che queste anime
particolari diversamente secondo diversi gradi d’ascenso e descenso vegnono
affette quanto a gli abiti et inclinazioni, cossì vegnono a mostrar diverse
maniere et ordini de furori, amori e sensi: non solamente nella scala de la
natura, secondo gli ordini de diverse vite che prende l’anima in diversi corpi,
come vogliono espressamente gli Pitagorici, Saduchimi et altri, et
implicitamente Platone et alcuni che più profondano in esso; ma ancora nella
scala de gli affetti umani, la quale è cossì numerosa de gradi come la scala
della natura, atteso che l’uomo in tutte le sue potenze mostra tutte le specie
de lo ente. cicada Però da le affezzioni si possono conoscer gli animi, se
vanno alto o basso, o se vegnono da alto o da basso, se procedono ad esser
bestie o pur ad essere divini, secondo lo essere specifico come intesero gli
Pitagorici, o secondo la similitudine de gli affetti solamente come comunmente
si crede: non dovendo la anima umana posser essere anima di bruto, come ben
disse Plotino, et altri Platonici secondo la sentenza del suo principe.
tansillo Bene. Or per venire al proposito, da furor animale questa anima
descritta è promossa a furor eroico, se la dice: Quando averrà ch’al alto
oggetto mi sulleve, et ivi dimore in compagnia del mio core e miei e suoi
pulcini? Questo medesimo proposito continova quando dice: Destin, quando sarà
ch’io monte monte, qual per bearm’a l’alte porte porte, che fan quelle bellezze
conte, conte, e ’l tenace dolor conforte forte chi fe’ le membra me disgionte,
gionte, né lascia mie potenze smorte morte? Mio spirto più ch’il suo rivale
vale, s’ove l’error non più l’assale, sale. Se dove attende, tende, e là ’ve
l’alto oggett’ascende, ascende: e se quel ben ch’un sol comprende, prende, per
cui convien che tante emende mende; esser felice lice, come chi sol tutto
predice dice. O destino, o fato, o divina immutabile providenza, quando sarà
ch’io monte a quel monte, cioè ch’io vegna a tanta altezza di mente, che mi
faccia toccar transportandomi quegli alti aditi e penetrali, che mi fanno
evidenti e come comprese e numerate quelle conte, cioè rare bellezze? Quando
sarà, che forte et efficacemente conforte il mio dolore (sciogliendomi da gli
strettissimi lacci de le cure, nelle quali mi trovo) colui che fe’ gionte et
unite le mie membra, ch’erano disunite e sgionte: cioè l’amore che ha unito
insieme queste corporee parti, ch’erano divise quanto un contrario è diviso da
l’altro, e che ancora queste potenze intellettuali, quali ne gli atti suoi son
smorte, non le lascia a fatto morte, facendole alquanto respirando aspirar in
alto? Quando, dico, mi confortarà a pieno, donando a queste libero et ispedito
il volo, per cui possa la mia sustanza tutta annidarsi là dove forzandomi
convien ch’io emende tutte le mende mie; dove pervenendo il mio spirito, vale
più ch’il rivale, perché non v’è oltraggio che li resista, non è contrarietà
ch’il vinca, non v’è error che l’assaglia? Oh se tende et arriva là dove
forzandosi attende; et ascende e perviene a quell’altezza, dove ascende, vuol
star montato, alto et elevato il suo oggetto: se fia che prenda quel bene che
non può esser compreso da altro che da uno, cioè da se stesso (atteso che
ogn’altro l’have in misura della propria capacità; e quel solo in tutta
pienezza): all’ora avverrammi l’esser felice in quel modo che dice chi tutto
predice, cioè dice quella altezza nella quale il dire tutto e far tutto è la
medesima cosa; in quel modo che dice o fa chi tutto predice, cioè chi è de
tutte cose efficiente e principio: di cui il dire [e] preordinare è il vero
fare e principiare. Ecco come per la scala de cose superiori et inferiori
procede l’affetto de l’amore, come l’intelletto o sentimento procede da questi
oggetti intelligibili o conoscibili a quelli; o da quelli a questi. cicada
Cossì vogliono la più gran parte de sapienti la natura compiacersi in questa
vicissitudinale circolazione che si vede ne la vertigine de la sua ruota. cicada Fate pure ch’io veda, perché da me
stesso potrò considerar le condizioni di questi furori, per quel ch’appare
esplicato nell’ordine (in questa milizia) qua descritto. tansillo Vedi come
portano l’insegne de gli suoi affetti o fortune. Lasciamo di considerar su gli
lor nomi et abiti; basta che stiamo su la significazion de l’imprese et
intelligenza de la scrittura, tanto quella che è messa per forma del corpo de
la imagine, quanto l’altra ch’è messa per il più de le volte a dechiarazion de
l’impresa. cicada Cossì farremo. Or ecco qua il primo che porta un scudo
distinto in quattro colori, dove nel cimiero è depinta la fiamma sotto la testa
di bronzo, da gli forami della quale esce a gran forza un fumoso vento, e vi è
scritto in circa At regna senserunt tria. tansillo Per dichiarazion di questo
direi che per essere ivi il fuoco che per quel che si vede scalda il globo,
dentro il quale è l’acqua, avviene che questo umido elemento essendo rarefatto
et attenuato per la virtù del calore, e per conseguenza risoluto in vapore,
richieda molto maggior spacio per esser contenuto: là onde se non trova facile
exito, va con grandissima forza, strepito e ruina a crepare il vase. Ma se vi è
loco o facile exito d’onde possa evaporare, indi esce con violenza minore a
poco a poco; e secondo la misura con cui l’acqua se risolve in vapore, soffiando
svapora in aria. Qua vien significato il cor del furioso, dove come in esca ben
disposta essendo attaccato l’amoroso foco, accade che della sustanza vitale
altro sfaville in fuoco, altro si veda in forma de lacrimoso pianto boglier nel
petto, altro per l’exito di ventosi suspiri accender l’aria. – E però dice At
regna senserunt tria. Dove quello At ha II. tansillo Appresso è designato
un che ha nel suo scudo parimente destinto in quattro colori, il cimiero, dove
è un sole che distende gli raggi nel dorso de la terra; e vi è una nota che
dice Idem semper ubique totum. Giordano Bruno De gli eroici furori virtù di
supponere differenza, o diversità, o contrarietà: quasi dicesse che altro è che
potrebbe aver senso del medesimo, e non l’have. Il che è molto bene esplicato
ne le rime seguenti sotto la figura: Dal mio gemino lume, io poca terra soglio
non parco umor porgere al mare; da quel che dentr’il petto mi si serra spirto
non scarso accolgon l’aure avare; e ’l vampo che dal cor mi si disserra si può
senza scemars’al ciel alzare: con lacrime, suspiri et ardor mio a l’acqua, a
l’aria, al fuoco rendo il fio. Accogli’acqu’, aria, foco qualche parte di me:
ma la mia dea si dimostra cotant’iniqua e rea, che né mio pianto appo lei trova
loco, né la mia voce ascolta, né piatos’al mi’ardor umqua si volta. Qua la
suggetta materia significata per la terra è la sustanza del furioso; versa dal
gemino lume, cioè da gli occhi, copiose lacrime che fluiscono al mare; manda
dal petto la grandezza e moltitudine de suspiri a l’aria capacissimo; et il
vampo del suo core non come picciola favilla o debil fiamma nel camino de
l’aria s’intepidisce, infuma e trasmigra in altro essere: ma come potente e
vigoroso (più tosto acquistando de l’altrui che perdendo del proprio) gionge
alla congenea sfera. cicada Ho ben compreso il tutto. A l’altro. cicada Vedo
che non può esser facile l’interpretazione. tansillo Tanto il senso è più
eccellente, quanto è men volgare: il qual vedrete essere solo, unico e non
stiracchiato. Dovete considerare che il sole benché al rispetto de diverse
regioni de la terra, per ciascuna, sia diverso, a tempi a tempi, a loco a loco,
a parte a parte; al riguardo però del globo tutto, come medesimo, sempre et in
cadaun loco fa tutto: atteso che, in qualunque punto de l’eclittica ch’egli si
trove, viene a far l’inverno, l’estade, l’autunno e la primavera; e l’universal
globo de la terra a ricevere in sé le dette quattro tempeste. Perché mai è
caldo a una parte che non sia freddo a l’altra; come quando fia a noi nel tropico
del Cancro caldissimo, è freddissimo al tropico del Capricorno; di sorte che è
a medesima raggione l’inverno a quella parte, con cui a questa è l’estade, et a
quelli che son nel mezzo è temperato, secondo la disposizion vernale o
autumnale. Cossì la terra sempre sente le piogge, li venti, gli calori, gli
freddi; anzi non sarebbe umida qua, se non disseccasse in un’altra parte, e non
la scalderebe da questo lato il sole, se non avesse lasciato d’iscaldarla da
quell’altro. cicada Prima che finisci ad conchiudere, io intendo quel che
volete dire. Intendeva egli che come il sole sempre dona tutte le impressioni a
la terra, e questa sempre le riceve intiere e tutte: cossì l’oggetto del
furioso col suo splendore attivamente lo fa suggetto passivo de lacrime, che son
l’acqui; de ardori, che son gl’incendii; e de suspiri quai son certi vapori,
che son mezzi che parteno dal fuoco e vanno a l’acqui, o partono da l’acqui e
vanno al fuoco. tansillo Assai bene s’esplica appresso: Quando declin’il sol al
Capricorno, fan più ricco le piogge ogni torrente; se va per l’equinozzio o fa
ritorno, ogni postiglion d’Eolo più si sente; e scalda più col più prolisso
giorno, nel tempo che rimonta al Cancro ardente: non van miei pianti, sospiri
et ardori con tai freddi, temperie e calori. Sempre equalmente in pianto,
quantumqu’intensi sien suspiri e fiamme. E benché troppo m’inacqui et infiamme,
mai avvien ch’io suspire men che tanto: infinito mi scaldo, equalment’a i
suspiri e pianger saldo. cicada Questo non tanto dechiara il senso de la divisa
come il precedente discorso faceva: quanto più tosto dice la conseguenza di
quello, o l’accompagna. tansillo Dite megliore, che la figura è latente ne la
prima parte, et il motto è molto esplicato ne la seconda; come l’uno e l’altro
è molto propriamente significato nel tipo del sole e de la terra. cicada
Passamo al terzo. III. tansillo Il terzo nel scudo porta un fanciullo ignudo
disteso sul verde prato, e che appoggia la testa sollevata sul braccio con gli
occhi rivoltati verso il cielo a certi edificii de stanze, torri, giardini et
orti che son sopra le nuvole, e vi è un castello di cui la materia è fuoco; et
in mezzo è la nota che dice Mutuo fulcimur. cicada Che vuol dir questo?
tansillo Intendi quel furioso significato per il fanciullo ignudo come
semplice, puro et esposto a tutti gli accidenti di natura e di fortuna,
qualmente con la forza del pensiero edifica castegli in aria, e tra l’altre
cose una torre di cui l’architettore è l’amore, la materia l’amoroso foco, et
il fabricatore egli medesimo, che dice Mutuo fulcimu: cioè io vi edifico e vi
sustegno là con il pensiero, e voi mi sustenete qua con la speranza: voi non
sareste in essere se non fusse l’imaginazione et il pensiero con cui vi formo e
sustegno, et io non sarrei in vita se non fusse il refrigerio e conforto che
per vostro mezzo ricevo. cicada È vero che non è cosa tanto vana e tanto
chimerica fantasia, che non sia più reale e vera medicina d’un furioso cuore,
che qualsivoglia erba, pietra, oglio, o altra specie che produca la natura.
tansillo Più possono far gli maghi per mezzo della fede, che gli medici per via
de la verità: e ne gli più gravi morbi più vegnono giovati gl’infermi con
credere quel tanto che quelli dicono, che con intendere quel tanto che questi
facciono. Or legansi le rime: Sopra de nubi, a l’eminente loco, quando tal
volta vaneggiando avvampo, per di mio spirto refrigerio e scampo, tal formo a
l’aria castel de mio foco: s’il mio destin fatale china un poco, a fin
ch’intenda l’alta grazia il vampo in cui mi muoio, e non si sdegn’ o adire, o
felice mia pena e mio morire. Quella de fiamme e lacci tuoi, o garzon, che gli
uomini e gli divi fan suspirar, e soglion far cattivi, l’ardor non sente, né
prova gl’impacci: ma può ’ntrodurt’, o Amore, man di pietà, se mostri il mio
dolore. cicada Mostra che quel che lo pasce in fantasia, e gli fomenta il
spirito, è che (essendo lui tanto privo d’ardire d’esplicarsi a far conoscere
la sua pena, quanto profondamente suggetto a tal martìre), se avvenisse ch’il
fato rigido e rubelle chinasse un poco (perché voglia il destino al fin
rasserenargli il volto), con far che senza sdegno o ira de l’alto oggetto gli
venesse manifesto, non stima egli gioia tanto felice, né vita tanto beata,
quanto per tal successo lui stime felice la sua pena, e beato il suo morire.
tansillo E con questo viene a dichiarar a l’Amore che la raggion per cui possa
aver adito in quel petto, non è quell’ordinaria de le armi con le quali suol
cattivar uomini e dèi; ma solamente con fargli aperto il cuor focoso et il
travagliato spirito de lui; a la vista del quale fia necessario che la
compassion possa aprirgli il passo et introdurlo a quella difficil stanza. IV.
cicada Che significa qua quella mosca che vola circa la fiamma e sta quasi
quasi per bruggiarsi, e che vuol dir quel motto: Hostis non hostis? tansillo
Non è molto difficile la significazione de la farfalla, che sedotta dalla
vaghezza del splendore, innocente et amica va ad incorrere nelle mortifere
fiamme: onde hostis sta scritto per l’effetto del fuoco, non hostis per
l’affetto de la mosca. Hostis la mosca passivamente, non hostis attivamente.
Hostis la fiamma per l’ardore, non hostis per il splendore. cicada Or che è
quel che sta scritto nella tabella? tansillo Mai fia che de l’amor io mi
lamente, senza del qual non vogli’ esser felice; sia pur ver che per lui penoso
stente, non vo’ non voler quel che si me lice; sia chiar o fosch’il ciel,
fredd’o ardente, sempr’un sarò ver l’unica fenice. Mal può disfar altro destin
o sorte quel nodo che non può sciòrre la morte. Al cor, al spirt’, a l’alma non
è piacer, o libertad’, o vita, qual tanto arrida, giove e sia gradita, qual più
sia dolce, graziosa et alma, ch’il stento, giogo e morte, ch’ho per natura,
voluntade e sorte. Qua nella figura mostra la similitudine che ha il furioso
con la farfalla affetta verso la sua luce; ne gli carmi poi mostra più
differenza e dissimilitudine che altro: essendo che comunmente si crede che se
quella mosca prevedesse la sua ruina non tanto ora séguita la luce quanto
all’ora la fuggirebbe, stimando male di perder l’esser proprio risolvendosi in
quel fuoco nemico. Ma a costui non men piace svanir nelle fiamme de l’amoroso
ardore, che essere abstratto a contemplar la beltà di quel raro splendore,
sotto il qual per inclinazion di natura, per elezzion di voluntade e
disposizion del fato, stenta, serve e muore: più gaio, più risoluto e più
gagliardo, che sotto qualsivogli’altro piacer che s’offra al core, libertà che
si conceda al spirito, e vita che si ritrove ne l’alma. cicada Dimmi, perché
dice: sempr’un sarò? tansillo Perché gli par degno d’apportar raggione della
sua constanza, atteso che il sapiente si muta con la luna, il stolto si muta
come la luna. Cossì questo è unico con la fenice unica. V. cicada Bene; ma che
significa quella frasca di palma, circa la quale è il motto: Caesar adest?
tansillo Senza molto discorrere, tutto potrassi intendere per quel che è
scritto nella tavola: Trionfator invitto di Farsaglia, essendo quasi estinti i
tuoi guerrieri, al vederti, fortissimi ’n battaglia sorser, e vinser suoi
nemici altieri. Tal il mio ben, ch’al ben del ciel s’agguaglia, fatto a la
vista de gli miei pensieri, ch’eran da l’alma disdegnosa spenti, le fa tornar
più che l’amor possenti. La sua sola presenza, o memoria di lei, sì le ravviva,
che con imperio e potestade diva dóman ogni contraria violenza. La mi governa
in pace; né fa cessar quel laccio e quella tace. Tal volta le potenze de
l’anima inferiori, come un gagliardo e nemico essercito che si trova nel
proprio paese, prattico, esperto et accomodato, insorge contra il peregrino
adversario che dal monte de la intelligenza scende a frenar gli popoli de le
valli e palustri pianure. Dove dal rigor della presenza de nemici e difficultà
de precipitosi fossi vansi perdendo, e perderiansi a fatto, se non fusse certa
conversione al splendor de la specie intelligibile mediante l’atto della
contemplazione: mentre da gli gradi inferiori si converte a gli gradi
superiori. cicada Che gradi son questi? tansillo Li gradi della contemplazione
son come li gradi della luce, la quale nullamente è nelle tenebre; alcunamente
è ne l’ombra; megliormente è ne gli colori secondo gli suoi ordini da l’un
contrario ch’è il nero a l’altro che è il bianco; più efficacemente è nel
splendor diffuso su gli corpi tersi e trasparenti, come nel specchio o nella
luna; più vivamente ne gli raggi sparsi dal sole; altissima e
principalissimamente nel sole istesso. Or essendo cossì ordinate le potenze
apprensive et affettive de le quali sempre la prossima conseguente have
affinità con la prossima antecedente, e per la conversione a quella che la
sulleva, viene a rinforzarsi contra l’inferior che la deprime (come la raggione
per la conversione a l’intelletto non è sedotta o vinta dalla notizia o
apprensione et affetto sensitivo, ma più tosto secondo la legge di quello viene
a domar e correger questo), accade che quando l’appetito razionale contrasta
con la concupiscenza sensuale, se a quello per atto di conversione si presente
a gli occhi la luce intelligenziale, viene a repigliar la smarrita virtude,
rinforzar i nervi, spaventa e mette in rotta gli nemici. cicada In che maniera
intendete che si faccia cotal conversione? tansillo Con tre preparazioni che
nota il contemplativo Plotino nel libro Della bellezza intelligibile: de le
quali la prima è proporsi de conformarsi d’una similitudine divina, divertendo
la vista da cose che sono infra la propria perfezzione, e commune alle specie
uguali et inferiori; secondo è l’applicarsi con tutta l’intenzione et
attenzione alle specie superiori; terzo il cattivar tutta la voluntade et
affetto a Dio. Perché da qua avverrà che senza dubio gl’influisca la divinità
la qual da per tutto è presente e pronta ad ingerirsi a chi se gli volta con
l’atto de l’intelletto, et aperto se gli espone con l’affetto de la voluntade.
cicada Non è dumque corporal bellezza quella che invaghisce costui? tansillo
Non certo, perché la non è vera né constante bellezza, e però non può caggionar
vero né constante amore: la bellezza che si vede ne gli corpi è una cosa
accidentale et umbratile e come l’altre che sono assorbite, alterate e guaste
per la mutazione del suggetto, il quale sovente da bello si fa brutto senza che
alterazion veruna si faccia ne l’anima. La raggion dumque apprende il più vero
bello per conversione a quello che fa la beltade nel corpo, e viene a formarlo
bello: e questa è l’anima che l’ha talmente fabricato e infigurato. Appresso
l’intelletto s’inalza più, et apprende bene che l’anima è incomparabilmente
bella sopra la bellezza che possa esser ne gli corpi; ma non si persuade che
sia bella da per sé e primitivamente: atteso che non accaderebbe quella
differenza che si vede nel geno de le anime, onde altre son savie, amabili e
belle; altre stolte, odiose e brutte. Bisogna dumque alzarsi a quello
intelletto superiore il quale da per sé è bello e da per sé è buono. Questo è
quell’unico e supremo capitano, qual solo messo alla presenza de gli occhi de
militanti pensieri, le illustra, incoraggia, rinforza e rende vittoriosi sul
dispreggio d’ogn’altra bellezza e ripudio di qualsivogli’altro bene. Questa
dumque è la presenza che fa superar ogni difficultà e vincere ogni violenza.
cicada Intendo tutto. Ma che vuol dire La mi governa in pace, Né fa cessar quel
laccio e quella face? tansillo Intende e prova, che qualsivoglia sorte d’amore
quanto ha maggior imperio e più certo domìno, tanto fa sentir più stretti i
lacci, più fermo il giogo, e più ardenti le fiamme. Al contrario de gli
ordinarii prencipi e tiranni, che usano maggior strettezza e forza, dove
veggono aver minore imperio. cicada Passa oltre. VI. tansillo Appresso veggio
descritta la fantasia d’una fenice volante, alla quale è volto un fanciullo che
bruggia in mezzo le fiamme, e vi è il motto: Fata obstant. Ma perché s’intenda
meglior, leggasi la tavoletta: Unico augel del sol, vaga Fenice, ch’appareggi
col mondo gli anni tui, quai colmi ne l’Arabia felice: tu sei chi fuste, io son
quel che non fui; io per caldo d’amor muoio infelice; ma te ravviv’il sol co’
raggi sui; tu bruggi ’n un, et io in ogni loco; io da Cupido, hai tu da Febo il
foco. Hai termini prefissi di lunga vita, et io ho breve fine, che pronto
s’offre per mille ruine, né so quel che vivrò, né quel che vissi. Me cieco fato
adduce, tu certo torni a riveder tua luce. Dal senso de gli versi si vede che
nella figura si disegna l’antitesi de la sorte de la fenice e del furioso; e
che il motto Fata obstant, non è per significar che gli fati siano contrarii o
al fanciullo, o a la fenice, o a l’uno e l’altro; ma che non son medesimi, ma
diversi et oppositi gli decreti fatali de l’uno e gli fatali decreti de
l’altro: perché la fenice è quel che fu, essendoché la medesima materia per il
fuoco si rinova ad esser corpo di fenice, e medesimo spirito et anima viene ad
informarla; il furioso è quel che non fu, perché il suggetto che è d’uomo,
prima fu di qualch’altra specie secondo innumerabili differenze. Di sorte che
si sa quel che fu la fenice, e si sa quel che sarà: ma questo suggetto non può
tornar se non per molti et incerti mezzi ad investirsi de medesima o simil
forma naturale. Appresso, la fenice al cospetto del sole cangia la morte con la
vita; e questo nel cospetto d’amore muta la vita con la morte. Oltre, quella su
l’aromatico altare accende il foco; e questo il trova e mena seco, ovumque va.
Quella ancora ha certi termini di lunga vita; ma costui per infinite differenze
di tempo et innumerabili caggioni de circonstanze, ha di breve vita termini
incerti. Quella s’accende con certezza, questo con dubio de riveder il sole.
cicada Che cosa credete voi che possa figurar questo? tansillo La differenza
ch’è tra l’intelletto inferiore, che chiamano intelletto di potenza o possibile
o passibile, il quale è incerto, moltivario e moltiforme; e l’intelletto
superiore, forse quale è quel che da Peripatetici è detto infima de
l’intelligenze, e che immediatamente influisce sopra tutti gl’individui
dell’umana specie, e dicesi intelletto agente et attuante. Questo intelletto
unico specifico umano che ha influenza in tutti li individui, è come la luna,
la quale non prende altra specie che quella unica, la qual sempre se rinova per
la conversion che fa al sole che è la prima et universale intelligenza: ma
l’intelletto umano individuale e numeroso viene come gli occhi a voltarsi ad
innumerabili e diversissimi oggetti, onde secondo infiniti gradi che son
secondo tutte le forme naturali viene informato. Là onde accade che sia
furioso, vago et incerto questo intelletto particolare; come quello universale
è quieto, stabile e certo, cossì secondo l’appetito come secondo l’apprensione.
O pur quindi (come da per te stesso puoi facilmente desciferare) vien
significata la natura dell’apprensione et appetito vario, vago, inconstante et
incerto del senso, e del concetto et appetito definito, fermo e stabile de
l’intelligenza; la differenza de l’amor sensuale che non ha certezza né
discrezion de oggetti, da l’amor intellettivo il qual ha mira ad un certo e
solo, a cui si volta, da cui è illuminato nel concetto, onde è acceso ne
l’affetto, s’infiamma, s’illustra et è mantenuto nell’unità, identità e stato.
VII. cicada Ma che vuol significare quell’imagine del sole con un circolo
dentro, et un altro da fuori, con il motto Circuit? tansillo La significazion
di questo son certo che mai arrei compresa, se non fusse che l’ho intesa dal
medesimo figuratone: or è da sapere che quel circuit si referisce al moto del
sole che fa per quel circolo, il quale gli vien descritto dentro e fuori; a
significare che quel moto insieme insieme si fa et è fatto: onde per
consequenza il sole viene sempre ad ritrovarsi in tutti gli punti di quello.
Perché s’egli si muove in uno instante, séguita che insieme si muove et è
mosso, e che è per tutta la circonferenza del circolo equalmente, e che in esso
convegna in uno il moto e la quiete. cicada Questo ho compreso nelli dialogi De
l’infinito, universo e mondi innumerabili, e dove si dechiara come la divina
sapienza è mobilissima (come disse Salomone) e che la medesima sia
stabilissima, come è detto et inteso da tutti quelli che intendono. Or séguita
a farmi comprendere il proposito. tansillo Vuol dire che il suo sole non è come
questo, che (come comunmente si crede) circuisce la terra col moto diurno in
ventiquattro ore, e col moto planetare in dodeci mesi; laonde fa distinti gli
quattro tempi de l’anno, secondo che a termini di quello si trova in quattro
punti cardinali del Zodiaco; ma è tale, che (per essere la eternità istessa e
conseguentemente una possessione insieme tutta e compita) insieme insieme
comprende l’inverno, la primavera, l’estade, l’autunno, insieme insieme il
giorno e la notte: perché è tutto per tutti et in tutti gli punti e luoghi.
cicada Or applicate quel che dite alla figura. tansillo Qua, perché non è
possibile designar il sol tutto in tutti gli punti del circolo, vi son
delineati doi circoli: l’un che ’l comprenda per significar che si muove per
quello; l’altro che sia da lui compreso per mostrar che è mosso per quello.
cicada Ma questa dimostrazione non è troppo aperta e propria. tansillo Basta
che sia la più aperta e propria che lui abbia possuta fare: se voi la possete
far megliore vi si dà autorità di toglier quella e mettervi quell’altra; perché
questa è stata messa solo a fin che l’anima non fusse senza corpo. cicada Che
dite di quel Circuit? tansillo Quel motto, secondo tutta la sua significazione,
significa la cosa quanto può essere significato; atteso che significa che volta
e che è voltato: cioè il moto presente e perfetto. cicada Eccellentemente: e
però que’ circoli li quali malamente significano la circonstanza del moto e
quiete tale, possiamo dire che son messi a significar la sola circolazione. E
cossì vegno contento del suggetto e de la forma de l’impresa eroica. Or legansi
le rime. tansillo Sol che dal Tauro fai temprati lumi, e dal Leon tutto maturi
e scaldi, e quando dal pungente Scorpio allumi, de l’ardente vigor non poco
faldi; poscia dal fier Deucalion consumi tutto col fredd’, e i corp’umidi
saldi: de primavera, estade, autunno, inverno mi scald’ accend’ ard’ avvamp’in
eterno. Ho sì caldo il desio, che facilment’ a remirar m’accendo quell’alt’oggetto,
per cui tant’ardendo, fo sfavillar a gli astri il vampo mio: non han momento
gli anni, che vegga variar miei sordi affanni. Qua nota che gli quattro tempi
de l’anno son significati non per quattro segni mobili che son Ariete, Cancro,
Libra e Capricorno, ma per gli quattro che chiamano fissi, cioè Tauro, Leone,
Scorpione et Aquario: per significare la perfezzione, stato e fervor di quelle
tempeste. Nota appresso che in virtù di quelle apostrofi che son nel verso
ottavo, possete leggere mi scaldo, accendo, ardo, avampo; over, scaldi,
accendi, ardi, avampi; over scalda, accende, arde, avvampa”. Hai oltre da
considerare che questi non son quattro sinonimi, ma quattro termini diversi che
significano tanti gradi de gli effetti del fuoco. Il qual prima scalda, secondo
accende, terzo bruggia, quarto infiamma o invampa quel ch’ha scaldato, acceso e
bruggiato. E cossì son denotate nel furioso il desio, l’attenzione, il studio,
l’affezzione, le quali in nessun momento sente variare. cicada Perché le mette
sotto titolo d’affanni? tansillo Perché l’oggetto, ch’è la divina luce, in
questa vita è più in laborioso voto che in quieta fruizione: perché la nostra
mente verso quella è come gli occhi de gli uccelli notturni al sole. cicada
Passa, perché ora da quel ch’è detto posso comprender tutto. VIII. tansillo Nel
cimiero seguente vi sta depinta una luna piena col motto Talis mihi semper et
astro. Vuol dir che a l’astro, cioè al Sole, et a lui sempre è tale, come si
mostra qua piena e lucida nella circonferenza intiera del circolo: il che acciò
che meglio forse intendi, voglio farti udire quel ch’è scritto nella tavoletta.
Lun’inconstante, luna varia, quale con corna or vere e tal’or piene svalli, or
l’orbe tuo bianc’or fosco risale, or Bora e de’ Rifei monti le valli fai
lustre, or torni per tue trite scale a chiarir l’Austro, e di Libia le spalli.
La luna mia per mia continua pena mai sempre è ferma, ci è mai sempre piena. È
tale la mia stella, che sempre mi si togli’ e mai si rende, che sempre tanto
bruggia e tanto splende, sempre tanto crudele e tanto bella: questa mia nobil
face sempre sì mi martora, e sì mi piace. Mi par che voglia dire che la sua
intelligenza particulare alla intelligenza universale è sempre tale: cioè da
quella viene eternamente illuminata in tutto l’emisfero; benché alle potenze
inferiori e secondo gl’influssi de gli atti suoi or viene oscura, or più e meno
lucida. O forse vuol significare che l’intelletto suo speculativo (il quale è
sempre in atto invariabilmente) è sempre volto et affetto verso l’intelligenza
umana significata per la luna, perché come questa è detta infima de tutti gli
astri et è più vicina a noi, cossì l’intelligenza illuminatrice de tutti noi
(in questo stato) è l’ultima in ordine de l’altre intelligenze, come nota Averroe
et altri più sottili Peripatetici. Quella a l’intelletto in potenza or
tramonta, per quanto non è in atto alcuno, or come svallasse, cioè sorgesse dal
basso de l’occolto emispero, si mostra or vacua or piena secondo che dona più o
meno lume d’intelligenza; or ha l’orbe oscuro or bianco, perché talvolta mostra
per ombra, similitudine e vestigio, tal volta più e più apertamente; or declina
a l’Austro, or monta a Borea, cioè or ne si va più e più allontanando, or più e
più s’avvicina. Ma l’intelletto in atto con sua continua pena (percioché questo
non è per natura e condizione umana in cui si trova cossì travaglioso,
combattuto, invitato, sollecitato, distratto e come lacerato dalle potenze
inferiori) sempre vede il suo oggetto fermo, fisso e constante, e sempre pieno
e nel medesimo splendor di bellezza. Cossì sempre se gli toglie per quanto non
se gli concede, sempre se gli rende per quanto se gli concede. Sempre tanto lo
bruggia ne l’affetto, come sempre tanto gli splende nel pensiero; sempre è
tanto crudele in suttrarsi per quel che si suttrae, come sempre è tanto bello
in comunicarsi per quel che gli se presenta. Sempre lo martòra, perciò che è
diviso per differenza locale da lui, come sempre gli piace, percioché gli è
congionto con l’affetto. cicada Or applicate l’intelligenza al motto. tansillo
Dice dumqueTalis mihi semper, cioè per la mia continua applicazione secondo
l’intelletto, memoria e volontarie (perché non voglio altro rallentare,
intendere, né desiderare) sempre mi è tale, e per quanto posso capirla, al
tutto presente, e non m’è divisa per distrazzion de pensiero, né me si fa più
oscura per difetto d’attenzione, perché non è pensiero che mi divertisca da
quella luce, e non è necessità di natura qual m’oblighi perché meno attenda.
Talis mihi semper dal canto suo, perché la è invariabile in sustanza, in virtù,
in bellezza et in effetto verso quelle cose che sono constanti et invariabili
verso lei. Dice appresso ut astro, perché al rispetto del sole illuminator de
quella sempre è ugualmente luminosa, essendo che sempre ugualmente gli è volta,
e quello sempre parimente diffonde gli suoi raggi: come fisicamente questa luna
che veggiamo con gli occhi, quantunque verso la terra or appaia tenebrosa or
lucente, or più or meno illustrata et illustrante, sempre però dal sole vien
lei ugualmente illuminata; perché sempre piglia gli raggi di quello al meno nel
dorso del suo emispero intiero. Come anco questa terra sempre è illuminata
nell’emisfero equalmente; quantunque da l’acquosa superficie cossì inequalmente
a volte a volte mande il suo splendore alla luna (qual come molti altri astri
innumerabili stimiamo un’altra terra) come aviene che quella mande a lei:
atteso la vicissitudine ch’hanno insieme de ritrovarsi or l’una or l’altra più
vicina al sole. cicada Come questa intelligenza è significata per la luna che
luce per l’emisfero? tansillo Tutte l’intelligenze son significate per la luna,
in quanto che son partecipi d’atto e di potenza, per quanto dico che hanno la
luce materialmente, e secondo participazione, ricevendola da altro; dico non
essendo luci per sé e per sua natura: ma per risguardo del sole ch’è la prima
intelligenza, la quale è pura et absoluta luce come anco è puro et absoluto
atto. cicada Tutte dumque le cose che hanno dependenza, e che non sono il primo
atto e causa, sono composte come di luce e tenebra, come di materia e forma, di
potenza et atto? tansillo Cossì è. Oltre, l’anima nostra secondo tutta la
sustanza è significata per la luna la quale splende per l’emispero delle
potenze superiori, onde è volta alla luce del mondo intelligibile, et è oscura
per le potenze inferiori, onde è occupata al governo della materia. IX. cicada
E mi par che a quel ch’ora è detto abbia certa conseguenza e simbolo l’impresa
ch’io veggio nel seguente scudo, dove è una ruvida e ramosa quercia piantata,
contra la quale è un vento che soffia, et ha circonscritto il motto Ut robori
robur. Et appresso è affissa la tavola che dice: Annosa quercia, che gli rami
spandi a l’aria, e fermi le radici ’n terra: né terra smossa, né gli spirti
grandi che da l’aspro Aquilon il ciel disserra, né quanto fia ch’il vern’orrido
mandi, dal luog’ove stai salda mai ti sferra; mostri della mia fé ritratto vero
qual smossa mai stran’accidenti féro. Tu medesmo terreno mai sempr’abbracci,
fai colto e comprendi, e di lui per le viscere distendi radici grate al
generoso seno: i’ ad un sol oggetto ho fiss’il spirt’, il sens’e l’intelletto.
[tansillo] Il motto è aperto, per cui si vanta il furioso d’aver forza e
robustezza, come la rovere; e come quell’altro, essere sempre uno al riguardo
da l’unica fenice; e come il prossimo precedente conformarsi a quella luna che
sempre tanto splende, e tanto è bella; o pur non assomigliarsi a questa
antictona tra la nostra terra et il sole in quanto ch’è varia a’ nostri occhi:
ma in quanto sempre riceve ugual porzion del splendor solare in se stessa. E
per ciò cossì rimaner constante e fermo contra gli Aquiloni e tempestosi
inverni per la fermezza ch’ha nel suo astro in cui è piantato con l’affetto et
intenzione, come la detta radicosa pianta tiene intessute le sue radici con le
vene de la terra. cicada Più stimo io l’essere in tranquillità e fuor di
molestia che trovarsi in una sì forte toleranza. tansillo È sentenza d’Epicurei
la qual se sarà bene intesa, non sarà giudicata tanto profana quanto la stimano
gli ignoranti; atteso che non toglie che quel ch’io ho detto sia virtù, né
pregiudica alla perfezzione della constanza, ma più tosto aggionge a quella
perfezzione che intendeno gli volgari: perché lui non stima vera e compita
virtù di fortezza e constanza quella che sente e comporta gl’incommodi: ma
quella che non sentendoli le porta; non stima compìto amor divino et eroico
quello che sente il sprone, freno o rimorso o pena per altro amore, ma quello
ch’a fatto non ha senso de gli altri affetti: onde talmente è gionto ad un
piacere, che non è potente dispiacere alcuno a distorlo o far cespitare in
punto. E questo è toccar la somma beatitudine in questo stato, l’aver la
voluptà e non aver senso di dolore. cicada La volgare opinione non crede questo
senso d’Epicuro. tansillo Perché non leggono gli suoi libri, né quelli che
senza invidia apportano le sue sentenze, al contrario di color che leggono il
corso de sua vita et il termine de la sua morte. Dove con queste paroli dettò
il X. tansillo Guarda in quest’altro ch’ha la fantasia di quella incudine
e martello, circa la quale è il motto Ab Aetna. Ma prima che la consideriamo,
leggemo la stanza. Qua s’introduce di Vulcano la prosopopea: Or non al monte
mio siciliano torn’, ove tempri i folgori di Giove; Giordano Bruno De gli
eroici furori principio del suo testamento: Essendo ne l’ultimo e medesimo
felicissimo giorno de nostra vita, abbiamo ordinato questo con mente quieta,
sana e tranquilla; perché quantunque grandissimo dolor de pietra ne tormentasse
da un canto, quel tormento tutto venea assorbito dal piacere de le nostre
invenzioni e la considerazion del fine. Et è cosa manifesta che non ponea
felicità più che dolore nel mangiare, bere, posare e generare, ma in non sentir
fame, né sete, né fatica, né libidine. Da qua considera qual sia secondo noi la
perfezzion de la constanza: non già in questo che l’arbore non si fracasse,
rompa o pieghe; ma in questo che né manco si muova: alla cui similitudine
costui tien fisso il spirto, senso et intelletto, là dove non ha sentimento di
tempestosi insulti. cicada Volete dumque che sia cosa desiderabile il comportar
de tormenti, perché è cosa da forte? tansillo Questo che dite comportare è
parte di constanza, e non è la virtude intiera; ma questo che dico fortemente
comportare et Epicuro disse non sentire. La qual privazion di senso è
caggionata da quel che tutto è stato absorto dalla cura della virtude, vero
bene e felicitade. Qualmente Regolo non ebbe senso de l’arca, Lucrezia del
pugnale, Socrate del veleno, Anaxarco de la pila, Scevola del fuoco, Cocle de
la voragine, et altri virtuosi d’altre cose che massime tormentano e danno
orrore a persone ordinarie e vili. cicada Or passate oltre. qua mi rimagno
scabroso Vulcano: qua più superbo gigante si smuove, che contr’il ciel
s’infiamm’e stizz’in vano, tentando nuovi studii e varie prove; qua trovo
meglior fabri e Mongibello, meglior fucina, incudine e martello. Dov’un pett’ha
suspiri che quai mantici avvivan la fornace, u’ l’alm’a tante scosse
sottoghiace di que’ sì lunghi scempii e gran martìri; e manda quel concento che
fa volgar sì aspr’e rio tormento. Qua si mostrano le pene et incomodi che son
ne l’amore, massime nell’amor volgare, il quale non è altro che l’officina di
Vulcano: quel fabro che forma i folgori de Giove che tormentano l’anime
delinquenti. Perché il disordinato amore ha in sé il principio della sua pena;
attesoché Dio è vicino, è nosco, è dentro di noi. Si trova in noi certa sacrata
mente et intelligenza, cui subministra un proprio affetto che ha il suo
vendicatore, che col rimorso di certa sinderesi al meno, come con certo rigido
martello flagella il spirito prevaricante. Quella osserva le nostre azzioni et
affetti, e come è trattata da noi fa che noi vengamo trattati da lei. In tutti
gli amanti, dico, è questo fabro Vulcano: come non è uomo che non abbia Dio in
sé, non è amante che non abbia questo dio. In tutti è Dio certissimamente, ma
qual dio sia in ciascuno non si sa cossì facilmente; e se pur se può esaminare e
distinguere, altro non potrei credere che possa chiarirlo che l’amore: come
quello che spinge gli remi, gonfia la vela e modera questo composto, onde vegna
bene o malamente affetto. – Dico bene o malamente affetto quanto a quel che
mette in esecuzione per l’azzioni morali e contemplazione; perché del resto
tutti gli amanti comunmente senteno qualch’incomodo: essendoché come le cose
son miste, non essendo bene alcuno sotto concetto et affetto a cui non sia
gionto o opposto il male, come né alcun vero a cui non sia apposto e gionto il
falso; cossì non è amore senza timore, zelo, gelosia, rancore et altre passioni
che procedono dal contrario che ne perturba, se l’altro contrario ne appaga.
Talmente venendo l’anima in pensiero di ricovrar la bellezza naturale, studia
purgarsi, sanarsi, riformarsi: e però adopra il fuoco, perché essendo come oro
trameschiato a la terra et informe, con certo rigor vuol liberarsi da impurità;
il che s’effettua quando l’intelletto vero fabro di Giove vi mette le mani
essercitandovi gli atti dell’intellettive potenze. cicada A questo mi par che
si riferisca quel che si trova nel Convito di Platone, dove dice che l’Amore da
la madre Penìa ha ereditato l’esser arido, magro, pallido, discalzo, summisso,
senza letto e senza tetto: per le quali circonstanze vien significato il
tormento ch’ha l’anima travagliata da gli contrarii affetti. tansillo Cossì è,
perché il spirito affetto di tal furore viene da profondi pensieri distratto,
martellato da cure urgenti, scaldato da ferventi desii, insoffiato da spesse
occasioni: onde trovandosi l’anima suspesa, necessariamente viene ad essere men
diligente et operosa al governo del corpo per gli atti della potenza
vegetativa. Quindi il corpo è macilento, mal nodrito, estenuato, ha difetto de
sangue, copia di malancolici umori, li quali se non saranno instrumenti de
l’anima disciplinata o pure d’un spirito chiaro e lucido, menano ad insania,
stoltizia e furor brutale; o al meno a certa poca cura di sé e dispreggio del
esser proprio, il qual vien significato da Platone per gli piedi discalzi. Va
summisso l’amore e vola come rependo per la terra, quando è attaccato a cose
basse; vola alto quando vien intento a più generose imprese. In conclusione et
a proposito: qualunque sia l’amore, sempre è travagliato e tormentato di sorte
che non possa mancar d’esser materia nelle focine di Vulcano; perché l’anima
essendo cosa divina, e naturalmente non serva, ma signora della materia
corporale, viene a conturbarsi ancor in quel che volontariamente serve al
corpo, dove non trova cosa che la contente. E quantumque fissa nella cosa
amata, sempre gli aviene che altretanto vegna ad essagitarsi e fluttuar in
mezzo gli soffii de le speranze, timori, dubii, zeli, conscienze, rimorsi,
ostinazioni, pentimenti, et altri manigoldi che son gli mantici, gli carboni,
l’incudini, gli martelli, le tenaglie, et altri stormenti che si ritrovano
nella bottega di questo sordido e sporco consorte di Venere. cicada Or assai è
stato detto a questo proposito: piacciavi di veder che cosa séguita appresso.
XI. tansillo Qua è un pomo d’oro ricchissimamente, con diverse preciosissime
specie, smaltato. Et ha il motto in circa che dice Pulchriori detur. cicada La
allusione al fatto delle tre dee che si sottoposero al giudicio de Paride, è
molto volgare: ma leggansi le rime che più specificatamente ne facciano capaci
de l’intenzione del furioso presente. tansillo Venere, dea del terzo ciel, e
madre del cieco arciero, domator d’ogn’uno; l’altra, ch’ha ’l capo giovial per
padre, e di Giove la mogli’ altera Giuno; il troiano pastor chiaman, che
squadre de chi de lor più bell’è l’aureo muno: se la mia diva al paragon
s’appone, non di Venere, Pallad’, o Giunone. Per belle membra è vaga la cipria
dea, Minerva per l’ingegno, e la Saturnia piace con quel degno splendor
d’altezza, ch’il Tonante appaga; ma quest’ha quanto aggrade di bel,
d’intelligenza, e maestade. Ecco qualmente fa comparazione dal suo oggetto il
quale contiene tutte le circonstanze, condizioni e specie di bellezza come in
un suggetto, ad altri che non ne mostrano più che una per ciascuno; e tutte poi
per diversi suppositi: come avvenne nel geno solo della corporal bellezza di
cui le condizioni tutte non le poté approvare Apelle in una, ma in più vergini.
Or qua dove son tre geni di beltade, benché avvegna che tutti si troveno in
ciascuna de le tre dee, perché a Venere non manca sapienza e maestade, in
Giunone non è difetto di vaghezza e sapienza, et in Pallade è pur notata la
maestà con la vaghezza: tutta volta aviene che l’una condizione supera le altre,
onde quella viene ad esser stimata come proprietà, e l’altre come accidenti
communi, atteso che di que’ tre doni l’uno predomina in una, e viene ad
mostrarla et intitularla sovrana de l’altre. E la caggion di cotal differenza è
lo aver queste raggioni non per essenza e primitivamente, ma per participazione
e derivativamente. Come in tutte le cose dependenti sono le perfezzioni secondo
gli gradi de maggiore e minore, più e meno. – Ma nella simplicità della divina
essenza è tutto totalmente, e non secondo misura: e però non è più sapienza che
bellezza, e maestade, non è più bontà che fortezza: ma tutti gli attributi sono
non solamente uguali, ma ancora medesimi et una istessa cosa. Come nella sfera
tutte le dimensioni sono non solamente uguali (essendo tanta la lunghezza
quanta è la profondità e larghezza) ma anco medesime: atteso che quel che
chiami profondo, medesimo puoi chiamar lungo e largo della sfera. Cossì è
nell’altezza de la sapienza divina, la quale è medesimo che la profondità de la
potenza, e latitudine de la bontade. Tutte queste perfezzioni sono uguali
perché sono infinite. Percioché necessariamente l’una è secondo la grandezza de
l’altra, atteso che dove queste cose son finite, avviene che sia più savio che
bello e buono, più buono e bello che savio, più savio e buono che potente, e
più potente che buono e savio. Ma dove è infinita sapienza, non può essere se
non infinita potenza: perché altrimenti non potrebbe saper infinitamente. Dove
è infinita bontà, bisogna infinita sapienza: perché altrimenti non saprebbe
essere infinitamente buono. Dove è infinita potenza, bisogna che sia infinita
bontà e sapienza, perché tanto ben si possa sapere e si sappia possere. Or
dumque vedi come l’oggetto di questo furioso, quasi inebriato di bevanda de dèi,
sia più alto incomparabilmente che gli altri diversi da quello. Come, voglio
dire, la specie intelligibile della divina essenza comprende la perfezzione de
tutte l’altre specie altissimamente, di sorte che, secondo il grado che può
esser partecipe di quella forma, potrà intender tutto e far tutto, et esser
cossì amico d’una, che vegna ad aver a dispreggio e tedio ogn’altra bellezza.
Però a quella si deve esser consecrato il sferico pomo, come chi è tutto in
tutto. Non a Venere bella che da Minerva è superata in sapienza, e da Giunone
in maestà. Non a Pallade di cui Venere è più bella, e l’altra più magnifica.
Non a Giunone, che non è la dea dell’intelligenza et amore ancora. cicada Certo
come son gli gradi delle nature et essenze, cossì proporzionalmente son gli
gradi delle specie intelligibili, e magnificenze de gli amorosi affetti e
furori. XII. cicada Il seguente porta una testa, ch’ha quattro faccia che
soffiano verso gli quattro angoli del cielo; e son quattro venti in un
suggetto, alli quali soprastanno due stelle, et in mezzo il motto che dice
Novae ortae Aeoliae; vorrei sapere che cosa vegna significata. tansillo Mi pare
ch’il senso di questa divisa è conseguente di quello de la prossima superiore.
Perché come là è predicata una infinita bellezza per oggetto, qua vien
protestata una tanta aspirazione, studio, affetto e desio; percioch’io credo
che questi venti son messi a significar gli suspiri; il che conosceremo, se
verremo a leggere la stanza: Figli d’Astreo Titan e de l’Aurora, che conturbate
il ciel, il mar e terra, quai spinti fuste dal Litigio fuora, perché facessi a’
dèi superba guerra: non più a l’Eolie spelunche dimora fate, ov’imperio mio vi
fren’e serra: ma rinchiusi vi siet’entra’a quel petto ch’i’ veggo a tanto
sospirar costretto. Voi socii turbulenti de le tempeste d’un et altro mare,
altro non è che vagli’ asserenare, che que’omicidi lumi et innocenti: quelli
apert’et ascosi vi renderan tranquilli et orgogliosi. Aperto si vede ch’è
introdotto Eolo parlar a i venti, quali non più dice esser da lui moderati
nell’Eolie caverne: ma da due stelle nel petto di questo furioso. Qua le due
stelle non significano gli doi occhi che son ne la bella fronte: ma le due
specie apprensibili della divina bellezza e bontade di quell’infinito
splendore, che talmente influiscono nel desio intellettuale e razionale, che lo
fanno venire ad aspirar infinitamente, secondo il modo con cui infinitamente
grande, bello e buono apprende quell’eccellente lume. Perché l’amore mentre
sarà finito, appagato, e fisso a certa misura, tansillo cicada tansillo
Giordano Bruno De gli eroici furori non sarà circa le specie della divina
bellezza: ma altra formata; ma mentre verrà sempre oltre et oltre aspirando,
potrassi dire che versa circa l’infinito. cicada Come comodamente l’aspirare è
significato per il spirare? che simbolo hanno i venti col desiderio? tansillo
Chi de noi in questo stato aspira, quello suspira, quello medesimo spira. E
però la vehemenza dell’aspirare è notata per quell’ieroglifico del forte
spirare. cicada Ma è differenza tra il sospirare e spirare. tansillo Però non
vien significato l’uno per l’altro come medesimo per il medesimo: ma come
simile per il Simile. cicada Seguitate dumque il vostro proposito. tansillo
L’infinita aspirazion dumque mostrata per gli suspiri, e significata per gli
venti, è sotto il governo non d’Eolo nell’Eolie, ma di detti doi lumi; li quali
non solo innocente, ma e benignissimamente uccidono il furioso, facendolo per
il studioso affetto morire al riguardo d’ogn’altra cosa: con ciò che quelli che
chiusi et ascosi lo rendono tempestoso, aperti lo renderan tranquillo; atteso
che nella staggione che di nuvoloso velo adombra gli occhi de l’umana mente in
questo corpo, aviene che l’alma con tal studio vegna più tosto turbata e
travagliata: come essendo quello stracciato e spinto, doverrà tant’altamente
quieta, quanto baste ad appagar la condizion di sua natura. cicada Come
l’intelletto nostro finito può seguitar l’oggetto infinito? Con l’infinita
potenza ch’egli ha. Questa è vana, se mai sarrà in effetto. Sarrebe vana, se
fusse circa atto finito, dove l’infinita potenza sarrebe privativa; ma non già
circa l’atto infinito, dove l’infinita potenza è positiva perfezzione. cicada
Se l’intelletto umano è una natura et atto finito, come e perché ha potenza
infinita? tansillo Perché è eterno, et acciò sempre si dilette, e non abbia
fine né misura la sua felicità; e perché come è finito in sé, cossì sia
infinito nell’oggetto. cicada Che differenza è tra la infinità de l’oggetto et
infinità della potenza? tansillo Questa è finitamente infinita, quello
infinitamente infinito. Ma torniamo a noi. Dice dumque là il motto Novae partae
Aeoliae, perché par si possa credere che tutti gli venti (che son negli antri
voraginosi d’Eolo) sieno convertiti in suspiri, se vogliamo numerar quelli che
procedono da l’affetto che senza fine aspira al sommo bene et infinita beltade.
XIII. cicada Veggiamo appresso la significazione di quella face ardente, circa
la quale è scritto Ad vitam, non ad horam. tansillo La perseveranza in tal
amore et ardente desio del vero bene, in cui arde in questo stato temporale il
furioso. Questo credo che mostra la seguente tavola: Partesi da la stanz’il
contadino, quando il sen d’Oriente il giorno sgombra; e quand’il sol ne fere
più vicino, stanc’e cotto da caldo sied’a l’ombra; lavora poi, e s’affatica
insino ch’atra caligo l’emisfer ingombra; indi si posa: io sto a continue botte
mattina, mezo giorno, sera e notte. Questi focosi rai ch’escon da que’ dei
archi del mio sole, de l’alma mia (com’il mio destin vuole) dal orizonte non si
parton mai: bruggiand’a tutte l’ore dal suo meridian l’afflitto core.cicada
Questa tavola più vera che propriamente esplica il senso de la figura. tansillo
Non ho d’affaticarmi a farvi veder queste proprietadi, dove il vedere non
merita altro che più attenta considerazione. Gli rai del sole son le raggioni
con le quali la divina beltade e bontade si manifesta a noi. E son focosi,
perché non possono essere appresi da l’intelletto, senza che conseguentemente
scaldeno l’affetto. Doi archi del sole son le due specie di revelazione che gli
scolastici teologi chiamano matutina e vespertina; onde l’intelligenza
illuminatrice di noi, come aere mediante, ne adduce quella specie o in virtù
che la admira in se stessa, o in efficacia che la contempla ne gli effetti.
L’orizonte de l’alma in questo luogo è la parte delle potenze superiori, dove a
l’apprensione gagliarda de l’intelletto soccorre il vigoroso appulso de
l’affetto, significato per il core, che bruggiando a tutte l’ore s’afflige;
perché tutti gli frutti d’amore che possiamo raccòrre in questo stato non son
sì dolci che non siano più gionti a certa afflizzione, quella almeno che
procede da l’apprension di non piena fruizione. Come specialmente accade ne gli
frutti de l’amor naturale, la condizion de gli quali non saprei meglio
esprimere, che come fe’ il poeta epicureo: Ex hominis vero facie pulchroque
colore nil datur in corpus praeter simulacra fruendum tenuia, quae vento spes
captat saepe misella. Ut bibere in somnis sitiens cum quaerit, et humor non
datur, ardorem in membris qui stinguere possit; sed laticum simulacra petit
frustraque laborat, in medioque sitit torrenti flumine potans: sic in amore
Venus simulacris ludit amantis, nec satiare queunt spectando corpora coram, nec
manibus quicquam teneris abradere membris possunt, errantes incerti corpore
toto. Denique cum membris conlatis flore fruuntur aetatis; dum iam praesagit
gaudia corpus, atque in eo est Venus, ut muliebria conserat arva, adfigunt
avide corpus iunguntque salivas oris, et inspirant pressantes dentibus ora,
nequicquam, quoniam nibil inde abradere possunt, nec penetrare et abire in
corpus corpore toto. Similmente giudica nel geno del gusto che qua possiamo
aver de cose divine: mentre a quelle ne forziamo penetrare et unirci, troviamo
aver più afflizzione nel desio che piacer nel concetto. E per questo può aver
detto quel savio Ebreo, che chi aggionge scienza aggionge dolore, perché dalla
maggior apprensione nasce maggior e più alto desio, e da questo séguita maggior
dispetto e doglia per la privazione della cosa desiderata; là onde l’epicureo
che séguita la più tranquilla vita, disse in proposito de l’amor volgare: Sed
fugitare decet simulacra, et pabula amoris abstergere sibi, atque alio
convertere mentem, nec servare sibi curam certumque dolorem: ulcus enim
virescit el inveterascit alendo, inque dies gliscit furor, atque erumna
gravescit. Nec Veneris fructu sarei is qui vitat amorem, sed potius quaes sunt
sine paena commoda sumit. cicada Che intende per il meridiano del core?
tansillo La parte o region più alta e più eminente de la volontà, dove più
illustre, forte, efficace e rettamente è riscaldata. Intende che tale affetto
non è come in principio che si muova, né come in fine che si quiete, ma come al
mezzo dove s’infervora. XIV. cicada Ma che significa quel strale infocato che
ha le fiamme in luogo di ferrigna punta, circa il quale è avolto un laccio, et
ha il motto Amor instat ut instans? Dite che ne intendete. tansillo Mi par che
voglia dire che l’amor mai lo lascia, e che eterno parimente l’affliga. cicada
Vedo bene laccio, strale e fuoco; intendo quel che sta scritto: Amor instat; ma
quel che séguita, non posso capirlo, cioè che l’amor come istante o insistente,
inste: che ha medesima penuria di proposito, che se uno dicesse: questa impresa
costui la ha finta come finta, la porta come la porta, la intendo come la
intendo, la vale come la vale, la stimo come un che la stima. tansillo Più
facilmente determina e condanna chi manco considera. Quello instans non
significa adiettivamente dal verbo instare, ma è nome sustantivo preso per
l’instante del tempo. cicada Or che vuol dir che l’amor insta come l’instante?
tansillo Che vuol dire Aristotele nel suo libro Del tempo, quando dice che
l’eternità è uno instante, e che in tutto il tempo non è che uno instante?
cicada Come questo può essere se non è tanto minimo tempo che non abbia più
instanti? Vuol egli forse che in uno instante sia il diluvio, la guerra di
Troia, e noi che siamo adesso? Vorrei sapere come questo instante se divide in
tanti secoli et anni; e se per medesima proporzione non possiamo dire che la
linea sia un punto. tansillo Sì come il tempo è uno, ma è in diversi suggetti
temporali, cossì l’instante è uno in diverse e tutte le parti del tempo. Come
io son medesimo che fui, sono e sarò; io medesimo son qua in casa, nel tempio,
nel campo e per tutto dove sono. cicada Perché volete che l’instante sia tutto
il tempo? tansillo Perché se non fusse l’instante, non sarrebe il tempo: però
il tempo in essenza e sustanza non è altro che instante. E questo baste se
l’intendi (perché non ho da pedanteggiar sul quarto de la Fisica); onde
comprendi che voglia dire, che l’amor gli assista non meno che il tempo tutto:
perché questo instans non significa punto del tempo. cicada Bisogna che questa
significazione sia specificata in qualche maniera, se non vogliamo far che sia
il motto vicioso in equivocazione, onde possiamo liberamente intendere ch’egli
voglia dire che l’amor suo sia d’uno instante, idest d’un atomo di tempo e d’un
niente: o che voglia dire che sia (come voi interpretate) sempre. tansillo
Certo se vi fussero inplicati questi doi sensi contrarii, il motto sarrebe una
baia. Ma non è cossì, se ben consideri, atteso che in uno instante che è atomo
o punto, che l’amore inste o insista non può essere: ma bisogna necessariamente
intendere l’instante in altra significazione. E per uscir di scuola, leggasi la
stanza: Un tempo sparge, et un tempo raccoglie; un edifica, un strugge; un
piange, un ride: un tempo ha triste, un tempo ha liete voglie; un s’affatica,
un posa; un stassi, un side: un tempo porge, un tempo si ritoglie; un muove, un
ferm’; un fa viv’, un occide: in tutti gli anni, mesi, giorni et ore m’attende,
fere, accend’e lega amore. Continuo mi disperge, sempre mi strugg’e mi ritien
in pianto, è mio triste languir ogn’or pur tanto, in ogni tempo mi travagli’ et
erge; tropp’in rubbarmi è forte, mai non mi scuote, mai non mi dà morte. cicada
Assai bene ho compreso il senso: e confesso che tutte le cose accordano molto
bene. Però mi par tempo di procedere a l’altro. tansillo Qua vedi un serpe ch’a
la neve languisce dove l’avea gittato un zappatore; et un fanciullo ignudo
acceso in mezzo al fuoco, con certe altre minute e circonstanze, con il motto
che dice Idem, itidem, non idem. Questo mi par più presto enigma che altro,
però non mi confido d’esplicarlo a fatto: pur crederei che voglia significar
medesimo fato molesto, che medesimamente tormenta l’uno e l’altro (cioè
inentissimamente, senza misericordia, a morte) con diversi instrumenti o
contrarii principio, mostrandosi medesimo freddo e caldo. Ma questo mi par che
richieda più lunga e distinta considerazione. cicada Un’altra volta. Leggete la
rima. [tansillo] Languida serpe, a quell’umor sì denso ti rintorci, contrai,
sullevi, inondi; e per temprar il tuo doler intenso, al fredd’or quest’or
quella parte ascondi; s’il ghiaccio avesse per udirti senso, tu voce che
propona o che rispondi, credo ch’areste efficaci’ argumento per renderlo
piatoso al tuo tormento. Io ne l’eterno foco mi dibatto, mi struggo, scaldo,
avvampo; e al ghiaccio de mia diva per mio scampo né amor di me, né pietà trova
loco: lasso, per che non sente quant’è il rigor de la mia fiamma ardente. Angue
cerchi fuggir, sei impotente; ritenti a la tua buca, ell’è disciolta; proprie
forze richiami, elle son spente; attendi al sol, l’asconde nebbia folta; mercé
chiedi al villan, odia ’l tuo dente; fortuna invochi, non t’ode la stolta.
Fuga, luogo, vigor, astro, uom o sorte non è per darti scampo da la morte. Tu
addensi, io liquefaccio; io miro al rigor tuo, tu a l’ardor mio; tu brami
questo mal, io quel desio; n’io posso te, né tu me tòr d’impaccio. Or chiariti
a bastanza del fato rio, lasciamo ogni speranza. cicada Andiamone, perché per
il camino vedremo di snodar questo intrico, se si può. tansillo Bene. interlocutori Cesarino, Maricondo. cesarino
Cossì dicono che le cose megliori e più eccellenti sono nel mondo quando tutto
l’universo da ogni parte risponde eccellentemente: e questo stimano allor che
tutti gli pianeti ottegnono l’Ariete, essendo che quello de l’ottava sfera
ancora ottegna quello del firmamento invisibile e superiore dove è l’altro
zodiaco; le cose peggiori e più basse vogliono che abbiano loco quando domina
la contraria disposizione et ordine: però per forza di vicissitudine accadeno
le eccessive mutazioni, dal simile al dissimile, dal contrario a l’altro. La
revoluzion dumque et anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da
abiti et effetti diversissimi per gli oppositi mezzi e contraria si ritorna al
medesimo: come veggiamo ne gli anni particolari, qual è quello del sole, dove
il principio d’una disposizione contraria è fine de l’altra, et il fine di
questa è principio di quella: però ora che siamo stati nella feccia delle scienze,
che hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della feccia
de gli costumi et opre, possiamo certo aspettare de ritornare a meglior stati.
Giordano Bruno De gl’eroici furori maricondo Sappi, fratel mio, che questa
successione et ordine de le cose è verissima e certissima: ma al nostro
riguardo sempre, in qualsivoglia stato ordinario, il presente più ne afflige
che il passato, et ambi doi insieme manco possono appagarne che il futuro, il
quale è sempre in aspettazione e speranza, come ben puoi veder designato in
questa figura la quale è tolta dall’antiquità de gli Egizzii, che fêrno cotal
statua che sopra un busto simile a tutti tre puosero tre teste, l’una di lupo
che remirava a dietro, l’altra di leone che avea la faccia volta in mezzo, e la
terza di cane che guardava innanzi; per significare che le cose passate
affligono col pensiero, ma non tanto quanto le cose presenti che in effetto ne
tormentano: ma sempre per l’avenire ne promettemo meglio. Però là è il lupo che
urla, qua il leon che rugge, appresso il cane che applaude. cesarino Che
contiene quel motto ch’è sopra scritto? maricondo Vedi che sopra il lupo è Iam,
sopra il leone Modo, sopra il cane Praeterea, che son dizzioni che significano
le tre parti del tempo. cesarino Or leggete quel ch’è nella tavola. maricondo
Cossì farò. Un alan, un leon, un can appare a l’auror, al di chiar, al
vespr’oscuro quel che spesi, ritegno, e mi procuro, per quanto mi si die’, si
dà, può dare. Per quel che feci, faccio et ho da fare al passat’, al presente
et al futuro, mi pento, mi tormento, m’assicuro, nel perso, nel soffrir,
nell’aspettare. Con l’agro, con l’amaro, con il dolce l’esperienza, i frutti,
la speranza mi minacciò, m’affligono, mi molce. L’età che vissi, che vivo,
ch’avanza mi fa tremante, mi scuote, mi folce, in absenza, presenza, e
lontananza. Assai, troppo, a bastanza quel di già, quel di ora, quel d’appresso
m’hann’in timor, martir, e spene messo. cesarino Questa a punto è la testa d’un
furioso amante; quantunque sia de quasi tutti gli mortali in qualunque maniera
e modo siano malamente affetti; perché non doviamo né possiamo dire che questo
quadre a tutti stati in generale, ma a quelli che furono e sono travagliosi:
atteso che ad un ch’ha cercato un regno et ora il possiede, conviene il timor
di perderlo; ad un ch’ha lavorato per acquistar gli frutti de il amore, come è
la particular grazia de la cosa amata, conviene il morso della gelosia e
suspizione. E quanto a gli stati del mondo, quando ne ritroviamo nelle tenebre
e male, possiamo sicuramente profetizar la luce e prosperitade; quando siamo
nella felicità e disciplina, senza dubio possiamo aspettar il successo de
l’ignoranze e travagli: come avvenne a Mercurio Trimigisto che per veder
l’Egitto in tanto splender de scienze e divinazioni, per le quali egli stimava
gli uomini consorti de gli demoni e dèi, e per conseguenza religiosissimi, fece
quel profetico lamento ad Asclepio, dicendo che doveano succedere le tenebre de
nove religioni e culti, e de cose presenti non dover rimaner altro che favole e
materia di condannazione. Cossì gli Ebrei quando erano schiavi nell’Egitto e
banditi nelli deserti, erano confortati da lor profeti con l’aspettazione de
libertà et acquisto di patria. Quando furono in stato di domìno e tranquillità,
erano minacciati de dispersione e cattività. Oggi che non è male né vituperio a
cui non siano suggetti, non è bene né onore che non si promettano. Similmente
accade a tutte l’altre generazioni e stati: li quali se durano e non sono
annihilati a fatto, per forza della vicissitudine delle cose, è necessario da
’l male vegnano al bene, dal bene al male, dalla bassezza a l’altezza, da
l’altezza alla bassezza, da le oscuritadi al splendore, dal splendor alle
oscuritadi. Perché questo comporta l’ordine naturale: oltre il qual ordine, se
si ritrova altro che lo guaste o corregga, io lo credo, e non ho da disputarne,
perché non raggiono con altro spirito che naturale. maricondo Sappiamo che non
fate il teologo ma filosofo e che trattate filosofia non teologia. cesarino Cossì
è. Ma veggiamo quel che séguita. II. cesarino Veggio appresso un fumante
turribolo che è sostenuto da un braccio, et il motto che dice Illius aram; et
appresso l’articolo seguente: Or chi quell’aura de mia nobil brama d’un
ossequio divin credrà men degna s’in diverse tabelle ornata vegna da voti miei
nel tempio de la fama? Perch’altr’impres’eroica mi richiama, chi pensarà giamai
che men convegna ch’al suo culto cattivo mi ritegna quella ch’il ciel onora
tanto et ama? Lasciatemi, lasciate, altri desiri, importuni pensier, datemi
pace. Perché volete voi ch’io mi ritiri da l’aspetto del sol che sì mi piace?
Dite di me piatosi: Perché miri quel, che per remirar si ti disface? perché di
quella face sei vago sì? Perché mi fa contento più ch’ogn’altro piacer, questo
tormento. maricondo A proposito di questo io ti dicevo che quantunque un
rimagna fisso su una corporal bellezza e culto esterno, può onorevolmente e
degnamente trattenirsi: purché dalla bellezza materiale la quale è un raggio e
splender della forma, et atto spirituale, di cui è vestigio et ombra, vegna ad
inalzarsi alla considerazion e culto della divina bellezza, luce e maestade: di
maniera che da queste cose visibili vegna a magnificar il core verso quelle che
son tanto più eccellenti in sé e grate a l’animo ripurgato, quanto son più
rimosse da la materia e senso. Oimè (dirà) se una bellezza umbratde, fosca,
corrente, depinta nella superficie de la materia corporale, tanto mi piace e
tanto mi commuove l’affetto, m’imprime nel spirito non so che riverenza di
maestade, mi si cattiva, e tanto dolcemente mi lega e mi s’attira, ch’io non
trovo cosa che mi vegna messa avanti da gli sensi che tanto m’appaghe: che sarà
di quello che sustanzialmente, originalmente, primitivamente è bello; che sarà
de l’anima mia, dell’intelletto divino, della regola de la natura? Conviene
dumque che la contemplazione di questo vestigio di luce mi amene mediante la
ripurgazion de l’animo mio all’imitazione, conformità e participazione di
quella più degna et alta, in cui mi transforme et a cui mi unisca: perché son
certo che la natura che mi ha messa questa bellezza avanti gli occhi, e mi ha
dotato di senso interiore, per cui posso argomentar bellezza più profonda et
incomparabilmente maggiore, voglia ch’io da qua basso vegna promosso a
l’altezza et eminenza di specie più eccellenti. Né credo che il mio vero nume
come me si mostra in vestigio et imagine, voglia sdegnarsi che in imagine e
vestigio vegna ad onorarlo, a sacrificargli, con questo ch’il mio core et
affetto sempre sia ordinato, e rimirare più alto: atteso che chi può esser
quello che possa onorarlo in essenza e propria sustanza, se in tal maniera non
può comprenderlo? cesarino Molto ben dimostri come a gli uomini di eroico
spirito tutte le cose si converteno in bene, e si sanno servire della cattività
in frutto di maggior libertade, e l’esser vinto una volta convertiscono in
occasione di maggior vittoria. Ben sai che l’amor di bellezza corporale a color
che son ben disposti non solamente non apporta ritardamento da imprese maggiori,
ma più tosto viene ad improntargli l’ali per venire a quelle: allor che la
necessità de l’amore è convertita in virtuoso studio per cui l’amante si forza
di venire a termine nel quale sia degno della cosa amata, e forse di cosa
maggiore, megliore e più bella ancora; onde sia o che vegna contento d’aver
guadagnato quel che brama, o sodisfatto dalla sua propria bellezza, per cui
degnamente possa spregiar l’altrui che viene ad esser da lui vinta e superata:
onde o si ferma quieto, o si volta ad aspirare ad oggetti più eccellenti e
magnifichi. E cossì sempre verrà tentando il spirito eroico, sin tanto che non
si vede inalzato al desiderio della divina bellezza in se stessa, senza
similitudine, figura, imagine e specie, se sia possibile: e più se sa arrivare
a tanto. maricondo Vedi dumque, Cesarino, come ha raggione questo furioso di
risentirsi contra coloro che lo ri- prendono come cattivo de bassa bellezza a
cui sparga voti et appenda tabelle; di maniera che quindi non viene rubelle
dalle voci che lo richiamano a più alte imprese: essendo che come queste basse
cose deriva- no da quelle et hanno dipendenza, cossì da queste si può aver
accesso a quelle come per proprii gradi. Queste se non son Dio son cose divine,
sono imagini sue vive: nelle quali non si sente offeso se si vede ado- rare:
perché abbiamo ordine dal superno spirito che dice Adorate scabellum pedum
eius. Et altrove disse un divino imbasciatore: Adorabimus ubi steterunt pedes
eius. cesarino Dio, la divina bellezza e splendore riluce et è in tutte le
cose; però non mi pare errore d’admirarlo in tutte le cose secondo il modo che
si comunica a quelle: errore sarà certo se noi donaremo ad altri l’onor che
tocca a lui solo. Ma che vuol dir quando dice Lasciatemi, lasciate, altri
desiri? maricondo Bandisce da sé gli pensieri, che gli appresen- tano altri
oggetti che non hanno forza di commoverlo tanto; e che gli vogliono involar
l’aspetto del sole, il qual può presentarsegli da questa fenestra più che da
l’altre. cesarino Come importunato da pensieri si sta con- stante a remirar
quel splendor che lo disface, e non lo fa di maniera contento che ancora non
vegna forte- mente a tormentarlo? maricondo Perché tutti gli nostri conforti in
questo stato di controversia non sono senza gli suoi di- sconforti cossì grandi
come magnifici son gli conforti. Come più grande è il timore d’un re che
consiste su la perdita d’un regno, che di un mendico che consiste sul periglio
di perdere dieci danaii; è più urgente la cura d’un prencipe sopra una
republica, che d’un ru- stico sopra un grege de porci: come gli piaceri e deli-
cie di quelli forse son più grandi che le delicie e piace- ri di questi. Però
l’amare et aspirar più alto, mena seco maggior gloria e maestà con maggior
cura, pen- siero e doglia: intendo in questo stato dove l’un con- trario sempre
è congionto a l’altro, trovandosi la mas- sima contrarietade sempre nel
medesimo geno, e per conseguenza circa medesimo suggetto, quantunque gli
contraria non possano essere insieme. E cossì pro- porzionalmente nell’amor di
Cupido superiore, come dechiarò l’epicureo poeta nel cupidinesco volgare e
animale, quando disse: Fluctuat incertis erroribus ardor amantum, nec constat
quid primum oculis manibusque fruantur: quod petiere premunit arte, faciuntque
dolorem corporis, et dentes inlidunt saepe labellis osculaque adfigunt, quia
non est pura voluptas, et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum,
quodcumque est, rabies, unde illa haec germina surgunt. Sed leviter paenas
frangit Venus inter amorem, blandaque refraenat morsus admixta voluptas, namque
in eo spes est, unde est ardoris origo, restingui quoque posse ab eodem corpore
flammam. Ecco dumque con quali condimenti il magistero et arte della natura fa
che un si strugga sul piacer di quel che lo disface, e vegna contento in mezzo
del tormento, e tormentato in mezzo de tutte le conten- tezze: atteso che nulla
si fa assolutamente da un paci- fico principio, ma tutto da contrarii principii
per vit- toria e domìno d’una parte della contrarietade; e non è piacere di
generazione da un canto, senza dispiace- re di corrozzione da l’altro: e dove
queste cose che si generano e corrompono sono congionte e come in medesimo
suggetto composto, si trova il senso di de- lettazione e tristizia insieme. Di
sorte che vegna no- minata più presto delettazione che tristizia, se aviene che
la sia predominante, e con maggior forza possa sollecitare il senso. III.
cesarino Or consideriamo sopra questa imagine seguente, ch’è d’una fenice che
arde al sole, e con il suo fumo va quasi a oscurar il splender di quello, dal
cui calore vien infiammata et èvvi la nota che dice: Neque simile, nec par.
maricondo Leggasi l’articolo prima: Questa fenice ch’al bel sol s’accende, e a
dramm’a dramma consumando vassi, mentre di splender cint’ardendo stassi, contrario
fio al suo pianeta rende: perché quel che da lei al ciel ascende tepido fumo et
atra nebbia fassi, ond’i raggi a’ nostri occhi occolti lassi e quello avvele,
per cui arde e splende. Tal il mio spirto (ch’il divin splendore accende e
illustra) mentre va spiegando quel che tanto riluce nel pensiero, manda da
l’alto suo concetto fore rima, ch’il vago sol vad’oscurando, mentre mi struggo
e liquefaccio intiero. Oimè! questo adro e nero nuvol di foco infosca col suo
stile quel ch’aggrandir vorrebb’, e ’l rend’umile. cesarino Dice dumque costui
che come questa le nice venendo dal splendor del sole accesa, et abituata d lu-
ce e di fiamma, vien ella poi ad inviar al cielo quel fu- mo che oscura quello
che l’ha resa lucente: cossì egli infiammato et illuminato furioso per quel che
fa in lo- de d tanto illustre suggetto che gli have acceso il core e gli
splende nel pensiero, viene più tosto ad oscurarlo, che ritribuirgli luce per
luce, procedendo quel fumo, effetto di fiamme in cui si risolve la sustanza di
lui. maricondo Io senza che metta in bilancio e comparazione gli studi di
costui, torno a dire quel che ti dicevo l’altr’ieri, che la lode è uno de gli
più gran sacrificii che possa far un affetto umano ad un oggetto. E per lasciar
da parte il proposito del divino, ditemi: chi co- noscerebbe Achille, Ulisse e
tanti altri greci e troiani capitani, chi arrebe notizia de tanti grandi
soldati, sapienti et eroi de la terra, se non fussero stati messi alle stelle e
deificati per il sacrificio de laude, che nell’altare del cor de illustri poeti
et altri recitatori have acceso il fuoco, con questo che comunmente montasse al
cielo il sacrificatore, la vittima et il canonizato divo, per mano e voto di
legitimo e degno sacerdote? cesarino Ben dici di degno e legitimo sacerdote;
perché de gli appostici n’è pieno oggi il mondo, li quali come sono per
ordinario indegni essi loro, cossì vegnono sempre a celebrar altri indegni, di
sorte che asini asinos fricant. Ma la previdenza vuole che in luogo d’andar gli
uni e gli altri al cielo, sen vanno giontamente alle tenebre de l’Orco: onde
fia vana e la gloria di quel che celebra, e di quel ch’è celebrato; perché
l’uno ha intessuta una statua di paglia, o insculpito un tronco di legno, o
messo in getto un pezzo di calcina; e l’altro idolo d’infamia e vituperio non
sa che non gli bisogna aspettar gli denti de l’evo e la falce di Saturno per
esser messo giù: stante che dal suo encomico medesimo vien sepolto vivo all’ora
all’ora propria che vien lodato, salutato, nominato, presentato. Come per il
contrario è accaduto alla prudenza di quel tanto celebrato Mecenate, il quale
se non avesse avuto altro splendore che de l’animo inchinato alla protezzione e
favor delle Muse, sol per questo meritò che gl’ingegni de tanti illustri poeti
gli dovenessero ossequiosi a metterlo nel numero de più famosi eroi che abbiano
calpestrato il dorso de la terra. Gli proprii studii et il proprio splendore
l’han reso chiaro e nobilissimo, e non l’esser nato d’atavi regi, non l’esser
gran segretario e consegliero d’Augusto. Quello dico che l’ha fatto
illustrissimo, è l’aversi fatto degno dell’execuzion della promessa di quel
poeta che disse: Fortunati ambo, si quid mea carmina possuni, nulla dies unquam
memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet,
imperiumque pater Romanus habebit. maricondo Mi sovviene di quel che dice
Seneca in certa epistola dove riferisce le paroli d’Epicuro ad un suo amico,
che son queste: Se amor di gloria ti tocca il petto, più noto e chiaro ti
renderanno le mie lettere che tutte quest’altre cose che tu onori, e dalle
quali sei onorato, e per le quali ti puoi vantare. Similmente arria possuto
dire Omero se si gli fusse presentato avanti Achille o Ulisse, Vergilio a Enea
et alla sua progenia; perciò che, come ben suggionse quel filosofo morale, è
più conosciuto Domenea per le lettere d’Epicuro che tutti gli megistani satrapi
e regi, dalli quali pendeva il titolo [di] Domenea, e la memoria de gli quali
venea suppressa dall’alte tenebre de l’oblio. Non vive Attico per essere genero
d’Agrippa e progenero de Tiberio, ma per l’epistole de Tullio. Druso pronepote
di Cesare non si troverebbe nel numero de nomi tanto grandi, se non vi l’avesse
inserito Cicerone. Oh che ne sopraviene al capo una profonda altezza di tempo,
sopra la quale non molti ingegni rizzaranno il capo. Or per venire al proposito
di questo furioso il quale vedendo una fenice accesa al sole, si rammenta del
proprio studio, e duolsi che come quella per luce et incendio che riceve, gli
rimanda oscuro e tepido fumo di lode dall’olocausto della sua liquefatta
sustanza. Qualmente giamai possiamo non sol raggionare, ma e né men pensare di
cose divine, che non vengamo a detraergli più tosto che aggiongergli di gloria:
di sorte che la maggior cosa che far si possa al riguardo di quelle, è che
l’uomo in presenza de gli altri uomini vegna più tosto a magnificar se stesso
per il studio et ardire, che donar splendore ad altro per qualche compita e
perfetta azzione. Atteso che cotale non può aspettarsi dove si fa progresso all’infinito,
dove l’unità et infinità son la medesima cosa; e non possono essere
perseguitate dal altro numero, perché non è unità, né da altra unità perché non
è numero, né da altro numero et unità: perché non sono medesimo absoluto et
infinito. Là onde ben disse un teologo che essendo che il fonte della luce non
solamente gli nostri intelletti, ma ancora gli divini di gran lunga
sopraavanza, è cosa conveniente che non con discorsi e paroli, ma con silenzio
vegna ad esser celebrata. cesarino Non già col silenzio de gli animali bruti et
altri che sono ad imagine e similitudine d’uomini: ma di quelli, il silenzio de
quali è più illustre che tutti gli eridi, rumori e strepiti di costoro che
possano esser uditi. maricondo Ma procediamo oltre a vedere quel che significa
il resto. cesarino Dite se avete prima considerato e visto quel che voglia dir
questo fuoco in forma di core con quattro ali, de le quali due hanno gli occhi,
dove tutto il composto è cinto de luminosi raggi, et hassi in circa scritta la
questione: Nitimur in cassum? maricondo Mi ricordo ben che significa il stato
de la mente, core, spirito et occhi del furioso; ma leggiamo l’articolo: Questa
mente ch’aspira al splendor santo, tant’alti studi disvelar non ponno; il cor,
che recrear que’ pensier vonno, da guai non può ritrarsi più che tanto; il
spirto che devria posarsi alquanto, d’un moment’al piacer non si fa donno; gli
occhi ch’esser derrian chiusi dal sonno tutta la notte son aperti al pianto.
Oimè miei lumi con qual studio et arti tranquillar posso i travagliati sensi?
Spirto mio, in qual tempo et in quai parti mitigarò gli tuoi dolori intensi? E
tu, mio cor, come potrò appagarti di quel ch’al grave tuo suffrir compensi?
Quand’i debiti censi daratti l’alma, o travagliata mente, col cor, col spirto e
con gli occhi dolente? Perché la mente aspira al splendor divino, fugge il
consorzio de la turba, si ritira dalla commune opinione: non solo dico e tanto
s’allontana dalla moltitudine di suggetti, quanto dalla communità de studii,
opinioni e sentenze; atteso che per contraer vizii et ignoranze tanto è maggior
periglio, quanto è maggior il popolo a cui s’aggionge: Nelli publici spettacoli
DICE IL FILOSOFO MORALE, mediante il piacere più facilmente gli vizii
s’ingeriscono. Se aspira al splendor alto, ritiresi quanto può all’unità,
contrahasi quanto è possibile in se stesso, di sorte che non sia simile a
molti, perché son molti; e non sia nemico de molti, perché son dissimili, se
possibil fia serbar l’uno e l’altro bene: altrimenti s’appiglie a quel che gli
par megliore. – Conversa con quelli gli quali o lui possa far megliori, o da
gli quali lui possa essere fatto megliore: per splendor che possa donar a
quelli, o da quelli possa ricever lui. Contentesi più d’uno idoneo che de
l’inetta moltitudine; né stimarà d’aver acquistato poco quando è dovenuto a
tale che sia savio per sé, sovvenendogli quel che dice Democrito: Unus mihi pro
populo est, et populus pro uno; e che disse Epicuro ad un consorte de suoi
studii scrivendo: Haec tibi, non multis; satis enim magnum alter alteri
theatrum sumus. – La mente dumque ch’aspira alto, per la prima lascia la cura
della moltitudine, considerando che quella luce spreggia la fatica, e non si
trova se non dove è l’intelligenza; e non dove è ogni intelligenza: ma quella
che è, tra le poche, principali e prime, la prima, principale et una. cesarino
Come intendi che la mente aspira alto? verbigrazia con guardar alle stelle? al
cielo empireo? sopra il cristallino? maricondo Non certo, ma procedendo al
profondo della mente per cui non fia mistiero massime aprir gli occhi al cielo,
alzar alto le mani, menar i passi al tempio, intonar l’orecchie de simulacri,
onde più si vegna exaudito: ma venir al più intimo di sé, considerando che Dio
è vicino, con sé e dentro di sé, più ch’egli medesimo esser non si possa; come
quello ch’è anima de le anime, vita de le vite, essenza de le essenze: atteso
poi che quello che vedi alto o basso, o in circa (come ti piace dire) de gli
astri, son corpi, son fatture simili a questo globo in cui siamo noi, e nelli
quali non più né meno è la divinità presente che in questo nostro, o in noi
medesimi. Ecco dumque come bisogna fare primeramente de ritrarsi dalla
moltitudine in se stesso. Appresso deve dovenir a tale che non stime ma
spreggie ogni fatica, di sorte che quanto più gli affetti e vizii combattono da
dentro, e gli viziosi nemici contrastano di fuori, tanto più deve respirar e
risorgere, e con uno spirito (se possibil fia) superar questo clivoso monte.
Qua non bisognano altre armi e scudi che la grandezza d’un animo invitto, e
toleranza de spirito che mantiene l’equalità e tenor della vita, che procede
dalla scienza, et è regolato da l’arte di specolar le cose alte e basse, divine
et umane, dove consiste quel sommo bene. Per cui disse un filosofo morale che scrisse
a Lucilio: non bisogna tranar le Scille, le Cariddi, penetrar gli deserti de
Candavia et Apennini, o lasciarsi a dietro le Sirti: perché il camino è tanto
sicuro e giocondo quanto la natura medesima abbia possuto ordinare. Non è dice
egli l’oro et argento che faccia simile a Dio, perché non fa tesori simili; non
gli vestimenti, perché Dio è nudo; non la ostentazione e fama, perché si mostra
a pochissimi, e forse che nessuno lo conosce, e certo molti, e più che molti
hanno mala opinion de lui; non tante e tante altre condizioni de cose che noi
ordinariamente admiriamo: perché non queste cose delle quali si desidera la
copia ne rendeno talmente ricchi, ma il dispreggio di quelle. cesarino Bene: ma
dimmi appresso in qual maniera costui Tranquillarà gli sensi, mitigarà gli
dolori del spirito, appagarà il core e darà gli proprii censi a la mente, di
sorte che con questo suo aspirare e studii non debba dire Nitimur in cassum?
maricondo Talmente trovandosi presente al corpo che con la meglior parte di sé
sia da quello absente, farsi come con indissolubil sacramento congionto et
alligato alle cose divine, di sorte che non senta amor né odio di cose mortali,
considerando d’esser maggiore che esser debba servo e schiavo del suo corpo: al
quale non deve altrimente riguardare che come carcere che tien rinchiusa la sua
libertade, vischio che tiene impaniate le sue penne, catena che tien strette le
sue mani, ceppi che han fissi gli suo piedi, velo che gli tien abbagliata la
vista. Ma con ciò no sia servo, cattivo, invecchiato, incatenato, discioperato,
saldo e cieco: perché il corpo non gli può più tiranneggiare ch’egli medesimo
si lasce; atteso che cossì il spirito proporzionalmente gli è preposto, come il
mondo corporeo e materia è suggetta alla divinitade et a la natura. Cossì
farassi forte contra la fortuna, magnanimo contra l’ingiurie, intrepido contra
la povertà, morbi e persecuzioni. cesarino Bene instituito il furioso eroico.
V. cesarino Appresso veggasi quel che seguita. Ecco la ruota del tempo affissa,
che si muove circa il centro proprio: e vi è il motto: Manens moveor; che
intendete per quella? maricondo Questo vuol dire che si muove in circolo: dove
il moto concorre con la quiete, atteso che nel moto orbiculare sopra il proprio
asse e circa il proprio mezzo si comprende la quiete e fermezza secondo il moto
retto; over quiete del tutto, e moto secondo le parti; e da le parti che si
muoveno in circolo si apprendeno due differenze di Nazione, in quanto che
successivamente altre parti montano alla sommità, altre dalla sommità
descendeno al basso; altre ottegnono le differenze medianti, altre tegnono
l’estremo dell’alto e del fondo. E questo tutto mi par che comodamente viene a
significare quel tanto che s’esplica nel seguente articolo: Quel ch’il mio cor
aperto e ascoso tiene, beltà m’imprime et onestà mi cassa; zelo ritiemmi, altra
cura mi passa per là d’ond’ogni studio a l’alma viene: quando penso suttrarmi
da le pene, speme sustienmi, altrui rigor mi lassa; amor m’inalz’e
riverenz’abbassa allor ch’aspiro a l’alt’e sommo bene. Alto pensier, pia
voglia, studio intenso de l’ingegno, del cor, de le fatiche, a l’ogetto
inmortal, divin, inmenso fate ch’aggionga, m’appiglie e nodriche; né più la
mente, la raggion, il senso in altro attenda, discorra, s’intriche. Onde di me
si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion
si duole. Cossì come il continuo moto d’una parte suppone e mena seco il moto
del tutto, di maniera che dal ributtar le parti anteriori sia conseguente il
tirar de le parti posteriori: cossì il motivo de le parti superiori resulta
necessariamente nell’inferiori, e dal poggiar d’una potenza opposita seguita
l’abbassar de l’altra opposita. Quindi viene il cor (che significa tutti
l’affetti in generale) ad essere ascoso et aperto; ritenuto dal zelo, sollevato
da magnifico pensiero; rinforzato da la speranza, indebolito dal timore. Et in
questo stato e condizione si vederà sempre che trovarassi sotto il fato della
generazione. VI. cesarino Tutto va bene; vengamo a quel che séguita. Veggio una
nave inchinata su il onde; et ha le sarte attaccate a lido et ha il motto:
Fluctuat in portu. Argumentate quel che può significare: e se ne siete
risoluto, esplicate. maricondo E la figura et il motto ha certa parentela col
precedente motto e figura, come si può facilmente comprendere se alquanto si
considera. Ma leggiamo l’articolo: Se da gli eroi, da gli dèi, da le genti
assicurato son che non desperi; né téma, né dolor, né impedimenti de la morte,
del corpo, de piaceri fia ch’oltre apprendi, che soffrisca e senti; e perché
chiari vegga i miei sentieri, faccian dubio, dolor, tristezza spenti speranza,
gioia e gli diletti intieri. Ma se mirasse, facesse, ascoltasse miei pensier,
miei desii e mie raggioni, chi le rende sì ’ncerti, ardenti e casse, sì graditi
concetti, atti, sermoni, non sa, non fa, non ha qualumque stassi de l’orto,
vita e morte a le maggioni. Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’, e
accend’, et emmi a lato, farammi illustre, potente e beato. Da quel che ne gli
precedenti discorsi abbiamo considerato e detto si può comprendere il
sentimento di ciò, massime dove si è dimostrato che il senso di cose basse è
attenuato et annullato dove le potenze superiori sono gagliardamente intente ad
oggetto più magnifico et eroico. E tanta la virtù della contemplazione (come
nota lamblice) che accade tal volta non solo che l’anima ripose da gli atti
inferiori, ma et oltre lascie il corpo a fatto. Il che non voglio intendere
altrimenti che in tante maniere quali sono esplicate nel libro De’ trenta
sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazzione. De quali alcune
vituperosa, altre eroicamente fanno che non s’apprenda téma di morte, non si
soffrisca dolor di corpo, non si sentano impedimenti di piaceri: onde la
speranza, la gioia, e gli diletti del spirto superiore siano di tal sorte
intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano aver origine da
dubbio, dolore e tristezza alcuna. cesarino Ma che cosa è quella da cui
richiede che mire a que’ pensieri ch’ha resi cossì incerti, compisca gli suoi
desii che fa sì ardenti, et ascolte le sue raggioni che rende sì casse?
maricondo Intende l’oggetto il quale allora il mira, quando esso se gli fa
presente; atteso che veder la divinità è l’esser visto da quella, come vedere
il sole concorre con l’esser visto dal sole; parimente essere ascoltato dalla
divinità è a punto ascoltar quella, et esser favorito da quella è il medesimo
esporsegli; dalla quale una medesima et immobile procedono pensieri incerti e
certi, desii ardenti et appagati, e raggioni exaudite e casse: secondo che
degna, o indegnamente l’uomo se gli presenta con l’intelletto, affetto et
azzioni. Come il medesimo nocchiero vien detto caggione della summersione o
salute della nave, per quanto che o è a quella presente, overo da quella
trovasi absente; eccetto che il nocchiero per suo diffetto o compimento ruina e
salva la nave: ma la divina potenza che è tutta in tutto, non si porge o
suttrae se non per altrui conversione o aversione. VII. maricondo Con questa
dumque mi par ch’abbia gran concatenazione e conseguenza la figura seguente,
dove son due stelle in forma de doi occhi radianti con il suo motto che dice:
Mors et vita. cesarino Leggete dumque l’articolo. maricondo Cossì farò: Per man
d’amor scritto veder potreste nel volto mio l’istoria de mie pene; ma tu perché
il tuo orgoglio non si affrene et io infelice eternamente reste, a le palpebre
belle a me moleste asconder fai le luci tant’amene, ond’il turbato ciel non
s’asserene, né caggian le nemiche ombre funeste. Per la bellezza tua, per
l’amor mio, ch’a quella (benché tanta) è forse uguale, rèndite a la pietà diva
per dio. Non prolongar il troppo intenso male, ch’è del mio tanto amar indegno
fio: non sia tanto rigor con splender tale. Se ch’io viva ti cale, del grazioso
sguardo apri le porte: mirami, o bella, se vuoi darmi morte. Qua il volto in
cui riluce l’istoria de sue pene, è l’anima, in quanto che è esposta alla
recepzion de doni superiori, al riguardo de quali è in potenza et attitudine,
senza compimento di perfezzione et atto: il qual aspetta la ruggiada divina.
Onde ben fu detto: Anima mea sicut terra sine aqua tibi. Et altrove: Os meum
aperui et attraxi spiritum, quia mandata tua desiderabam. Appresso, l’orgoglio
che non s’affrena è detto per metafora e similitudine (come de Dio tal volta si
dice gelosia, ira, sonno): e quello significa la difficultà con la quale egli
fa copia di far veder al meno le sue spalli, che è il farsi conoscere mediante
le cose posteriori, et effetti. Cossì copre le luci con le palpebre, non asserena
il turbato cielo de la mente umana, per toglier via l’ombra de gli enigmi e
similitudini. – Oltre (perché non crede che tutto quel che non è non possa
essere) priega la divina luce che per la sua bellezza la quale non deve essere
a tutti occolta, almeno secondo la capacità de chi la mira, e per il suo amore
che forse a tanta bellezza è uguale (uguale intende de la beltade in quanto che
la se gli può far comprensibile), che si renda alla pietà, cioè che faccia come
quelli che son piatosi, quali da ritrosi e schivi si fanno graziosi et
affabili: e che non prolonghe il male che avviene da quella privazione; e non
permetta che il suo splendor per cui è desiderata, appaia maggiore che il suo
amore con cui si communiche: stante che tutte le perfezzioni in lei non
solamente sono uguali, ma ancor medesime. – Al fine la ripriega che non oltre
l’attriste con la privazione; perché potrà ucciderlo con la luce de suoi
sguardi, e con que’medesimi donargli vita: e però non lo lasce a la morte con
ciò che le amene luci siano ascose da le palpebre. cesarino Vuol dire quella
morte de amanti che procede da somma gioia, chiamata da Cabalisti mors oscuri?
la qual medesima è vita eterna, che l’uomo può aver in disposizione in questo
tempo, et in effetto nell’eternità? maricondo Cossì è. VIII. cesarino Ma è
tempo di procedere a considerar il seguente dissegno simile a questi prossimi
avanti rapportati, con li quali ha certa conseguenza. Vi è un’aquila che con
due ali s’appiglia al cielo; ma non so come e quanto vien ritardata dal pondo
d’una pietra che tien legata a un piede. Et èvvi il motto: Scinditur incertum.
E certo significa la moltitudine, numero e volgo delle potenze de l’anima; alla
significazion della quale è preso quel verso: Scinditur incertum studia in
contraria vulgus. Il qual volgo tutto generalmente è diviso in due fazzioni
(quantumque subordinate a queste non mancano de l’altre), de le quali altre
invitano a l’alto dell’intelligenza e splendore di giustizia; altre allettano,
incitano e forzano in certa maniera al basso, alle sporcizie delle voluttadi, e
compiacimenti de voglie naturali. Onde dice l’articolo: Bene far voglio, e non
mi vien permesso; meco il mio sol non è, bench’io sia seco, che per esser con
lui, non son più meco, ma da me lungi, quanto a lui più presso. Per goder una
volta, piango spesso; cercando gioia, afflizzion mi reco; perché veggio
tropp’alto, son sì cieco; per acquistar mio ben, perdo me stesso. Per amaro
diletto, e dolce pena, impiombo al centro, e vers’il ciel m’appiglio; necessità
mi tien, bontà mi mena; sorte m’affonda, m’inalza il consiglio; desio mi
sprona, et il timor m’affrena; cura m’accende, e fa tard’il periglio. Qual
dritto o divertiglio mi darà pace, e mi terrà de lite, s’avvien ch’un sì mi
scacce, e l’altro invite? L’ascenso procede nell’anima dalla facultà et appulso
ch’è nell’ali, che son l’intelletto et intellettiva volontade, per le quali
essa naturalmente si riferisce et ha la sua mira a Dio come a sommo bene e
primo vero, come all’absoluta bontà e bellezza. Cossì come ogni cosa
naturalmente ha impeto verso il suo principio regressivamente, e
progressivamente verso il suo fine e perfezzione, come ben disse Empedocle; da
la cui sentenza mi par che si possa inferire quel che disse il Nolano in questa
ottava: Convien ch’il sol d’onde parte raggiri, e al suo principio i
discorrenti lumi; e ’l ch’è di terra, a terra si retiri, e al mar corran dal
mar partiti fiumi, et ond’han spirto e nascon i desiri aspiren come a venerandi
numi: cossì dalla mia diva ogni pensiero nato, che torne a mia diva è mistiero.
La potenza intellettiva mai si quieta, mai s’appaga in verità compresa, se non
sempre oltre et oltre procede alla verità incomprensibile: cossì la volontà che
séguita l’apprensione, veggiamo che mai s’appaga per cosa finita. Onde per
conseguenza non si riferisce l’essenza de l’anima ad altro termine che al fonte
della sua sustanza et entità. Per le potenze poi naturali, per le quali è
convertita al favore e governo della materia, viene a referirse et aver
appulso, a giovare et a comunicar de la sua perfezzione a cose inferiori, per
la similitudine che ha con la divinità, che per la sua bontade si comunica o
infinitamente producendo, idest communicando l’essere a l’universo infinito, e
mondi innumerabili in quello; o finitamente, producendo solo questo universo
suggetto alli nostri occhi e comun raggione. Essendo dumque che nella essenza
unica de l’anima se ritrovano questi doi geni de potenze, secondo che è
ordinata et al proprio e l’altrui bene, accade che si depinga con un paio d’ali,
mediante le quali è potente verso l’oggetto delle prime et immateriali potenze;
e con un greve sasso, per cui è atta et efficace verso gli oggetti delle
seconde e materiali potenze. Là onde procede che l’affetto intiero del furioso
sia ancipite, diviso, travaglioso, e messo in facilità de inchinare più al
basso, che di forzarsi ad alto: atteso che l’anima si trova nel paese basso e
nemico, et ottiene la regione lontana dal suo albergo più naturale, dove le sue
forze son più sceme. cesarino Credi che a questa difficultà si possa
riparare? maricondo Molto bene; ma il
principio è durissimo, e secondo che si fa più e più fruttifero progresso di
contemplazione, si doviene a maggiore e maggior facilità. Come avviene a chi vola
in alto, che quanto più s’estoglie da la terra, vien ad aver più aria sotto che
lo sustenta, e conseguentemente meno vien fastidito dalla gravità; anzi tanto
può volar alto, che senza fatica de divider l’aria non può tornar al basso,
quantunque giudicasi che più facil sia divider l’aria profondo verso la terra,
che alto verso l’altre stelle. cesarino Tanto che col progresso in questo geno,
s’acquista sempre maggiore e maggiore facilità di montare in alto? maricondo
Cossì è; onde ben disse il Tansillo: Quanto più sott’il pie l’aria mi scorgo,
più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e verso il ciel
m’invio. Come ogni parte de corpi e detti elementi quanto più s’avvicina al suo
luogo naturale, tanto con maggior impeto e forza va, sin tanto che al fine o
voglia o non bisogna che vi pervegna. Qualmente dumque veggiam nelle parti de
corpi a gli proprii corpi, cossì doviam giudicare de le cose intellettive verso
gli proprii oggetti, come proprii luoghi, patrie e fini. Da qua facilmente
possete comprendere il senso intiero significato per la figura, per il motto e
per gli carmi. cesarino Di sorte che quanto vi s’aggiongesse, tanto mi parrebe
soverchio. IX. cesarino Vedasi ora quel che vien presentato per quelle due
saette radianti sopra una targa, circa la quale è scritto Vicit instans.
maricondo La guerra continua tra l’anima del furioso la qual gran tempo per la
maggior familiarità che ha con la materia, era più dura et inetta ad esser
penetrata da gli raggi del splendor della divina intelligenza e spezie della
divina bontade; per il qual spacio dice ch’il cor smaltato de diamante, cioè
l’affetto duro et inetto ad esser riscaldato e penetrato, ha fatto riparo a gli
colpi d’amore che aportavano gli assalti da parti innumerabili. Vuol dire non
ha sentito impiagarsi da quelle piaghe de vita eterna de le quali parla la
Cantica quando dice: Vulnerasti cor meum, o dilecta, vulnerasti cor meum. Le
quali piaghe non son di ferro, o d’altra materia, per vigor e forza de nervi;
ma son freccie de Diana o di Febo: cioè o della dea de gli deserti della
contemplazione de la Veritade, cioè della Diana che è l’ordine di seconde
intelligenze che riportano il splender ricevuto dalla prima, per comunicarlo a
gli altri che son privi de più aperta visione; o pur del nume più principale
Apollo, che con il proprio e non improntato splendore manda le sue saette, cioè
gli suoi raggi, da parti innumerabili tali e tante che son tutte le specie
delle cose, le quali son indicatrici della divina bontà, intelligenza, beltade
e sapienza, secondo diversi ordini dall’apprension dovenir furiosi amanti,
percioché l’adamantino suggetto non ripercuota dalla sua superficie il lume
impresso: ma rammollato e domato dal calore e lume, vegna a farsi tutto in
sustanza luminoso, tutto luce, con ciò che vegna penetrato entro l’affetto e
concetto. Questo non è subito nel principio della generazione quando l’anima di
fresco esce ad esser inebriata di Lete et imbibita de l’onde de l’oblio e
confusione: onde il spirito vien più cattivato al corpo e messo in essercizio
della vegetazione, et a poco a poco si va digerendo per esser atto a gli atti
della sensitiva facultade, sin tanto che per la razionale e discorsiva vegna a
più pura intellettiva, onde può introdursi a la mente e non più sentirsi
annubilata per le fumositadi di quell’umore che per l’exercizio di
contemplazione non s’è putrefatto nel stomaco, ma è maturamente digesto. –
Nella qual disposizione il presente furioso mostra aver durato sei lustri, nel
discorso de quali non era venuto a quella purità di concetto che potesse farsi
capace abitazione delle specie peregrine, che offrendosi a tutte ugualmente
batteno sempre alla porta de l’intelligenza. Al fine l’amore che da diverse
parti et in diverse volte l’avea assaltato come in vano (qualmente il sole in
vano se dice lucere e scaldare a quelli che son nelle viscere de la terra et
opaco profondo), per essersi accampato in quelle luci sante, cioè per aver
mostrato per due specie intelligibili la divina bellezza, la quale con la
raggione di verità gli legò l’intelletto e con la raggione di bontà scaldògli
l’affetto, vennero superari gli studi materiali e sensitivi che altre volte
soleano come trionfare, rimanendo (a mal grado de l’eccellenza de l’anima)
intatti; perché quelle luci che facea presente l’intelletto agente illuminatore
e sole d’intelligenza, ebbero facile entrata per le sue luci (quella della
verità per la porta de la potenza intellettiva, quella della bontà per la porta
della potenza appetitiva) al core, cioè alla sustanza del generale affetto.
Questo fu quel doppio strale che venne come da man de guerriero irato, cioè più
pronto, più efficace, più ardito, che per tanto tempo innanzi s’era dimostrato
come più debole o negligente. Allora quando primieramente fu sì scaldato et
illuminato nel concetto, fu quello vittorioso punto e momento, per cui è detto:
Vicit instans. Indi possete intendere il senso della proposta figura, motto, et
articolo che dice: Forte a i colpi d’amor feci riparo quand’assalti da parti
varie e tante soffers’il cor smaltato di diamante; ond’i miei studi de suoi
trionfare. Al fin (come gli cieli destinaro) un dì accampossi in quelle luci
sante, che per le mie sole tra tutte quante facil entrata al cor mio ritrovare.
Indi mi s’avventò quel doppio strale, che da man di guerrier irato venne, qual
sei lustri assalir mi seppe male: notò quel luogo, e forte vi si tenne, piantò
’l trofeo di me là d’onde vale tener ristrette mie fugaci penne. Indi con più
sollenne apparecchio, mai cessano ferire mio cor, del mio dolce nemico l’ire.
Singular instante fu il termine del cominciamento e perfezzione della vittoria.
Singulari gemine specie furon quelle, che sole tra tutte quante trovaro facile
entrata; atteso che quelle contegnono in sé l’efficacia e virtù de tutte
l’altre: atteso che qual forma megliore e più eccellente può presentarsi che di
quella bellezza, bontà e verità, la quale è il fonte d’ogn’altra verità, bontà,
beltade? Notò quel luogo, prese possessione de l’affetto, rimarcollo,
impressevi il carattere di sé; e forte vi si tenne, e se l’ha confirmato,
stabilito, sancito di sorte che non possa più perderlo: percioché è impossibile
che uno possa voltarsi ad amar altra cosa quando una volta ha compreso nel
concetto la bellezza divina. Et è impossibile che possa far di non amarla, come
è impossibile che nell’appetito cada altro che bene o specie di bene. E però
massimamente deve convenire l’appetenzia del sommo bene. Cossì ristrette son le
penne che soleano esser fugaci concorrendo giù col pondo della materia. Cossì
da là mai cessano ferire, sollecitando l’affetto e risvegliando il pensiero, le
dolci ire, che son gli efficaci assalti del grazioso nemico, già tanto tempo
ritenuto escluso, straniero e peregrino. È ora unico et intiero possessore e
disponitor de l’anima; perché ella non vuole, né vuol volere altro; né gli piace,
né vuol che gli piaccia altro, onde sovente dica: Dolci ire, guerra dolce,
dolci dardi, dolci mie piaghe, miei dolci dolori. cesarino Non mi par che
rimagna cosa da considerar oltre in proposito di questo. Veggiamo ora questa
faretra et arco d’amore, come mostrano le faville che sono in circa, et il nodo
del laccio che pende: con il motto che è, Subito, clam. Giordano Bruno De
gl’eroici furori maricondo Assai mi ricordo d’averlo veduto espresso ne
l’articolo; però leggiamolo prima: Avida di trovar bramato pasto, l’aquila
vers’il ciel ispiega l’ali, facend’accorti tutti gli animali, ch’al terzo volo
s’apparecchia al guasto. E del fiero leon ruggito vasto fa da l’alta spelunca
orror mortali, onde le belve presentando i mali fuggon a gli antri il famelico
impasto. E ’l ceto quando assalir vuol l’armento muto di Proteo da gli antri di
Teti, pria fa sentir quel spruzzo violento. Aquile ’n ciel, leoni in terr’e i
ceti signor’ in mar, non vanno a tradimento: ma gli assalti d’amor vegnon
secreti. Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che
femmi a lungo infortunato amante. Tre sono le regioni de gli animanti composti
de più elementi: la terra, l’acqua, l’aria. Tre son gli geni de quelli: fiere,
pesci et ucelli. In tre specie sono gli prìncipi conceduti e definiti dalla
natura: ne l’aria l’aquila, ne la terra il leone, ne l’acqua il ceto: de quali
ciascuno come dimostra più forza et imperio che gli altri, viene anco a far
aperto atto di magnanimità, o simile alla magnanimità. Percioché è osservato
che il leone, prima che esca a la caccia, manda un ruggito forte che fa
rintonar tutta la selva, come de l’erinnico cacciatore nota il poetico detto:
At saeva e speculis tempus dea nacta nocendi, ardua testa petit, stabuli et de
culmine summo pastorale canit signum, cornuque recurvo tartaream intendit
vocem, qua protinus omne contremuit nemus, et silvae intonuere profundae. De
l’aquila ancora si sa che volendo procedere alla sua venazione, prima s’alza
per dritto dal nido per linea perpendicolare in alto, e quasi per l’ordinario
la terza volta si balza da alto con maggior impeto e prestezza che se volasse
per linea piana; onde dal tempo in cui cerca il vantaggio della velocità del
volo, prende anco comodità di specular da lungi la preda, della quale o despera
o si risolve dopo fatte tre remirate. cesarino Potremmo conietturare per qual
caggione, se alla prima si presentasse a gli occhi la preda, non viene subito a
lanciarsegli sopra? maricondo Non certo. Ma forse che ella sin tanto distingue
se si gli possa presentar megliore o più comoda preda. Oltre non credo che ciò
sia sempre, ma per il più ordinario. Or venemo a noi. Del ceto o balena è cosa
aperta che per essere un machinoso animale non può divider l’acqui se non con
far che la sua presenza sia presentita dal ributto de l’onde: senza questo, che
si trovano assai specie di questo pesce che con il moto e respirar che fanno,
egurgitano una ventosa tempesta di spruzzo acquoso. Da tutte dumque le tre
specie de principi animali hanno facultà di prender tempo di scampo gli animali
inferiori: di sorte che non procedono come subdoli e traditori. Ma l’Amor che è
più forte e più grande, e che ha domìno supremo in cielo, in terra et in mare,
e che per similitudine di questi forse derrebe mostrar tanto più eccellente
magnanimità quanto ha più forza, niente di manco assalta e fere a l’improvisto
e subito. Labitur totas furor in medullas, igne furtivo populante venas, nec
habet latam data plaga frontem; sed vorat tectas penitus medullas, virginum
ignoto ferit igne pectus. Come vedete, questo tragico poeta lo chiama furtivo
fuoco, ignote fiamme; Salomone lo chiama acqui furtive, Samuele lo nomò sibilo
d’aura sottile. Li quali tre significano con qual dolcezza, lenità et astuzia,
in mare, in terra, in cielo, viene costui a (come) tiranneggiar l’universo.
cesarino Non è più grande imperio, non è tirannide peggiore, non è meglior
domino, non è potestà più necessaria, non è cosa più dolce e suave, non si
trova cibo che sia più austero et amaro, non si vede nume più violento, non è
dio più piacevole, non agente più traditore e finto, non autor più regale e
fidele, e (per finirla) mi par che l’amor sia tutto, e faccia tutto; e de lui
si possa dir tutto, e tutto possa attribuirsi a lui. maricondo Voi dite molto
bene. L’amor dumque (come quello che opra massime per la vista, la quale è
spiritualissimo de tutti gli sensi, per che subito monta sin alli appresi
margini del mondo, e senza dilazion di tempo si porge a tutto l’orizonte della
visibilità) viene ad esser presto, furtivo, improvisto e subito. Oltre è da
considerare quel che dicono gli antichi, che l’amor precede tutti gli altri
dèi; però non fia mestiero de fingere che Saturno gli mostre il camino, se non
con seguitarlo. Appresso, che bisogna cercar se l’amore appaia e facciasi
prevedere di fuori, se il suo alloggiamento è l’anima medesima, il suo letto è
l’istesso core, e consiste nella medesima composizione de nostra sustanza, nel
medesimo appulso de nostre potenze? Finalmente ogni cosa naturalmente appete il
bello e buono, e però non vi bisogna argumentare e discorrere perché l’affetto
si informe e conferme; ma subito et in uno instante l’appetito s’aggionge a
l’appetibile, come la vista al visibile. XI. cesarino Veggiamo appresso che
voglia dir quella ardente saetta circa la quale è avolto il motto: Cui nova
plaga loco?. Dechiarate che luogo cerca questa per ferire. maricondo Non
bisogna far altro che leggere l’articolo, che dice cossì: Che la bogliente
Puglia o Libia mieta tante spiche, et areste tante a i venti commetta, e mande
tanti rai lucenti da sua circonferenza il gran pianeta, quanti a gravi doler
quest’alma lieta (che sì triste si gode in dolci stenti) accoglie da due stelle
strali ardenti, ogni senso e raggion creder mi vieta. Che tenti più, dolce
nemico, Amore? qual studio a me ferir oltre ti muove, or ch’una piaga è fatto
tutto il core? Poiché né tu, né altro ha un punto, dove per stampar cosa nuova,
o punga, o fóre, volta volta sicur or l’arco altrove. Non perder qua tue prove,
per che, o bel dio, se non in vano, a torto oltre tenti amazzar colui ch’è
morto. Tutto questo senso è metaforico come gli altri, e può esser inteso per
il sentimento di quelli. Qua la moltitudine de strali che hanno ferito e
feriscono il core significa gl’innumerabili individui e specie de cose, nelle
quali riluce il splendor della divina beltade, secondo gli gradi di quelle, et
onde ne scalda l’affetto del proposto et appreso bene. De quali l’un e l’altro
per le raggioni de potenzia et atto, de possibilità et effetto, e cruciano e
consolano, e donano senso di dolce e fanno sentir l’amaro. Ma dove l’affetto
intiero è tutto convertito a Dio, cioè all’idea de le idee, dal lume de cose
intelligibili la mente viene exaltata alla unità super essenziale, è tutta
amore, tutta una, non viene ad sentirsi sollecitata da diversi oggetti che la
distrahano: ma è una sola piaga, nella quale concorre tutto l’affetto, e che
viene ad essere la sua medesima affezzione. Allora non è amore o appetito di
cosa particolare che possa sollecitare, né almeno farsi innanzi a la voluntade,
perché non è cosa più retta ch’il dritto, non è cosa più bella che la bellezza,
non è più buono che la bontà, non si trova più grande che la grandezza, né cosa
più lucida che quella luce, la quale con la sua presenza oscura e cassa gli
lumi tutti. cesarino Al perfetto, se è perfetto, non è cosa che si possa
aggiongere: però la volontà non è capace d’altro appetito, quando fiagli
presente quello ch’è del perfetto, sommo, e massimo. Intendere dumque posso la
conclusione, dove dice a l’amore: Non perder qua tue prove; perché, se non in
vano, a torto (si dice per certa similitudine e metafora) tenti ammazzar colui
ch’è morto. Cioè quello che non ha più vita né senso circa altri oggetti, onde
da quelli possa esser punto o forato; a che oltre viene ad essere esposto ad
altre specie? e questo lamento accade a colui che, avendo gusto de l’optima
unità, vorrebe essere al tutto exempto et abstratto dalla moltitudine.
maricondo Intendete molto bene. cesarino Or ecco appresso un fanciullo dentro
un battello che sta ad ora ad ora per essere assorbito, da l’onde tempestose,
che languido e lasso ha abandonati gli remi. Et èvvi circa lo motto Fronti
nulla fides. Non è dubio che questo significhe che lui dal sereno aspetto de
l’acqui fu invitato a solcar il mare infido; il quale a l’improviso avendo
inturbidato il volto, per estremo e mortal spavento, e per impotenza di romper
l’impeto, gli ha fatto dismetter il capo, braccia, e la speranza. Ma veggiamo
il resto: Gentil garzon che dal lido scioglieste la pargoletta barca, e al remo
frale, vago del mar l’indotta man porgeste, or sei repente accorto del tuo
male. Vedi del traditor l’onde funeste la prora tua, ch’o troppo scend’o sale;
né l’alma vinta da cure moleste, contra gli obliqui e gonfii flutti vale. Cedi
gli remi al tuo fero nemico, e con minor pensier la morte aspetti, che per non
la veder gli occhi ti chiudi. Se non è presto alcun soccorso amico, sentirai
certo or or gli ultimi effetti de tuoi si rozzi e curiosi studi. Son gli miei
fati crudi simili a’ tuoi, perché vago d’Amore sento il rigor del più gran
traditore. In qual maniera e perché l’amore sia traditore e frodulento
l’abbiamo poco avanti veduto: ma perché veggio il seguente senza imagine e
motto, credo che abbia conseguenza con il presente; però continuano leggendolo:
Lasciato il porto per prova e per poco, feriando da studi più maturi, ero messo
a mirar quasi per gioco: quando viddi repente i fati duri. Quei sì m’han fatto
violento il foco, ch’in van ritento a i lidi più sicuri, in van per scampo man
piatosa invoco, perché al nemico mio ratto mi furi. Impotent’a suttrarmi, roco
e lasso io cedo al mio destino, e non più tento di far vani ripari a la mia
morte: facciami pur d’ogni altra vita casso, e non più tarde l’ultimo tormento,
che m’ha prescritto la mia fera sorte. Tipo di mio mal forte è quel che si
commese per trastullo al sen nemico, improvido fanciullo. Qua non mi confido de
intendere o determinar tutto quel che significa il furioso: pure è molto
espressa una strana condizione d’un animo dismesso dall’apprension della
difficultà de l’opra, grandezza della fatica, vastità del lavoro da un canto; e
da un altro, l’ignoranza, privazion de l’arte, debolezza de nervi, e periglio
di morte. Non ha consiglio atto al negocio; non si sa d’onde e dove debba
voltarsi, non si mostra luogo di fuga o di rifugio; essendo che da ogni parte
minacciano l’onde de l’impeto spaventoso e mortale. Ignoranti portum, nullus
suus ventus est. Vede colui che molto e pur troppo s’è commesso a cose
fortuite, s’aver edificato la perturbazione, il carcere, la ruina, la
summersione. Vede come la fortuna si gioca di noi; la qual ciò che ne mette con
gentilezza in mano, o lo fa rompere facendolo versar da le mani istesse, o fa
che da l’altrui violenza ne sia tolto, o fa che ne suffoche et avvelene, o ne
sollecita con la suspizione, timore e gelosia, a gran danno e ruina del
possessore. Fortunae an ulla putatis dona carere dolis? Or, perché la fortezza
che non può far esperienza di sé, è cassa; la magnanimità che non può prevalere,
è nulla, et è vano il studio senza frutto; vede gli effetti del timore del
male, il quale è peggio ch’il male istesso: Peior est morte timor ipse mortis.
Già col timore patisce tutto quel che teme de patire, orror ne le membra,
imbecillità ne gli nervi, tremor del corpo, anxia del spirito; e si fa presente
quel che non gli è sopragionto ancora, et è certo peggiore che sopragiongere
gli possa: che cosa più stolta che dolere per cosa futura, absente, e la qual
presente non si sente? Queste son considerazioni su la superficie e l’istoriale
de la figura. Ma il proposito del furioso eroico penso che verse circa
l’imbecillità de l’ingegno umano il quale attento a la divina impresa in un
subito talvolta si trova ingolfato nell’abisso della eccellenza incomprensibile,
onde il senso et imaginazione vien confusa et assorbita, che non sapendo passar
avanti, né tornar a dietro, né dove voltarsi, svanisce e perde l’esser suo non
altrimenti che una stilla d’acqua che svanisce nel mare, o un picciol spirito
che s’attenua perdendo la propria sustanza nell’aere spacioso et inmenso.
maricondo Bene: ma andiamone discorrendo verso la stanza, perché è notte. fine
del primo dialogo mariconda Qua vedete un giogo fiammeggiante et avolto de
lacci, circa il quale è scritto Levius aura; che vuol significar come l’amor
divino non aggreva, non trasporta il suo servo, cattivo e schiavo al basso, al
fondo: ma l’inalza, lo sulleva, il magnifica sopra qualsivoglia libertade.
cesarino Priegovi leggiamo presto l’articolo, perché con più ordine, proprietà
e brevità possiamo considerar il senso, se pur in quello non si trova altro.
mariconda Dice cossì: Chi femmi ad alt’amor la mente desta, chi fammi ogn’altra
diva e vile e vana, in cui beltad’ e la bontà sovrana unicamente più si
manifesta; quell’è ch’io viddi uscir da la foresta, cacciatrice di me la mia
Diana, tra belle ninfe su l’aura Campana, per cui dissi ad Amor: Mi rendo a
questa; et egli a me: O fortunato amante, o dal tuo fato gradito consorte: che
colei sola che tra tante e tante, quai ha nel grembo la vit’e la morte, più
adorna il mondo con le grazie sante, ottenesti per studio e per sorte, ne
l’amorosa corte sì altamente felice cattivo, che non invidii a sciolt’
altr’uomo o divo. Vedi quanto sia contento sotto tal giogo, tal coniugio, tal
soma che l’ha cattivato a quella che vedde uscir da la foresta, dal deserto, da
la selva; cioè da parti rimosse dalla moltitudine, dalla conversazione, dal
volgo, le quali son lustrate da pochi. Diana splendor di specie intelligibili,
è cacciatrice di sé, perché con la sua bellezza e grazia l’ha ferito prima, e
se l’ha legato poi; e tienio sotto il suo imperio più contento che mai
altrimenti avesse potuto essere. Questa dice tra belle nimfe, cioè tra la
moltitudine d’altre specie, forme et idee; e su l’aura Campana, cioè quello
ingegno e spirito che si mostrò a Nola, che giace al piano del orizonte
campano. A quella si rese, quella più ch’altra gli venne lodata da l’amore, che
per lei vuol che si tegna tanto fortunato, come quella che, tra tutte quante si
fanno presenti et absenti da gli occhi de mortali, più altamente adorna il
mondo, fa l’uomo glorioso e bello. Quindi dice aver sì desta la mente ad
eccellente amore, che apprende ogni altra diva, cioè cura et osservanza d’ogni
altra specie, vile e vana. – Or in questo che dice aver desta la mente ad amor
alto, ne porge essempio de magnificar tanto alto il core per gli pensieri,
studii et opre, quanto più possibil fia, e non intrattenerci a cose basse e
messe sotto la nostra facultade: come accade a coloro che o per avarizia, o per
negligenza, o pur altra dapocagine rimagnono in questo breve spacio de vita
attaccati a cose indegne. cesarino Bisogna che siano arteggiani, meccanici,
agricoltori, servitori, pedoni, ignobili, vili, poveri, pedanti et altri
simili: perché altrimenti non potrebono essere filosofi, contemplativi, coltori
degli animi, padroni, capitani, nobili, illustri, ricchi, sapienti, et altri
che siano eroici simili a gli dèi. Però a che doviamo forzarci di corrompere il
stato della natura il quale ha distinto l’universo in cose maggiori e minori,
superiori et inferiori, illustri et oscure, degne et indegne, non solo fuor di
noi, ma et ancora dentro di noi, nella nostra sustanza medesima, sin a quella
parte di sustanza che s’afferma inmateriale? Come delle intelligenze altre son
suggette, altre preminenti, altre serveno ed ubediscono, altre comandano e
governano. Però io crederei che questo non deve esser messo per essempio a fin
che li sudditi volendo essere superiori, e gl’ignobili uguali a gli nobili, non
vegna a pervertirsi e confondersi l’ordine delle cose, che al fine succeda
certa neutralità e bestiale equalità, quale si ritrova in certe deserte et
inculte republiche. Non vedete oltre in quanta iattura siano venute le scienze
per questa caggione che gli pedanti hanno voluto essere filosofi, trattar cose
naturali, intromettersi a determinar di cose divine? Chi non vede quanto male è
accaduto et accade per averno simili fatte ad alti amori le menti deste? Chi ha
buon senso, e non vede del profitto che fe’ Aristotele, che era maestro de
lettere umane ad Alessandro, quando applicò alto il suo spirito a contrastare e
muover guerra a la dottrina pitagorica e quella de filosofi naturali, volendo
con il suo raciocinio logicale ponere diffinizioni, nozioni, certe quinte
entitadi et altri parti et aborsi de fantastica cogitazione per principio e
sustanza di cose, studioso più della fede del volgo e sciocca moltitudine, che
viene più incaminata e guidata con sofismi et apparenze che si trovano nella superficie
delle cose, che della verità che è occolta nella sustanza di quelle, et è la
sustanza medesima loro? Fece egli la mente desta non a farsi contemplatore, ma
giudice e sentenziatore di cose che non avea studiate mai, né bene intese.
Cossì a’ tempi nostri quel tanto di buono ch’egli apporta e singolare di
raggione inventiva, iudicativa e di metafisica, per ministerio d’altri pedanti
che lavorano col medesimo sursum corda, vegnono instituite nove dialettiche e
modi di formar la raggione: tanto più vili di quello d’Aristotele quanto forse
la filosofia d’Aristotele è incomparabilmente più vile di quella de gli
antichi. Il che è pure avvenuto da quel che certi grammatisti dopo che sono
invecchiati nelle culine de fanciulli e notomie de frasi e de vocaboli, ban
voluto destar la mente a far nuove logiche e metafisiche, giudicando e
sentenziando quelle che mai studiorno et ora non intendono: là onde cossì
questi col favore della ignorante moltitudine (al cui ingegno son più
conformi), potranno cossì bene donar il crollo alle umanitadi e raziocinio
d’Aristotele, come questo fu carnefice delle altrui divine filosofie. Vedi
dumque a che suol promovere questo consiglio, se tutti aspireno al splendor
santo, et abbiano altre imprese vili e vane. mariconda Ride si sapis, o puella,
ride, pelignus (puto) dixerat poeta; sed non dixerat omnibus puellis: et si
dixerit omnibus puellis, non dixit tibi. Tu puella non es. Cossì il sursum
corda non è intonato a tutti, ma a quelli ch’hanno l’ali. Veggiamo bene che mai
la pedantaria è stata più in esaltazione per governare il mondo, che a’ tempi
nostri; la quale fa tanti camini de vere specie intelligibili et oggetti de
l’unica veritade infallibile, quanti possano essere individui pedanti. Però a
questo tempo massime denno esser isvegliati gli ben nati spiriti armati dalla
verità et illustrati dalla divina intelligenza, di prender l’armi contra la
fosca ignoranza, montando su l’alta rocca et eminente torre della
contemplazione. A costoro conviene d’aver ogni altra impresa per vile e vana.
Questi non denno in cose leggieri e vane spendere il tempo, la cui velocità è
infinita: essendo che sì mirabilmente precipitoso scorra il presente, e con la
medesima prestezza s’accoste il futuro. Quel che abbiamo vissuto è nulla, quel
che viviamo è un punto, quel ch’abbiamo a vivere non è ancora un punto, ma può
essere un punto, il quale insieme sarà e sarà stato. E tra tanto questo
s’intesse la memoria di genealogie, quello attende a desciferar scritture,
quell’altro sta occupato a moltiplicar sofismi da fanciulli. Vedrai verbigrazia
un volume pieno di: Cor est fons vite, nix est alba: ergo cornix est fons vitae
alba. Quell’altro garrisce se il nome fu prima o il verbo, l’altro se il mare o
gli fonti, l’altro vuol rinovare gli vocaboli absoleti che per esserno venuti
una volta in uso e proposito d’un scrittore antico, ora de nuovo le vuol far
montar a gli astri; l’altro sta su la falsa e vera ortografia, altri et altri
sono sopra altre et altre simili frascarie, le quali molto più degnamente son
spreggiate che intese. Qua diggiunano, qua ismagriscono, qua intisichiscono,
qua arrugano la pelle, qua allungano la barba, qua marciscono, qua poneno
l’àncora del sommo bene. Con questo spreggiano la fortuna, con questo fan
riparo e poneno il scudo contra le lanciate del fato. Con tali e simili
vilissimi pensieri credeno montar a gli astri, esser pari a gli dei, e
comprendere il bello e buono che promette la filosofia. cesarino È gran cosa
certo che il tempo che non può bastarci manco alle cose necessarie, quantunque
diligentissimamente guardato, viene per la maggior parte ad esser speso in cose
superflue, anzi cose vili e vergognose. – Non è da ridere di quello che fa
lodabile Archimede o altro appresso alcuni, che a tempo che la cittade andava
sottosopra, tutto era in ruina, era acceso il fuoco ne la sua stanza, gli
nemici gli erano dentro la camera a le spalli, nella discrezzion et arbitrio de
quali consisteva de fargli perdere l’arte, il cervello e la vita; e lui tra
tanto avea perso il senso e proposito di salvar la vita, per averlo lasciato a
dietro a perseguitar forse la proporzione de la curva a la retta, del diametro
al circolo o altre simili matesi, tanto degne per giovanotti quanto indegne
d’uno che (se posseva) devrebbe essere invecchiato et attento a cose più degne
d’esser messe per fine de l’umano studio. mariconda In proposito di questo mi
piace quello che voi medesimo poco avanti dicesti, che bisogna ch’il mondo sia
pieno de tutte sorte de persone, e che il numero de gl’imperfetti, brutti, poveri,
indegni e scelerati sia maggiore: et in conclusione non debba essere altrimenti
che come è. La età lunga e vechiaia d’Archimede, Euclide, di Prisciano, di
Donato et altri che da la morte son stati trovati occupati sopra li numeri, le
linee, le dizzioni, le concordanze, scritture, dialecti, sillogismi formali,
metodi, modi de scienze, organi et altre isagogie, è stata ordinata al servizio
della gioventù e de’ fanciulli, gli quali apprender possano e ricevere gli
frutti della matura età di quelli, come conviene che siano mangiati da questi
nella lor verde etade: a fin che più adulti vegnano senza impedimento atti e
pronti a cose maggiori. cesarino Io non son fuor del proposito che poco avanti
ho mosso: essendo in proposito di quei che fanno studio d’involar la fama e
luogo de gli antichi con far nove opre o peggiori, o non megliori de le già
fatte, e spendeno la vita su le considerazioni da mettere avanti la lana di
capra o l’ombra de l’asino; et altri che in tutto il tempo de la vita studiano
di farsi esquisiti in que’ studii che convegnono alla fanciullezza, e per la
massima parte il fanno senza proprio et altrui profitto. mariconda Or assai è
detto circa quelli che non possono né debbono ardire d’aver ad alt’amor la
mente desta. Venemo ora a considerare della volontaria cattività, e dell’ameno
giogo sotto l’imperio de la detta Diana: quel giogo, dico, senza il quale
l’anima è impotente de rimontar a quella altezza da la qual cadìo, percioché la
rende più leggiera et agile; e gli lacci la fanno più ispedita e sciolta.
cesarino Discorrete dumque. mariconda Per cominciar, continuar e conchiudere
con ordine, considero che tutto quel che vive, in quel modo che vive, conviene
che in qualche maniera si nodrisca, si pasca. Però a la natura intellettuale
non quadra altra pastura che intellettuale, come al corpo non altra che
corporale: atteso che il nodrimento non si prende per altro fine eccetto perché
vada in sustanza de chi si nodrisce. Come dumque il corpo non si trasmuta in
spirito, né il spirito si trasmuta in corpo (perché ogni trasmutazione si fa
quando la materia che era sotto la forma de uno viene ad essere sotto la forma
de l’altro), cossì il spirito et il corpo non hanno materia commune, di sorte
che quello che era soggetto a uno possa dovenire ad essere soggetto de l’altro.
cesarino Certo se l’anima se nodrisse de corpo si portarebe meglio dove è la
fecondità della materia (come argumenta Iamblico), di sorte che quando ne si fa
presente un corpo grasso e grosso, potremmo credere che sia vase d’un animo gagliardo,
fermo, pronto, eroico, e dire: O anima grassa, o fecondo spirito, o bello
ingegno, o divina intelligenza, o mente illustre, o benedetta ipostasi da far
un convito a gli leoni, over un banchetto a i dogs. Cossì un vecchio, come
appare marcido, debole e diminuito de forze, debba esser stimato de poco sale,
discorso e raggione. Ma seguitate. mariconda Or l’esca de la mente bisogna dire
che sia quella sola che sempre da lei è bramata, cercata, abbracciata, e
volentieri più ch’altra cosa gustata, per cui s’empie, s’appaga, ha prò e
dovien megliore: cioè la verità alla quale in ogni tempo, in ogni etade et in
qualsivoglia stato che si trove l’uomo, sempre aspira, e per cui suol spreggiar
qualsivoglia fatica, tentar ogni studio, non far caso del corpo, et aver in
odio questa vita. Perché la verità è cosa incorporea; perché nessuna, o sia
fisica, o sia metafisica, o sia matematica, si trova nel corpo; perché vedete
che l’eterna essenza umana non è ne gl’individui li quali nascono e muoiono. È
la unità specifica (disse Platone) non la moltitudine numerale che comporta la
sustanza de le cose; però chiamò l’idea uno e molti, stabile e mobile: perché
come specie incorrottibile, è cosa intelligibile et una, e come si communica
alla materia et è sotto il moto e generazione, è cosa sensibile e molti. In
questo secondo modo ha più de non ente che di ente: atteso che sempre è altro
et altro, e corre eterno per la privazione; nel primo modo è ente e vero.
Vedete appresso che gli matematici hanno per conceduto che le vere figure non
si trovano ne gli corpi naturali, né vi possono essere per forza di natura né
di arte. Sapete ancora che la verità de sustanze sopranaturali è sopra la
materia. – Conchiudesi dumque che a chi cerca il vero, bisogna montar sopra la
raggione de cose corporee. Oltre di ciò è da considerare che tutto quel che si
pasce, ha certa mente e memoria naturale del suo cibo, e sempre (massime quando
fia più necessario) ha presente la similitudine e specie di quello, tanto più
altamente, quanto è più alto e glorioso chi ambisce, e quello che si cerca. Da
questo, che ogni cosa ha innata la intelligenza de quelle cose che appartegnono
alla conservazione de l’individuo e specie, et oltre alla perfezion sua finale,
depende la industria di cercare il suo pasto per qualche specie di venazione. –
Conviene dumque che l’anima umana abbia il lume, l’ingegno e gl’instrumenti
atti alla sua caccia. Qua soccorre la contemplazione, qua viene in uso la
logica, altissimo organo alla venazione della verità, per distinguere, trovare
e giudicare. Quindi si va lustrando la selva de le cose naturali dove son tanti
oggetti sotto l’ombra e manto, e come in spessa, densa e deserta solitudine la
verità suol aver gli antri e cavernosi ricetti; fatti intessuti de spine,
conchiusi de boscose, ruvide e frondose piante: dove con le raggioni più degne
et eccellenti maggiormente s’asconde, s’avvela e si profonda con diligenza
maggiore, come noi sogliamo gli tesori più grandi celare con maggior diligenza
e cura, accioché dalla moltitudine e varietà de cacciatori (de quali altri son
più exquisiti et exercitati, altri meno) non vegna senza gran fatica
discuoperta. Qua andò Pitagora cercandola per le sue orme e vestigii impressi
nelle cose naturali, che son gli numeri li quali mostrano il suo progresso,
raggioni, modi et operazioni in certo modo: perché in numero de moltitudine,
numero de misure, e numero de momento o pende, la verità e l’essere si trova in
tutte le cose. Qua andò Anaxagora et Empedocle che considerando che la
omnipotente et omniparente divinità empie il tutto, non trovavano cosa tanto
minima che non volessero che sotto quella fusse occolta secondo tutte le
raggioni, benché procedessero sempre vèr là dove era predominante et espressa
secondo raggion più magnifica et alta. Qua gli Caldei la cercavano per via di
suttrazzione non sapendo che cosa di quella affirmare: e procedevano senza cani
de dimostrazioni e sillogismi; ma solamente si forzaro di profondare rimovendo,
zappando, isboscando per forza di negazione de tutte specie e predicati comprensibili
e secreti. Qua Platone andava como isvoltando, spastinando e piantando ripari:
perché le specie labili e fugaci rimanessero come nella rete, e trattenute da
le siepe de le definizioni, considerando le cose superiori essere
participativamente, e secondo similitudine speculare nelle cose inferiori, e
queste in quelle secondo maggior dignità et eccellenza; e la verità essere ne
l’une e l’altre secondo certa analogia, ordine e scala, nella quale sempre
l’infimo de l’ordine superiore conviene con il supremo de l’ordine inferiore. E
cossì si dava progresso dal infimo della natura al supremo come dal male al
bene, dalle tenebre alla luce, dalla pura potenza al puro atto, per gli mezzi.
Qua Aristotele si vanta pure da le orme e vestigii impressi di posser pervenire
alla desiderata preda, mentre da gli effetti vuol amenarsi a le cause. Benché
egli per il più (massime che tutti gli altri ch’hanno occupato il studio a
questa venazione) abbia smarrito il camino, per non saper a pena distinguere de
le pedate. – Qua alcuni teologi nodriti in alcune de le sette cercano la verità
della natura in tutte le forme naturali specifiche, nelle quali considerano
l’essenza eterna e specifico sustantifico perpetuator della sempiterna
generazione e vicissitudine de le cose, che son chiamate dèi conditori e
fabricatori, sopra gli quali soprasiede la forma de le forme, il fonte de la
luce, verità de le veritadi, dio de gli dèi, per cui tutto è pieno de divinità,
verità, entità, bontà. Questa verità è cercata come cosa inaccessibile, come
oggetto inobiettabile, non sol che incomprensibile: però a nessun pare
possibile de vedere il sole, l’universale Apolline e luce absoluta per specie
suprema et eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo,
l’universo, la natura che è nelle cose, la luce che è nell’opacità della
materia: cioè quella in quanto splende nelle tenebre. De molti dumque, che per
dette vie et altre assai discorreno in questa deserta selva, pochissimi son
quelli che s’abbattono al fonte de Diana. Molti rimagnono contenti de caccia de
fiere selvatiche e meno illustri, e la massima parte non trova da comprendere
avendo tese le reti al vento, e trovandosi le mani piene di mosche. Rarissimi
dico son gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di posser contemplar la
Diana ignuda: e dovenir a tale che dalla bella disposizione del corpo della
natura invaghiti in tanto, e scorti da que’ doi lumi del gemino splendor de
divina bontà e bellezza, vegnano trasformati in cervio, per quanto non siano
più cacciatori ma caccia. Perché il fine ultimo e finale di questa venazione è
de venire allo acquisto di quella fugace e selvaggia preda, per cui il predator
dovegna preda, il cacciator doventi caccia; perché in tutte le altre specie di
venaggione che si fa de cose particolari, il cacciatore viene a cattivare a sé
l’altre cose, assorbendo quelle con la bocca de l’intelligenza propria; ma in
quella divina et universale viene talmente ad apprendere che resta
necessariamente ancora compreso, as- sorbito, unito: onde da volgare,
ordinario, civile e populare, doviene selvatico come cervio, et incola del
deserto; vive divamente sotto quella procerità di selva, vive nelle stanze non
artificiose di cavernosi monti, dove admira gli capi de gli gran fiumi, dove
vegeta intatto e puro da ordinarie cupiditadi, dove più liberamente conversa la
divinità, alla quale aspi- rando tanti uomini che in terra hanno volsuto gustar
vita celeste, dissero con una voce: Ecce elongavi fugiens, et mansi in
solitudine. Cossì gli cani, pensieri de cose divine, vorano questo Atteone,
facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati
sensi, libero dal carnal carcere della materia; onde non più vegga come per
forami e per fenestre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglia a terra, è
tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte che tutto guarda come
uno, non vede più per distinzioni e numeri, che secondo la diversità de sensi,
come de diverse rime fanno veder et apprendere in confusione. Vede l’Amfitrite,
il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la Monade,
vera essenza de l’essere de tutti; e se non la vede in sua essenza, in absoluta
luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua imagine: perché
dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura,
l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia come il sole nella luna,
mediante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emisfero delle sustanze
intellettuali. Questa è la Diana, quello uno che è l’istesso ente, quello ente
che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensibile, in cui
influisce il sole et il splendor della natura superiore secondo che la unità è
destinta nella generata e generante, o producente e prodotta. Cossì da voi
medesimo potrete conchiudere il modo, la dignità, et il successo più degno del
cacciatore e de la caccia: onde il furioso si vanta d’esser preda della Diana,
a cui si rese, per cui si stima gradito consorte, e più felice cattivo e
suggiogato, che invidiar possa ad altro uomo che non ne può aver ch’altretanto,
o ad altro divo che ne have in tal specie quale è impossibile d’essere ottenuta
da natura inferiore, e per conseguenza non è conveniente d’essere desiata, né
meno può cadere in appetito. cesarino Ho ben compreso quanto avete detto, e
m’avete più che mediocremente satisfatto. Or è tempo di ritornar a casa.
mariconda Bene. fine del secondo dialogo interlocutori Liberio, Laodonio.
liberio Posando sotto l’ombra d’un cipresso il furioso, e trovandosi l’alma
intermíttente da gli altri pensieri (cosa mirabile), avvenne che (come fussero
animali e sustanze de distinte raggioni e sensi) si parlassero insíeme il core
e gli occhi: l’uno de l’altro lamentandosi come quello che era principio di
quel faticoso tormento che consumava l’alma. laodonio Dite, se vi ricordate, le
raggioni e le paroli. liberio Cominciò il dialogo il core, il qual facendosi
udir dal petto proruppe in questi accenti: Prima proposta del core a gli occhi
Come, occhi miei, sì forte mi tormenta quel che da voi deriva ardente foco,
ch’al mio mortal suggetto mai allenta di serbar tal incendio, ch’ho per poco
l’umor de l’Oceàn e di più lenta artica stella il più gelato loco, perché ivi
in punto si reprima il vampo, o al men mi si prometta ombra di scampo? Voi mi
féste cattivo d’una man che mi tiene, e non mi vuole; per voi son entro al
corpo, e fuor col sole, son principio de vita, e non son vivo: non so quel che
mi sia ch’appartegno a quest’alma, e non è mia. laodonio Veramente l’intendere,
il vedere, il conoscere è quel che accende il desio, e per conseguenza, per
ministerio de gli occhi, vien infiammato il core: e quanto a quelli fia
presente più alto e degno oggetto, tanto più forte è il foco e più vivaci son
le fiamme. Or qual esser deve quella specie per cui tanto si sente acceso il
core, che non spera che temprar possa il suo ardore tanto più fredda quanto più
lenta stella che sia conchiusa nell’artico cerchio, né rallentar il vampo
l’umor intiero de l’Occano? Quanta deve essere l’eccellenza di quello oggetto che
l’ha reso nemico de l’esser suo, rubello a l’alma propria, e contento di tal
ribellione e nemicicia, quantunque sia cattivo d’una man che ’l dispreggia e
non lo vuole? Ma fatemi udire se gli occhi risposero e che cosa dissero.
liberio Quelli per il contrario si lagnavano del core, come quello che era
principio e caggione per cui versassero tante lacrime. Però a l’incontro gli
proposero in questo tenore: Prima proposta de gli occhi al core Come da te
sorgon tant’acqui, o core, da quante mai Nereidi alzar la fronte ch’ogni
giorn’al bel sol rinasce e muore? A par de l’Amfitrite il doppio fonte versar
può sì gran fiumi al mondo fore, che puoi dir che l’umor tanto surmonte, che
gli fia picciol rio chi Egitto inonda scorrend’al mar per sette doppia sponda.
Die’ natura doi lumi a questo picciol mondo per governo; tu perversor di
quell’ordin eterno, le convertiste in sempiterni fiumi. E questo il ciel non
cura, ch’il natìo passa, el violento dura. laodonio Certo ch’il cor acceso e
compunto fa sorger lacrime da gli occhi, onde come quelli accendono le fiamme
in questo, quest’altro viene a rigar quelli d’umore. Ma mi meraviglio de sì
forte exaggerazione per cui dicono che le Nereidi non alzano tanto bagnata
fronte a l’oriente sole, quanta possa appareggiar queste acqui; et oltre
agguagliansi all’Oceano, non perché versino, ma perché versar possano questi
doi fonti, fiumi tali e tanti, che computato a loro il Nilo apparirebbe una
picciola lava distinta in sette canali. liberio Non ti meravigliar della forte
exaggerazione e di quella potenza priva de l’atto; perché tutto intenderete
dopo intesa la conchiusione de raggionamenti loro. Or odi come prima il core
risponde alla proposta de gli occhi. laodonio Priegovi fatemi intendere.
liberio Prima risposta del core a gli occhi Occhi, s’in me fiamma immortal
s’alluma, et altro non son io che fuoco ardente, se quel ch’a me s’avvicina,
s’infuma, e veggio per mio incendio il ciel fervente; come il gran vampo mio
non vi consuma, ma l’effetto contrario in voi si sente? Come vi bagno, e più
tosto non cuoco, se non umor, ma è mia sustanza fuoco? Credete ciechi voi che
da sì ardente incendio derivi el doppio varco, e que’ doi fonti vivi da Vulcan
abbian gli elementi suoi, come tal volt’acquista forza un contrario, se l’altro
resista? Vede come non possea persuadersi il core di posser da contraria causa
e principio procedere forza di contrario effetto, sin a questo che non vuol
affirmare il modo possibile, quando per via d’antiperistasi, che significa il
vigor che acquista il contrario da quel che fuggendo l’altro viene ad unirsi,
inspessarsi, inglobarsi e concentrarsi verso l’individuo della sua virtude, la
qual quanto più s’allontana dalle dimensioni, tanto si rende efficace di
vantaggio. laodonio Dite ora come gli occhi risposero al core. liberio Prima
risposta de gli occhi al core Ahi, cor, tua passion sì ti confonde, ch’hai
smarito il sentier di tutt’il vero. Quanto si vede in noi, quanto s’asconde, è
semenza de mari, onde l’intero Nettun potrà ricovrar non altronde, se per sorte
perdesse il grand’impero; come da noi deriva fiamma ardente, che siam del mare
il gemino parente? Sei sì privo di senso, che per noi credi la fiamma trapasse,
e tant’umide porte a dietro lasse, per far sentir a te l’arder immenso? Come
splender per vetri, crederai forse che per noi penétri? Qua non voglio
filosofare circa la coincidenza de contrarii, de la quale ho studiato nel libro
De principio et uno; e voglio supponere quello che comunmente si suppone, che
gli contraria nel medesimo geno son distantissimi, onde vegna più facilmente
appreso il sentimento di questa risposta, dove gli occhi si dicono semi o
fonti, nella virtual potenza de quali è il mare: di sorte che se Nettuno
perdesse tutte l’acqui, le potrebbe richiamar in atto dalla potenza loro, dove
sono come in principio agente e materiale. Però non metteno urgente necessità
quando dicono non posser essere che la fiamma per la lor stanza e cortile
trapasse al core con lasciarsi tant’acqui a dietro, per due caggioni: prima
perché tal impedimento in atto non può essere se non posti in atto tali
oltraggiosi ripari; secondo perché per quanto l’acqui sono attualmente ne gli
occhi, possono donar via al calore come alla luce: essendo che l’esperienza
dimostra che senza scaldar il specchio viene il luminoso raggio ad accendere
per via di reflessione qualche materia che gli vegna opposta; e per un vetro,
cristallo, o altro vase pieno d’acqua, passa il raggio ad accendere una cosa
sottoposta senza che scalde il spesso corpo tramezzante: come è verisimile et
anco vero che caggione secche et aduste impressioni nelle concavitadi del
profondo mare. Talmente per certa similitudine, se non per raggioni di medesimo
geno, si può considerare come fia possibile che per il senso lubrico et oscuro
de gli occhi possa esser scaldato et acceso di quella luce l’affetto, la quale
secondo medesima raggione non può essere nel mezzo. Come la luce del sole
secondo altra raggione è nell’aria tramezzante, altra nel senso vicino, et
altra nel senso commune, et altra ne l’intelletto: quantunque da un modo
proceda l’altro modo di essere. laodonio Sonvi altri discorsi? liberio Sì,
perché l’uno e l’altro tentano di saper con qual modo quello contegna tante
fiamme, e quelli tante acqui. Fa dumque il core la seconda proposta: Seconda
proposta del core S’al mar spumoso fan concorso i fiumi, e da fiumi del mar il
cieco varco vien impregnato, ond’è che da voi lumi non è doppio torrente al
mondo scarco che cresca il regno a gli marini numi, scemando ad altri il
glorioso incarco? Perché non fia che si vegga quel giorno, ch’a i monti fa
Deucalion ritorno? Dove gli rivi sparsi? Dove il torrente che mia fiamma
smorze, o per ciò non posser più la rinforze? Goccia non scende a terra ad
inglobarsi, per cui fia ch’io non pensi che sia cossì, come mostrano i sensi?
Dimanda qual potenza è questa che non si pone in atto; se tante son l’acqui,
perché Nettuno non viene a tiranneggiar su l’imperio de gli altri elementi? Ove
son gli inondanti rivi? Ove chi dia refrigerio al fuoco ardente? Dove è una
stilla onde io possa affirmar de gli occhi quel tanto che niegano i sensi? Ma
gli occhi di pari fanno un’altra dimanda: Seconda proposta de gli occhi al core
Se la materia convertita in foco acquista il moto di lieve elemento, e se ne
sale a l’eminente loco, onde avvien che veloce più che vento, tu ch’incendio
d’amor senti non poco, non ti fai gionto al sole in un momento? per che
soggiorni peregrino al basso, non t’aprendo per noi e l’aria il passo? Favilla
non si scorge uscir a l’aria aperto da quel busto, né corpo appar incenerit’o
adusto, né lacrimoso fumo ad alto sorge: tutt’è nel proprio intiero, né di
fiamma è raggion, sens’, o pensiero. laodonio Non ha più né meno efficacia
questa che quell’altra proposta: ma vengasi presto alle risposte, se vi sono.
liberio Vi son certamente e piene di succhio; udite: Seconda risposta del core
a gli occhi Sciocco è colui che sol per quanto appare al senso, et oltre a la
raggion non crede: il fuoco mio non puote alto volare, e l’infinito incendio
non si vede, perché de gli occhi ban sopraposto il mare, e un infinito l’altro
non eccede: la natura non vuol ch’il tutto pera, se basta tanto fuoco a tanta
sfera. Ditemi, occhi, per dio, qual mai partito prenderemo noi, onde far possa
aperto o io, o voi, per scampo suo, de l’alma il fato rio, se l’un e l’altro
ascoso mai potrà fargli il bel nume piatoso? laodonio Se non è vero, è molto
ben trovato: se non è cossì, è molto bene iscusato l’uno per l’altro, se stante
che dove son due forze de quali l’una non è maggior de l’altra, bisogna che
cesse l’operazion di questa e quella: essendo che tanto questa può resistere
quanto quella insistere; non meno quella ripugna, che possa oppugnar questa. Se
dumque è infinito il mare et inmensa la forza de le lacrime che sono ne gli
occhi, non faranno giamai ch’apparir possa Cavillando o isvampando l’impeto del
fuoco ascoso nel petto; né quelli mandar potranno il gemino torrente al mare,
se con altretanto di vigore gli fa riparo il core: però accade che il bel nume
per apparenza di lacrima che stile da gli occhi, o favilla che si spicche dal
petto, non possa esser invitato ad esser piatoso a l’alma afflitta. [liberio]
Or notate la conseguente risposta de gli occhi: Seconda risposta de gli occhi
al core Ahi per versar a l’elemento ondoso, l’émpito de noi fonti al tutt’è
casso; che contraria potenza il tien ascoso, acciò non mande a rotilon per
basso. L’infinito vigor del cor focoso a i pur tropp’alti fiumi niega il passo;
quindi gemino varco al mar non corre, ch’il coperto terren natura aborre. Or
dinne, afflitto core, che puoi opporti a noi con altretanto vigor: chi fia
giamai che porte il vanto d’esser precon di sì ’nfelice amore, s’il tuo e
nostro male quant’è più grande, men mostrarsi vale? Per essere infinito l’un e
l’altro male, come doi ugualmente vigorosi contraria si ritegnono, si
supprimeno; e non potrebbe esser cossì, se l’uno e l’altro fosse finito, atteso
che non si dà equalità puntuale nelle cose naturali, né ancora sarebbe cossì se
l’uno fusse finito e l’altro infinito: ma certo questo assorbirebbe quello, et
avverrebe che si mostrarebbono ambi doi, o al men l’uno per l’altro. Sotto
queste sentenze la filosofia naturale et etica che vi sta occolta, lascio
cercarla, considerarla e comprenderla a chi vuole e puote. Sol questo non
voglio lasciare, che non senza raggione l’affezzion del core è detta infinito
mare dall’apprension de gli occhi: perché essendo infinito l’oggetto de la
mente, et a l’intelletto non essendo definito oggetto proposto, non può essere
la volontarie appagata de finito bene; ma se oltre a quello si ritrova altro,
il brama, il cerca, perché (come è detto commune) il summo della specie
inferiore è infimo e principio della specie superiore, o si prendano gli gradi
secondo le forme le quali non possiamo stimar che siano infinite, o secondo gli
modi e raggioni di quelle, nella qual maniera per essere infinito il sommo
bene, infinitamente credemo che si comunica secondo la condizione delle cose
alle quali si diffonde: però non è specie definita a l’universo (parlo secondo
la figura e mole), non è specie definita a l’intelletto, non è definita la
specie de l’affetto. laodonio Dumque queste due potenze de l’anima mai sono, né
essere possono perfette per l’oggetto, se infinitamente si riferiscono a
quello. liberio Cossì sarrebe se questo infinito fusse per privazion negativa o
negazion privativa de fine, come è per più positiva affirmazione de fine
infinito et interminato. laodonio Volete dir dumque due specie d’infinità:
l’una privativa la qual può essere verso qualche cosa che è potenza, come infinite
son le tenebre, il fine delle quali è posizione di luce; l’altra perfettiva la
quale è circa l’atto e perfezzione, come infinita è la luce, il fine della
quale sarebbe privazione e tenebre. In questo dumque che l’intelletto concepe
la luce, il bene, il bello, per quanto s’estende l’orizonte della sua capacità,
e l’anima che beve del nettare divino e de la fonte de vita eterna, per quanto
comporta il vase proprio; si vede che la luce è oltre la circonferenza del suo
orizonte dove può andar sempre più e più penetrando; et il nettare e fonte
d’acqua viva è infinitamente fecondo, onde possa sempre oltre et oltre
inebriarsi. [liberio] Da qua non séguita imperfezzione nell’oggetto né poca
satisfazzione nella potenza; ma che la potenza sia compresa da l’oggetto e
beatificamente assorbita da quello. Qua gli occhi imprimeno nel core, cioè
nell’intelligenza, suscitano nella volontà un infinito tormento di suave amore,
dove non è pena, perché non s’abbia quel che si desidera: ma è felicità, perché
sempre vi si trova quel che si cerca; et in tanto non vi è sazietà, per quanto
sempre s’abbia appetito, e per conseguenza gusto: acciò non sia come nelli cibi
del corpo il quale con la sazietà perde il gusto, e non ha felicità prima che
guste, né dopo ch’ha gustato, ma nel gustar solamente: dove se passa certo
termine e fine, viene ad aver fastidio e nausea. – Vedi dumque in certa
similitudine qualmente il sommo bene deve essere infinito, e l’appulso de
l’affetto verso e circa quello esser deggia anco infinito, acciò non vegna talvolta
a non esser bene: come il cibo che è buono al corpo, se non ha modo, viene ad
essere veleno. Ecco come l’umor de l’Oceano non estingue quel vampo, et il
rigor de l’Artico cerchio non tempra quell’ardore. Cossì è cattivo d’una mano
che il tiene e non lo vuole: il tiene perché l’ha per suo, non lo vuole perché
(come lo fuggesse) tanto più se gli fa alto quanto più ascende a quella, quanto
più la séguita tanto più se gli mostra lontana per raggion de eminentissima
eccellenza, secondo quel detto: Accedet homo ad cor altum, et exaltabitur Deus.
– Cotal felicità d’affetto comincia da questa vita, et in questo stato ha il
suo modo d’essere: onde può dire il core d’essere entro con il corpo, e fuori
col sole, in quanto che l’anima con la gemina facultade mette in esecuzione doi
uffici: l’uno de vivificare et attuare il corpo animabile, l’altro de
contemplare le cose superiori; perché cossì lei è in potenza receptiva da
sopra, come è verso sotto al corpo in potenza attiva. Il corpo è come morto e
cosa privativa a l’anima la quale è sua vita e perfezzione; e l’anima è come
morta e cosa privativa alla superiore illuminatrice intelligenza da cui
l’intelletto è reso in abito e formato in atto. Quindi si dice il core essere
prencipe de vita, e non esser vivo; si dice appartenere a l’alma animante, e
quella non appartenergli: perché è infocato da l’amor divino, è convertito
finalmente in fuoco, che può accendere quello che si gli avicina: atteso che
avendo contratta in sé la divinitade, è fatto divo, e conseguentemente con la
sua specie può innamorar altri: come nella luna può essere admirato e
magnificato il splendor del sole. Per quel poi ch’appartiene al considerar de
gli occhi, sapete che nel presente discorso hanno doi ufficii: l’uno de
imprimere nel core, l’altro de ricevere l’impressione dal core; come anco
questo ha doi ufficii: l’uno de ricevere l’impressioni da gli occhi, l’altro di
imprimere in quelli. Gli occhi apprendono le specie e le proponeno al core, il
core le brama et il suo bramare presenta a gli occhi: quelli concepeno la luce,
la diffondano, et accendono il fuoco in questo; questo scaldato et acceso invia
il suo umore a quelli, perché lo digeriscano. Cossì primieramente la cognizione
muove l’affetto, et appresso l’affetto muove la cognizione. Gli occhi quando
moveno sono asciutti, perché fanno ufficio di specchio e di ripresentatore;
quando poi son mossi, son turbati et alterati; perché fanno ufficio de studioso
executore: atteso che con l’intelletto speculativo prima si vede il bello e
buono, poi la voluntà l’appetisce, et appresso l’intelletto industrioso lo
procura, séguita e cerca. Gli occhi lacrimosi significano la difficultà de la
separazione della cosa bramata dal bramante, la quale acciò non sazie, non
fastidisca, si porge come per studio infinito, il quale sempre ha e sempre
cerca: atteso che la felicità de dèi è descritta per il bevere non per l’aver
bevuto il nettare, per il gustare non per aver gustato l’ambrosia, con aver
continuo affetto al cibo et alla bevanda, e non con esser satolli e senza desio
de quelli. Indi, hanno la sazietà come in moto et apprensione, non come in
quiete e comprensione, non son satolli senza appetito, né sono appetenti senza
essere in certa maniera satolli. laodonio liberio laodonio Esuries satiata
satietas esuriens. Cossì a punto. Da qua posso intendere come senza biasimo ma
con gran verità et intelletto è stato detto che il divino amore piange con
gemiti inenarrabili, perché con questo che ha tutto ama tutto, e con questo che
ama tutto ha tutto. liberio Ma vi bisognano molte glose se volessimo intendere
de l’amor divino che è la istessa deità; e facilmente s’intende de l’amor
divino per quanto si trova ne gli effetti e nella subalternata natura; non
(dico) quello che dalla divinità si diffonde alle cose: ma quello delle cose
che aspira alla divinità. laodonio Or di questo et altro raggionaremo a più
aggio appresso. Andiamone. fine del terzo dialogo interlocutori Severino,
Minutolo. severino Vedrete dumque la raggione de nove ciechi, li quali
apportano nove principii e cause particolari de sua cecità, benché tutti
convegnano in una causa generale d’un comun furore. minutolo Cominciate dal
primo. severino Il primo di questi benché per natura sia cieco, nulladimeno per
amore si lamenta, dicendo a gli altri che non può persuadersi la natura esser
stata più discortese a essi che a lui; stante che quantunque non veggono, hanno
però provato il vedere, e sono esperti della dignità del senso e de
l’eccellenza del sensibile, onde son dovenuti orbi: ma egli è venuto come talpa
al mondo a esser visto e non vedere, a bramar quello che mai vedde. minutolo Si
son trovati molti innamorati per sola fama. severino Essi (dice egli) aver pur
questa felicità de ritener quella imagine divina nel conspetto de la mente, de
maniera, che quantunque ciechi, hanno pure in fantasia quel che lui non puote
avere. Poi nella sestina si volta alla sua guida, pregandola che lo mene in
qualche precipizio, a fin che non sia oltre orrido spettacolo del sdegno di
natura. Dice dumque: Parla il primo cieco Felici che talvolta visto avete, voi
per la persa luce ora dolenti compagni che dei lumi conoscete. Questi accesi
non furo, né son spenti; però più grieve mal che non credete è il mio, e degno
de più gran lamenti: perché, che fusse torva la natura più a voi ch’a me, non è
chi m’assicura. Al precipizio, o duce, conducime, se vòi darmi contento, perché
trove rimedio il mio tormento, ch’ad esser visto, e non veder la luce, qual
talpa uscivi al mondo, e per esser di terra inutil pondo. Appresso séguita
l’altro che morsicato dal serpe de la gelosia, è venuto infetto nell’organo
visuale. Va senza guida, se pur non ha la gelosia per scorta: priega alcun de
circonstanti che se non è rimedio del suo male, faccia per pietà che non oltre
aver possa senso del suo male; facendo cossì lui occolto a se medesimo, come se
gli è fatta occolta la sua luce: con sepelir lui col proprio male. Dice dumque:
Parla il secondo cieco Da la tremenda chioma ha svèlto Aletto l’infernal verme,
che col fiero morso hammi sì crudament’il spirto infetto, ch’a tòrmi il senso
principal è corso, privando de sua guida l’intelletto: ch’in vano l’alma chiede
altrui soccorso, sì cespitar mi fa per ogni via quel rabido rancor di gelosia.
Se non magico incanto, né sacra pianta, né virtù de pietra, né soccorso divin
scampo m’impetra, un di voi sia (per dio) piatoso in tanto, che a me mi faccia
occolto: con far meco il mio mal tosto sepolto. Succede l’altro il qual dice
esser dovenuto cieco per essere repentinamente promosso dalle tenebre a veder
una gran luce; atteso che essendo avezzo de mirar bellezze ordinarie, venne
subito a presentarsegli avanti gli occhi una beltà celeste, un divo sole: onde
non altrimente si gli è stemprata la vista e smorzatosegli il lume gemino che
splende in prora a l’alma (perché gli occhi son come doi fanali che guidano la
nave) ch’accader suole a un allievato nelle oscuritadi cimmerie, se subito
immediatamente affiga gli occhi a sole. E nella sestina priega che gli sia
donato libero passagio a l’inferno, perché non altro che tenebre convegnono ad
un supposito tenebroso. Dice dumque cossì: Parla il terzo cieco S’appaia il
gran pianeta di repente a un uom nodrito in tenebre profonde, o sott’il ciel de
la cimmeria gente, onde lungi suoi rai il sol diffonde; gli spenge il lume
gemino splendente in prora a l’alma, e nemico s’asconde: cossì stemprate fur
mie luci avezze a mirar ordinarie bellezze. Fatemi a l’orco andare: perché
morto discorro tra le genti? perché ceppo infernal tra voi viventi misto men
vo? Perché l’aure discare sorbisco, in tante pene messo per aver visto il sommo
bene? Fassi innanzi il quarto cieco per simile, ma non già per medesima
caggione orbo, con cui si mostra il primo: perché come quello per repentino
sguardo della luce, cossì questo con spesso e frequente remirare, o pur per
avervi troppo fissati gli occhi, ha perso il senso de tutte l’altre luci, e non
si dice cieco per conseguenza al risguardo di quella unica che l’ha occecato; e
dice il simile del senso de la vista a quello ch’aviene al senso dell’udito, essendo
che coloro che han fatte l’orecchie a gran strepiti e rumori, non odeno gli
strepiti minori: come è cosa famosa de gli popoli cataduppici che son là d’onde
il gran fiume Nilo da una altissima montagna scende precipitoso alla pianura.
minutolo Cossì tutti color ch’hanno avezzo il corpo, l’animo a cose più
difficili e grandi, non sogliono sentir fastidio dalle difficultadi minori. E
costui non deve essere discontento della sua cecità. severino Non certo. Ma si
dice volontario orbo, a cui piace che ogn’altra cosa gli sia ascosa, come
l’attedia col divertirlo da mirar quello che vuol unicamente mirare. – Et in
questo mentre priega gli viandanti che si degnino de non farlo capitar male per
qualche mal rancontro, mentre va sì attento e cattivato ad un oggetto
principale. minutolo Riferite le sue paroli. severino Parla il quarto cieco
Precipitoso d’alto al gran profondo, il Nil d’ogn’altro suon il senso ha spento
de Cataduppi al popolo ingiocondo; cossì stand’io col spirto intiero attento
alla più viva luce ch’abbia il mondo, tutti i minor splendori umqua non sento:
or mentr’ella gli splende, l’altre cose sien pur a l’orbo volontario ascose.
Priegovi, da le scosse di qualche sasso, o fiera irrazionale, fatemi accorto, e
se si scende o sale: perché non caggian queste misere osse in luogo cavo e
basso, mentre privo de guida meno il passo. Al cieco che séguita, per il molto
lacrimare accade che siano talmente appannati gli occhi, che non si può
stendere il raggio visuale a compararsi le specie visibili, e principalmente
per riveder quel lume ch’a suo mal grado, per raggion di tante doglie una volta
vedde. Oltre che si stima la sua cecità non esser più disposizionale ma
abituale, et al tutto privativa; perché il fuoco luminoso che accende l’alma
nella pupilla, troppo gran tempo e molto gagliardamente è stato riprimuto et
oppresso dal contrario umore: de maniera che quantunque cessasse il lacrimare,
non si persuade che per ciò conseguisca il bramato vedere. Et udirete quel che
dice appresso alle brigate, perché lo facessero oltrepassare: Parla il quinto
cieco Occhi miei d’acqui sempremai pregnanti, quando fia che del raggio visuale
la scintilla se spicche fuor de tanti e sì densi ripari, e vegna tale, che
possa riveder que’ lumi santi, che fur principio del mio dolce male? Lasso:
credo che sia al tutto estinta, sì a lungo dal contrario oppressa e vinta. Fate
passar il cieco, e voltate vostr’occhi a questi fonti che vincon gli altri
tutti uniti e gionti; e s’è chi ardisce disputarne meco, è chi certo lo rende
ch’un de miei occhi un Oceàn comprende. Il sesto orbo è cieco, perché per il
soverchio pianto ha mandate tante lacrime che non gli è rimasto umore, fin al
ghiacio et umor per cui come per mezzo diafano il raggio visuale era
transmesso, e s’intromettea la luce esterna e specie visibile, di sorte che
talmente fu compunto il core che tutta l’umida sustanza (il cui ufficio è de
tener unite ancora le diverse varie e contrarie) è digerita; e gli è rimasta
l’amorosa affezzione senza l’effetto de le lacrime, perché l’organo è stemprato
per la vittoria de gli altri elementi, et è rimasto consequentemente senza
vedere e senza constanza de le parti del corpo insieme. Poi propone a gli
circonstanti quel che intenderete: Parla il sesto cieco Occhi non occhi; fonti,
non più fonti, avete sparso già l’intiero umore, che tenne il corpo, il spirto
e l’alma gionti. E tu visual ghiaccio che di fore facevi tanti oggetti a l’alma
conti, sei digerito dal piagato core: cossì vèr l’infernale ombroso speco vo
menando i miei passi, arido cieco. Deh non mi siate scarsi a farmi pronto
andar, di me piatosi, che tanti fiumi a i giorni tenebrosi sol de mio pianto
m’appagando ho sparsi: or ch’ogni umor è casso, vers’il profondo oblio datemi
il passo. Sopragionge il seguente che ha perduta la vista dal intenso vampo che
procedendo dal core è andato prima a consumar gli occhi, et appresso a leccar
tutto il rimanente umore de la sustanza de l’amante, de maniera che tutto
incinerito e messo in fiamma non è più lui: perché dal fuoco la cui virtù è de
dissolvere gli corpi tutti ne gli loro atomi, è convertito in polve non
compaginabili, se per virtù de l’acqua sola gli atomi d’altri corpi se
inspessano e congiongono a far un subsistente composto. Con tutto ciò non è
privo del senso de l’intensissime fiamme; però nella sestina con questo vuol
farsi dar largo da passare: ché se qualch’uno venesse tócco da le fiamme sue,
dovenerebbe a tale che non arrebe più senso delle fiamme infernali come di cosa
calda, che come di fredda neve. Dice dumque: Parla il settimo cieco La beltà
che per gli occhi scorse al core formò nel petto mio l’alta fornace ch’assorbì
prima il visuale umore, sgorgand’in alt’il suo vampo tenace; e poi vorando
ogn’altro mio liquore, per metter l’elemento secco in pace, m’ha reso non
compaginabil polve, chi ne gli atomi suoi tutto dissolve. Se d’infinito male
avete orror, datemi piazza, o gente; guardatevi dal mio fuoco cuocente; che se
contagion di quel v’assale, crederete che inverno sia, ritrovars’al fuoco de
l’inferno. Succede l’ottavo, la cecità del quale vien caggionata dalla saetta
che Amore gli ha fatto penetrare da gli occhi al core. Onde si lagna non
solamente come cieco, ma et oltre come ferito, et arso tanto altamente, quanto
non crede ch’altro esser possa. Il cui senso è facilmente espresso in questa
sentenza: Parla l’ottavo cieco Assalto vil, ria pugna, iniqua palma,
punt’acuta, esca edace, forte nervo, aspra ferit’, empio ardor, cruda salma,
stral, fuoco e laccio di quel dio protervo, che puns’ gli occhi, arse il cor,
legò l’alma, e femmi a un punto cieco, amante e servo: talché orbo de mia
piaga, incendio e nodo, ho ’l senso in ogni tempo, loco e modo. Uomini, eroi e
dèi, che siete in terra, o appresso Dite o Giove, dite (vi priego) quando, come
e dove provaste, udiste o vedeste umqua omei medesmi, o tali, o tanti tra
oppressi, tra dannati, tra gli amanti? Viene al fine l’ultimo, il quale è ancor
muto: perché non possendo (per non aver ardire) dir quello che massime vorrebe
senza offendere o provocar sdegno, è privo di parlar di qualsivogli’altra cosa.
Però non parla lui, ma la sua guida produce la raggione circa la quale, per
esser facile, non discorro, ma solamente apporto la sentenza: Parla la guida
del nono cieco Fortunati voi altri ciechi amanti, che la caggion del vostro mal
spiegate: esser possete, per merto de pianti, graditi d’accoglienze caste e
grate; di quel ch’io guido, qual tra tutti quanti più altamente spasma, il
vampo late, muto forse per falta d’ardimento di far chiaro a sua diva il suo
tormento. Aprite, aprite il passo, siate benigni a questo vacuo volto de tristi
impedimenti, o popol folto, mentre ch’il busto travagliato e lasso va
picchiando le porte di men penosa e più profonda morte. Qua son significate
nove caggioni per le quali accade che l’umana mente sia cieca verso il divino
oggetto, perché non possa fissar gli occhi a quello. De le quali: La prima,
allegorizata per il primo cieco, è la natura della propria specie, che per
quanto comporta il grado in cui si trova, in quello aspira per certo più alto
che apprender possa. minutolo Perché nessun desiderio naturale è vano, possiamo
certificarci de stato più eccellente che conviene a l’anima fuor di questo
corpo in cui gli fia possibile d’unirsi o avvicinarsi più altamente al suo
oggetto. severino Dici molto bene che nessuna potenza et appulso naturale è
senza gran raggione, anzi è l’istessa regola di natura la quale ordina le cose:
per tanto è cosa verissima e certissima a ben disposti ingegni, che l’animo
umano (qualunque si mostre mentre è nel corpo) per quel medesimo che fa
apparire in questo stato, fa espresso il suo esser peregrino in questa regione,
perché aspira alla verità e bene universale, e non si contenta di quello che
viene a proposito e profitto della sua specie. La seconda, figurata per il
secondo cieco, procede da qualche perturbata affezzione, come in proposito de
l’amore è la gelosia, la quale è come tarlo che ha medesimo suggetto, nemico e
padre, cioè che rode il panno o legno di cui è generato. minutolo Questa non mi
par ch’abbia luogo nell’amor eroico. severino Vero, secondo medesima raggione
che vedesi nell’amor volgare: ma io intendo secondo altra raggione
proporzionale a quella la quale accade in color che amano la verità e bontà; e
si mostra quando s’adirano tanto contra quelli che la vogliono adulterare,
guastare, corrompere, o che in altro modo indegnamente vogliono trattarla: come
son trovati di quelli che si son ridutti sino alla morte, alle pene et esser
ignominiosamente trattati da gli popoli ignoranti e sette volgari. minutolo
Certo nessuno ama veramente il vero e buono che non sia iracondo contra la
moltitudine: come nessuno volgarmente ama, che non sia geloso e timido per la
cosa amata. severino E con questo vien ad esser cieco in molte cose veramente,
et affatto affatto secondo l’opinion commune è stolto e pazzo. minutolo Ho
notato un luogo che dice esser stolti e pazzi tutti quelli che hanno senso fuor
et estravagante dal senso universale de gli altri uomini; ma cotal estravaganza
è di due maniere, secondo che si va estra o con ascender più alto che tutti e
la maggior parte sagliano o salir possano: e questi son gli inspirati de divino
furore; o con descendere più basso dove si trovano coloro che hanno difetto di
senso e di raggione più che aver possano gli molti, gli più, e gli ordinaria:
et in cotal specie di pazzia, insensazione e cecità non si trovarà eroico
geloso. severino Quantumque gli vegna detto che le molte lettere lo fanno
pazzo, non gli si può dire ingiuria da dovero. La terza, figurata nel terzo
cieco, procede da che la divina verità, secondo raggione sopra naturale, detta
metafisica, mostrandosi a que’ pochi alli quali si mostra, non proviene con
misura di moto e tempo, come accade nelle scienze fisiche (cioè quelle che
s’acquistano per lume naturale, le quali discorrendo da una cosa nota secondo
il senso o la raggione, procedono alla notizia d’altra cosa ignota: il qual
discorso è chiamato argumentazione), ma subito e repentinamente secondo il modo
che conviene a tale efficiente. Onde disse un divino: Attenuati sunt oculi mei
suspicientes in excelsum. Onde non è richiesto van discorso di tempo, fatica de
studio, et atto d’inquisizione per averla: ma cossì prestamente s’ingerisce
come proporzionalmente il lume solare senza dimora si fa presente a chi se gli
volta e se gli apre. minutolo Volete dumque che gli studiosi e filosofi non
siano più atti a questa luce che gli quantunque ignoranti? severino In certo
modo non, et in certo modo sì. Non è differenza quando la divina mente per sua
providenza viene a comunicarsi senza disposizione del suggetto: voglio dire
quando si communica, perché ella cerca et eligge il suggetto; ma è gran
differenza quando aspetta e vuol esser cercata, e poi secondo il suo bene
placito vuol farsi ritrovare. In questo modo non appare a tutti, né può apparir
ad altri che a color che la cercano. Onde è detto: Qui quaerunt me invenient
me; et in altro loco: Qui sitit, veniat, et bibat. minutolo Non si può negare
che l’apprensione del secondo modo si faccia in tempo. severino Voi non
distinguete tra la disposizione alla divina luce, e la apprensione di quella.
Certo non niego che al disporsi bisogna tempo, discorso, studio e fatica: ma
come diciamo che la alterazione si fa in tempo, e la generazione in instante; e
come veggiamo che con tempo s’aprono le fenestre, et il sole entra in un
momento: cossì accade proporzionalmente al proposito. La quarta, significata
nel seguente, non è veramente indegna, come quella che proviene dalla
consuetudine di credere a false opinioni del volgo il quale è molto rimosso
dalle opinioni de filosofi: opur deriva dal studio de filosofie volgari le
quali son dalla moltitudine tanto più stimate vere, quanto più accostano al
senso commune. E questa consuetudine è uno de grandissimi e fortissimi
inconvenienti che trovar si possano: perché (come exemplificò Alcazele et
Averroe) similmente accade a essi, che come a color che da puerizia e gioventù
sono consueti a mangiar veneno, quai son dovenuti a tale, che se gli è
convertito in suave e proprio nutrimento; e per il contrario abominano le cose
veramente buone e dolci secondo la comun natura. Ma è dignissima, perché è
fondata sopra la consuetudine de mirar la vera luce (la qual consuetudine non
può venir in uso alla moltitudine come è detto). Questa cecità è eroica, et è
tale, per quale degnamente contentare si possa il presente furioso cieco, il
qual tanto manca che si cure di quella, che viene veramente a spreggiare ogni
altro vedere, e da la comunità non vorrebe impetrar altro che libero passagio e
progresso di contemplazione: come per ordinario suole patir insidie, e se gli
sogliono opporre intoppi mortali. La quinta, significata nel quinto, procede
dalla improporzionalità delli mezzi de nostra cognizione al cognoscibile;
essendo che per contemplar le cose divine, bisogna aprir gli occhi per mezzo de
figure, similitudini et altre raggioni che gli Peripatetici comprendono sotto
il nome de fantasmi; o per mezzo de l’essere procedere alla speculazion de
l’essenza: per via de gli effetti alla notizia della causa; gli quali mezzi
tanto manca che vagliano per l’assecuzion di cotal fine, che più tosto è da
credere che siano impedimenti, se credere vogliamo che la più alta e profonda
cognizion de cose divine sia per negazione e non per affirmazione, conoscendo
che la divina beltà e bontà non sia quello che può cader e cade sotto il nostro
concetto: ma quello che è oltre et oltre incomprensibile; massime in questo
stato detto speculator de fantasmi dal filosofo, e dal teologo vision per
similitudine speculare et enigma; perché veggiamo non gli effetti veramente, e
le vere specie de le cose, o la sustanza de le idee, ma le ombre, vestigii e
simulacri de quelle, come color che son dentro l’antro et hanno da natività le
spalli volte da l’entrata della luce, e la faccia opposta al fondo: dove non
vedeno quel che è veramente, ma le ombre de ciò che fuor de l’antro
sustanzialmente si trova. – Però per la aperta visione la quale ha persa, e
conosce aver persa, un spirito simile o meglior di quel di Platone piange
desiderando l’exito da l’antro, onde non per riflessione, ma per immediata
conversione possa riveder sua luce. minutolo Parmi che questo cieco non versa
circa la difficultà che procede dalla vista riflessiva: ma da quella che è
caggionata dal mezzo tra la potenza visiva e l’oggetto. severino Questi doi
modi quantunque siano distinti nella cognizion sensitiva o vision oculare,
tutta volta però concorrenti in uno nella cognizione razionale o intellettiva.
minutolo Parmi aver inteso e letto che in ogni visione si richiede il mezzo
over intermedio tra la potenza et oggetto. Perché come per mezzo della luce
diffusa ne l’aere e la similitudine della cosa che in certa maniera procede da
quel che è visto a quel che vede, si mette in effetto l’atto del vedere: cossì
nella regione intellettuale dove splende il sole dell’intelletto agente
mediante la specie intelligibile formata e come procedente da l’oggetto, viene
a comprendere de la divinità BRUNO (vedasi) l’intelletto nostro o altro
inferiore a quella. Perché come l’occhio nostro (quando veggiamo) non riceve la
luce del foco et oro in sustanza, ma in similitudine: cossì l’intelletto in
qualunque stato che si trove, non riceve sustanzialmente la divinità, onde
sieno sostanzialmente tanti dèi quante sono intelligenze, ma in similitudine;
per cui non formalmente son dèi, ma denominativamente divini, rimanendo la
divinità e divina bellezza una et exaltata sopra le cose tutte. severino Voi
dite bene; ma per vostro dire bene non è mistiero ch’io mi ritratte, perché non
ho detto il contrario: ma bisogna che io dechiare et expliche. Però prima
dechiaro che la visione immediata, detta da noi et intesa, non toglie quella
sorte di mezzo che è la specie intelligibile, né quella che è la luce; ma
quella che è proporzionale alla spessezza e densità del diafano, o pur corpo al
tutto opaco tramezzante: come aviene a colui che vede per mezzo de le acqui più
e meno turbide, o aria nimboso e nebbioso; il quale s’intenderebbe veder come
senza mezzo quando gli venesse concesso de mirar per l’aria puro, lucido e
terso. Il che tutto avete come esplicato dove si dice: Spicche fuor di tanti e
sì densi ripari. Ma ritorniamo al nostro principale. La sesta, significata nel
sequente, non è altrimenti caggionata che dalla imbecillità et insubsistenza
del corpo, il quale è in continuo moto, mutazione et alterazione; e le
operazioni del quale bisogna che seguitino la condizione della sua facultà, la
quale è consequente dalla condizione della natura et essere. Come volete voi
che la immobilità, la sussistenza, la entità, la verità sia compresa da quello
che è sempre altro et altro, e sempre fa et è fatto altri et altrimenti? Che
verità, che ritratto può star depinto et impresso dove le pupille de gli occhi
si dispergono in acqui, l’acqui in vapore, il vapore in fiamma, la fiamma in
aura, e questa in altro et altro, senza fine discorrendo il suggetto del senso
e cognizione per la ruota delle mutazioni in infinito? minutolo Il moto è
alterità, quel che si muove sempre è altro et altro, quel che è tale, sempre
altri et altrimente si porta et opra, per che il concetto et affetto séguita la
raggione e condizione del suggetto. E quello che altro et altro, altri et
altrimenti mira, bisogna necessariamente che sia a fatto cieco al riguardo di
quella bellezza che è sempre una et unicamente, et è l’istessa unità et entità,
identità. severino Cossì è. La settima, contenuta allegoricamente nel
sentimento del settimo cieco, deriva dal fuoco dell’affezzione, onde alcuni si
fanno impotenti et inabili ad apprendere il vero, con far che l’affetto
precorra a l’intelletto. Questi son coloro che prima hanno l’amare che
l’intendere: onde gli avviene che tutte le cose gli appaiano secondo il colore
della sua affezzione; stante che chi vuole apprendere il vero per via di
contemplazione deve essere ripurgatissimo nel pensiero. minutolo In verità si
vede che sì come è diversità de contemplatori et inquisitori per quel che altri
(secondo gli abiti de loro prime e fondamentali discipline) procedeno per via
de numeri, altri per via de figure, altri per via de ordini o disordini, altri
per via di composizione e divisione, altri per via di separazione e
congregazione, altri per via de inquisizion e dubitazione, altri per via de
discorso e definizione, altri per via de interpretazioni e desciferazion de
voci, vocaboli e dialecti: onde altri son filosofi matematici, altri
metafisici, altri logici, altri grammatici; cossì è diversità de contemplatori
che con diverse affezzioni si metteno ad studiare et applicar l’intenzione alle
sentenze scritte: onde si doviene sin a questo che medesima luce di verità
espressa in un medesimo libro per medesime paroli, viene a servire al proposito
di sette tanto numerose, diverse e contrarie. severino Per questo è da dire che
gli affetti molto sono potenti per impedir l’apprension del vero, quantumque
gli pazienti non se ne possano accorrere: qualmente aviene ad un stupido
ammalato che non dice il suo gusto amaricato, ma il cibo amaro. Or tal specie
de cecità è notata per costui, gli occhi del quale son alterati e privi dal suo
naturale, per quel che dal core è stato inviato et impresso, potente non solo
ad alterar il senso, ma et oltre l’altre tutte facultadi de l’alma, come la
presente figura dimostra. Al significato per l’ottavo, cossì l’eccellente
intelligibile oggetto have occecato l’intelletto, come l’eccellente sopraposto
sensibile a costui ha corrotto il senso. Cossì avviene a chi vede Giove in
maestà, che perde la vita, e per conseguenza perde il senso. Cossì avviene che
chi alto guarda tal volta vegna oppresso da la maestà. Oltre quando viene a
penetrar la specie divina, la passa come strale: onde dicono gli teologi il
verbo divino essere più penetrativo che qualsivoglia punta di spada o di
coltello. Indi deriva la formazione et impressione del proprio vestigio, sopra
il quale altro non è che possa essere impresso o sigillato; là onde essendo tal
forma ivi confirmata, e non possendo succedere la peregrina e nova, senza che
questa cieda, conseguentemente può dire che non ha più facultà di prendere
altro, se ha chi la riempie, o la disgrega per la necessaria improporzionalitade.
La nona caggione è notata per il nono che è cieco per inconfidenza, per
deiezzion de spirito, la quale è administrata e caggionata pure da grande
amore, con lo ardire teme de offendere; onde disse la Cantica: Averte oculos
tuos a me, quia ipsi me avolare fecere. E cossì supprime gli occhi da non
vedere quel che massime desidera e gode di vedere; come raffrena la lingua da
non parlare con chi massime brama di parlare, per téma che difetto di sguardo o
difettosa parola non lo avvilisca, o per qualche modo non lo metta in
disgrazia: e questo suol procedere da l’apprensione de l’excellenza de
l’oggetto sopra de la sua facultà potenziale, onde gli più profondi e divini
teologi dicono che più si onora et ama Dio per silenzio, che per parola; come si
vede più per chiuder gli occhi alle specie representate, che per aprirli: onde
è tanto celebre la teologia negativa de Pitagora e Dionisio, sopra quella
demostrativa de Aristotele e scolastici dottori. minutolo Andiamone raggionando
per il camino. severino Come ti piace. fine del quarto dialogo DIALOGO QUINTO
interlocutori Laodomia, Giulia. laodomia Un’altra volta, o sorella, intenderai
quel che apporta tutto il successo di questi nove ciechi, quali eran prima nove
bellissimi et amorosi giovani, che essendo tanto ardenti della vaghezza del
vostro viso, e non avendo speranza de ricevere il bramato frutto de l’amore, e
temendo che tal disperazione le riducesse a qualche final ruina, partironsi dal
terreno della Campania felice, e d’accordo (quei che prima erano rivali) per la
tua beltade giuròrno di non lasciarsi mai sin che avessero tentato tutto il
possibile per ritrovar cosa più de voi bella, o simile al meno; con ciò che
scuoprir si potesse in lei accompagnata quella mercé e pietade che non si
trovava nel vostro petto armato di fierezza: perché questo giudicavano unico
rimedio che divertir le potesse da quella cruda cattivitade. Il terzo giorno
dopo la lor sollenne partita, passando vicini al monte Circeo, gli piacque
d’andar a veder quelle antiquitadi de gli antri e fani di quella dea. Dove
essendo gionti, dalla maestà del luogo ermo, de le ventose, eminenti e fragose
rupi, del mormorìo de l’onde maritime che vanno a frangersi in quelle cavitadi,
e di molte altre circonstanze che mostrava il luogo e la staggione, vennero
tutti come inspiritati; tra’ quali un (che ti dirò), più ardito espresse queste
paroli: Oh se piacesse al cielo che a questi tempi ne si fesse presente, come
fu in altri secoli più felici, qualche saga Circe che con le piante, minerali, veneficii
et incanti era potente di mettere come il freno alla natura: certo crederei che
ella, quantunque fiera, piatosa pur sarebbe al nostro male. Ella molto
sollecitata da nostri supplichevoli lamenti, condiscenderebbe o a darne
rimedio, o ver a concederne grata vendetta contra la crudeltà di nostra nemica.
A pena avea finito di proferir queste paroli, che a tutti si presentò visibile
un palaggio, il quale chiumque have ingegno di cose umane, possea facdmente
comprendere che non era manifattura d’uomo, né di natura: de la figura e
descrizzion de la quale ti dirò un’altra volta. Onde percossi da gran
maraviglia, e tòcchi da qualche speranza che qualche propizio nume (il qual ciò
gli mise avanti) volesse definire il stato de la lor fortuna, dissero ad una voce
che peggio non posseano incorrere che il morire, il quale stimavano minor male
che vivere in tale e tanta passione. Però vi entraro dentro non trovando porta
che fermata gli fosse, o portinaio che gli domandasse raggione; sin che si
ritrovano in una richissima et ornatissima sala, dove in quella regia maestade
(che puoi dire che Apolline fusse stato ritrovato da Fetonte) apparve quella
ch’è chiamata sua figlia; con l’apparir de la quale veddero sparire le imagini
de molti altri numi che gli administravano. Là con grazioso volto accettati e
confortati, si fero avanti: e vinti dal splendor di quella maestade, piegaro le
ginocchia in terra, e tutti insieme con quella diversità de note che gli
dettava il diverso ingegno, esposero gli lor voti alla dea. Dalla quale in
conclusione furono talmente trattati, che ciechi, raminghi et infortunatamente
laboriosi hanno varcati tutti mari, passati tutti fiumi, superati tutti monti,
discorse tutte pianure, per spacio de diece anni; al termine de quali entrati
sotto quel temperato cielo de l’isola britannica, gionti al conspetto de le
belle e graziose ninfe del padre Tamesi, dopoi aver essi fatti gli atti di
conveniente umiltade, et accettati da quelle con gesti d’onestissima cortesia,
uno tra loro, il principale, che altre volte ti sarà nomato, con tragico e
lamentevole accento espose la causa commune in questo modo: Di que’, madonne,
che col chiuso vase si fan presenti, et han trafitt’il core, non per commesso
da natur’ errore, ma d’una cruda sorte ch’in sì vivace morte le tien astretti,
ogn’un cieco rimase. Siam nove spirti che molt’anni, erranti, per brama di
saper, molti paesi abbiam discorsi, e fummo un dì surpresi d’un
rigid’accidente, per cui (se siete attente) direte: O degni, et o infelici
amanti. Un’empia Circe, che si don’il vanto d’aver questo bel sol progenitore,
ne accolse dopo vario e lungo errore; e un certo vase aperse, de le cui acqui
insperse noi tutti, et a quel far giunse l’incanto. Noi aspettand’il fine di
tal opra, eravam con silenzio muto attenti, sin al punto che disse: O voi
dolenti, itene ciechi in tutto; raccogliete quel frutto, che trovan troppo
attenti al che gli è sopra». Figlia e madre di tenebre et orrore – diss’ogn’un
fatto cieco di repente, – dumque ti piacque cossì fieramente trattar miseri
amanti, che ti si fero avanti, facili forse a consecrart’il core?» Ma poi ch’a
i lassi fu sedato alquanto quel subito furor, ch’il novo caso porse, ciascun
più accolto in sé rimaso, mentr’ira al dolor cede, voltossi alla mercede, con
tali accenti accompagnand’il pianto: «Or dumque s’a voi piace, o nobil maga,
che zel di gloria forse il cor ti punga, o liquor di pietà il lenisca et unga,
farti piatosa a noi co’ medicami tuoi, saldand’al nostro cuor l’impressa piaga;
se la man bella è di soccorrer vaga, deh non sia tanto la dimora lunga, che di
noi triste alcun a morte giunga pria che per gesti tuoi possiam unqua dir noi:
tanto ne tormentò, ma più ne appaga». E lei soggiunse: «O curiosi ingegni,
prendete un altro mio vase fatale, che mia mano medesma aprir non vale; per
largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti i numerosi regni:
perché vuol il destin che discuoperto mai vegna, se non quando alta saggezza e
nobil castità giunte a bellezza v’applicaran le mani; d’altri i studi son vani
per far questo liquor al ciel aperto. All’or, s’avvien ch’aspergan le man belle
chiumque a lor per remedio s’avicina, provar potrete la virtù divina: ch’a
mirabil contento cangiand’il rio tormento, vedrete due più vaghe al mondo
stelle. Tra tanto alcun di voi non si contriste, quantumque a lungo in tenebre
profonde quant’è sul firmamento se gli asconde: perché cotanto bene per
quantunque gran pene mai degnamente avverrà che s’acquiste. Per quell’a cui
cecità vi conduce, dovete aver a vil ogn’altro avere, e stimar tutti strazii un
gran piacere; che sperando mirare tai grazie uniche o rare, ben potrete
spreggiar ogni altra luce». Lassi, è troppo gran tempo che raminghe per tutt’il
terren globo nostre membra son ite, sì ch’al fine a tutti sembra che la fiera
sagace di speranza fallace il petto n’ingombrò con sue lusinghe. Miseri, ormai
siam (bench’al tardi) avisti ch’a quella maga, per più nostro male, tenerci a
bada eternamente cale; certo perché lei crede che donna non si vede sott’il
manto del ciel con tanti acquisti. Or benché sappiam vana ogni speranza, cedemo
al destin nostr’e siam contenti di non ritrarci da penosi stenti, e mai
fermando i passi (benché trepidi e lassi) languir tutta la vita che n’avanza.
Leggiadre Nimfe, ch’a l’erbose sponde del Tamesi gentil fate soggiorno, deh,
per dio, non abiate (o belle) a scorno tentar voi anco in vano con vostra
bianca mano di scuoprir quel ch’il nostro vase asconde. Chi sa? forse che in
queste spiaggie, dove con le Nereidi sue questo torrente si vede che cossì
rapidamente da basso in su rimonte riserpendo al suo fonte, ha destinat’il ciel
ch’ella si trove. Prese una de le Ninfe il vase in mano, e senza altro tentare,
offrillo ad una per una, di sorte che non si trovò chi ardisse provar prima: ma
tutte de commun consentimento, dopo averlo solamente remirato, il riferivano e
proponevano per rispetto e riverenza ad una sola; la quale finalmente non tanto
per far pericolo di sua gloria, quanto per pietà e desìo di tentar il soccorso
di questi infelici, mentre dubbia lo contrattava, come spontaneamente s’aperse
da se stesso. Che volete ch’io vi referisca quanto fusse e quale l’applauso de
le Nimfe? Come possete credere ch’io possa esprimere l’estrema allegrezza de
nove ciechi, quando udiro del vase aperto, si sentiro aspergere dell’acqui
bramate, apriro gli occhi e veddero gli doi soli; e trovarono aver doppia
felicitade: l’una della ricovrata già persa luce, l’altra della nuovamente
discuoperta, che sola possea mostrargli l’imagine del sommo bene in terra?
Come, dico, volete ch’io possa esprimere quella allegrezza e tripudio de voci,
di spirto e di corpo, che lor medesimi tutti insieme non posseano esplicare? Fu
per un pezzo il veder tanti furiosi debaccanti, in senso di color che credono
sognare, et in vista di quelli che non credeno quello che apertamente veggono:
sin tanto che tranquillato essendo alquanto l’impeto del furore, se misero in
ordine di ruota, dove: Il primo cantava e sonava la citara in questo tenore: O
rupi, o fossi, o spine, o sterpi, o sassi, o monti, o piani, o valli, o fiumi,
o mari, quanto vi discuoprite grati e cari, ché mercé vostra e merto n’ha
fatt’il ciel aperto: o fortunatamente spesi passi. Il secondo con la mandòra
sua sonò e cantò: O fortunatamente spesi passi, o diva Circe, o gloriosi
affanni; o quanti n’affligeste mesi et anni, tante grazie divine, se tal è
nostro fine dopo che tanto travagliati e lassi. Il terzo con la lira sonò e
cantò. Dopo che tanto travagliati e lassi, se tal porto han prescritto le
tempeste, non fia ch’altro da far oltre ne reste che ringraziar il cielo
ch’oppose a gli occhi il velo, per cui presente al fin tal luce fassi. Il
quarto con la viola cantò: Per cui present’al fin tal luce fassi, cecità degna
più ch’altro vedere, cure suavi più ch’altro piacere; ch’a la più degna luce vi
siete fatte duce: con far men degni oggetti a l’alma cassi. Il quinto con un
timpano d’Ispagna cantò: Con far men degni oggetti a l’alma cassi, con condir
di speranza alto pensiero, fu chi ne spinse a l’unico sentiero, per cui a noi
si scuopra de Dio la più bell’opra: cessi fato benigno a mostrar vassi. Il
sesto con un laùto cantò: Cossì fato benigno a mostrar vassi; perché non vuol
ch’il ben succeda al bene, o presagio di pene sien le pene; ma svoltando la
ruota, or inalze, ora scuota: com’a vicenda il dì e la notte dassi. Il settimo
con l’arpa d’Ibernia: Come a vicenda, il dì e la notte dassi, mentr’il gran
manto de faci notturne scolora il carro de fiamme diurne: talmente chi governa
con legge sempiterna supprime gli eminenti, e inalz’ i bassi. L’ottavo con la
viola ad arco: Supprime gli eminenti, e inalza i bassi, chi l’infinite machini
sustenta: e con veloce, mediocre e lenta vertigine dispensa in questa mole
immensa quant’occolto si rende e aperto stassi. Il nono con una rebecchina:
Quant’occolto si rend’e aperto stassi, o non nieghi, o confermi che prevagli
l’incomparabil fine a gli travagli campestri e montanari de stagni, fiumi,
mari, de rupi, fossi, spine, sterpi, sassi. Dopo che ciascuno in questa forma
singularmente sonando il suo instrumento ebbe cantata la sua sestina, tutti
insieme ballando in ruota e sonando in lode de l’unica Nimfa con un soavissimo
concento canta- rono una canzona, la quale non so se bene mi verrà a la
memoria. giulia Non mancar (ti priego, sorella) di farmi udire quel tanto che
ti potrà sovvenire. laodomia Canzone de gl’illuminati «Non oltre invidio, o
Giove, al firmamento,» dice il padre Oceàn col ciglio altero, «se tanto son
contento per quel che godo nel proprio impero; Che superbia è la tua? Giove
risponde, alle ricchezze tue che cosa è gionta? o dio de le insan’onde, perché
il tuo folle ardir tanto surmonta?» «Hai,» disse il dio de l’acqui, «in tuo
potere il fiammeggiante ciel, dov’è l’ardente zon’, in cui l’eminente coro de
tuoi pianeti puoi vedere. Tra quelli tutt’il mondo admira il sole, qual ti so
dir che tanto non risplende quanto lei che mi rende più glorioso dio de la gran
mole. Et io comprendo nel mio vasto seno tra gli altri quel paese, ove il
felice Tamesi veder lice, ch’ha de più vaghe ninfe il coro ameno. Tra quelle
ottegno tal fra tutte belle, i per far del mar più che del ciel amante te Giove
altitonante, cui tanto il sol non splende tra le stelle»; Giove responde: O dio
d’ondosi mari, ch’altro si trove più di me beato non lo permetta il fato; ma
miei tesori e tuoi corrano al pari. Vagl’il sol tra tue ninfe per costei; e per
vigor de leggi sempiterne, de le dimore alterne, costei vaglia per sol tra gli
astri miei». Credo averla riportata interamente tutta. giulia Il puoi
conoscere, perché non vi manca senten- za che possa appartener alla perfezzion
del proposito; né rima che si richieda per compimento de le stanze. Or io, se
per grazia del cielo ottenni d’esser bella, maggior grazia e favor credo che mi
sia gionto: perché qualumque fusse la mia beltadel è stata in qualche maniera
principio per far discuoprir quell’unica e di- vina. Ringrazio gli dèi, perché
in quel tempo che io fui sì verde, che le amorose fiamme non si posseano
accendere nel petto mio, mediante la mia tanto restia quanto semplice et
innocente crudeltade, han preso mezzo per concedere incomparabilmente grazie
mag- giori a’ miei amanti, che altrimenti avessero possute ottenere per
quantunque grande mia benignitade. laodomia Quanto a gli animi di quelli
amanti, io ti as- sicuro ancora, che come non sono ingrati alla sua ma- ga
Circe, fosca cecitade, calamitosi pensieri et aspri travagli, per mezzo de
quali son gionti a tanto bene: cossì non potranno di te esser poco ben
riconoscenti. giulia Cossì desidero, e spero. Grice: Agostino da Norcia used to
quote from Benedetto da Norcia’s emblematic maxim, praise the lord AND WORK –
it rymes in Italian: ORA e LABORA --. Not
to be confused with “Benedetto da Norcia”. Agostino da Perugia. Agostino da
Norcia. Norcia. Agostino Colizzi. Giovanni Colizzi. Colizzi. Keywords:
implicatura, “De amore fundamenta mundis ac ethicae”, eretici italiani,
ortodossi italiani, dell’infinito,
universo e mondi, praxis descensus application entis, amore – l’amore come
fondamento del mondo, l’amore come fondamento dalla morale -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Colizzi” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Colli: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’espressione – scuola
di Torino –filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo
italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I love Colli – his ‘filosofia
dell’espressione’ is much more serious than my ramblings, well meant, though,
on Peirce! I was only trying to be fashionable! At Oxford, they loved my
lecture on ‘meaning,’ which got me into ‘implying,’ and eventually,
‘expressing.’ – My unity developed – Colli was born with it!” Insegna a Pisa. Di
una facoltosa famiglia, il padre amministra “La Stampa”, incarico dal quale fu
poi estromesso all'indomani della marcia su Roma, su ordine di Mussolini.
Studia a Torino, laureandosi sotto Solari con “Politicità ellenica e Platone”.
Scorse nella tradizione filosofica classica greco-romana l'autentico
"logos" a cui ritornare. Lo stile di scrittura, profondo e
costellato di aforismi taglienti, si caratterizza da un'attenzione maniacale
alla musicalità del discorso. Questa dote musicale emerge con chiarezza dalle
letture di alcuni passi di Colli recitati da Bene. Il suo saggio principale è
“Filosofia dell'espressione” che fornisce, mediante una complessa teoria delle
categorie e della deduzione, un'interpretazione della totalità della manifestazione
come “espressione” di qualcosa (l'immediatezza) che sfugge alla presa della
conoscenza. Comunque, ritiene che sia possibile riguadagnare il fondamento
metafisico del mondo portando il discorso filosofico ai suoi estremi limiti e
"(di)mostrando" la natura derivata del logos. Importante il suo
contributo su i filosofi italici Gorgia, Zenone, e Girgentu, e le figure di
Bacco ed Apollo, dismisura e misura. Al tentativo di interpretare gli enigmi di
questi culti a-logici, fra i quali quelli oracolari, viene fatta risalire
l'origine remota della dialettica. Altre opere: “Filosofia dell'espressione” (Adelphi,
Milano); “Dopo Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La nascita della filosofia.
Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo,
Iperborei, Enigma” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Epimenide, Ferecide,
Talete, Anassimandro, Anassimene, Onomacrito” (Adelphi, Milano); “La sapienza
greca”; “Eraclito” (Adelphi, Milano); “Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La ragione
errabonda” (Adelphi, Milano); “Per una enciclopedia di autori classici” (Adelphi,
Milano); “La Natura ama nascondersi” (Adelphi, Milano); “Zenone di Velia” (Adelphi,
Milano); “Gorgia e Parmenide” (Adelphi, Milano); “Introduzione a Osservazioni
su Diofanto di Pierre de Fermat. Bollati Boringhieri, Torino); “Platone
politico” (Adelphi, Milano); “Il sovro-umano” (Adelphi, Milano); “Apollineo e
dionisiaco” (Adelphi, Milano); “Girgentu” (Adelphi, Milano); “Platone: la lotta
dello spirito per la potenza, Einaudi, Torino); Da Hegel a Nietzsche, Einaudi,
Torino); Organon, Einaudi, Torino); Critica della ragion pura, a cura e tr. di
Giorgio Colli, Einaudi, Torino); “Simposio” (Adelphi, Milano); Parerga e
paralipomena” (Adelphi, Milano); Nietzsche (Classici Adelphi) Scritti giovanili; La nascita della tragedia;
Considerazioni inattuali; La filosofia nell'epoca tragica dei Greci; Frammenti
postumi; Wagner a Bayreuth; Considerazioni inattuali, Umano, troppo umano,
Aurora; Idilli di Messina; Così parlò Zarathustra; Al di là del bene e del
male; Genealogia della morale; Wagner; Crepuscolo degli idoli; L'anticristo; Ecce
homo; Nietzsche contra Wagner, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume;
Epistolario (Adelphi, Milano); Sull'utilità e il danno della storia per la vita
(Adelphi, Milano); Sull'avvenire delle nostre scuole” (Adelphi, Milano); La mia vita (Adelphi, Milano); La nascita
della tragedia” Adelphi, Milano); L'uomo di fede e lo scrittore, Adelphi,
Milano); Schopenhauer come educatore, tr. di Mazzino Montinari, Adelphi,
Milano); “Lettere da Torino” (Adelphi, Milano); “Il servizio divino dei greci”
(Adelphi, Milano); Lo Specchio di Dioniso” (Dedalo, Bari); Dizionario
biografico degli italiani, Implicazioni estetiche
in C.; Misura e dismisura. Per una rappresentazione di C., ERGA, Genova);
L’enigma greco; Apollineo e dionisiaco in C., in Clemente Tafuri e David
Beronio, Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, vol II,
AkropolisLibri, Genova); I Greci: annotazioni su alcune traduzioni, in
"Episteme", Mimesis Edizioni, Milano); Il Girgentu di Colli, Luca
Sossella Editore, Roma. Wikipedia Ricerca Prosimno pastore della
mitologia greca Lingua Segui Modifica Prosimno o Polimno (Πρόσυμνος/Πόλυμνος)
nella mitologia greca era un pastore che viveva nei pressi del sacro lago di
Lerna (in Argolide, sulla costa del golfo di Argo), reputato essere senza fondo
e pertanto assai pericoloso per tutti quelli che vi si volevano avventurare in
acqua. Quando il dio del vino Dioniso andò nell'Ade per salvare sua madre
Semele, Prosimno lo guidò verso l'ingresso - conducendolo nella sua barca a
remi - posto al centro del lago. Il premio richiesto da Prosimno per questo
servizio sarebbe stato il diritto a giacere con il giovane Dio. Tuttavia,
quando Dioniso tornò sulla terra per una strada diversa, trovò che Prosimno era
nel frattempo morto. Dioniso volle comunque mantenere la sua promessa;
intagliò un pezzo di legno di ficus a forma di falloutilizzandolo per adempiere
ritualmente all'accordo che aveva in precedenza stipulato con Prosimno: si
posizionò sulla sua tomba e ci si sedette sopra, auto-sodomizzandosi. Questo,
si dice, è stato dato come spiegazione della presenza di falli di legno di fico
tra gli oggetti segreti che venivano "rivelati" nel corso dei Misteri
dionisiaci. Questa storia non è raccontata in pieno da una delle consuete
fonti di racconti mitologici greci, anche se molti di loro accennano ad essa.
Il fatto si è ricostruito sulla base di dichiarazioni di autori cristiani;
questi devono essere trattati quindi con riserva in quanto il loro obiettivo
era essenzialmente quello di screditare la mitologia pagana[1]. Riti
notturni annuali hanno avuto luogo presso il lago sacro, sulle rive della
palude alcionia, ancora in età classica; Pausania il Periegeta si rifiuta però
di descriverceli. Il mito di Prosimno è stato studiato da Bernard
Sergentin "L'omosessualità nella mitologia greca", ristampato nella
sua "Omosessualità e iniziazione tra i popoli indo-europei". Questo mito
è comunque considerato essere il risultato dell'importanza del simbolismo
fallico all'interno del culto dionisiaco. Igino, Astronomy; Clemente di
Alessandria, Protreptikos; Arnobio, Against the Gentiles; Dalby, Pausania,
Guide to Greece; Plutarco, Iside e Osiride 35; Dalby, Dionisio-Baco, su
geocities.com Mitos del cielo: Dioniso, su mitosdelcielo.iespana. Susana
Quintanilla, Dioniso en México o cómo leyeron nuestros clásicos a los clásicos
griegos. De op. cit.: Calasso "Las bodas de Cadmo y Harmonía",
Barcelona, Anagrama( PDF ) [collegamento interrotto], su redalyc.uaemex. Dalby,
The Story of Bacchus, London, British Museum Press, Pederastia Pederastia greca
Temi LGBT nella mitologia FontiModifica Arnobio, Contro i pagani, Clemente di
Alessandria, Esortazione ai Greci (Protrettico). Igino, Astronomia. Pausania,
Descrizione della Grecia, Plutarco, Iside e Osiride. Portale LGBT
Portale Mitologia greca Dioniso dio greco del vino, della vendemmia, dei
teatri, della fertilità e dell'ubriachezza Canopo (mitologia) Pederastia
tebana. Che l'esclusione di queste potenze ben presenti e Bi distinte
dalla comunità delle figure dominanti, ed .il sus É sistere della loro
venerabilità, pur tacendo .la vastità É e profondità loro e più ch’ogni
altra cosa, l’orrendo fi mistero del loro essere, provengano da una
particola rissima valutazione e da una volontà risoluta, si app*
lesa evidentissimo nella figura dominante di tutto que sto ciclo:
Dioniso. La sua virilità, come osserva .J. J. Bachhofen in modo
eccellente, trascina irresistibilmente seco. l’eterno femminino di questa
sfera e ne rimane assolutamente presa. Il suo spirito s’arroventa
nell’inebriante beveraggio, che venne chiamato il sangue della terra. Istinti
elementari, frenesie, dissolvimenti della co- scienza nello sconfinato,
assalgono tempestosamente i suoi adoratori e agli estasiati si schiudon i
tesori del regno. terrestre. Anche intorno a Dioniso accorrono i morti,
che lo seguono a ‘primavera quand’egli porta i fiori. Amore e
selvaggia ebbrezza, gelidi brividi e beatitudini si ten- gon per mano e
gli fan corteo; ciascuno degli antichis- simi tratti essenziali della
divinità della Terra son in lui accresciuti a dismisura," ma pure
infinitamente ap- profonditi, Questa figura divina che tutto trascina
con sè è ben nota ad Omero, che chiama il dio « forsennato >, e
ha vivo davanti agli occhi l’andar selvaggio delle sue accompagnatrici
che agitano il tirso. Ma tutto. ciò non è che similitudine, come quando
paragona ad una Menade Andromaca, la quale presa da oscuro presentimento
si precipita fuor dalle sue stanze (Iliade; cfr. Inno Omer. a
Dem.), come pure quando occasional- mente narra memorabili storie
(Iliade.; Odissea). Nel vivo mondo di Omero le Menadi non trovan posto e
pure invano si cerca Dioniso, che non vi ha parte veruna. Dioniso «
dispensator di gioia » (Esio- do, Erga 614) gli è altrettanto estraneo
quanto l’uomo doloroso annunziatore dell’al di là. L’eccesso, che gli
è proprio, non s’accorda con la chiarezza che contraddi- stingue
qui tutto ciò ch’è realmente divino. Da questa chiarezza sono assai
lontane anche le al- tre figure del ciclo della Terra. Sian pure
intessute. di dolcissimo incanto, e portin sulla fronte la più
sublime gravità. Il sapere e la sacra legge stanno loro al fianco.
Ma sono.legate alla materia terrestre e partecipano della sua oscura
pesantezza e necessità. La loro benevolenza è quella dell’elemento
materno, ed il loro diritto ha la rigidità di tutti i legami del sangue.
Tutte arrivano nella notte della morte, o meglio: la morte ed il
passato risalgono grazie a loro nel presente e nell’esistenza dei
viventi. Non v'è un ritrarsi dal teatro del mondo, nè il trapassare
dall’esistenza oggettiva in una sfera inferiore nè una liberazione del
campo di vita e d’azione da ciò che una volta fu. Tutto ciò che fu rimane
per sempre, ed. eleva la sua esigenza, sempre con la medesima ron.
cretezza, dalla quale non c’è via di scampo. Ed è solo una conferma di
codesto carattere, il predominio ch’'ha nel mondo delle divinità di
questa sfera, il sesso femmi. nile. Nella cerchia celeste della religione
omerica invece sì trae in disparte in modo tale, che non può essere
casuale. Gli dèi che dominano colà, non solo: son di sesso maschile,
sibbene rappresentano decisamente lo spirito virile. Ed anche quando
Atena si unisce ad Apollo e-a Zeus in suprema trinità, è lei a rinnegare
esplicitamente il femmineo e a farsi genio del mascolino. I -m
Dirisioti ^LT^b !-' 0' 25outonV %tt^^\t Hitiratp. THE ELEUSINIAN AND BACCHIC
MYSTERIES. A DISSERTATION. TAYLOR, TXANSL4TOH OF PLATO. PLOTINTJS,"
POEPITIllY," lAMBLICHCS." "PEOCI-nS,' ABISTOTLE,"
ETC., ETC. EDITED, WITH INTRODUCTION, NOTES, EMENDATIONS, AND GLOSSARY. WILDER.
Ev Tats TEAETAI2 KaOapcrei'; rjyoyi'Tai (cai ncpip- pai'TTjpia (Cat
ayviiTfjiOL, a nof (v aTTOpprjToi; Spuiixeviav, (tat TT)! TOD Oeiov
|U.€T0U(rias yviJifauiiaTa etaiv. Pkoclus ; Manuscript Commentary
upon Plato, I. AMbiadet. WITH 85 ILLUSTRATIONS RAWSON. by BulI TDN. The
DeVinne Press. TO MY OLD FRIEND ^cniarti OSuatitcl)
THE GREATEST BOOKSELLER OF ANCIENT OR MODERN TIMES CbiB
Dolttme is reBpcctfuIl? Jeiiicateli BY THE PUBLISHER Bacchic
Ceremonies. Bacchus ami Nymphs. Pluto, Prosevpiua, aud Furies. Eleusinian Prieatesses.
Bacchante and Faun. Faun and Bacchus. Fable is Love's World, Poem by Schiller. Eleusinian
Mysteries. Bacchic Mysteries. Hymn to Minerva; Orphic Hymns. Hymn of
Cleanthes Klensiiiiiiii Mj'steriea. '"Tis not merely The human
breing's pride that peoples space With life and mystical
predominance, Since likewise for the stricken heart of Love This
visible nature, and this common world Is all too narrow ; yea, a deeper
import Lurks in the legend told my infant years That lies upon that
truth, we live to learn, For fable is Love's world, his home, his
birthplace ; Delightedly he dwells 'mong fays and talismans, And
spirits, and delightedly believes Divinities, being himself divine.
The intelligible forms of ancient poets. The fair humanities of Old
Religion, The Power, the Beauty, and the Majesty, That had their
haunts in dale or piny motmtain, Or forests by slow stream, or pebbly
spring. Or chasms or wat'ry depths;
all these have vanished. They live no longer in the faith of Eeason,
But still the heart doth need a language ; still Doth the old instinct
bring back the old names. Schiller : The Piccolomini Apollo autl
Muaes. ITolM.'tll.MlS. In offering- to the public Taylor's admirable
treatise upon the Elensiidan and Bacchic Mysteries, it is proper to
insert a few words of explanation. These observances once represented the
spiritual life of (Ireeee, and were considered for two thousand years and
more the appointed means for regeneration through an interior union with
the Divine Essence. However absurd, or even offensive they may seem
to us, we should therefore hesitate long before we venture to lay desecrating
hands on what others have esteemed holy. We can learn a valuable
lesson in this regard from the Roman philosophers, who had learned to
treat the popular religious rites with mirth, but always considered the
Eleusinian Mysteries with the deepest reverence. It is ignorance
which leads to profanation. Men ridicule what they do not properly
understand. Alcibiades was drunk when he ventured to touch what
his countrymen deemed sacred. The undercurrent of this worhl is set
toward one goal; and inside of human credulity call it human weakness, if you please is
a power almost infinite, a holy faith capa))le of apprehending the
siipremest truths of all Existence. The veriest dreams of life,
pertaining as they do to " the minor mystery of death," have in
them more than external fact can reach or explain; and Myth, however much
she is proved to be a child of Earth, is also received among men as the
child of Heaven. The Cinder- Wench of the ashes will become the
Cinderella of the Palace, and be wedded to the King's Son. The
instant that we attempt to analyze, the sensible, palpable facts upon
which so many try to build disappear beneath the surface, like a foundation
laid upon quicksand. " In the deepest reflections," says a
distinguished writer, '' all that we call external is only the material
basis upon which our dreams are built; and the sleep that surrounds life
swallows up life, all but a dim
wreck of matter, floating this way and that, and forever evanishing from
sight. Complete the analysis, and we lose even the shadow of the external
Present, and only the Past and the Future are left us as our sure
inheritance. This is the first initiation,
the vailing [mnesis] of the eyes to the external. But as epo])fm,
by the synthesis of this Past and Future in a living nature, we obtain a
higher, an ideal Present, comprehending within itself all that can
be real for us within us or without. This is the second initiation in
which is uuvailed to us the Present as a new birth from our own life.
Thus the great problem of Idealism is symbolically solved in the
Eleusinia. These were the most celebrated of all the sacred orgies, and
were called, by way of eminence. The Mysteries. Although exhibiting
apparently the features of an Eastern origin, they were evidently copied
from the rites of Isis in Egypt, an idea of which, more or less correct,
may be found in The Mefamotyhoses of APULEIO and The Epicurean by Moore.
Every act, rite, and person engaged in them was symbolical; and the
individual revealing them was put to death without mercy. So also was any
uninitiated person who happened to be present. Persons of all ages and
both sexes were initiated; and neglect in this respect, as in the
case of Socrates, was regarded as impious and atheistical. It was
required of all candidates that they should be first admitted at the
MiJo'a or Lesser Mysteries of Agree, by a process of fasting called
^j«f/'/ficafion, after which they were styled mysfce, or initiates. A year
later, they might enter the higher degree. In this they learned the
aporrheta, or secret meaning of the rites, and were thenceforth denominated
ephori, or epoptm. To some of the interior mysteries, however, only
a very select number obtained admission. From these were taken all the
ministers of holy rites. The Hierophant who presided was bound to
celibacy, and requii'ed to devote his entire life to his sacred
office. Atlantic Monthly, He had three assistants, the torch-bearer, the lierux or crier,
and the minister at the altar. There were also a hasileus or king, who
was an archon of Athens, four curators, elected by suffrage, and ten to
offer sacrifices. The sacred Orgies were celebrated on every fifth
year; and began on the 15th of the month Boedromiau or September. The
first day was styled the agurmos or assembly, because the worshipers then
convened. The second was the day of purification, called also alacU
mystaij from the proclamation : ''To the sea, initiated ones ! " The
third day was the day of sacrifices; for which purpose were offered a
mullet and barley from a field in Eleusis. The officiating persons were
forbidden to taste of either; the offering was for Achtheia (the
sorrowing one, Demeter) alone. On the fourth day was a solemn procession.
The JcalafJios or sacred basket was borne, followed by women, ciske or
chests in which were sesamum, carded wool, salt, pomegranates,
poppies, also thyrsi, a serpent, boughs
of ivy, cakes, etc. The fifth day was denominated the day of
torches. In the evening were torchlight processions and much
tumult. The sixth was a great occasion. The statue of
lacchus, the son of Zeus and Demeter, was brought from Athens, by the
laccJiogoroi, all crowned with myrtle. In the way was heard only an
uproar of singing and the beating of brazen kettles, as the votaries
danced and ran along. The image was borne " through the sacred Gate,
along the sacred way, halting by the sacred fig-tree (all sacred, mark
you, from Eleiisinian associations), where the procession rests, and
then moves on to the bridge over the Cephissns, where again it
rests, and where the expression of the wildest grief gives place to the
trifling farce, even as Demeter,
in the midst of her grief, smiled at the levity of lambe in the
palace of Celeus. Through the 'mystical entrance ' we enter Eleusis. On the
seventh day games are celebrated; and to the victor is given a
measure of barley, as it were a
gift direct from the hand of the goddess. The eighth is sacred to
^sculapius, the Divine Physician, who heals all diseases; and in
the evening is performed the initiatory ritual. " Let us
enter the m3\stic temple and be initiated, though it must be supposed
that, a year ago, we were initiated into the Lesser Mysteries at Agrae.
We must have been mystm (vailed), before we can become epoptce
(seers); in plain English, we must have shut our eyes to all else before
we can behold the mysteries. Crowned with myrtle, we enter with the other
initiates into the vestibule of the temple, blind as yet, but the Hierophaut within
will soon open our eyes. But first, for
here we must do nothing rashly, first we must wash in this holy water;
for it is with pure hands and a pure heart that we are bidden to
enter the most sacred enclosure [(xu(rTuoff (f-nxog, tnusfijios seJcos].
Then, led into the presence of the Hierophaut, In the Oriental countries the
designation nns Peter (an interpreter), appears to have been the title of this
personage; and he reads to us, from a book of stone [jreTpajfjia,
petroma]^ tliiuii's which we must not divulge on pain of death. Let
it suffice that they fit the place and the occasion; and though you might
laugh at them, if they were spokiMi outside, still you seem very far from
that mood now, as you hear the words of the old man (for old he he
always was), and look upon the revealed symbols. And very far, indeed,
are you from ridicule, when Demeter seals, by her own peculiar utterance
and signals, by vivid coruscations of light, and cloud piled upon cloud,
all that we have seen and heard from her sacred priest; and then,
finally, the light of a serene wonder fills the temple, and we see the
pure fields of Elysium, and hear the chorus of the Blessed; then, not merely by external seeming or
philosophic interpretation, but in real fact, does the Hierophant become
the Creator [(hi-^'ovpyo;, demiourgos] and revealer of all things; the
Sun is but his torch-bearer, the Moon his attendant at the altar, and Hermes
his mystic herald * [>c7]pu|, kerux]. But the final word has been
uttered ' Conx Om pax.' The rite is consummated, and we are vpoptit
forever ! " Those who are curious to know the myth on which
the petroma consisted, notably enougli, of two tablets of stone.
There is in these facts some reminder of the peculiar circumstances of the
Mosaic Law which was so preserved; and also of the claim of the Pope to
be the successor of Peter, the hierophant or interpreter of the Christian
religion. * Porphyry. Introduction. 19 the
" mystical drama " of the Eleusinia is founded will find it in
any Classical Dictionary, as well as in these pages. It is only pertinent
here to give some idea of the meaning. That it was regarded as profound
is evident from the peculiar rites, and the obligations imposed on every
initiated person. It was a reproach not to observe them. Socrates was
accused of atheism, or disrespect to the gods, for having never been
initiated.* Any person accidentally guilty of homicide, or of any
crime, or convicted of witcihcraft, was excluded. The secret doctrines,
it is supposed, were the same as are expressed in the celebrated Hymn of
Cleanthes. The philosopher Isocrates thus bears testimony : " She
[Demeter] gave us two gifts that are the most excellent; fruits, that we may
not live like beasts; and that initiation
those who have part in which have sweeter hope, both as regards
the close of life and for all eternity." In like manner, Pindar also
declares : " Happy is he who has beheld them, and descends into the
Underworld: he knows the end, he knows the origin of life." The
Bacchic Orgies were said to have been instituted, Ancient Sijmhol-Worsliip.
"Socrates was not initiated, yet after drinking the hemlock, he
addressed Crito : ' We owe a cock to ^sculapius.' This was the peculiar
offering made by initiates (now called kerJcnophori) on the eve of the
last day, and he thus symbolically asserted that he was about to receive
the great apocalypse. See, also, " Progress of Religious Ideas,"
by Child; and " Discourses on the Worship of Priapus," by
EiCHARD Payne Knight. or iiy)re probably reformed T)y Orpheus, a
mythical personage, supposed to have flourished in Thrace.* The
Orphic associations dedicated themselves to the worship of Bacchus, in
which they hoped to find the gratification of an ardent longing after the
worthy and elevating influences of a religious life. The worshipers
did not indulge in unrestrained pleasure and frantic enthnsiasni, but
rather aimed at an ascetic purity of * Euripides : Ehaesns.
"Orpheus showed forth the rites of the hidden Mysteries."
Plato : ProUifforas. The art of a sophist or sage is ancient, but
tlie men who proposed it in ancient times, fearing the odium attached to
it, sought to conceal it, and vailed it over, some under the garb of
poetry, as Homer, Hesiod, and Simonides : and others under that of the
Mysteries and prophetic manias, such as Orpheus, Musseus, and their
followers." Herodotus takes a different view ii. 49. "Melampus, the son of
Amytheon," he says, "introduced into Greece the name of
Dionysus (Bacchus), the ceremonial of his worship, and the procession of the
phallus. He did not, however, so completely apprehend the whole doctrine as to
be able to communicate it entirely : but various sages, since his time,
have carried out his teaching to greater perfection. Still it is certain
that Melampus introduced the phallus, and that the Greeks learnt from him
the ceremonies which they now practice. I therefore maintain that
Melampus, who was a sage, and had acquired the art of divination, having become
acquainted with the worship of Dionysus tln-ough knowledge derived from
Eg>ijt, introduced it into Greece, with a few slight changes, at the
same time rhat he brought in various other practices. For I can by no
means allow that it is by mere coincidence that the Bacchic ceremonies in
Greece are so nearly the same as the Egyptian. y r^isi
Etruscan Kleusiniau Ci-renionies. life and manners. The worship of
Dionysus \yas the center of their ideas, and the starting-point of all
their speculations upon the world and human nature. They believed
that human souls were confined in the body as in a prison, a condition
which was denominated genesis or generation; from which Dionysus would
liberate them. Their sufferings, the stages by which they passed to
a higher form of existence, their lafharsis or purification, and their
enlightenment constituted the themes of the Orphic writers. All this was
represented in the legend which constituted the groundwork of the
mystical rites. Dionysus-Zagreus was the son of Zeus, whom he
had begotten in the form of a dragon or serpent, upon the person of
Kore or Persephoneia, considered by some to have been identical with
Ceres or Demeter, and by others to have been her daughter. The former
idea is more probably the more correct. Ceres or Demeter was called
Kore at Cnidos. She is called Phersephatta in a fragment by Psellus, and
is also styled a Fury. The divine child, an avatar or incarnation of
Zeus, was denominated Zagreus, or Chakra (Sanscrit) as being
destined to universal dominion. But at the instigation of Hera* the
Titans conspired to murder him. Ac * Hera, generally regarded as the Greek
title of Juno, is not the definite name of any goddess, but was used by
ancient writers as a designation only. It signifies doniina or lady, and
appears to be of Sanscrit origin. It is applied to Ceres or Demeter, and
other divinities. cordingly, one day while he was contemplating a
mirror,* they set upon him, disguised under a coating of plaster, and
tore him into seven parts. Athena, however, rescued from them his heart, which
was swallowed by Zeus, and so returned into the paternal substance,
to be generated anew. He was thus destined to be again born, to succeed
to universal rule, establish the reign of happiness, and release all
souls from the dominion of death. The hypothesis of Mi-.
Taylor is the same as was maintained by the philosopher Porphyry, that
the Mysteries constitute an illustration of the Platonic *
The mirror was a part of the symbolism of the Thesmophoria, and was iised
in the search for Atmu, the Hidden One, evidently the same as Tammuz,
Adonis, and Atys. See Exodus xxxviii. 8; 1 Samuel ii. 22; and Esekiel
viii. 14. But despite the assertion of Herodotus and others that the
Bacchic Mysteries were in reality Egyptian, there exists strong
probability that they came originally from India, and were Sivaic or
Buddhistical. Core-Persephoneia was but the goddess Parasu-pani or
Bhavani, the patroness of the Thugs, called also Goree; and Zagi'eus is
from Chakra, a country extending from ocean to ocean. If this is a
Turanian or Tartar Story, we can easily recognize the "Horns"
as the crescent worn by lama-priests : and translating god-names as
merely sacerdotal designations, assume the whole legend to be based on a
tale of Lama Succession and transmigration. The Titans would then
be the Daityas of India, who were opposed to the faith of the northern
tribes; and the title Dionysus but signify the god or chiefpriest of Nysa, or
Mount Meru. The whole story of Orpheus, the institutor or rather the
reformer of the Bacchic rites, has a Hindu ring all through. FILOSOFIA.
At first sight, this may l)e hard to believe; but we must know that no
pageant could hold place so long, without an under-meaning. Indeed,
Herodotus asserts that " the rites called Orphic and Bacchic are
in reality Egyptian and Pythagorean. The influence of the doctrines
of Pythagoras upon the Platonic system is generally acknowledged. It is
only important in that case to understand the great philosopher correctly;
and we have a key to the doctrines and symbolism of the Mysteries.
The first initiations of the Eleusinia were called Telefce or
terminations, as denoting that the imperfect and rudimentary period of
generated life was ended and purged off; and the candidate was
denominated a mijsfa, a vailed or liberated person. The GreaterMysteries
completed the work; the candidate was more fully instructed and
disciplined, becoming an epopta or seer. He was now regarded as having
received the arcane principles of life. This was also the end
sought by philosophy. The soul was believed to be of composite nature,
linked on the one side to the eternal world, emanating from God, and so
partaking of The Divine (IL DIVINO). On the other hand, it was also allied to
the phenomenal or external world, and so liable to be subjected to
passion, lust, and the bondage of evils. This condition is denominated
genemtion; and is supposed to be a kind of death to the higher form of
life. Evil is inherent in this condition; and the soul dwells *
Herodotus: ii. 81 in the body as in a prison or a grave. In this state,
and previous to the discipline of education and the mystical initiation,
the rational or intellectual element, which Paul denominates the
spiritual, is asleep. The earthlife is a dream rather than a reality. Yet it
has longings for a higher and nobler form of life, and its
affinities are on high. "All men yearn after God," says Homer.
The object of Plato is to present to us the fact that there are in the
soul certain ideas or principles, innate and connatural, which are not derived
from without, but are anterior to all experience, and are developed and
brought to view, but not produced by experience. These ideas are the most
vital of all truths, and the purpose of instruction and discipline
is to make the individual conscious of them and willing to be led and
inspired b}^ them. The soul is purified or separated from evils by
knowledge, truth, expiations, sufferings, and prayers. Our life is
a discipline and preparation for another state of being; and resemblance
to God is the highest motive of action.* * Many of the early
Christian writers were deeply imbued with the Eclectic or Platonic
doctrines. The very forms of speech were almost identical. One of the
four Gospels, bearing the title " according to John,'''' was the evident
product of a Platonist, and hardly seems in a considerable degree Jewish
or historical. The epistles ascribed to Paul evince a great familiarity
with the Eclectic philosophy and the peculiar symbolism of the Mysteries,
as well as with the Mithraic notions that had penetrated and
permeated the religious ideas of the western countries. Proclus does
not hesitate to identify the theological doctrines with the mystical
dogmas of the Orphic system. He says : '' What Orpheus delivered in
hidden allegories, Pythagoras learned when he was initiated into
the Orphic Mysteries.; and Plato next received a perfect knowledge of
them from the Orphean and Pythagorean writings." Mr.
Taylor's peculiar style has been the subject of repeated criticism; and
his translations are not accepted by classical scholars. Yet they have
met with favor at the hands of men capable of profound and
recondite thinking; and it must be conceded that he was endowed
with a superior qualification, that of
an intuitive perception of the interior meaning of the subjects which he
considered. Others may have known more Greek, but he knew more Plato. He
devoted his time and means for the elucidation and dissemination of the
doctrines of the divine philosopher; and has rendered into English not
only his writings, but also the works of other authors, who affected the
teachings of the great master, that have escaped destruction at the hand
of Moslem and Christian bigots. For this labor we cannot be too
grateful. The present treatise has all the peculiarities of
style which characterize the translations. The principal difficulties of
these we have endeavored to obviate a
labor whicli will, we trust, be not unacceptable to readers. The
book has been for some time out of print; and no later writer has
endeavored to replace it. There are many who still cherish a regard,
almost amounting to veneration, for the author; and we hope that this
reproduction of his admirable explanation of the nature and object of the
Mysteries will prove to them a welcome undertaking. There is an
increasing interest in philosophical, mystical, and other antique literature,
which will, we believe, render our labor of some value to a class
of readers whose sympathy, good-will, and fellowship we would gladly possess
and cherish. If we have added to their enjoyment, we shall be doubly
gratified. A. W. V'euus ami Proserpina iu Hailes. Rape
of Proserplua. As there is nothing more celebrated than the Mys- ^l\^
teries of the ancients, so there is perhaps nothingwhich has hitlierto been
less solidly known. Of the trnth of this observation, the liberal reader
will, I persnade myself, be fully convinced, from au attentive perusal of
the following sheets; in which the secret meaning of the Eleusinian and
Bacchic Mysteries is unfolded, from authority the most respectable, and
from a philosophy of all others the most venerable and august. The
authority, indeed, is principally derived from manuscript writings, which
are, of course, in the possession of but a few; but its respectability is
no more lessened by its concealment, than the value of a diamond
when secluded from the light. And as to the philosophy, by whose
assistance these Mysteries are developed, it is coeval with the universe itself;
and, however its continuity maybe broken by opposing systems, it will
make its appearance at different periods of time, as long as the sun
himself shall continue to illuminate the world. It has, indeed, and may
hereafter, be violently assaulted l)y delusiv^e opinions; but the opposition
will be just as imbecile as that of the waves of the sea against a
temple built on a rock, which majestically pours them back,
Broken and A^anquish'd, foaming to the main. Pallas, Venus, aud
Diaua. THE ELEUSINIAN AND BACCHIC. Dionysus as God of the Sun.
a. SECTION I. SJ WARBURTON, in Ms Divine
Legation of Moses, has ingeniously proved, that the sixth book of
Virgil's ^neid represents some of the dramatic exhibitions of the
Eleusinian Mysteries; but, at the same time, has utterly failed in
attempting to unfold their latent meaning, and obscure though important
end. By the assistance, howevei", of the Platonic philosophy, I have
been enabled to correct his errors, and to vindicate the wisdomof
antiquity from his aspersions The profounder esoteric doctrines of the ancients
were denominated wisdom, and attevwnrd philosophy, and also the
[piosis or knowledge. They related to the human soul, its divine
parentEleiisinian and by a genuine account of this sublime
institution; of which the foUowing observations are designed as a
comprehensive view. In the fii'st place, then, I shall
present the reader with two superior authorities, who perfectly
demonstrate that a part of the shows (or dramas) consisted in a
representation of the infernal regions; authorities which, though of the last
consequence, were unknown to Dr. Warbiu'ton himself. The first of these
is no less a person than the immortal Pindar, in a fragment
preserved by Clemens Alexandrinus : ^' 'A/J.a %at IJtvoapo^ Trspi xcov sv
EXsaacvt {Jiua'CTjpuov Xsycov STrcrpspsL OXpcoc, oart? But Pindar,
speaking of the Eleusinian Mysteries, says : Blessed is he who,
having age, its supposed degradation from its high estate by
becoming connected with " generation " or the physical world,
its onward progi-ess and restoration to God by regenerations, popularly
supposed to be transmigrations, etc. A.
W. " Stroma la, book iii. Bacchic Mysteries. seen those common
concerns in the underworld, knows both the end of hfe and its divine
origin from Jupiter." The other of these is from Prochis in his
Commentary on Plato's Politicus, who, speaking concerning the sacerdotal
and symbolical mythology, observes, that from this mythology Plato himseK
establishes many of his own peculiar doctrines, " since in the
Phcedo he venerates, mtli a becoming silence, the assertion
delivered in the arcane discourses, that men are placed in the body as in
a prison, secured by a guard, and testifies^ accordlny to the
mystic cerem^onies, the different allotments of purified and unpurified souls
in Hades, their severed conditions, and the three-forJicd path from the
pecidiar places where they tcere; and this was shown accordiny to
traditionary institutions; every part of which is full of a symbolical
representation, as in a dream, and of a description which treated of the
ascending and descending ways, of the tragedies of Dionysus (Bacchus or
Zagreus), the crimes of the Titans,, the three ways in Hades,
and Eleusinian and the wandering of everything of a
similar hind.^^ "Ar/Aot 5s sv
<l>7.too)vt xov ts sv 6'. avi^pcoTTOi, aiyirj xtj Trps'iro'jar^
cs^3(ov, xai ■:7.c -csXsrac (lege y.7.o %7.-'y. -ac tsXs-c/.)
(JLCtp-:'jpo{Ji£voc xcov ^La'^optov Xr^^scov -r^; ^^T^'^
%£%ai)-ap|i.£VTj; TS %7.c a^a^aptoy zic, o/joo rj.lZirjOQ1]Z, r.rjX
ZIQ ZS GySGSlC, WJ, V:7.C Xa? xpio^oDc 7.7:0 x(ov ooGKov 7,7/. x(ov
(lege %ai %7.x7. t(ov), Traipi^cov {)-£a{i(ov ':£7,{i7.ipo[icVOc. a
5'^ z-qc, ao{JL[3o)d%7jc dTuavta ^stopta; sari {xsara, 7,7.L t(OV
7C7.p7. TOIC TZOl'flZrjlC, {)-p'jXXo?J{J.£V(OV rj.yo^my zs 7.7.t
7,ai)-ooo)v, tcov ts $iovyai7.7C(ov 3'jvi)"^{Ji7.tcov, y.rj.1 xcov
TiTy-vizfov onxapiYjixa -(OV XSYOJXSVCOV, 'X.7.1 X(OV sv 4^^'->
TpCOOCOV, 7,7.!. XT^C TZKrjyr^C, Y,rjx X(OV T&tOUTCOV
d'7L7.VXa)V." * Ha^dllg iDremised thus much, I now proceed to
prove that the th'amatic spectacles .of the Lesser Mysteries f were
designed by the ancient theologists, their founders, to signify
occultly the condition of the unpurified soul * Commentary on the
Statesman of Plato, page 374. t The Lesser Mysteries were
celebrated at Agrse; and the persons there initiated were denominated Mi/sta:
Only such could be received at the sacred rites at Eleusis. Bacchic
Mysteries. invested with an earthly body, and enveloped in a material and
physical nature; or, in other words, to signify that such a soul in
the present life might be said to die, as far as it is possible for a
soul to die, and that on the dissolution of the present body, while
in this state of impuiity, it would experience a death still more
permanent and profound. That the soul, indeed, till purified by
philosophy,* suffers death through its union with the body was obvious to
the philologist Macrobius, who, not penetrating the secret meaning
of the ancients, concluded from hence that they signified nothing more
than the present body, by their descriptions of the infernal
abodes. But this is manifestly absurd; since it is universally agreed,
that all the ancient theological poets and philosophers inculcated the
doctrine of a future state of rewards and punishments in the most
full and decisive terms; at the same time occultly intimating that the
death of the soul was nothing more than a profound union with the
ruinous bonds of the body. FILOSOFIA here relates to discipline of the
life. Eleusinian and Indeed, if these wise men believed in
a future state of retribution, and at the same time considered a
connection with the bodyas death of the soul, it necessarily follows,
that the soul's punishment and existence hereafter are nothing more than
a continuation of its state at present, and a transmigration, as it were, from
sleep to sleep, and from dream to dream. But let us attend to the
assertions of these divine men concerning the soul's union with a
material nature. And to begin with the obscure and profound
Heracleitus, speaking of souls imembodied: "We live their death, and
we die their life." Z(o{j.£v tov sxslvcov i)-7.v7.':ov,
TsO-vT/Aajisv OS xov £%£lv(ov jiLov. And Empedocles, deprecating the condition
termed " generation," beautifully says of her : The
aspect changing with destruction dread, She makes the Uv'okj pass into
the dead. Ex \i.z\i yx^ Cojtuv zv.%-1'. VcXpa siOi
a|JLj'.j3ojv. And again, lamenting his connection with this
corporeal world, he pathetically exclaims: Bacchic
Mysteries. 37 For this I weep, for this indulge my woe,
That e'er my soul such novel realms should know. KXauaa te
v.ai xiuxuaot, lowv «afjv*r]i)'sry. ytupov. * Plato, too, it is
well known, considered the body as the sepulchre of the soul, and
in the Crcifijlus concurs with the doctrine of Orpheus, that the
soul is x>^niished through its union with body. This was likewise
the opinion of the celebrated Pythagorean, Philolaus, as is evident from
the following remarkable passage in the Doric dialect, preserved by Clemens
Alexandrinus in Strom at. book iii. " Map-cupsovra 5s %c/.t oi
TcrjXaifx. tJ-soXoyoc IS y.r/.i \w,vzzic., 6)C, ^la ziyac,
xqj-copiac, £V a(o{i7.ic XGIJ-Ki) zzd-aizza.i.^' i. e. " The
ancient theologists and priests also testify that the soul is
united with the body as if for the sake of punishment; f and so is buried
in body as in a sepulchre." And, lastly, Py * Greek it-ayxsiq
mantels more properly proi)hets, those
filled by the prophetic mania or eutheasm. t More correctly '* The soul is yoked to the body as if by
way of punishment," as culprits were fastened to others or even
to corpses. See PauVs Epistle to the liomans Eleusinian and
thagoras himself confii'ms the above sentiments, when he beautifully
observes, according to Clemens in the same book, " that wild fever
tee see when airali'e is death; and when asleep,- a dreamt brj^rxio;^
sa-rcv, oxoaa But that the mysteries occultly signified this
sublime truth, that the soul by being merged in matter resides among
the dead both here and hereafter, though it follows by a necessary
sequence from the preceding observations, yet it is indisputably confirmed, by
the testimony of the great and truly divine Plotinus, in Ennead I., book
viii. ''When the soul," says he, '*has descended into
generation (from its first divine condition) she partakes of evil, and is
carried a great way into a state the opposite of her first purity
and integrity, to he entirely merged in ivhich, is nothing more than
to fall into dark mire.^^ And again, soon after. The soul therefore dies
as much as it is possible for the soul to die : and the death to her is^
while Mptized or immersed in the present Bacchic Mysteries.
39 hocly^ to descend into matter * and he wholly subjected hy
it; and after departing thence to lie there till it shall arise and
turn its face away from the abhorrent filth. This is what is meant
hy the falling asleep in Ifades, of those who have come there.''''
j * Greek ^^>^'<], matter supposed to contain all the
principles the negative of life, order, and goodness. tThis
passage doubtless alludes to the ancient and beautiful story of Cupid and
Psyche, in which Psyche is said to fall asleep in Hades; and this through
rashly attempting to behold corporeal beauty : and the observation of
Plotinus will enable the profoimd and contemplative reader to unfold the
greater part of the mysteries contained in this elegant fable. But, prior to
Plotinus, Plato, in the seventh book of his Republic, asserts that such
as are unable in the present life to apprehend the idea of the
good, will descend to Hades after death, and fall asleep in its
dark abodes. 'Oq av |n-r] syrj o'.op:::aj9'a', xto Xo-|'to, c/.tzo twv
aXXtov Ttavxojv a-^jXiuv ttjv too a-irj.x}oj) torav, v.r/'. inzr.zp £v
It-'^'/'fJ 5oa Tcavtcov sXsY/tuv o'.tt,nuy, jj.s v.ata oo^av aXka v.ax'
ouatav npofl'U^oofjLsvo? eXeY/s'.v, £V Traat. xooto'-c anxcoT: x«) Xo'^w
oioi-opsufjxa'., ooxs awzo xo cnY'/O'CiV rj'jozv cpYjas'.^ e'.osva: xov
o'ixiui^ s^ovxa. oozz aWo o.-^rj.^-rr^ ooojv; a),),' s: TC'f] ^iocuXo'j
x'.vo; fiiaz.xz'Z'j:., ooJ-/j o'jy. £i:'.-rf|iJ.-(^ c'^aTiXja&ai;
xoci xov vjv fy.vj ovsipciTCoXouvxa, v.ao ijiivtoxovxa, Tip'.v jvO'ao'
E^spY''^^'*' 5 ^-^ aocio TipoxEpov acp:y.o|Ji.svov xsXscoi;
ETTixaxaSapO-aviiv; ». e. "He who is not able, by the exercise of
his reason, to define the idea of the good, separating it from all other
objects, and piercing, as in a battle, through every kind of argument;
endeavoring to confute, not according to opinion, but according to
essence, and proceeding through all these dialectical energies with an unshaken
reason; he who can not
40 Bacchic Mysteries. TLVojisvcp 5s Yj [i£taAT;'|L;;
rjjjxrjj^ Fcrpvciac yap '^lavta^raacv sv ^(p rr^c avc/{xoco-Y^T;oc
zotzco, evd-rj. ooQ BIZ r/jizr^y siz 'p^ij^o^joy axorstvov SGzrji
'jisacov. A'JToD-VTjay.cc o'jv, (o;;
'j'''>Z''i '^•'^ iJ-avof xctL 6 ^avoLTO? ao'Tj, xai szl sv ^(o
GOiixazi p£J37.7uua{JL£VY^, sv 6Xy^ sarc y-c/.-aoovac, 7C/.C
7tXYjai)"^vac aozr^Q. Kai si^s/a^oaaYj; sxst %£iai)'7.L, £(oc
av7.opa{ji'(j y,c/.t rj/^2kr^ tzcoc, xy^v G?J;tv £% ZOO fiopjSopo'j. Kac
to'jto sb-'. to sv 4*^00 sXiJ-ovra sTzi'/.rj.za SapiJ-stv. Here the
aeeomplisli this, would j^ou not say, that he neither knows the
good itself, nor anything which is pi'operly denominated good? And would
you not assert that such a one, when he apprehends any certain image of
reality, apprehends it rather through the medium of opinion than of
science; that in the present life he is sunk in sleep, and conversant
with the delusion of dreams; and that before he is roused to a vigilant
state he will descend to Hades, and be overwhelmed with a sleep perfectly
profound." Henry Davis ti-anslates this passage more critically:
"Is not the ease the same with i"eference to the good ? Whoever
can not logically define it, abstracting the idea of the good from
all others, and taking, as in a fight, one opposing argument after
another, and can not proceed with unfailing proofs, eager to rest his
ease, not on the ground of opinion, but of true being, such a one knows nothing of the r/ood
itself, nor of any good whatever; and should he have attained to any
knowledge of the (jood, we must say that he has attained it by opinion,
not by science {sKizzfiiirj); that he is sleeping and dreaming away his
present life; and before he is roused will descend to Hades, and
there be profoundly and perfectly laid asleep." vii.
14. Bacchic Mysteries. 43 reader may observe that the obsciu'e
doctrine of the Mysteries mentioned by Plato in the Phcedo^ that the
nnpurified soul in a future state lies immerged in mire, is beautifully
explained; at the same time that our assertion concerning their secret
meaning is not less substantially confirmed.* In a similar manner
the same divine philosopher, in his book on the Beautiful, Ennead^ I.,
book vi., explains the fable of Narcissus as an emblem of one who rushes
to the contemplation of sensible (phenomenal) forms as if they were
perfect realities, when at the same time they are nothing more than
Uke beautiful images appearing in water, fallacious and vain. "
Hence," says he, " as Narcissus, by catching at the shadow,
plunged himself in the stream and disappeared, so he who is
captivated by beautiful bodies, and does not depart fi'om their
embrace, is precipitated, not with his body, but with *
Phcedo, 38. " Those who instituted the Mysteries for us appear to have
intimated that whoever shall arrive in Hades unptirified and not initiated
shall lie in mud; but he who arrives there purified and initiated' shall
dwell with the gods. For there are many hearers* of the wand or thyrsus,
but few who are inspired." 44 Eleusiniari and
his soul, into a darkness profound and repugnant to intellect (the higher
soul),* through which, remaining bhnd both here and in Hades, he
associates with shadows." Tov T(ov, Tcai [j--^ ojjfiEiQ^ 00
t(o (j{\)\w-i.^ zr^ os '\'y/ri -iX.rjXOL^O'jezrM^ BIC, axOTTStVa
7.rj.l azsrj'K'fj TO) vco [5ai)-Tj, SvO-a T'JCpXo? SV O^d^JJ {JL£V(0V,
/.oll sv taoi^a %q:x£t a%iat? oovsaTL And what still farther
confirms our exposition is that matter was considered by the Egyptians as
a certain mire or mud. " The Egyptians," says Simplicius,
" called matter, which they symbolically denominated water, the
dregs or sediment of the first life; matter being, as it were, a
certain mire or mud.f Aco xat AiyuTTtioi TTjV Z'qc, xpcoxr^c C(t)'^/C,
y^v 'jdcop Gtj\i|5oAt%(oc sxaXofjv, 67roaxai)-{jLT;v rr^v 'jXtjv sXsyov, oiov
ihjv ziya ooaav. So that fi*om all * Intellect, Greek vouc, nous,
is the higher faculty of the mind. It is substantially the same as the
pncH))ia, or spirit, treated of in the New Testament; and hence the term
'^ iiifcUectual," as used in Mr. Taylor's translation of the
Platonic writers, may be pretty safely read as spiritual, by those
familiar with the Christian cultus. * A. W. t Physics of
Aristotle. Bacchic Mysteries. 45 tliat has been
said we may safely conclude with Ficinus, whose words are as express
to our purpose as possible. " Lastly," says he,
"that I may comprehend the opinion of the ancient theologists, on
the state of the soul after death, in a few words : tlieij
considered^ as we have elsewhere asserted, things divine as the
only realities^ and that all others were only the images and shadows
of truth. Hence they asserted that prudent men, who earnestly
employed themselves in divine concerns, were above all others in a
vigilant state. But that imprudent [/. e. without foresight] men, who
pursued objects of a different nature, being laid asleep, as it
were, were only engaged in the delusions of dreams; and that if they
happened to die in this sleep, before they were roused, they would
be afflicted with similar and still more dazzling visions in a future
state. And that as he who in this life pursued realities, would,
after death, enjoy the highest truth, so he who pursued deceptions would
hereafter be tormented with fallacies and delusions in the extreme : as
the one Eleusinian and would be delighted with true objects
of enjoyment, so the other would be tormented with delusive
semblances of reality." Denique ut
priscormn theologorum sententiam de statu animae post mortem paucis
comprehendam : sola di\ina (ut alias diximus) arbitrantur res veras
existere, rehqua esse rerum verarum imagines atque umbras. Ideo prudentes
homines, qui divinis incumbunt, prae ceteris vigilare. Impmdentes autem, qui
sectantur alia, insomniis omnino quasi dormientes illudi, ac si in
hoc somno priusquam expergefacti fuerint moriantur similibus post
(hscessum et acrioribus visionibus angi. Et sicut emn qui in vita veris
incubuit, post mortem summa veritate potiri, sic eum qui falsa
sectatus est, fallacia extrema torqueri, ut ille rebus veris
oblectetur, hie falsis vexetur simulachris. But notwithstanding this important
truth was obscurely hinted by the Lesser Mysteries, we must not suppose
that it was gen *FiciNUs: De ImmortaL Aniin. book xviii.
Bacchic Mysteries. 47 erally known even to the initiated
persons themselves : for as individuals of almost all descriptions
were admitted to these rites, it would have been a ridiculous
prostitution to disclose to the multitude a theory so abstracted and
sublime.* It was sufficient to instruct these in the doctrine of a
future state of rewards and punishments, and in themeans of
returning to the principles from which they originally fell : for
this * We observe in the Netv Testament a like disposition on the
part of Jesns and Paul to classify their doctrines as esoteric and
exoteric, ''the Mysteries of the kingdom of God" for the apostles,
and "pai'ables" for the multitude. "We speak wisdom,"
says Paul, "among them that are perfect" (or initiated), etc. 1
Corintliians, ii. Also Jesus declares : "It is given to you to know
the Mysteries of the kingdom of heaven, but to them it is not
given; therefore I speak to them in parables : because they seeing,
see not, and hearing, they hear not, neither do they
understand." Matthew xiii.,
11-13. He also justified the withholding of the higher and interior
knowledge from the untaught and ill-disposed, in the memorable Sermon on
the Mount. Matthew vii. : Give ye
not that which is sacred to the dogs, Neither cast ye your pearls to the
swine; For the swine will tread them under their feet And the dogs
will turn and rend you." This same division of the Christians
into neophytes and perfect, appears to have been kept up for centuries;
and Godfrey Higgins asserts that it is maintained in the Roman
Cliurch. A. W. Eleusinian and
last piece of information was, according to Plato in the PJuedo,
the ultimate design of the Mysteries; and the former is necessarily
infeiTed from the present discourse. Hence the reason why it was obvious
to none hut the Pythagorean and Platonic philosophers, who derived
their theology from Orpheus himseK,* the original founder of these
sacred institutions; and why we meet with no information in this
particular in any writer prior to Plotinus; as he was the first
who, having penetrated the profound interior wisdom of antiquity,
delivered it to posterity without the concealments of mystic
symbols and fabulous narratives. VIBGIL NOT A PLATONIST. Hence
too, I think, we may infer, with the greatest probabihty, that this
recondite meaning of the Mysteries was not known * Herodotus,
ii. 51, 81. "What Orpheus delivered in hidden allegories
Pythagoras learned when he was initiated into the Orphic Mysteries;
and Plato next received a knowledge of them from the Orphic and
Pythagorean writings." Bacchic Mysteries. 49
even to VIRGILIO himself, who has so elegantly described their
external form; for notwithstanding the traces of Platonism which are to
be found in the ENEIDE, nothing of any great depth occurs throughout the
whole, except what a superficial reading of Plato and the dramas of
the Mysteries might easily afford. But this is not perceived by
modern readers, who, entirely luiskilled themselves in Platonism,
and fascinated by the charms of his poetry, imagine him to be deeply
knowing in a subject with which he was most hkely but slightly
acquainted. This opinion is still farther strengthened by considering
that the doctrine delivered in his Eclogues is perfectly that of
THE GARDEN (L’ORTO), which was the fashionable philosophy of the age of
OTTAVIANO; and that there is no trace of Platonism in any other part
of his works but the present book, which, containing a representation of
the Mysteries, was necessarily obliged to display some of the
principal tenets of this FILOSOFIA, so far as they illustrated and made a
part of these mystic exhibitions. However, on the supposition that
this book presents us with, Eleusinian and a faithful view of some
part of these sacred rites, and this accompanied with the utmost
elegance, harmony, and purity of versification, it ought to be considered as an
invaluable rehc of antiquity, and a precious monument of venerable mysticism,
recondite wisdom, and theological information. This will be
sufficiently e\ddent from what has been already delivered, by considering
some of the beautiful descriptions of this book in their natural
order; at the same time that the descriptions themselves will
corroborate the present elucidations. In the first place,
then, when he says, faeilis descensus Averno. Noetes atque
dies patet atra janua ditis : Sed revoeare gradum, superasqiie
evadere ad aiiras, Hoe opus, hie labor est. Pauei quos sequus
amavit Jupiter, aut ardens evexit ad sethera virtus,
Dis geniti potuere. Tenent media omnia silvae, Cocytusque
siuu labens, circumvenit atro 1 * Ancient Symhol-Worship, page 11,
noie. t Davidson^s Translation.
" Easy is the path that leads down to hell; grim Pluto's gate
stands open night and day : but to retrace one's steps, and escape to the
upper regions, this is a work, this is a task. Some few, whom favoring
Jove loved, or illustrious virtue Bacchic Mysteries. is it
not obvious, from tlie preceding explanation, that by Avernus, in this place,
and the dark gates of Pluto, we mnst understand a corporeal or
external nature, the descent into which is, indeed, at all times
obvious and easy, but to recall our steps, and ascend' into the
upper regions, or, in other words, to separate the soul from the body by
the purifying discipline, is indeed a mighty work, and a laborious
task ? For a few only, the favorites of heaven, that is, born with the
true philosophic genius,^ and whom ardent virtue has elevated to a
disposition and capacity for divine contemplation, have been enabled to
accomplish the arduous design. But when he says that all the middle
regions are covered with woods, this hkewise plainly intimates a material
nature; the word silva^ as is well known, being used by ancient
writers to signify matter, and implies nothing more than that the
passage leading to the barafh advaneecl to heaven, the sons of the gods,
have effected it. Woods cover all the intervening space, and Cocytus,
gliding with his black, winding flood, surrounds it." *
/. e., a disposition to investigate for the purpose of eliciting truth,
and reducing it to practice. Meusinian and rum [abyss] of
body, /. e. into profound darkness and oblivion, is throngh the medium of
a material nature; and this medium is surrounded by the black bosom of
Cocytus,* that is, by bitter weeping and lamentations, the necessary
consequence of the soul's union with a nature entirely foreign to
her own. So that the poet in this particular perfectly corresponds with EMPEDOCLE
DI GIRGENTI in the line we have cited above, where he exclaims,
alluding to this union. For this I weej), for this indulge my
icoe, That e'er my soul such novel realms should know.
In the next place, he thus describes the cave, through which ^neas
descended to the infernal regions : Spelunea alta fuit,
vastoque immanis hiatu, Scrupea, tuta lacu nigro, raemorumque tenebris
: Quam super hand ulla? poterant impune volantes Tendere iter
pennis : talis sese halitus atris Faueicus effundens supera ad eonvexa
fevebat : Unde locum Graii dixerimt nomiue Aornum 1 *
Coeytus, lamentation, a river in the Underworld. \ Davidson’s
Trnnslation. "There was a cave
profound and hideous, with wide yawning mouth, stony, fenced by a black
lake, Bacchic Mysteries. 53 Does it not afford a
beautiful representation of a corporeal nature, of which a cave, defended
with a black lake, and dark woods, is an obvious emblem *? For it
occultly reminds us of the ever-flowing and obscin*e condition of such a
nature, which may be said To roll incessant with impetuous
speed, Like some dai'k river, into Matter's sea. Nor is it
with less propriety denominated Aornus, i. e. destitute of birds, or a
winged nature; for on account of its native sluggishness and inactivity,
and its merged condi and the gloom of woods; over which none of the flying
kind were able to wing their way unliurt; such exhalations issuing from
its grim jaws ascended to the vaulted skies; for w^iich reason the
Greeks called the place by the name of Aornos" (without birds).
Jacob Bryant says: " All fountains were esteemed sacred, but
especially those which had any preternatural quality and abounded with
exhalations. It was an universal notion that a divine energy proceeded
from these effluvia; and that the persons who resided in their vicinity
were gifted with a prophetic quality. The Ammonians styled such fountains
Ain Omphe, or fountains of the oracle; o|j,<pY], oniphe, signifying '
the voice of God.' These terms the Greeks contracted to Nofj-'fY],
numphe, a nymph." Ancient
Mythology. The Delphic oracle was above a fissure, (jnnnous or
hocca inferiore, of the earth, and the pythoness inhaled the vapors. A. W. Eleiisinian and tion,
being situated in the outmost extremity of tilings, it is perfectly
debile and languid, incapable of ascending into the regions of
reality, and exchanging its obscure and degraded station for one every way
splendid and divine. The propriety too of sacrificing, previous to
his entrance, to Night and Earth, is obvious, as both these are emblems
of a corporeal nature. In the verses which immediately
follow, Ecee autem, priini sub limina solis et ortus, Sub
peclibus mugire solum, et juga eaepta movere Silvarum, visaque canes
ululare per umbram, Adventante dea * we may perceive an
evident allusion to the earthquakes, etc., attending the descent of
the soul into body, mentioned by Plato in the tenth book of his Republic;\
since the * " So, now, at the fii-st beams and rising of tlie
sun, the earth under the feet begins to rumble, the wooded hills to
quake, and dogs were seen howling through the shade, as the goddess
came hither " i Republic, x, 16. "After they were
laid asleep, and midnight was approaching, there was thunder and
earthquake; and they were thence on a sudden carried upward, some one
way, and some another, approaching to the region of generation like
stars." Bacchic Mysteries. 55 lapse of the
soul, as we shall see more fully hereafter, was one of the important
truths which these Mysteries were intended to reveal. And the howling
dogs are symbols of material * demons, who are thus denominated by the
Magian Oracles of Zoroaster, on account of then" ferocious and
malevolent dispositions, ever baneful to the felicity of the human
soul. And hence Matter herseK is represented by Synesius in his first
Hymn, with great propriety and beauty, as barking at the soul with
devoimng rage : for thus he sings, addressing himself to the Deity
: Maxap 6c x:c popov oImc, npacpUY^JV o\r/.'(ixa, v-w. yxc,
AvaouCj a/.p.«tt xoo'^po) lyyoc, £? t^sov v.xo.vjzi. Which
may be thus paraphrased : Blessed! thrice blessed! who, with winged
speed, From Hyle's t dread voracious bai'kiug flies, *
Material demons are a lower grade of spiritual essences that are capable
of assuming forms which make them perceptible by the physical
senses. A. W. t Hijle or
Matter. All evil incident to human life, as is here shown, was supposed
to originate from the connection of the soul to material substance, the
latter being regarded as the receptacle 56 EleMsinian
and And, leaving Earth's obscnrity behind, By a light leap,
directs his steps to thee. And that material demons actually appeared
to the initiated previous to the lucid visions of the gods themselves, is
evident from the following passage of Proclus in his manuscript
Commentary on tlie first Alcibiades : sv zaic rj.-(iozazaic tcov
tsaskov Tzrjo zr^z GoO'j Tcapo'jaia? daqiovov /iS'Gvuov £%poAat
xpocpacvov~ry.t, -Ani rxr.o aov aypavtcov ayai^cov zic zr^v ohriy
7ipoy,i7.Xou{JLSvaL /. e. In the most interior sanctities of the
Mysteries, before the presence of the god, the rushing forms of earthly
demons appear, and call the attention from the immaculate good to
matter." And Pletho (on the Oracles), expressly asserts, that these
spectres appeared in the shape of dogs. After this, ^neas is
described as proceeding to the infernal regions, through profound night
and darkness : Ibant obscixri sola sub nocte per iimbram,
Perque domos Ditis vaciias, et inania regna. of everything evil.
But why the soul is thus immerged and punished is nowhere explained. A. W. Bacchic Mysteries.
Quale per ineertam lunam sub luce maligna Est iter in silvis : ubi cfehim
condidit umbra Jupiter, et rebus nox abstulit atra colorem.*
And this with the greatest propriety; for the Mysteries, as is well
known, were celebrated by night; and in the Republic of Plato, as cited
above, souls are described as falling into the estate of generation at
midnight; this period being peculiarly accommodated to the darkness and
oblivion of a corporeal nature; and to tliis circumstance the
nocturnal celebration of the Mysteries doubtless alluded. In
the next place, the following vivid description presents itself to our
view : Vestibulum ante ipsum, primisqiie in faiicibus Orei
Luctus, et ultrices posuere eubilia Curte : Pallentesque habitant morbi,
tristisque senectus, Et Metus, et mala suada Fames, ac turpis
egestas; *" They went along, amid the gloom under the solitary
night, through the shade, and through the desolate halls, and empty
realms of Dis [Pluto or Hades]. Such is a journey in the woods beneath
the unsteady moon with her niggard light, when Jupiter has enveloped the
sky in shade, and the black Night has taken from all objects their color."
Eleiisinian and Terribiles visu forraje; Lethumque Laborque;
Turn consanguineus Lethi Sopor et mala mentis Gaudia, mortiferumqiie
adverso in limine bellum Ferreique Eumenidum thalami et Discordia
demons, Vipereum crinem vittis inuexa cruentis. In medio ramos
annosaque braehia pandit Ulmus opaca ingens : quam sedem somnia
vulgo Vana tenere feruut, foliisqlie sub omnibus ba?i'ent. Multaque
prseterea variarum monstra f erarum : Centauri in foribus stabiilant,
Scyllseque biforines, Et centumgeminus Briareus, ac bellua Lernse,
Horrendum stridens, flammisque armata Chimgera, Gorgones Hai'pyigeque, et
foi'mo tricorpoi-is umbrae.* ^ And surely it is impossible to draw
a more lively picture of the maladies with wliich a *
"Before the entrance itself, and in the first jaws of Hell, Grief
and vengeful Cares have placed their couches; pale Diseases inhabit there, and
sad Old Age, and Fear, and Want, evil goddess of persuasion, and
unsightly Poverty forms terrible to
contemplate ! and there, too, are Death and Toil; then Sleep, akin to
Death, and evil Delights of mind; and upon the opposite threshold are
seen death-bringing War, and the iron marriage-couches of the Furies, and
raving Discord, with her viper-hair bound with gory wreaths. In the
midst, an Elm dark and huge expands its boughs and aged limbs; making an
abode which vain Dreams are said to haunt, and under whose every leaf
they dwell. Besides all these, are many monstrous api^aritions of various
wild beasts. The Centaurs harbor at the gates, and double-formed Scyllas,
the hundred-fold Briareus, the Snake of Lerna, hissing dreadfully, and
Chimasra armed with flames, the Gorgons and the Harpies, and the shades
of three-bodied form." Bacchic Mysteries. material natui'e is
connected; of the sonl's dormant condition tlirougli its union with
body; and of the various mental diseases to which, through such a
conjunction, it becomes unavoidably subject; for this description contains a
threefold division; representing, in the first place, the external evil
with which this material region is replete; in the second place,
intimating that the life of the soul when merged in the body is nothing
but a dream; and, in the third place, under the disguise of multiform and
terrific monsters, exhibiting the various vices of our iiTational and
sensuous part. Hence Empedocles, in perfect conformity w^th the first
part of this description, calls this material abode, or the realms of
generation, a-c£p:r£.oc /(opov,* a
'^joyless region^ "Where slaiighter, rage, ami countless
ills reside; EvO'a <povo5 Ts %0'zoc, tj v.rv. rj^Xtuv sftvsa
llYjpWV and into which those who fall, This and the other
citations from Empedocles are to be found in the book of Hieroeles on The
Golden Verses of Pythagoras. Bacchic Mysteries. Through Ate's meads
and dreadful darkness stray." And hence lie justly says
to sncli a soul, that "She flies from deity and heav'nly
light, To serve mad Discord in the realms of night." iSf.v.ti
ij.a'.vo,asv(t) -tGOvo;. Where too we may observe that the Discordla
demens of Virgil is an exact translation of the Nsixst {iaivo{j.£vco of
Empeclocles. In the hues, too, which immediately succeed,
the sorrows and mournful miseries attending the soul's union with a
material nature, are beautifully described. Hinc via,
Tartarei quae fert Aeherontis ad nndas; Turbidus hie caeno vastaque
voragine gurges ^stuat, atque omuem Coeyto eructat arenam. And when
Charon calls out to ^neas to "Here is the way whieli leads to the
surging billows of Hell [Acheron]; here an abyss turbid boils up with
loathsome mud and vast whirlpools; and vomits all its quicksand into
Cocytus." IJiaua auct Calisto.
Bacchic Mysteries. 63 desist from entering any farther, and
tells him, " Here to reside delusive shades
delight; ''F.or nought dwells here but sleep and drowsy night. Umbrarum
hie locus est, Somni Noctisque soporse nothing can more aptly
express the condition of the dark regions of body, into which the soul,
when descending, meets with nothing but shadows and drowsy night : and by
persisting in her course, is at length lulled into profound sleep, and
becomes a true inhabitant of the phantom-abodes of the dead. ^neas
having now passed over the Stygian lake, meets with the three-headed monster
Cerberus,* the guardian of these infernal abodes : Tandem
trans fluvium incolumis vatemque virumque Informi limo glaueaque exponit
in ulva. The presence of Cerberus in the ROMAN description of the underworld
shows that the ideas of the poets and mythologists were derived, not only from
Egypt, but from the Brahmans of the far East. Yama, the lord of the
Underworld, is attended by his dog Karharu, the spotted, styled also
Trikasa, the three-headed. Meusinian and Cerberus haec ingens
latratu regna trifauci Personat, adverse recubaus immanis in antro. By
Cerberus we must understand the discriminative part of the soul, of which a
dog, on account of its sagacity, is an emblem; and the three heads
signify the triple distinction of this part, into the intellective [or
intuitional], cogitative [or rational], and opinionative powers. With respect f
to the three kinds of persons described as situated on the borders
of the infernal realms, the poet doubtless intended by this enumeration
to represent to us the three most remarkable At length across the
river safe, the prophetess and the man, he lands upon the slimy strand,
upon the blue sedge. Huge Cerberus makes these realms [of death] resound with
barking from his threefold throat, as he lies stretched at prodigious
length in the opposite cave." tin the second edition
these terms are changed to dianoietic and doxastic, words which we cannot
adopt, as they are not accepted English terms. The nous, intellect or
spirit, pertains to the higher or intuitional part of the mind; the
dianoia or understanding to the reasoning faculty, and the doxa, or
opinionforming power, to the faculty of investigation. Plotinus, accepting this theory of mind,
says: "Knowledge has three degrees opinion, science, and
illumination. The means or instrument of the first is reception; of the
second, dialectic; of the third, intuition." A. W. Bacchic
Mysteries. characters, wlio, though not apparently deserving of punishment, are
yet each of them similarly im merged in matter, and consequently require
a similar degree of purification. The persons described are, as is well
known, first, the souls of infants snatched away by untimely ends; secondly,
such as are condemned to death unjustly; and, thirdly, those who, weary
of their lives, become guilty of suicide. And with respect to the
first of these, or infants, their connection with a material nature is
obvious. The second sort, too, who are condemned to death unjustly, must
be supposed to represent the souls of men who, though innocent of
one crime for which they were wrongfully punished, have, notwithstanding,
been guilty of many crimes, for which they are receiving proper
chastisement in Hades, i. e, through a profoiuid union with a material
nature.* And the third sort, or suicides, though ap * Hades, the
Underworld, supposed by classical students to be the region or estate of
departed souls, it will have been noticed, is regarded by Taylor and
other Platonists, as the human body, which they consider to be the grave
and place of punishment of the soul.
A. W. Eleusinian and parently separated from the body,
have only exchanged one place for another of similar nature; since
conduct of this kind, according to the arcana of divine philosophy,
instead of separating the soul from its body, only restores it to a
condition perfectly correspondent to its former inchnations and habits,
lamentations and woes. But if we examine this affair more profoundly, we
shall find that these three characters are justly placed in the
same situation, because the reason of punishment is in each equally
obscure. For is it not a just matter of doubt why the souls of
infants should be punished? And is it not equally dubious and wonderful
why those who have been unjustly condemned to death in one period
of existence should be punished in another? And as to suicides,
Plato in Ms PJicvdo says that the prohibition of this crime in the
aTzorjfjrfa {aporrheta) is a profound doctrine, and not easy to be
Aporrheta, tbe areaue or confidential disclosures made to the candidate
undergoing initiation. In the Eleusinia, these were made by the
Hierophant, and enforced by him from the Book of InterpretatInterpretation,
said to have consisted of two tablets of stone. This was the petroma, a
name usuallj' derived from j^e^ra, a rock, Bacchic Mysteries.
understood.* Indeed, the true cause why the two first of these
characters are in Hades, can only be ascertained from the fact of a
prior state of existence, in surveying which, the latent justice of
punishment will be manifestly revealed; the apparent inconsistencies in
the administration of Providence fully reconciled; and the doubts
concerning the wisdom of its proceedings entirely dissolved. And as
to the last of these, or suicides, since the reason of their punishment,
and why an action of this kind is in general highly atrocious, is
extremely mystical and obscure, the following solution of this difficulty
will, no doubt, be gratefully received by the Platonic reader, as the
whole of it is no where else to be found but in manuscript. Olym or
possibly from iflD, J)eier, an interpreter. See //. Corinthians. A. W. PJuedo,
The instruction in the doctrine given in the Mysteries, that we human
beings are in a kind of prison, and that we ought not to free ourselves
from it or seek to- escape, appears to me difficult to be understood, and
not easy to apprehend. The gods take care of us, and we are theirs."
Plotinus, it will be remembered, perceived by the interior faculty
that Porphyry contemplated suicide, and admonished him accordingly. A. W. Eleusinian and
piodorus, then, a most learned and excellent commentator on Plato,
in his commentary on that part of the PJuedo where Plato speaks of
the prohibition of suicide in the aporrhefa, observes as follows:
"The argument which Plato employs in this place against suicide is
derived fi^om the Orphic mythology, in which foui" kingdoms
are celebrated; the first of Uranus [Ouranos] (Heaven), whom
Ki'onos or Satm^n assaulted, cutting off the genitals of his father. But
after Saturn, Zeus or Jupiter succeeded to the government of the
world, having hurled his father into Tartarus. And after Jupiter,
Dionysus or Bacchus rose to light, who, according to report, was,
through the insidious treachery of Hera or Juno, torn in pieces by
the Titans, by whom he was surrounded, and who afterwards tasted his flesh
: but Jupiter,enraged at the deed, hurled his thunder at the guilty
offenders and consumed them to ashes. Hence a certain matter beIn the
Hindu mythology, from which this symbolism is evidently derived, a deity
deprived thus of the lingam or phallus, parted with his diviue authority.
Bacchic Mysteries. ing formed from the ashes or sooty vapor
of the smoke ascending from their burning bodies, out of this mankind
were produced. It is unlawful, therefore, to destroy ourselves, not
as the words of Plato seem to unport, because we are in the body, as in
prison, secured by a guard (for this is evident, and Plato would
not have called such an assertion arcane), but because our body is
Dionysiacal,* or of the nature of Bacchus : for we are a part of him,
since we are composed from the ashes, or sooty vapor of the Titans
who tasted his flesh. Socrates, therefore, as if fearful of
disclosing the arcane part of this narration, relates nothing more of the
fable than that we are placed as in a prison secured by a guard :
but the interpreters relate the fable openly." Koci z^zi zo
{j.'ji>c7,ov s-jrc/sijOT^pioL TGCOUtov. Ilapa tcp Oprpst
xsaaaps^ paaiXsiat 'juapa^c^ovxaL Ilptor^ [jisv, rj xo'j Oopctvoy,
Tjv 6 Kpovoc Sis^s^axo, sxtsij-cov xct atSota zoo 'irairpoc. Msxa qt^ tov
Kpovov, 6 * From Dionysus, the Greek name of Bacchus, and usually
so translated. 70 Elensinian and Ze'jc
£p7.3'J.£'j3£v '/.c/.-aTapxapwaac 'uov 7:7.zz[j^j.. Vjizrj. -ov Ac7. ^Ls^scato
6 Atov'jaoc, 6v (paac '/.at' £i:c[io'jAY^v rr^? 11^7.^ todc :r£pi
a'jto'j TtTavac STrapaTrstv, %7.c tcov aapxtov a'jtcj
£7,cp7.'JV(03£, X7.t £7, "T^? 7.Cl)-7.AY^C '^03V 7.i:{J-C0V
'(OV 7.V7.50i)-£Vr(OV £s 7.'J':C0V, 6aT^s Y£V0{J-£VY^^ YEVEGil-a^ lO'JC
7.V\)-p(OTrO!JC. Ou 0£l GOV ECa^frj. Y£CV Y/^i.7.;: £7'J-0'J^, O'J/ OZl
0)^ 5o%£l }v£Y£'.V Y^ Xe^iQ, 5io-'. £v Tiv: 5£C[X(o £a{j-£v xc;3
a(0|X7.rr TO'JTO Y'^-I^ 5y^).0V £C"^ y.7.l 0'J% 7.V 'ZO'JZO
7.7:0pP(J.-0V £X£Y£, 7./X OZl O'J OSl £^7.Y7Y£LV Y^{J.7^ ka.OZ'j'JZ MC,
ZO'J (jO)\XazrjC, Y^{X(0V 5i0V'J3C7.%0U OVrO:;' 'jX£pO^ Y'^-P '^-'J''^'J
£3[1£V, £rj'£ £% tYjC al^•'yXr^z xwv Ti':7.vcov a'JY/.£qJL£i)-7.
y^'->^''^-1^*~ V(OV ZiOy a7.p7,(0V XOrjtOy. '0 {JL£V O'JV
]^(07,p7XY;C £pY^!^ '^'^ 7.7U0pp'^I0V 5£l'X,V'JC, XO'J {J-'Ji)-0'J
0'jo£v 7rA£ov TupoaxiiJ-jxat xoo (o? £v xivi rppo'jpa £a(JL£v. 'Oi
5£ £^YjYYjT;7.i xov jx'jO-ov xpoaxiO-£7a:v £|(oi)-£v. After this he beautifully
observes, " That these four governments signify the different
gradations of virtues, according to which oui^ soul contains the symbols
of all the qualities, both contemplative and purifying, social and
ethical; for it either Bacchic Mysteries. 71
operates acoording to the theoretic or contemplative virtues, the model
of which is the government of Uranus or Heaven^ that we may begin from
on high; and on this account Uranus (Heaven) is so called irctpa TOO la
avco 6pc/.v, from beholding the things above : Or it lives purely, the
exemplar of which is the Kronian or Satiu^nian kingdom; and on this
account Kronos is named as Koro-nous, one who perceives through himself.
Hence he is said to devour his own offspring, signifying the conversion
of himself into his own substance : or it operates according to the
social virtues, the symbol of which is the government of Jupiter. Hence,
Jupiter is styled the Demiurgus, as operating about secondary things
: or it operates according to both
the ethical and physical virtues, the symbol of which is the
kingdom of Bacchus; and on this account is fabled to be torn in pieces
by the Titans, because the virtues are not cut off by each
other." Aiyozzoyzai (lege aLVL-ctovtat) 5s zo'jc, ocarpspofjc
'^jrj.^\i.o'jc, x(ov apsxtov v.rj.d-' ac, -ri fj{X£xspa ^^yji ayjApoXa
e'/oo:ja Bacchic Mysteries. iraawv tcov apsKov, icov tis
O-scopYj'iL'jctov, otat yap ')C7.-a xa^ {^SfoprjitTca? svspyst cbv
Tza^jo.^sr^xc/. Tj xo'j oopavotj pctaLAsta, lv7. avoiii-sv ap^a{j.£i)-a,
5io y,at orjp7.voc sipr^'a: irapa xo'j T7. av(o opcjLV. 'H '/c^i^apTi^o)?
C'^j? '^jC 'irapaSstyjxa Y; Kpovsia jiaacXstc/., oio %at Kpovoc stp'Ajtai OLOv
xopovofjc tic 03V 5ia zo s7.ytov 6pav. Aio y,7/w xaxamveiv ta ocxsia
ysw/){laxa Xsysta^ (o? a'jro^ 'jrpoc saozov sTutatpscpcov. 'H 7,7.1:7. X7.C
TcoXtttxac tov arj{j.|3oAov, T) XOU AlOZ ^7.aLX£t7., OLO %7.t
$Tj{J.tGfJpYOC 6 ZstJt;, (0? TuspL t;7 $£'jr£p7. svspYcov. 'H %at7
tac r^^'l %aC %7C CpDa:7,7.? 7.p£'C7.C, tOV aUV^oXoV, Tj tou
A'.ovfjaou paatXsca, 5co y-ai a^apa-Tsrai, 5wti O'JT, aviate-
AooO-o'jaiv aXXr^Xatc 7.t 7.p£X7.i. And thus far Olympiodorus; in which
passages it is necessary to observe, that as the Titans are the
artificers of things, and stand next in order to their creations, men
are said to be composed from their fragments, because the human
soul has a partial life capable of proceeding to the most extreme
division united with its proper natiu'e. And while the soul is in a state
of servitude to Kleusinian Mysteries. Bacchic Mysteries. the body,
she hves confined, as it were, in bonds, througli the dominion of this
Titanical life. We may observe farther concerning these dramatic shows of
the Lesser Mysteries, that as they were intended to represent the condition of
the soul while subservient to the body, we shall find that a
liberation from this servitude, through the purifying disciplines,
potencies that separate from evil, was what the wisdom of the ancients
intended to signify by the descent of Hercules, Ulysses, etc., into
Hades, and their speedy return from its dark abodes. ' '
Hence," says Proclus, " Hercules being purified by sacred
initiations^ obtained at length a perfect estabhshment among the gods:"*
that is, well knowing the dreadful condition of his soul while in
captivity to a corporeal nature, and purifying himself by practice
of the cleansing virtues, of which certain purifications in the mystic
ceremonies were symbolical, he at length was freed from the bondage of
matter, and ascended beyond her Commentary on the Statesman of
Plato. Meusinian and reach. On this account, it is said of
him, that He dragg'd the three-mouth'd dog to upper day;
intimating that by temperance, continence, and the other virtues,
he drew upwards the intuitional, rational, and opinionative part of
the soul. And as to Theseus, who is represented as . suffering eternal
punishment in Hades, we must consider him too as an allegorical
character, of which Proclus, in the above-cited admirable work, gives the
following beautiful explanation : " Theseus and Pirithous,"
says he, " are fabled to have abducted Helen, and descended to the
infernal regions, i. e. they were lovers both of mental and visible
beauty. Afterward one of these (Theseus), on account of his
magnanimity, was Hberated by Hercules from Hades; but the other
(Pirithous) remained there, because he could not attain the difficult height
of divine contemplation." This account, indeed, of Theseus can by no means
be reconciled with VIRGILIO’s: sedet, seternumque sedebit,
Infelix Theseus. There sits, and forever shall sit, the unhappy Theseus. Bacchic
Mysteries. Nor do I see how VIRGILIO can be reconciled with himself, who,
a httle before this, represents him as hberated from Hades. The
conjecture, therefore, of Hyginus is most probable, that VIRGILIO in this
particular committed an oversight, which, had he lived, he would
doubtless have detected, and amended. This is at least much more probable
than the opinion of Dr. Warbm^ton, that Theseus was a living
character, who once entered into the Eleusinian Mysteries by force, for
which he was imprisoned upon earth, and afterward punished in the
infernal realms. For if this was the case, why is not Hercules also
represented as in punishment? and this with much greater reason, since he
actually dragged Cerberus from Hades; whereas the fabulous descent
of Theseus was attended with no real, but only intentional,
mischief. Not to mention that Virgil appears to be the only writer
of antiquity who condemns this hero to an eternity of
pain. Nor is the secret meaning of the fables concernmg the
punishment of impure souls 78 Eleusinian and
less impressive and profound, as the following extract fi'om the
manuscript commentary of Olympiodorus on the GORGIA DI LEONZIO of Plato
will abundantly affirm:
"Ulysses," says he, " descending into Hades, saw,
among others, Sisyphus, and Tityus, and Tantalus. Tityus he saw
lying on the earth, and a vulture devouring his liver; the liver signifying
that he lived solely according to the principle of cupidity in his
natiu'e, and tln^ough this was indeed internally prudent; but the
earth signifies that his disposition was sordid. But Sisyphus,
living under the dominion of ambition and anger, was employed in
continually rolling a stone up an eminence, because it perpetually
descended again; its descent implying the vicious government of himself;
and his rolling the stone, the hard, refractory, and, as it were,
rebounding condition of his hf e. And, lastly, he saw Tantalus
extended by the side of a lake, and that there was a tree before
him, with abundance of fruit on its branches, which he desired to gather,
but it vanished from his view; and this indeed indicates, that he
lived under the dominion Bacchic Mysteries.of phantasy; but his
hanging over the lake, and in vain attempting to drink, imphes the
elusive, humid, and rapidly-ghding condition of such a hfe." '0
O^uaasa? xaxsX^wv sec cf'^o'j, oiQZ zoy Slgo^'ov, y.rji z^jV
Tcc'jov, '/otc xov TavraXov. Kc/.t tov {xsv TtTuov, st:'. xt^c yrj?
£t§s %£L[X£Vov, vcat oxc xo r^Trajj aoxoo r^aO-tsv Y'j'|. To {JL£V GOV
T^Tuap GTjiJ-aLvst oxt ya-cct xo STTtiJ'DJJL'/^XL/.OV fJ-SpOC
sCTjaS, XOLl §17. XOfJXO £C3(0 cppovxiCs'co. 'H 5s Y'^j OYjiJiaLvst
xo yO-ovtov a'jxoy '-ppovrjiia. 5s -Itaocpoc, 7,axa xo cp^XoxqjLov, y.7.t
O-ujJLOscSsi; C'^aa? sy-uXis xov Xcr)-ov, %at TuaXtv %ax£cp£p£v, £7U£i5£
T:£pi afjxc/. xaxap p£C, 7,7.7,(0^ 'jroXtX£00{JL£VOC. AtO^OV 0£
£7,oXt£, hirj, XO axXrjpov, %ac avxixuTcov xyjc auxoa
C<'>''JCTov o£ T7.vx7.A0v £t.5£v £v Xt{JLV (lege Xqj.virj)
%7.l OXt £V 5£v5pOtC '^a7.V 07:(0p7.'., ■X,7.L T^{)'£X£
xpuyav, X7.t wj^rjyziQ ^^^v/o^zo ai o^copat. TOUXO 5£
arj{X7.CV£t XTjV 7,7x7. (p7.VX7.ai7.V Cto'^v. Aox'/j 5£ aTj[j,7.v£t
xo oXiaO-'/jpov 7,7.t ^lopyov, %7t i9'7.xxov7. 'jLO'!77.yo|jL£vov. So
that according to the wisdom of the ancients, and the most sublime
philosophy, the misery which a soul endures in the present life, when
giving itself up to the dominion of the irrational 80
Elensinian and part, is nothing more than the commencement, as it
were, of that torment which it win experience hereafter : a torment
the same in kind though different in degree, as it will be much
more di'eadful, vehement, and extended. And by the above specimen,
the reader may perceive how infinitely superior the explanation which the
Platonic philosophy affords of these fables is to the frigid and trifling
interpretations of Bacon and other modern mythologists; who are
able mdeed to point out their correspondence to something in the
natui'al or moral world, because such is the wonderful connection of
things, that all things sympathize with all, but are at the same time
ignorant that these fables were composed by men divinely wise, who
framed them after the model of the highest originals, from the
contemplation of real and permanent heing, and not from regarding the
delusive and fluctuating objects of sense. This, indeed, mil be evident
to every ingenuous mind, from reflecting that these wise men
universally considered Hell or death as commencing in the present
life Baccldc Mysteries. 81 (as we have already abundantly
proved), and that, consequently, sense is nothing more than the
energy of the dormant soul, and a perception, as it were, of the
delusions of di'eams. In consequence of tliis, it is absurd in the
highest degree to imagine that such men would compose fables from
the contemplation of shadows only, without regarding the splendid
originals from which these dark phantoms were produced : not to mention that their harmonizing
so much more perfectly with intellectual explications is an
indisputable proof that they were derived from an intellectual [noetic]
source. And thus much for the dramatic shows of the Lesser
Mysteries, or the first part of these sacred institutions, which was
properly denominated xsXst-r] [telete^ the closing up] and [vrrpiz
Muesis [the initiation], as containing certain perfective rites, symbolical
exhibitions and the imparting and reception of sacred doctrines, previous
to the beholding of the most splendid visions, or ETuoTutsta \epopteia,
seership]. For thus the gradation of Bacchic Mysteries. the
Mysteries is disposed by Proclus in Theology of Plato, book iv. "
The perfective rite [rsXsrrj, telete],^^ says he, " precedes in
order the initiation [\xorpiQ, muesis], and initiation, the final apocalypse,
epopteiay npoY^yst STzoiizziaQ.* At the same time it is proper to
observe that the whole business of initiation was distributed into five
parts, as we are informed by Theon of Smyrna, in Matliematica, who thus
elegantly compares philosophy to these mystic rites : " Again,"
says he, " philosophy may be called the initiation into true
sacred ceremonies, and the instruction in genuine Mysteries; for there
are five parts of initiation : the first of which is the previous
purification; for neither are the Mysteries communicated to all who
are wilhng to receive them; but there are certain persons who are
prevented by the voice of the crier [%Tjpu^, herux^, such as those
who possess impure hands and an inarticulate voice; since it is necessary that
such as are not expelled from the Mysteries * Theology of
Plato. Bacchic Mysteries. 85 should first be refined by certain
purifications : but after purification, the reception of the sacred rites
succeeds. The third part is denominated epopfeia, or reception.*
And the fourth, which is the end and design of the revelation, is
[the investiture] the binding of the head and fixing of the crowns. The
initiated person is, by this means, authorized to communicate to others
the sacred rites in which he has been instructed; whether after
this he becomes a torch-bearer, or an hierophant of the Mysteries, or
sustains some other part of the sacerdotal office. But the fifth,
which is produced from all these, is friendship and interior commtmion
with God, and the enjoyment of that felicity which arises from
intimate converse with divine beings. Similar to this is the
communication of political instruction; for, in the first place, a
certain purification precedes, * Theon appears to regard the final
apocalypse or epopteia, like E. Poeocke to whose views allusion is made
elsewhere. This writer says : " The initiated were styled
ebaptoi," and adds in a foot-note
" Avaptoi, literaWj obtaining or getting." According to
this the epopteia would imply the final reception of the interior
doctrines. A. W. Eleusinian
and or else an exercise in proper matliematical discipline
from early youth. For thus Empedocles asserts, that it is necessary to be
purified from sordid concerns, by drawing from five fountains, with a
vessel of indissoluble brass : but Plato, that purification is to be
derived fi'om the five mathematical disciplines, namely from arithmetic,
geometry, stereometry, music, and astronomy; but the philosophical
instruction in theorems, logical, pohtical, and physical, is similar
to initiation. But he (that is, Plato) denominates zTzoizzzirj, [or the
reveahng], a contemplation of things which are apprehended intuitively,
absolute truths, and ideas. But he considers the binding of the head, and
coronation, as analogous to the authority w^hich any one receives from
his instructors, of leading others to the same contemplation. And
the fifth gradation is, the most perfect fehcity arising from
hence, and, according to Plato, an assimilation to divinity^ as far as is
possible to mankind." But though s'jroTrTS'.a, or the rendition of
the arcane ideas, principally characterized the Greater Mysteries, yet
Bacchic Mysteries. 87 this was likewise accompanied
with the [j.uyjGLc, or initiation, as will be evident in the conrse of
this inquuy. But let US now proceed to the doctrine of the
Greater Mysteries : and here I shall endeavor to prove that as the dramatic
shows of the Lesser Mysteries occultly signified the miseries of
the soul while in subjection to body, so those of the Grreater obscurely
intimated, by mystic and splendid visions, the felicity of the soul both
here and hereafter, when purified from the defilements of a
material nature, and constantly elevated to the realities of intellectual
[spiritual] vision. Hence, as the ultimate design of the Mysteries,
according to Plato, was to lead us back to the principles from which we
descended, that is, to a perfect enjoyment of intellectual
[spiritual] good, the imparting of these principles was doubtless one part of
the doctrine contained in the airoppTjia, aporrheta, or secret discourses;
* and the different purifica * The apostle Paul apparently alludes to the
disclosing of the Mystical doctrines to the epopts or seers, in his
Second Epistle to the Corinthians, xii. 3, 4: "I knew a certain man, whether in Eleusinian and
tions exhibited in these rites, in conjunction with initiation and
the epopteia were symbols of the gradation of virtues requisite to this
reascent of the soul. And hence, too, if this be the case, a
representation of the descent of the soul [from its former heavenly
estate] must certainly form no inconsiderable part of these mystic
shows; all which the f ollomng observations will, I do not doubt,
abundantly evince. In the first place, then, that the shows
of the Greater Mysteries occultly signified the felicity of the
soul both here and hereafter, when separated from the contact and
influence of the body, is evident from what has been demonstrated in the
former part of this discourse : for if he who in the present life
is in subjection to Ms irrational part is truly in ITades, he who
is superior to its dominion is liheivise an inhahitayit of a place
totally different from Hades* If Hades therefore body or
outside of body, I know not: God knoweth,
who was rapt into paradise, and heard appv]xr/. pYjfxata, tilings
ineffable, which it is not lawful for a man to repeat."
*Paul, Epistle to the PhlUpjnans, iii, 20: "Our citizenship is
in the heavens." Bacchic Mysteries. 89 is
the region or condition of punishment and misery, the purified soul must
reside in the regions of bhss; in a hf e and condition of purity
and contemplation in the present life, and entheastically,* animated by
the divine * Medical and Surgical Bejiorter Those who have
professed to teach their fellow-mortals new truths eoncerning immortality, have
based their authority on direct divine inspiration. Numa, Zoroaster,
Mohammed, Swedenborg, all claimed communication with higher spirits; they
were what the Greeks called eniheast
'immersed in God' a sti'iking
word which Byron introduced into our tongue." Carpenter
describes the condition as an automatic action of the brain. The
inspired ideas arise in the mind suddenly, spontaneously, but very
vividly, at some time when tliinhing of some other topic. Francis
Galton defines genius as " the automatic activity of the mind, as
distinguished from the effort of the will,
the ideas coming by inspiration." This action, says the editor of
the Reporter, is largely favored by a condition approaching mental
disorder at least by one remote
from the ordinary working day habits of thought. Fasting, prolonged
intense mental action, gi-eat and unusual commotion of mind, will produce it;
and, indeed, these extraordinary displays seem to have been so preceded.
Jesus, Buddha, Mohammed, all began their careers by fasting, and visions of
devils followed by angels. The candidates in the Eleusinian Mysteries
also saw visions and apparitions, while engaged in the mystic orgies.
"We do not, however, accept the materialistic view of this subject.
The cases are enftieasHe; and although hysteria and other disorders of
the sympathetic system sometimes imitate the phenomena, we believe with
Plato and Plotimis, that the higher faculty, intellect or intuition as we
prefer to call it, the noetic part of our nature, is the faculty actually
at work. "By reflection, Eleusinian and energy, in the
next. This being admitted, let us proceed to consider the
description which Virgil gives us of these fortunate abodes, and
the latent signification which it contains, ^neas and his guide, then,
having passed tlu^ough Hades, and seen at a distance Tartarus, or the utmost
profundity of a material nature, they next advance to the Elysian
fields : Devenere locus Isetos, et amaena vireta
Fortunatoi'uin nemorum, sedesque beatas. Largiov Me campos gether et
lumine vestit Purpureo; solemque suum, sua sidera norunt. * Now the secret meaning of these joyful places is thus
beautifully unfolded by Olympiodorus in his manuscript Commentary on the
Gorgias of Plato. "It
is necessary to know," says he, " that the fortunate
islands are said to be raised above the sea; and
self-knowledge, and intellectual discipline, the soul can be raised
to the vision of eternal truth, goodness, and beauty that is, to the vision of God."
This is the epopteia. A. W. They
came to the blissful regions, and delightful gi'eeu retreats, and happy abodes
in the fortunate gi'oves. A freer and purer sky here clothes the fields
with a purjile light; they recoguize their own suu, their own
stars." Bacchic Mysteries. 91 hence a
condition of being, which transcends this corporeal hfe and generated
existence, is denominated the islands of the blessed; but these are
the same with the Elysian fields. And on this account Hercules is said
to have accomphshed his last labor in the Hesperian regions; signifying
bythis, that having vanquished a dark and earthly life he afterward hved
in day, that is, in truth and light." Asc 5s st^svai ozi w. Yfpoi
uTTspxu'jrxGoaiv zt^q i)-aXaaa'rj? avco-cspw otjoai. Tt;v oov
Tzokizsiay XTjV 67:£|v7,u^0Laav too fjioo if.rji z'qc, ysvY^ascoc,
{jLa7,7.p(ov VTjaouc '/.''jXo'JOI. TaoTC/v $£ saxi vcc/.t xo ^qkocjiw
TtS^iov. Airy, zoi zoozo xat 6 'Hpay,Xtj^ zeXeozaioy alJ-Xov sv xo:;; saTTspcocc
{xspsatv s'jTorr^aaxo, 7.vxi xax'^jYcovcaato xov axoxstvov jcai
yO-oviov pwv, xai Xotirov sv '^^t^spcf., oaxiv sv rjXrid-sio^ %rxi rp(oxi
sC'^- So that he who in the present state vanquishes as much as
possible a corporeal life, through the practice of the piu'ifying
virtues, passes in reahty into the Fortunate Islands of the soul,
and lives surrounded with the bright splendors of truth and wisdom proceeding
from the sun of good. 92 Bacchic Mysteries.
The poet, in describing the employments of the blessed, says
: Pars in gramineis exereent membra paleestris : Coutendunt
ludo, et f ulva luctantur arena : Pars pedibus plaudunt choreas, et
carmina dicunt. Nee non Threicius longa cum veste saeerdos
Obloquitur uumeris septem discrimina vocum: lamque eadem digitis, jam
pectiue pulsat eburno. Hie genus antiquum Teucri, puleherrima
proles, Magnanimi heroes, nati melioribus annis, Illusque,
Assaracusque, et TroJEe Dardanus auctor. Arma procul, currusque virum
miratur inanis. Stant terra defixse hastse, passimque soluti Per
campum pascuntur equi. Quae gratia curruum Armorumque fuit vivis, quae
cura nitentis Pascere equos, eadem sequitur tellure repostos.
Conspicit, ecee alios, dextra laevaque per herbam Vescentis, Isetumque
choro Pgeana eanentis. Inter odoratum lauri nemus : unde superne
Pliu'imus Eridaui per silvam volvitur amnis. Some exercise their limbs upon the
grassy field, contend in play and wrestle on the yellow sand; some dance
on the ground and utter songs. The priestly Thracian, likewise, in his
long robe [Orj^heus] responds in melodious numbers to the seven
distinguished notes; and now strikes them with his fingers, now with the
ivory quill. Here are also' the ancient race of Teucer, a most
illustrious progeny, noble heroes, born in happier j-ears, II, Assarac,
and Dardan, the founder of Troy, ^neas looking from afar, admires the
arms and empty war-cars of the heroes. There stood spears fixed in the
ground, and scattered over the plain horses are feeding. The same taste
which when alive •'i%^!^mm^ Eleusiuiau
Mj'steries. Bacchic Mysteries. 95 This must not
be understood as if the soul in the regions of fehcity retained any affection
for material concerns, or was engaged in the trifling pursuits of the
everyday corporeal life; but that when separated from generation, and the
world's life, she is constantly engaged in employments proper to the
higher spiritual nature; either in divine contests of the most exalted wisdom;
in forming the responsive dance of refined imaginations; in tuning the
sacred lyi'e of mystic piety to strains of divine fury and
ineffable dehght; in giving free scope to the splendid and winged
powers of the soul; or in nourishing the higher intellect with the
substantial banquets of intelligible [spiritual] food. Nor is it without
reason that the river Eridanus is represented as flowing through
these delightful abodes; and is at these men had for chariots and
arms, the same passion for rearing glossy steeds, follow them reposing beneath
the earth. Lo! also he views others, on the right and left, feasting on
the grass, and singing in chorus the joyful pteon, amid a fragrant grove
of laui'el; whence from above the greatest river Eridanus rolls
through the woods." A peeon was chanted to Apollo at Delphi every
seventh day. 96 Eleusinian and the same time
denominated plurimus (greatest), because a great part of it was absorbed
in the earth without emerging from thence : for a river is the symbol of
hfe, and consequently signifies in this place the intellectual or
spii'ituaJ life, j)roceeding from on liigh, that is, from divinity
itself, and gliding with prolific energy through the hidden and profound
recesses of the soul. In the following lines he says :
Nulli eerta domus. Lucis habitamus opacis, Riparumque toros, et
prata recentia rivis Incolimus.* By the blessed not being
confined to a particular habitation, is implied that they are perfectly
free in all things; being entirely free from all material restraint, and
purified from all inclination incident to the dark and cold
tenement of the body. The shady groves are symbols of the retiring of
the li ' No one of us has a fixed abode. We inhabit
the dark groves, and occupy couches on the river-banks, and meadows fresh
with little rivulets." Bacchic Mysteries. soul to the depth of her essence, and there, by energy solely
divine, establishing herself in the ineffable principle of things.* And
the meadows are syin])ols of that prolific power of the gods through
which all the variety of reasons, animals, and forms was produced,
and which is here the refreshing pastui'e and retreat of the hberated
soul. But that the communication of the knowledge of the principles
from which the soul descended formed a part of the sacred Mysteries is
evident from Yirgil; and that this was accompanied with a vision of these
principles or gods, is no less certain, from the testimony of Plato,
Apuleius, and Proclus. The first part of this assertion is evinced
by the following beautiful lines : * Plato: BepiihUc, vi. 5.
"He who possesses the love of true knowledge is naturally carried in
his aspirations to the real principle of being; and his love knows no repose
till it shall have been united with the essence of each object through
that jiart of the soul, which is akin to the Permanent and Essential; and
so, the divine conjunction having evolved interior knowledge and truth,
the knowledge of being is won." EleiiHinian and
Prineipio cfelum ac tei-ras, eamposque liquentes Lucentemque
globum luuas, Titauiaque astra Spiritus intus alit, totumque infusa
per artus Mens agitat molem, et magno se corpore miscet.
Inde hominum peeudiimque genus, vitseque volantum, Et qu£e
marmoreo fert monstra sub sequore pontus. Igneus est oUis vigor, et
cselestis origo Seminibus, quantum non uoxia corpora tardant,
Terrenique hebetant artus, moribundaque membra. Hinc metiiunt
cupiuntque : dolent, gaudentque : neque auras Despieiunt clausa
tenebris et carcere csecc* For the sources of the soul's existence
are also the principles from which it fell; and these, as we may
learn from the Thnams of Plato, are the Demiurgus, the mundane
soul, and the junior or mundane gods.f Now, of * "First
of all the interior spirit sustains the heaven and earth and watery
plains, the illuminated orb of the moon, and the Titanian stars; and the Mind,
diffused through all the members, gives energy to the whole frame, and
mingles with the vast body [of the universe]. Thence proceed the race of
men and beasts, the vital souls of birds and the brutes which the Ocean
breeds beneath its smooth surface. In them all is a potency like fire,
and a celestial origin as to the rudimentary principles, so far as
they are not clogged by noxious bodies. They are deadened by
earthly forms and members subject to death; hence they fear and
desire, grieve and rejoice; nor do they, thus enclosed in darkness
and the gloomy prison, behold the heavenly air." \
Timceus. xliv. "The Deity (Demiurgus) himself formed the divine; and
then delivered over to his celestial offspring [the Bacchic
Mysteries. these, the mundane intellect, which, according to the ancient
theology, is represented by Bacchus, is principally celebrated by
the poet, and this because the soul is particularly distributed into
generation, after the manner of Dionysus or Bacchus, as is evident
from the preceding extracts from Olympiodorus : and is still more abundantly
confirmed by the following curious passage from the same author, in
his comment on the Plicedo of Plato. " The soul," says he,
" descends Corically [or after the manner of Proserpine] into
generation,* but is distributed into generation Dionysiacally,t and she is
bound in body PrometheiacallyJ and Titanically: she fi'ees herself
therefore from its bonds by exercising the strength of Hercules; but she
subordinate or generated gods], the task of creating the mortal.
These subordinate deities, copying the example of their parent, and
receiving from his hands the immortal principles of the human soul,
fashioned after this the mortal body, which they consigned to the soul as
a vehicle, and in which they placed also another kind of a soul, which is
mortal, and is the seat of violent and fatal passions."
* That is to say, as if dying. Kore was a name of Proserpina.
t /. e. as if divided into pieces. X I. e. Chained
fast. 100 We US in km and is collected into one
through the assistance of Apollo and the savior Minerva, by philosophical
discipline of mind and heart purifying the nature." i)zi /.opr^toc {j.sv
sic ysvE^tv 'jTzo zT^z Ysvsascoc' npojXY^O-suo? "^s, v.rj.1
Tiza AttoXXcovoc %ol^ rr^c acorrjpac A\)*T;va?, ':r7.{)-a(vT:L'^(oc -(0
oyzi r5'.Xoaorpo'ja7.. The poet, however, intimates the other causes of
the soul's existence, when he says, Igneiis est ollis vigor, et
coelestis origo Semiuibus * which evidently alludes to the sowing
of souls into generation, t mentioned in the Timmus. And fi'om
hence the reader will * "There is then a certain fiery
potency, and a celestial oi'igiu as to the rudimentary principles."
/. e. Restored to wholeness and divine life. tl Corinthians,
xv. 42-44. "So also is the onafitaHis of the dead. It is sown in
corruption [the material body]; it is raised in incorruption : it is sown
in dishonor; it is raised in gloi-y : it is sown in weakness; it is
raised in power : it is sown a psychical body; it is raised a spiritual
body." Bacchic Mysteries. 101 easily
perceive the extreme ridiculousness of Dr. Warburton's system, that the
grand secret of the Mysteries consisted in exposing the errors of
Polytheism, and in teaching the doctrine of the unity, or the existence
of one deity alone. For he might as well have said, that the great
secret consisted in teaching a man how, by writing notes on the works
of a poet, he might become a bishop ! But it is by no means
wonderful that men who have not the smallest conception of the true
nature of the gods; who have persuaded themselves that they were only
dead men deified; and who measure the understandings of the ancients by
their own, should be led to fabricate a system so improbable and
absurd. But that this instruction was accompanied with a
vision of the source from which the soul proceeded, is evident from the
express testimony, in the first place, of Apuleius, who thus
describes his initiation into the Mysteries. " Accessi confinium
mortis; et calcato Proserpinse limine, per omnia vectus elementa
remeavi. Nocte media vidi solem. 102 Meusinicm and
candido coniscantem kimine, deos inferos, et deos superos. Access!
coram, et adoravi de proximo." * That is, "I approached
the confines of death : and having trodden on the threshold of
Proserpina returned, having been carried through all the elements.
In the depths of midnight I saw the sun glittering with a splendid light,
together with the infernal and supernal gods : and to these
divinities approaching near, I paid the tribute of devout
adoration." And this is no less evidently implied by Plato, who thus
describes the fehcity of the holy soul prior to its descent, in a
beautiful allusion to the arcane visions of the Mysteries. Ka/.Ao? 3s
TOIS Y^V tOStV X7.[JLirpOV, OTS GOV £UOaL|J,OVt )^op(p
{j-ay,7.pcctv o^iv zz xac O-sav £:ro{jL£vot jjis'La [jLsv Aio^ T;tJ-£tc,
aXXot o£ \xez aXXoo ^scov, £l§ov t£ 7.71 BzzKO'jyzo T£X£t(ov YjV 0-£|j.ic
Xb^biv {i-7.%a pKOXW.TYjV YjV 0pYl7.C0[J-£V oXoX^Y^pOL {JL£V 7.010^
OVr£C, y,7.l 7.'Jr7.^£tC %7.'5t(OV 037. Y^|X7.C £V 63r£p(p /p<5V(j)
67C£{X£V£V. '0X07cXy^P7. $£ 7,7.1 TLTiXa %7.C aTp£(J.Y^ %7.t £u5aqJL0V7.
rp7.a{J.7.-7. JJLyG'J{JL£VOt T£ 7,71 £TC0TCT:£U0V'C£C £V auyTJ %7.9-7.pq:
%7.l)-7.pOl * The Golden Ass. xi. p. 239 (Bohn).
Bacchic Mysteries. 103 TTSpLrpspovrs? ovofxaCopisv
oarpsoa xpo':rov 5s d£3{jL£ujj-£V0L That is, " But it was tlien
lawful to survey the most splendid beauty, when we obtained, together
with that blessed choir, this happy vision and contemplation. And
we indeed enjoyed this blessed spectacle together with Jupiter; but others in
conjunction with some other god; at the same time being initiated in
those Mysteries^ which it is lawful to call the most blessed of all
Mysteries. And these divine Orgies* were celebrated by us, while we
possessed the proper integrity of our nature, we were freed from
the molestations of evil which otherwise await us in a future period of
time. Likewise, in consequence of this divine initiation, we became
spectators of entire, simple, immovable, and blessed visions, resident in
a pure hght; and were ourselves pure and immaculate, being hberated
from this surrounding vestment, which we denominate body, and to which we
are now bound * The peculiar rites of the Mysteries were
indifferently termed Orgies or Labors, teletai or finishings, and
initiations. 10-i Bacchic Mysteries. like an
oyster to its shell."* Upon this beautiful passage Proclus observes,
"That the initiation and epopfeia [the vailing and the
reveahng] are symbols of ineffable silence, and of union with mystical
natures, through intelligible \dsions.t Kocl yap -q {xor^zic, v.ai
r^ * Phcedriis, 64. t Proclus : Theology of Plato, book
iv. The following reading is suggested : "The initiation and final
disclosing are a symbol of the Ineffable Silence, and of the enosis, or
being at one and en rapport with the mystical verities through
manifestations intuitively comprehended." The
ixv>'f\z<.z, muesis, or initiation is defined by E. Pocoeke as
relating to the "well-known Buddhist Moksha, final and eternal
happiness, the liberation of the soul from the body and its exemption from
fvirther transmigration." For all mystcB therefore there was a
certain welcome to the abodes of the blessed. The term cTTOTrcjioi,
epopteia, applied to the last scene of initiation, he derives from the
Sanscrit, evaptoi, an obtaining; the epopt being regarded as having
secured for himself or herself divine bliss. It is more usual,
however, to treat these terms as pure Greek; and to render the mnesis as
initiation and to derive epopteia from STCOrtTopiat. According to this
etymology an epopt is a seer or clairvoyant, one who knows the interior
wisdom. The terms inspector and superintendent do not, tome, at all express the
idea, and I am inclined, in fact, to suppose with Mr. Pocoeke, that
the Mysteries came from the East, and from that to deduce that the
technical words and expressions are other than Greek. Plotinus,
speaking of this enosis or oneness, lays down a spiritual discipline
analogous to that of the Mystic Orgies : " Purify your soul from all
undue hope and fear about earthly things; mortify
tl'^ £leii8iiiiau Mysteries. Etruscan.
Bacchic Mysteries. 107 TYjC iTpoc xa {jLoatixa "^ta t(ov
vo'/^xcov cpaajjiaxtov svcoascoc;. Now, from all tliis, it may be
inferred, that the most sublime part of the zTzrj'Kisirx \epoptei(i\ or
final revealing, consisted in beholding the gods themselves invested with a
resplendent hght; * and that this was symbohcal of those
transporting visions, which the virtuous soul will constantly enjoy in a
future state; and of which it is able to gain some ravishing
glimpses, even while connected with the cumbrous vestment of the
body.f the body, deny self,
affections as well as appetites,
and the inner eye will begin to exercise its clear and solemn
vision." " In the reduction of yonr soul to its simplest
principles, the divine germ, you attain this oneness. We stand then in
the immediate presence of God, who shines out from the profound depths of
the soul."- A. W. Apuleius: The Golden Ass. xi. The candidate
was instructed by the hierophant, and permitted to look within the cistn
or chest, which contained the mystic serpent, the phallus, egg, and
gi-ains sacred to Demeter. As the epopt was reverent, or otherwise,
he now "knew himself" by the sentiments aroused. Plato and
Alcibiades gazed with emotions wide apart.
A. W. t Plotinus : Letter to Flaccus. " It is only now and
then that . we can enjoy the elevation made possible for us, above the
limits of the body and the world. I myself have realized it but
three times as yet, and Porphyry hitherto not once."
108 Bacchic Mysteries. But that this was actually the case,
is evident fi'om the following unequivocal testimony of Proclus : Ev
airaac zaic, zsXszaic TzpozEiyoo(ji [xoryfj.Q^ TToXXa $s G'/r^iiaza
s^aXazzoyzzc, rpctcvovroir %ru zoze {j.£v azoizMzov a'jrcov xpojBsjBXrjtac «:p(oc,
xors 5s sec c(v{J-pcoTTStov {j-opY'/jv £a/'/j{j.axta[JL£vov, ':o':£ os
stc dXXotov trjTTov ';:po£XY|XfjG(o?. /. ^. " In all the
initiations and Mysteries, the gods exhibit many forms of themselves, and
appear in a variety of shapes : and sometimes, indeed, a formless light ^
of themselves is held forth to the view; sometimes this hght is
according to a human form, and sometimes it proceeds into a different
shape." f This assertion of divine visions in the Mysteries,
Porpbyiy afterward declared that he witnessed four times,
when near him, the soul or " intellect " of Plotiiius thns raised
up to the First and Sovereign Good; also that he himself was only
once so elevated to the enosis or union with God, so as to have glimpses
of the eternal world. This did not occur till he was sixty-eight years of
age. A. W. * I. e. Si
luminous appearance without any defined form or shape of an object.
\ Commentary upon the Republic of Plato, page 380.
Cupids, Satyr, aud statue of Priapua. Bacchic Mysteries. Ill
is clearly confirmed by Plotinus.* And, in short, that magical
evocation formed a part of the sacerdotal office in the Mysteries,
and that this was universally believed by all antiquity, long
before the era of the latter Platonists,t is plain from the testimony
of Hippocrates, or at least Democritus, in his Treatise de Morbo
Sacro.X For speaking of those who attempt to cure this disease by
magic, he observes : st yap csayjvtjv ts %aGac Xaaaav arpovov 7.7.1 yqy,
zat z'rjXka ta zoiotjzo zpOTzrj, TTOLVca zizi^z/ovzrji sxiataaO-ai, slis
7cac STc TEAET12N, scxs xoll Ss aXhric, zivoq yvtofj-Tj? {xsXsrr^^
cpaatv ocot xs scvai 01 zrjjjza btzizt^^sooyzec, ^uaspsstv sjj-oi ys 5oy.£oaaL
y,. X. /. e. " For if they profess themselves able to draw
down the moon, to obscure the sun, to produce stormy and pleasant weather, as
likewise showers of rain, and heats, and to render the sea and earth
barren, and to accomplish *Ennead, i. book 6; and ix. book 9.
t Plotinus, Porphyry, lamblichus, Proclus, Longinus, and their
associates. X Epilepsy. 112 Eleusinian and
every thing else of this kind; whether they derive this knowledge
from flie Mysteries^ or from some other mental effort or
meditation, they appear to me to be impious, from the study of such
concerns." From all which is easy to see, how egregiously Dr.
Warburton was mistaken, when, in page 231 of his Divine Legation^
he asserts, " that the light beheld in the Mysteries, was nothing
more than an illuminated image which the priests had thoroughly
purified." But he is likewise no less mistaken, in
transferring the injunction given in one of the Magic Oracles of
Zoroaster, to the business of the Eleusinian Mysteries, and in perverting the
meaning of the Oracle's admonition. For thus the Oracle speaks :
Myj 'puocojc y.akto'f\c, aoxonxoy a-^aKiw., That is, "
Invoke not the self -revealing image of Nature, for you must not behold
these things before your body has received the initiation."
Upon which he observes, " that Bacchic Mysteries.
113 the self-revealing image ivas only a diffusive shining
light, as the name partly declares^ * But this is a piece of gross
ignorance, from which he might have been freed by an attentive perusal of
Proehis on the Timceus of Plato : for in these truly divine Commentaries
we learn, " that the moonf is the cause of nature to mortals, and
the self -rev eating image of the fountain of nature.^^ "^.zXriyq
{isv acrca zoic, O-vyjzoi? zr^c, ^fO(jSo:)C, to ayioTitCiV rj^^rjX\i.a.
o'j37. xT^c 'izr^'^fr/.iac, 'f'jasco^. If the reader is desirous of
knowing what we are to understand by the fountain of nature of which the
moon is the image, let him attend to the following information, derived from a
long and deep study of the ancient theology : for from hence I have
learned, that there are many divine fountains contained in the essence
of the demiurgus of the world; and that among these there are three
of a very distinguished rank, namely, the fountain of souls, or
Juno, the fountain of virtues, or
Minerva and * Divine Legation,
p. 231. t /. e. The Mother-Goddess, Isis or Demeter, symbolized
as Selene or the Moon, 114 Eleusinian and
the fountain of nature, or Diana. This last fountain too
immediately depends on the vilifying goddess Rhea; and was assumed
by the Demiurgus among the rest, as necessary to the prohfic reproduction of
liimself. And this information will enable us besides to explain
the meaning of the following i3assages in Apuleius, which, from not
beingunderstood, have induced the moderns to believe that Apuleius
acknowledged but one deity alone. The first of these passages is in
the beginning of the eleventh book of his MetamorpJioses, in which the
divinity of the moon is represented as addressing him in this sublime
manner : " En adsum tuis commota, Luci, precibus, rerum Natura
parens, elementorum omnium domina, seculorum progenies initialis,
summa numinum, regina Manium, prima cai^litum, Deoruni Dearumque facies
uniformis : quae cseh luminosa culmina, maris salubria flamina, inferorum
de plorata silentia nutibus meis dispenso : cu jus numen unicum,
multiformi specie, ritu vario, nomine multijugo totus veneratur orbis.
Me primigenii Phryges Pessinunticam nominant Bacchic
Mysteries. 115 Deum matrem. Hiiic Autochthones Attici
Cecropiam Minervam; ilhiic fluctuantes Cyprii Paphiam Veiierem : Cretes
sagittif eri Dictjninam Dianam; Sicuh trihngues Stygiam Proserpinam;
Eleusinii vetustam Deam Cererem : Junonem ahi, ahi Bellonam, alii
Hecaten, Rhamnusiam ahi. Et qui nascentis dei Sohs inchoantibus radiis
iUustrantur, ^thiopes, Ariique, priscaque doctrina pollentes ^gyptii
cserimoniis me prorsus propriis percolentes appellant vero nomine
reginam Isidem." That is, " Behold, Lucius, moved with
thy supphcations, I am present; I, who am Nature, the parent of things,
mistress of all the elements, initial progeny of the ages, the highest of
the divinities, queen of departed spirits, the first of the celestials,
of gods and goddesses the sole hkeness of all : who rule by my nod the
luminous heights of the heavens, the salubrious breezes of the sea,
and the woful silences of the infernal regions, and whose divinity, in
itself but one, is venerated by all the earth, in many characters,
various rites, and different appellations. Hence the primitive Phry
116 Bacchic Mysteries. gians call me Pessinuntica, the motlier
of the gods; the Attic Autochthons, Cecropian Muierva; the
wave-siUTOunded Cyprians, Paphian Venus; the arrow-bearing Cretans,
Dictynnian Diana; the three-tongued Sicilians, Stygian Proserpina; and the
inhabitants of Eleusis, the ancient goddess Ceres. Some, again, have
invoked me as Juno, others as Bellona, others as Hecate, and others
as Rhamnusia; and those who are enlightened by the emerging rays of
the rising sun, the Ethiopians, and Aryans, and likewise the
Egyptians powerful in ancient learning, who reverence my divinity with
cerenioaies perfectly proper, call me by my true appellation Queen
Isis." And, again, in another place of the same book, he says of the
moon : " Te Superi colunt, observant Inferi : tu rotas orbem,
luminas Solem, regis mundum, calcas Tartarum. Tibi respondent sidera,
gaudent numina, redeunt tempora, serviunt elementa, etc." That
is, " The supernal gods reverence thee, and those in the realms
beneath attentively do homage to thy divinity. Thou dost make the
universe revolve, illuminate Bacchic Mysteries the sun, govern the world,
and tread on Tartarns. The stars answer thee, the gods rejoice, the houi's and
seasons retui*n by thy appointment, and the elements serve
thee." For all tliis easily follows, if we consider it as
addressed to the fountain-deity of nature, subsisting in the Demiurgus,
and which is the exemplar of that nature which flourishes in the
lunar orb, and throughout the material world, and from which the deity
itself of the moon originally proceeds. Hence, as this fountain
innnediately depends on the life-giving goddess Rhea, the reason is
obvious, why it was formerly worshiped as the mother of the gods : and as
all the mundane are contained in the super-mundane gods, the other
appellations are to be considered as names of the several mundane
divinities produced by this fountain, and in whose essence they are
likewise contained. But to proceed with our inquiry, I shall,
in the next place, prove that the different purifications exhibited in
these rites, in conjunction with initiation and the epopteia were symbols
of the gradation of disciplines 120 Eleusinian and
requisite to the reascent of the soul.* And the fii'st part,
indeed, of this proposition respecting the purifications, immediately
follows from the testimony of Plato in the passage already adduced, in which he
asserts that the ultimate design of the Mysteries was to lead us
back to the principles from which we originally fell. For if the
Mysteries were symbohcal, as is universally acknowledged, this must
likewise be true of the purifications as a part of the Mysteries; and as inward
puiity, of which the external is symbolical, can only be obtained by the
exercise of the virtues, it evidently follows that the
purifications were symbols of the pimfying moral virtues. And the latter
part of the proposition may be easily inferred, from the passage
ah'eady cited from the Phmdrus of Plato, in which he compares initiation
and the epopteia to the blessed vision of the higher intelligible
natures; an employment which can alone belong to the exercise of
contemplation. But the whole of this is rendered indisputable by the
following re */. e. to its former divine condition. Bacchic
Mysteries. 121 markable testimony of Olympiodorus, in his
excellent manuscript Commentary on the PJuedo of Plato.* "In the
sacred rites," says he, "popular pui4fications are in the
first place brought forth, and after these such as are more arcane.
But, in the third place, collections of various things into one are
received; after which follows inspection. The ethical and political
virtues therefore are analogous to the apparent purifications; the
cathartic virtues which banish all external impressions, correspond to
the more arcane purifications. The theoretical energies about
intelligibles, are analogous to the collections; and the contraction of
these energies into an * We have taken the liberty to present the
following version of this passage, as more correctly expressing the sense
of the original: "At the holy places are first the public purifications.
With these the more arcane exercises follow; and after those the
obligations [-jozzaizz'.z) are taken, and the initiations follow, ending
with the epopiic disclosures. So, as will be seen, the moral and social
(political) virtues are analogous to the public purifications; the
purifying virtues in their turn, which take the place of all external
matters, correspond to the moi'e arcane disciplines; the contemplative
exei'cises concerning things to be known intuitively to the taking of the
obligations; the including of them as an undivided whole, to the
initiations; and the simple ocular view of simple objects to the epoptic
revelations." 122 Eleusinian and
indivisible nature, corresponds to initiation. And the simple
self-inspection of simple forms, is analogous to epoptic vision."
'On QZIQ. Etra ZTZl ZnjJZrjXZ aTZOrjfjr^ZOZZrjrjr ^xszfj, 5s
za'jzac, QOGzaaeic, Tzarjzhr^x'^jrjyrjyzrj, y-ai siri zaozruQ
ixorpBiQ- £v TsXst 5s siroirrscc/i. xVvc/AoyooaL TGCV'JV ai [J-sv TjO-^xat
7,7.^ 7:o/dziY.'y,i apsxa^ XGtc s[xcpavsai y,7,i)'7.p{j-occ. Ai 5s
%7.i)"7pii 7,7^ 0371 77C0a7.SU7.C0Vt7t TZaVZO. Zrj. kY.ZOC,
ZOIQ aTTopp'^ro-spoic. Ai 5s xspt ':7 voriza r^scopYpt%7c TS
svspYSi7.i zai^ GOGzaoeaiy. Ac 5s to'jtojv G'jya.irjSJsiQ sec "co
ajispiarov X7cc \vyqGZGiy. Ai 5s CLTZkr/l X(OV 7.7rAC0V SC5(0V
70X0'V.7C t71C s7U07ursc7t?. And here I can not refrain from
noticing, with indignation mingled with pity, the ignorance and arrogance
of modern critics, who pretend that this distribution of the virtues is
entirely the invention of the latter Platonists, and without any
foundation in the writings of Plato.* And among the supporters of such
ignorance, I am sovry to find * The writings of Augustin handed
Neo-Platonism down to posterity as the original and esoteric doctrine of the
first followers of Plato. He enumerates the causes which led, in his
opinion, to the negative position assumed by the Academics, and to the
con Bacchic Mysteries. 123 Fabricius, in his
prolegomena to the hfe of Proclus. For nothing can be more obvious
to every reader of Plato than that in his Laws he treats of the social
and political virtues; in his Phcedo, and seventh book of the
RepiibUc^ of the purifying; and in his Thceafetus, of the contemplative
and sublimer virtues. This observation is, indeed, so obvious, in the
Phcedo, with respect to the purifying virtues, that no one but a
verbal critic could read this dialogue and be insensible to its truth :
for Socrates in the very beginning expressly asserts that it is the
business of philosophers to study to die, and to be themselves dead,* and
yet at the same time reprobates suicide. What then can such
eealment of their real opinions. He describes Plotinus as a resuscitated
Plato. Against the Academics. Phcedo, 21. Kivoovjooos: y^P o'^o- TOY/_otvou-iv
op&to? «t:to|j.evo'. (pcXoaocp'.a? XsXfj^cVai la? aWooc^, bv. odgsv
aXXo aoxo'. ziz'.x-ffitiionz'y Y) aTCofl-VYjoxstv zt xa: TsS-vava:. /. e.
For as many as rightly apply themselves to philosophy seem to have left
others ignorant, that they themselves aim at nothing else than to die and
to be dead. Elsewhere (31) Socrates says : " While we live, we
shall approach nearest to intuitive knowledge, if we hold no communion
with the body, except, what absolute necessity requires, nor suffer
ourselves to be pervaded by its nature, but purify ourselves from it
until God himself shall release us. Eleusinian and a death mean but
symbolical or philosophical death ? And what is this but the true
exercise of the virtues which purify '? But these poor men read only
superficially, or for the sake of displaying some critical acumen
in verbal emendations; and yet with such despicable preparations for
philosophical discussion, they have the impudence to oppose their puerile
conceptions to the decisions of men of elevated genius and profound
investigation, who, happily freed from the danger and drudgery of
learning any foreign language,* directed all their attention
without restraint to the acquisition of the most exalted truth.
It only now remains that we prove, in the last place, that a
representation of the descent of the soul formed no inconsiderable part
of these mystic shows. This, indeed, is doubt * It is to be
regretted, nevertheless, that our author had not risked the " danger
and drudgery " of learning Greek, so as to have rendered fuller
justice to his subject, and been of greater service to his readers. We
are conscious that those who are too learned in verbal criticism are
prone to overlook the real purport of the text. A. W. Bacchic
Mysteries less occultly intimated by Yirgil, when speaking of the souls of the
blessed ui Elysium, he adds, Has omnes, ubi mille rotam
volvere per annos, Lethaeum ad fluviiim deus evocat agmine magno :
Scilicet immemores supera ut convexa revisant, Eursus et incipiant iu
eorpore velle reverti.* But openly by Apuleius in the
following prayer which Psyche addresses to Ceres : Per ego te
frugiferam tuam dextram istam deprecor, per Isetificas messium cserimonias,
per tacita sacra cistarum, et per famulorum tuorum draconum pinnata
cuiTicula, et glebae. Siculae fulcamina, et currum rapacem, et terram
tenacem, et illuminarum Proserpinse nuptiarum demeacula, et caetera quae
silentio tegit Eleusis, Atticae sacrarium; miserandse Psyches
animse, supplicis fuse, subsiste.f That is, "I beseech thee, by thy
fruit-bearing right * " All these, after they have passed away
a thousand years, are summoned by the divine one in great array, to the
Lethfean river. In this way they become forgetful of their former
earth-life, and revisit the vatilted realms of the world, willing again
to return into bodies." t Apuleius : The Golden Ass.
(Story of Cupid and Psyche), book vi. Bacchic Mysteries.
hand, by the joyful ceremonies of harvest, by the occult sacred
rites of thy cistae,* and by the winged car of thy attending dragons,
and the furrows of the Sicilian soil, and the rapacious chariot (or car
of the ravisher), and the dark descending ceremonies attending the
marriage of Proserpina^ and the ascending rites which accompanied the
lighted return of thy daughter^ and l)ij other arcana which Eleusis
the Attic sanctuary conceals in profound silence^ reheve the sorrows
of thy wretched suppliant Psyche." For the abduction of
Proserpina signifies the descent of the soul, as is e^ddent from the
passage previously adduced from Olympiodorus, in which he says the
soul descends Corically; f and this is confirmed by the authority of
the philosopher Sallust, who observes, " That the abduction of
Proserpina is fabled to have taken place about the opposite equinoctial;
and by this the descent of souls [into earth * Chests or baskets, made of
osiers, in which were enclosed the mystical images and utensils which the
uninitiated were not permitted to behold. t /• €. as to death;
analogously to the descent of Kore-Persephone to the Underworld. Ceres
lends lier ear to Triptolemus. Proserpina and Pluto. Jupiter augry.
Bacchic Mysteries life] is implied." Tlepi ^(oov x'ajv
svaviiav lo^q {)-ac, 6 5'^ /.^.O-oSoc soTt tcov '|y/cov.* And as the
abduction of Proserpina was exhibited in the dramatic representations of
the Mysteries, as is clear from Apuleius, it indisputably follows, that this
represented the descent of the soul, and its union with the dark tenement
of the body. Indeed, if the ascent and descent of the soul, and its
condition while connected with a material nature, were represented in the
dramatic shows of the Mysteries, it is evident that this was implied by
the rape of Proserpina. And the former part of this assertion is manifest
from Apuleius, when describing his initiation, he says, in the passage
already adduced : "I approached the confines of death, and having
trodden on the threshold of Proserpina, / returned^ having been carried
through all the elements.^'' And as to the latter part, it has been
amply proved, fi'om the highest authority, in the first division of this
discourse. De Diis et Mundo Meusinian and Nor must the reader be
distiu^bed on finding that, according to Porphyry, as cited by Eusebius,*
the fable of Proserpina alludes to seed placed in the ground; for this is
likewise true of the fable, considered accordingto its material explanation.
But it will be proper on this occasion to rise a httle higher, and
consider the various species of fables, according to their philosophical
arrangement; since by this means the present subject will receive an additional
elucidation, and the wisdom of the ancient authors of fables will
be vindicated from the unjust aspersions of ignorant declaimers. I
shall present the reader, therefore, with the following interesting
division of fables, fi'om the elegant book of the Platonic philosopher
Sallust, on the gods and the universe. " Of fables," says he,
" some are theological, others physical, others animastic (or
relating to soul), others material, and lastly, others mixed from
these. Fables are theological which relate to nothing corporeal, but
contemplate the very essences of the gods; such as * Evang. Prcepui
Bacchic Mysteries the fable which asserts that Saturn devoured his
children : for it insinuates nothing more than the nature of an
intellectual (or intuitional) god; since every such intellect returns
into itself. We regard fables physically when we speak concerning the
operations of the gods about the world; as when considering Saturn
the same as Time, and calhng the parts of time the children of the
universe, we assert that the children are devoiu'ed by their
parent. But we utter fables in a spiritual mode, when we contemplate the
operations of the soul; because the intellections of our souls,
though by a discursive energy they go forth into other things, yet abide
in their parents. Lastly, fables are material, such as the
Egyptians ignorantly employ, considering and calling corporeal natures
divinities : such as Isis, earth, Osiris, humidity, Typhon, heat •
or, again, denominating Saturn water, Adonis, fruits, and Bacchus, wine.
And, indeed, to assert that these are dedicated to the gods, in the same
manner as herbs, stones, and animals, is the part of wise men; but to
call them gods is alone the province of fools and Eleusinian
and madmen; unless we speak in the same manner as when, from
estabhshed custom, we call the orb of the sun and its rays the sun
itself. But we may perceive the mixed kind of fables, as well in
many other particulars, as when they relate that Discord, at a
banquet of the gods, tlu'ew a golden apple, and that a dispute
about it arising among the goddesses, they were sent by Jupiter to take
the judgment of Paris, who, charmed with the beauty of Venus, gave
her the apple in preference to the rest. For in this fable the banquet
denotes the super-mundane powers of the gods; and on this account they
subsist in conjunction with each other : but the golden apple denotes the
world, which, on account of its composition from contrary natures,
is not improperly said to be thrown by Discord, or strife. But again,
since different gifts are imparted to the world by different gods, they appear
to contest with each other for the apple. And a soul living according to
sense (for this is Paris), not perceiving other powers in the universe,
asserts that the apple is alone the beauty of Venus.
Bacchic Mysteries. 133 But of these species of fables, such
as are theological belong to philosophers; the physical and spiritual to
poets; l)ut the mixed to the first of the initiator i/ rites (ze'kszal(;);
since the intention of all mystic ceremonies is to conjoin us with the
world and the gods.^'' Thus far the excellent Sallust :
from whence it is evident, that "the fable of Proserpina, as
belonging to the Mysteries, is properly of a mixed nature, or
composed from all the four species of fables, the theological [spiritual
or psychical], and material. But in order to understand this divine
fable, it is requisite to know, that according to the arcana of the
ancient theology, the Coric * order (or the order belonging to
Proserpina) is twofold, one part of which is super-mundane, subsisting
with Jupiter, or the Demiurgus, and thus associated with him
establishing one artificer of divisible natures; but the other is
mundane, in which Proser * Coric from KopY], Kore, a name of Proserpina.
The name is derived by E. Pococke from the Sanscrit Goure EJeiisinian
and pina is said to be ravished by Pluto, and to animate the
extremities of the universe. *' Hence," says Prockis,
"according to the statement of theologists, who dehvered to us
the most holy Mysteries, she [Proserpina] abides on high in those
dwellings of her mother which she prepared for her in inaccessible
places, exempt from the sensible world. But she likewise dwells
beneath with Pluto, administering terrestrial concerns, governing the
recesses of the earth, supplying life to the extremities of the universe,
and imparting soul to beings which are rendered by her inanimate and
dead." Kai yap yj twv iJ-soXoytov "^'^{J-yj, xwv tac aytcoxata?
Y/^iiv £V EXsaacvt tsAs-ca? 7rry.pry.o£0(oy,Gxtov, avco, ji£v OL'jr/jV sv xocc
{X'ffrjOQ owoic JJLSV8CV cp'^acv, O'j^ Yj (J-'^r/jp aur^
y-arsaxsuaCsv sv a[57'0L? £(;Y^pY;{ji£voac too tz^vzoq. Katco §£
{i£'ca nXoD-covoc xcDV yO-ovuov eizapyeiy^ v.rj.i zooQ ZTiQ YQC, \Loyofjc
£':it'cpo7U£U£tv, vcat Cf«^Y^v £xop£Y£tv ZOIC eyrj.zoic ^oo xavToc, %at
^^/''i^ {ji£ta5i5ovat rote Trap £rjjjzo)y aj^oyoic, 7.ai V£xpot?.* Hence
we may easily perceive that * Proclus: TJieology of Plato Bacchic
Mysteries this fable is of the mixed kind, one part of which relates to
the super-mundane estabhshment of the secondarj^ cause of life,* and the
other to the procession or outgoing of life and soul to the farthest
extremity of things. Let us therefore more attentively consider the
fable, in that part of it which is symbolical of the descent of souls; in order
to which, it will be requisite to premise an abridgment of the
arcane discourse, respecting the wanderings of Ceres, as preserved
by Minutius Felix. " Proserpina," says he, " the
daughter of Ceres by Jupiter, as she was gathering tender flowers, in the
new spring, was ravished from her dehghtful abodes by Pluto; and
being carried from thence through thick woods, and over a length of
sea, was brought by Pluto into a cavern, the residence of departed
spirits, over whom she afterward ruled with absolute sway. But
* Plotiuus taught the existence of three hypostases in the Divine
Nature. There was the Demiurge, the God of Creation and Providence; the
Second, the Intelligible, self-contained and immutable Source of life; and
above all, the One, who like the Zervane Akerene of the Persians, is
above all Being, a pure will, an Absolute Love " Intellect." A. W. Bacchic Mysteries. Ceres,
upon discovering the loss of her daughter, with hghted torches, and begirt with
a serpent, wandered over the whole earth for the purpose of finding
her till she came to Eleusis; there she found her daughter, and
also taught to the Eleusinians the cultivation of corn." Now in this
fable Ceres represents the evolution of that intuitional part of
our nature which we properly denominate intellect'^ (or the unfolding of
the intuitional faculty of the mind from its quiet and collected condition
in the world of thought); and Proserpina that living, self -moving,
and animating part which we call sonl. But lest this comparing of
unfolded intellect to Ceres should seem ridiculous to the reader,
unacquainted with the Orphic theology, it is necessary to inform him that this
goddess, from her intimate union with Rhea, in conjunction with whom she
produced Jupiter, is Also denominated by Kant, Pure reason, and by
Cocker, Intuitive reason. It was considered by Plato, as not amenable to the conditions of time
and space, but in a particular sense, as dwelling in eternity : and
therefore capable of beholding eternal realities, and coming into
communion with absolute beauty, and goodness, and truth that is, with God, the Absolute
Being." Proserpina. Greek. Bacclius. India. Ceres.
Roman. Demeter. Ktruscan. Bacchic Mysteries evidently of a Saturnian
and zoogonic, or intellectual and vivific rank; and hence, as we are
informed by the philosopher Sallust, among the mundane divinities she is
the deity of the planet Saturn.* So that in consequence of this, our
intellect (or intuitive faculty) in a descending state must aptly
symbohze with the divinity of Ceres. But Pluto signifies the whole of a
material natui'e; since the empire of this god, according to Pythagoras,
commences downward from the Gralaxy or milky way. And the cavern
signifies the entrance, as it were, into the profundities of such a
nature, which is accomplished by the soul's union with this
terrestrial body. But in order to underderstand perfectly the secret meaning of
the other parts of this fable, it will be necessary to give a more
exphcit detail of the particulars attending the abduction, from the beautiful
poem of Claudian on this subject. From * Hence we may perceive the
reason why Ceres as well as Saturn was denominated a legislative deity; and why
illuminations were used in the celebration of the Saturnalia, as well as
in the Eleusinian Mysteries Bacchic Mysteries. this elegant
production we learn that Ceres, who was a&aid lest some violence
should be offered to Proserpina, on account of her inimitable beauty,
conveyed her privately to Sicily, and concealed her in a house built
on purpose by the Cyclopes, while she herself directs her course to
the temple of Cybele, the mother of the gods. Hej:'e, then, we see
the first cause of the soul's descent, namely, the abandoning of a life
wholly according to the higher intellect, which is occultly signified by,
the separation of Proserpina fi*om Ceres. Afterward, we are told that
Jupiter instructs Venus to go to this abode, and betray Proserpina from
her retirement, that Pluto may be enabled to carry her away; and to
prevent any suspicion in the virgin's mind, he commands Diana and Pallas
to go in company. The three goddesses arriving, find Proserpina at
work on a scarf for her mother; in which she had embroidered the
primitive chaos, and the formation of the world. Now by Venus in this
part of the narration we must understand desire^ which even in the celestial
regions (for such is the Venus, Diana, and Pallas visit Proserpina Bacchic
Mysteries residence of Proserpina till slie is ravished by Pluto), begins
silently and stealthily to creep into the recesses of the soul. By
Minerva we must conceive the rational power of the soul, and by
Diana, nature^ or the merely natural and vegetable part of our
composition; both which are now ensnared through the allurements of
desire. And lastly, the web in which Proserpina had displayed all
the fair variety of the material world, beautifully represents the commencement
of the illusive operations through which the soul becomes ensnared
with the beauty of imaginative forms. But let us for a while attend to
the poet's elegant description of her employment and abode :
Devenere locum, Cereris quo tecta nitebant Cyclopum firmata manu.
Stant ardua f erro Msenia; ferrati postes : immensaqiie nectit
Claustra elialybs. Nullum tanto sudore Pyracmon, Nee Steropes, eonstruxit
opus : nee talibus unquam Spiravere uotis animge : nee flumine
tanto Incoctum maduit lassa fornaee metallum. Atria vestit ebur :
trabibus solidatur aenis Culmen, et in eelsas surgunt eleetra
eolumnas. Ipsa domum tenero mulcens Proserpina eantu Irrita texebat
rediturje munera matri. Hie elementorum seriem sedesque pateruas
144 Eleusinian and Insignibat aeu : veterem qua lege
tutmiltum Diserevit natiira parens, et semiua jiistis Diseessere
locis : quidquid leve fertiu" iu altum : 111 medium graviora caduut
: incaiiduit tether : Egit flamma polum : fluxit mare •. terra
pependit Nee color uuus inest. Stellas accendit in auro. Ostro
fundit aquos, attollit litora gemmis, Filaque mentitos jam jam cfelantia
liuctus Arte tumeiit. Credas illidi cautibus algam, Et raucum
bibiilis inserpere murmur arenis. Addit quinqiie plagas : mediam
subtemine rubro Obsessam fervore notat : squalebat adustus Limes,
et assiduo sitiebant stamina sole. Vitales utrimque duas; quas mitis
oberrat Temperies habitanda viris. Tum fine supremo Torpentes traxit
geminas, brumaque perenni Fgedat, et a3terno coiitristat frigore
telas. Nee non et patrui piugit sacraria Ditis, Fatalesque sibi
manes. Nee def nit omen. Prasscia nam subitis maduerimt fletibus
ora. After this, Proserpina, forgetful of her parent's
commands, is represented as venturing from her retreat, through the
treacherous persuasions of Venus : Impulit Joiiios pra?misso
lumine fluetus Nondum pura dies : tremulis vibravit in iindis
Ardor, et errantes ludunt per cferula flammfe. Jamque audax animi,
fidseque oblita parentis, Fraude Dioiifea riguos Proserpina saltus
(Sic Parcse voluere) petit. Bacchic Mysteries And this with the greatest
propriety: for obhvion necessarily follows a remission of
intellectnal action, and is as necessarily attended with the allurements of
desire.* Nor is her dress less symbolical of the acting of When the
person turns the back upon his higher faculties, and disregards the
communications which he receives through them from the world of unseen
realities, an oblivion ensues of their existence, and the person is next
brought within the province and operation of lower and worldly ambitions,
such as a love of power, passion for riches, sensual pleasure, etc. This
is a descent, fall, or apostasy of the soul, a separation from the sources of divine
life and ravishment into the region of moral death. In the
Pluedras, in the allegory of the Chariot and Winged Steeds, Plato
represents the lower or inferior part of man's nature as dragging the
soul down to the earth, and subjecting it to the slavery of corporeal
conditions. Out of these conditions there arise numerous evils, that
disorder the mind and becloud the reason, for evil is inherent to the condition
of finite and multiform being into which we have "fallen by our own
fault." The present earthly life is a fall and a punishment. The soul is
now dwelling in ''the gi-ave which we call the body." In its
incorporate state, and previous to the discipline of education, the
rationalelement is " asleep." " Life is more of a dream than a
reality." Men are utterly the slaves of sense, the sport of phantoms
and illusions. We now resemble those " captives chained in a
subterraneous cave," so poetically described in the seventh book of
The Republic; their backs are turned to the light, and consequently
they see but the shadows of the objects which pass behind them, and
" they attribute to these shadows a perfect reality." Their
sojourn upon earth is thus a dark imprisonment in the body, a dreamy
exile from their proper home."
CucJcer's Greek Philosophy, Eleiisinian and the soul
in such a state, principally according to the energies and promptings of
imagination and nature. For thus her garments are beautifully described
by the poet : Qiias inter Cereris proles, nunc gloria luatris, Mox
dolor, sequali tendit per gratnina passu, Nee membris nee honore minor;
potuitque Pallas, si clipeum, si ferret spieula, Phoebe. CoUeetsB
tereti nodantur jaspide vestes. Peetinis ingenio nunquam felicior
arti Coutigit eventus. Nullse sic consona telae Fila, nee in tantum
veri duxere figuram. Hie Hyperionis Solem de semine nasei Fecerat,
et pariter, sed forma dispare lunam, Aurora} noetisque duces. Cunabula
Tethys Praebet, et infantes gremio solatur anhelos, Cseruleusque
sinus roseis radiatur alumnis. Invalidum dextro portat Titana
laeerto Nondum luce gravem, nee pubescentibus alte Cristatum radiis
: prime clementior sevo Fiugitur, et tenerum vagitu despiiit ignem.
Lseva parte soror vitrei libaraina potat Uberis, et parvo signatur
tempora cornu. In which description the sun represents the
phantasy, and the moon, nature, as is well known to every tyro in the
Platonic philosophy. They are likewise, with great propriety, described in
their infantine state : for Bacchic Mysteries. 147
these energies do not arrive to perfection previous to the sinking
of the soul into the dark receptacle of matter. After this we behold her
issuing on the plain with Minerva and Diana, and attended by a beauteous
train of nymphs, who are evident symbols of world of generation,* and
are, therefore, the proper companions of the soul about to fall
into its fluctuating realms. But the design of Proserpina, in
venturing from her retreat, is beautifully significant of her
approaching descent: for she rambles from home for the purpose of
gathering flowers; and this in a lawn replete with the most
enchanting variety, and exhahng the most dehcious odors. This is a
manifest image of the soul operatmg principally according to the natural
and external life, and so becoming effeminated and ensnared through
the delusive attractions of sensible form. Minerva (the rational faculty
in this case), likewise gives herself wholly to the *
Porphyry : Cave of the Nymphs. lu the later Greek, v'j|i.'f rj sigaified
a bride. EJeusinian and dangerous employment, and abandons
the proper characteristics of her nature for the destructive revels
of desire. All which is thus described with the utmost elegance by
the poet : Forma loci siiperat flores : eurvata tumore Pai'vo
planities, et moUibus edita clivis Creverat in eoUem. Vivo de pumice
fontes Roscida mobilibus lambebant gramina rivis. Silvaque
torrentes ramonim fi"igore soles Temperat, et medio brumam sibi
viudicat sestu. Apta fretis abies, bellis aecomoda eomus, Quercus
arnica Jovi, tumulos tectura cupressus, Hex plena favis, venturi pra?seia
lanrus. Fluctuat hie denso crispata cacumine buxus, Hie ederae
serpunt, hie pampinus indnit ulmos. Hand proeul inde laciis (Pergum
dixere Sioani) Panditur, et nemorum frondoso margine cinetus
Vicinis pallescit aquis : admittit in altum Cernentes oculos, et late
perviiis humor Ducit inoflfensus liquido sub gurgite visus, Imaque
perspicui prodit secreta profundi. Hue elapsa eohors gaudent per
florea rura Hortarur Cytherea, legant. Nunc ite, sorores, Dum matutinis
prsesudat solibus aer : Dum meus humectat flaventes Lucifer agros,
Rotanti praevectus equo. Sic fata, doloris Carpit signa sui. Varios turn
cjetera saltus Invasere eohors. Credas examina fundi Hyblagum
raptura thymum, cum cerea reges Baccliic Mysteries.
149 Castra movent, fagique cava demissus ab alvo Mellifer
electis exereitus obstrepit lierbis. Pratorum spoliatur honos. Hac lilia
fuseis Iiitexit violis : banc mollis amaraeus ornat : Heec graditur
stellata rosis; haec alba ligiistris. Te quoqiie flebilibus mserens,
Hyacintbe, figuris, Narcissumque metunt, nunc inclita germina
veris, Proestantes dim pueros. Tu natus Amyclis : Hunc Helicon
genuit. Te disci perculit error : Hune fontis decepit amor. Te fronte retusa
Deluis, hiinc fracta Cephissus arundiue luget. j3^]staat ante alias avido
fervore legeudi Frugiferte spes una Dese. Nunc vimine texto
Eidentes ealatbos spoliis agrestibus implet : Nunc sociat flores, seseque
ignara corouat. Augurium fatale tori. Quin ipsa tubarum Armorumque
potens, dextram qua fortia turbat Agmina; qua stabiles portas et msenia
vellit, Jam levibus laxat studiis, hastamque reponit, Insolitisque
docet galeam mitescere sertis. Ferratus lascivit apex, horrorque
recessit Martins, et cristse pacato fulgure vernant. Nee quae
Parthenium canibus scrutatur odorem, Aspernata clioros, libertatemque
comarum Injecta tantum voluit freuare corona. But there is a
circumstance relative to the narcissus which must not be passed over
in silence : I mean its being, according to Ovid, the metamorphosis
of a youth who fell a victim to the love of his own corporeal form;
the secret meaning of which most admirably accords with the rape of
Proserpina, which, according to Homer, was the immediate consequence of
gathering this wonderful flower.* For by Narcissus falling in love
with his shadow in the limpid stream we may behold an exquisitely apt
representation of a soul vehemently gazing on the flowing condition of a
material body, and in consequence of this, becoming enamored with a
corporeal life, which is nothing more than the delusive image of the true
man, or the rational and immortal soul. Hence, by an immoderate
attachment to this unsubstautial mockery and gliding semblance of the
real soul, such an one becomes, at length, wholly changed, as far as is
possible to his nature, into a vegetive condition of being, into a
beautiful but transient flower, that is, into a corporeal life, or a life
totally consist * Homer: Rymn to Ceres. "We were plucking the
pleasant flowers, the beauteous crocus, and the Iris, and hyacinth, and
the narcissus, which, like the crocus, the wide earth produced. I
was plucking them with joy, when the earth yawned beneath, and out
leaped the Strong King, the Many-Receiver, and went bearing me, grieving
much, beneath the earth in his golden chariot, and I cried aloud. Pioseipiua
gathering Flowers. Pluto carrj'iiig off Pioserplna.
Bacchic Mysteries, 153 ing in the mere operations of
nature. Proserpina, therefore, or the soul, at the very instant of her
descent into matter, is, with the utmost propriety, represented as
eagerly engaged in pkicking this fatal flower; for her faculties at
this period are entirely occupied with a hf e divided about the fluctuating
condition of body. After this, Pluto, forcing his passage
through the earth, seizes on Proserpina, and carries her away with him,
notwithstanding the resistance of Minerva and Diana. They, indeed, are
forbid by Jupiter, who in this place signifies Fate, to attempt her
deUverance. By this resistance of Minerva and Diana no more is signified
than that the lapse of the soul into a material nature is contrary
to the genuine wish and proper condition, as well of the corporeal hfe
depending on her essence, as of her true and rational nature. Well,
therefore, may the soul, in such a situation, pathetically exclaim
with Proserpina : 154 Bacchic Mysteries. O male
dileeti flores, despeetaque matris Consilia : O Veneris deprensse serius
artes ! * But, according to Minutius Felix, Proserpina was
carried by Pluto tlu-ough thick woods, and over a length of sea, and
brought into a cavern, the residence of the dead : where by 'woods
a material nature is plainly implied, as we have already observed in the
first part of this discourse; and where the reader may likewise
observe the agreement of the description in this particular with that of Yvngil
in the descent of his hero : Tenent media omnia silvce
Coeytusque sinuque labens, cireumvenit atro.t In these words the
woods are expressly mentioned; and the ocean has an evident
agreement with Cocytus, signifying the outflowing condition of a material
nature, and the sorrows and sufferings attending its connection with the
soul. Oh flowers fatally dear, and the mother's cautions despised :
Oh cruel arts of cunning Venus ! t " Woods cover all the
middle space and Cocytus gliding on, surrounds it with his dusky bosom. Bacchic
Mysteries Pluto hurries Proserpina into the infernal regions : in other
words, the soul is sunk into the profound depth and darkness of a
material nature. A description of her marriage next succeeds, her union with
the dark tenement of the body: Jam siius iuferno processerat
Hesperus orbi Ducitur in thalamum virgo. Stat pronuba juxta
Stellautes Nox pieta sinus, tangensque cubile Omina perpetuo genitalia
federe sancit. Night is with great beauty and propriety introduced
as standing by the nuptial couch, and confirming the oblivious league.
For the soul through her union with a material body becomes an
inhabitant of darkness, and subject to the empire of night; in
consequence of which she dwells wholly with delusive phantoms, and till she
breaks her fetters is deprived of the intuitive perception of that which
is real and true. In the next place, we are presented with the
following beautiful and pathetic description of Proserpina appearing in a dream
to Eleusinian and Ceres, and bewailing her captive and
miserable condition : Sed tunc ipsa, sui jam non ambagibus
ullis Nuutia, materna faeies ingesta sopori. Namque videbatur
tenebroso obtecta reeessu Carceris, et ssevis Proserpina vineta
catenis, Non qualem roseis nuper convallibus ^tnae Suspexere Dete.
Squalebat pulchrior auro Csesaries, et nox oculorum infeeerat
ignes. Exhaustusque gelu pallet rubor. Die superbi Flamineus oris
honos, et non cessura pruinis Membra eolorantur pieei caligine
regni. Ergo hanc ut dubio vix tandem agnoseere visu Evaluit : cujus
tot p«n£e criminis ? inquit. Unde hsec infoi'mis macies ? Cui tanta f
acultas In me ssevitisB est? Eigidi cur vincula ferri Vix aptanda f
eris molles meruere lacerti ? Tu, mea tu proles I An vana fallimur umbra
? Such, indeed, is the wretched situation of the soul when
profoundly merged in a corporeal nature. She not only becomes captive and
fettered, but loses all her original splendor; she is defiled with the impurity
of matter; and the sharpness of her rational sight is blunted and dunmed
through the thick darkness of a material night. The reader may
observe how Proserpina, being represented as confined in the dark recess of
a Bacchic Mysteries prison, and bound with fetters, confirms the
explanation of the fable here given as symbolical of the descent of the soul;
for such, as we have ah*eady largely proved, is the condition of
the soul from its union with the body, according to the uniform testimony
of the most ancient philosophers and priests. After this, the
wanderings of Ceres for the discovery of Proserpina commence. She
is described, by Minutius Fehx, as begirt ^dth a serpent, and
bearing two hghted torches in her hands; but by Claudian, instead of
being gu^t with a serpent, she commences her search by night in a
car drawn by dragons. But the meaning of the allegory is the same
in each; for both a serpent and a di'agon are emblems of a divisible hfe
subject to transitions and changes, with which, in this case, our
intellectual (and diviner) part becomes connected : since as these
animals put off their skins, and become young again, so Manteis,
/jLavisic, not bpE'.;;. The term is more commonly translated prophets, and
actually signifies persons gifted with divine insight, through being in
an entheastic condition, called also mania or divine fury. Bacchic
Mysteries. tlie divisible life of the soul, falling into
generation, is rejuvenized in its subsequent career. But what emblem can
more beautifully represent the evolutions and outgoings of an intellectual
nature into the regions of sense than the wanderings of Ceres by
the hght of torches through the darkness of night, and continuing the
pursuit until she proceeds into the depths of Hades itself ? For
the intellectual part of the soul,* when it verges towards body,
enkindles, indeed, a light in its dark receptacle, but becomes itself situated
in obscurity : and, as Proclus somewhere divinely observes, the
mortal nature by this means participates of the divme intellect, but the
intellectual part is drawn down to death. The tears and lamentations too,
of Ceres, in her coiu'se, are symbolical both of the providential operations
of The soul is a composite nature, is on one side linked to the
eternal world, its essence being generated of that ineffable element which
constitutes the real, the immutable, and the permanent. It is a beam of the
eternal Sun, a spark of the Divinity, an emanation from God. On the other
hand, it is linked to the phenomenal or sensible world, its emotive part being
formed of that which is relative and phenomenal." Cocker. Bacchic Mysteries. intellect
about a mortal nature, and the miseries with which such operations are
(with respect to imperfect souls like oui's) attended. Nor is it
without reason that lacchus, or Bacchus, is celebrated by Orpheus as
the companion of her search : for Bacchus is the evident symbol of
the imperfect energies of intellect, and its scattering into the
obscure and lamentable dominions of sense. But our
explanation will receive additional strength from considering that these
sacred rites occupied the space of nine days in their celebration;
and this, doubtless, because, according to Homer,* this goddess did
not discover the residence of her daughter till the expu-ation of
that period. For the soul, in falling from her original and divine
abode in the heavens, passed through eight spheres, Hymn to Ceres.
"For nine days did holy Demeter perambulate the earth . . and when
the ninth shining morn had come, Hecate met her, bringing news. Apuleius
also explains that at the initiation into the Mysteries of Isis the
candidate was enjoined to abstain from luxurious food for ten days, from
the flesh of animals, and from wine.
Golden Ass, book xi. p. 239 (BoJin). Eleusinian and
namely, the fixed or inerratic sphere, and the seven planets,
assuming a different body, and employing different faculties in
each; and becomes connected with the sublunary world and a terrene
body, as the ninth, and most abject gradation of her descent. Hence
the first day of initiation into these mystic rites was called agurmos^ L
e. according to Hesychius, eM'Jesia et '^rav to ayscpoiJ-svov, an
assembly^ and all collecting fogefher : and this with the greatest
propriety; for, according to Pythagoras, "the people of dreams
are souls collected together in the Gralaxy.* Atj[jlo^ 5s ovstpcov 7.a.za
noO-ayopav Jcav.f And from this part of the heavens souls
first begin to descend. After this, the soul falls from the tropic of
Cancer into the planet Satm'n; and to this the second day of
initiation was consecrated, which they called AXol5s (j-uarai, [" to
the sea, ye initiated ones ! "] because, says Meui'sius, on that
* Only persons taking a view solely external will suppose the
galaxy to be literally the milky belt of stars in the sky. t Cave of the
Xymphs. Bacchic Mysteries day the crier was accustomed to admonisli
the mystte to betake themselves to the sea. Now the meaning of this will
be easily understood, by considering that, according to the arcana
of the ancient theology, as may be learned from Proclus, the whole
planetary system is under the dominion of Neptune; and this too is
confirmed by Martianus Capella, who describes the several planets
as so many streams. Hence when the soul falls into the planet Saturn,
which Capella compares to a river voluminous, sluggish, and cold,
she then first merges herself into fluctuating matter, though purer than
that of a sublunary natiu'e, and of which water is an ancient and
significant symbol. Besides, the sea is an emblem of purity, as is
evident from the Orphic hymn to Ocean, in which that deity is
called {^swv ayvtajxa {xsy^^'^^v, tlieon agnisma megiston^ i. e. the
greatest purifier of the gods : and Saturn, as we have already
observed, is pure [intuitive] intellect. And what still more confirms
this observation is, that Pythagoras, as we are informed by Por *
Theology of Plato Bacchic Mysteries. pliyry, in his life of that
philosopher, symbolically called the sea a tear of Saturn. But the eighth
day of initiation, which is symbohcal of the falhng of the soul into the
lunar orb,* was celebrated by the candidates by a repeated
initiation and second sacred rites; because the soul in this situation is
about to bid adieu to every thing of a celestial natui'e; to sink
into a perfect obhvion of her divine origin and pristine felicity; and to
rush profoundly into the region of dissimilitude,! ignorance, and error.
And lastly, on the ninth day, when the soul falls into the sublunary
world and becomes united with a terrestrial body, a hbation was performed,
such as is usual in sacred rites. Here the initiates, filling two
earthen vessels of broad and spacious bottoms, which were called
irX'^fj-o/oat, plemokhoai^ and y-G-cuXoaTcoL, JcotuIusJioi, the
former of these words denoting vessels of a conical shape, and the latter
small bowls or The Moon typified the mother of gods and men. The
soul descending into the lunar orb thus came near the scenes of
earthly existence, where the life which is transmitted by generation
has opportunity to involve it about. t The condition most
unlike the former divine estate. Goddess Night. Three Graces Bacchic
Mysteries cups sacred to Bacchus, they placed one towards the east, and
the other towards the west. And the first of these was doubtless,
according to the interpretation of Proclus, sacred to the earth, and
symbolical of the soul proceeding from an orbicular figure, or
divine form, into a conical defluxion and terrene situation : * but the other
was sacred to the soul, and symbolical of its celestial origin;
since our intellect is the legitimate progeny of Bacchus. And this too
was occultly signified by the position of the earthen vessels; for, according
to a mundane distribution of the divinities, the eastern center of the
universe, which is analogous to fire, belongs to Jupiter, who likewise
governs the fixed and inerratic sphere; and the western to Pluto,
who governs the earth, because the west is allied to earth on account
of its dark and nocturnal nature. f Again, according to
Clemens Alexandrinus, the following confession was made by * An
orbicular figure symbolized the maternal, and a cone the masculine divine
Energy. t Proclus: Theology of Plato Eleusinian and tlie new
initiate in these sacred rites, in answer to the interrogations of the
Hierophant : "I have fasted; I have drank the Cyceon; I have taken
out of the Cista, and placed what I have taken ont into the
Calathns; and alternately I have taken out of the Calathus and put into
the Cista." Kcj^a-cc xo a'jv^r^{xa EXsoaivLcov {xoax-r^puov.
EvYja-cwaa* xtatY^v. But as this pertains to a circumstance
attending the wanderings of Ceres, which formed the most mystic and
emblematical part of the ceremonies, it is necessary to adduce the
following arcane narration, summarily collected from the writings
of Arnobius : " The goddess Ceres, when searching through the earth
for her daughter, in the course of her wanderings arrived at the
boundaries of Eleusis, in the Attic region, a place which was then
inhabited by a people called Autochthones, or descended fi'om
the Homer: Hymn to Ceres. "To her Metaneira gave a cup of sweet
wine, but slie refused it; but bade her to mix wheat and water with
pounded pennyroyal. Having made the mixture, she gave it to the
goddess." Bacchic Mysteries earth, whose names were as
follows : Baubo and Triptolemus; Dysaules, a goatherd; Eubulus, a keeper
of swme; and Eumolpus, a shepherd, from whom the race of the Eumolpidse
descended, and the illustrious name of Cecropidse was derived; and who
afterward flourished as bearers of the caduceus, hierophants, and criers
belonging to the sacred rites. Baubo, therefore, who was of the female
sex, received Ceres, wearied with complicated evils, as her guest, and
endeavored to soothe her sorrows by obsequious and flattering attendance.
For this purpose she entreated her to pay attention to the refreshment of
her body, and placed before her a mixed potion to assuage the vehemence
of her thirst. But the sorrowful goddess was averse from her
solicitations, and rejected the friendly officiousness of the hospitable
dame. The matron, however, who was not easily repulsed, still continued her
entreaties, which were as obstinately resisted by Ceres, who
persevered in her refusal with unshaken persistency and invincible firmness.
But when Baubo had thus often exerted her endeavors Bacchic
Mysteries. to appease the sorrows of Ceres, but without any
effect, she, at length, changed her arts, and determined to try if she
could not exhilarate, by prodigies (or out-of-the-way expedients), a mind which
she was not able to allure by earnest endeavors. For this purpose she
uncovered that part of her body by which the female sex produces children
and derives the appellation of woman.* This she caused to assume a
purer appearance, and a smoothness such as is found in the private
parts of a stripling child. She then returns to the afflicted goddess,
and, in the midst of those attempts which are usually employed to
alleviate distress, she uncovers herself, and exhibits her secret parts;
upon which the goddess fixed her eyes, and was diverted with the
novel method of mitigating the anguish of soiTow; and afterward, becoming
more cheerful through laughter, she assuages her thirst with the mingled
potion which she had before despised." Thus far Arnobius; and
the same narration is epitomized by Clemens Alexandrinus, who is very
indignant * FuvT), (June, woman, from y^juvo;, gounos, Latin
ciodiks. Cupifl auil Veuus. Satyr and Goat. Baubo, Ceres, and Nymphs.
Bacchic Mysteries at the indecency as he conceives, in the
stoiy, and because it composed the arcana of the Eleusinian rites.
Indeed as the simple father, with the usual ignorance of a
Christian priest, considered the fable literally, and as designed
to promote indecency and lust, we can not wonder at his ill-timed abuse.
But the fact is, this narration belonged to the aiuoppYjxa,
aporrheta^ or arcane discourses, on account of its mystical meaning, and
to prevent it from becoming the object of ignorant declamation,
licentious perversion, and impious contempt. For the purity and excellence of
these institutions is perpetually acknowledged even by Dr. Warburton
himseK, who, in this instance, has dispersed, for a moment, the mists of
delusion and intolerant zeaLf Besides, as lamblichus beautifully
observes, t "exhibitions of this kind in the Mysteries were designed
to free us from hcen Uneandidness was more probably the fault of which
Clement was guilty. t Divine Legation of Moses, book
ii. I "The wisest and best men in the Pagan world are
unanimous in this, that the Mysteries were instituted pure, and proposed
the noblest ends by the worthiest means. Bacchic Mysteries.
tioiis passions, by gratifying the sight, and at the same time
vanquisliing desire, through the awful sanctity with which these
rites were accompanied : for," says he, " the proper way
of freeing ourselves from the passions is, first, to indulge them mth
moderation, by which means they become satisfied; hsten, as it
were, to persuasion, and may thus be entirely removed."* This doctrine is
indeed so rational, that it can never be objected to by any but
quacks in philosophy and rehgion. For as he is nothing more than a quack
in medicine who endeavors to remove a latent bodily disease before
he has called it forth externally, and by this means diminished its
fuiy; so he is nothing more than a pretender in philosophy who attempts
to remove the passions by violent repression, instead of moderate
comphance and gentle persuasion. But to return from this
disgression, the following appears to be the secret meaning of this
mystic discourse : The matron Baubo may be considered as a symbol of that
pas * Mysteries of the Egyptians, Chaldeans, and Assyrians. Bacchic
Mysteries. 177 sive, womanish, and corporeal life tlirongh
whicli the soul becomes united with this earthly body, and through which,
being at first ensnared, it descended, and, as it were, was born
into the world of generation, passing, by this means, from mature
perfection, splendor and reality, into infancy, darkness, and
error. Ceres, therefore, or the intellectual soul, in the course of her
wanderings, that is, of her evolutions and goings-f orth into
matter, is at length captivated with the arts of Baubo, or a corporeal hf
e, and forgets her sorrows, that is, imbibes oblivion of her
wretched state in the mingled potion which she prepares : the mingled
hquor being an obvious symbol of such a life, mixed and impure, and, on
this account, liable to corruption and death; since every thing pure and
unmixed is incorruptible and divine. And here it is necessary to caution
the reader from imagining, that because, according to the fable, the
wanderings of Ceres commence after the rape of Proserpina, hence
the intuitive intellect descends subsequently to the soul, and separate from
it. Eleusinimi and Notliing more is meant by this
circumstance than that the diviner intellect, from the superior
excellence of its nature, has in cause, though not in time, a priority to
soul, and that on this account a defection and revolt (and descent
earthward from the heavenly condition) commences, from the soul,
and afterward takes place in the intellect, yet so that the former
descends with the latter in inseparable attendance. From this
explanation, then, of the fable, we may easily perceive the meaning of
the mystic confession, / have fasted; I have drank a mingled
potion, etc.; for by the former part of the assertion, no more is
meant than that the higher intellect, previous to imbibing of oblivion
through the deceptive arts of a corporeal life, abstains from all
material concerns, and does not mingle itself (as far as its nature is
capable of such abasement) with even the necessary delights of the
body. And as to the latter part, it doubtless alludes to the descent of
Proserpina to Hades, and her re-ascent to the abodes of her mother Ceres :
that is, to the outgoing and return of the soul, alternately falhng
into generation, and ascending thence into the intelhgible world, and
becoming perfectly restored to her divine and intellectual nature. For the
Cista contained the most arcane symbols of the Mysteries, into
which it was unlawful for the profane to look : and whatever were its
contents, we learn from the hymn of Callimachus to Ceres, that they
were formed from gold, which, from its incorruptibihty, is an evident
symbol of an immaterial nature. And as to the Calathus, or basket, this,
as we are told by Claudian, was filled with spoliis agrestibus^ the
spoils or fruits of the field, which are manifest symbols of a life
corporeal and earthly. So that the candidate, by confessing that he had
taken from the Cista, and placed what he had taken into the
Calathus, A golden serpent, an egg, and the phallus. The epopt looking
upon these, was rapt with awe as contemplating in the»symbols the deeper mysteries
of all life, or being of a grosser temper, took a lascivious impression.
Thus as a seer, he beheld with the eyes of sense or sentiment; and the
real apocalypse was therefore that made to himself of his own moral life
and character. A. W. Eleusinian
and and tlie contrary, occultly acknowledged the descent of
his soul from a condition of being super-material and immortal, into one
material and mortal; and that, on the contrary, by hving according to the
purity which the Mysteries inculcated, he should re-ascend to that
perfection of his nature, from which he had unhappily fallen. Exiled from
the true home of the spirit, imprisoned in the body, disordered by
passion, and becloixded by sense, the soul has yet longings after that
state of perfect knowledge, and purity, and bliss, in which it was first
created. Its affinities are still on high. It yearns for a higher and
nobler form of life. It essays to rise, but its eye is darkened by sense,
its wings are besmeared by passion and lust; it is ' borne downward until it
falls upon and attaches itself to that which is material and sensual,'
and it flounders and grovels still amid the objects of sense. And now,
Plato asks: How may the soul be delivered from the illusions of sense,
the distempering influence of the body, and the disturbances of passion,
which becloud its vision of the real, the good, and the true?"
" Plato believed and hoped that this could be accomplished by
philosophy. This he regarded as a grand intellectual discipline for the
purification of the soul. By this it was to be disenthralled from the
bondage of sense, and raised into the empyrean of pure thought, 'where
truth and reality shine forth.' All souls have the faculty of knowing,
but it is only by reflection and self-knowledge, and intellectual
discipline, that the soul can be raised to the vision of eternal truth,
goodness, and beauty that is, to
the vision of God." Cocker:
Christianity and Greek Philosophy Bacchic Mysteries It only now remains that we
consider the last part of this fabulous narration, or arcane
discourse. It is said, that after the goddess Ceres, on arriving at
Eleusis, had discovered her daughter, she instructed the Eleusinians
in the planting of corn : or, according to Claudian, the search of Ceres
for her daughter, through the goddess, instructing in the art of tillage
as she went, proved the occasion of a universal benefit to mankind. Now
the secret meaning of this will be obvious, by considering that the
descent of the superior intellect into the realms of generated existence
becomes, indeed, the greatest benefit and ornament which a material
nature is capable of receiving : for without this participation of
intellect in the lowest department of corporeal life, nothing but the
irrational soul* and a brutal life would subsist in its dark and
fluctuating abode, the body. As the art of tillage, therefore, and
particularly the growing of corn, becomes the greatest possi *
" It is linked to the phenomenal or sensible world, its emotive part
(sTitf)ujj.Y)Tixov) being formed of what is relative and phenomenal. Elensinian
and ble benefit to our sensible life, no symbol can more
aptly represent the unparalleled advantages arising from the evolution and
procession of intellect with its divine natui^e into a corporeal life,
than the good resulting from agriculture and corn : for whatever of
horrid and dismal can be conceived in night, supposing it to be
perpetually destitute of the friendly illuminations of the moon and
stars, such, and infinitely more dreadful, would be the condition
of an earthly nature, if deprived of the beneficent irradiations [irfioo5o J
and supervening benefits of the diviner hfe. And this much
for an explanation of the Eleusinian Mysteries, or the history of Ceres
and Proserpina; in which it must be remembered that as this fable, according to
the excellent observation of Sallust already adduced, is of the mixed
kind, though the descent of the soul was doubtless principally
alluded to by these sacred rites, yet they hkewise occultly signified,
agreeable to the nature of the fable, the descending of divinity
Bacchic Mysteries. 183 into the sublunary world. But
when we view the fable in this part of its meaning, we must 'be
careful not to confound the nature of a partial inteUect like ours with
the one universal and divine. As everything subsisting about the gods is
divine, therefore intellect in the highest degree, and next to this
soul, and hence wanderings and abductions, lamentations and tears, can
here only signify the participations and providential operations of these
in inferior natures; and this in such a manner as not to derogate
from the dignity, or impair the perfection, of the divine principle
thus imparted. I only add, that the preceding exposition will
enable us to perceive the meaning and beauty of the following
representation of the rape of Proserpina, from the Heliacan tables of
Hieronymus Aleander. Here, first of all, we behold Ceres in a car drawn by
two dragons, and afterwards, Diana and Minerva, with an inverted calathus
at their feet, and pointing out to Ceres her daughter Proserpina, who is
hurried away by Pluto in his KiRCHEB : Obeliscus Famjyhilius Meusinian
and car, and is in the attitude of one struggling to be free.
Hercules is likewise represented with his club, in the attitude of
opposing the violence of Pluto : and last of all, Jupiter is
represented extending his hand, as if wilhng to assist Proserpina in
escaping from the embraces of Pluto. I shall therefore conclude this
section with the following remarkable passage from Plutarch, which will
not only confirm, but be itself corroborated by the preceding
exposition. 'Ozi [xey o'jv y^ TzaXata ^uaio/voyca, xai Trap EWrpi xai
Bappa Tcporpoc, %r/x ix'jaz'qpiMOfic, GooXoyca. Ta ts XrjXo'j[j,£V7. Tcov
arj'cojxsvcov Gr//fe::ze[jrj. zoic, izoXXoic syovza. Kat zr/. arj'cojisva tcov
AaXoy|jLSV(ov UTTOTrrorspct. AyjXov sart, pergit, £v tolc OpcptY.01Q
s-i^sac, y,ac tote Ar^'oirrtaxoic %ai (j^prrfirjiQ XojoiQ. MaXcara 5s of
'Jispt try.c xsXszac opytaa{j,oc, y,7.c 1:7. $po){X£V7 a'j|x[BoXi%(oc sv
zaiQ cspoapycaie, xyjv tcov TzrjXrjKov sjxrpacvat $iavoirjy.^ i. e.
" The ancient physiology,! both Plutarch : Euseh. i I. e.
Exposition of the laws and oi^erations of Nature. Bacchic Mysteries of the
Greeks and the Barbarians^ was nothing else than a discoiu'se on natiu^al
subjects, involved or veiled in fables, conceahng many things
through enigmas and under -meanings, and also a theology taught, in
which, after the manner of the Mysteries,* the things spoken were
clearer to the multitude than those dehvered in silence, and the
things delivered in silence were more subject to investigation than
what was spoken. This is manifest from the Orphic verses^ and the
Egyptian and Phrygian discourses. But the orgies of initiations^ and the
sumbolical ceremonies of sacred rites especiallij, exhibit the
understanding had of them by the ancients,'''' MuaxYjp:tuoTj?,
mystery-like. A.IB^ Psyche Asleep in Hades. River
Gortrtesses. :::? THE Dionysiacal sacred rites
instituted by Orpheus,* depended on the following arcane narration, part
of which has been already related in the preceding section, and the
rest may be found in a variety of authors. "Dionysus, or Bacchus
[Zagreus], while he was yet a boy, w^s engaged by the Titans,
through the stratagems of Juno, in a variety of sports, with which that
period of Whethei' Orpheus was an actual living person has been questioned
by Aristotle; but Herodotus, Pindar, and other writers, mention him.
Although the Orphic system is asserted to have come from Egypt, the
internal evidence favors the opinion that it was derived from India, and
that its basis is the Buddhistic philosophy. The Orphic associations of Greece
were ascetic, contrasting markedly with the frenzies, enthusiasm, and license
of the popular rites. The Thracians had numerous Hindu customs. The
name Kox-e is Sanscrit; and Zeus may be the Dyaus of Hindu story. His
visit to the chamber of Kore-Persephoneia (Parasu-pani) in the form of a
dragon or na(ja, and the horns or crescent on the head of the child, are
Tartar or Buddhistic. The Eleusinian and life is so vehemently
allured; and among the rest, he was particularly captivated with
beholding his image in a mirror; during his admiration of which, he was
miserably torn in pieces by the Titans; who, not content with this
cruelty, first boiled his members in water, and afterwards roasted them
by the fire. But while they were tasting his flesh thus dressed,
Jupiter, roused by the odor, and perceiving the cruelty of the
deed, hurled his thunder at the Titans; but committed the members of
Bacchus to Apollo, his brother, that they might be properly interred. And
this being performed, Dionysus (whose heart during his laceration was
snatched away by Pallas and preserved), by a new regeneration again
emerged, and being restored to his pristine life and integ name
Zagreus is evidently Chahra, or ruler of the earth. The Hera who
compassed his death is Aira, the wife of Buddha; and the Titans are the
Daityas, or apostate tribes of India. The doctrine of metempsychosis is
expressed by the swallowing of the heart of the murdered child, so as to
reabsorb his soul, and bring him anew into existence as the son of
Semele. Indeed, all the stories of Bacchus liave Hindu characteristics;
and his cultus is a part of the serpent worship of the ancients. The
evidence appears to us unequivocal. A. W. Bacchic Mysteries rity, he
afterwards filled up the number of the gods. But m the mean time, from
the exhalations arising from the ashes of the burning bodies of the
Titans, mankind were produced." Now, in order to understand
properly the secret of this naiTation, it is necessary to repeat the
observation already made in the preceding chapter, "that all
fables belonging to mystic ceremonies are of the mixed kind " : and
consequently the present fable, as well as that of Proserpina, must
in one part have reference to the gods, and in the other to the human
soul, as the following exposition will abundantly evince : In
the first place, then, by Dionysus, or Bacchus, according to the highest
conception of this deity, we understand the spiritual part of the mundane
soul; for there are Various processions or avatars of this god, or
Bacchuses, derived from his essence. But by the Titans we must understand
the mundane gods, of whom Bacchus is the highest; by Jupiter, the
Demiurgus, or artificer of Plotiuus regarded the Demiurgus, or creator,
as the god of providence, thought, essence, and power. Above him was
the Eleusinian and the universe; by Apollo, the deity of
the Sun, who has both a mundane and supermundane establishment, and by
whom the universe is bound in symmetry and consent, through
splendid reasons and harmonizing power; and, lastly, by Minerva we must
understand that original, intellectual, ruhng, and providential deity,
who guards and preserves all middle lives* in an immutable condition,
through intelhgence and a selfsupporting life, and by this means sustains
them from the depredations and inroads of matter. Again, by the infancy
of Bacchus at the period of his laceration, the condition of the
intellectual natui^e is imphed; since, according to the Orphic theology, souls,
under the government of Saturn, or Kronos, who is pure intellect or
spirituality, instead of proceeding, as now, from youth to age, advance
in a retrograde progression from age to youth.t The arts employed
by deity of " pure intellect," aud still higher The One.
These three were the hypostases. Lives which are not conjoined with
material bodies, nor yet elevated to the lofty state which is the true
divine condition. t Emanuel Swedenborg says: "They who are in
heaven are Bacchic Mysteries. 191 the Titans, in
order to ensnare Dionysus, are symbolical of those apparent and
divisible operations of the mundane gods, through which the
participated intellect of Bacchus becomes, as it were, torn in pieces;
and by the mirror we must understand, in the language of Proclus, the
inaptitude of the universe to receive the plenitude of intellectual or
spiritual perfection; but the symbolical meaning of his laceration,
through the stratagems of Juno, and the consequent punishment of the Titans, is
thus beautifully unfolded by Olympiodorus, in his manuscript
Commentary on the PJi(edo of Plato : " The form," says he,
" of that which is universal is plucked off, torn in pieces, and
scattered into generation; and Dionysus is the monad of the Titans.
But his laceration is said to take place through the stratagems of
Juno, continually advancing to the spring of life, and the more
thousands of years they live, so much the more delightful and happy is
the spring to which they attain, and this to eternity with increments
according to the progresses and degrees of love, of charity, and of
faith. Women who have died old and worn out with age, yet have lived in
faith on the Lord, in charity toward their neighbor, and in happy
conjugal love with a husband, after a succession of years, come more and
more into the flower of youth and adolescence. Eleusinian and
because this goddess is the supervising guardian of motion and
progression; * and on this account, in the Iliad, she perpetually
rouses and excites Jupiter to providential action about secondary
concerns; and, in another respect, Dionysus is the epJiof^us or
supervising guardian of generation, because he presides over life and
death; for he is the guardian or epliorus of life because of generation,
and also of death because wine produces an enthusiastic condition. We
become more enthusiastic at the period of dying, as Proclus indicates in
the example of Homer who became prophetic [[xavxcxoc] at the time of
his death.f They likewise assert, that tragedy and comedy are
assigned to Dionysus : comedy being the play or ludicrous representation
of life; and tragedy having relation to the 'By progression
[7rpoo5oc] is here signified the raying-out, or issuing forth of the soul;
having left the divine or pre -existent life, and come forth toward the
human. t See also Plato : Phcedrus, 43. " When I was about
to cross the river, the divine and wonted signal was given me it always deters me from what I am
about to do and I seemed to hear a
voice from this very spot, which would not suffer me to depart before I
had purified myself, as if I had committed some Bacchic
Mysteries. 193 passions and death. The comic writers,
therefore, do not rightly call in question the tragedians as not rightly
representing Bacchus, saying that such things did not happen to Bacchus.
But Jupiter is said to have hurled his thunder at the Titans; the thunder
signifying a conversion or changing : for fire naturally ascends; and
hence Jupiter, by this means, converts the Titans to his own
essence." ^TzapazzEzai §£ to xa^oXoo si^oQ £v zTj ysvsasi, [xovctc
5s Ttxavcov 6 Aiovo aoc. Kctr ZTzi^oohqy ^s zriQ 'Hpac ^lozi
-/.i vrpetoc, et^opoc, y; ^-boq %at 'Epoo'^o'j. Aio v.ru aov£'/(o^
£v TTj Wirj.Gi si^avcaTTjatv aozrj, %ai OlE^fOpSl TOV 5t7. eiQ
TZrjCiyrjirjy XCOV SsOXSpCOV. Kat ysvsascoc aXX(o? srpopoc sartv 6
AcovDao?, 5wrt %ai Cw^js ^^-t tsXsfjTYjC. Zcc/j? |j-sv yap srpopG?,
STTsid'^ .7,at z^qz ysvsaswc, xsXsutTjC 5s 5^0X1 svO-ouacav 6 otvoc
ttocsl Kat ';r£pt xyjv TsXsuTTjV 5s svO-Guatcta'ccxcotspc/t YtvoiJLSxJ'a,
coi; offense against the Deity. Now I am a prophet, though not a
very good one : for the soul is in some measure prophetic."
See also Shakspere : Henry IV. part 1. " Oh I could
prophesy, But that the earthy and cold hand of death Lies on my
tongue." 194 Eleiisinian and StjXol 6 Trap
'OiJi'/jpco UpOTcXoc, (JLavTC%oc ys T'/jv {i£v 7,(o[JL(o5tav Tuaiyvcov
o'jaav to'j [3tov TYjv dc Tpayco^^av 5ca xa 7ta{)-rj, %7.t xr^v
xsXs'jI'^v. O'jy, apct %aX(oc of y,co{it7,o^ xoi? xpayLy-oi? syxaXoaacv,
(o:; \rq AtovoataTcoic oyar.^, Asyov Tsc otc oD^sv zwjzrj, xpo? TGV
AiovDaov. Kspau VOt §£ TO'JtOl? 6 ZSD^, TOO %£paOV0'J $TjXoaVZ05
X'^v STiiatpo'fSV xupyap stcl xa oivco zivo'J[X£Vol' S'lriatpsrpsL
O'jv aoroa^ zpoc saoTOv. But by the members of Dionysus being first
boiled in water by the Titans, and afterward roasted by the fire,
the outgoing or distribution of intellect into matter, and its subsequent
returning from thence, is evidently implied: for water was considered by
the Egyptians, as we have ah*eady observed, as the symbol of matter;
and fire is the natural symbol of ascending. The heart of Dionysus too,
is, with the greatest propriety, said to be preserved by Minerva; for
this goddess is the guardian of hfe, of which the heart is a symbol. So
that this part of the fable plainly signifies, that while intellectual or
spiritual Bacchic Mysteries. 195 life is
distributed into the universe, its principle is preserved entire by the
guardian power and providence of the Divine intelligence. And as Apollo
is the source of all union and harmony, and as he is called by
Proclus, " the key-keeper of the fountain of life," * the
reason is obvious why the members of Dionysus, which were buried by this
deity, again emerged by a new generation, and were restored to their pristine
integrity and life. But let it here be carefidly observed, that
renovation, when apphed to the gods, is to be considered as secretly
implying the rising of their proper hght, and its consequent appearance
to subordinate natures. And that punishment, when considered as
taking place about beings of a nature superior to mankind, signifies
nothing more than a secondary providence over such beings which is
of a punishing character, and which subsists about souls that deteriorate.
Hence, then, from what has been said, we may easily collect the
ultimate design of the first part of this mystic fable; for it appears to
be * Hymn to the Sun. 196 Bacchic
Mysteries. no other than to represent the manner in which the
form of the mundane intellect is divided through the universe; that such an intellect (and every one
which is total) remains entire during its division into parts, and that
the divided parts themselves are continually turned again to their
source, with which they become finally united. So that illumination
from the liigher reason, while it proceeds into the dark and rebounding
receptacle of matter, and invests its obscurity with the supervening ornaments
of divine light, returns at the same time without interruption to the
source or principle of its descent. Let us now consider the
latter part of the fable, in which it is said that our souls were
formed from the vapors emanating from the ashes of the burning bodies of
the Titans; at the same time connecting it with the former part of
the fable, which is also applicable in a certain degree to the condition
of a partial intellect * hke ours. In the first * Partial, as
being parted from the Supreme Mind. Etruscan Kleusiuiaus.
Bacchic Mysteries. 199 place, then, we are made up from
fragments (says Olympiodorus), because, through faUing into generation,
our hf e has proceeded into the most distant and extreme division;
and from Titanic fragments^ because the Titans are the ultimate
artificers of things,* and stand immediately next to whatever is
constituted from them. But further, our irrational life is Titanic, by
which the rational and higher life is torn in pieces. Hence, when
we disperse the Dionysus, or intuitive intellect contained in the secret
recesses of our nature, breaking in pieces the kindred and divine
form of our essence, and which communicates, as it were, both with
things subordinate and supreme, then we become Titans (or
apostates); but when we establish ourselves in union with this
Dionysiacal or kindred form, then we become Bacchuses, or perfect
guardians and keepers of our irrational life : for Dionysus, whom in this
respect we resemble, is himself an epJiorus or * The Demiurge or
Creator being superior to matter in which is concupiscence and all evil,
the Titans who are not thus superior are made the actual
artificers. Meusinian and guardian deity, dissolving at his
pleasure the bonds by which the soul is united to the body, since
he is the cause of a parted hfe. But it is necessary that the passive or
feminine nature of our UTational part, through which we are bound in
body, and which is nothing more than the resounding echo, as it
were, of soul, should suffer the punishment incurred by descent; for when
the soul casts aside the [divine] peculiarity of her nature, she
requires her own, but at the same time a multiform body, that she may
again become in need of a common form, which she has lost through
Titanic dispersion into matter. But in order to see the perfect
resemblance between the manner in which our souls descend and the
dividing of the intuitive intellect by mundane natures, let the reader
attend to the following admirable citation from the manuscript
Commentary of Olympiodorus on the Phcedo of Plato : It is necessary,
first of all, for the soul to place a hkeness of herself in the body.
This is to ensoul the body. Secondly, it is necessary for her to
sympathize with the image, as being of hke idea. For every external
form or substance is wrought into an identity with its interior
substance, through an ingenerated tendency thereto. In the third place,
being situated in a divided nature, it is necessary that she should
be torn in pieces, and fall into a last separation, till, through the
action of a life of puiification, she shall raise herself from the
dispersion, loose the bond of sympathy, and act as of herself without the
external image, having become established according to the first-created
life. The like things are fabled in the example. For Dionysus or Bacchus
because his image was formed in a mirror, pursued it, and thus
became distributed into everything. But Apollo collected him and brought
him up; being a deity of puiification, and the true savior of
Dionysus; and on this account he is styled in the sacred hymns,
Dionusites." sauto'j £v TO) a(ojiatc. Tooxo yap sait f^yycooai
TO awjjict. Asorspov 5s afjjJLiraO-stv x(p £l5(oXcj), xctxa z^(]v ojiosL^stav.
Ilav yap stSoc sTust Eleusinian and xcti £Lc Tov ZT/az^jy
ST.'JTsastv {j.£{jLa[xov. 'Eco? av oat TT^i; 7,a{>a[>xiT^%'r]v;
C^otj? aavaystpat {xsv eaoTTjv aiTo xou avcop:rta[xo'j, Xoa'/^ gs tov
Ssajj-ov XYji; a^j{iYj7:7.i8'£iac, xpopaXXsiai §£ xvjv avso xou £co(oAou,
xctx)-' Erjjjzr^y iaxtoaav iipcoTO'jpYOV C(OYjV. 'Oxi ta 6{JL0ta
[xuO-sosxai, '>c7.i sv xcp Tzarjaciei'^ixrj.zi. '0 yap Aiovaaoc, on zo
scocoXov svsO-'^xs T(o saoTuTTpto XGU-cp scpsairsto. Kac ouxd)? eiQ zo
Tifjy sjispiaiJ-Yj. ""0 5s AttoXXwv aovaystpst t£ aozoy 7,ac avaysi,
xavJ-apiwoc (ov ^£oc, 'x.ai xo'j AcGvoaoD aojxY^p (oc aXcoO-m?. Kat
5l7. xodto AcovoaoxY^? av'j(j.£tx7.L Hence, as the same author
beautifully observes, the soul revolves according to a mystic and
mundane revolution : for flying from an indivisible and Dionysiacal hfe, and
operating according to a Titanic and revolting energy, she becomes
bound in the body as in a prison. Hence, too, she abides in punishment
and takes care of her partial and secondary concerns; and being
purified from Titanic defilements, and collected into one, she be
Bacchic Mysteries comes a Bacchus; that is, she passes into the
proper integrity of her nature according to the divine principle ruhng on
high. From all which it evidently fohows, that he who hves
Dionysiacally rests from labors and is freed from his bonds; * that he
leaves his prison, or rather his apostatizing life; and that he who
does this is a philosopher purifying himseK from the contaminations of his
earthly life. But farther fi'om this account of Dionysus, we may perceive
the truth of Plato's observation, " that the design of the Mysteries
is to lead us back to the perfection from which, as our beginning, we
first made our descent." For in this perfection Dionysus himself subsists,
establishing perfect souls in the throne of his father; that is, in the
integrity of a life according to Jupiter. So that he who is perfect
necessarily resides with the gods, according to the design of those
deities, who are the sources of consummate perfection to the soul. And lastly,
*"We strive toward virtue by a strenuous use of the gifts
which God communicates; but when God communicates himself, then we can be
only passive we repose, we enjoy, but
all operation ceases." 204 Bacchic Mysteries.
the Thyrsus itself, which was used in the Bacchic procession, as it
was a reed full of knots, is an apt symbol of the diffusion of the
higher nature into the sensible world. And agreeable to this, Olympiodorus
on the Pluedo observes, " that the Thyrsus * is a symbol of a
forming anew of the material and parted substance from its scattered
condition; and that on this account it is a Titanic plant. This it
was customary to extend before Bacchus instead of his paternal scepter; and
through this they called him down into our partial nature. Indeed, the
Titans are Thyrsus-bearers; and Prometheus concealed fire in a Thyi'sus
or reed; after which he is considered as bringing celestial light into
generation, or leading the soul into the body, or calling forth the
divine illumination, the whole being ungenerated, into generated
existence. Hence Socrates calls the multitude Thyrsus-bearers Orphically,
as hving according to a Titanic life." 'On 6 vapO-rj^ aa[x[5oXov
ZQZi zriz svaXo'j $7j{xtC(0pYtac, %ai {xsptatYjc, 5ta * The word
thyrsus, it will be seen, is here translated from vapd'Yj^, a rod or
ferula. Bacchic Mysteries TY]v [laXtaxa StsaTCapiJ-svYjv aovs/scav, o^sv
%at Tixavtxov xo cprjxov. Kat yap t(p Aiovoacp Tupoxscvooatv aoto),
avcc too 'irarpty.oo axY^irxpofj. Kai xauTTj irpoxaXoovxai a'jxov zic,
xov {xspcxov. Kat {isvcoi, 'jcc/.i vapi^TjTcocpopooacv oc Tixavs?, %at
g ITpGIJLTjiJ'SaC, £V VapO-YjT.l' 'AkZlZZl TO 'EUp, SLTS XO
oupaviov cp(oc see x'A^v ysvsatv xaxaaTucov, stxs xr;v 4^yX'/jV £1?
xo a(0[jLa xpoaycov, stxs xtjv o^scav £XXa{i-'];tv oXt^v aysvvTjXOv
ouaav, see xtjv ysvsatv TTpoxaXouiisvGC. Ata 5s xorjxo, %at 6 -coy-pax'^C
xorj:; ttoXXo'jc "JcolXsl vapi)"f]%ocpopoy? Opcpt7,(oc, co^ C^'^vxac
Ttxry.vcy.(oc. And thus much for the secret meaning of the fable,
which formed a principal part of these mystic rites. Let us now proceed
to consider the signification of the symbols, which, according to
Clemens Alexandrinus, belonged to the Bacchic ceremonies; and which
are comprehended in the followingOrphic verses : M7]Xa to )(po-ca
y,aXv. trap egtcj^wiuv Xi-p^oivcov. That is, A wheel, a
pine-nut, and the wanton plays, Which move and bend the limbs in various
ways : Eleusinian and With these th' Hesperian golden-fruit
combine, Which beauteous nymphs defend of voice divine. To
all which Clemens adds saoTU'pov, esoptroii, a mirror, i:oy.oCj polios, a
fleece of wool, and aa-payaXoc, asfragaios, the anMe-bone. In the
first place, then, wdth respect to the wheel, since Dionysus, as we have
already explained, is the mimdane intellect, and intellect is of an
elevating and convertive nature, nothing can be a more apt symbol of
intellectual action than a w^heel or sphere : besides, as the laceration
and dismemberment of Dionysus signifies the going-forth of intellectual
illumination into matter, and its returning at the same time to its
source, this too will be aptly symbolized by a wheel. In the second
place, a pine-nut, from its conical shape, is a perspicuous symbol of the
manner in which intellectual or spiritual illmnination proceeds
from its source and beginning into a material nature. " For the
soul," says Macrobius,* "proceeding from a round figure, which
is the only divine form, is extended into the form of a cone in going
forth." * In Somnid Scijnonis, xii. Bacchic
Mysteries. 209 And the same is true sjrmbolically of the
higher intellect. And as to the wanton sports which bend the limbs, this
evidently alludes to the Titanic arts, by which Dionysus was
allured, and occultly signifies the faculties of the mundane intellect,
considered as subsisting according to an apparent and divisible
condition. But the Hesperian golden-apples signify the pure and incorruptible
nature of that intellect or Dionysus, which is possessed by the world;
for a golden-apple, according to Sallust, is a symbol of the world;
and this doubtless, both on account of its external figui'e, and the
incorruptible intellect which it contains, and with the illuminations
of which it is externally adorned; since gold, on account of never being
subject to rust, aptly denotes an incorruptible and immaterial nature.
The mirror, which is the next symbol, we have already explained. And as
to the fleece of wool, this is a symbol of laceration, or
distri])ution of intellect, or Dionysus, into matter; for the verb
o'jrapattco, sparaffOy diJanio, which is used in the relation of
the Bacchic discerption, signifies to tear in pieces
210 Bacchic Mysteries. like wool : and hence Isidoinis
derives the Latin word laua, wool, from Janiando, as velliis from
vellendo. Nor must it pass unobserved, that Xq^jz^ in Greek, signifies
wool, and Xtjvo;, a wine-press.* And, indeed, the pressing of grapes
is as evident a symbol of dispersion as the tearing of wool; and
this circumstance was doubtless one principal reason why grapes
were consecrated to Bacchus : for a grape, previous to its pressure,
aptly represents that which is collected into one; and when it is pressed
into juice, it no less aptly represents the diffusion of that which
was before collected and entu'e. And lastly, the aarpotyaXoc, astragalos,
or anJiJehone, as it is principally subser\dent to the progressive motion
of animals, so it belongs, with great propriety, to the mystic
symbols of Bacchus; since it doubtless signifies the going forth of
that deity into the department of physical existence : for nature, or
that divisible life which subsists about the body, * The
practice of punning, so common in all the old rites, is here forcibly
exhibited. It aided to conceal the symbolism and mislead uninitiated
persons who might seek to ascertain the genuine meaning. i\v>'-
.../Mm Hercules Reclining. Bacchic Mysteries and whicli is productive of
seeds, immediately depends on Bacchus. And hence we are informed by
Proclus, that the sexual parts of this god are denominated by
theologists, Diana, who, says he, presides over the whole of the
generation into natural existence, leads forth into light all natural
reasons, and extends a prolific power from on high even to the
subterranean reahns.* And hence we may perceive the reason why, in the
Orphic Hjjmn to Nature, that goddess is described as " turning
round silent traces with the anklebones of her feet. ^^ And it is
highly worthy our observation that in this verse of the hymn Nature is
celebrated as Fortune, according to that description of the goddess in which
she is represented as standing with her feet on a wheel which she
continually turns round; as the following verse from the same hymn
abundantly confirms : Asvao) axpo'-paXiYY- S'oov po/xa o'.vsooooa. Commentary
upon the Timceus Meusinian and The sense of which is, "moving
with rapid motion on an eternal wheel." Nor ought it to seem
wonderful that Nature should he celebrated as Fortune; for Fortune in
the Orphic h}Tnn to that deity is invoked as Diana : and the moon,
as we have observed in the preceding section, is the aoro'iriov
ayaXjia rpyasto?, fJie self-revealing emblem of Nature; and indeed the
apparent inconstancy of Fortune has an evident agreement with the
fluctuating condition in which the dominions of nature are perpetually
involved. It only now remains that we explain the secret meaning of
the sacred dress with which the initiated in the Dionysiacal Mysteries
were invested, in order to the GpovLajxo^ (fhromsmoSy enthroning) taking
place; or sitting in a solemn manner on a throne, about which it
was customary for the other initiates to dance. But the particulars
of this habit are thus described in the Orphic verses preserved by
Macrobius : Scojxa ti-£00 ji"/,aTT£'.v s^'.a'j-fooq r^zX'.o'.Q. *
Satunialia Bacchic Mysteries flpwxct;j.Ev ap-p'f :«:? evaXcYxcov
«xTtvsaa:v IIsttUv cpo'.vtxjpov (lege -^otvtxjov) -pottxjXov
a^cp-paAEO^oc-. ii'Jxocp 67ispa-j vsi^poio TiavatoXoo sJpu
xa*«-|a'. ^^plxrx Kfjhjzxi-Azrrj ^vjpoc xaxa Sa^tov Jjjulojv,
Aatpoiv o«-5aXftov;j.i|uh;jl' bpoo xz nolo'.o. Eka r
6;.jp,<).s vs^pY)? xpt>asov UoxY^pa pocXeaS-at n«;A'favoaiVTa
irsp-^ oxspvuiv cpopjj-v fxsya arj|jia Eo9-u5 ox' EX Ttspaxwv
Tac-r]? (paja-wv avopouaiov Xpoasiai? axxcat,3(x>.-/j poov
Oxsavow, Auyv] o' atjjTjxo? -f], ava S' Spoaoj
a;jLcpt;xtYE:aa Mapixrxirj-fj o'y-rpvj A:zar>iitY(] maxfj.
xoxXov, Ilpoci&s ^£00. Z(ovf] o' ap OTTO axjpvuiv a/ji£xp7]xu>v
<I>aovjx' ap' ily.zrj.wo Kov.Uq, iityx Oau^' ecowsa^ac.
That is, He who desires in pomp of sacred dress
The sun's resplendent body to express, Should first a vail
assume of purple bright, Like fair white beams combin'd with fiery
light : On his right shoulder, next, a mule's broad hide
Widely diversified with spotted pride Should hang, an image
of the pole divine, And dfBdal stars, whose orbs eternal
shine. A golden splendid zone, then, o'er the vest He
next should throw, and bind it round his breast; In mighty token,
how with golden light. The rising sun, from earth's last bounds and
night Sudden emerges, and, with matchless force, Darts
through old Ocean's billows in his course. A boundless splendor
hence, enshrin'd in dew, Plays on his whirlpools, glorious to the
view; While his circumfluent waters spread abroad, Full
in the presence of the radiant god : Eleusinian and But
Ocean's circle, like a zone of light, The sun's wide bosom girds,
and charms the wond'ring sight. lu the first place, then, let us
consider why this mystic dress belonging to Bacchus is to represent
the sun. Now the reason of this will be evident from the following
observations : according to the Orphic theology, the divine intellect of every
planet is denominated a Bacchus, who is characterized in each by a
different appellation; so that the intellect of the solar deity is called
Trietericus Bacchus. And in the second place, since the divinity of the
sun, according to the arcana of the ancient theology, has a
super-mundane as well as mundane establishment, and is wholly of an exalting or
intellectual nature; hence considered as supermundane he must both produce and
contain the mundane intellect, or Dionysus, in his essence; for all
the mimdane are contained in the super-mundane deities, by whom
also they are produced. Hence Proclus, in his elegant Hijmn to the
Sun, says : Bacchic Mysteries. 217 That is,
" they celebrate thee in hymns as the illustrious parent of Dionysus."
And thirdly, it is through the subsistence of Dionysus in the sun
that that luminary derives its circular motion, as is evident from the
following Orphic verse, in which, speaking of the sun, it is said of him,
that " He is called Dionysus, because he is
carried with a circular motion through the immensely-extended
heavens." And this with the greatest propriety, since intellect, as
we have already observed, is entirely of a transforming and
elevating nature : so that from all this, it is sufficiently evident why
the dress of Dionysus is represented as belonging to the sun. In the
second place, the vail, resembling a mixture of fiery light, is an
obvious image of the solar fire. And as to the spotted muleskin,* which
is to represent the starry heavens, this is nothing more than an image
of Nehris is also a fawn-skin. The Jewish high-priest wore one at
the great festivals. It is rendered *• badger's skin " in the Bible.
In India the robe of Indra is spotted. Bacchic Mysteries. tlie
moon; tMs luminary, according to Proclus on Hesiod, resembling the mixed
nature of a mule; " becoming dark through her participation of
earth, and deriving her proper light from the sun." T-qz [isy s/ooaa
xo a%o So that the spotted hide signifies the moon attended with a
multitude of stars : and hence, in the Oi'phic Hymn to the Moon,
that deity is celebrated "as shining surrounded with beautiful
stars " : v.rjXoic, aaz^jOiGi ppyooarj., and is likewise called aaxpap/Tj,
astrarche, or " queen of the starsy In the next place, the
golden zone is the circle of the Ocean, as the last verses plainly
evince. But, you will ask, what has the rising of the sun through the
ocean, from the boundaries of earth and night, to do with the
adventures of Bacchus ? I answer, that it is inpossible to devise a
symbol more beautifully accommodated to the purpose : for, in the first
place, is not the ocean a proper emblem of an earthly nature, whirling
and stormy, and perpetually rolling without admitting any periods of
repose ? And is not the sun emerging from its boisterous deeps a
perspicuous symbol of the higher spiritual nature, apparently rising from
the dark and fluctuating material receptacle, and conferring form and
beauty on the sensible universe through its light ? I say apparently
rising, for though the spiritual nature always diffuses its splendor with
invariable energy, yet it is not always perceived by the subjects
of its illuminations : besides, as psychical natures can only receive partially
and at intervals the benefits of the divine irradiation; hence fables
regarding this temporal participation transfer, for the purpose of concealment
and in conformity to the phenomena, the imperfection of subordinate
natures to such as are supreme. This description, therefore, of the
rising sun, is a most beautiful symbol of the new birth of Bacchus,
which, as we have already observed, implies nothing more than the
rising of intellectual light, and its consequent manifestation to
subordinate orders of existence. Eleusinian and And thus
much for the mysteries of Bacchus, which, as well as those of Ceres,
relate in one part to the descent of a partial intellect into matter, and
its condition while united with the dark tenement of the body : but
there appears to be this difference between the two, that in the fable of Ceres
and Proserpine the descent of the whole rational soul is considered;
and in that of Bacchus the scattering and going forth of tliat supreme
part alone of our nature which we properly characterize hy the
appellation of. intellect* In the composition of each we may
discern the same traces of exalted wisdom and recondite theology; of a
theology the most venerable for its antiquity, and the most
admirable for its excellence and reahtyo I shall conclude this
treatise by presenting the reader with a valuable and most elegant
hymn of Proclusf to Minerva, which I have Greek, wn;;, nous, the Intuitive
Eeasoii, that faculty of the mind that apprehends the Ineffable
Truth. t That the following hymn was composed by Proclus, can
not be doubted by any one who is conversant with those already extant of
this incomparable man, since the spirit and manner in both is perfectly
the same. Bacchic Mysteries discovered in the British Museum;
and the existence of which appears to have been hitherto utterly
unknown. This hymn is to be found among the Harleian Manuscripts,
in a volume containing several of the OrpJiic liymns^ with which, through
the ignorance of transcriber, it is indiscriminately ranked, as
well as the other four hymns of Proclus, already printed in the
Bihliotlieca Grmca of Fabricius. Unfortunately too, it is transcribed in
a character so obscure, and with such great inaccuracy, that, notwithstanding
the pains I have taken to restore the text to its original purity, I have
been obUged to omit two hues, and part of a third, as beyond my
abilities to read or amend; however, the greatest, and doubtless the most
important part, is fortunately intelhgible, which I now present to
the reader's inspection, accompanied with some corrections, and an Enghsh
paraphrased translation. The original is highly elegant and pious, and
contains one mythological particular, which is no where else to be
found. It has likewise an evident connection with the preceding fable of
Bac EJeusinian and chus, as will be obvious from the
perusal; and on tins account principally it was inserted in the present
discoui'se. Ek aohnan. KATOI fJLcU a'.'(lO/0{.0 OiO?
TJXO?' Tj Y£VETY]pO(; IlTjYf]? oY.Tzpo9-opoooa, v.a'. wxpoxaxY,?
ano asipa? Apo£vod'0|j.3- cpspa^iLf jj.cY«-3'2V;5*
o,3p:|i,07tarrjp,* KiV.Xo&r ov/yozo 3' u;xvov £0'f pov: Tioxvia
i)'U^uj 'H aO'^'.Tj? ViZXrj.Zrj.ir/. ^iZOZv/^trxC,]
TTuXjUlVa;;. Ka: "/^O-ovuuv orj.^r/.zrj.zrx Oj(ojxaya
(p'j)>a •j-'-Y* '11 %pa3'.r|V saawaai; ajj-UGXiXsutov J
rjyrj.v.xo^ Ai&jpo? sv YU«Xc'-a'. p-ipiCo/J-svoo TcatJ Bav-^ou
l\xav(uv oTzo X.'p"-, TiopcC oj 2 Tiaxpt '|)4po'Joa Ocppa VEOi;
^ouX'rjatv wtt' appYjxo:at xov.yjo?, Ev. ScJuisXt]? TCcpt xoa^aov
avY]^f]av] Alovuooo?. 'Hi; ttsXsx'.? § 6-rjpiu)V xafjivcuv TCpo^£Xu|Jt.va
%apv]va Ilavojpy.ou? sy.oir^; ir«t)£u>v T|VUOj 'iz'^tifK-qv 'H
v.paxQC 'Hpar Oc|xvov eY'P"^- ppcixoiv apjxa'iov H jjioxov v.QajJLTjaoti;
oXov uo/.ojiSi';: zz/yrj.'.c, Azix:oof'^:xry ojprjv || '{^'j'/at-t
^aXXouaa* 'II Krj./ZQ rxv.pOTZo\'.r/. So|JLpoXov
axpoxarq? ixs'(rj.\-r^q azo ixoxvia 0£tpf]?' * Lege
oPptjULOTraxpT), t Lege f)joaj,3Eia?. t Lege a|j.oax'. Xuxoo.
§ Lege tceXexu?. II Lege Op;jL-r]v. BaccJiic
Mysteries. 225 'H x8-ova,3coT:ccvE.pa tpt^aa? fxvjtjpa?
p-^Xoiv. K/.oa-: ixEU Y| <pao? ay^ov aiiaoTpaTrxooaa
TrpoatououAo? OS;i.oi oXptov op;j.ov aXiuo/xsva rspo yacav. Ao? -]/ox-/y
Y^-oc, GtYvov air' eo^pjiuv oso |jio{).uiv Ka: ao-^iY]v -/.at jpcoxoc-,j.svoc
S's/J-Tivsoaov jpwTi, Toaaattov, xac towv, oaov /&ov:ojv ajio
xoXttojv A'^spv-r],rpoc OXd|xkov s? Yjf^sa Traxpo^ £o:o, Ei5j Ttc
«/j.T:Xax:-r];x£* xocx-r] f.tototo Sa/uiaCs;. IXa9.-
/x£:X:xo,3ooXj- aao/i,3potj- /Ji7]5s/JL£aoY)? f Trcjoavat?
TOivatacv eXtup xot: xop/xa Ysvsaaot, KstfAsvov Ev 8aTT:s5otatv,
61: TcO? so/o/jiac swxr KsxXofl-: xjxXoO-- xa:;xol iitCu^yiv 00a?
6tox£C. TO MINEEVA. Daughter of aegis-bearing Jove,
divine, Propitious to thy votaries' prayer incline;
From thy great father's fount supremely bright, Like fire
resounding, leaping into light. Shield-bearing goddess, hear, to
whom belong A manly mind, and power to tame the strong!
Oh, sprung from matchless might, with joyful mind Accept this
hymn; benevolent and kind ! The holy gates of wisdom, by thy
hand Are wide unfolded; and the daring band Of
earth-born giants, that in impious fight Strove with thy fire, were
vanquished by thy might. Once by thy care, as sacred poets
sing. The heart of Bacchus, swiftly-slaughtered king, Lege
a|xirXaxY]|ULa. t Lege iKiy: t^C tr^zr^^^. Eleusinian
and Was sav'd in ^ther, when, with fnry fired, Tlie
Titans fell against his life conspired; And with relentless rage
and thirst for gore, Their hands his members into fragments tore
: But ever watchful of thy father's will, Thy power
preserv'd him from succeeding ill. Till from the secret counsels of
his fire, And born from Semele through heavenly sire,
Great Dionysus to the world at length Again appeared with
renovated strength. Once, too, thy warlike ax, with matchless
sway, Lopped from their savage necks the heads away Of
furious beasts, and thus the pests destroyed Which long all-seeing
Hecate annoyed. By thee benevolent great Juno's might
Was roused, to furnish mortals with delight. And thro' life's
wide and various range, 't is thine Each part to beautify with art
divine : Invigorated hence by thee, we find A demiurgic
impulse in the mind. Towers proudly raised, and for protection
strong. To thee, dread guardian deity, belong. As
proper symbols of th' exalted height Thy series claims amidst the
courts of light. Lands are beloved by thee, to learning
prone. And Athens, Oh Athena, is thy own ! Great
goddess, hear! and on my dark'ned mind Pour thy pure light in
measure unconfined; That sacred light, Oh all-protecting
queen. Which beams eternal from thy face serene. My
soul, while wand'ring on the earth, inspire With thy own blessed
and impulsive fire : And from thy fables, mystic and divine.
Give all her powers with holy light to shine. Bacchic
Mysteries. 227 Give love, give wisdom, and a power to love,
Incessant tending to the realms above; Such as unconscious of base
earth's control Gently attracts the vice-subduing soul : From
night's dark region aids her to retire, And once moi'e gain the palace of
her sire. O all-propitious to my prayer incline ! Nor let those
horrid punishments be mine Which guilty souls in Tartarus confine,
With fetters fast'ned to its brazen floors. And lock'd by hell's
tremendous iron doors. Hear me, and save (for power is all thine
own) A soul desirous to be thine alone. It is very remarkable in this
hymn, that the exploits of Minerva relative to cutting off the
heads of wild beasts with an ax, etc., is mentioned by no writer
whatever; nor can I find the least trace of a circumstance either
in the history of Minerva or Hecate to which it alludes.f And from hence,
I * If I should ever be able to publish a second edition of
my translation of the hymns of Orpheus, I shall add to it a
translation of all those hymns of Proclus, which are fortunately extant;
but which are nothing more than the wreck of a great multitude
which he composed. t If Mr. Taylor had been conversant with
Hindu literature, he would have perceived that these exploits of
Minerva-Athene were taken from the buffalo-sacrifice of Durga or Bhavani.
The whole Dionysiac legend is but a rendering of the Sivaic and
Buddhistic legends into a Grecian dress. A. W. Bacchic
Mysteries. think, we may reasonably conclude that it
belonged to the arcane Orphic narrations concerning these goddesses,
which were consequently but rarely mentioned, and this but by a few,
whose works, which might afford us some clearer information, are
unfortunately lost. Musical Couference.Venus Kisiiig troni the
Sea. Since writing the above Dissertation, I have met with a
curious Greek manuscript entitled: "Of Psellus, Concerning DcBmons^*
according to the opinion of the GreeJiS " : zoo WeWoo xivct Tuspt
^aqiovcov So^aCooacv 'EXXtjvs? : In the course of which he
describes the machinery of the Eleusinian Mysteries as follows : 'A oe ys [lo^jzr^iAa xooT(ov, oiov aaxi^a ta
EXsuatvia, xov [xod-i^ov OTUOTcpivsrac 3ia {i^iyvo^ASVov xifj Stjgi, t]
"cyj Atjix'/jx£pL, xctt XT] OoYatspsL Tc/.ux'A]? Ospas^axxTj xt]
xctt Kop'^. Etcsiotj 5s sjjisXXov %7.t acppoStaiot sict XT] {JiaYjGst
ytvsa^at aujJi'jrXoxac, avaSostat iro)? Y] ArppoScx'rj airo xtvcov
'jrsTuXaajj.svwv (JL'rjSs * Daemons, divinities, spirits; a term formerly
applied to all rational beings, good or bad, other than mortals.
229 230 Appendix, (ov TusAayw^. Etta 5s
yafJiYjXioc S'Jrt 'Ctj Kopifj 6[JL£vaio?. Kat s'^a^ouatv of t£Xou{i.£VOC,
sx to[jlTuavou scpayov £% %o{Ji[57.X(ov sttiov, sxtpvo'fop'^aa (lege
s^spvocpopr^cc/.) utto tov xoLarov siasouv. TTroT-pcvstaL $£.%at ta^
Stjooc (o^iva?. Ttat xapocaXytaL Erp' otc ^oii tpaYoa^sXsc
{Jtt{x-^{ia TTOLO-atvojxsvov xspi roi? ^l^'jjxo^c' otc xsp TSpayou
(lege Tpayou) opyscc aTrorsjKov, to) x-oXiro) xauxT^c xaxsO-e'co, (oairsp
5yj y,7.c saotou. Etc^ xaatv c/i xoy AtovoaoD xqiat, y,at yj
xrjauc, y,ai T7. iroXyoix'-paXa TuoTrava, ^ai of x(o }:^apa CtCO
XSXO'JJXSVOC, %X'^50V£C '^2 ^^-^ {XC{J-aA(OV£C, %at zic, rf/iny
XsfJr^Q O£a'jrp(ox£toc y-^M A(o5(ovctcov yaXv.ziov, -/.rji KopyjBctc
aXXo? xai 7,0'jp'rj^ £X£poc, 5at{JL0V(ov {xc{JLYj|jL7.xa. Ecp' ot? Yj
Bapfoxooc (lege Y^ Baupfo xo^c) {J-'^pooc avaaopojj.£V7j, xat 6
yovaixo? %x£ic> oozio yap ovo{xaCoDaL xy^v ai5(o aia/ovo[JL£VOL Kai
ouxco? £v ata/pco xy^v x£X£X7]v %7.xa)jjo'jacv. /. e. " The
Mysteries of these demons, such as the Eleusinia, consisted in
representing the mythical narration of Jupiter mingling mth Ceres and her
daughter Proserpina (Phersephatte). But as Appendix.
231 venereal connections are in the initiation,* a Venus is
represented rising from the sea, from certain moving sexual parts :
afterwards the celebrated marriage of Proserpina (with Pluto) takes
place; and those who are initiated sing : Out of the drum I have
eaten, Out of the cymbal I have drank, The mystic vase I have
sustained, The bed I have entered.' The pregnant throes
likewise of Ceres [Deo] are represented : hence the supphcations of
Deo are exhibited; the drinking of bile, and the heart-aches. After this,
an effigy with the thighs of a goat makes its appearance, which is
represented as suffering vehemently about the testicles : because
Jupiter, as if to expiate the violence which he had offered to
Ceres, is represented as cutting off the testicles of a goat, and placing
them on her bosom, as if they were his own. But after all this, the
rites of Bacchus succeed; the Cista, and the cakes with many bosses, Uke
those of a shield. Likewise the /. e. a representation of
them. mysteries of Sabazius, divinations, and the mimalons or
Bacchants; a certain sound of the Thesprotian bason; the Dodonsean brass;
another Corybas, and another Proserpina, representations of Demons.
After these succeed the uncovering of the thighs of Baubo, and a woman's
comb (lie is), for thus, through a sense of shame, they denominate the
sexual parts of a woman. And thus, with scandalous exhibitions, they
finish the initiation." From this curious passage, it appears
that the Eleusinian Mysteries comprehended those of almost all the
gods; and this account will not only throw hght on the relation of
the Mysteries given by Clemens Alexandidnus, but likewise be elucidated
by it in several particulars. I would willingly unfold to the
reader the mystic meaning of the whole of this machinery, but this can
not be accomphshed by any one, without at least the possession of all the
Platonic manuscripts which are extant. This acquisition, which I
would infinitely prize above the wealth of the Indies, will, I hope,
speedily and fortunately Jupiter disguised as Diana, and Calisto. Hercules,
Deianeira and Nessus. Appendix. 235 be mine, and
then I shall be no less anxious to communicate this arcane
infoiTQation, than the liberal reader will be to receive it. I
shall only therefore observe, that the mutual communication of energies among
the gods was called by ancient theologists c'spo^ yafiGc, hieros
gcimos, a sacred marriage; concerning which Proclus, in the second
book of his manuscript Commentary on the Parmenides, admirably remarks as
follows: TaUTTTJV $£ tTjV 7.0tV(l>VtaV, TTOrS {1£V £V ZOIQ
GO Gzor^oic, 6p(oac d-zoic, (oi {^ooXoyot) %at vcaXooat Ya{j.ov 'Hpoic
y-^J-i Aloc, Ojpavoo %ac TqQ, Kpovoo v.0.1 Tsac* '7L0ZS §£ ttov T-ara^ssarspcov
TzpOQ xa xpsLtto), %ai v^aXooGi ya^ioy Aco? y-ac AtjjxtjTpac* irors 5s
xai £{jL'3r7.Xtv xcov xpsiTiKovcov xpo? xa 6rp£t[j,£V7., %7.i Xsyouat
Atoc %ct: KopTj? Ya{xov. Etcsl^'A] tcov 0£(ov aXXat jj-sv staiv af
irpoc X7. GDGZoiya 7,oiva)vi7,c, 7.XX7.1 5s at 'jrpoi; xa xpo 7.'jx(ov'
aXXat 5s 7.c xpo? xa |X£X7. xa^)xa. Kai dsL XYjV £%7.axTj? i5lgxyjx7.
/,7.xavo£iv y,7C {j.£ XaY£tV 7.7r0 X(OV 0£(OV £Xt X7. £C57J X'^V XCiC7.0X7]V
dta'jiXoxYjV. /. ^. " Theologists at one time considered this
communion of the gods in divinities co-ordinate with each other;
and 236 Appendix. then tliey called it the
mamage of Jupiter and Jiino, of Heaven and Earth [Uranos and Gre],
of Saturn and Rhea : but at another time, they considered it as
svibsisting between subordinate and superior divinities; and then they
called it the marriage of Jupiter and Ceres; but at another time, on the
contrary, they beheld it as subsisting between superior and subordinate
divinities; and then they called it the marriage of Jupiter and Kore. For
in the gods there is one kind of communion between such as are of a
co-ordinate nature; another between the subordinate and supreme; and
another again between the supreme and subordinate. And it is
necessary to understand the peculiarity of each, and to transfer a
conjunction of this kind froin the gods to the communion of ideas
with each other." And in Tim (mis ^ book i., he observes : y.rj.i zo
rrjv wjzr^v (supple /. e. '' And that the same goddess is
conjoined with other gods, or the same god with many goddesses, may
be collected fi'om the mystic discourses, and those marriages which
are called in the Mysteries Sacred Marriages.''^ Thus far the
divine Proclus; from the first of which passages the reader may
perceive how adultery and rapes, as represented in the machinery of
the Mysteries, are to be understood when apphed to the gods; and that
they mean nothing more than a communication of divine energies, either between
a superior and subordinate, or subordinate and superior, divinity. I only
add that the apparent indecency of these exhibitions was, as I have
already observed, exclusive of its mystic meaning, designed as a remedy
for the passions of the soul : and hence mystic ceremonies were
very properly called a%£7., akea, medicines, by the obscure and noble
Heracleitus. Iamblichus : De Mijsteriis. Saciifice of a Pig. Hercules
Drunk. ORPHIC HYMNS. I shall utter to whom it is lawful;
but let the doors be closed, Nevertheless, against all the profane. But
do thou hear, Oh Musseus, for I will declare what is true. He is the One,
self -proceeding; and from him all things proceed, And in them he himself
exerts his activity; no mortal Beholds Him, but he beholds all.
There is one royal body in which all things are enwombed, Fire and
Water, Earth, ^ther, Night and Day, And Counsel [Metis'], the first
producer, and delightful Love, For all these are contained in the great
body of Zeus. Zeus, the mighty thunderer, is first; Zeus is
last; Zeus is the head, Zeus the middle of all things; From Zeus
were all things produced. He is male, he is female; Zeus is the depth of
the earth, the height of the starry heavens; 238
Appendix. 239 He is the breath of all things, the force of
untamed fire; The bottom of the sea; Sun, Moon, and Stars; Origin
of all; King of all; One Power, one God, one Great Ruler.
HYMN OF CLEANTHES. Greatest of the gods, God with many
names, God ever-ruling, and ruling all things ! Zeus, origin
of Nature, governing the universe by law, All hail ! For it is right for
mortals to address thee; For we are thy offspring, and we alone of all
< That live and creep on earth have the power of imitative
speech. Therefore will I praise thee, and hymn forever thy power.
Thee the wide heaven, which surrounds the earth, obeys : Following where
thou wilt, willingly obeying thy law. Thou boldest at thy sei'vice, in
thy mighty hands, The two-edged, flaming, immortal thunderbolt.
Before whose flash all nature trembles. Thou rulest in the common reason,
which goes through all. And appears mingled in all things, great or
small, Which filling all nature, is king of all existences. Nor
without thee. Oh Deity, does anything happen in the world. From the
divine ethereal pole to the great ocean, Except only the evil preferred
by the senseless wicked. But thou also art able to bring to order that
which is chaotic. Giving form to what is formless, and making the
discordant friendly; So reducing all variety to imity, and
even making good out of evil. Thus throughout nature is one great
law Which only the wicked seek to disobey. Poor fools ! who long
for happiness. But will not see nor hear the divine commands. Greek,
Aaifxov, Demon. [In frenzy blind they stray a\v;iy from good,
By thii'st of glory tempted, or sordid avarice, Or pleasures
sensual and joys that fall.] But do thou, Oh Zeus, all-bestower,
cloud-compeller! Ruler of thunder ! guard men from sad
error. Father ! dispel the clouds of the soul, and let us follow
The laws of thy great and just reign ! That we may be
honored, let us honor thee again, Chanting thy great deeds, as is
proper for mortals, For nothing can be better for gods or men
Than to adore with hymns the Universal King. Rev. J. Freeman Clarke,
whose version is here copied, renders this phrase "the law common to
all." The Greek text reads: " 7] xoivov a;c vojAciv £v v.-A-Q
u/ivstv," the term vojj.oc:, nomos,
or Law, being used for King, as Love is for God. A. W. Proserpina Enthroned in
Hades. Nymphs and Centaurs. AporrJieta, Greek aiioppTjTa The instructions given by the
hierophant or interpreter in the Eleusinian Mysteries, not to be
disclosed on pain of death. There was said to be a synopsis of them in the
i^etroma or two stone tablets, which, it is said, were bound together in
the form of a book. Apostatise
To fall or descend, as the spiritual part of the soul is said to
descend from its divine home to the world of nature. Cathartic Purifying. The term was used by the
Platonists and others in connection with the ceremonies of purification
before initiation, also to the corresponding performance of rites and
duties which renewed the moral life. The cathartic virtues were the
duties and mode of living, which conduced to that end. The phrase is used
but once or twice in this edition. Cause The agent by which things are generated or
produced. Circulation The
peculiar spiral motion or progress by which the spiritual nature or
"intellect" descended from the divine region of the universe
into the world of sense. Cogitative
Relating to the understanding: dianoetic. Conjecture, or
Opinion A mental conception that can be
changed by argument. Core
A name of Ceres or Demeter, applied by the Orphic and later
writers to her daughter Persephone or Proserpina. She was supposed to
typify the spiritual nature which was abducted by Hades or Pluto into the
Underworld, the figure signifying the apostasy or descent of the soul
from the higher life to the material body. CoricaUy After the manner of Proserpina, i. e., as if
descending into death from the supernal world. D(emoii A designation of a certain class of
divinities. Different authors employ the term differently. Hesiod regards
them as the souls of the men who lived in the Golden Age, now acting as
guardian or tutelary spirits. Socrates, in the CratyJus, says " that
daemon is a term denoting wisdom, and that every good man is dsemonian,
both while living and when dead, and is rightly called a daemon."
His own attendant spirit that checked him whenever he endeavored to do
what he might not, was styled his Daemon. lamblichus places Daemons
in the second order of spiritual existence. Cleanthes, in his celebrated Hymn,
styles Zeus oatfiov (daimon). Demiurgiis The creator. It was the title of the;
chief-magistrate in several Grecian States, and in this work is applied
to Zeus or Jupiter, or the Euler of the Universe. The latter Platdnists,
and more especially the Gnostics, who regarded matter as constituting or
containing the principle of Evil, sometimes applied this term to the Evil
Potency, who, some of them affirmed, was the Hebrew God. Distrihuted 'SiQ(hxc&^ from a whole to parts and
scattered. The spiritual nature or intellect in its higher estate was
regarded as a whole, but in descending to worldly conditions became
divided into parts or perhaps characteristics. Divisible Made into parts or attributes, as the mind,
intellect, or spiritual, first a whole, became thus distinguished in its
descent. This division was regarded as a fall into a lower plane of
life. Energise, Greek z^z^^-^zw
Ho operate or work, especially to undergo discipline of the heart
and character. Glossary. Energy
Operation, activity. Eternal
Existing through all past time, and still continuing.
Faith The correct conception of a
thing as it seems, fidelity.
Freedom The ruling power of one's
life; a power over what pertains to one's self in life.
Friendship Union of sentiment; a
communion in doing well. Fury
The peculiar mania, ardor, or enthusiasm which inspired and actuated
prophets, poets, intei'preters of oracles, and others; also a title of
the goddesses Demeter and Persephone as the chastisers of the
wicked, also of the Eumenides.
Generation, Greek Y^^'^t?
Generated existence, the mode of life peculiar to this world, but
which is equivalent to death, so far as the pure intellect or spiritual
nature is concerned; the process by which the soul is separated from the
higher form of existence, and brought into the conditions of life
upon the earth. It was regarded as a punishment, and according to Taylor, was
prefigured by the abduction of Proserpina. The soul is supposed to have
pre-existed with God as a pure intellect like him, but not actually
identical at one but not absolutely the same. Good That which is desired on its own
account. Hades A name of
Pluto; the Underworld, the state or region of departed souls, as
understood by classic writers; the physical nature, the corporeal
existence, the condition of the soul while in the bodily life.
Herald, Greek y.7]po4 The crier at
the Mysteries. Hierophant
The interpreter who explained the purport of the mystic doctrines
and dramas to the candidates. Holiness, Greek ooioty]? Attention to the honor due to God.
Idea A principle in all minds
underlying our cognitions of the sensible world.
Imprudent Without foresight;
deprived of sagacity. Infernal regions Hades, the Underworld.
Instruction A power to cure the
soul. 244 Glossary. Intellect, Greek voo? Also rendered j)?^re reason, and by
Professor Cocker, intuitive reason, and the rational soul; the
spiritual nature. " The organ of self-evident, necessary, and
universal truth. In an immediate, direct, and intuitive manner, it
takes hold on truth with absolute certainty. The reason, through
the medium of ideas, holds communion with the world of real Being. These
ideas are the light y^\\\(^\i reveals the world of unseen realities, as
the sun reveals the world of sensible forms. ' The Idea of the good is
the Sun of the Intelligible World; it sheds on objects the light of
truth, and gives to the soul that knows the power of knowing.' Under this
light the eye of reason apprehends the eternal world of being as truly,
yet more truly, than the eye of sense appi'ehends the world of
phenomena. This power the rational soul possesses by virtue of its having
a nature kindred, or even homogeneous with the Divinity. It was '
generated by the Divine Father,' and like him, it is in a certain sense '
eternal.' Not that we are to understand Plato as teaching that the
rational soul had an independent and underived existence; it was created
or 'generated' in eternity, and even now, in its incorporate state,
is not amenable to the condition of time and space, but, in a peculiar
sense, dwells in eternity : and therefore is capable of beholding eternal
realities, and coming into communion with absolute beauty, and goodness,
and truth that is, with God, the
Absolute Being." Christianity and
Greek Philosophy, Intellective Intuitive;
perceivable by spiritual insight. Ititelligihle Eelating to the higher reason.
Interpreter The hierophant or
sacerdotal teacher who, on the last day of the Eleusinia, explained the
petroma or stone book to the candidates, and unfolded the final meaning
of the representations and symbols. In the Phoenician language he was
called ins, peter. Hence the petroma, consisting of two tablets of stone,
was a pun on the designation, to imply the Glossary. Interpreter continued. wisdom to be uiit'olcled.
It has been suggested by the Rev, Mr. Hyslop, that the Pope derived his
claim, as the successor of Peter, from his succession to the rank and
function of the Hierophant of the Mysteries, and not from the
celebrated Apostle, who probably was never in Rome. Just Productive of Justice.
Justice The harmony or perfect
proportional action of all the powers of the soul, and comprising equity,
veracity, fidelity, usefulness, benevolence, and purity of mind, or
holiness. Judgment A.
peremptory decision covering a disputed matter; also o'.avoLa, dianoia,
or understanding. Knowledge
A comprehension by the mind of fact not to be overthrown or modified by
argument. o Legislative
Regulating. Lesser Mysteries
The TsXeia:, teletai, or ceremonies of purification, which were
celebrated at Agrae, prior to full initiation at Eleusis. Those initiated
on this occasion were styled fJLuaxai, mystcB, from (xoto, muo, to vail;
and their initiation was called (jiuYjat?, muesis, or vailing, as
expressive of being vailed from the former life. Magic Persian mag, Sanscrit maha, great. Relating
to the order of the Magi of Persia and Assyria. Material
do'mons Spirits of a nature so gross as
to be able to assume visible bodies like individuals still living on the
Earth. Matter The elements
of the world, and especially of the human body, in which the idea of evil
is contained and the soul incarcerated. Greek oXt], Hule or Hyle.
Muesis, Greek iinrioiq, from ixotn, to vail The last act in the Lesser Mysteries,
or rsXtza:, teletai, denoting the separating of the initiate from the
former exotic life. Mysteries
Sacred dramas performed at stated periods. The most celebrated
were those of Isis, Sabazius, Cybelfe, and Eleusis. Mystic Relating to the Mysteries: a person initiated
in the Lesser Mysteries Greek
jj.u3Totu Occult Arcane;
hidden; pertaining to the mystical sense. Orgies, Greek opY-'^' The peculiar rites of the Bacchic
Mysteries. Opinion A hypothesis or
conjecture. Partial Divided, in
parts, and not a whole. Philologist
One pursuing literature. Philosopher One skilled in philosophy; one disciplined in
a right life. Philosophise
To investigate final causes; to undergo discipline of the
life. Philosophy The
aspiration of the soul after wisdom and truth, " Plato asserted
philosophy to be the science of unconditioned being, and asserted that
this was known to the soul by its intuitive reason (intellect or
spiritual instinct) which is the organ of all philosophic insight. The
reason perceives substance; the understanding, only phenomena. Being (xo
ov), which is the reality in all actuality, is in the ideas or
thoughts of God; and nothing exists (or appears outwardly), except
by the force of this indwelling idea. The word is the true expression of
the nature of every object : for each has its divine and natural name,
besides its accidental human appellation. Philosophy is the recollection
of what the soul has seen of things and their names." (J. Freeman Clarke.)
Plotinus A philosopher who lived
in the Third Century, and revived the doctrines of Plato.
Prudent Having foresight.
Purgation, purification The
introduction into the Teletce or Lesser Mysteries; a separation of the
external principles from the soul. Punishment The curing of the soul of its errors.
Prophet, Greek \i.rj.^x'.c, One
possessing the prophetic mania, or inspiration. Priest Greek \xrjyz'.c, A prophet or inspired person, ispjuc a sacerdotal person. Revolt A rolling away, the career of the soul in its
descent from the pristine divine condition. Science The knowledge of universal, necessary,
unchangeable, and eternal ideas. Shows The peculiar dramatic representations of the
Mysteries. Telete, Greek tjXext]
The finishing or consummation; the Lesser Mysteries.
Theologist A teacher of the
literatiu-e relating to the gods. Theoretical Perceptive. Torch bearer A priest who bore a torch at the
Mysteries. Titans The beings
who made war against Kronos or Saturn. E. Poeoeke identifies them with
the Daittjas of India, who resisted the Brahmans. In the Orphic legend,
they are described as slaying the child Bacchus-Zagreus.
Titanic Eelating to the nature of
Titans. Transmigration The
passage of the soul from one condition of being to another. This has not
any necessary reference to any rehabilitation in a corporeal nature, or
body of flesh and blood. See I Corinthians, Virtue A good mental condition; a stable
disposition. Virtues
Agencies, rites, inflluences. Cathartic Virtues Purifying rites or influences.
Wisdom The knowledge of things as
they exist; " the approach to God as the substance of goodness in
truth." World The
cosmos, the universe, as distinguished from the earth and human existence
upon it. Eleusinian Priest and Assistants. Fortune and the Three
Fates. LIST OF ILLUSTRATIONS. Drawm from the antique. A. L.
RAWSON. A DESCRIPTION of tlie illustrations to this volume
properly includes the two or three theories of human life held by the
ancient Greeks, and the beautiful myth of Demeter and Proserpina, the most
charming of all mythological fancies, and the Orgies of Bacchus, which
together supplied the motives to the artists of the originals from which
these drawings were made. From them* we learn that it was
believed»that the soul is a part of, or a spark from, the Great Soul of
the Kosmos, the Central Sun of the intellectual universe, and therefore
immortal; has lived before, and will continue to hve after this ''
body prison " is dissolved; that the river Styx is between us
and the unseen world, and hence we have no recollection of any
former state of existence; and that the body is Hades, in which the soul
is made to suffer for past misdeeds done in the unseen world.
Poets and philosophers, tragedians and comedians, embellished the myth
with a thousand fine fancies which were List of Illustrations woven into
the ritual of Eleusis, or were presented in the theaters during the
Bacchic festivals. The pictures include, beside the costumes of
priests, jiriestesses, and their attendants, and of the fauns and satjrrs,
many of the sacred vessels and implements used in celebrating the
Mysteries, in the orgies, and in the theaters, all of which were drawn by
the ancient artists from the objects represented, and their work has been
carefully followed here. Frontispiece. Sacrifice to Ceres. Denhndler,
sculptur. The goddess stands near a serpent-guarded altar, on which
a sheaf of grain is aflame. Worshipers attend, and Jupiter
approves. Decoratinq a Statue of Bacchus Bom. Campana. The priest wears a
lamb-skin skirt, the thyrsus is a natural vine with grape clusters, and
there are fruit and wine bearers. 3. Bacchantes with Thyrsus and
Flute 4 Two fragments. Bom. Camp. Symbolical Ceremony.Bom.
Camp Torch and thyrsus bearers and faun. See cut No. 40, and page for reference
to pine nut. Bacchus and Nymphs Pluto, Proserpina, and Furies 5
Galerie des Peintres. The Furies were said to be children of Pluto
and Proserpina; other accounts say of Nox and Acheron, and Acheron was a
son of Ceres Avithout a father. Priestess with Amphora and Sacred Cake
Priestess with Musical Instruments 6 9. Faun Kissing
Bacchante. Bourbon Mus Faun and
Bacchus. Bourbon Mus List of
Ilhistrations. Etruscan Y A^Y^.MilUngen See drawings on page lOG. Mercury
Presenting a Soul to Pluto Pict. Ant. Sep. Nasonion, pi. Mystic Rites. Arhniranda, tav. Eleusinian Ceremony. Oes^. Benk. Alt. Kimst, Bacchic Festival.
JSarto?*, Admiranda, Probably a stage scene. The cliaracters are the king, who
was an archon of Athens; a thyrsns bearer, musician, wine and fruit
bearers, dancers, and Pluto and Proserpina. A boy removes the king's sandal. Apollo
and the Muses. Florentine Museum The
muses were the daughters of Jupiter and Mnemosyne; that is, of the god of
the present instant, and of memory. Their office was, in part, to give
information to any inquiring soul, and to preside over the various arts
and sciences. They were called by various names derived from the places
where they were worshiped : Aganippides, Aonides, Castalides,
HeUconiades, Lebetheides, Pierides, and others. Apollo was called
Musagetes, as their leader and conductor. The palm tree, laurel,
fountains on Helicon, Parnassus, Pindus, and other sacred mountains, were
sacred to the muses. Prometheus Forms a Woman Visconti, Mus. Fio. Clem. Mercury,
the messenger of the gods, brings a soul from Jupiter for the body made
by Prometheus, and the three Fates attend. The Athenians built an altar
for the worship of Prometheus in the grove of the Academy. 18.
Procession of Iacchus and Phallus 16 Montfaucon. From Athens
to Eleusis, on the sixth day of the Eleusinia. The statue is made to play
its part in a mystic ceremony, typifying the union of the sexes in generation.
Attendant priestesses bear a basket of dried flgs and a phallus, baskets of
fruit, vases of wine, with clematis, and musical and sacrificial
instniments. None but women and children were permitted to take part in
this ceremony. The wooden emblem of fecundity was an object of supreme
veneration, and the ceremony of placing and hooding it. was assigned to
the most highly respected woman in Athens, as a mark of honor. Lucian and
Plutarch Illustrations. say the
phallus bearers at Rome carried images (phalloi) at the top of long
poles, and their bodies were stained with wine lees, and partly covered
with a lamb-skin, their heads crowned with a wreath of ivy. From Etruscan
Vases Florentine Museum. Human sacrifice
may be indicated in the lower group. Venus and Proserpina in Hades
28 Galerie des Peintres. The myth relates that Venus gave
Proserpina a pomegranate to eat in Hades, and so made her subject to the
law which required her to remain four months of each year with Pluto in
the Underworld, for Venus is the goddess who presides over birth and
growth in all cases. Cerberus keeps guard, and one of the heads holds her
garment, signifying that his master is entitled to one-third of her
time. 23. Rape of Proserpina. Carried Down to Hades
(Invisibility) Flor. Mus, Pallas,
Venus, and Diana Consulting Gal. des Peint. Jupiter ordered these
divinities to excite desire in the heart of Proserpina as a means of
leading her into the power of the richest of all monarchs, the one who
most abounds in treasures Dionysus as God op the Sun 31 Pit. Ant.
Ercolmio. Dionysus Bacchus symbolizes the sun as god of the seasons;
rides on a panther, pours wine into a drinking-horn held by a satyr, who
also carries a wine skin bottle. The winged genii of the seasons attend.
Winter carries two geese and a cornucopia; Spring holds in one hand the
mystical cist, and in the other the mystic zone; Summer bears a sickle
and a sheaf of grain; and Autumn has a hare and a horn-of-plenty full
of fruits. Fauns, satyrs, boy-fauns, the usual attendants of
Bacchus, play with goats and panthers between the legs of the larger
figures. Herse and Mercury Pit. Ant. Ercolano. A fabled love match
between the god and a daughter of Cecrops, the Egyptian who founded
Athens, supplied the ritual for the festivals Hersephoria, in which young
girls of seven to eleven years, from the most noted families, dressed
in List of Illustrations. Pwhite, carried the sacred vessels
and implements used in the Mysteries in procession. Cakes of a peculiar
form were made for the occasion. Narcissus Sees His Image in Water
P. Ovid. Naso. The son of Cephissus and Liriope, an Oceanid, was said to
be very beautiful. He sought to win the favor of the nymph of the
fountain where he saw his face reflected, and failing, he drowned himself
in chagrin. The gods, unwilling to lose so much beauty, changed him into
the flower now known by his name. Jupiter as Diana, and Calisto. P. Ovid. Naso The supreme deity of the
ancients, beside numerous marriages, was credited with many amours with
both divinities and mortals. In some of those adventures he succeeded by using
a disguise, as here in the form of the Queen of the Starry Heavens,
when he surprised Calisto (Helice), a daughter of Lycaon, king of
Arcadia, an attendant on Diana. The companions of that goddess were pledged to
celibacy. Jupiter, in the form of a swan, surprised Leda, who became
mother of the Dioscuri (twins). 29. Diana and Calisto. Ovid. Naso, Neder 62 The fable
says that when Diana and her nymphs were bathing the swelling form
of Calisto attracted attention. It was reported to the goddess, when she
punished the maid by changing her into the form of a bear. She would have been
torn in pieces by the hunter's dogs, biit Jupiter interposed and
translated her to the heavens, where she forms the constellation The
Great Bear. Juno was jealous of Jupiter, and requested Thetis to refuse
the Great Bear permission to descend at night beneath the waves of ocean,
and she, being also jealous of Poseidon, complied, and therefore the
dipper does not dip, but revolves close around the pole star.
Bacchantes and Fauns Dancing A stage ballet.
Bom. Campana Hercules, Bull, and Priestess. Bom. Camp 74 Bacchic orgies.
32. Fruit and Thyrsus Bearers.
Boiir. Mm Torch-Bearer as Apollo.
Bourbon Mits Eleusinian Mysteries.
Florence 3Ius List of Illustrations. Etruscan Mystic Ceremony. i?oH«.
Camp 94 36. Etruscan Altar Group. JPtor. Mus 106 The
mystic cist with serpent coiled around, the sacred oaks, baskets,
drinking-horns, zones, f estoou of branches and flowers, make very pretty
and impressive accessories to two handsome priestesses. Etruscan
Bacchantes. JfiZZm^en 106 These two groups were drawn from a vase
which is a very fine work of art. The drapery, .decoration,
symbols, accessories, and all the details of implements used in the
celebration of the Mysteries are very carefully drawn on the vase, which
is well preserved. This vase is a strong proof of the antiquity of the
orgies, for the Etruscans, Tyrrheni, and Tusci were ancient before the
Romans began to build on the Tiber. 38. Etruscan Ceremony.-
m7fo><r/m 106 39. Satyr, Cupid and Venus. ilfo>i?/a«cow;
SculpUre . 110 Some Roman writers affirmed that the Satyr was a
real animal, but science has dissipated that belief, and the monster
has been classed among the artificial attractions of the theater
where it belongs, and where it did a large share of duty in the Mysteries.
They were invented by the poets as an impersonation of the life that animates
the branches of trees when the wind sweeps through them, meaning,
whistling, or shrieking in the gale. They were said to be the chief
attendants on Bacchus, and to delight in revel and wine. 40.
Cupids, Satyr, and Statue of ^niwvs^.Montfaucon The many suggestive emblems in
this picture form an instructive group, symbolic of Nature's life-renewing
power. The ancients adored this power under the emblems of the
organs of generation. Many passages in the Bible denounce that worship,
which is called " the grove," and usually was an iipright
stone, or wooden pillar, plain or ornamented, as in Rome, where it became
a statue to the waist, as seen in the engraving. The Palladium at Athens was a
Greek form. The Druzes of Mount Lebanon in Syria now dispense with
emblems of wood and stone, and use the natural objects in their mystic
rites and ceremonies. 41. Apollo and Daphne, Galerie des Peint
118 The rising sun shines on the dew-drops, and warming them
as they hang on the leaves of the laurel tree, they disappear,
254 List of lUiisfrations. Page. leaving
the tree; and it is said by the poet that Apollo loves and seeks Daphne,
striving to embrace her, when she flies and is transformed into a laurel
tree at the instant she is embraced by the sun-god. 42. Diana
and Endymion. Bourbon 3Ius 118
Diana as the queen of the night loves Endymion, the setting sun.
The lovers ever strive to meet, but inexorable fate as ever prevents them
from enjoying each other's society. The fair huntress sometimes is
permitted, as when she is the new moon, or in the first quarter, to
approach near the place where her beloved one lingers near the Hesperian
gardens, and to follow him even to the Pillars of Hercules, but never to
embrace him. The new moon, as soon as visible, sets near but not with the
sun. Endymion reluctantly sinks behind the western horizon, and
would linger until the loved one can be folded in his arms, but his duty
calls and he must turn his steps toward the Elysian Fields to cheer the
noble and good souls who await his presence, ever cheerful and benign.
Diana follows closely after and is welcomed by the brave and beautiful
inhabitants of the Peaceful Islands, but while receiving their homage
her lover hastens on toward the eastern gates, where the golden
fleece makes the morning sky resplendent. 43. Ceres and the Car op
Treptolemus 127 P. Ovid. Naso, Neder. Triptolemus (the word
means three plowings) was the founder of the Eleusinian Mysteries, and
was presented by Ceres with her car drawn by winged dragons, in which he
distributed seed grain all over the world. 44. Pluto Marries
Proserpina 127 P. Ovid. Naso, Neder. Jupiter is said to have
consented to request of Pluto that Proserpina might revisit her mother's
dwelling, and the picture represents him as very earnest in his appeal to his
brother. Since then the seed of grain has remained in the ground no
longer than four months; the other eight it is above, in the regions
of light. In the engraving a curtain is held up by bronze figures.
This seems conclusive that it was a representation of a dramatic scene. (See
pp. 159, 186.) 45. Proserpina, according to the Greeks. Heck... 138 46. Bacchus after the
Visit to India. Heck 138 A
Roman Figure of Geres. Heck 138 Demeter, from Etruscan Vase.
IfecZ; 138 49. Venus, Pallas, and Dlana Inspecting the
Needlework of Proserpina. Galerie des Peini . 142 50.
Proserpina Exposed to Pluto 152 Ovid. Naso, Neder. There may
have been a mild sarcasm in this artist's mind when he drew the maid as
dallying with Cupid, and the richest monarch in all the earth in the distance,
hastening toward her. He succeeded, as is shown in the next
engraving. 51. Pluto Carrying Off Proserpina 152 P.
Ovid. Naso, Neder. Eternal change is the universal law. Proserpina must
go down into the Underworld that she may rise again into light and
life. The seed must be planted under or into the soil that it may
have a new birth and growth. 52. Proserpina in Pluto's Court. Montfaucon 156 As a personation
she was the "Apparent Brilliance" of all fruits and
flowers. 53. Ceres in Hades.
Montfaucon 162 54. Bacchus, Fauns, and Wine Jars. Montfaucon .... 168 55. Tragic
KQTOn.^Bourhon Museum 168 56. A Group of Deities. Heck 168 Pan and Dionysus,
Hygeia, Hermes, Dionysus and Faunus, and Silenus. 57. Night
with Her Starry Canopy. Heck 168
58. The Three Graces. Heck
168 59. Cupid Asleep in the Arms of Venus 174 Galerie
des Peint. 60. Prize Dance between a Satyr and a Goat
174 Anticld. 61. Baubo
and Ceres at Eleusis. Galerie des Peint.
174 See page 232. 256 List of Illustrations. Page.
62. Psyche Asleep in Hades 186 From the ruins of the Bath of
Titus, Rome. See page 45. 63. Nymphs of the Four Rivers in
Hades 187 Tomb of the Nasons. "It was easy for poets
and mythographers, when they had once started the idea of a gloomy land
watered with the rivers of woe, to place Styx, the stream which mates men
shudder, as the boundary which separates it from the world of Uving
men, and to lead through it the channels of Lethe, in which all
things are forgotten, of Kokytos, which echoes only with shrieks of pain,
and of Pyiyphlegethon, with its waves of fire." Acheron, in the
early myths, was the only river of Hades. 64. Etruscan Vase
Group. MilUngen Dancers,
ETRUscANS.~i¥i//M?, 1 pJ. 27 198 66. Greek Convivial Scene. Millin, 1 ^9^ 38 198 67. Faun and
Bacchante. Bour. Mus 206 68.
Thyrsus-Bearer. Bourbon Museum 206
69. Bacchante and Faun. 5o«r. Mus 206 These three verj'
graceful pictures were drawn from paintings on walls in
Herculaneum. KiN<T, Torch, Fruit, and Thyrsus Bearer 212
71. Hercules RECLiNiNG.^.^oe5f«, Bassirilievi, 70 212 Here is
an actual ceremony in which many actors took parts; with an altar,
flames, a torch, tripod, the kerux (crier), bacchantes, fauns, and other
attendants on the celebration of the Mystei'ies, including tlie role of
an angel with wings. Marriage (or Adultery) or Mars and Venus 220
Montfaucon. See pages 231-2.37. If this is from a scene as played at
the Bacchic theaters, those dramas must have been very popular, and
justly so. To those theaters, which were supported by the government in Athens
and in many other cities througliout Greece, we owe the immortal works of
^schylus and Sophocles. Page. 73, Musical Conference
(Epithalamium) 228 S. Bartoli, Admiranda, pi. 62, Written
music was evidently used, for one of the company is writing as if
correcting the score, and writing with the left hand. Venus Rising
from the QEA.Ovid. Naso, Verburg.This goddess was called Venus Anadyomene, for
the poets said she rose from the sea
the morning sunlight on the foam of the sea on the shore of the
island Cythera, or Cyprus, or wherever the poet may choose as the favored
place for the manifestation of the generative power of nature, and
wherever flowers show her footprints. The loves bear aloft her
magic girdle, which Juno borrowed as a means of winning back
Jupiter's affection. The rose and the myrtle were sacred to her. Her
worship was the motive for building temples in Cythera and in Cyprus at
Amathus, Idalium. Golgoi, and in many other places. (See engravings, Jupiter
Disguised as Diana, and Calisto Ovid. Naso, Neder. The gods were said to
have the power, and to practice assuming the form of any other of their train,
or of any animal. In these disguises they are supposed to play tricks on
each other as here. Diana is the queen of the night sky, Calisto is
one of her attendants, and many white clouds float over the blue ether
(Jupiter), and are chased by the winds (as dogs). 76. Hercules,
Deianeira, and Nessus 234 Ovid. Naso, Neder. The sun nears
the end of the day's journey; he is aged and weary; dark clouds obscure
his face and obstruct his way, but stUl Hercules loves beautiful things,
and Deianeira, the fair daughter of the king of ^tolia, retires with him
into exile. At a ford the hero entrusts his bride to Nessiis the Centaur,
to carry across the river. The ferryman made love to the lady, and
Hercules resented the indiscretion, and wounded him by an arrow. Dying
Nessus tells Deianeira to keep his blood as a love charm in case her
husband should love another woman. Hercules did love another, named lole,
and Deianeira dipped his shirt in the blood of Nessus the crimson' and scarlet clouds of a
splendid sunset are made glorious by the blood of Nessus, and Hercules is
burnt on the funeral pyre of scarlet and crimson sunset clouds.
Illustrations. The Sacrifice.
Herculaneum, Hercules Drunk. Zoegciy BassirilievU tav. Proserpina
Enthroned in Hades- Archdol. Zeit.
240 The principle of growth rules the Underworld. 80.
Bacchante and Centaur. Bourbon Mus
.Bacchante and Cbntauress. Bourbon Mus Eleusinian Priest and Assistants
247 83. The Fates. Zoeya,
Bassirilievi, tav. 46 248 84. Supper Scene 258 85.
Bacchic Bull. Antichi Ou
cover. Suppei- Scene. The Eleusinian and Bacchic mysteries.
Princeton Theological Semmary-Speer Library PHALLIC WORSHIP:
A DESCRIPTION OF THE MYSTERIES OF THE SEX WORSHIP OF
THE ANCIENTS WITH THE HISTORY OF THE MASCULINE
CROSS AN ACCOUNT OF PRIMITIVE SYMBOLISM, HEBREW
PHALLICISM, BACCHIC FESTIVALS, SEXUAL RITES, AND THE MYSTERIES OF
THE ANCIENT FAITHS, LONDON. The present somewhat slight sketch of a most
interesting subject, whilst not claiming entire originality, yet
embraces the cream, so to speak, of various learned works of great cost, some
of which being issued for private circulation only, are almost
unobtainable. During the past few years several philophical have been written upon ancient Roman Phallicism
in conjunction with other kindred matters f but not devoting themselves
entirely to one ancient mystery y the writers have only partially
ventilated the subject. The present work seeks to obviate this failing by
confining its attention entirely to the Sex Worship or Phallicism of
the ancient world. Many of the topics have received only slight
treatmenty being little more than indicated; but the work will enable
the reader to understand and possess the truth concerning the
Phallic Worship of the Ancients . Those who desire to know more, or
to authenticate the statements and facts given in this book, should
consult the large and important works of Payne Knight, Higgins,
Dulaure, Rolky Inman, and other writers . It was intended to
give with this volume a list of works and miscellaneous pieces written on
the subject, but the length of the list prevented its being added. Sex
Worship has prevailed among all peoples of ancient times, sometimes
contemporaneous and often mixed with Star, Serpent, and Tree Worship. The
powers of nature were sexualised and endowed with the same
feelings, passions, and performing the same functions as human
beings. Among the ancients, whether the Sun, the Serpent, or the
Phallic Emblem was worshipped, the idea was the same the veneration of the generative principle.
Thus we find a close relationship between the various mythologies
of the ancient nations, and by a comparison of the creeds, ideas, and
symbols, can see that they spring from the same source, namely, the
worship of the forces and operations of nature, the original of which was
doubtless Sun worship. It is not necessary to prove that in primitive
times the Sun must have been worshipped under various names, and
venerated as the Creator, Light, Source of Life, and the Giver of
Food. In the earliest times the worship of the generative
power was of the most simple and pure character, rude in manner,
primitive in form, pure in idea, the homage of man to the supreme power,
the Author of life. Afterwards the worship became more depraved,
a religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a priesthood who were
not slow to take advantage of this state of affairs, and inculcated with
it profligate and mysterious ceremonies, union of gods with women,
religious prostitution and other degrading rites. Thus it was not
long before the emblems lost their pure and simple meaning and became
licentious statues and debased objects. Hence we have in Rome the depraved
ceremonies at the worship of BACCO, who became, not only the
representative of the creative power, but the god of pleasure and
licentiousness. The corrupted religion always found eager votaries, willing
to be captives to a pleasant bondage by the impulse of physical bliss, as
was the case in among the Romans. Sex worship personifies became the supreme
and governing deity, enthroned as the ruling God over all; dissent
therefrom was impious and punished. The priests of the worship compelled
obedience. Monarchs complied to the prevailing faith and became willing
devotees to the shrines of VENERE on the one hand, and of BACCO and
PRIAPO on the other, by appealing to the most animating passion of
nature. This is the worship of the reproductive powers, the sexual
appointments revered as the emblems of the divine creator. The one male,
the active creative power; the other the female or passive power; ideas
which were represented by various emblems in different countries.These
emblems were of a pure and sacred character, and used at a time when the
prophets and priests spoke plain speech, understood by a rude and
primitive people; although doubtless by the common people the
emblems were worshipped themselves, even as at the present day in
Roman Catholic countries the more ignorant, in many cases, actually
worship the images and pictures themselves, while to the higher and more
intelligent minds they are only symbols of a hidden object of worship. In
the same manner, the concealed meaning or hidden truth was to the
ignorant and rude people of early times entirely unknown, while the
priests and the more learned kept studiously concealed the meaning of the
ceremonies and symbols. Thus, the primitive idea became mixed with
profligate, debased ceremonies, and lascivious rites, which in time
caused the more pure part of the worship to be forgotten. But Phallicism
is not to be judged from these sacred orgies, any more than
Christianity from the religious excitement and wild excesses of a
few Christian sects during the Middle Ages. In a work on
the Worship of the Generative
Powers during the Middle Ages,” the writer traces the superstition
westward, and gives an account of its prevalence throughout Southern and
Western Europe during that period. The worship was very prevalent
in Italy, and was invariably carried by the Romans into the countries
they conquered, where they introduced their own institutions and
forms of worship. Accordingly, in Britain have been found numerous relics
and remains; and many of our ancient customs are traced to a Phallic
origin. When we cross over to
Britain,” says the writer, we find
this worship established no less firmly and extensively in that island;
statuettes of Priapus, Phallic bronzes. pottery covered with obscene
pictures, are found wherever there are any extensive remains of Roman
occupation, as our antiquaries know well. The numerous Phallic
figures in bronze found in England are perfectly identical in character
with those that occur in France and Italy.” All antiquaries of any
experience know the great number of obscene subjects which are met with
among the fine red pottery which is termed Samian ware, found so
abundantly in all Roman sites in our island.
They represent erotic scenes, in every sense of the word,
with figures of Priapus and Phallic emblems. The Phallus, or Lingam,
which stood for the image of the male organ, or emblem of creation, has
been worshipped from time immemorial. Payne Knight describes it as
of the greatest antiquity, and as having prevailed in Egypt and all over
Asia. The women of the former country carried in their religious
processions, a movable Phallus of disproportionate magnitude, which
Deodorus Siculus informs us signified the generative attribute. It has
also been observed among the idols of the native Americans and
ancient Scandinavians, while the Greeks represented the Phallus
alone, and changed the personified attribute into a distinct deity,
called Priapus. Phallus, or privy member ( membrum virile ),
signifies, he breaks through, or
passes into.” This word survives in German pfabl, and pole in English.
Phallus is supposed Phallic Worship ii
to be of Phoenician origin, the Greek word pallo> or phallo, to brandish preparatory to throwing a
missile,” is so near in assonance and meaning to Phallus, that one
is quite likely to be parent of the other. In Sanskrit it can be traced
to phal> to burst,” to produce,”
to be fruitful ”; then, again, phal is a ploughshare,” and is also the name of
Siva and Mahadeva, who are Hindu deities. Phallus, then, was the ancient
emblem of creation : a divinity who was companion to Bacchus.
The Indian designation of this idol was Lingam, and those who
dedicated themselves to its service were to observe inviolable
chastity. If it were discovered,”
says Crawford, that they had in any way
departed from them, the punishment is death. They go naked, and
being considered as sanctified persons, the women approach without
scruple, nor is it thought that their modesty should be offended by
it.” SYMBOLS OR EMBLEMS The Phallus and its emblems were
representative of the gods Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris,
Baal, and Asher, who were all Phallic deities. The symbols were
used as signs of the great creative energy or operating power of God from
no sense of mere animal appetite, but in the highest reverence. Payne
Knight, describing the emblems, says: Forms and ceremonials of a religion
are not always to be understood in their direct and obvious sense,
but are to be considered as symbolical representations of some
hidden meaning extremely wise and just, though the symbols themselves, to
those who know not their true signification, may appear in the highest
degree absurd and extravagant. It has often happened that avarice
and superstition have continued these symbolical representations for ages after
their original meaning has been lost and forgotten; they must, of course,
appear nonsensical and ridiculous, if not impious and extravagant.
Such is the case with the rite now under consideration, than which
nothing can be more monstrous and indecent, if considered in its plain
and obvious meaning, or as part of the Christian worship; but which will
be found to be a very natural symbol of a very natural and
philosophical system of religion, if considered according to its
original use and intention.” The natural emblems were those
which from their character were most suitable representatives; such
as poles, pillars, stones, which were sacred to Hindu, Egyptian,
and Jewish divinities. Blavalsky gives an account of the Bimlang
Stone, to be found at Narmada and other places, which is sacred to
the Hindu deity Siva; these emblem stones were anointed, like the stone
consecrated by the Patriarch Jacob. Blavalsky further says
that these stones are identical in
shape, meaning, and purpose with the ‘ pillars ’ set up by the several patriarchs
to mark their adoration of the Lord God. In fact, one of these
patriarchal lithoi might even now be carried in the Sivaitic processions
of Calcutta without its Hebrew derivation being suspected. The Pole was
an emblem of the Phallus, and with the serpent upon it, was a
representative of its divine wisdom and symbol of life. The serpent upon
the tree is the same in character, both are representative of the tree of
life. The story of Moses will well illustrate this, when he erected
in the wilderness this effigy, which stood as a sign of hope and life, as
the cross is used by the Catholics of the present day; the cross then, as
now, being simply an emblem of the Creator, used as a token of
resurrection or regeneration. iEsculapius, as the restorer of
health, has a rod or Phallus with a serpent entwined. The
Rev. M. Morris has shown that the raising of the May-pole is of Phallic
origin, the remains of a custom of India or Egypt, and is typical of the
fructifying powers of spring. The May festival was carried on with
great licentiousness by the Romans, and was celebrated by nearly all
peoples as the month consecrated to Love. The May-day in England was the
scene of riotous enjoyment, very nearly approaching to the Roman
Floralia. No wonder the Puritans looked upon the May-pole as a relic
of Paganism, and in their writings may be gleaned much of the
licentious character of the festival. Philip Stubbes, a Puritan
writer in the reign of Elizabeth, thus describes a May-day in England
: Every parishe, towne, and
village assemble themselves together, bothe men, women, and children,
olde and younge even indifferently; and either goyng all together, or
devidyng themselves into companies, they go some to the woods and
groves, some to one place, some to another, where thei spend all the
night in pleasant pastymes; and in the 14 Phallic
Worship mornyng they returne, bryngyng with them birch bowes
and branches of trees, to deck their assemblies withall. But their
cheerest jewell thei bryng from thence is their Maie pole, whiche thei
bryng home with great veneration, as thus : thei have twentie or fortie
yoke of oxen, every oxe havyng a sweet nosegaie of flowers placed
on the tippe of his homes, and these oxen drawe home this Maie pole (this
stinckyng idoll rather), which is covered all over with flowers and
hearbes, bound rounde aboute with strynges from the top to the
bottome, and sometyme painted with variable colours, with two or
three hundred men, women, and children, folio wyng it with great
devotion. And thus beyng reared up, with handekerchiefes and flagges
streamyng on the top, thei strawe the grounde aboute, binde greene
boughes aboute it, sett up sommer haules, bowers, and arbours hard
by it. And then fall thei to banquet and feast, to leape and daunce
aboute it, as the heathen people did at the dedication of their idols,
whereof this is a perfect patterne, or rather the thyng itself.” The
ceremony was almost identical with the Roman festival, where the Phallus
was introduced with garlands. Both were attended with the same
licentiousness, for Stubbes gives a further account of the depravity
attending the festivities. PILLARS Another type of
emblem was the stone pillar, remains of which still exist in the British
Isles. These pillars or so called crosses generally consist of a shaft of
granite with a carved head. In the West of England crosses are very
common, standing in the market and receiving the name of The Cross.” These stone pillars
were first erected in honour of the Phallic deity, and on the
introduction of Christianity were not destroyed, but consecrated to the
new faith, doubtless to honour the prejudices of the people. These
monolisks abound in the Highlands, they are stones set up on end, some
twenty-four or thirty feet high, others higher or lower and this
sometimes where no such stones are to be quarried. We learn
that the Bacchus of the Thebans was a pillar. The Assyrian Nebo was
represented by a plain pillar, consecrated by anointing with oil.
Arnobius gives an account of this practice, as also does Theophrastus,
who speaks of it as a custom for a superstitious man, when he
passed by these anointed stones in the streets to take out a phial of oil
and pour it upon them and having fallen on his knees to make his
adorations, and so depart. In various parts of the Bible the Pillar
is referred to as of a sacred character, as in Isaiah, In that day shall there be an altar to
Jehovah in the midst oi the land of Egypt, and a pillar at the border
thereof to Jehovah, and it should be for a sign and a witness to the
Lord.” The Orphic Temples were doubtless emblems of the same principle
of the mystic faiths of the ancients, the same as the Round Towers of
Ireland, a history of which was collected by O’Brien, who describes the
Towers as Temples constructed by
the early Indian colonists of the country in honour of the Fructifying
principle of nature, emanating as was supposed from the Sun, or the
deity of desire instrumental in that principle of universal
generativeness diffused throughout all nature. According to the same author
these towers were very ancient, and of Phoenician origin, as similar
towers have been found in Phoenicia.
The Irish themselves,” says O’Brien, designated them ‘ Bail-toir,’ that is the
tower of Baal. Baal was the name of the Phallic deity, and the
priest who attended them ‘ Aoi Bail-toir ’ or superintendent of Baal tower.”
This Baal was worshipped wherever the Phoenicians went, and was
represented by a pillar or stone or similar objects. The stone that
Jacob set up, and anointed as a rallying place for worship, became
afterwards an object of worship to the Phoenicians. The earliest
navigators of the world were the Phoenicians, they founded colonies and
extended their commerce first to the isles of the Mediterranean, from
thence to Spain, and then to the British Isles. Historians have
accorded to them the settlements of the most remote localities. They formed
settlements in Cyprus, and Atticum, according to Josephus, was the
principal settlement of the Tyrians upon this island. Strabo’s testimony
is, that the Phoenicians, even before Homer, had possessed themselves of
the best part of Spain. Where the Phoenicians settled, there they
introduced their religion, and it is in these countries we find the
remains of ancient stone and pillar worship. LOGGIN STONES, ETC.
Loggin stones are by Payne Knight considered as Phallic emblems. Their remains,” he says, are still extant, and appear to have
been composed of a crone set into the ground, and another placed upon the
point of it and so nicely balanced that the wind could move it,
though so ponderous that no human force, unaided by machinery, can
displace it; whence they are called * logging rocks * and * pendre
stones/ as they were anciently * living stones * and 4 stones of God/
titles which differ very little in meaning from that on the Tyrian
coins. Damascius saw several of them in the neighbourhood of Heliopolis
or Baalbeck, in Syria, particularly one which was then moved by the wind;
and they are equally found in the Western extremities of Europe and the
Eastern extremities of Asia, in Britain, and in China.”
Bryant mentions it as very usual among the Egyptians to place with
much labour one vast stone upon another for a religious memorial.
Such immense masses, being moved by causes seeming so inadequate,
must naturally have conveyed the idea of spontaneous motion to ignorant
observers, and persuaded them that they were animated by an emanation of
the vital spirit, whence they were consulted as oracles, the
responses of which could always be easily obtained by interpreting the
different oscillatory movements into nods of approbation or
dissent. Phallic emblems abounded at Heliopolis in Syria, and
many other places, even in modern times. A physician, writing to Dr.
Inman, says : I was in Egypt last
winter (1865-66), and there certainly are numerous figures of gods
and kings, on the walls of the temple at Thebes, depicted with the male
genital erect. The great temple at Karnak is, in particular, full of such
figures, and the temple of Danclesa likewise, though that is of much
later date, and built merely in imitation of old Egyptian art. The
same inspiring bas-reliefs arc pointed out by Ezek. I remember one scene
of a king (Rameses II) returning in triumph with captives, many of whom
were undergoing the process of castration.” Obelisks were
also representative of the same emblem. Payne Knight mentions several
terminating in a cross, which had exactly the appearance of one of those
crosses erected in churchyards and at cross roads for the adoration
of devout persons, when devotions were more prevalent than at present.
Stones, pillars, obelisks, stumps of trees, upright stones have all the
same signification, and are means by which the male element was
symbolised. TRIADS The Triune idea is to be found in the
system of almost every nation. All have their Trinity in Unity, three
in one, which can be distinctly recognised in the cross. The Triad
is the male or triple, the constitution of the three persons of most
sacred Trinity forming the Triune system. In the analysis of the subject
by Rawlinson, we find the Trinity consisted of Asshur or Asher,
associated with Anu and Hea or Hoa. Asshur, the supreme god of the
Assyrians, represents the Phallus or central organ or the Linga, the
membrum virile . The cognomen Anu was given to the right testis, while
that of Hea designated the left. It was only natural that
Asshur being deified, his appendages should be deified also. Beltus,” says Inman, was the goddess associated with them, the
four together made up Arba or Arba-il, the four great gods,” the
Trinity in Unity. The idea thus broached receives great confirmation when
we examine the particular stress laid in ancient times respecting the
right and left side of the body in connection with the Triad names given
to offspring mentioned in the scriptures with the titles given to
Anu and Hea. The male or active principle was typified by the idea of
solidity ” and firmness,” and the
females or passive by the principles of
water,” softness,” and other
feminine principles. Thus the goddess Hea was associated with water, and
according to Forlong, the Serpent, the ruler ot the Abyss, was sometimes
represented to be the great Hea, without whom there was no creation or
life, and whose godhead embraced also the female element water.
Rawlinson also gives a similar conclusion, and states as far as he
could determine the third divinity or left side was named Hea, and he
considered this deity to correspond to Neptune. Neptune was the presiding
deity of the deep, ruler of the abyss, and king of the rivers. As
Darwin and his coadjutors teach, mankind, in common with all animal
life, originally sprung from the sea; so physiology teaches that each
individual had origin in a pond of water. The fruit of man is both solid
and fluid. It was natural to imagine that the two male appendages had a
distinct duty, that one formed the infant, the other water in which
it lived, that one generated the male, the other the female offspring;
and the inference was then drawn that water must be feminine, the emblem
of all possible powers of creation. It will be seen that the
names and signification of the gods and their attributes had no ideal
meaning. Thus in Genesis xxx. 13, we find Asher given as a
personality, which signifies to be
straight,” upright,” fortunate,” happy.” Asher was
the supreme god of the Assyrians, the Vedic Mahadeva, the emblem of the
human male structure and creative energy. The same idea of the
creator is still to be seen in India, Egypt, Phoenicia, the
Mediterranean, Europe, and Denmark, depicted on stone relics.
To a rude and ignorant people, enslaved with such a religion, it
was an easy step from the crude to the more refined sign, from the
offensive to a more pictured and less obnoxious symbol, from the plain and
self-evident to the mixed, disguised, and mystified, from the
unclothed privy member to the cross. The Triad, or Trinity, has been
traced to Phoenicia, Egypt, Japan, and India; the triple deities Asshur,
Anu, and Hea forming the tau.”
This mark of the Christians, Greeks, and Hebrews became the sign or type
of the deities representing the Phallic trinity, and in time became
the figure of the cross. It is remarked by Payne Knight that The male organs of generation are sometimes
found represented by signs of the same sort, which properly should
be called the symbol of symbols. One of the most remarkable of these is a
cross, in the form of the letter (T), which thus served as the emblem of
creation and generation before the Church adopted it as a sign of
salvation.” Another writer says,
Reverse the position of the triple deities Asshur, Anu, Hea, and
we have the figure of the ancient tau of the Christians, Greeks, and
ancient Hebrews. It is one of the oldest conventional forms of the
cross. It is also met with in Gallic, Oscan, Arcadian, Etruscan, original
Egyptian, Phoenician, Ethiopic, and Pelasgian forms. The Ethiopic form of
the * tau ’ is the exact prototype and image of the cross, or rather, to
state the fact in order of merit and time, the cross is made in the
exact image of the Ethiopic * tau.’ The fig-leaf, having three lobes to
it, became a symbol of the triad. As the male genital organs were held in
early times to exemplify the actual male creative power, various
natural objects were seized upon to express the theistic idea, and at the
same time point to those parts of the human form. Hence, a similitude was
recognised in a pillar, a heap of stones, a tree between two rocks, a
club between two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with
two ribbons with the two ends pendant, a thumb and two fingers, the
caduceus. Again, the conspicuous part of the sacred triad Asshur is
symbolised by a single stone placed upright the stump of a tree, a block, a tower,
spire, minaret, pole, pine, poplar, or palm tree, while eggs, apples, or
citrons, plums, grapes, and the like represented the remaining two
portions, altogether called Phallic emblems. Baal-Shalisha is a name
which seems designed to perpetuate the triad, since it signifies c
my Lord the Trinity,’ or ‘ my God is three.’ ” We must not
omit to mention other Phallic emblems, such as the bull, the ram, the
goat, the serpent, the torch, fire, a knobbed stick, the crozier; and
still further personified, as Bacchus, Priapus, Dionysius, Hercules,
Hermes, Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter, Moloch, Baal, Asher, and
others. If Ezekiel is to be credited, the triad, T, as
Asshur, Anu, and Hea, was made of gold and silver, and was in his
day not symbolically used, but actually employed; for he bluntly says whoredom was committed with the images
of men/’ or, as the marginal note has it, images of a male (Ezek.). It was with this
god-mark a cross in the form of
the letter T that Ezekiel was
directed to stamp the foreheads of the men of Judaea who feared the Lord
(Ezek. ix. 4). That the cross, or crucifix, has a sexual origin
we determine by a similar rule of research to that by which
comparative anatomists determine the place and habits of an animal by a
single tooth. The cross is a metaphoric tooth which belongs to an antique
religious body physical, and that essentially human. A study of some of
the earliest forms of faith will lift the veil and explain the
mystery. India, China, and Egypt have furnished the world
with a genus of religion. Time and culture have divided and
modified it into many species and countless varieties. However much the
imagination was allowed to play upon it, the animus of that religion was
sexuality worship of the
generative principle of man and nature, male and female. The cross became
the emblem of the male feature, under the term of the triad three in one. The female was the unit;
and, joined to the male triad, constituted a sacred four. Rites and adoration
were sometimes paid to the male, sometimes to the female, or to the
two in one. So great was the veneration of the cross among
the ancients that it was carried as a Phallic symbol in the
religious processions of the Egyptians and Persians. Higgins also
describes the cross as used from the earliest times of Paganism by the
Egyptians as a banner, above which was carried the device of the Egyptian
cities. The cross was also used by the ancient Druids, who
held it as a sacred emblem. In Egypt it stood for the signification of
eternal life. Schedeus describes it as customary for the Druids to seek studiously for an oak tree,
large and handsome, growing up with two principal arms in the form
of a cross, besides the main stem upright. If the two horizontal arms are
not sufficiently adapted to the figure, they fasten a cross-beam to it.
This tree they consecrate in this manner : Upon the right branch
they cut in the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus ’; upon
the middle, or upright stem, the word ‘ Taranius 9; upon the left branch
* Belenus *; over this, above the going off of the arms, they cut the
name of the god Thau; under all, the same repeated, Thau ”
YONI There is in Hindostan an emblem of great sanctity, which
is known as the Linga-Yoni.” It consists
of a simple pillar in the centre of a figure resembling the outline
of a conical ear-ring. It is expressive of the female genital organ both
in shape and idea. The Greek letter
Delta ” is also expressive of it, signifying the door of a
house. Yoni is of Sanskrit origin. Yanna, or Yoni, means the
vulva, the womb, the place of birth, origin, water, a mine, a hole, or pit. As
Asshur and Jupiter were the representatives of the male potency, so
Juno and Venus were representatives of the female attribute. Moore, in
his Oriental Fragments,” says
: Oriental writers have generally
spelled the word, * Yoni/ which I prefer to write ‘ IOni/ As Lingam
24 Phallic Worship was the vocalised cognomen of the
male organ, or deity, so IOni was that of hers.” Says R. P. Knight : The female organs of generation were
revered as symbols of the generative powers of nature or of matter, as
those of the male were of the generative powers of God. They are
usually represented emblematically by the shell Concha Veneris, which was
therefore worn by devout persons of antiquity, as it still continues to
be by the pilgrims of many of the common people of Italy ” ( On the
worship of Priapus,” p. 28). If Asshur, the conspicuous feature of
the male Creator, is supplied with types and representative figures of
himself, so the female feature is furnished with substitutes and
typical imagery of herself. One of these is technically known as
the sistrum of Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the
fenestrum> or opening, are bent so that they cannot be taken out, and
indicate that the door is closed. It signifies that the mother is still
virgo intacta a truly immaculate
female if the truth can be strained to
so denominate a mother . The pure virginity of the Celestial Mother
was a tenet of faith for 2,000 years before the accepted Virgin Mary now
adored was born. We might infer that Solomon was acquainted with the
figure of the sistrum, when he said,
A garden enclosed is my spouse, a spring shut up, a fountain
sealed ” (Song of Sol. iv. 12). The sistrum, we are told, was only used
in the worship of Isis, to drive away Typhon (evil). The
Argha is a contrite form, or boat-shaped dish or plate used as a
sacrificial cup in the worship of Astarte, Isis, and Venus. Its shape
portrays its own significance. The Argha and crux ansata were often seen
on Egyptian monuments, and yet more frequently on
bas-reliefs. Equivalent to Iao, or the Lingam, we find Ab, the
Father, the Trinity; Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam, Esau, Edom, Ach,
Sol, Helios (Greek for Sun), Dionysius, Bacchus, Apollo, Hercules,
Brahma, Vishnu, Siva, Jupiter, Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor,
Oden; the cross, tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of
others; while the Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno,
Venus, Diana, Artemis, Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele, Ceres, Eve, Frea,
Frigga; the queen of Heaven, the oval, the trough, the delta, the door,
the ark, the ship, the chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit.
Celestial Virgin, and a number of other names. Lucian, who was an
Assyrian, and visited the temple of Dea Syria, near the Euphrates, says
there are two Phalli standing in the porch with this inscription on them, These Phalli I, Bacchus, dedicate to my
step-mother Juno.” The Papal religion is essentially the feminine,
and built on the ancient Chaldean basis. It clings to the female
element in the person of the Virgin Mary. Naphtali (Gen. xxx. 8) was a
descendant of such worshippers, if there be any meaning in a concrete
name. Bear in mind, names and pictures perpetuate the faith of many
peoples. Neptoah is Hebrew for the
vulva,” and, A1 or El being God, one of the unavoidable renderings of
Naphtali is the Yoni is my God,” or I worship the Celestial
Virgin.” The Philistine towns generally had names strongly connected with
sexual ideas. Ashdod, aisb or esby means
fire, heat,” and dod means love,
to love,” boiled up,” be agitated,” the whole signifying the heat of love,” or the fire which impels to union.” Could
not those people exclaim, Our God is love? (John). The amatory drift
of Solomon’s song is undisguised. 26 Phallic Worship
though the language is dressed in the habiliments of seeming decency. The
burden of thought of most of it bears direct reference to the Linga-Yoni.
He makes a woman say, He shall lie
all night betwixt my breasts ” (S. of S. i. 1 3). Again, of the Phallus,
or Linga, she says, I will go up
the palm-tree, I will take hold of the boughs thereof ” (vii. 8).
Palm-tree and boughs are euphemisms of the male genitals. The
nations surrounding the Jews practising the Phallic rites and worshipping
the Phallic deities, it is not to be supposed that the Jews escaped their
influence. It is indeed certain that the worship of the Phallics was
a great and important part of the Hebrew worship. This will
be the more plainly seen when we bear in mind the importance given to
circumcision as a covenant between God and man. Another equally
suggestive custom among the Patriarchs was the act of taking the
oath, or making a sacred promise, which is commented upon by Dr.
Ginsingburg in Kitto’s Cyclopadia. He says : Another primitive custom which obtained in
the patriarchal age was, that the one who took the oath put his
hand under the thigh of the adjurer (Gen.). This practice evidendy arose from
the fact that the genital member, which is meant by the euphemistic
expression thigh, was regarded as the most sacred part of the body, being
the symbol of union in the tenderest relation of matrimonial life, and
the seat whence all issue proceeds and the perpetuity so much coveted by
the ancients. Compare Gen; Exod.; Judges. Hence the creative organ became
the symbol of the Creator, and the object of worship among all
nations of antiquity. It is for this reason that God claimed it as a sign
of the covenant between himself and his chosen people in the rite of
circumcision. Nothing therefore could render the oath more solemn in
those days than touching the symbol of creation, the sign of the
covenant, and the source of that issue who may at any future period
avenge the breaking a compact made with their progenitor.” From this we
learn that Abraham, himself a Chaldee, had reverence for the Phallus as
an emblem of the Creator. We also learn that the rite of
circumcision touches Phallic or Lingasic worship. From Herodotus we are
informed that the Syrians learned circumcision from the Egyptians, as did
the Hebrews. Says Dr. Inman : I do not know anything which
illustrates the difference between ancient and modern times more than the
frequency with which circumcision is spoken of in the sacred books, and
the carefulness with which the subject is avoided now.” The mutilation
of male captives, as practised by Saul and David, was another custom
among the worshippers of Baal, Asshur, and other Phallic deities. The
practice was to debase the victims and render them unfit to take
part in the worship ?nd mysteries. * Some idea can be formed of the esteem
in which people in former times cherished the male or Phallic emblems of
creative power when we note the sway that power exercised over
them. If these organs were lost or disabled, the unfortunate one
was unfitted to meet in the congregation of the Lord, and disqualified to
minister in the holy temples. Excessive punishment was inflicted upon the
person who had the temerity to injure the sacred structure. If a woman
were guilty of inflicting injury, her hand was cut off without pity
(Deut.). The great object of veneration in the Ark of the Covenant was
doubtless a Phallic emblem, a symbol of the preservation of the germ
of life. In the historical and prophetic books of the
Old Testament we have repeated evidence that the Hebrew worship was
a mixture of Paganism and Judaism, and that Jehovah was worshipped in
connection with other deities. Hezekiah is recorded in 2 Kings xviii. 3,
to have removed the high places,
and broken the images, and cut down the groves (Ashera), and broken in pieces
the brazen serpent that Moses had made, for unto those days the children
of Israel did burn incense to it.” The Ashera, or sacred groves here
alluded to are named from the goddess Ashtaroth, which Dr. Smith
describes as the proper name of the goddess; while Ashera is the
name of the image of the goddess. Rawlinson, in his Five Great Monarchies
of the Ancient World, describes Ashera to imply something that stood
straight up, and probably its essential element was the stem of a tree,
an analogy suggestive of the Assyrian emblem of the Tree of Life of the
Scriptures. This stem, which stood for the emblem of life, was probably a
pillar, or Phallus, like the Lingi of the Hindus, sometimes erected in a
grove or sacred hollow, signifying the Yoni and Lingi. We read in 2
Kings xxi. 7, that Manasseh set up a
graven image in the grove,” and, according to Dr. Oort, the older
reading is in 2 Chron. xxxiii. 7, 15, where it is an image or pillar.
During the reigns of the Jewish kings, the worship of Baal, the Priapus
of the Romans, was extensively practised by the Jews. Pillars and
groves were reared in his name. In front of the Temple of Baal, in
Samaria, was erected an Ashera (i Kings xvi. 31, 32) which e ven
survived the temple itself, for although Jehu destroyed the Temple
of Baal, he allowed the Ashera to remain (2 Kings x. 18, 19; xiii. 6).
Bernstein, in an important work on the origin of the legends of Abraham,
Isaac, and Jacob, undoubtedly proves that during the monarchial
period of Israel, the sanguinary wars and violent conflicts between
the two kingdoms of Judah and Israel were between the Elohistic and
Jehovahic faiths, kept alive by the priesthood at the chief places of
worship, concerning the true patriarch, and each party manufacturing and
inserting legends to give a more ancient and important part to its
own faith. It is not at all improbable that the conflict was
between the two portions of the Phallic faith, the Lingam and Yoni
parties. The cause of this conflict was the erection of the consecrated
stones or pillars which were put up by the Hebrews as objects of Divine
worship. The altar erected by Jacob at Bethel was a pillar, for
according to Bernstein the word altar can only be used for the
erection of a pillar. Jacob likewise set up a Matzebah, or pillar
of stone, in Gilead, and finally he set one up upon the tomb of
Rachel. A great portion of the facts have been suppressed by
the translators, who have given to the world histories which have glossed
over the ancient rites and practices of the Jews. An instance
is given by Forlong on the important word
Rock or Stone,” a Phallic emblem to which the Jews addressed their
devotions. He says, It should not be, but I fear it is, necessary to
explain to mere English readers of the Old Testament that the Stone or
Rock Tsur was the real old god of all Arabs, Jews, and Phoenicians,
that this would be clear to Christians were the Jewish writings
translated according to the first ideas of the people and Rock used as it
ought to be, instead of ‘ God/ * Theos/ ‘ Lord,’ etc., being written
where Tsur occurs . Numerous instances of this are given in Dr. Ort’s
worship of Baal in Israel, where praises, addresses, and adorations
are addressed to the Rock, instance, Deut. xxxii. 4, 18. Stone pillars
were also used by the Hebrews as a memorial of a sacred covenant, for we
find Jacob setting up a pillar as a witness, that he would not pass over
it. Connected with this pillar worship is the ceremony of anointing
by pouring oil upon the pillar, as practised by Jacob at Bethel.
According to Sir W. Forbes, in his Oriental Memoirs, the pouring of oil upon a stone is
practised at this day upon many a shapeless stone throughout
Hindostan.” Toland gives a similar account of the Druids as
practising the same rite, and describes many of the stones found in
England as having a cavity at the top made to receive the offering. The
worship of Baal like the worship of Priapus was attended with
prostitution, and we find the Jews having a similar custom to the
Babylonians. Payne Knight gives the following account of it in
his work : The women of every rank
and condition held it to be an indispensable duty of religion to
prostitute themselves once in their lives in her temple to any
stranger who came and offered money, which, whether little or much,
was accepted, and applied to a sacred purpose. Women sat in the temple of
Venus awaiting the selection of the stranger, who had the liberty of
choosing whom he liked. A woman once seated must remain until she
has been selected by a piece of silver being cast into her lap, and the
rite performed outside the temple. Similar customs existed in Armenia, Phrygia,
and even in Palestine, and were a feature of the worship of Baal
Peor. The Hebrew prophets described and denounced these excesses which
had the same characteristics as the rites of the Babylonian priesthood.
The identical custom is referred to in 1 Sam. ii. 22, where the sons of Eli lay with the women that
assembled at the door of the tabernacle of the congregation.”
Words and history corroborate each other, or are apt to do so if
contemporaneous. Thus kadesh, or kaesb, designate in Hebrew a consecrated one,” and history tells
the unworthy tale in descriptive plainness, as will be shown in the
sequel. That the religion was dominating and imperative is
determined by Deut. xvii. 12, where presumptuous refusal to listen to the
priest was death to the offender. To us it is inconceivable that the
indulgence of passion could be associated with religion, but so it was.
Much as it is covered over by altered words and substituted
expressions in the Bible an example of
which see men for male organ, Ezek. xvi. 17 it yet stands out offensively bold. The
words expressive of sanctuary,” consecrated,” and Sodomite,” are in the Hebrew
essentially the same. They indicate the passion of amatory
devotion. It is among the Hindus of to-day as it was in Greece and
Italy of classic times; and we find that
holy women ” is a title given to those who devote their bodies to
be used for hire, the price of which hire goes to the service of
the temple. As a general rule, we may assume that priests who
make or expound the laws, which they declare to be from God, are
men, and, consequently, through all time, have thought, and do think, of
the gratification of the masculine half of humanity. The ancient and
modern Orientals are not exceptions. They lay it down as a
momentous fact that virginity is the most precious of all the
possessions of a woman, and, being so, it ought, in some way or
other, to be devoted to God. Throughout India, and also through the
densely inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a class
of females who dedicate themselves to the service of the deity whom they
adore; and the rewards accruing from their prostitution are devoted to
the service of the temple and the priests officiating therein.
The temples of the Hindus in the Dekkan possessed their
establishments. They had bands of consecrated dancing-girls called the
Women of the Ido/, selected in their infancy by the priests for the
beauty of their persons, and trained up with every elegant accomplishment
that could render them attractive. We also find David and the
daughters of Shiloh performing a wild and enticing dance; likewise we have
the leaping of the prophets of Baal. It is again significant
that a great proportion of Bible names relate to divine,” sexual, generative, or creative
power; such as Alah, the strong one ”;
Ariel, the strong Jas is El”;
Amasai, Jah is firm”; Asher, <c the male ” or the upright organ ”; Elijah, El is Jah ”; Eliab, the strong father ”; Elisha, iC El is
upright ”; Ara, the strong one,” the hero ”; Aram, " high,”
or, to be uncovered ”; Baal
Shalisha, my Lord the trinity,”
or my God is three ”; Ben-zohett,
M son of firmness ”; Camon, the erect
One ”; Cainan, he stands upright ”; these are only a few of the many
names of a similar signification. It will be seen, from what has
been given, that the Jews, like the Phoenicians (if they were not the
same), had the same ceremonies, rites, and gods as the surrounding
nations, but enough has been said to show that Phallic worship was much
practised by the Jews. It was very doubtful whether the Jehovah-worship
was not of a monotheistic character, but those who desire to have a
further insight into the mysteries of the wars between the tribes should
consult Bernstein’s valuable work. EARTH MOTHER The following interesting
chapter is taken from a valuable book issued a few years ago
anonymously: Mother Earth ” is a legitimate expression, only of the
most general type. Religious genius gave the female quality to the earth
with a special meaning. When once the idea obtained that our world was
feminine, it was easy to induce the faithful to believe that natural
chasms were typical of that part which characterises woman. As at
birth the new being emerges from the mother, so it was supposed that
emergence from a terrestrial cleft was equivalent to a new birth. In
direct proportion to the resemblance between the sign and the thing
signified was the sacredness of the chink, and the amount of virtue
which was imparted by passing through it. From natural caverns being
considered holy, the veneration for apertures in stones, as being equally
symbolical, was a natural transition. Holes, such as we refer to, are
still to be seen in those structures which are called Druidical, both
in the British Isles and in India. It is impossible to say when
these first arose; it is certain that they survive in India to this day.
We recognise the existence of the emblem among the Jews in Isaiah li. i,
in the charge to look to the hole
of the pit whence ye are digged.” We have also an indication that chasms
were symbolical among the same people in Isaiah lvii. 5, where the
wicked among the Jews were described as
inflaming themselves with idols under every green tree, and
slaying the children in the valleys under the clefts of the rocks.” It is
possible that the hole in the wall
” (Ezek. viii. 7) had a similar signification. In modern Rome, in the
vestibule of the church close to the Temple of Vesta, I have seen a
large perforated stone, in the hole of which the ancient Romans are
said to have placed their hands when they swore a solemn oath, in
imitation, or, rather, a counterpart, of Abraham swearing his servant
upon his thigh that is the male
organ. Higgins dwells upon these holes, and says : These stones are so placed as to have a hole
under them, through which devotees passed for religious purposes.
There is one of the same kind in Ireland, called St. Declau’s stone. In
the mass of rocks at Bramham Crags there is a place made for the devotees
to pass through. We read in the accounts of Hindostan that there is
a very celebrated place in Upper India, to which immense numbers of
pilgrims go, to pass through a place in the mountains called The Cow’s Belly.” In the Island of
Bombay, at Malabar Hill, there is a rock upon the surface of which there
is a natural crevice, which communicates with a cavity opening below.
This place is used by the Gentoos as a purification of their sins.
Phallic Worship 35 which they say is effected by their
going in at the opening below, and emerging at the cavity above born again.” The ceremony is in such
high repute in the neighbouring countries that the famous Conajee Angria
ventured by stealth, one night, upon the Island, on purpose to perform
the ceremony, and got off undiscovered. The early Christians gave them a
bad name, as if from envy; they called these holes Cunni Diaboli ” (. Atiacalypsis)
BACCHANALIA AND LIBERALIA FESTIVALS The Romans called the feasts of
Bacchus, Bacchanalia and Liberalia, because Bacchus and Liber were the
names for the same god, although the festivals were celebrated at
different times and in a somewhat different manner. The latter, according
to Payne Knight, was celebrated on the 17th of March, with the most
licentious gaiety, when an image of the Phallus was carried openly
in triumph. These festivities were more particularly celebrated among the
rural or agricultural population, who, when the preparatory labour of the
agriculturist was over, celebrated with joyful activity Nature’s
reproductive powers, which in due time was to bring forth the
fruits. During the festival a car containing a huge Phallus was
drawn along accompanied by its worshippers, who indulged in obscene songs and
dances of wild and extravagant character. The gravest and proudest
matrons suddenly laid aside their decency and ran screaming among
the woods and hills half-naked, with dishevelled hair, interwoven with
which were pieces of ivy or vine. The Bacchanalian feasts were celebrated
in the latter part of October when the harvest was completed. Wine
and figs were carried in the procession of the Bacchants, and
lastly came the Phalli, followed by honourable virgins, called canephora,
who carried baskets of fruit. These were followed by a company of men who
carried poles, at the end of which were figures representing the organ
of generation. The men sung the Phallica and were crowned with
violets and ivy, and had their faces covered with other kinds of herbs.
These were followed by some dressed in women’s apparel, striped with
white, reaching to their ancles, with garlands on their heads, and
wreaths of flowers in their hands, imitating by their gestures the
state of inebriety. The priestesses ran in every direction shouting and
screaming, each with a thyrsus in their hands. Men and women all
intermingled, dancing and frolicking with suggestive gesticulations.
Deodorus says the festivals were carried into the night, and it was then
frenzy reached its height. He says, In
performing the solemnity virgins carry the thyrsus, and run about
frantic, halloing ‘ Evoe ’ in honour of the god; then the women in a body
offer the sacrifices, and roar out the praises of Bacchus in song as if
he were present, in imitation of the ancient Maenades, who accompanied
him.” These festivities were carried into the night, and as the
celebrators became heated with wine, they degenerated into extreme
licentiousness. Similar enthusiastic frenzy was exhibited at the
Lupercalian Feasts instituted in honour of the god Pan (under the shape
of a Goat) whose priests, according to Owen in his Worship of Serpents,
on the morning of the Feast ran naked through the streets, striking the
married women they met on the hands and belly, which was held as an omen
promising fruitfulness. The nymphs performing the same ostentatious
display as the Bacchants at the festival of Bacchanalia. The
festival of Venus was celebrated towards the beginning of April, and the
Phallus was again drawn in a car, followed by a procession of Roman women
to the temple of Venus. Says a writer,
The loose women of the town and its neighbourhood, called together
by the sounding of horns, mixed with the multitude in perfect
nakedness, and excited their passions with obscene motions and
language until the festival ended in a scene of mad revelry, in which all
restraint was laid aside.” It is said that these festivals took
their rise from Egypt, from whence they were brought into Greece by
Metampus, where the triumph of Osiris was celebrated with secret
rites, and from thence the Bacchanals drew their original; and from the
feasts instituted by Isis came the orgies of Bacchus. DRUID AND
HEBREW FAITHS It seems not at all improbable that the deities
worshipped by the ancient Britons and the Irish, were no other then the
Phallic deities of the ancient Syrians and Greeks, and also the Baal of
the Hebrews. Dionysius Periegites, who lived in the time of Augustus
Csesar, states that the rites of Bacchus were celebrated in the
British Isles; while Strabo, who lived in the time of Augustus and
Tiberius, asserts that a much earlier writer described the worship of the
Cabiri to have come originally from Phoenicia. Higgins, in his History of
the Druids, says, the supreme god above the rest was called Seodhoc
and Baal. The name of Baal is found both in Wales, Gaul, and Germany, and
is the same as the Hebrew Baal. The same god, according to O’Brien,
was the chief deity of the Irish, in whose honour the round towers
were erected, which structures the ancient Irish themselves
designated Bail-toir, or the towers of Baal. In Numbers, xxii, will be
found a mention of a similar pillar consecrated to Baal. Many of the same
customs and superstitions that existed among the Druids and ancient
Irish, will likewise be found among the Israelites. On the first
day of May, the Irish made great fires in honour of Baal, likewise
offering him sacrifices. A similar account is given of a custom of the
Druids by Toland, in an account of the festival of the fires; he says
: on May-day eve the Druids made
prodigious fires on these earns, which being everyone in sight of some
other, could not but afford a glorious show over a whole nation.”
These fires are said to be lit even to the present day by the
Aboriginal Irish, on the first of May, called by them Bealtine, or the
day of Belan’s fire, the same name as given them in the Highlands of
Scotland. A similar practice to this will be noticed as mentioned
in the II Book of Kings, where the Canaanites in their worship of
Baal, are said to have passed their children through the fire of Baal,
which seems to have been a common practice, as Ahaz, King of Israel, is
blamed for having done the same thing. Higgins in his Anacalypsis y says
this superstitious custom still continues, and that on particular days great fires are
lighted, and the fathers taking the children in their arms, jump or run
through them, and thus pass their children through them; they also
light two fires at a little distance from each other, and drive
their cattle between them.” It will be found on reference to Deuteronomy,
that this very practice is specially forbidden. In the rites of Numa, we have
also the sacred fire of the Irish; of St. Bridget, of Moses, of
Mithra, and of India, accompanied with an establishment of nuns or
vestal virgins. A sacred fire is said to have been kept burning by the
nuns of Kildare, which was established by St. Bridget. This fire was
never blown with the mouth, that it might not be polluted, but only
with bellows; this fire was similar to that of the Jews, kept
burning only with peeled wood, and never blown with the mouth. Hyde
describes a similar fire which was kept burning in the same way by the
ancient Persians, who kept their sacred fire fed with a certain tree
called Hawm Mogorum; and Colonel Vallancey says the sacred fire of
the Irish was fed with the wood of the tree called Hawm. Ware, the Romish
priest, relates that at Kildare, the glorious Bridget was rendered
illustrious by many miracles, amongst which was the sacred fire, which
had been kept burning by nuns ever since the time of the
Virgin. The earliest sacred places of the Jews were evidently
sacred stones, or stone circles, succeeded in time by temples. These
early rude stones, emblems of the Creator, were erected by the
Israelites, which in no way differed from the erections of the Gentiles.
It will be found that the Jews to commemorate a great victory, or
to bear witness of the Lord, were all signified by stones : thus, Joshua
erected a stone to bear witness; Jacob put up a stone to make a place
sacred; Abel set up the same for a place of worship; Samuel erected a
stone as a boundary, which was to be the token of an agreement made
in the name of God. Even Maundrel in his travels names several that he
saw in Palestine. It is curious that where a pillar was erected there, sometime
after, a temple was put up in the same manner that the Round Towers
of Ireland were, always near a church,
but never formed part of it. We find many instances in the Scriptures of
the erection of a number of stones among the early Israelites,
which would lead us to conclude that it was not at all unlikely that the
early places of worship among them, were similar to the temples found in
various parts of Great Britain and Ireland. It is written in Exodus xxiv.
4, that Moses rose up early in the morning, and builded an altar
under the hill, and twelve pillars, according to the twelve tribes of
Israel, were erected. It is also given out that when the children of
Israel should pass over the Jordan, unto the land which the Lord
giveth them, they should set up great stones, and plaster them with
plaster, and also the words of the law were to be written thereon. In
many other places stones were ordered to be set up in the name of the
Lord, and repeated instances are given that the stones should be
twelve in number and unhewn. Stone temples seem to have been
erected in all countries of the world, and even in America, where, among
the early American races are to be found customs, superstitions,
and religious objects of veneration, similar to the Phoenicians. An
American writer says : There is
sufficient evidence that the religious customs of the Mexicans, Peruvians
and other American races, are nearly identical with those of the ancient
Phoenicians. We moreover discover that many of their religious terms
have, etymologically, the same origin.” Payne Knight, in his Worship of
Priapus, devotes much of his work to show that the temples erected at
Stonehenge and other places, were of a Phoenician origin, which was
simply a temple of the god Bacchus. STONEHENGE A TEMPLE OF
BACCHUS Of all the nations of antiquity the Persians were the
most simple and direct in the worship of the Creator. They were the
puritans of the heathen world, and not only rejected all images of God
and his agents, but also temples and altars, according to Herodotus,
whose authority we prefer to any other, because he had an
opportunity of conversing with them before they had adopted any foreign
superstitions. As they worshipped the ethereal fire without any medium of
personification or allegory, they thought it unworthy of the dignity
of the god to be represented by any definite form, or circumscribed to
any particular place. The universe was his temple, and the all-pervading
element of fire his only symbol. The Greeks appear originally to have
held similar opinions, for they were long without statues and
Pausanias speaks of a temple at Siciyon, built by Adrastus who lived in an age before the Trojan war
which consisted of columns only, without wall or roof, like the Celtic
temples of our northern ancestors, or the Phyrcetheia of the Persians,
which were circles of stones in the centre of which was kindled the
sacred fire, the symbol of the god. Homer frequently speaks of
places of worship consisting of an area and altar only, which were
probably enclosures like those of the Persians, with an altar in the
centre. The temples dedicated to the creator Bacchus, which the Greek
architects called hypathral, seem to have been anciently of this kind,
whence probably came the title ( surround with columns ”)
attributed to that god in the Orphic litanies. The remains of one
of these are still extant at Puzznoli, near Naples, which the
inhabitants call the temple of Serapis; but the ornaments of grapes,
vases, etc., found among the ruins, prove it to have been of Bacchus.
Serapis was indeed the same deity worshipped under another form, being
usually a personification of the sun. The architecture is of the
Roman times; but the ground plan is probably that of a very ancient one,
which this was made to replace for
it exactly resembles that of a Celtic temple in Zeeland, published in
Stukeley’s Itinerary. The ranges of square buildings which enclose it are
not properly parts of the temple, but apartments of the priests, places
for victims and sacred utensils, and chapels dedicated to the subordinate
deities, introduced by a more complicated and corrupt worship and
probably unknown to the founder of the original edifice. The portico,
which runs parallel with these buildings, encloses the temenss, or area
of sacred ground, which in the pyratheia of the Persians was
circular, but is here quadrangular, as in the Celtic temple in Zeeland,
and the Indian pagoda before described. In the centre was the holy of
holies, the seat of the god, consisting of a circle of columns raised
upon a basement, without roof or walls, in the middle of which was
probably the sacred fire or some other symbol of the deity. The
square area in which it stood was sunk below the natural level of the
ground, and, like that of the Indian pagoda, appears to have been
occasionally floated with water; the drains and conduits being still to
be seen, as also several fragments of sculpture representing waves, serpents,
and various aquatic animals, which once adorned the basement. The
Bacchus here worshipped, was, as we learn from the Orphic hymn above
cited, the sun in his character of extinguisher of the fires which once
pervaded the earth. He is supposed to have done this by exhaling the waters
of the ocean and scattering them over the land, which was thus supposed
to have acquired its proper temperature and fertility. For this reason
the sacred fire, the essential image of the god, was surrounded by the
element which was principally employed in giving effect to the
beneficial exertion* of the great attribute. From a passage
of Hecatasus, preserved by Diodorus Siculus, it seems evident that
Stonehenge and all the monuments of the same kind found in the north, belong to
the same religion which appears at some remote period to have
prevailed over the whole northern hemisphere. According to that ancient
historian, the Hyperboreans inhabited an island beyond Gaul, as large as
Sicily, in which Apollo was worshipped in a circular temple considerable
for its si^e and riches. Apollo, we know, in the language of the
Greeks of that age, can mean no other than the sun, which according to
Caesar was worshipped by the Germans, when they knew of no other deities
except fire and the moon. The island can evidently be no other than
Britain, which at that time was only known to the Greeks by the
vague reports of the Phoenician mariners; and so uncertain and obscure
that Herodotus, the most inquisitive and credulous of historians, doubts
of its existence. The circular temple of the sun being noticed in such
slight and imperfect accounts, proves that it must have been something
singular and important; for if it had been an inconsiderable structure,
it would not have been mentioned 44 Phallic
Worship at all; and if there had been many such in the
country, the historian would not have employed the singular
number. Stonehenge has certainly been a circular temple,
nearly the same as that already described of the Bacchus at Puzznoli,
except that in the latter the nice execution and beautiful symmetry of
the parts are in every respect the reverse of the rude but majestic
simplicity of the former. In the original design they differ but in the
form of the area. It may therefore be reasonably supposed that we
have still the ruins of the identical temple described by Hecataeus, who,
being an Asiatic Greek, might have received his information from
Phoenician merchants, who had visited the interior parts of Britain when
trading there for tin. Anacrobius mentions a temple of the same
kind and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated to the
sun under the title of Bacchus Sebrazius. The large obelisks of stone
found in many parts of the north, such as those at Rudstone, and near
Boroughbridge, in Yorkshire, belong to the same religion; obelisks
being, as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they
represented both by their form and name .
Payne Knight* s Worship of Priapus. BUNS AND
RELIGIOUS CAKES Says Hyslop :
The hot cross-buns of Good Friday, and the dyed eggs of Pasch or
Easter Sunday, figured in the Chaldean rites just as they do now. The
buns known, too, by that identical name, were used in the worship of
the Queen of Heaven, the goddess Easter (Ishtar or Astarte), as
early as the days of Cecrops, the founder of Athens, 1,500 years before
the Christian era.” One species of
bread,” says Bryant, ‘ which used to be
offered to the gods, was of great antiquity, and called Bonn. 9
Diogenes mentioned they were made of flour and honey. It appears
that Jeremiah the Prophet was familiar with this lecherous worship. He
says: The children gather wood,
the fathers kindle the fire, and the women knead the dough to make cakes
to the Queen of Heaven (Jer. vii., 18). Hyslop does not add that the buns ” offered to the Queen of Heaven,
and in sacrifices to other deities, were framed in the shape of the
sexual organs, but that they were so in ancient times we have abundance
of evidence. Martial distinctly speaks of such things in two
epigrams, first, wherein the male organ is spoken of, second,
wherein the female part is commemorated; the cakes being made of
the finest flour, and kept especially for the palate of the fair
one. Wilford (Asiatic Researches) says: When the people of Syracuse were sacrificing
to goddesses, they offered cakes called mullot, shaped like the
female organ, and in some temples where the priestesses were probably
ventriloquists, they so far imposed on the credulous multitude who came
to adore the Vulva as to make them believe that it spoke and gave oracles.”
We can understand how such things were allowed in licentious Rome,
but we can scarcely comprehend how they were tolerated in Christian
Europe, as, to all innocent surprise we find they were, from the second
part of the Remains of the Worship
of Priapus ” : that in Saintonge, in the neighbourhood of La Rochelle,
small cakes baked in 46 Phallic Worship
the form of the Phallus are made as offerings at Easter, carried
and presented from house to house. Dulare states that in his time the
festival of Palm Sunday, in the town of Saintes, was called le fete des
pinnes feast of the privy
members and that during its continuance
the women and children carried in the procession a Phallus made of
bread, which they called a pinne, at the end of their palm branches;
these pinnes were subsequently blessed by priests, and carefully
preserved by the women during the year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be
remembered, is a euphemism of the male organ, and it is curious to
see it united with the Phallus in Christendom. Dulare also says
that, in some of the earlier inedited French books on cookery, receipts
are given for making cakes of the salacious form in question, which are
broadly named. He further tells us those cakes symbolized the male, in
Lower Limousin, and especially at B rives; while the female emblem
was adopted at Clermont, in Auvergne, and other places. THE ARK AND
GOOD FRIDAY The ark of the covenant was a most sacred symbol in the
worship of the Jews, and like the sacred boat, or ark of Osiris,
contained the symbol of the principle of life, or creative power. The
symbol was preserved with great veneration in a miniature tabernacle, which
was considered the special and sanctified abode of the god. In size
and manner of construction the ark of the Jews and the sacred chest of
Osiris of the Egyptians were Phallic Worship
47 exactly alike, and were carried in processions in a
similar manner The ark or chest of Osiris was attended by the
priests, and was borne on the shoulders of men by means of staves.
The ark when taken from the temple was placed upon a table, or stand,
made expressly for the purpose, and was attended by a procession similar
to that which followed the Jewish ark. According to Faber, the ark
was a symbol of the earth or female principle, containing the germ of all
animated nature, and regarded as the great mother whence all things
sprung. Thus the ark, earth, and goddess, were represented by common
symbols, and spoken of in the old Testament as the ashera.” The sacred emblems
carried in the ark of the Egyptians were the Phallus, the Egg, and the
Serpent; the first representing the sun, fire, and male or generative
principle the Creator; the second,
the passive or female, the germ of all animated things the Preserver; and the last the
Destroyer : the Three of the sacred Trinity. The Hindu women, according
to Payne Knight, still carry the lingam, or consecrated symbol of the
generative attribute of the deity, in solemn procession between two
serpents; and in a sacred casket, which held the Egg and the Phallus in
the mystic processions of the Greeks, was also a Serpent. The ark,”
says Faber, was reverenced in all
the ancient religions.” It was often represented in the form of a
boat, or ship, as well as an oblong chest. The rites of the Druids, with
those of Phoenicia and Hindostan, show that an ark, chest, cell, boat, or
cavern, held an important place in their mysteries. In the story of
Osiris, like that of the Siva, will be found the reason for the emblem
being carried in the sacred chest, and the explanation of one of the
mysteries of the Egyptian priests. It is said that Osiris was tom to
pieces by the wicked Typhon, who after cutting up the body, distributed
the parts over the earth. Isis recovered the scattered limbs, and
brought them back to Egypt; but, being unable to find the part
which distinguished his sex, she had an image made of wood, which was
enshrined in an ark, and ordered to be solemnly carried about in the
festivals she had instituted in his honour, and celebrated with certain
secret rites. The Egg, which accompanied the Phallus in the ark
was a very common symbol of the ancient faiths, which was
considered as containing the generation of life. The image of that which
generated all things in itself. Jacob Bryant says : The Egg, as it contained the
principles of life was thought no improper emblem of the ark, in
which were preserved the future world. Hence in the Dionysian and in
other mysteries, one part of the nocturnal ceremony consisted in the
consecration of an egg.” This egg was called the Mundane Egg.
The ark was likewise the symbol of salvation, the place of safety,
the secret receptacle of the divine wisdom. Hence we find the ark of the
Jews containing the tables of the law; we find too that the Jews were
ordered to place in the ark Aaron’s rod, which budded, conveying
the idea of symbolised fertility : showing that the ark was considered as
the receptacle of the life principle
as an emblem of the Creator. With the Egyptians Osiris
was supposed to be buried in the ark, which represented the disappearance
of the deity. His loss, or death, constituted the first part of the
mysteries, which consisted of lamentations for his decease. After
the third day from his death, a procession went down to the seaside
in the night, carrying the ark with them. During the passage they poured
drink offerings from the river, and when the ceremony had been duly
performed, they raised a shout that Osiris had again risen that the dead had been restored to
life. After this followed the second or joyful part of the mysteries. The
similarity of this custom with the Good Friday celebrations of the death
of Jesus, and the rejoicings on account of his resurrection on Easter
Sunday, will be at once observed. It is further said that the
missing part of Osiris was eaten by a fish, which made the fish a
sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and Good Friday brought
together, also the Egg, for the origin of the Easter eggs is very
ancient. A bull is represented as breaking an egg with his horn, which
signified the liberating of imprisoned life at the opening or spring
of the year, 'which had been destroyed by Typhon. The opening of
the year at that time commenced in the spring, pot according to our
present reckoning; thus, the Egg was a symbol of the resurrection of life
at the spring, or our Easter time. The author of the Worship of the Generative Powers,”
describes the origin of the hot crossbun at Easter, which is a further
parallelism of the Christian and Pagan festivals. The author also draws a
further conclusion that the cakes
or buns have in reality a Phallic origin, for in France and other parts,
the Easter cakes were called after the membrun virile. The writer
says : In the primitive Teutonic
mythology, there was a female deity named in old German, Ostara, and
in Anglo-Saxon, Eastre or Eostre; but all we know of her is the
simple statement of our father of history, Bede, that her festival was
celebrated by the ancient Saxons in the month of April, from which
circumstance that month was named by the Anglo-Saxons, Easter-mona or
Eostermona, and that the name of the goddess had been frequently given to
the Paschal time, with which it was identical. The name of this goddess
was given to the same month by the old Germans and by the Franks, so that
she must have been one of the most highly honoured of the Teutonic
deities, and her festival must have been a very important one and deeply
implanted in the popular feelings, or the Church would not have sought to
identify it with one of the greatest Christian festivals of the year. It
is understood that the Romans considered this month as dedicated to
Venus, no doubt because it was that in which the productive powers of
nature began to be visibly developed. When the Pagan festival was adopted
by the Church, it became a moveable feast, instead of being fixed to
the month of April. Among other objects offered to the goddess at
this time were cakes, made no doubt of fine flour, but of their form we
are ignorant. The Christians when they seized upon the Easter festival, gave
them the form of a bun, which indeed was at that time the ordinary
form of bread; and to protect themselves and those who ate them from any
enchantment or other evil
influences which might arise from their former heathen character
they marked them with the Christian symbol
the cross. Hence we derived the cakes we still eat at Easter
under the name of hot cross-buns, and the superstitious feelings
attached to them; for multitudes of people still believe that if they
failed to eat a hot cross-bun on Good Friday, they would be unlucky all
the rest of the year.” ARCHITECTURAL PILLARS DEVISED FROM THE
LOTUS The earliest capital seems to have been the bell or
seed vessel, simply copied without alteration, except a little expansion
at the bottom to give it stability. The leaves of some other plant were
then added to it, and varied in different capitals according to the
different meanings intended to be signified by the accessory symbols.
The Greeks decorated it in the same manner, with the foliage of various
plants, sometimes of the acanthus and sometimes of the aquatic kind,
which are, however, generally so transformed by excessive attention to
elegance, that it is difficult to distinguish them. The most usual
seems to be the Egyptian acacia, which was probably adopted as a mystic
symbol for the same reasons as the olive, it being equally remarkable for
its powers of reproduction. Theophrastus mentions a large wood of
it in the “ Thebaid,” where the olive will not grow, so that we
reasonably suppose it to have been employed by the Egyptians in the same
symbolical sense. From them the Greeks seem to have borrowed it about
the time of the Macedonian conquest, it not occurring in any of
their buildings of a much earlier date; and as for the story of the
Corinthian architect, who is said to have invented this kind of capital
from observing a thorn growing round a basket, it deserved no credit,
being fully contradicted by the buildings still remaining in Upper
Egypt. The Doric column, which appears to have been the only
one known to the very ancient Greeks, was equally derived from the
Nelumbo; its capital being the same •eed-vessel pressed flat, as it
appears when withered and dry the only
state probably in which it had been seen in Europe. The flutes in the
shaft were made to hold spears and staves, whence a spear-holder is
spoken of in the Odyssey ” as part
of a column. The triglyphs and blocks of the cornice were also derived
from utility, they having been intended to represent the projecting
ends of the beams and rafters which formed the roof. The Ionic
capital has no bell, but volutes formed in imitation of sea-shells, which
have the same symbolical meaning. To them is frequently added the
ornament which architects call a honeysuckle, but which seems to be
meant for the young petals of the same flower viewed horizontally, before
they are opened or expanded. Another ornament is also introduced in this
capital, which they call eggs and anchors, but which is, in fact,
composed of eggs and spear-heads, the symbols of female generation
and male destructive power, or in the language of mythology, of Venus and
Mars. Payne Knight . BELLS IN RELIGIOUS WORSHIP Stripped,
however, of all this splendour and magnificence it was probably nothing more
than a symbolical instrument, signifying originally the motion of
the elements, like the sistrum of Isis, the cymbals of Cybele, the
bells of Bacchus, etc., whence Jupiter is said to have overcome the
Titans with his aegis, as Isis drove away Typhon with her sistrum, and
the ringing of the bells and clatter of metals were almost universally
employed as a means of consecration, and a charm against
the destroying and inert powers. Even the Jews welcomed the new moon
with such noises, which the simplicity of the early ages employed almost
everywhere to relieve her during eclipses, supposed then to be morbid
affections brought on by the influence of an adverse power. The
title Priapus y by which the generative attribute is distinguished, seems to be
merely a corruption of Briapuos (clamorous); the beta and pi being
commutable letters, and epithets of similar meaning, being continually
applied both to Jupiter and Bacchus by the poets. Many Priapic
figures, too, still extant, have bells attached to them, as the
symbolical statues and temples of the Hindus are; and to wear them was a
part of the worship of Bacchus among the Greeks : whence we sometimes
find them of extremely small size, evidently meant to be worn as
amulets with the phalli, lunulas, etc. The chief priests of the Egyptians
and also the high priests of the Jews, hung them as sacred emblems to
their sacerdotal garments; and the Brahmins still continue to ring a
small bell at the interval of their prayers, ablutions, and other acts
of devotion; which custom is still preserved in the Roman Catholic
Church at the elevation of the host. The Lacedaemonians beat upon a brass
vessel or pan, on the death of their kings, and we still retain the
custom of tolling a bell on such occasions, though the reason of it
is not generally known, any more than that of other remnants of ancient
ceremonies still existing . 1 It will be observed that the bells used by
the Christians very probably came direct from the Buddhists. And from
the same source are derived the beads and rosaries of the Roman
Catholics, which have been used by the Buddhist 1 The above
description is from Payne Knight's "Symbolical Language of ancient
Art and Mythology." monks for over 2,000 years. Tinkling bells
were suspended before the shrine of Jupiter Ammon, and during the
service the gods were invited to descend upon the altars by the ringing
of bells; they were likewise sacred to Siva. Bells were used at the
worship of Bacchus, and were worn on the garments of the Bacchantes,
much in the same manner as they are used at our carnivals and
masquerades. HINDU PHALLICISM The following curious fable is given by
Sir William Jones, as one of the stories of the Hindus for the origin
of Phallic devotion : Certain devotees in a remote time had
acquired great renown and respect, but the purity of the art was wanting,
nor did their motives and secret thoughts correspond with their
professions and exterior conduct. They affected poverty, but were
attached to the things of this world, and the princes and nobles were
constantly sending their offerings. They seemed to sequester themselves
from this world; they lived retired from the towns; but their dwellings
were commodious, and their women numerous and handsome. But nothing can
be hid from their gods, and Sheevah resolved to put them to shame.
He desired Prakeety (nature) to accompany him; and assumed the appearance
of a Pandaram of a graceful form. Prakeety was herself a damsel of
matchless worth. She went before the devotees who were assembled
with their disciples, awaiting the rising of the sun, to perform
their ablutions and religious ceremonies. As she advanced the refreshing
breeze moved her flowing robe, showed the exquisite shape which it seemed
intended to conceal. With eyes cast down, though sometimes opening with
a timid but tender look, she approached them, and with a low
enchanting voice desired to be admitted to the sacrifice. The devotees
gazed on her with astonishment. The sun appeared, but the purifications
were forgotten; the things of the Poo j ah (worship) lay neglected;
nor was any worship thought of but that of her. Quitting the
gravity of their manners, they gathered round her as flies round the lamp
at night attracted by its
splendour, but consumed by its flame. They asked from whence she
came; whither she was going. ‘ Be not offended with us for approaching
thee, forgive us our importunities. But thou art incapable of anger, thou
who art made to convey bliss; to thee, who mayest kill by
indifference, indignation and resentment are unknown. But whoever
thou mayest be, whatever motive or accident might have brought thee
amongst us, admit us into the number of thy slaves; let us at least have
the comfort to behold thee.’ Here the words faltered on the lip, and the
soul seemed ready to take its flight; the vow was forgotten, and
the policy of years destroyed. Whilst the devotees were lost in their
passions, and absent from their homes, Sheevah entered their
village with a musical instrument in his hand, playing and singing
like some of those who solicit charity. At the sound of his voice, the
women immediately quitted their occupation; they ran to see from whom it
came. He was as beautiful as Krishen on the plains of Matra. Some dropped
their jewels without turning to look for them; others let fall
their garments without perceiving that they discovered those abodes of
pleasure which jealousy as well as decency had ordered to be concealed.
All pressed forward with their offerings, all wished to speak, all wished
to be taken notice of, and bringing flowers and scattering them
before him, said ‘ Askest thou
alms ! thou who are made to govern hearts. Thou whose countenance is as
fresh as the morning, whose voice is the voice of pleasure, and
they breath like that of Vassant (Spring) in the opening of the rose I
Stay with us and we will serve thee; nor will we trouble thy repose, but
only be zealous how to please thee/ The Pandaram continued to play, and
sung the loves of Kama (God of Love), of Krishen and the Gopia, and
smiling the gentle smiles of fond desire. But the desire of repose succeeds the
waste of pleasure. Sleep closed the eyes and lulled the senses. In
the morning the Pandaram was gone. When they awoke they looked
round with astonishment, and again cast their eyes on the ground. Some
directed to those who had formerly been remarked for their scrupulous
manners, but their faces were covered with their veils. After
sitting awhile in silence they arose and went back to their houses, with
slow and troubled steps. The devotees returned about the same time from
their wanderings after Prakeety. The days that followed were days of embarrassment
and shame. If the women had failed in their modesty, the devotees had
broken their vows. They were vexed at their weakness, they were sorry for
what they had done; yet the tender sigh sometimes broke forth, and
the eyes often turned to where the men first saw the maid the women, the Pandaram. But the
women began to perceive that what the devotees foretold came not to pass.
Their disciples, in consequence, neglected to attend them, and the
offerings from the princes and nobles became less frequent
than before. They then performed various penances; they sought for
secret places among the woods unfrequented by man; and having at last
shut their eyes from the things of this world, retired within themselves
in deep meditation, that Sheevah was the author of their
misfortunes. Their understanding being imperfect, instead of bowing the
head with humility, they were inflamed with anger; instead of contrition
for their hypocrisy, they sought for vengeance. They performed new
sacrifices and incantations, which were only allowed to have effect in
the end, to show the extreme folly of man in not submitting to the will
of heaven. Their incantations produced a tiger, whose mouth
was like a cavern and his voice like thunder among the mountains. They
sent him against Sheevah, who with Prakeety was amusing himself in the
vale. He smiled at their weakness, and killing the tiger at one blow
with his club, he covered himself with his skin. Seeing themselves
frustrated in this attempt, the devotees had recourse to another, and
sent serpents against him of the most deadly kind; but on approaching him
they became harmless, and he twisted them round his neck. They then
sent their curses and imprecations against him, but they all recoiled
upon themselves. Not yet disheartened by all these disappointments, they
collected all their prayers, their penances, their charities, and other
good works, the most acceptable sacrifices; and demanding in return
only vengeance against Sheevah, they sent a fire to destroy his genital
parts. Sheevah, incensed at this attempt, turned the fire with
indignation against the human race; and mankind would soon have
been destroyed, had not Vishnu, alarmed at the danger, implored him
to suspend his wrath. At his entreaties Sheevah relented; but it was
ordained that in his temples those parts should be worshipped \ which the
false doctrines had impiously attempted to destroy.” THE
CROSS AND ROSARY The key which is still worn with the Priapic hand,
as an amulet, by the women of Italy appears to have been an emblem
of the equivocal use of the name, as the language of that country
implies. Of the same kind, too, appears to have been the cross in the
form of the letter tau> attached to a circle, which many of the
figures of Egyptian deities, both male and female, carry in their left
hand; and by the Syrians, Phoenicians and other inhabitants of
Asia, representing the planet Venus, worshipped by them as the
emblem or image of that goddess. The cross in this form is sometimes
observable on coins, and several of them were found in a temple of
Serapis, demolished at the general destruction of those edifices by the
Emperor Theodosius, and were said by the Christian antiquaries of
that time to signify the future life. In solemn sacrifices, all the
Lapland idols were marked with it from the blood of the victims; and it
occurs on many Runic ornaments found in Sweden and Denmark, which are of
an age long anterior to the approach of Christianity to those
countries, and probably to its appearance in the world. On some of the
early coins of the Phoenicians, we find it attached to a chaplet of beads
placed in a circle, so as to form a complete rosary, such as the Lamas of
Thibet and China, the Hindus, and the Roman Catholics now tell over
while they pray. Beads were anciently used to reckon time, and a
circle, being a line without termination, was the natural emblem of
its perpetual continuity; whence we often find circles of beads upon the
heads of deities, and enclosing the sacred symbols upon coins and other
monuments. Perforated beads are also frequently found in tombs,
both in the northern and southern parts of Europe and Asia, whence
are fragments of the chaplets of consecration buried with the deceased.
The simple diadem, or fillet, worn round the head as a mark of
sovereignty, had a similar meaning, and was originally confined to the
statues of deities and deified personages, as we find it upon the
most ancient coins. Chryses, the priest of Apollo, in the Iliad,” brings the diadem, or sacred fillet,
of the god upon his sceptre, as the most imposing and invocable
emblem of sanctity; but no mention is made of its being worn by kings in
either of the Homeric poems, nor of any other ensign of temporal power
and command, except the royal staff or sceptre. The double sex
typified by the Argha and its contents is by the Hindus represented by
the Mymphcea ” or Lotus, floating
like a boat on the boundless ocean, where the whole plant signifies both
the earth and the two principles of its fecundation. The germ is both
Meru and the Linga; the petals and filaments are the mountains which
encircle Meru, and are also a type of the Yoni; the leaves of the calyx
are the four vast regions to the cardinal points of Meru; and the leaves
of the plant are the Dwipas or isles round the land of Jambu. As
this plant or lily was probably the most celebrated of all the
vegetable creation among the mystics of the ancient world, and is to be
found in thousands of the most beautiful and sacred paintings of the
Christians of this day I detain my
reader with a few observations respecting it. This is the more necessary
as it appears that the priests have now lost the meaning of it ; at least
this is the case with everyone of whom I have made enquiry ; but it is
like many other very odd things, probably understood in the
Vatican, or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that among the
different plants which ornament our globe, there is not one which has
received so much honour from man as the Lotus or Lily, in whose
consecrated bosom Brahma was born, and Osiris delighted to float. This is
the sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in oriental
mythology, and in truth not without reason, for it is itself a lovely
prodigy. Throughout all the northern hemispheres it was everywhere held
in profound veneration, and from Savary we learn that the
veneration is yet continued among the modern Egyptians. And we find
that it still continues to receive the respect if not the adoration of a
great part of the Christian world, unconscious, perhaps, of the original
reason of this conduct. Higgins’s Anacalypsis. The following
is an account given of it by Payne Knight, in his curious dissertation on
Phallic Worship : The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This plant grows
in the water, among its broad leaves puts forth a flower, in the centre
of which is formed the seed vessel. shaped like a bell or inverted cone,
and perforated on the top with little cavities or cells, in which the
seeds grow. The orifices of these cells being too small to let the
seeds drop out when ripe, they shoot forth into new plants in the
places where they are formed : the bulb of the vessel serving as a matrix
to nourish them, until they acquire such a degree of magnitude as to
burst it open and release themselves, after which, like other aquatic
weeds, they take root wherever the current deposits them. This
plant, therefore, being thus productive of itself, and vegetating from
its own matrix, without being fostered in the earth, was naturally
adopted as the symbol of the productive power of the waters, upon which
the active spirit of the Creator operated in giving life and vegetation,
to matter. We accordingly find it employed in every part of the northern
hemisphere, where the symbolical religion, improperly called idolatry,
does or ever did prevail. The sacred images of ihe Tartars, Japanese, and
Indians are almost placed upon it, of which numerous instances
occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat, etc. The Brahma of India
is represented as sitting upon his Lotus throne, and the figure upon the
Isaaic table holds the stem of this plant surmounted by the seed vessel
in one hand, and the Cross representing the male organs of
generation in the other ; thus signifying the universal power, both
active and passive, attributed to that goddess.” Nimrod says : The
Lotus is a well-known allegory, of which the expansive calyx represents
the ship of the gods floating on the surface of the water ; and the
erect flower arising out of it, the mast thereof. The one was the
galley or cockboat, and the other the mast of cockayne ; but as the ship
was Isis or Magna Mater, the female principle, and the mast in it the
male deity, these parts of the flower came to have certain other
significations, which seem to have been as well known at Samosata as at
Benares. This plant was also used in the sacred offices of the Jewish
religion. In the ornaments of the temple of Solomon, the Lotus or lily is
often seen.” The figure of Isis is frequently represented holding
the stem of the plant in one hand, and the cross and circle in the
other. Columns and capitals resembling the plant are still existing among
the ruins of Thebes, in Egypt, and the island of Philce. The Chinese
goddess, Pussa, is represented sitting upon the Lotus, called in
that country Lin, with many arms, having symbols signifying the various
operations of nature, while similar attributes are expressed in the
Scandinavian goddess Isa or Disa. The Lotus is also a
prominent symbol in Hindu and Egyptian cosmogony. This plant appears to
have the same tendency with the Sphinx, of marking the connection
between that which produces and that which is produced. The Egyptian
Ceres (Virgo) bears in her hand the blue Lotus, which plant is
acknowledged to be the emblem of celestial love so frequently seen
mounted on the back of Leo in the ancient remains. The following is a
translation of the Purana relating to the cosmogony of the Hindus,
and will be found interesting as showing the importance attached to the
Lotus in the worship of the ancients : We find Brahma emerging from the Lotus.
The whole universe was dark and covered with water. On this
primeval water did Bhagavat (God), in a masculine form, repose for the
space of one Calpho (a thousand years) ; after which period the intention
of creating other beings for his own wise purposes became predominant in
the mind of the Great Creator . In the first place, by his sovereign will
was produced the flower of the Lotus, afterwards, by the same will, was
brought to light the form of Brahma from the said flower ; Brahma,
emerging from the cup of the Lotus, looked round on all the four sides,
and beheld from the eyes of his four heads an immeasurable expanse of
water. Observing the whole world thus involved in darkness and submerged
in water, he was stricken with prodigious amazement, and began to
consider with himself, ‘ Who is it that produced me ? whence came I ? 9 ' and where ami? Brahma,
thus kept two hundred years in contemplation, prayers, and devotions, and
having pondered in his mind that without connection of male and female
an abundant generation could not be effected again entered into profound meditation
on the power of the Supreme, when, on a sudden by the omnipotence of God,
was produced from his right side Swayambhuvah Menu, a man of
perfect beauty ; and from the Brahma’s left side a woman named Satarupa.
The prayer of Brahma runs thus : O Bhagavat 1 since thou broughtest me
from nonentity into existence for a particular purpose, accomplish
by thy benevolence that purpose.’ In a short time a small white boar
appeared, which soon grew to the size of an elephant. He now felt God in
all, and that all is from Him, and all in Him. At length the power
of the Omnipotent had assumed the body of Vara. He began to use the
instinct of that animal. Having divided the water, he saw the earth a
mighty barren stratum. He then took up the mighty ponderous globe
(freed from the water) and spread the earth like a carpet on the face of
the water ; Brahma, contemplating the whole earth, performed due
reverence, and rejoicing exceedingly, began to consider the means of
peopling the renovated world.” Pyag, now Allahabad, was the first
land said to have appeared, but with the Brahmins it is a disputed point,
for many affirm that Cast or Benares was the sacred
ground. MERU The learned Higgins, an English judge, who for
some years spent ten hours a day in antiquarian studies, says that
Moriah, of Isaiah and Abraham, is the Meru of the Hindus, and the Olympus
of the Greeks. Solomon built high places for Ashtoreth, Astarte, or
Venus, which because mounts of Venus, mons veneris Meru and Mount Calvary each a slightly skull-shaped mount, that
might be represented by a bare head. The Bible translators
perpetuate the same idea in the word
calvaria.” Prof. Stanley denies that Mount Calvary ” took its name from its
being the place of the crucifixion of Jesus. Looking elsewhere and in
earlier times for the bare calvaria, we find among Oriental women, the
Mount of Venus, mons veneris > through motives of neatness or
religious sentiment, deprived of all hirsute appendage. We see
Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of a priest. The
priests of China, says Mr. J. M. Peebles, continue to shave the head. To
make a place holy, among the Hindus, Tartars, and people of Thibet,
it was necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni, or
Arba. LINGAM IN THE TEMPLE OF ELORA This marvellous work of
excavation by the slow process of the chisel, was visited by Capt.
Seeley, who afterwards published a volume describing the temple and its
vast statues. The beauty of its architectural ornaments, the
innumerable statues or emblems, all hewn out of solid rock, dispute with
the Pyramids for the first place among the works undertaken to display
power and embody feeling. The stupendous temple is detached from
the neighbouring mountain by a spacious area all round, and is
nearly 250 feet deep and 150 feet broad, reaching to the height of 100
feet and in length about 145 feet. It has well-formed doorways, windows,
staircases, upper floors, containing fine large rooms of a smooth and
polished surface, regularly divided by rows of pillars ; the whole
bulk of this immense block of isolated excavation being upwards of 500
feet in circumference, and having beyond its areas three handsome figure
galleries or verandas supported by regular pillars. Outside the temple
are two large obelisks or phalli standing, of quadrangular form, eleven feet
square, prettily and variously carved, and are estimated at forty-one
feet high ; the shaft above the pedestal is seven feet two inches, being
larger at the base than Cleopatra’s Needle.” In one of the smaller
temples was an image of Lingam, covered with oil and red ochre, and
flowers were daily strewed on its circular top. This Lingam is larger
than usual, occupying with the altar, a great part of the room. In
most Ling rooms a sufficient space is left for the votaries to walk round
whilst making the usual invocations to the deity (Maha Deo). This deity
is much frequented by female votaries, who take especial care to keep it
clean washed, and often perfume it with oderiferous oils and
flowers, whilst the attendant Brahmins sweep the apartment and attend the
five oil lights and bell ringing.” This oil vessel resembled the Yoni
(circular frame), into which the light itself was placed. No symbol was
more venerated or more frequently met with than the altar and Ling,
Siva, or Maha Deo. Barren women
constantly resort to it to supplicate for children,” says Seeley. The mysteries
attended upon them is not described, but doubtless they were of a very
similar character to those described by the author of the Worship of the Generative Powers of the
Western Nations,” showing again the similarity of the custom with those
practised by the Catholics in France. The writer says: Women sought a
remedy for barrenness by kissing the end of the Phallus ; sometimes they
appear to have placed a part of their body, naked, against the image of
the saint, or to have sat upon it. This latter trait was perhaps too bold
an adoption of the indecencies of Pagan worship to last long, or to be
practised openly ; but it appears to have been innocently represented
by lying upon the body of the saint, or sitting upon a stone,
understood to represent him without the presence of the energetic member.
In a corner in the church of the village of St. Fiacre, near Monceaux, in
France, there is a stone called the chair of St. Fiacre, which confers
fecundity upon women who sit upon it ; but it is necessary nothing
should intervene between their bare skin and the stone. In the church of
Orcival in Auvergne, there was a pillar which barren women kissed for the
same purpose and which had perhaps replaced some less equivocal
object.” The principal object of worship at Elora is the stone, so
frequently spoken of ; the Lingam,” says
Seeley, and he apologises for using the word so often, but asks to
be excused, is an emblem not
generally known, but as frequently met with as the Cross in Catholic
worship.” It is the god Siva, a symbol of his generative character,
the base of which is usually inserted in the Yoni. The stone is of a
conical shape, often black stone, covered with flowers (the Bella and
Asuca shrubs). The flowers hang pendant from the crown of the Ling stone
to the spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the same as
the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly used in the worship at
the symbol, or one lamp with five wicks. The Lotus is often seen on the
top of the Ling.VENUS-URANIA. THE MOTHER GODDESS The characteristic
attribute of the passive generative power was expressed in symbolical
writing, by different enigmatical representations of the most
distinguished characteristic of the female sex : such as the shell
or Concha Veneris, the fig-leaf, barley corn, and the letter Delta,
all of which occur very frequently upon coins and other ancient monuments
in this sense. The same attribute personified as the goddess of Love, or
desire, is usually represented under the voluptuous form of a
beautiful woman, frequently distinguished by one of these symbols, and
called Venus, Kypris, or Aphrodite, names of rather uncertain mythology.
She is said to be the daughter of Jupiter and Dione, that is of the male
and female personifications of the all-pervading Spirit of the
Universe ; Dione being the female Dis or Zeus, and therefore associated with
him in the most ancient oracular temple of Greece at Dodona. No other
genealogy appears to have been known in the Homeric times ; though
a different one is employed to account for the name of Aphrodite in
the Theogony ” attributed to
Hesiod. The Genelullides or Genoidai were the original and
appropriate ministers or companions of Venus, who was however, afterwards
attended by the Graces, the proper and original attendants of Juno ; but
as both these goddesses were occasionally united and represented in
one image, the personifications of their respective subordinate attributes were
on other occasions added : whence the symbolical statue of Venus at
Paphos had a beard, and other appearances of virility, which seems
to have been the most ancient mode of representing the celestial as
distinguished from the popular goddess of that name the one being a personification of a
general procreative power, and the other only of animal desire or
concupiscence. The refinement of Grecian art, however, when advanced to
maturity, contrived more elegant modes of distinguishing them ; and, in a
celebrated work of Phidias, we find the former represented with her
foot upon a tortoise ; and in a no less celebrated one of Scopas,
the latter sitting upon a goat. The tortoise, being an androgynous
animal, was aptly chosen as a symbol of the double power ; and the goat
was equally appropriate to what was meant to be expressed in the
other. The same attribute was on other occasions signified by
a dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by the polypus, which
often appears upon coins with the head of the goddess, and which was
accounted an aphrodisiac, though it is likewise of the androgynous class.
The fig was a still more common symbol, the statue of Priapus being
made of the tree, and the fruit being carried with the Phallus in the
ancient processions in honour of Bacchus, and still continuing among the
common people of Italy to be an emblem of what it anciently meant :
whence we often see portraits of persons of that country painted
with it in one hand, to signify their orthodox elevation to the fair sex.
Hence, also arose the Italian expression far la fica, which was done by
putting the thumb between the middle and fore-fingers, as it appears in
many Priapic ornaments extant ; or by putting the finger or thumb into
the corner of the mouth and drawing it down, of which there is a
representation in a small Priapic figure of exquisite sculpture, engraved
among the Antiquities of Herculaneum. LIBERALITY AND SAMENESS OF THE
WORLD-RELIGIONS The same liberal and humane spirit still prevails
among those nations whose religion is founded on the same
principles. The Siamese,” says a
traveller of the seventeenth century,
shun disputes and believe that almost all religions are good
Journal du Voyage de Siam. When the ambassador of Louis XIV asked
their king, in his master’s name, to embrace Christianity, he replied, that it was strange that the king of
France should interest himself so much in an affair which concerns
only God, whilst He, whom it did concern, seemed to leave it wholly to
our discretion. Had it been agreeable to the Creator that all nations
should have had the same form of worship, would it not have been as easy
to His omnipotence to have created all men with the same
send- merits and dispositions, and to have inspired them with the
same notions of the True Religion, as to endow them with such different
tempers and inclinations ? Ought they not rather to believe that the true
God has as much pleasure in being honoured by a variety of forms and
ceremonies, as in being praised and glorified by a number of
different creatures ? Or why should that beauty and variety, so
admirable in the natural order of things, be less admirable or less
worthy of the wisdom of God in the supernatural ? The Hindus profess
exactly the same opinion. They
would readily admit the truth of the Gospel,” says a very learned writer
long resident among them, but they
contend that it is perfectly consistent with their Shastras. The Deity,
they say, has appeared innumerable times in many parts of this world and
in all worlds, for the salvation of his creatures ; and we adore, they
say, the same God, to whom our several worships, though different in
form, are equally acceptable if they be sincere in substance.”
The Chinese sacrifice to the spirits of the air the mountains and
the rivers ; while the Emperor himself sacrifices to the sovereign Lord
of Heaven, to whom all these spirits are subordinate, and from whom they
are derived. The sectaries of Fohi have, indeed, surcharged this
primitive elementary worship with some of the allegorical fables of their
neighbours ; but still as their creed
like that of the Greeks and Romans
remains undefined, it admits of no dogmatical theology, and
of course no persecution for opinion. Obscure and sanguinary rites
have, indeed, been wisely prescribed on many occasions ; but still as
actions and not as opinions. Atheism is said to have been punished with
death at Athens ; but nevertheless it may be reasonably
doubted Phallic Worship whether the atheism, against which the
citizens of that republic expressed such fury, consisted in a denial of
the existence of the gods ; for Diagoras, who was obliged to fly
for this crime, was accused of revealing and calumniating the doctrines taught
in the Mysteries ; and from the opinions ascribed to Socrates, there is
reason to believe that his offence was of the same kind, though he had
not been initiated. These were the only two martyrs to religion
among the ancient Greeks, such as were punished for actively
violating or insulting the Mysteries, the only part of their
worship which seems to have possessed any vitality ; for as to the
popular deities, they were publicly ridiculed and censured with impunity
by those who dared not utter a word against the populace that worshipped
them ; and as to the forms and ceremonies of devotion, they were
held to be no otherwise important, then as they were constituted a part
of civil government of the state ; the Phythian priestess having
pronounced from the tripod, that whoever performed the rites of his
religion according to the laws of his country, performed them in a manner
pleasing to the Deity . Hence THE ROMANS made no alterations in the
religious institutions of any of the conquered countries ; but allowed
the inhabitants to be as absurd and extravagant as they pleased, and to
enforce their absurdities and extravagances wherever they had any
pre-existing laws in their favour. An Egyptian magistrate would put
one of his fellow-subjects to death for killing a cat ora monkey ; and
though the religious fanaticism of the Jews was too sanguinary and too
violent to be left entirely free from restraint, a chief of the synagogue
could order anyone of his congregation to be whipped for neglecting
or violating any part of the Mosaic Ritual. The principle underlying the
system of emanations was, that all things were of one substance, from
which they were fashioned and into which they were again dissolved,
by the operation of one plastic spirit universally diffused and expanded.
The polytheist ot ancient Greece and Rome candidly thought, like the
modern Hindu, that all rites of worship and forms of devotion were
directed to the same end, though in different modes and through
different channels. <c Even they who worship other gods, says Krishna,
the incarnate Deity, in an ancient Indian poem ( 'Bhagavat-Gita ), c<
worship me although they know it not. Knight. Giorgio Colli. Colli.
Keywords: espressione, L’Apollo romano,
L’appollo d’etruria, La mesura d’Apollo, la dismisura di Bacco; l’enigma
filosofico, Bacco, Nietzsche, Girgentu, Velia, Crotone, Gorgia, Zenone di Velia,
l’implicatura di Prosimno, l’implicatura di Bacco e Prosimno. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Colli: l’implicatura di Bacco e Prosimno”, misterio
bacchico, bacchic mystery, the fig tree branch, phallus, self-sacrifice,
self-sodomisation, not without pain, even with pleasure – Higinus., symbolism,
the old shepherd erastes eromenos, Bacchus eromenon, the symbolism of the
promise, to rescue her mother from hell the role of the widow, female widow,
Bacco’s duty to keep his promise. The echo of the sentence, ‘you probably
passed it’ – ‘the lake’ the grave. Colli.


No comments:
Post a Comment