Powered By Blogger

Welcome to Villa Speranza.

Welcome to Villa Speranza.

Search This Blog

Translate

Tuesday, June 10, 2025

GRICE ITALO A-Z C

 

Luigi Speranza -- Grice e Chiocchetti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale prammatica – scuola di Moena – filosofia trentina -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Moena). Filosofo trentino. Filosofo italiano. Moena, Trento, Trentino-Alto Aidge. Grice: “I like Chiocchetti – a surname most Englishmen are unable to pronounce, but cf. Chumley! – For one, he exapanded, alla Croce on Vico as proposing ‘espressione’ as prior to ‘communicazione,’ as I do – but he went further – he studied the Latin-language author, and saint, Aquinas, and his ‘modi di significare’ – Lastly, he expanded on ‘pragmatism’ as the term of abuse it MUST be! Why are non-philosophers OBSESSED to keep miscalling me a ‘pragmaticist’ who is into ‘pragmatics’ – It’s totally anti-Oxonian – Oxford being the epitome of aestheticism – to do so! Chiocchetti also played with the abused term, ‘scolastic’: he thought there are two scolastics: the palaeo-scolastici, or scolastici simpiciter, and the ‘neo-scolastici,’ like his self! He wrote a little tract on Gentile, who ungently threw it onto the wastepaper basket!” -- Veste l'abito francescano. Conclude gli studi secondari a Rovereto. Durante il corso di teologia si appassionò agli studi biblici, anche se non gli venne concessa la possibilità di approfondirli presso l'Istituto biblico francescano di Gerusalemme e la Facoltà teologica di Vienna. Ordinato sacerdote. Studiò filosofia a Roma presso il Collegio internazionale di San Antonio. Tornò quindi a Rovereto per insegnare filosofia presso il liceo interno all'Ordine dei Minori e iniziò un'assidua collaborazione, su invito di Gemelli, alla Rivista di filosofia neoscolastica fin dalla sua fondazione. Progettò uno studio sistematico sulla filosofia di Henri Bergson, interrompendolo definitivamente per approfondire ulteriormente la sua preparazione filosofica a Lovanio, centro degli studi neoscolastici. Subito dopo si recò in Germania, a Fulda, per ascoltare Konstantin Gutberlet, e successivamente a Vienna, dove frequentò come uditore le lezioni di psicologia di Wundt. Tornato all'insegnamento a Rovereto, assunse la direzione della Rivista tridentina. Note C. su siusa.archivi.beniculturali. Faustini,, C., SERBATI e la cultura trentina: un filosofo ladino tra Trentino ed Europa, Trento, Pancheri. Faustini,, C.: un filosofo francescano di fronte alle sfide del Novecento: antologia, scritti di filosofia e cultura, Trento, Pancheri, C. un filosofo francescano tra il Trentino e l'Europa: atti del seminario di studio promosso dal Museo storico in Trento, svoltosi a Trento. "Archivio Trentino", Pietroforte, Storia di un'amicizia filosofica tra neoscolastica, idealismo e modernismo: il carteggio Nardi-C., Firenze, Sismel Edizioni del Galluzzo, Centi, Un filosofo francescano C. Trento, Gruppo culturale Civis, Coen, C. in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, (Dizionario biografico degli italiani) G. Consolati,, C. filosofo trentino rettore generale francescano e professore di storia della filosofia moderna alla Università cattolica del S. Cuore, Trento, Saturnia, C. in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. C., su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Opere di C..Pubblicazioni di C., su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation. LE GRANDI CORRENTI DEL PENSIERO COLLEZIONE DIRETTA DA PICCOLI C. Milano IL 5a PRAGMATISMO agi E 7 EDIZIONE ATHENA MILANOVia Vigentina' 7-9 s santo, MRETTRI s», è ita, canina eno er insit) miri iztarta e ea Nihil obstat quominus imprimatur 19 Mediolani, Bernareggi. Nihil obstat quominus imprimatur Mediolani,Mons. Can. Cavezzali. ALL'AMICO P. ARCANGELO MAZZOTTI CHE NELLA VITA VISSUTA ANCHE PIÙ TENUE SA CERCARE E COGLIERE LA FILOSOFIA sg ca Ripubblico, a richiesta d'amicì, in volume questi «saggi» sul Pragmatismo, già pubblicati, parecchi anniì sono nella Rivista di filosofia Neoscolastica, per chè il Pragmatismo contiene aspetti di verità che non A vanno dimenticati. Quali siano quest» aspetti verrà rilevulo nella esposizione che ne faccio seguendo i Uue principali rappresentanti di esso il James e lo Schiller. f In questa esposizione ho introdotto solo mulazioni accidentali, più che altro verbali, che mettano quella corrente nei tempi suoi, già mollo lontani spiritualmente dai nostri.a E. C. LLINEE FONDAMENTALI DEL PRAGMATISMO. Sommarto. II Pragmatismo. Pragmatismo e Umanismo. Pragmatismo e conoscenza. Nell' Inghilterra e nell'America, come è noto, la filosofia ha avulo sempre un carattere prevalentemente pratico, cioè, ha studiato con particolare predilezione quei problemi filosofici che si riferiscono alla teologia, alla morale, al diritto e alle scienze pratiche, in generale; e, anche quando si è sollevata alle più alte speculazioni, non ha mai perduto il contatto intimo con la vita pratica «ed è stata più sollecita della ricerca del vero in vista dell'organizzazione della vita reale, che non dell'astrazione collivata per sè stessa e per la sodisfazione dello Spirito. Per ciò che riguarda l'Inghilterra basta pensare alla filosofia di Hobbes e di Bacone, all filosofi cmpirica e crilica di Locke, alla filosofi naturale di Newton, alle dottrine teologiche dei De Cfr. «Revue Néo-Scolastique», dove son tiLortate dall'opera: La Philosophie en Amérique del VAN B CELAERE' (New-York) le parole citate. La «Revue Néo-Sc Stiquen ne di un amplo riassunto col titolo: Le mouveme hilosophiqgue en Amérique. Vedi anche i riassunti cli relazioni sullo stato della filosofia contemporanea in InghilMica in America: « Rivista di Filosofia Neo-Scolastica wu N. IL SEE. Linee fondamentali sti, alla fase clica del movimento empirico del secolo XVIII, all'Associazionismo e all'Utilitarismo. Nell'America i primi a interessarsi di speculazioni filosofiche furono i colonizzatori della nuova Inghilterra, degli inglesi emigrati, i quali naturalmente portarono al di lù dell'Oceano la caratteristica della filosofia della madrepatria: l'atteggiamento pratico, che assunse allora, per speciali circostanze storiche, un carattere religioso. È vero che, nell’Inghilterra, «una corrente più profonda non ha mai cessalo di rimontare in senso opposto (alla corrente empirica). Essa si manifesta con Herbert di Cherbury, con i Platonici di Cambridge, nella scuola scozzese. del ‘senso comune, e apparisce nella sua forma più sorprendente in Berkeley, fondatore dell'’idealismo inglese; è rinforzata più tardi da Kant, Lichte, Hegel e Lolze; ma anche questa controcorrente non ha mai perdulo il'carattere pratico, sperimentale, e tende ad appoggiarsi più volentieri sulla volontà e sul sentimento e a trascurare le categorie puramenle logiche dell’Idealismo tedesco » . Lo stesso sì deve dire della filosufia in America. Quando la rivoluzione americana pose fine al peTiodo coloniale e nel libero paese cominciarono a manilestarsi varie e nuove correnli filosofiche ppiella del senso comune, il Trascendentalismo di Kunt e de’ suvi discepoli, specie di Hegel; l'Idealismo di Berkeley ecc., la filosofia conservò sempre la tendenza ad avvicinare la speculazione alla vita, a non perdere il contatto con la realtà, a far risallare il carvaltere pratico dei problemi filosofici. « Negli scritti, p. es., dei seguaci dell'Idealismo Kanliano non è la critica che tiene il primo posto, ma la psicologia cosidella scientifica in opposizione alla psicologia metufisica» . Cfr. in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica » (1 i Ssunto della relazione del MACHENZIE: La EIA nea in Inghilterra, donde sono prese le parole citate. Revue Néo-Scolastique », I. c. rat ET tit, 0 ELLI a_n GI Il Pragmatismo ('S Allualmente i due indirizzi filosofici predominanti nel mondo inglese-americano sono o erano qualche anno fa il Neo-hegelianismo e il Neo-volontarismo. Quale dei due trionferà? Se la storia ci può ammaestrare, se il carattere cinico dei due paesi può servire di fondamento a una previsione, se, sopratutto, i sc si guì dei lempi sono veridici c intendo la reazione "i Vivissima contro l'indirizzo Neo-hegeliano e la ten- DI denza della filosofia contemporanea a dare il valore Li principale della valutazione delle vedule speculative i al sentimento e alla volontà possiamo applicare anche all'Inghilterra quello che il Turner scrive dell'America: « È verosimile che il corso fuluro del pen| siero filosofico non subisca tanto l'influsso dei Neo. hi legeliani quanto quello dei Neo-volontaristi ». Ebbene, poichè il Neo-volontarismo americano non è che il Pragmalismo, non sarà senza interesse lo studiarlo, lauto più che esso non è più limitato a quelle regioni, ma ha suscitato anni addietro vivo a interesse in lutto il campo filosofico, dove, accanto e ; ul critici severi, trovò dei caldi ‘ammiratori. 1 suoi nu espositori cd apostoli più autorevoli ne annunziava-. n° no, con lono da epinicio, il trionfo sicuro su tutte le filosolie avversarie. Già lo Schiller aveva annunziato il maturarsi di grandi eventi nel mondo intellettuale à danno delle antiche forme di pensiero e a tulto vantaggio di una forma nuova. È, come a sintomi | di un tempo propizio a nuove intraprese filosofiche secondo la nuova forma, egli guardava con compiacenza al successo che ha avuto l'opera del Balfour: «Le basi della fede»; alla serie di opere popolari. del James: «Lu volontà di credere, Immortalità _ mana, Le varie forme della cuscienza religiosa» | alle letture di James \vard « Naturalismo e agno È | Slicismo», e, sopratutto, all'esser uscito da Oxforà, «una volla centro di Idealismo, un manifesto così dace com'è «L’'idealismo personale» dello stesso | Schiller e di altri membri dell’Università, e ai lavori Linee fondamentali della scuola di Chicago (alla testa della quale slava è il Prof. Dewey), pubblicali nelle « Decennial Publica ‘ tions» della Università . i; Quivi afferma pure che il Pragmatismo «non passa più inosservato: esso ha raggiunto la fase del «batti ma ascolta!» e quando i falsi concetti, È dovuti a prella mancanza di famigliarità con la dot- |A trina, saranno dissipati, entrerà in una fase di ulile D applicazione ». D'allora fino a pochi anni fa, il Pragmatismo s'è * affermato con sempre crescente energia, suscitando vive polemiche, incontrando simpatie e disprezzo, seguaci c avversari, così che polè scrivere il James: «Oggi la parola Pragmatismo empie le pagine delle © riviste filosofiche. E ancora: «Parecchi indirizzi di pensiero che mancavano di un denominatore comune lo trovano nella parola Pragmatismo » . Esso ha avuto in tutte le nazioni rappresentanti di grande valore, fra quali, i principali sono: in America il James e il Dewey; in Inghilterra Jo Schiller; in Germania il Simmel e il Jerusalem , in Ilalia gli seriltori del Leonardo, specialmente il Papini; in Francia, ScHiLcen, IJumanisim, VIII-IX, London, Macmillan 1903. Ri; (9) Der Pragmatismus. Ein neuer Name fr alte Denkmetho«en, trad, in tedesco dal Prof. \VILHELM JERUSALEM, Leipzig. Verlag. von Klinkhardt. Di questa traduzione tedesca mi servo nella esposizione del Pragmatismo. Sì è voluto vedere un Pragmatista anche nell'Eucken. In s tà il suo «ttiwismo non ha niente a che vedere col Pragmatsmo, L'Attivismo poggia sopra determinate presupposizioni metafisiche, mentre il Pragmatismo è puramente empirico; a eno il Pragmatismo inglese e americano, «Il ripudiare com fa l'Eucken, Ja concezione intellettualistica della vita, non è una caratteristica del Mo- | | talismo e di Misticism ca À « n Pragmatismo ma di ogni specie di (OA 2 vrib CE: Il Pragmatismo . Blondel, Roy, Bergson e molti fra i modernisli più avanzati. Come si vede, aveva un po' ragione lo Stein quando scriveva: «Abbiamo di nuovo una « parola d'ordine» filosofica, che è diventola grido di guerra di un nuovo indirizzo di pensiero, di un movimento filosofico che passa potentemente dall’ America sul vecchio mondo e comincia a incerospare la superficie - delle nostre acque stagnanti ». Facciamoci a considerare davvicino una tale filosofia, allenondoci specialmente ai suoi due rappresentanti più illustri: il James e lo Schiller. gs 2 Il nome pragmatismo viene dal greco pragma che significa azione, operazione, viene dalla stessa radice che ha dato origine alle parole prassi, pratico; perciò, più italianamente sì chiamercebhe praticalismo. Jl primo a introdurlo nella filosofia è PEIRCE [citato da H. P. Grice] nel senso di un metodo che consiste nel giudicare del valore di una affermazione dalle sue conseguenze nella pratica, ossia di un metodo che era già stato applicato dall’empirismo inglese alla valutazione delle conoscerize umane. Ecco in breve Ja sua dottrina. È un falto psicologico che il dubbio, l'incertezza producono in noi uno stato di malessere, di irritazione; uno stalo spiacevole insomma, Per uscirne e noì vogliamo uscirne è necessaria una convinzione, una credenza in cuì l’attività del pensicro possa riposare: la credenza attutisce le sofferenze del dubbio. Produrre la credenza è la sola funzione del pensiero: il pensiero in altività non persegue allro fine che il riposo del pensiero e lo distinguono profondamente dall'inglese-americano. «Archiv. fur system Philos.» Egli espose il suo sistema fino dal 1878, ma non fu che | dopo essersi servito lungo tempo della parola CART EVA nella conversazione, che la stampò nel 1902 in un articolo . | dizionario del Baldwin. Così MARCEL HénerT, Le Pragmatism Bi. Alcan, Paris. Lan "a IL pragmatismo francese ha peculiarità tutte proprie che. 2A f 10 Linee fondamentali quindi tutto ciò che non contribuisce alla formazione della credenza non fa parte del pensiero propriamente detto. La credenza, poi, ha per fine di produrre un'abiludine alliva, che diventa regola per fazione. Se le credenze mettono fine allo slesso dubbio, creando la stessa abiludine e la stessa regola d'azione, non diversificano fra loro. Per sviluppare, quindi, il senso d'un pensiero non c'è da far altro che determinare quali abitudini essa produce, poichè il senso d’una cosa consisle semplicemente nelle abiludini che essa implica. Il caraltere di un'abiludine dipende dal modo con cui essa ci fa agire in ogui possibile circostanza... e il fine dell'azione è di condurre a un risultato sensibile. Noi prendiamo, così, il sensibile e il pralico come base di qualunque differenza di pensiero, per quanto sottile possa essere. Non v'è nuance di sigmificalo così sottile da non polev produrre una differenza nella pratica . In allre parole: Il pensiero crea la “convinzione, la convinzione è regola dell'operare e in tanto vale in quanto ci fa operare; fine dell’opel'are è il risullato sensibile, pratico: questo, dunque, deve servirmi di crilerio per giudicare del valore del pensiero, per conoscere con chiarezza il significato dei concetti. Come render chiare le nostre idec? Inlerpreliumole dal punto di vista pratico, domandianio ad esse quale efficienza pralica contengono, quali Sensazioni possiamo aspellarci dall'oggetto che ci bappresentano, e quali reazioni dobbiamo preparare. La rappresentazione di questa efficienza pratica, mediaia 0 immediata, costituisce per noi l'intera rap. presenlazione dell'oggello e in ciò sla tutto il significalo positivo della rappresentazione. « L'idea di una cosa è l’idea dei suoi effelli sensibili », dice PEIRCE [citato da H. P. GRICE]. E contradittorio il dire che si conosce con Così nell'articolo «ITow to make our ideas clear pub pippoz pt Egnular Science SOA Y >, 1878-XII, e tradotto «Rev HosophiQuew 1879-VII: «( x È ados sansa DI phig TO-VII Comment vendre nos « Revue philosophique». | IRIS Il Prugmatismo precisione l'effetto di una forza, ma che non si comprende ciò che è la forza in sè slessa; conoscendo gli effetti della forza si conoscono tutti i fatti implicili nella affermazione della esistenza della forza e uon v'è più nulla da conoscere. Come render chiare le nostre idee? «Pensando », risponde il Des Carles, conducendole alla evidenza della proposizione: « Cogilo ergo sum ». Agendo, ri sponde PEIRCE [citato da H. P. Grice]; rendendo esplicita la potenzialità ‘* d'azione che è in esse, nell'oggetto rappresentato: è ciò che agisce, è distinto ciò che produce effetti distinti nella vila pralica: dunque al: «Cogito ergo. sum » sì cosliluisca V« Ago ergo sun ». Tulta la funzione della filosofia è di scoprire quale differenza definitiva forà a ine 0 a te in definiti istanti della vila se questa è quella formuia del mondo fosse la vera. 4 Tale è il principio del Pragmatismo. Rimasto inosservato per venVansi fu mpreso dal James ed appli calo alla religione , prima, alla conoscenza 10:C Ca nerale poi. D'ullova in por tanto il nome quanto i principio hanno falto forluna, così che i due leader: pragmalisti ce no possono dure una esposizione co vaggiosa e abbastanza sistemalica in due opere ap parse nel niondo anglo-sassone e diffuse rapidamente fra i cultori di filosofia. “a Per comprendere l'importanza del principio enun: 3 ciato, ci avverte il James (8), bisogna abiluarsi ad applicarlo vi casi particolari, come fece con perfetta | chiarezza, senza nominare il Pragmatismo, l' Osl- wald nelle sue lezioni sulla filosofia della. nalu -. TTI) 92. Ne Tm una conferenza tenuta nel 1898 davanti alla società. fil “sofica di Howison nella università di California, Al JAMES il n | me non Dpince, ma ormai «è troppo tardi per cambiarlo »; egli dice nella prefazione al « Prugmatismus», Zweite Vorlesung, Linee fondamentali conforme a ciò che egli stesso scrisse al James: « Tutte le realtà influiscono sul nostro operare c ? questo influsso è quello che per noi esse significano. - Nelle mie lezioni iv sono solito domandarmi: in qual differente rapporto starebbe ‘il mondo se fosse vera questa v quella alternaliva? Se non trovo niente per cui sarebbe differente, l’alternaliva non ha sensi so » . Che è quanto dire: le opinioni rivaleggianti, «nel caso. hanno identico significato pratico e non esiste che un solo significato: il pratico . Ossia: qual'è il valore di un’idea? Risolvetela in fatti; il valore di questi ‘rappresenta il valore dell'idea. E poichè i falli in tanto sono in quanto sono da noi csperimentali, il valore di un'idea mi è dato se la risolvo in terraini di esperienza. Applichiamo, p. es., sil principio del Pragmatismo all'idea di sostanza. Una sostanza noi la conosciamo per i suoi attributi (accidenti) ai quali si riduce tulto ciò che di essa si può esperimentare: che sotto gli accidenti ci sia o di essi, è pralicamente indifferente, lanto che, se Dio, lasciando l'ordine degli accidenti, distruggesse la sostanza, noi non lu potremmo neanche sapere. Se del legno mi resta la combastibililà e la struttura Vascolare che può imporlarmi del quid in sè inaccessibile ad ogni forma di esperienza? d Dunque Ja sostanza come un quid in sè distinto dagli accidenti non ha valore alcuno: per me la so| Slanza non è che il complesso de' suoi accidenti. L'unica applicazione pragmatistica dell'idea di soStanza si ha nell'Eucarislia, dove, per il caltolico non sono gli accidenti che valgono, ma la soslanza del corpo e del sanguc di G. C. Così la crilica del Berkeley della sostanza materiale è affatto pragmalîslica, e pragmalistica è la critica del Locke e del l'Hume della sostanza Spirituale, e, per parte del Bea, o n () P. 29:50. Anche l'OstwaLo è contato f | dlallo SCHILLEK e dal JAMES; a ragione, secondo SIT RESTRA 3 oro, secondo il Croce. Cfr. « Critica» A. VI, {. IÎT ; Ibfa. A non ci sia un quid come soggetto, sostegno, substrato. ià It Se ll Pragmatismo 13 Locke, è l'autocoscienza, cioè, il fatto che noi, in un dato istante della vita, ci ricordiamo di quello che eravamo in altri istanti e sentiamo questi istanti come parli della stessa serie personale di avvenimenti vissuti. Se, nella ipolesi dei sostanzialisti, Dio ci togliesse l’'autocoscienza, a che ci gioverebbe la soslanza dell'anima? Ed ecco perchè l'Hume e, dopo di lui, la maggior parte dei psicologi empirici, negò l’anima addimttura . Altro esempio. Il teista afferma che il mondo l'ha cercato Dio; il materialista lo dà come il risultato di forze fisiche, cieche. Ebbene, le due teorie sono identiche, se il mondo si. considera come un tutto terminato, completo. Poichè «che valore ha Dio per il mondo, per noi, se Egli non lo può mutare e far procedere di un passo? Sé il mondo fa lutto quello che Dio fa?» Ma se il mondo non è al termine della sua evoluzione, allora la questione: «Materialismo e Teismo» acquista una importanza vitale. La ‘scienza della natura pre“dica che la fine di ogni cosa e di ogni sistema di cose cosmiche è lragica morte! Tutto sarà come non fosse slato mai: luomo e il mondo, la virlù e gli ideali, i dolori e gli amori: ceco l’ultima parola del materialismo! Ma se Dio esisle, se è Dio che dice al mondo l’ullima parola, allora potrà perire il mondo materiale, ma gli ideali saranno conservati e lrionferanno altrove. Il Materialismo nega l'ordine morale e recide le speranze che su quello si fondano; lo Spiritualismo afferma un eterno ordine morale del mondo e lascia libero spazio alle speranze Dritte Vorlesung, p. 52 seg. Non per nulla il JAMES ha dedicato il suo libro alla memoria dello Stuart Mill, confes sando la sua dipendenza da lul; «Alla memoria di Mill, dal quale ho imparato la prima volta la pragmatica apertura dello spirito e che, nella mia fantasia, figuro. così. volentieri come il nostro duce, se vivesse al presente Non per nulla il sottotitolo aggiunto al Pragmatismo suon . uun nome nuovo per alcune vecchie maniere di pensare», sua: sono, nient'altro, che Je maniere del vecchio Empirismo inglese, Linee fondamentali dell'uomo . Lo slesso principio si deve applicare alla questione della finalità nella nalura e della libera volontà. Dio, finalità, volontà libera, pragmatislicamente hanno un senso; intelleltualisticamente nessuno . ) x Empirismo, dunque, e Pragmatismo applicano lo stesso principio, giungendo, naturalmente, alle stesse conseguenze. Con una differenza però, tiene a dirci il James. I vecchi empiristi non fecero che un uso frammentario del principio pragmatislico: ne erano un semplice preludio. Il Pragmatismo rappresenta l'empirismo in una forma più radicale e meno aperla alle obbiezioni. Esso volta le spalle risoluto, una volla per sempre, a una mollitudine di abitudini antiqualo, care ai filosofi di professione: alle astrazioni e alle sottigliezze, alle soluzioni puramenle verbali dei problemi, alle argomentazioni «a priobi» ai principî fissi, ai sistemi chiusi, all’assoluto e all'originario, alla vecchia melafisica intellettualisfica, Insomma, la quale, quando ha dato al princi. pio dell'universo un nome misterioso: Dio, materia, ragione, assoluto, energia, crede di possedere il sismficalo ullimo dell'essere e di aver raggiunto il fermine delle sue ricerche metafisiche 13). L'atteogiamento di opposizione del Pragmatismo all’intelIeltualismo, alla filosofia dell’assoluto, all'a priori è dci più decisi . Il Pragmatismo si volge alla realtà, ai fatti, all'agire, alla forza, è signore della disposizione empirica, ama l’aria libera e le molteplici formazioni della natura, sì oppone al dogma, alle artificiosità, alla pretesa di aver raggiunto la verità definitiva (9). Dritle Vorlesung, p. 59 sgg. p. 76. «Eine andere als dicse praktische. Bedeu tung haben die Worte: Gott, Will Z, MO ATADen ensfrelheit, Zweck, ùber Zweite Vorlesung, D. 31-33. E Spesso violento contro i Neo-hegellani. Più che nel James tale violenza apparisce nello Schiller, il quale si trova di fronte ad un hegeliano Vi gni ig non meno aggressivo, quale è {l IUid. p. 32. ne 1° MN i 14 PACI ZZZ Il Pragmatismo 15 Il Pragmatismo è radicalmente empirico e anti intellettualista perchè vuol essere una dottrina per la vita prima che della vita, un metodo ordinato alla sodisfazione dei bisogni umani quotidiani. « Esso non ha dogmi, non ha dottrine, non ha che il suo melodo. Ci fa stornare da ciò che è primo, dai principî, dulle calegorie, da presupposle necessità, e ci fa volgere lo sguardo alle cose ullime, ai frutti, alle conseguenze, ai fatti . Perciò non accella nulla, non ripudia nulla a priori. a “sso chiede a tulte le teorie, a tutti i sistemi, a sa lulli i concelli: qual'è il vostro valore pratico? siete. utili e come e quanto siete ulili alla vila pratica, all'adattamento dell’uomo alla natura e della natura all'uomo? L'uomo ha due grandi bisogni: di fatti e di principî, di scienza e di religione. Ebbene, quale filosofia si offre all'uomo per soddisfare a questi suoi bisogni? O l'Empirismo che degrada l'uomo col suo Materialismo e nega la religione, o il Razionalismo religioso bensi, ma lontano da ogni contatto col mon- : do, colle nostre gioie e coi noslri dolori e per il quale le cose reali sono un niente: è questo il dilemma atluale nella filosofia . ma Il Pragmatismo invece può soddisfare ambedue quei bisogni: può conservarsi religioso come i si9 slemi razionalistici e può mettersi in intima unione coi falli (3;. Il Pragmatismo, come dice Papini, si trova nel mezzo delle teorie come un corridoio in un albergo. In una slanza v'è, forse, un uomo che la-. vora intento ad uno scritlo ateislico; nella stanza ulligua un allro chiede a Dio con la preghiera fede «e forza; in una {erza un chimico ricerca le proprietà dei corpi; nella quarla sì sta abbozzando un sistema Vily] . «Er hat keine Dogmen und keine Leh ausser . seiner Methode. Die pragmatische Methode bedeutet. Keineswegs bestimmte Ergebnisse, sondern nur eine orlentie- rende Stellungnahme ». >» JAMES consacra alla illustrazione di questo dilemma tutta la prima lettura: «Das gegenwàrtige Dilemma in der Philosophie. Erste Vorlesung, DD. . o x è Linee fondamentali di metafisica idealistica, nella quinta un Tizio dimostra la impossibilità di ogni metafisica. E il corridoio appartiene a tutti. Tutti vi debbono passare se abSE bisognano di una via praticabile per entrare e per hi uscire ., Così il Pragmalismo è anzilulto un metodo: il suo fine è di por terminc alle beghe filosofiche presenì lando un criterio Pratico per giudicare del valore di NY”. lutte Je dotlrine. Il mondo è una uni B va plicità? Vi domina il fato 0 vi è una volontà libera? È materiale o spirituale? I giudizi dati in Proposito valgono tanto che niente e le discussioni sono interminabili. Ebbene, in questi casi il metodo ; Ppragmatistico consiste nel lenlalivo di interpretare a ognuno di questi giudizi dalle sue conseguenze prai tiche. Quale differenza pratica risulterebbe per qualcheduno se fosse vero l'uno o l'altro di quei giudizi? Se nessuna, i due giudizì opposti si equivalgono r.raicamente e ogni discussione è oziosa : dove 1.n c'è differenza di Significato pratico non vi può essere differenza di significato teoretico. Con questo metodo, sempre secondo il James, si sare gli allriti, attenuare le contese ie intelligenze, riuscire alla concordia e alla pace, Esso © dunque un mataviglioso eirenicon perchè «non «Vale la pena di opporre l'una all'altra nel campo «della speculazione due teorie che abbiano le medesi f me fo eguenze pratiche per tutti e in. tutti i fem- LE Pi» . .Contrariamente alla vecchia metafisica il Inelodo Pragmalistico non permette ecc. come lermine ultimo della ‘l'icerca, ma le fa lavorare nella corrente dell'esperienza: le teorie non sono soluzioni, ma programma per nuovo lavoro; non risposte definitive, ma strumenti d'azione, ma indice che cj addita i mezzi per. Ì ) di considerare le parole : È Dio, materia, energia, ty Gazelle Vorlesung, p. 34, Questi concetti sono SvIluppati specialme t Il Lettura seconda: « ]J'gs will der Praggn, tall, J ll Pragmatismo?), er Pragpmatismus? (Cosa vuole “Ri ORANDO, La Mlosoha | «Rivista Rosminiana SERBATI (si veda)» A Apologetica Moderna] dell'azione e vr » N., not? PO UTNE e ne I Il Pragmatismo 1? k i) | 1 quali le realtà esistenti possono esser mulate e adattate all'uomo . Il Pragmatismo toglie così alle i leorie la loru rigidezza, le rende malleabili, le fa la j vovare . Esso si accorda col Nominalismo nello È i attenersi al parlicolore, con i’Utilitarismo nell’ac- es | cenluare gli oggetti pratici, col Positivismo nel di-, i sprezzo delle questioni inutili, delle soluzioni ver- “@ i bali, delle astrazioni metafisiche, di tutto ciò insomma che non serve all'uomo nella vita reale. Perchè luomo è il centro dell'universo, afferma l'Uma nismo conlro il Noaluralismo che considera l’uomo | è. come parte della natura e contro l'Idealismo che lo son subordina ad un Assoluto. Alla concezione cosmocentrica (Uanlica) e alla teocentrica (la medioevale) ani deve sosliluirsi l'aniropocentrica. «L'uomo è la misura di tulle Je cose!» proclama lo Schiller, il neo- È prolagorista, con Prolagora l’umanista . L'Umanismo consiste semplicemente nel rendersi conto che sono degli esseri umani coloro ai quali è proposto. il problema filosofico, degli esseri umani che si sforzio di comprendere un mondo di esperienza umana | coi mezzi che fornisce lo spirilo umano. Secondo l'Umanisimo sono «il sentimento e la vo lonlà che custiluiscono l'interesse centrale dell’essere che usa i sensi e la ragione come suoi strumenti nel mondo esterno. Theorien werden... zu Werkzeugen », p: 33. Ibid, Macht sie geschmeidig und lisst sie arbeiten n. Fra V'Umanismo e il Pragmatismo, quale è esposto dal James, c'è differenza poco più che di nome. Secondo lo Schil«_ ler l'Umanisino è più largo, il suo metodo sì applica a tutto: i d@ll'etica, all'estetica, alla metafisica, alla teologia, mentre il Pragmatismo non si applica che alla teoria della conoscenza. In realtà Je applicazioni che fa lo Schiller del suo metodo, È le sa o le accetta anche il James, Lo confessa il James stesso, ] P. Al. n° AE , Protagora l'umanista, è il titolo del Saggiod Gli: Studies in Mumanism. Egli stesso chiam il suo sistema neo-Protagoreanismo, > o ip”td - Lince fondamentali Perciò l'Umanismo implica il Volontarismo, ossia la filosofia più autropocentrica che si possa dare. L’«ago ergo sum», del Pierce può essere sostituito «dal «volo ergo sum». L'Umanismo è anch'esso un melodo: ciò che lo caratterizza è il suo alleggiamento benevolo di fronte a tutte le concezioni, purche non si voglia erigerle a un che di « assoluto ”, ma sì prendano come pure interpretazioni umane 5, dell'esperienza umana. Non si dimentichi avverte Schiller «che l’uomo è la misura di tutte le cose, cioè di iullo il mondo dell'esperienza... non si dimentichi che l'’uomu è il fattore delle scienze che servono aì fini umani» . Tutto dall'uomo, tutto all'uomo, tutto per l’uomo: ecco l'’Umanismo. Il Pragmatismo accetta questa dottrina umanistica, e «io dice il James la tratto sotto il nome di Pragmmalismo » . L’Uinanismo è, per così dire, il soflio, l'anima che pervade le affermazioni pragma | lisliche: non ha valore che ciò che ha un significato per l'uomo. La logica finora ha tentalo di essere una pscudo-scienzu di un, processo non esistente e im| possibile chiamaio pensiero puro. In nome di essa ci fu comandalo di espungere dal nostro pensiero Ogni traccia di sentimento, d'interesse, di desiderio © di emozione, come le Diù perniciose surgenti di ertore. Così la logica fu ridolta ad una pura rappre| Sentazione sislemalica falsata dal nostro pensare al luale, perchè non si è voluto osservare che quegli inMussi (sentimento, emozione) sono egualmente fonle di verità e pervadono tutto il nostro processo co| gilulivo . Poichè «il Primo passo nella acquisiHumanisme, (Prefazione) p. xx. Lettura ScHirLen, Humanism, p. X. E allo Sc € dobbiamo principalmente 10 SEITE ELE 0 logico e gnoseo zione di nuove conoscenze è l'intervento di un postulato emozionale. Non si può passare dal noto all'ignoto, o, certo, la natura data di un conosciutu non può formare il a fondamento logico per la inferenza di caratteristiche 0 opposte nel non conosciuto, se non c'entra il deside- |. Ù rio. Come posso, p. es., inferire dal male che c’è nel ò mondo la necessità dell’esistenza di un mondo mi: gliore, sc il ragionare come afferma la logica tradizionale è il prodotto di un pensiero puro non affetto da volizione? «Sollanto se una trasfigurazione sconosciuta dell'altuale è desiderata, può esser pensata e, in parecchi casì, ‘rovata. Tutte le concatenazioni di un pensiero puro non influenzato dall'affetto non potrebbero mai raggiungere e ancor mero giustificare quella conclusione: per raggiungerla il nostro pensiero deve ricevere l'impulso ced esser guidato dai suggeri menti della volizione e del desiderio » . La ragione «pura» e una pretla finzione c una impossibilità si psicologica; lu strultuva reale della ragione attuale E è essenzialmente pragmatistica ed è penetrata fino n] nelle midolla (permeated (lhrough and through) da ulti di fede, da desiderì di conoscere e da volontà di credere, di non credere, di far credere. E altrove: Dini” La intellezione pura non è un fatto che abbia luogo | in natura; essa è una finzione logica. Im realtà il * a nostro conoscere è condotto e guidato, ad ogni passo, dai nostri interessi e dalle nostre preferenze, dai | Il Praghiatismo / i | nostri desiderî, dai nostri bisogni e dai nostri fini. x Questi formano il potere movente della nostra vita intellettuale. « Vi souo ragioni del cuore delle quali la testa non 3: sa nulla , postulati di una fede che sorpassano la È «To attain it, cur thougth needs to be impelled vi ‘na guided by the promptings of volition and desiro ». POS) L'aforismo, citato dallo Schiller, è di BIAGIO PASCAL,(Pensées), LA 4 20 Linee fondamentali intelligenza pura e possiedono una razionalità più alta che un gretto inlellettualismo non è riuscito a comprendere. L'irrazionale si trova ad ogni passo, in ogni processo della vita conoscitiva ». La fede «sla a base di ogni «ragione» e la pervade, anzi la razionalità stessa è il supremo postulato della fede. Senza fede non c'è ragione; la fede è un ingrediente nel progresso della conoscenza; realizza sè stessa nella conoscenza che ne abbisogna e ia aiula alle conquiste fulure. Così sparisce l’antitesi tra fede e ragione perchè la razionalità pura non esiste . Il carattere leleologico della vita mentale influenza e pervade le nostre ullivilà cognoscilive più remole. Questo, secondo lu Schiller, è il pensiero centrale del Pragmatismo: ne dà la vera definizione . Il pensiero Non è un prosesso aslrallo, ma si svolge in una - psicologia concrela, è una funzione vitale è perciò finalistica. L'uomo non pensa per pensare e il Pragmalismo è: «una prolesta sistematica contro l'ignovanza della finalità nella‘conoscenza » . La volontà, lintenzionalilà è da per tutto: il Volontarismo si constata nella psicologia, nella logica e nella metafisica, È questo uno dei lralli caratteristici del Punto di visia leleologico. Il Pragmatismo si formula da per lutto in funzione della finalili. La ragione è un'arma nella lolla per l'esistenza cun mezzo per l'adattamento » . Ne segue che l’uso pratico che ha presiedulo al suo (della ragione) Questi concetti lo Schiller li ha svolti speci: te i JI S ° seialmenie in un articolo: NFailh, reason and religion pubblicato SI The Ilibbert Journal. Vi si dice, tra l'altro, che è base essenziale in scienza e in religione partire da supposizioni che TS OLolale provate o che non possono provarsi. Così, se ; Viviaino per fede può anche esser veri r Ralemo pen pata L e esser vero che cono Mumanism, D. 8. Cfr. anche Stud. in Ium, Stud. in Hum Essay, I et * Èssay, I $ II È ques a ses sette definizioni che lo Schiller ci dà del PRE Se nite e collegate l’una con l'altra nei S S b ;3 «I cannot but conceive the Or AR] In the struggle for existence and tation è. pag. 7, Humanism, reason as being... a weapon a means of achieving adap à, cea Il Pragmatismo i svolgimento, deve essersi impresso profondamente nella sua strullura, se pure non l’ha formata da istinti prerazionali. Una ragione che non ha valore n pratico ai fini della vita è una mostruosità, una aber razione morbosa, una mancanza di adattamento che la selezione naturale presto o tardi deve far spari re {1). Quindi, da questo punto di vista il Pragma lismo polrebbe definirsi: « Una applicazione coscien le alla epistemologia (0 logica) di una psicologia te < leologica, che, in ultima analisi, implica una metafisica voloniaristica » . pis TANA Nice di questa psicologia felcologica applicata alla conoscenza i problemi della logica devono apparire sotto un aspelto nuovo e si deve dare una imporlanza decisiva ai concetti di proposito e di fine. Ta conoscenza presuppone essenzialmente uno sforzo diretto a conoscere, che, come ogni sforzo, è te-: leologico, ispirato da un bene che si vuol consegnire. SI Non cè conoscenza senza valutazione; la conoscenza è una forma di malore, 0, in allre parole, un fattore di bene . Lo aveva cià dello il Lotze, nola lo Schiller. Il | Lofze, come è noto, insegnava che «la scienza, come TU la logica, che ne è lo strumento, e come la metafisica che ne è il coronamento, ha il suo fine e la sua giuslificazione nell'elica, e irova il suo fondamento | slabile e sicuro in quel primo dato originario e di | Ù conoscenza immediata che è la nostra vita interiore, i col suo ricco contenuto di sensazioni, rappresenta zioni, sentimenti e tendenze e col suo largo corredo di forme, calegorie e leggi, da cui non possiamo pr scindere in qualsivoglia nostra concezione e valut zione» . Mumanism, p. 8. È la settima definizione del Pragmatismo. Le altre Je AFONSTRIDO parlando della verità e della realtà nel Pragmatismo. - ae p Humanism, p. 10. Cfr. anche sl quarto «Essay» di questo volume: Lotze's Monism, D. 62 SE&. i = L, AMBROSI, Per una monografia italiana sopra Herm otze «La Cultura Filosofica», A. IMI, N. HI, p. 294-295, ai dui # iii ar E° vee Linee fondamentali Non è qui il luogo di dimostrare che, se il Lotze ha dei punti di cuntalto con l'Umanismo, egli perè non è un umanista alla Schiller. La ragione nelle sue esplicazioni molteplici, è una strumento ordinato ai fini della vita. È questa la concezione strumentalistica della conoscenza esposta dal Dewey e dallo Schiller e accettata dal James. Essa è un portato del metodo evolutivo e della concezione biologica della conoscenza. Darwin con la teoria della «lotta per l’esistenza » e della « selezio“ne naturale» aveva insegnato «che nulla può susSistere o svolgersi che non abbia un determinato Significato per l’intera concatenazione della vita ». Scrittori posteriori (Spencer, Romanes, ecc.) sostennero che lu vita è un continuo accomodamento alla natura circostante, fisica, sociale, morale. E ora la teoria della evoluzione è chiamata da molti a spiegare anche il sorgere e il progressivo. svilupparsi ella vita cognoscitiva e così i principt evolutivi di cambiamento, di relalività e di movimento sono ipplicali a spiegare l'origine e ‘lo sviluppo del pensiero in generale, il suo carallere, il suo valore, allo 2 Stesso modo che erano già slali assunti a lumeggia- i __Te c spiegare l'origine, Îo sviluppo, il significato, il Valore della stutlura, degli organi, di fulte le dif__ Ierenziazioni biologiche. Come in bio non ha valore nè senso che per la sua ulili dine all’adatlamento dell'individuo condizioni fisiche circostanti, ha, cioè un valore e un senso puramente Pratico, così in psicologia quaai 5 ao L'opera principale del Dewey è: Studies 1 Theory bey John Dewey, with the Cooperation of embe Fellows of the Departement of Philosophy. Decennial Pubbli1 one of the University of Chigago Second Series vol. XI e» Peli ha esposto le sue teorie anche in: The esperimentai Pe: # in: eguig otel Mina (N. S. 59) 1906, Vol. XV Pp. 293-307; din; nd the Criterion uti Of Tdeas (N Sì 6) "Vol NV she SII for tne Trutt of Ideas (N. S. Lol), Cir. Baowr, 7hioughi and rh; i * AP TS, ggpletaco, p. VILe VII. 11 Salto; Vol. 1: Functional GI dottrina comuni col Pragmatism DIA ha parecchi puntf Il Pragmatismo lunque differenziazione : sensazione, coscienza, pensiero ecc., trova tutta la sua raison d’étre e la sua giuslificazione nell’uso, nelle conseguenze, nella efficacia pratica. La questione di valore non si può scindere dalla queslione di origine e di sviluppo; la considerazione statica deve dar luogo alla considevazione dinamica e quindi, per ciò che riguarda il pensiero, la logica formale alla logica funzionale. La concezione biologica della conoscenza ha fatto un passo innanzi: non ha detto semplicemente : applichiamo alla psicologia il metodo evolutivo, (il che, per sè, non inchiude la riduzione della psicologia alla biologia) ma ha detto che « tutti i prodotti del pensiero teorelico hanno un carattere utilitario » (biologico) «cioè servono come strumenti al conseguimento di fini essenzialmente biologici, perchè mirano a dare soddisluzione alle esigenze dell’organismo cioè ai bisogni della vita» . Questa subordinazione della vita teoretica alla vita pratica è capilale per il Pragmatismo: nessuna maraviglia quindi se i suoi leaders l'hanno accettata e fatta oggetto di studi speciali . DEWEY – Grice, The John Dewey Memorial Lecture, New York --, oltre alla funzione generale della conoscenza, ha soltoposto ad analisi il suo aspetto tipico: il giudizio; mentre lo Schiller s'è occupato partico. larmente degli assiomi primi della conoscenza. S'è veduto in che cosa consiste la concezione strumentalistica 0 umanistica della conoscenza ; in base Baldwin, Op. c. 1. c. passim. È sostenuta specialmente dall’Avenarius, dal Mach, dal Jerusalem, dall'Ostwald, dal Petzoldt e dal Simmel. Cfr. le monografie di A. ALIOTTA sull’Avenarius, sul Mach, e sull Ostwald in «Cultura Filosofica» a. II, n. % a. DI, n. . . Lo Psicologismo logico dì A. LEVI: Cuit. Fil. a. III, n. 1, 9, 4, specialmente pp. 242-255. Vedi anche dell’Aliotta: /l pragmatismo anglo-americano, « Cultura Filosofica » A. LEVI, Lo Psicologismo logico, La « Cult. Fil.» a. IMI, pà et Intendiamoci: hanno accettato la dottrina della subor‘dinazione della vita teoretica ai fini pratici, in generale, no ai fini biologici esclusivamente, È 24 Lince fondamentali ad essa il giudizio (dal Dewey) è interpretato in termini di funzione; esso è una armonizzazione di varie parti della esperienza; è uno sforzo « per determi. nare gli elementi che realmente procedono di conserva e per respingere quelli che solo si collegano apparentemente »: così esso si forma, per differenziazione, sotto l'impulso del bisogno di armonia e di unità nelle esperienze . To Schiller afferma e dimostra, a modo suo, che gli assiomi fondamenlali della conoscenza o primi princip! (di identità, di contradizione, del terzo escluso, di causa) sono dei semplici postulati. Un postulato è «una supposizione, che senza dubbio l’esperienza ha suggerilo ad una mente che ricercava, ma che non è, nè può essere lenuta come provata, poichè spesso di poi la si assume solo perchè la desideriaumo, contro tulta l'apparenza dci fatti» . I postulali sono domande che noi facciamo alla esperienza; processo di esperimento ordinato a porre il mondo in armonia coi nostri desiderì; sono perciò un processo di sviluppo non dissimile dalle altre attività e funzioni umane, derivando dalle esigenze dell’uomo, dai suoi bisogni, dai suoi desiderì, dal suo volere: sono quindi un prodolto della attività umana voliliva e affelliva. Noi desideriamo che una cosa sia quello che è, che 4 sia sempre a, d sempre Db, ecc. perchè diversamente, come polremo conoscere la sua condotta futura rispetto a noi? e, per conseg&uenza noi desideriamo che nulla venga a distruggere quella idenlità: così nascono il principio di identità e di contradizione, che sono due aspelli (poSilivo e negalivo) dello stesso principio, Noi esigiaMo delie distinzioni precise, delle disgiunzioni complete, perchè con esse possiamo dominare (assimi- II, passim, Vedi anche N. c. dove si trovano le parole da’ Personal Idealism « Arioms La Cultura Filosofica » me citate, Macmiizs o! as Postulales n London, ScHILLER in 3 «The Hibbert Journal» }, e, Il Pragmatismo lando ed eliminando) il lusso ininterrotto della esperienza: vogliamo che una cosa sia o non sia: ecco il principio del terzo escluso. Noi desideriamo di pro- si durre degli avvenimenti utili alla vila e di impedire i nocivi; per agire abbiamo bisogno di un mondo connesso, ordinato, postuliamo, cioè, una causa € una ragione sufficiente. In realtà nulla è, tulto diventa; l'identità perfella non esiste. La enntradizione è pensata frequentemente contro la grescrizione della legge; l'esperienza non sodisfa le nostre esi- ae” genze, perchè in essa non v'è una ragione suMceiente, e ve la poniamo noi. A chi opponesse a questa concezione volontarislica delle leggi del pensiero, i loro caratteri di universalità e di necessità, lo Schiller risponde che: «Ia universalità di un postulato deriva dalla sua stessa natura, inquantochè, quando ci serviamo di una proposizione di cui abbiamo bisogno, intendiamo di farne uso ogni volta che ci piacerà; la necessità di un postulato designa semplicemente il bisogno che noi ne abbiamo, ossia... deriva dalle esìsenze di una volizione intelligente e finalislica; la incapacità di pensare il contrario di una proposizione si riduce... ad un nostro rifiuto di compiere un certo atto del pensiero ». Il James accetta e fa sue le dottrine dello Schiller e del Dewey ce proclama: «Dalla logica scientifica è stala cacciata la necessità divina, e al suo. posto fu messo l’arbitrio umano ». E altrove: pla mostri melodi fondamentali di pensare sono invenzioni dci nostri antichissimi antenati e si sono. potuti conservare attraverso {tutte le esperienze successive. pe Il James considera gli « Studies in Logical Theory » com | fondamentali per il Pragmatismo. Cfr. Der Pragmatism Vorwort, XI, AI ve, 26 Linee fondamentali Essi formano ciò che si chiama il senso comune che in filosofia significa l’uso di certe forme dell’inlelletto e di determinate categorie del pensiero. Noi pensiamo per calegoric: esse ci sono necessarie per mettere unità e ordine nella piena confusa, nella Varietà sensibile delle esperienze, per combinare con meno dispendio di forze possibili le nuove con le vecchie esperienze, per fare i nostri piani, per conneltere il iontano dell'esperienza col vicino, per adatlare, in una.parola, la esperienza ai nostri bisogni dopo averla dominata. E la dominiamo razionaliz- \ zandola. i «Se fra le impressioni dei sensi e i concetti posè». cai È, t ATI tas siamo trovare rapporti univoci abbiamo già razionalizzato le impressioni sensibili. I senso comune > mette questa razionalità nelle esperienze (vollzieht diese Ralionalisirung) con vna serie di concetti, dei î sà quali i più importanti sono i seguenti ; 4 = Cosa (in sè) Identità e Diversità Specie Spi- x, rili Corpi Un lempo Uno spazio Soggello b e ullributo Influsso causale Immagini fanta- > stiche Realtà . Queste categorie lrovale forse in momenti felici ai nostri antenati si sono conservale e sono divenule la base del nostro pensiero per la loro sufficienza a servire ai fini della vita pratica. Ma sarebbe possibile che calegorie diverse dalle enumerate po_lessero servirci, come quelle che usiamo ora, alla elaborazione della nostra esperienza. Del resto il Senso comune non è che una fase della evoluzione dello spirito umano, c, nonostante che la filosofia _bemipatelica abbia tentato di fissare per sempre le Sue categorie, concatenandole ordinandole in si _ stema, Mon si può dire, tuttavia, che la concezione MICCCALVII È a più i DI lipi o fasi di pensiero: il naturalistico 6 il car a scienza della natura e la filos riti hanno. rotto i limiti del pensiero ATao CECI Finfte Vorlesung. Con la scienza della natura cessa il Realismo ingenuo. Le qualità secondarie perdono la loro realtà: non restano che le primarie. La filosofia critica distrugge lutto: le categorie del senso comune non significano più nienle di reale. Esse non suno che astuti provvedimenti del pensiero umano; sono l'unico nostro mezzo per isfuggire alla inquietudine in cui ci getta l'incessante corrente delle sensazioni . Noi abbiamo così tre tipi caratteristici e diversi di pensare il mondo: Ugnuno ha i suoi meriti (il naturalistico, almeno, può vantarsi di aver servito ai fini pratici quanto il senso comune; si pensi al Galilei, ad Ampere, al Faraday! ìl critico invece, pur troppo, nun ha dato che soddisfazioni teoretiche, 0 quasi); nessuno di essi è assolutamente più giusto e più vero degli altri . e; La loro verità dipende dalla loro utilità nei casi particolari. Questo il Pragmatismo nel suo metodo e nelle sue presupposizioni gnoseologiche fondamentali: melodo et presupposizioni che ne costituiscono la vera essenza. Il James dice che un aspetto essenziale del Pragmalismo è anche la sua leoria genetica della verità . Lo Schiller, dal canto suo, scrive che: «parallela alla teoria della verità è quella della realtà », e perciò la trallazione della prima non può andar disgiunta dalla esposizione critica della seconda . A me pare che tanto l'una che l'altra, più che dottrine essenziali del Pragmalismo, siano corollari, 0 applicazioni del metodo alle due forme oggettivosoggettiva c oggettiva dell’essere. E Di queste due applicazioni dobbiamo ora occuparci lrattando della teoria della verità e della realtà nel pragmatismo. Par Der Pragmatismus, p. ki: Das wdre das Wesen des Pragmalismus: erstens eine Methode und zweilens cine. gene tische Wahrhettstheorie », Stud, tn Hum., p. 284, "E lla ate RA A da LTL Che cosa ci sa dire la filosofia intorno alla condotta? La pone in allo o in basso, la esalta ponendlola sopra un piedestallo all'adorazione del mondo 0 | la deprime perchè venga calpestata dalle persone i Superiori? In allre parole: qual'è, secondo la filosofia. lo relazione della lcoria colla pratica della vita, della cognizione coll’azione, della ragione teoretica colla pralica? » . Così comincia lo Schiller il suo primo saggio del volume: Umanismo, La base È elica dellu metafisica ». E continua: «La dottrina di È, questo rapporlo coslituisee uno dei capitoli più inbi tricali della storia del pensiero. Da questo capitolo della storia risulla chiaramente un fatto: che le prelese delle teorie antagonistiche (leoreticiste e praligra * cisle) sono così larghe e così insistenti da rendere impossibile ogni compromesso fra loro; bisogna scepai gliere-fra i due estremi: o la condolta è lutta la vita. i O è nulla; 0 è la sostanza del tutto, o è la visione dì un sogno: aul Caesar aut nullus. Noi sappiamo a giù quale dei due estremi abbia scelto il Pragmatisil smo. Invece di supporre che il pensiero sia altra cosa o dall'azione, esso tralta il pensiero come una forma di, È condotta, come una parle integrale della vita attiva. umanism, Invece di considerare i resultati pratici come poco o affatto importanti, fa dei valore pratico un determinvute della verilà teoretica. Im una parola: la condotta, in luugo di svanire nella nullità di una illusione, è ristabilita nel potere di controllo di ogni dominio della vila. Dal punto di vista pragmatislico della psicologia leleologica, inlcsa come s'è vedulo, tanto i problemi logici quanio i metafisici si presentano in una luce | nuova, poichè vien dala una importanza decisiva i | concetti di proposito e di line. SH Il Pragmalismo è una protesta sistematica contro l'abitudine di iguorare, neile nosire lcorie sul pensiero e sulla realtà, la finalità del pensare attuale © i rapporti delle nustre realtà attuali ai fini della vila; è r'aflermazione delta basc chica della iogica e della id metafisica. « La valutazione (cologica è una sfera speciale della ricerca clica, € quindi il Pragmatismo, To con la sua accentuazione della teleologia in ogni (campo del pensiero, assegna al metodo lipico «della elica una validità metalisica, alfermando la su preva autorità della concezione etica di bene sopra | da concezione logica di vero € la metafisica di reale. II bene, il valore pratico © un determinante essenziale così della verità come della realtà. La condotta è la sostanza del tulto. La nostra apprensione del reale, la nostra comprensione delia verità si effet luano sempre in esseri che tendono al consegui mento di qualche bene: sono penetrate, informate “dalla tendenza a un fine pratico, dalle esigenze della condotta. pt g 2. Chi studia seriamente i processi conoscitivi della intelligenza umana viene subilo a trovarsi d fronte al problema dell'errore. Tulte le proposizioni La teoria della realtà e della verità logiche hanno l'audace pretesa, senza riserva e senza d riguardi alle pretese delle altre, di esser vere. Eppure gran parle di esse non sono che delle menzogne : non sono realmente vere e la scienza deve respingere la loro pretensione. Per far questo è necessaria una scella di ciò che è realmente vero dalle verità apparenti: una condanna del falso ed una ricognizione del vero; il logico, in altre parole, deve valutare le ioro prelensioni di verità . Con qual crìlevio? Come dislinguere fra proposizioni che pretendono di esser veré c non sono, e le pretese buone che pussono essere convalidale? Qual'è la nota, il carattere distintivo della verità? Così si pone il problema crileriologico; e una teoria della conoscenza che è impolenle a scioglicrio è già condannata (@). © Quid est veritas? Per verità noi intendiamo una proposizione alla quale è stato in qualche modo alluccalo (attached) ialtributo «vero» e che, conse__Suentemento, è riguardala sub specie veri. « La veTila è la lolalità delle cose alla quale e stato appli«cato o è applicabile questo modo di lraltamento sia | ©hesi eslenda o meno alla totalità della nostra espe_ Rienza» . È una qualità di certe rappresentazioni «© precisamente: l'accordo di certe rappresentazioni con l’oggello {4). È questa la definizione comune che | accellano, come qualcosa di evidente, intellettualisti * pragmalisti. Il dissidio fra le due parti comincia Quando si tratta di sapere che cosa propriamente si Bnifichi «waccordu» e « Oggetto »; ovvero la «realtà » con la Tuale devono convenire le nostre idee |, Secondo la concezione Opolare | n BRA { ot ROIO Popolare l'accordo consiste > In una copia dell'oggetto. Alcuni idealisti affer ne ue le nostre idee sono vere quando corrispondono. a or \<iò che Dio vuole che no pensiamo intorno al loro alla /eoria della &gello, Altri, streltamente fedeli ScHmzLER: Stu Id., Jvta. Essay Y. @ JAMES, Der Pra i o gmatismus, p, i 0 JAMES, Id., Ibid, D 124, VI, Vor], dies in MHumantsm, D. 3. Essay Il Pragmutismo_ 31 i ì tre idee in copia («copytheory»), dicono che le nostre in nilo sono vere in quanto corrispondono ai pensieri elerni dell'assoluto. Vediamo quanto valgano queste concezioni. ; Intanto la verità assoluta, scrive lo Schiller, non esiste. La storia del pensiero umano è caratlterizzata dalla inslabilità delle opinioni, dalla mutabilità delle credenze, dalle vicissitudini della scienza, Insomma. dalla lransitorietà di ciò che è o passa per verità, Ogni verità umana, com! è attualmente e com'è stata storicamente, sembra fallibile e transitoria... le verità del passato sono riconosciute come errori al presente; quelle del presente sono in via di essere riconosciule erronee in un domani più o meno lontano. Quindi la verità umana non può affacciare pretese di assolutezza. Per isfuggire allo scetticismo che sorge nelle anime di fronte alla ininterrotta. rivalutazione e transvalutazione delle verità, che forma la storia della conoscenza, si è ricorso ad una verità assoluta trascendente indipendente dalle vicissitudini della verità umana; la quale verità assoluta si concepisce come un modello da imitarsi, come una misura per la valutazione delle verità nostre, come una rocca inespugnabile in cui non può penetrare cangiamento alcuno . i Si slabilisce, cioè, una distinzione fra verità al luale o umuna e verità assoluta, ideale, che è posta al di fuori e al di sopra del flusso della realtà. Le nostre verità sarebbero un riflesso dell’Assolulo, ri . flesso imperfetto, ma valido, misleriosumente transustanziato per la immanenza in esso dell'Assolulo e per la partecipazione della sua stessa sostanza. i Mau l'espediente è fulile e dannoso. | l'utile perchè l'assoluta, eterna verità, rigida e immutabile, non può discendere dagli eccelsi cieli della logica a trasformare le nostri ‘i Ì La, e verità e a togliere la transitorietà alle nostre concezioni; la verità umana, ScuiLLER. Stud. in Hum,, Essay La teoria della realtà e della verità dal canto suo, non può SORIrare alle prerogative soRraumane dell’Assoluto (i). Se la verità assoluta non può identificarsi, in qualche modo con la umana, e se la cognizione umana non può diventare assolula, non può congiungersi con l'Assoluto, l'Assoluto per nvi non esiste e non può quindi redimere dal ilusso perpeluo le nostre verita. I che lale unione luon esista, anzi che sia impossibile, si deduce dal contrasto di caralleri fra la copia (verità umana) Cc tjuello che dovrebbe essere il suo originale (verità lrascendente). La verità umana è fluida, non rigida; temporale e lemporanea, mon elerna e perenne; arbitraria, non necessaria; scella, non inevilabile ; nata, come Afro dite, di passione e di slancio da un Inare schiumoso di desideri, non puramente intellettuale e spassionata; incomplela, non perfetla ; fallibile, non inertante ; assorbita nella tendenza di ottenere ciò che ion c uncora compiulo; non beala nella. sua comiiulezza. Questi caratteri della verità umana risultano dalle condizioni stesse onde ha origine ogni vetilà. Essa è discorsiva perchè non puo abbracciare lutta la realtà; © fallibile perchè è ‘essenzialmente parziale € puo quindi Sempre venir corretla e completala da una cosuizione più vasta. Invece la verità assolula si estende al lutto e dipende dalla cognizione del lutto. Li sua ussolulezza si fonda sulla sua onMucomprensività . Se non V'è conoscenza conmpielamente adeguata all'intero sistema della reallà on vi può essere verita assoluta . Orbene, la no stra mente è capace di {ale conoscenza? No. Appunio perchè parziale, la verità umana poggia su dati parziali, è generala dalle parzialità dell'altenstone selelliva ed'e diretla a fini parziali. Un abisso Separa le due specie di verità: fra loro non vi può essere ne Corrispondenza nè interazione . È quindi verità attuale sia in « accordo con la b RP assurdo che Ju he SCHILLER, 07, cl, 7. E (I Ide TER OD. ci, p, 207, via {9) Id., 4bid. E SCHILLER, 1a., p. 2, i Le Lia - di asta ideale, eterna, Irascendente » come pretendono gli assolutisti. be La concezione della verità assolula è anche perni ciosa. Poichè: o l'uomo percepisce la differenza fra ia verità assoluta e la relativa o non la percepisce. Nel primo caso egli disprezzerà le verità umane, 1m. perfette, mutabili, le tratterà come apparenze, € lo | Scelticismo sarà inevitabile. CIÒ è tanto vero che, anche attualmente, la linea di divisione. tra questa specie di assolutisti e gli scettici è molto indecisa: insegni Bradley. Nel secondo caso l'uomo prenderà come assolute anche le nostre verità. E poichè l’assoluto non soffre aumento nè alterazione, egli non _ si sforzerà di migliorarla coi suoi sforzi, rigetterà come falso tutto il nuovo, non vi-sarà progresso alcuno nella conoscenza... ; ecco l’assurdo e con l'assurdo Ja rovina della teoria della conoscenza. Nel nostro conoscere c'è aumento, c'è alterazione: e una teoria della conoscenza che non li può spiegare, anzi li esclude, non ha certo diritto alla nostra véenerazione, e non ci salverà dallo scellicismo, reso anci ui tabil ; SE ’ «anche du Anevitabile dalla impossibilità e dal rifiuto di ‘0 FUNe I nostro reale progresso cognosellivo: ud est verilas? È forse un «accor realtà ; La Accordo » Questa ipotesi reatitiae csfetto, del fallo. sterno? A LI ‘a dice ancora lo Schiller ci conduce ad affer pe encore lo ssChil era 5 CIOS alermare degli incredibili paradossi, con la cha: 1 SE Rc e die n 3 n fis aipendente) è conosciuto. da e RI » che «eg hipothesi » 16/x trascende SD i E oanseo ALU soggeltivalin ACR BS È e] | Pragmatismo - 3 x = SONA È [e È |< PRE e %% È Da teoria della verità e della realtà c) Che noi conosciamo anche questo e cioè che la «corrispondenza » tra il fallo, quale è in sè stesso fuorì della noslra-conoscenza, e il fatto, quale appare nella nostra conostenza, è in qualche modo perfelta e completa {1), il ehe è assurdo, perchè noi non possiamo conoscere indipendentemente da un lato il pen_ siero, dall'aîtro Voggello esterno. Nè si può dire che la verilà consista nella « cocrenza sistematica ». Nell’universo non v'è delermina“zione assolula e perciò la verità c la realtà possono «essere costruite im diverse maniere, cioè in diversi Sistemi, con diverse «cocrenze » sistematiche: bisocana lener conto delle possibilità pluralistiche . RR . il problema si ripresenta: «quale dei sistemi è vero e quale è falso? » Im che consisle la verità del «sistema coerente? » Dal punlo di visla del razionalismo, cioè «a priori », on è possibile dare una risposta reale alla questione; non si può indicare nessun metodo praticabile di ululazione delle verità (e dei sistemi di verità) se non concedendo alle applicazioni pratiche, alle con| seguenze, di saggiare la validità delle rappresentazioni (c dei sislemi di rappresentazioni); se non rica| Noscendo uno stadio intermedio, nel facimento della s0 pad, fra Ja semplice pretesa (claim) di esser vero e tn ideale completo di verità assoluta . Il Pragma smo è appunto il tentativo dì tracciare il modo del > (I) Id, p. 181, Essay Di qui 11 nome di pluralismo dato a dottrina _pragmatistica della verità e della A ita «ex professo « nella quarta lezione (del vol. cit.): Etnlett uni Vielheit « Unita e Pluralità. © pluralismo è la gucazione Metafisica della realtà come di una molteplicità di ct Separati, indipendenti. Si divide in matcrialistico (AtoTRIaIDO), in spiritualistico (Monadologia) è in duatistico (Dua» smo). La concezione pluralistica è stata poi dal JAMES ulteente svolta nel volume: .1 pluralistic universe, London, Longman Green, tradotto in f [cato co. Nolo PRI oS Francese da Le BRUN e pubmar ion I titolo: Philosophie de l'erpérience, Paris, Flam SCHILLER, Stud. in Hum. facimento aztuale della verità, le maniere attuali di distinzione tra vero e falso per giungere alle sue generalizzazioni circa il metodo di determinare la natura della verità : mette in luce, in altre parole, lo sladio intermedio del divenire della verità, il modo della convalidazione delle pretensioni di verità. Orbene, come s'è veduto, non si può spiegare il movimento del pensiero verso qualche cosa senza fare appello a motivi psicologici: desiderio, sentimento, interesse, attenzione ecc. ; non è possibile descrivere cosa alcuna in puri termini logici e senza costante ricorso alla psicologia , ec quindi «i termini ullimi della definizione della verità sono anzitutto psicologici»; ogni verità attuale è, in primo luogo «un processo psichico, c, come tale, condizionato dalla varietà degli influssi psicologici sentimentali e volitivi» . i E così anche i sistemi di verità. L'esistenza di un numero di giudizì cocrenti connessi in sistema non basta per avere da noi la ricognizione della verità. li «sistema» per esser vero, deve anche aver valore ai nostri occhi; la tendenza al «sistema» è parte della tendenza più vasta all'«armonia attuale », 0 per lo meno ideale, della nostra esperienza. Il sistema non è semplicemente un tutto di consistenza logico-formale, ma anche il prodotto di influssi ema<ionali. in vista di soddisfazioni emozionali. Perciò nessun sistema è giudicato intellettualmente vero se non è migliore in rapporto alle nostre esigenze di un altro, se non abbraccia e non soddisfa qualcosa di più che gli aspetti intellettuali astratti delle esperienza. Pragmatism essays to trace out the actual «making of truth», the aciual ways In which discri_minations between the true and the false are effected, and derives from these its generalisations about the method of determining the nature of truth? Id., Humanism, Essay p. di. NI Id., ibid. Cir.: Riv di Filos. Neo-Scol. A. II, N. 2, Specialmente p. 152 Sgg. ScuiLLer, J/umanism. Essay II, D. . ‘36 La teoria della realtà e della verità Vi sono dei sistemi che, nonostante la loro coeren za, non hanno valore di verità, perchè non TiMUON Î no e non risolvono un senso di disaccordo finale nel l’esistenza; tali sono i sistemi pessimistici ; e n sono delle verità, valutate come tali, per la loro effi cienza di armonia sebbene non siano connesse in si-| slema . Non si dimentichi mai ci avverte conti nuamente lo Schiller che la nostra conoscenza èi maleriata di inleresse, di desideri e di sentimento; che la verità e il sistema della verità è il prodotto dei mostri sforzi lelcologici . Da ciò risulla che il prohlema della verità è essenzialmente psicologico, € deve essere formulato così: « Qual’è la natura psichica della ricognizione della verità? A qual parte della nostra esperienza è applicata questa ricognizione?» N Pragmatismo risponde : «La verità è una ferma di valore; la natura psichica della sua ricognizione è la valutazione » . « La valutazione della nostra esperienza è un processo naturale ininterrotto in una coscienza normale. Sponlaneamente, necessariamente noi giudichiamo le cose « buone» e «cat. live », «belle » e « prulte », «vere» e «false». È l’osistenza di quesl’abito che fa sorgere le scienze normutive rivolle a dirigere e sistemalizzare le diverse valutazioni (per esempio «l'estelica » per le valutazioni del «bello» e del « brutto»; Peolica » per le valutazioni del «buono» e del « cattivo »). Anche la 1d., tDid. «AI pessimismo in filosofia » lo Schiller consacra il IX Essay del sno /umanism. Anche il pessimismo, come ogni sistenin, è un determinato atteggiamento di fronte alla grande classe di tiudizi che sono conosciuti come giudizi di valore a, « La Vila è adeguata all'ottenimento del fine supremo dell'azione* Se St. essa ha valore, è degna d'esser vissuta; se no, il suo valore è nullo e non merita d’esser vissuta. Nel priRpanraso abbiamo l'ottimismo, nel secondo il pesstalsmo LA . Mumanism, D., Specialmente là dove tratta del ri a e Re ti el rapporto fra logica Humanism, Essay Truth is a form of a Value ».. Would be no «tru ren o na er at Without valuation there Ri the at all» tv (4 4umunism, Essay > 7 Il Pragmatismo . 37 logica è una scienza normativa che ha per fine di regolare e di ridurre a sistema le nostre valutazioni di vero e di falso. Come in ogni altra classe di valulazioni anche nella valutazione della verità l'inleresse umano è vitale, il che vuol dire: che una verità ha conseguenze (ciò che non ha conseguenze è senza significato), ha una portata sopra qualche interesse umano, e che le conseguenze debbono valere, debbono essere conseguenze per qualcheduno, in vista di un fine determinato, cioè, devono essere «buone» e «pratiche ». berciò, a tulle Ie asserzioni che prelendono di esser vere noi dobbiamo intimare: « Mostrateci che siet> buone di una bontà pralica, e vi riconosceremo pet tali. Voi non avete una ragione intrinseca di verità; noi dobbiamo altenerci alle vostre conseguenze: dal frutto conosceremo l’ albero n. Una asserzione che soddisfa un interesse umano pratico, che corrisponde al fini pratici dell'uomo è «vera»: è vero ciò che è praticamente buono; è falso ciò che è praticamente cattivo . 1 predicati «vero» c «falso» non sono in fondo che indicazioni di valore logico, comparabili come valori, coì valori «elici» ed «estetici». Similmente anche W. James: «ll Pragmatismo, invece di considerare la verità intellettualisticamenle, cioè, come un rapporto puramente statico fra rappresentazione e oggetto, si pone, di fronte ad ogni pretesa di verita, Ie solile domande. Dato che una rappresentazione 0 un giudizio affaccino la pretensione di verita, noi chiediamo: Quale diffevenza concreta produce nella vita concreta di un uomo quel tal giudizio, quella tale asserzione? Come potrà essere vissuta? In che sì moditicherebbe il complesso dell'esperienza se quel tal giudizio fosse falso (0. 3 Id., bid. La parentesi è mia |’ (®) Sarebbe meglio dire: «valutazione-verità », perchè que| Sta fla verita) non è che il processo della valutazione. Ingl, | «truth-valuation ». Stud. in Hum, p. 5-8: 38 La teoria della realtà e della verità vero)? Qual'è il valore della verità se noi la cambia: mo în moncla di esperienza? » ue Per il Pragmatismo porre la questione è scioglier la: «Sono vere quelle rappresentazioni che possiamo far nostre, cioè che possiamo far valere, lrasforma re in forza e «verificare», sono false quelle che non sono suscettibili di lule trasformazione in valore pra tico » . La verità di una rappresentazione non è una proprietà immobile che le è inerente: la sua ve rità è un accadimento: una rappresentazione non è vera, ma divien vera; è un divenire, è il progresso della sua auloverificazione (der Vorgang ihrer Selb È stbewahreilung); 1 valore della verità non è altro che il processo del suo farsi valere . E si fa vaÈ: lere, e si verifica con le sue conseguenze pratiche, con la sua utilità: anzi il farsi valere e il verificarsi non sono in fondo che queste conseguenze . Dalla definizione della verità come vulore logico segue che lutte le verità debbono essere verificate. Una rappresentazione che non vuole o non può sol: tomettersi alla verificazione è già condannala. Essa | può avere lull'al più una verità potenziale, senza si«| _°‘’‘00‘gnificalo, inintelligibile o congetturale, e dipendente “fl da condizioni non uvverate. Per diventare realmente da 3 Der Pragmatismus, VI Vor, p. 125. < è» « Walre Vorsteltungen sind sotche, die wir uns aneigqneny die wir gellend machen, in Kraft setzen und verifizierem hònpe; nen, [alsche Vurslellungen sind solche bei denen dies alles ("g nicht moglich ist», 1A., IUld., p. 125-126. È il Jaines stesso che n sottolinea. : E lo SCHILIER: «Che cosa erano le verità prima p di venir scoperte?» La questione è oziosa, Se «vero» significa «valutato da noi» è naturale che ogni verita diventa vera quando è scoperta... Noi possiamo concepire tre stadi, mel LA processo della verità: verità da venir fatta, verità diveniente, i verità fatta. Il processo è unico e identico per tutte le verità a. Stud. in Huni. JAMES. fui. SCHILLER, Stud, in Hum. p. 5. Non sono que: Sei in fondo, che formazioni e syolgimenti del principio del EIKCE. \ È la prima definizione del Pragmatismo, secondo lo. Schiller: «'The doctrine that lrw{hs are logical values» (Stud in Hum.) p. 5. Me: ati t 44 vera deve venir dichiarata e provata, e non si dichiara nè si prova che nell'applicazione, nell'uso che 30. ne fa: la verità di un'asserzione dipende dalle sue applicazioni . Le verità astralte, come tali, non sono verità. Perfino le verità aritmetiche derivano il loro esser vere dall'applicazione all'esperienza. Osservale per esempio ll’ enunciazione astratta: 22=4. Esso è incompleta. Noi dobbiamo, prima di aderirvi, conoscere a che cosa si applicano 2 e 4, poichè l’enunciazione non sarebbe ugualmente vera applicata a due leoni e due agnelli; a due piaceri e due dispiaceri, a due + due goccie d'acqua, ecc. Così si dica delle verità tutte in generale . Vi sono delle verità fuori d'uso, e vi sono delle verilà che chiedono d'essere incarnate nella vita concreta. Finchè non operano nel mondo della esperienza immediala sono ambigue ; solo la potenza e le conseguenze del loro operare le tolgono all’ambiguilà mostrandole, con la verificazione esperimenta- M le, vere o false. Le verità sono regole per l'azione; ma una regola che rimane nei campi dell’astratto non significa nulla, non regola nulla: il significato d'una legge sla nelle sue applicazioni ec ogni st gnificato dipende dal proposito , perchè qualunque applicazione della verità all'esperienza è in istretta connessione con qualche fine il quale determina ta natura dell'intero esperimento. Per ragione della dipendenza della logica dalla psicologia, ogni signifi E la seconda definizione del Pragmatismo Stud. in Hum. p. 9. ; Ria ioè: sono in potenza alla verità € alla falsità. 0) mind di questo AT delle idee astratte lo SCHILLER nana consacrato un saggio intero: il V (Stud. in Hum): The ambiguity of Truth. Secondo SinGWicK_ seguito in questo dallo | ScuiLcer le parole sot.olincate contengono l'essenza del med todo |pragmatistico, e ne sono la terza definizione (Stud. in Hum,). Questa defin. del Pragmatismo risulta dalle due PD denti. ib pi A La teoria della verità e della realtà cato è selettivo e teleologico: il giudizio logico è «valutazione. Resta da rispondere alla seconda questione: « A qual parte della nostra esperienza è. attaccata la ricognizione della verità? » i Re: _Ciot: a che cosu riconosciamo o neghiamo noi 1l valore di verità? Qualìi sono i principi direttivi nella valulazione della nostra esperienza? È «vero» ciò che è praticamente buono, sta bene; ma che cosa chiamiamo noi «praticamente buono? La risposta a quesla questione dice lo Schiller ci mette nel cuore siesso del Pragmatismo, ci spiega in che senso il Pragmatismo professi di avere un criterio di verità » . E la risposta non è diflìcile. Il nostro pensiero tende all’armonia e alla quicte del pensiero, a ridurre a sistema, con un lavoro di selezione guidala dall’interesse, il complesso della esperienza, a coordinare, in visla d’un fine, tutti gli elementi della vilu: quindi è vero, (cioè buono, il che è, per lo Schiller lo stesso) «ciò che armonizza con le leggi proprie del pensiero e con tulta la nostra esperienza anteriore » e ci serve di base e di centro vitale per ulteriori esperienze. È vero ciò che ci fa progredire. Il possesso della verità non è fine a sè stesso, ma mezzo per la soddisfazione di qualche necessità della vita . La verità non è altro che la via, per la quale noi siamo condotti da un frammento dell'esperienza ad allri frammenti che mette conto di far nostri . La verità è una guida all’azione. Mettiamo ch'io mi trovi sperduto in una selva în pericolo di morir di fame. Scopro qualche cosa che assomiglia ad una strada, immagino in fondo ad Cssa una casa; mì melto in viaggio e mi salvo. La Stud, in Hum, Essay IZumunism. Essay Il Pragmatismo | I rappresentazione della casa è vera perchè è verifi\i cala dalla sua ulilità; mi salva facendomi prendere | la strada che vi conduce . Questo semplice e per| severante carattere di « guida» che possiede e mo| stra una rappresentazione è il vero prototipo del processo della verità. È vera quando, finche-e in quante conduce n: e si intende vera di verità reale; potenzialmente è vera la rappresentazione alla a condur-ve, falsa la inutlu. ’lulto ciò sta bene. Ma un complesso di valutazioni soggettive, individuali, che sono il prodotto di inte- da ressi psicologici e mirano ad una soddisfazione s0ggettiva, non può formare che un complesso di verità soggellive, individuali: la mia esperienza è soltanto n la miu esperienza; le mie valutazioni sono soltanto valulazioni mie: come si esce dal soggettivo? non x | siamo in pieno «solipsismo? » No risponde lo eo Schiller. Nessun protagorcamisla (umanista), facendo na dell'individuale il suo punto di partenza, intende fili fermarvisi. Egli sa che 1 giudizi individuali non sono che una piccola percentuale di quelli riconusciuti come vulidi. Sa che l'uomo è un animale sociale e che la verità è in gran parle un prodotto sociale. La verità non ‘si salva finche rimane pura valutazione individuale: Ra. bisogno di una ricognizione sociale, deve trasformarsi in proprietà comune, E diventa sociale appunto per lu sua utilità ed efficienza. Come nell’individuo. Anche lo ScuiLLer parla spesso della «con: duciveness a «proprietà di condurre», come di un criterio di Verità, Le «conseguenze pratiche» non sarebbero in fondo, che questo « Hinfùhren» che permette poi uni specie di «previ-. sione » di cio che è utile, Cf, a questo proposito: «La previstone nella teorin dellu conoscenza » (rinnovamento A. I, Fa‘scicolo II, 1907) CALDERUNI. Vi.Si dice tra l'altro: « Per conseguenze pratiche» vanno intese le esperienze particolari ‘che la dottrina o l'affermazione in questione permette di pre«vedere» p. 191. «Esperienze che costituiscono il criterio non | solo della verità e della falsità ecc. -& Del «solipsismo» lo SCMILLER si occupa nel Essay (Stud. in Hum.) Absolutism and Solipsism. Per | questione se «l'empirismo radicale» sia «solipsistico» ctr ournal of Philosophy La leoria della verità e della realtà Îl criterio dell'uso, della ulilità regola Ie valutazioni soggellive, consolida e subordina i vari interessi ai fini principali delia vila, così lo stesso criterio (dellVuso) fa una selezione lra le valutazioni individuali e cosfruisce, con maleriale delle valutazioni scelle, la verità oggelliva che ottiene la ricognizione sociale. Ciò che non è socialmente ulile, elliciente, operativo, presto o lairdi viene eliminato. L'utilità sociale è così l'ultimo delerminante della verità . Protagora ha detlo: «L'uomo è la misura delle cose ». 1 commenlatori sì domandano: uomo si deve intendere in senso individualislico 0 generico? Tutte e due le interpretazioni sono esatte dice lo Schiller. L'umani smo di Proiagora era abbastanza vasto per estendersi all'uomo individuale e agli uomini , Egli riconosce dolie distinzioni di valore fra le diverse percezioni individuali : fra i giudizi di valore individuali si stabilisce una selezione dei migliori, che sopravvivono agli altri e si consolidano in grandi sistemi di verilà oggellive accettabili da tutti . Ed ora SI capisce anche come la verità è fatta (how truth is made), «come viene prodotla dalle nostre operazioni sui dali dell'esperienza umana. La conoscenza. cr'esce in estensione e in fidalezza (trustwartiness) per la fecondità e la buona riuscita del suo funzionamento, per l'assimilazione e incorporazione di nuovo materiale da parte dei complessi organici preesistenti di cognizioni. I sistemi (come organismi viventi) sono Im un conlinuo processo di « auloverificazione » di Humanism. Essay His Humanism Was Wide enough to em and men», Stud, in Hum., Ess. JI DI 34. RIS a Nel Teeteto di Platone sì fa dire a Protagora che, se le percezioni di uno non possono essere più vere di cuelle MATA AliTo possono, però est NOLOrI, Sopra il giudizio di mo ignorante o rdinario sta È saggio. Cfr.: Stud. in Hum. p° 35, sgg. melo ASI LUoO Humanism: Fra due teorie rivili noi accettiamo come vera la migliore, quella che possiede «greater conduciVeness». Con questo criterio (sclusivamente sì C astronomia copernicana, così semplice troppo complessi. Il Pragmatismo 49 prova della propria validità dalle conseguenze e dal potere di assimilare, predire, controllare fatti nuovi . Ma, a simiglianza di quanto avviene nel processo biologico, così anche qui assimilare significa transformare. Le verità preesistenti, alla luce delle nuove, per la compenelrazione delle nuove, assumono un aspetto dillerente e cambiano in realtà, inIrinsecamente poichè diventano più operalive ed efficienli in causa della loro maggior coerenza ed organizzazione; ci conducono meglio ai nostri fini, acquislano maggior capaciià di armonizzare le esperienze future in reiazione a noi, al nostro interesse e ai nostri desideri . In realtà siamo noi che facciamo la verità. Dipende da noi l’accettare o il respingere falli nuovi, muove esperienze: il fattore della sele ‘zione, è il nostro interesse, è la loro utilità rispetto a noi. È questo processo di fare la verità è continuo, progressivo e cumulativo. La soddisfazione di un intento conoscitivo conduce alla formulazione di un altro; una verità nuova diventa presupposizione di ulteriori imdagini . I così all’indefinito: la conqui sla della verita assoluta, cioè della verità adeguata ad ognì fine umano non è che un ideale, com'è pura: mente ideale la verità stabile, immutabile, eterna . Ogni verilà può esser mulala da una nuova esperienza. La Verità non esiste: esistono le verità. La Verità con leltera maiuscola è un mito. In realtà esi stono nel mondo umano soltanto le verità, altrettante quanti sono gli: uomini, cioè le rappresentazioni e le affermazioni praliche di cose che non sono, ma di vengono, e divengono per il polere che l'io esercita su di esse, lanto più eflicace, quanto più, con l’azione esso passa dall'incosciente al consapevole ed al ri liesso . Stud. in Iuni., «The Making of Truth», VII Ess. 194-195. Id,, ibid. 23, «A new truth, when established, naturally becomes ti e presupposition of SUECASE, SSDIora Ono (Id. ibid.) E, 4)Id,, Ess. VIII, par. 8, Pp. | ILEN a GIULIO VITALI, Note pragmatistiche. (Rassegna Nazio ita le.). de 4h La leorìa della verità e della realtà Qual'è dunque il senso accettabile della nola definizione della verilà: «accordo con l'oggelto, con lu realtà? » «La parola accordo dice James comprende ogni processo mediante il quale da una tappresenlazione alluale siamo condotti ad un avvehimento fuluro corrispondente ai nostri interessi v bisogni, cioè utile alla nostra progressiva evoluzioue» (#). IL nostro dovere, poi, di cercare e di riconoscere la verilà non è che una parte del dovere geherale di cercare e di riconoscere ciò che torna conto. Il tornaconto, contenuto nelle idec, è l’unica ragione che ci obbliga di allenerci ad esse» 3). k lo Schiller: «La risposla alla questione » Che cos'è la verità? è la seguente: se si ha di mira il fallo psichico della verilà-valutazione, là verilà può definirsi: «la funzione finale (ullimate) della nostra allività infellelliva; se si ha riguardo agli oggetti valutati come Veri essa è: quella manipolazione di essi che lì rende Utili primariamente ad ogni fine umano, ultimamenle allu perfetta armonia della nostra vita intera che cosliluisce Ja nostra uspirazione finale. La dottrina della realtà è affine a quella della verità anzi S’identifica, ìn un certo senso, con essa. ll principio umanistico di Prolagora è universale: umano genera e informa lutto ciò che è; anzi...j ma uscolliamo i due leaders del Pragmatismo. Il Pragmalismo segua un passo in avanli nell'a niutusi della nostra esperienza è, quindi, un prog) sso ln quella cognizione di noi stessi dalla quale dipende. li-cognizione del mondo. ‘ale passo in avanti non è Ineno imporlanie di Quello che, nella storia della filosofia, ha fatto compiere alla questione cpistemolologica la priorità sulla questione ontologica . Vorles Das Lolnende, das unsere wahren Ideen enthalten, ist ner DES Grund, der uns verpflichtet uns an sie zu halten» SCHILLER, Humanism : at loin | + cat Il Pragmatismo Che cos'è la realtà? Così, cioè in lermini ontologici, era posta ia questione fino a Kant, Ebbene, fino a tanto che non si melle in chiaro come la realtà possa venire in noi, è impossibile qualsiasi risposta alla questione; non esisfe, per noi, nessun reale se non in quanto è conosebile; una realtà inaccessibiie alla nostra cognizione è inutile e quindi si distrugge. Perciò la vera formazione del problema metafisico è questa: Che cosu posso io conoscere comc reale? . La dollrina della reallà è condizionala dalla dottrina della conoscenza; la ontologia suppone come fondamento la epistemologia: ecco quella che Kant chiamava: «la rivoluzione copernicana in filosofia ». Orbene, una rivoluzione copernicana compie ora il Pragmalismo rispello alla formula epistemologica. lisso dice: ta nostra conoscenza non è una operazione meccanica di intelletto puro. spassionato: i nostri interessi ci impongono le condizioni del rivelarsi a noi delle reallà. Questa, infalli, ci rivela soltanto quegli aspelli che sono termine di un nostro desiderio attuale, di una tendenza a conoscere: tutti gli altri sono per noi inconoscibili e quindi irreali. BERGSON +- il rappresentante, in Francia, della Philosophie nouvelle scrive: «La vita esige che noi apprendiamo le cose nel rapporto che hanno coi nostri bisogni. Vivere consiste nell'agire. Vivere significa accettare degli oggetti soltanto l'impressione wfile », Ze Itire, Paris, Altan 1908, « Noi cerchiamo fino a qual punto l'oggetto da conoscere è questo o queto, in qual genere noto rientra, e quale specie di azione 0 di attitudine dovrebbe suggerirei (Introduction a ta Métapliysigue). Cfr. anche La cultura dell'anima, Vol. 8. ENRICO RerGSON: Lu filosofia dell'intuizione, trad. del PAPINI. Il Bergson è pragmatista? Risponda lui stesso: « Bisogna distinguere due maniere profondamente differenti di conoscere una cosa... la prima si ferma al relativo, l'altra ragglunge l'assoluto...; quella è l’analisi, la cognizione per simboli, per concetti, condannata ad aggirarsi unicamente intorno all'og: getto...; questa è la intuizione, ossia quella specie di simpatia intellettuale per cui ci si trasporta nell'interno d'un oggetto | per coincidere con ciò che ha di unico e per conseguenzi d'inesprimibile; con l'assoluto »... «La prima nasce dalle esigenze della vila pratica e non è filosofica, ma empirica: lil seconda nasce dall’affrancamento dagli schemi pratici, dal concetti-ctichette ed è quella per cui è possibile la vera meta 46 La teoria della verità e della realtà Non cè reale per noi, cioè non è conoscibile, se non ciò che è oggetto di una nostra tendenza, di un nostro desiderio e volere; e non si desidera, non sl vuole che il bene. Dal che si inferisce: nè la questio. «me di fatto (ontologica), nè la questione di conoscen3a (cpislemologica) sono possibili a considerarsi in(ipendentemente e senza coinvolgere come loro base la questione di valore (psicologico-etica) . Le nostre | valutazioni pervadono la nostra esperienza tulla «quanta e si applicano ad ogni falto, ad ogni cognizione. Perciò la verità della formulazione epistemalogica del problema della realtà è incompleta finchè «non realizza, tutto quello che è implicito nella cognizione nostra: cioè il desiderio, la tendenza, l’inteSEEGS 3 La completa il Pragmatismo così: Che cos'è la realtà per uno che aspira a conoscerla? «Reale» significa: reale per qual proposito? per qual fine? per qual uso? . È la «volontà di conoscere » che pons la questione e quindi non potrà venir risolta che in termini della volontà di conoscere . Ecco la spie| gazione. della diversità di dottrine che intorno al «reale» ci hanno dato le scienze e le filosofie. La dix rezione della sforzo determinata dalla «volontà di conoscere» entra come fattore necessario e isradica IN Di ar v fisica, cioè la cognizione dell'assoluto » (Ibid.} passim). E ancora: «Il faut s'habituer à penser l’'Étre directement, sans faire un détour.. Il faut tAcher ici de voir pour voir er non plus de vor pour agire. (L'Evolutlon creatrice). Bergson riedifica sulla intuizione il tempio dell'Assoluto che prima aveva fatto crollare dimostrando l'inanità dell'analist, della cognizione per idee astratte. Poco importa che non ci sia riuscito. (Cfr.; La filosofia di Enrico Bergson di Gius. PREZZOLINI, Rocca S. Casciano, Cappelli 1908; ATTOTTA, L'intuizionismo contro la filosofia, La Cult. Filos., A. TIT, N. TIT ecc.) La distinzione delle due differenti maniere di conoscere; intuitiva (metempirica) e analitica (empirica) spiega l'apparente inconciliabilità dei passi citati e d'altri ancora, Z/umanism. Id., Ibil. the answer comes in terms of the will to know which puts the question il. Il Pragmatismo urti . bile (ineradicable) in ogni rivelazione della realtà a nol. i La risposta alle nostre questioni dipende dal loro carattere, ma questo dipende in tutto da noi. Siamo noi che le poniamo così e così; l'iniziativa è del tutto nostra. Dipende da noi il consultare l'oracolo della nalura o l'astenercene; dipende da noi il formulare le nostre domande alla natura. Se la domanda è falla bene la nalura risponderà; se è fatta male non risponderà, e noi dobbiamo ritentare la prova. ci Che cos'è dunque la realtà? Procediamo -con or dine. Vediamo prima di lutto quali caratteristiche at « lribuiscano alla realtà le scienze. Scienlificamente, cioè, in quanto entra ed è trattata nelle scienze, la realtà presenta i seguenti caratteri: non è rigida, ma plastica e capace di sviluppo. non è reale assolutamente e incondizionatamenle, ma relaliva alla nostra esperienza e dipendente dallo stato della nostra cognizione) La concezione che noi abbiamo della realtà cambia e perciò: riduce spesso all'irreale ciò che è slato accettalo lungo fempo come reale. e) Una «realtà iniziale» (come una «verità iniziale») è reclamala da ogni cosa sperimentabile: è necessario, CENCI un principio selellivo che ci serva come di criterio a distinguere fra «realtà iniziale » e realtà reale. M vecchio oracolo ammonisce: ogni cosa ha due maMichi: bada di prendere quello giusto ». Emerson, American È Scholar. Rinn. A. (T. Fase. IT, Magia PEZZÈ PASCOLATO. « La natu ta, quindi non risponde sempre, a nostro piacere :... « Natura Mon nisi parendo vincitur», ha seritto Bacone ». Si noti bene Questa confessione dei pragmatisti: vedremo poi se è in corri. spondenza con altre loro asserzioni. SCHILLER. Stud. in Hum. Essay. Vedremo tto Ja differenza fra realtà «iniziale» (primaria) e realtà reale: VELA La teoria della verità e della realtà Contro la dottrina scientifica il Razionalismo afferma: «La reallà è immutabile, è finita e completa . da tutta VPeternità . Essa è una perehè ha un fine uno, forma un sistema, narra un'unica storia . La nostra esperienza della realtà è mulevole come la nostra cognizione della verità, non perchè verità e realtà divengano, mutino, ma perchè la esperienza dell'una e la cognizione dell'altra sono processi psichici: siamo noi che mutiamo 0). Verilà e Realtà sono indipendenti da noi: noi le scopriamo, conoscendo, non le fucciamo. La realtà è-stalica, rigida, uon migliorabile; è e sarà quello che è stata; non diviene 4). Il Pragmatismo si pone dal punlo di vista delle scienze. Per csso la reallà assoluta è futile e dannosu come la verilà assoluta per le medesime ragioni. Lu concezione della realtà assoluta non entra nelia nostra cognizione attuale della realtà ; non e conoscibile, il che è quanto dire: non esiste. Non esiste la realtà: csistono le realtà; cioè le nostre esperienze, che crescono e decrescono. Fingiamo che le realtà ora conosciute e accetlate siano un milione : tsse non esauriscono tulle ie possibilità dell'univerSO: VI possono esistere accanto ad esse allri dieci milioni, capaci di essere scoperti e riconosciuti-come lalî se noi applichiamo certi esperimenti che sono in mostro potere: molle realtà in potenza, cioè irreali, al presente, possono venir realizzale dai nostri sforzi E viceversa: molle delle realtà conosciute possono benissimo, prima 0 poi, essere dichiarate irleali e rigellale . Non v'è nulla di assolutamente posto. La realtà come la verità, diviene senza posa. La natura James SCHILLER. Stud. in Juri, VITI D, Stud. in Mum. È lui che sottolinea. iii Sali Il Pragmatismo delle cose non è delerminata ma determinabile come quella dei nostri simili. Prima del nostro esperimento su di essa è indeterminata non solo per la nostra ignoranza (soggettivamente), ma da ogni punto di vista, cioè anche realmente (oggellivamente); si determina sotto i nostri esperimenti come il carattere umano. La nozione del «fatto in sè », come quella della «cosa in sè, è un anacronismo filosofico. Noi chiediamo allo Schiller: su che cosa facciamo i nostri esperimenti se la reallà non c'è e se è di pendente da noi? Schiller risponde: Noi ammelliamo bene, a guisa di postulato, una base iniziale di fallo, come condizione dei nostri esperimenti , ma quesla prima base è affatto indelerminala e plaslica: può divenlare tullo quello che nvi vogliamo che essa divenli {8). Fra le infinile possibilità noi possiamo scegliere e realizzare la migliore . Noi chiediamo ancora: «qual'è la natura delia realtà iniziale prima, della base di fatto dei nostri esperimenti? » E come può ammetterla il Pragmatismo se essa sfugge alla nostra esperienza, se non è conoscibile?» Schiller risponde: «La difficoltà di concepire nel Pragmalismo l’accellazione del falto come base non dev essere traltala come obbiezione ai metodo prag=* matico, ma come un mezzo per mettere in rilievo lulto il suo significato. Dalla pertrallazione di essa potrebbe ricever luce la distinzione importante tra realtà che è «fatta» soltanto per noi, soggettivamente, cioè «scoperta », e ciò che noi supponiamo che venga «fatto » real Humanism, p. 12 in nota Stud. in Mum. vp. 428-XIX. x EMERSON scrive: «Com'era plastico e fluido nella mano di Dio, così Il mondo è in mano nostra». Queste parole sem: brano un commento alle parole dello Schiller: « Noi possiamo quanto può Dio nello schema intellettualistico di Leibniz». «E il nostro dovere e il nostro privilegio di cooperare nella formazione del inondo », ibid. Stud. in Hum. mente, oggettivamente, in sè. Che noi facciamo tale dislinzione è chiaro, ma perchè la facciamo? Se tanto ìl soggettivo come l’oggellivo « facimento della rcalla» {making of reality) sono il prodotto dello slesso processo cognoscitivo, sotto l'impulso degli sforzi soggellivi, come può sorgere o mantenersi, da ullimo, quella distinzione? Ebbene: anzi tutto è chia «ro che l'accellazione del metodo pragmatico nè ci ; costringe ad ignorare quella distinzione, nè ad affer i mare «the making of reality » in senso oggettivo. Sia È può benissimo concepire quel facimento come pura| mente soggettivo, solo in rapporto alla nostra coquizione della realtà e punto in relazione alla sua esistenza abituale. Il Pragmatismo non fa della melafisica, ma della epistemologia: si può essere pragmualisli in epistemologia e realisti in metafisica. Sia che si ammetta, sia che si neghi che la realtà è fatta da noi anche oggettivamente resta sempre vero che sono necessari i nostri sforzi per iscoprire la ‘vcealtà, che i nostri desideri, i nostri interessi deb è bono anticipare le nostre «scoperte» e farci la via id esse e che, perciò, la nostra concezione del mondo .clipende sempre dalla nostra selezione soggettiva di Giò che cì inleressa di scoprire nella tolaliltà dell’esi stenza . },Noicì proponiamo i nostri fini, noi scegliamo i noSti mezzi; noi foggiamo «cause» ed «effetti» nel Jlusso omogenco degli eventi . Per noi la realtà iniziale è pura potenzialità, come la. verità iniziale è «Je» {materia prima) di tullo | ciò che è deslinalo a diventar reale . È un concetto # Ride: un: punlo, di appoggio, e di partenza delia ; U.C0E e; è la possibilità indeterminata di tutto cio che sarà, di lutto ciò che noi facciamo, co nuscendo: ogni realtà attualmente riconosciuta si., È Il Pragmatismo deve concepire come evoluta dal processo e nel pro: cesso conoscitivo nel quale ora la osserviamo e come destinata ad avere una storia . Per la teoria praginalica della conoscenza i principî iniziali sono lelteralmente dei semplici termini @ quo, scelti variamente, arbilrariamente, casualmente, nella speransa e nel tentativo di avanzare verso qualche cosa di meglio . lullo ciò che è, è reale. Bisogna distinguere fra vealtà «primaria» (primary reality) e reallà reale (real realtty). La realtà primaria è semplice domanda di divenir reale: è la realtà non veryicata © compele anche alle «apparenze ». Non c'è distinzione nè criterio di distinzione a priori fra apparenza e realtà. La distinzione sorge soltanto quando la mente, mossa dall'interesse, dal desiderio di operare su di essa passa a controllarla . La reallà «primaria » che risponde alle noslre domande interessate diventa realla «reale»; quella che non risponde ad esse si manifesta come apparenza. La realtà reale non è che la realtà primaria passata a traverso il fuoco del criticismo esperimentale e promossa a un grado superiore. I poiche gli interessi crescono. e variano continuamente e i propositi sono continuamente difterenziati, anche la realtà « reale » cresce in complesstla, viene dillerenziala in serie, le serie si ordinano in sistemi, i sistemi vengono coordinati e- subordinati fva loro . E così all'inciciimto. Il processo della nostra co-, suizione della realtà (= della nostra creazione delle reullà) si estende dal caos assoluto fino alla saddisfuzione assoluta. Watever [sic] is, is «real» ls what we begin with,.«real» reality which has survived the fire of criticism and been promoted to superior rank. Le conseguenze provano la realtà come provano e fanno la verità, SCART ROTA À ge La teoria della verità e della realtà La realtà è plastica. Forse la lasticilà del reale dipende anche da una vena di indeterminazione, di libertà che corre per l'universo: questo giustifica il nostro trattamento delle idee come di forze reali e Passerzione cho il nostro fare la verilà è necessarlamenle il /ure ia realtà . Conoscendo facciamo la verità e la realtà. Neila elaborazione connoscitiva. della nostra esperienza «reallà» e «verità» crescono pari pussu . Realtà significa « realtà per noi» precisamente come verità è «verità per nol». Noi assumiamo come «reale» e accettiamo come « fatto » ciò che giudichiamo come « Vero » . E il vero è il bene, l'ulile; l'elica, dunque, è la base della melafisica e della logica. È il James: Keallà è ciò di cui le nostre verità debbono dar ragione, debbono controllare. Da queslo punto di visla la corrente delle nostre sensazioni costituisce la prima parte della realtà. Esse ci sono imposte, ci vengono non si sa donde. Non abbiamo nessun controllo sulla loro natura, sul loro ordine e sulla loro quantità. Esse non sono nè vere nè false, ma semplicemente sono. Sollanto ciù che noi diciamo di esse, i nomi che diamo loro, le teorie intorno alla loro natura, al loro essere, ai loro rapporti possono essere veri o falsi. Il secondo elemento della realtà è costituito dai rapporli tra le sensazioni e le immagini loro nella 4 Siamo in piena metafisica e come! Non solo la livertà è nel reale ina anche la cognizione. « L'usare e l'essere usato implicano «conoscere a cd cssere conosciuto («to use and to be used includes to know and to be know. La nozione della materia morta non trova più favore nella scienza moderna Bul is not this sheer hylozolsm?2 Non importa: l'umanismo è largo: non indietreggia davanti alle parole « ilozoisino » 0 « panpsichismo » posto cne siano utili alla interpretazione del basso (inferiore) in termini del superiore, « Sebbene non sia che un metodo, tuttavia esso inclina a questa 0 et quella metafisica secondo che meglio corrisponde a’ suoi canoni fondamentali, Stud, in Hun, JAMES vr arde è RS | eee VI Il Pragmatismo nostra coscienza. Di essi alcuni sono variabili e accidentali; p. es. quelli di spazio e di tempo, altri sono sempre uguali a sè slessi ed essenziali perchè si fondano sulla intima natura degli oggetti corrispondenti. Gli uni c gli altri di questi rapporli vengono percepili immedialamente: sono «falli ». Tultavia la spe cie di falli più importanti per la teoria della conoscenza è l'ullima, perchè comprende le relazioni e- sas terne, le quali vengono apprese ogniqualvolta gli Da i oggelli sensibili sono messi in rapporto fra loro e | debbono essere sempre riconosciute dal pensiero logico-matematico: Il ferzo elemento della realtà consta delle verità È antecedenti che debbono esser prese in considerazio- es ne in ogni nuova ricerca: questo elemento ci oppone | molto minore resistenza degli altri due: finisce quasi ty sempre col cederci il passo. i Ora, sebbene questi elementi della realtà siano un po’ fissi, tuttavia, operando in essi godiamo di una cerla libertà. Le sensazioni, p. es., sono, è vero; il loro essere non dipende da noi; però dipende da noi, dal nostro interesse di rivolgere l’attenzione a queste più tosto che a quelle; dipende da noi di tener + a conto di alcune e di tralasciare le altre; dipende da noi di dare, nei nostri giudizi, una importanza decisiva alle prime 0 alle seconde . LS Noi leggiamo le stesse cose diversamente secondo il punto di vista da cui le guardiamo. La battaglia di Waterloo è considerata come riltoria da un ingle‘se, come sconfitta da un francese. Così l’ottimista. legge nell'universo la parola « vittoria», il pessimi. Id., îbid, Come? tra le verità antecedenti vi sono ancl le relazioni elerne fondate sull'intima struttura dell'oggett mi cedono il passe anche queste? Ma il loro valore non è i discutibile? non formano esse la struttura del nostro pensiero? ‘Non deve riconoscerle sempre il pensiero logico-matematico? À parte questa incoerenza, è certo che il James non sl pre «senta con le audacie quasi spavalde dello Schiller: a vol sembra di trovarsi, leggendolo, davauti a un realista e intel | lettualista autentico. Cfr. « Revue Néo-Scholastiguev, Vol. 15, «Bulletin d’Epistemologie. = James, pers i: La teoria della verità e della realtà È, sta la parola «sconfitta». «La esistenza della real- © tà appartiene (ad essa) ma il contenuto suo dipende dalla nostra scelta, e la scelta dipende da | noi» . La realtà è muta. Le sensazioni dei rap (SAh porli loro non ci dicono niente intorno alla propria natura: siamo noì che parliamo per loro. Noi rice 2 viamo il blocco di marmo, ma siamo noi che vi scol piamo la statua. Giò vale anche per le parli « eterne » della reallà. Noi scompigliamo le nostre percezioni Mei rapporli inlrinseci e le ordiniamo a nostro pia . cere; le classifichiamo in serie, le raggruppiamo in classi, consideriamo ora l'una ora l’altra come fondamentale, finehè le nostre credenze formino quei sistemi di verilà che conosciamo solto il nome di logica, di geometria, di aritmetica. Im ognuno di quesli ‘sistemi la forma e l'ordine è evidentemente opera (umana . È difficile parlare di una realtà indipen «| ‘dente dal nostro pensiero. Essa si riduce al concetto di ciò che è già nel campo dell’esperienza, ma non è | @ncora denominato, oppure all'assolutamente mulo, o a, un limite puramente immaginario della nostra coscienza . Ad ogni modo è inaccessibile, inaffer | rabile: quando crediamo d’'averla còlla noi ci troviamo lra Je mani un semplice surrogato, una crea . lura del pensiero umano anteriore che ce l'ha rega lala per il noslro uso e consumo . La corrente delle sensazioni c'è, chi lo nega? Ma ciò che noi di ciamo di quel flusso è creazione nostra dal principio sino alla fine. Noi condensiamo la corrente plastica | în cose, a nostro capriccio: noi creiamo i soggetti e 1 predicali*dei nostri giudizi veri e falsi: tutto cià «che è, è frutto della nostra elaborazione. «Il mondo «| non è come vogliono i razionalisti l'edizione in (1 1a. dbig. « Die Existenz der Wirklichkeit gehòrt ihr, aber hr Inhalt hingt von der Auswal ‘ RO vahl, und die Auswahl hangt Ia., ivia. Il Pragmutismo folio infinita, l'edizione di lusso elernamente complota che le coscienze individuali non riescono a decifrare nella sua interezza e rifanno in lante piccole edizioni finite, piene di errori di stampa, più o meno deformate e mutilate; ma è un’edizione non ancora perfetta, che viene completandosi a poco a poco specialmenle per l’attività degli esserì pensanti » . E questi la stampano nelle loro edizioni; la plasmano nei loro schemi connoscitivi, in mille modi diversi, secondo i loro diversi fini. E quei modi son lutti veri, hanno tutti lo slesso valore di verità se rispondono al fine per il quale furono elaborati. L'anatomico con sidera l'individuo come un organismo: la sua realtà sono i suoi organi ; l'istologo vede in esso un comples- È so di cellule, il chimico un insieme di molecole . Il n numero 27 si può considerare come la terza potenza di 3, come il prodotto di 3 e 9; come la somma di 26 + 1, come 100 73, ecc. ecc. Noi siamo creatori nel 0, conoscere come nell’operare. Il mondo aspetta la sua forma _finale dalle nostre mani, Così il Pragmatismo apre nuovi orizzonti alla forza divino-creatrice delPuomo ; così il pensatore è rivestito di dignità LI nuova piena di responsabilità. 6 i Noi «solleviamo ad altezze nuove la realtà pree- » sistente » se sappiamo credere, agire, lottare: la fede ci fa salvi, ci porla alla conquista dell'universo, ul niglioramento progressive della realtà La no: stra sorle è nelle nostre mani! Lungi da noi il fatalismo, il quielismo, l’indifferentismo: la vita è un ar: cobaleno: vi troviamo tutti i colori, a nostro grado: la noslra azione ve li crea. a VP Cfr.: La cultura filosofica, N. 2, Pi 124, > dove ho tolta la traduzione delle parole qui citate. . Ù La frase è di PAPINI, der Fiihrer der italienischen Pragmatisten » come lo chiama il JAMES. NP». int Le parole sono prese dall'EuckeN ima non si ha alcuna e) citazione di opera; EUCKEN parla di una « Erhohung des vorge i fundenen Dascins. ine. , James, p. 170 sgg. SCHILLER: «like a rainbow Life glitters ti în all the colours». /fum,, \?, uindi, o uomini, imparale a conoscere voi stesvi consapevoli delle vostre vocazioni; inallargate le vostre finalità: sollevatevi i | dominazione in dominazione; sappiate volere e sappiate creder?, cioè uermare con tutto il vostro essere che le cuse stanno realmente come voi le poele, © le cose vi ubbidiranno, e la fede \} farà salvi, ioè vi permetterà di conseguire i. fini della vostra esistenza. Sappiate che dopo lutto la verità non esiste in sè; ma parlate, pensale, agile come se real ente fosse tal quale voi la vedete, voi non servi, na padroni suoi © suoi fallori» . Questa è lu dottrina della realtà sostenuta dal agmalismo. LA RELIGIONE ‘NEL PRAGMATISMO Sommario: x l. Le preoccupazioni etiche e religiose. L'esistenza di Dio. Il concetto di Dio. \ 4. Religione e religioni. Esporre con una certa ampiezza le dottrine pragmaliste, senza fare un posto speciale al modo con cui in esse sono presenlali e risolti i problemi religiosi, sarebbe una mancanza grave. Chi ha studiato o lello con amore, le opere al meno le principali dello Schiller e del James, sa “che, allraverso ad esse, si sentono passare, come n fremito, più o meno distintamente, due preoccu| pazioni; luna, più generale, che tulto pervade, tulto “colora, tulto fondamenla: la preoccupazione etica: l’altra, più speciale, che nasce dalla prima come condizione necessaria o postulato del coronamento dei valori e delle esigenze eliche: la preoccupazione religiosa (I). È vero che questa (la religiosa) nello Schiller non è così intensa e così manifesta come nel James; lo Per questo io credo che, se si può e si deve parlare di nn pragmatismo religioso (e così pure di uno epistemologico, metafisico ed estetico) come di un complesso di applicazioni del principio del Peirce alla religione (alla metafisica cecc.), non si può invece parlare di un pragmatismo etico, come di lina specie 0 soltospeci® del pragmatismo: Tutto il pragmaismo è etico: l'etica è alla base della epistemologia, della mea Lab della SESLIgione °, della IOICUCE Di quest'ultima non È ames e Jo Schiller non se ne son Ù A articolare, Il non ne sono occupati La Religione nel Pragmatismo Schiller il véro filosofo del pragmatismo, sebbene meno popolare del James ha lavorato sopratlulta a stabilire e consolidare la base stessa dell’edificio: il carattere, cioè feleologico-morale di ogni nostra attività e di ogni prodotto dell’altività umana: tuttavia sono numerosi i saggi nei quali egli si occupa ex-professo, più o meno largamente della religione, V, e da per tulto si sente che per lui la religione vale. - Del resto: non ci dice lui stesso, espressamente, che il pragmatismo «non è soltanto un movimento che riguarda un insieme di dottrine tecniche intorno al 7 problema della conoscenza, ma anche un tentativo di determinare i rapporti tra «fede, ragione e reli . gione?» . Quanto ai James è nolo per la sua stessa confessione che la prima applicazione da lui falla del principio del Peirce fu un'applicazione ai problemi KS. religiosi . Ed è noto del pari che, dal giorno del ; suo primo discorso pragmatista all'Università di Ca È lifornia (1898) fino all'opera: « A _Pluratistic Univer| Sen, attraverso la «Volontà di credere», « Le varie forme dell'esperienza religiosa» e «Pragmatism », lulte le volte che gli si presentò l'occasione, ha posto \ e risollo, a modo suo, i più fondamentali tra i pro- i blemi della religione. Il James fu un? anima carat- leristicamente religiosa. Dice di lui il Boutroux: Egli ebbe da suo padre una tenerezza intima per il inisticismo del grande pensalore svedese Swedlenborg, il principio del quale era la relazione tra’ gli esseri terrestri e le potenze spirituali. Questa «dottrina Swedenborshiana. circola traverso tutta la opera del James» . Egli lrovava «la forza e lu pace del cuore e dello spirito nella fedeltà alla crcdenza che fuori del mondo del nostro «pensiero co: Sciente ve ne sono altri, ai quali noi allingiamo le energie capaci di arricchire e di trasformare la no- Studies in Humanism, Essay XVI, p. Pragmatismus. BOUTROUX, IV. James (Rev. d 5, Db, isa Metaph. et de Morale, SEE.culi Il Pragmatismo stra vila» . «Chi sa scriveva egli, conchiudendo un’opera classica sulla religione se la fedeltà di ogni uomo alle sue umili credenze personali non possa aiutare Dio stesso a lavorare più efficacemen{e ai deslini dell'universo? » . Aggruppo l'esposizione intorno a questi tre punti: Esistenza di Dio; Concelto di Dio; Religione e Religioni. Cominciamo con James, La storia della filosofia è in gran parte la storia del conflitto dei temperamenti umani, Ogni filosofia è l’espressione, il riflesso del carattere intimo dell'uomo, la traduzione in idee del lemperamento; ogni intuizione dell'universo (We/lanschauung) è nè più nè meno che un complesso di reazioni del carattere umano assunte, o a propria insapula, o deliberatamente, in faccia alla realtà . Questo spiega il sorgere dci sistemi e il batlagliare continuo dei filosofi. Noi possiamo distinguere due principali tipi spirituali d'uomini aventi caralterisliche affalto diverse: l'uomo dalla (empra tenera (lender-minded) e l'uomo dalla tempra dura (tough-minded), cioè il tipo simpatico c il cinico . Mettele questi due tipi profondamente diversi in faccia all'universo e chiedele loro una dottrina: avrele da una parle il malerialismo sensualista, con lutto il suo contenuto di scetticismo e di pessimismo, come traduzione del temperamento rude e cinico; dall’altra lo spiritualismo con contenuto ottimistico, quale espressione deì tipo dalla tempra tenera. L'antagonismo di queste due dottrine, il contrasto dei due lemperamenti malcrialistico e spiritualisti co assumono tulto il loro speciale rilievo di opposizione davanti al problema dell’esistenza di Dio. Il L'Expérience religleuse, p. 436. /ui, p. 437. : Li Mi JAMES, Der Pragmatismus, I Vorl. p. 3-6; 4 Pluralistio. ; Universe, p. 20 Der Pragmatismus, p 7: A Plural. Univ. La Religione nel Pragmatismo complessa delle cose che vediamo, che esperimentia. mo e che abbiamo convenuto di chiamare « mondo » sono il prodotto della materia o di Dio esistente fuori e sopra la maleria? «La materia produce tulte le cose 0 e'è anche un Dio?» . Ecco il problema. Il quale non sarà risolto mai e la storia è là a dimostrarlo in base alle vuote, astratte e. sottilissime discussioni sull'essenza intima della materia € sui suoi caratteri osservabili o su pretese visioni htelleltualistiche de! Dio che è in questione . Ogni speculazione è impotente di fronte al materialismo ateo a dare una solida base razionale alla religione: i due grandi (entativi sistematici di dimostrazione dell’esistenza di Dio il teismo scolasti ‘co e l'idealismo trascendentale hamno fallito al loro scnpo. Tulli conoscono gli argomenti classici della filosolia Scolastica. Ebbene, Hume, col cacciare per sempre la causalilà dal mondo fisico, ha reso impossibile ogni inferenza dal creato a una causa prima; del resto l'idea di causa è troppo oscura per servire di fondamento a tutta una teologia. Dopo Hume, Kant ha dimostralo che, Dio, l'immortalità e la liberlà, non avendo alcun contenulo sensibile, sono parole vuole di-senso dal punto di vista della conoscenza (corica, e ha fatla giustizia una volta per sempre della vecchia leologia, che ora non regna che nel volto e non è difesa che da qualche ritardatario. Il darwinismo ha dato il colpo di grazia alla prova per mezzo delle sue cause finali. L'ordine e il disordine che noi troviamo nel mondo non sono che invenzioni umane: chiamianio ordine ciò che corrisponde a un nostro ideale, disordine ciò che se ne I metodo praginalista in: Saggi pragmatisti, p. 15 (traduzione PAPINI). Occorre far notare che questa visione degli ontologi non è da confondersi con la ?n!uizione del sentimento, intuizione sorda e vivente, della «philosophie nouvelle»? Vedi: PIAT, Insuffisance des Philosuphies de l'Intuition, p. 129, Sg. Il Pragmatismo 61 allontana . Finalmente il pragmalismo, cacciando dal mondo la necessità logica, ha tollo ogni sperana di una soluzione per coucetti del problema in questione, di modo che le prove dell’esistenza di Dio non sono valide che per coloro che già credono in Dio i e debbono trovare degli argomenti per difendere tale 3 3 i A “precredenza . ; L'idealismo trascendentale non è più felice nel suo SG tentativo di dare una base solida alla fede: vedremo quali assurdilà sono implicite nel concetto di una coscienza concrela infinita che sarebbe l'anima de! x - inondo: vedremo a che si riduce l'Assoluto. e «E allora? Quale altra via rimane aperta per risol vere il problema? Già nell'opera : La volontà di credere, il James assegnava ai molivi emozionali un valore definitivo, nel casu che l'intelletto non polesE se offrire delle ragioni sulficienti per l'adesione a i doltrine di caraltere religioso. La via è aperta: metliamoci in essa. La questione: « Dio esiste? »per il pragmatismo si risolve in questa, più determinata e più chiara: «Quali conseguenze pratiche importa (| per la reallà, per noi, l'esistenza di Dio?» Se prali= camente, cioè dal punto di vista del criterio della uti.lita pratica, la negazione dei malerialisti vale quanlo l’allermazione dei leisti, le due teorie sono equivalenti in lutto poichè delle teorie non esiste che il di lato e il valore pratico (9). 7 | Ebbene, la questione se il mondo sia creazione di Dio o prodotto delle forze materiali può essere conpe sideralo da un doppio punto di visla: relrospettivo + e prospettivu. lFingiamo che il mondo sia completo. ti ed evoluto in tutte le sue partì (punto di vista retro| spettivo). Esso non sarebbe che una somma di ri sultali buoni e caltivi, dalla quale è escluso. qualun Jaars, L'Expérience religicuse, D. 418 (in nota), p ce 369-331. ia a JAMES, L'Erpérience reliyicuse: « Pour celui qui déjà croit en Dieu ces arguments sont solides... La On {ltoure... des arguments pour défendre ces croyances le doit les trouver ». : di Ò NI Vol., p. 59; L'Experience JAMES, Der Prugmatismus, religlouse. INA La Religione nel Pragmatismo que aumento e qualunque alterazione. Da un mondo lale noi non avremmo nulla da sperare e nulla da temere, perchè il potere creativo, qualunque fosse slato, si sarebbe esaurito tutto in quello che è, che è irrevocabilmente, in tulle le sue particolarità: uno dono che ci è stato dato e che non può essere ripre- ì so. Orbene, in lale ipotesi, «quale sarebbe il valore «di Dio, sc ci fosse con la sua opera compiuta e ìl suo mondo già trascorso? » . Egli non varrebbe niente più del suo mondo; da lui, come dal suo mondo, non avremmo nulla da sperare e nulla da lemere, poichè egli, secondo tale ipolesi, nulla potrebbe togliere 6 aggiungere a ciò che è. A un Dio simile noi saremmo riconoscenti per quello che ha fallo, non per altro. lì ora prendiamo l'ipotesi contraria, che, cioè, le parlicelle di materia, seguendo le loro «leggi» polessero fare lullo quello che, nell’ipotesi precedente Da fatto Dio: saremmo noi loro meno riconoscenti che a Dio? «In che soffriremmo noi mancanza se lasciassimo cader: l’ipotesi di Dio e facessimo responsubile la sola maleria? Come, essendo l'esperienza definitivamente cd irrevocabilmente ciò che è sfata, “polvebbe la presenza di Dio in essa renderla più vivente e più ricca al nostro sguardo?» « Chiamiamo materia la causa del mondo e non leviamo neppure una parle di quelle che lo compongono; nè, sc chiamiamo Dio la causa, esse aumentano ». Dunque «materia e Dio significano precisamente la stessa | cosa, cioè il potere, nè più né meno, capace di fare | questo mondo celerogeneo, imperfello e tuttavia ter| Minato », e perciò «la dispula tra il materialismo e il leismo diventa, in questo caso, oziosa e insignifiante». Se la presenza di Dio «non porta un giro v lin risultato differente all'insieme del mondo, non Ù può certumente accrescerne la dignità; nè gli (al: RE TIE JAMES, 12 metodo pragmatista, in Saggi È : MES, li SI, gi pragmatisti, x D. 15-17. Noto una volta per sempre che le Datore Calo da 3 Saggi pragmatisti, e messe tra virgolette sono della traduzione | del PaPINI e del LruNarbo, Jl PAPINI ha tradotto IL Metodo | pragmatista dall'inglese, James, 0 Metodo Prag matista; Dì mus) ip, 06 g Dp. ; Der Pragmatis: mondo) verrebbe nessuna indegnità se Dio non hi fosse e se gli atomi rimanessero 1 soli attori ch È scena» . È saggio colui che volta le spalle a siffat‘la inulile discussione . 3 ‘Meltiamoci ora a considerare il mondo da un punto di visla prospellivo; poniamoci « questa volla nel inondo reale in cui viviamo, mondo che ha un fuluro, che è tullavia incompleto. In questo mondo non finilo l’allernativa di «ma lerialismo o teismo è intensamente pratica». Essa si può formulare così: «In qual modo il programma della nostra vila è allo a variare, secondo che si considerano i fatti dell'esperienza come configurazioni di atomi senza finalità (materialismo), oppure come dovuli alla provvidenza di Dio?» (teismo). È vero che in questo mondo non finito la materia fa prati camente lutto ciò che può far Dio, che essa equivale u Dio, che Dio è superfluo e cessa ogni legiltima richiesta della sua esisienza? E vero che «la materia, di cui paria Spencer, per la quale si compie il proi cesso dell'evoluzione cosmica, è veramente un prin| cipio di perfezione infinita quanto Dio? ». (8) Vediamo. Secondo il materialismo e la sua « teoria dell'evoluzione meccanica, le leggi della distribuzione della materia e del moto» sono rivolte incessante_Inente al disfacimento del mondo, «a dissolvere tutte le cose che hanno falto evolvere ». Così il Balfour cl rappresenta l’ullimo previdibile stato dell'universo quale ce l'ha dalo la scienza evoluzionista: «Le eNergie del nostro sistema si consumeranno ; la gloria del: TR cselrata, e la terra, inerle e desolata, a disturbato 1a oltre la razza che per un momento E SS GLILI a sua soliludine. L'uomo cadrà nel EF va suoi pensieri periranno. La inquieta a.. le «azioni immortali » moriranno, e l'ai More, più forte che la morte, sarà come se non foss mai slalo. Nè vi ‘'à Il i i sli se 1 sarà nulla che sia meglio o peggio i fu) d04, DD. La Religione nel Pragmatismo per lulto ciò che il lavoro, il genio, la devozione e la sofferenza dell'uomo avranno fentalo di effettuare durante età innumerabili » . Dunque la sorte ulti ma di ogni cosa e di ogni sistema di cose cosmicamente evolute è tragedia. Nulla rimarrà di ciò che è slalo: non un'eco, non una memoria: la rovina sarà universale. È si noti: « questa rovina e tragedia finale sono nell'essenza del materialismo scienlifico. Le forze più basse, e non le più alte, sono le forze eterne o quelle che sopravvivono ultime nel solo ciclo di evoluzione che noi possiamo definilivamente vedere. Ma se Dio esiste, i risultati pratici dell'evoluzione dlel mondo saranno ben altri. « Un mondo che conlenga un Dio che dica l’ullima parola, può bensi arderè o ghiacciare, ma però noi pensiumo che Egli pensa sempre ar vecchi ideali e ne assicura che alriveremo a goderne; perciò il naufragio e la dissoluzione non sono mai assolulimente finali. Ml bisogno di un ordine morale eterno è uno dei più profondi bisogni del noslro cuore. Qui giacciono i significati reali del materialismo e leismo...; matlcrialismo signitica Ja negazione del. l'ordine morale eterno e l'esclusione delle speranze ultime; il teismo significa l’afiermazione di un elerno ordine morale e dà libero corso alla speranza. Un'altra conseguenza pralica di grande importan: za deriva dalla affermazione feislica: il sentimento d'intimità col mondo. I mulerialismo con la sua visione impersonale dell'universo ci pone di fronte a una realtà muta, in: differente, brutale che distrugge via via ltutlo ciò che crea, senza curarsi del bene e del male, e dei bisogni umani. I bisogni umani! Ma che cosa è ma l'uomo per il quale si dovrebbe avere dei riguardi: L'individualità di ciascuno di noi è come una BalFOUR, The Fondalions of Belie{ (Le basi della fede) p. 30, citato dal JAMES in; Meludo praymatista, pp. 21-22, in. Der Pragmalsmus, JAMES, IL Met. Pragm., p. 22; Der Pragmat,, D. 66. Zuî Il Pragmatismo = rrasca, 7 are in burra sopra: unt ma senza trequi epolto;che Loano È AESLLUSRANO FOT sj venti e le onde c iizoirenomoni Uasc due i i non siamo che degli €} gli eventi . Come otza (dol flusso irresistibile deG Letta così falla? È Si simpatia e amore per o a senoi mettiamo 6, invece, nelle cose 0 MIO a esse ci appariscono n Dio una som idenzar allora. lime al nostro cuo| ù calde, viù vicine a e voni saremo più estra"o pensiero : e al Nostro La non lo saranno a noi. Ri Mg ici co ce eciesse: ‘agmalistico sì polrebbe dire Da un punto di vista DER fra il maferialismo e il le la differenza che passa fra de senlire i no: CE "nali el concepire e sentire ; O spiritualismo) nel concepire : I ROGIE BLOGO SÌ differenza sociale. £ i rapporti col mondo è una eee iamo malerialisti, noi dobbiamo DR È SIGrgnn {ra socio, il mondo, difidenti e USE E guardia che non ci GU slringorit Spiritualisli noi possiamo fidare li, S SECOLI Nexbitualisti SIAE n ere fidenti sulla nostra " tai Ise peosstere ident so utile, che on ai Rostri bisogni emozionali, che ci fa ‘Procedere coraggiosi nelle nostre esperienze sulla Tealtà nella speranza che ln realtà risponda alle do mande che le rivolgiamo, è una Sani UerisUca della | Verità, noi dobbiamo concludere che il (eismo è vero © il materialismo è falso. Vi sonoaltre ragioni che autorizzano a tirare conclusione in favore dell’esistenza di Dio. Se Dio, Egli produce differenze prati porti call'universo; se c'è un Dio, renze « nella sorte finale del mondo : lo. Ma possiamo dire d questa c'è un che nei nostri lap questo s'è vedu i produca differ . Ina durante tutto il ere che l’esistenza di Mella sorte finale do» Ammetl ì, L'Expérience religieuse, D. >, Il Metodo pr agmut.,; 4 Pluratistie Univer Il Met. Ppragm. Egli produce diffe È più: se c'è un Dio noi possia-. no aspellarci che egl enze non solo, | corso del monDio non possa a 66 La Religione nel Pragmalismo cangiar nulla nella nostra esperienza non è affermare ‘l’inverosimile? «il vero significato di « Dio » sla appunto in quelle differenze che debbono essere ammesse nella nostra esperienza, ove il concello sia ve“ro. Ebbene queste esperienze esistono cd hanno un ‘intlusso polente sul sentimento e sulla condolta. La Z esperienza fisica, o percezione degli oggetti esterni, e la esperienza psicologica pura c semplice limitata alla tà percezione deil'io, non colgono la realtà tolale e pie‘q namente reale, e non sono le uniche forme di espericoza: ve n'è una terza: l’esperienza religiosa che (ci dà una massa di esperienze concrele affalto originali. «Se voi chiedete cosa sono queste esperienze vi dirò che sono conversazioni coll’invisibile, voci e visioni, risposte fl preghiere, mutamenti di cuore, Ta liberazioni da paura, influssi di speranza, assicura zioni di appoggio, ogni qual volta certe persone si mettono in una cerla attitudine interna, con certi modi appropriati. Il potere viene, va e si perde, e può esser trovalo soltanto in una certa direzione determinata, proprio come se fosse una cosa concreta e maleriale» xl}, Vedremo più sotlo perchè praticamente parlando è cosa di poco momento che il Dio della teologia sistemalica esista o non esista; «ma se il Dio di queste particolari esperienze è falso, è una cosa lerribile per quelli la cui vita è poggiata su tali esperienze. Concludendo: «la controversia teislica assume un lreniendo significato se noi la saggiamo coi suoi re; sultati nella vita attuale » . Il naluralismo, il posiARI livismo e l’agnosticismu possono cominciare con culusiasmo il lavoro rude della vita, ma liniscono fatalmente nella tristezza e nello scoraggiamento inerte. Se invece, come afferma il teismo, la nostra vita ‘cosciente di lutti i giorni fa parte d'un universo morale, armonivso, elerno; se ognuna delle nostre sofl a O TAES: ALI relty., ). AMES, Mel. pragm. Sono appunto queste | ‘esperienze che formano Ìl tema e l RA) ci CRA la e la materia di: L'Experience /£ Metod. Pragni. a N ll Pragmatismo 67° ferenze ha la sua ragion d'essere e il suo valore; se il cielo sorride alla terra e se gli dei vengono a visitare gli uomini; se la fede e la speranza sono come l'atmosfera della nostra anima, allora la nostra vila scorre abbondante © colorita in mezzo a grandiose prospellive i Possiamo tirar subito una conseguenza importanle dal punto di vista pragmatlistico ; la speculazione èimpotente a condurci a Dio; noi affermiamo la grande probabilità della sua esistenza in base alle conseguenze pratiche, all'utilità reale, in contanti, che derivano dall'accettarlo come esistente. Naturalmente, e lo vedremo sotto, il pragmatismo non può darci più che una probabilità. Lo Schiller con lo stesso metodo giunge alle stesse conseguenze. Col James egli rigetta le prove tradizionali dell'esistenza di Div e fa una guerra spietata alla identificazione con Dio dell’Assoluto degli idealisli trascendentali. Per lui la comune insufficienza delle prove tradizionali sta nella loro astrattezza. Esse, infatti, sono applicabili alla concezione di un universo qualsiasi, non ul nostro mondo particolare. Per esempio: l'argomento cosmologico inferisce Dio dal fatto che vi è eausazione in astratto; l'argomento fisico-teleologico è costruito arguendo, in maniera affatto generale, dall'ordine un ordinatore . Ebbene questi argomen ‘li non provano nulla perchè vogliono provar troppo. Dal momento che si possono applicare ad'ogni solta di mondo, buono o cattivo che esso sia, ne segue che la divinila inferita con questa specie di argomentazioni è affatto indifferente al contenuto del mondo, al bene e al male che esso racchiude: è un Dio amorale, che si può inferire così bene da un universo ollimo come da uno pessimo. La inferenza di Dio dal mordo sarebbe ugualmente buona nel Cielo e nel l'inferno, Ecco perchè tutti i lonlativi di ascrivere a Dio attribuli morali sono condannati a ;certo insuc 30. JAMES, L'Experionce religieuse. Se il | cesso. Trascurando gli aspetli morali del nostro mondo come si può giungere a un principio morale gli esso? Ebbene, non è di codeste prove che noi abbiamo bisogno; non chiediamo una prova dell'esistenza di Dio che sia valida per ognì universo pensabile, mù per il nostro mondo aituale, che tenga conto del contenuto concreto, reale delle cose che noi: esperimenliamo; ci occorre un Dio il quale ci dia sicurezza, che nel nostro mondo vi è un polere capace e disposto a dirigerne il corso . È È Il dialogo: Gods and Priestes (Dei e Sacerdoti) è lullo una critica birichina degli argomenti razionali (teorici) dell’esistenza di Dio. Dice Filono: «Mi pare che Vesislenza degli Dei si possa inferire dall’esistenza dei sacerdoli, poichè, se gli dei non ci fossero, e che ci starebbero a fare i sacerdoli? » Un argomenlo puerile, a dir poco, come si vede. Eppure Anlinoro risponde: «Questo argomento è... migliore della più parte di quelli dei teologi » . Più oltre Antinoro dice: .« Finchè il Dio ignoto non è desideralo è incomoscibile » . Noi sappiamo che « inconoscibile », per l’umanismo, vuole dire «non-esistente ». Ma dunque il nostro desiderare, volere Iddio è creare, fare Iddio? Senza dubbio: «il desiderio fa reale l’irreale n. « Gli dei sono reali in quanto responsi ideuli ai reali bisogni umani, che ci funno realmente agire» . Dio 6 un postulato della fede ed è delia stessa nalura dei postulati della scienza , cioè una supposizione uli- SCHILLER, Humanism., Ess, 1V, « Lotze's Monism »; p. 82. = lo non posso indugiarmi a esporre largamente le teorie religlo5e dello SCHILLE", come ho fatto col JAMES: un articola non basta a ciò, Del resto non è neanche necessario, perchè lo SCHU.LER, quando pula di religione. si appoggia spesso al JAMES, €, sostanzialmente, lo riproditeo ScHiLLER, Studies in Humanism, Essay.The gods nre real as the ideal responses to real human needs, which really move us, Studies in Humanism, p. 136. Lo ScHILLER cita qui: La tolontà di credere del James, = "i si » etiam Lu e e ir__nnnn_nn_ RPEI EN oli Pragmulismo le, una domanda di qualche cosa che corrisponda alle esigenze dell'uotno e mella armonia in una speciale sfera di esperienze. L'uomo fa la verilà e la realtà, come s'è veduto: È è vero e reale ciò che opera e in quanto opera; la soslanza è allivilaà, e l'attività non esiste se non come attività per noî. La domanda di Dio non è la domanda di un essere lrascendente, ma di uno perfezioÈ nante la esperienza nostra . Perciò la questione: LI, Dio esiste? significa: Qual'è il valore per noi del conX cetto di Dio? | siecome le concezioni di Dio sono mol| le, qual'è il valore di esse, 0 dei varì tipi ai quali lulte sì possono ridurre? E qual'è il migliore fra i concetti di Dio? $ 9. Nella filosofia spiritualisla noi troviamo due specie di (eismo in senso largo: il leismo dualistico, o teismo propriamente detlo, e il leismo monistico o panteislico. Il primo è la elaborazione teologica della filosofia scolastica, il secondo è proprio dell’idealismo posl-kanliano, 0 idealismo assoluto, o idealismo simpliciter, che si voglia chiamare . Esponianoli brevemente ed esaminiamone il valore alla luce del pragmatismo. >» Il'ieisino scolastico insegna che Dia è la Causa Prima, la quale differisce tolo genere dalle sue creature. La sua essenza è di essere a sé. L'ascità è la fonle di ltulli gli altri allributi metafisici: necessità e assolutezza, immaterialità e semplicità, infinità e personalità metafisica, ecc.; e degli attribuli morali: sanlità e onvipolenza, onniscienza e giustizia, im mutabilità e amore, ecc. . Ebbene, applichiamo a ScuuLer, ivi. Considerazioni simili a quelle del James contro ia visione materialistica della vita nol troviamo li Humanism, Ess..: «The ethical significance. of immortality ». Vi dintostra che la vita non è degna d'esser "vissuta se non sono conservati i valori ideali. JAMES, A Pluralistic Universe pp. 23-24; Der Pragmalismus, VIII Vorl. p. 192. a JAMES, L'Expérience Reltgieuse, pp. 371-376; Saggi pragmat., IL metod. pragm. ar La Religione nel Pragmatismo RO T questi attributi di Dio il principio del Pierce ec vedreL mo che fra essi ve n'ha di più e di meno importanti. i Infatti, dal punto di visla pragmalistico che divenN gono gli altribuli metafisici di Dio, distinti dai suol attributi morali? Quali effetti possono produrre sulla nostra condotta? Che cosa importa per la vita del. l'uomo che Dio sia a sè, che Dio basti a sè stesso, che Dio non appartenga et nessun genere ecc. ecc.? «Come può mai l'« aseità » di Dio loccarmi inlimamente? Quale speciale cosa posso io mai fare per adattarmi alla sua « semplicità? n «O come devo de terminare lu mia condotta da qui innanzi se la sua «felicità» è assolutamente completa?» Anche quan‘do di quesli attributi ci si desse una dimostrazione logica rigorosa noi dovremmo confessare che essi non hanno senso, 4 poichè sono lontani dalla morale, lontani dai bisogni umani . Non è così degli attribuli morali. Essi risvegliano il limore e la speranza e sono il sostegno dell’anima. Se Dio è santo non può volere che il bene; se è onnipotente ne può assicurare il trionfo; con la sua onniscienza ci vede nelle tenebre; per la sua iustizia, Egli punisce le nostre colpe anche segrete. ègli è tulto amore, dunque perdona; è immutabile e quindi possiamo contare sul suo amore. i Iddio, nella creazione, si è proposto come fine la manifestazione della sua gloria; « questo dogma ha certamente una qualche elficace connessione pratica ©. colla vila, 0, meglio, Phu avula per l'enorme influen| za che ha esercitato sulla storia ecclesiastica e per ? ripercussione sulla storia degli Stati curopei» . Cerlo, quest'ullimo dogma, connesso con la concezione monarchica del mondo, di una divinità con la sua corle e le sue pompe non corrisponde più alla nostra mentalità, ma gli aliri attributi hanno un valore religioso anche attualmente. Sc la teologia scolastica JAMES, L'Excpérience religieuse, DD. 375 S86.: Il Metod. Pragm. JAMES, L'Expérience religicuse, p. 376; Il Metod. Pragm.. i LA 4 s = lì Pragmalismo 1 polesse stabilire in modo irrefutabile che Dio li pos- e) siede (gli attribuli morali}, darebbe una base solida si alla religione. Ma, come per l’esistenza di Dio, cusì 19 per gli allribali morali essa ba fallito nel tentalivo sl {lo Schiller ce ne ba detto il percl®). Si può provare d storicamente che essi non hanno mai convertito nes- È suno. Provatevi a dimostrare, scolasticamente, a uno | che dubita della bontà di Dio, che Dio è buono per- ì chè non vi è non-essere nella sua essenza! Quegli ni altribuli hanno valore non perchè e in quanto sono dedolti, dalla scolastica, a filo di logica da certi du (erminali concetti o calegorie, ma perchè e in quanto ur; eccilano in nvi la risposta di qualche sentimento at- A livo e fanno appello a qualche particolare condotta = da seguire» , non quindi in base a speculazioni, | Pi ma per la loro efficacia pratica. |, V'ha di più. La concezione leistica (scolastica) dipingeudo Dio e la sua creazione come distinti l'una dall'altra, anzi come affatto diversi, mette il soggello umano fuori di ogni contatto con la più profonda realtà dell'universo. Dio è separato dal mondo e dal- . l'uomo. Fra l’uomo e Dio vi è connessione o rappot= in - lo unilaterale, non reciproco. La sua azione può toccarci, si afferina, (conte possa toccarci è un misleto) ma Lui non può essere affetto dalla nostra reazione. Il rapporto fra noi e Dio non è sociale: i due terni. | ni sono separali da un abisso (8). Dio non è cuore del nostro cuore, ragione della nostra ragione, ma nostro maestro e giudice, ll nostro dovere inorale è di obbedire ineccanicamente a’ suoi comandi, di aderire pussivamente alle verità che non noi faccia > mo, ma che esistono per sè, « by (iod°s grace QI CE ‘ decrec» . Ebbene, lutto questo meccanismo LEO= N logico, che ha parlato così vivamente all’animo dei nostri antenati, con la sua limitata elà del mondo, | con la sua creazione dal nulla, con la sua moralità ta W) JAMES, L'Erper. relig., DD. JAMES, IL Met. pragm., PD. 26 . Ca ye 2 JAMFS, A Plural. Univ.,7. “i James, «Ad Plural. Univ. 72 La Religione nel Pragmalismo giuridica ed escatologica, col suo gusto per le ricompense e le punizioni, col suo considerare Dio cone un Jlegisialore esteriore, suona così vecchio al piu di noi come se si trattasse di una religione selvaggia di stranieri. Le ampie vedute aperte dall’evoluZionismo scientifico e lo marea monlanie degli ideali delia democrazia sociale hanno cambiato il tipo del la nostra menlalità, e il vecchio leismo monarchico è vielo e fuori di moda. IL posto del divino nel mondo dev'essere più organico G più intimo. Un creatore esteriore e lc sue islituzioni pussono essere professale ancora, verbalmente, nella Chiesa in formule che sopravvivono grazia aila loro inerzia, ma la vila è lontana da esse, non lano più adito nei nostri cuosti . Quel magnifico uomo nou naturale che è il ‘Dio del teismo non cì soddisfa più; è solto il livello delle idee morali correnti e perciò condannato dall’'alinosfera morale regnante, divenula per noì indi. spensabile. I frulli che un tal Dio ha dato ai nostri avi hanno perduto ogni valore per noi, le idee morali e sociati nostre ci costringono, sc abbiamo bisogno di Dio, a foggiarcelo in corrispondenza alle aspirazioni e agli ideali del lempo nostro . Ed ecco che l'anima contemporanea ha veduto la possibilità di una più intima Weltunschauung; la visione panteislica di un Dio immanenfe come sostarza inlima del mondo, e il mondo come parle di quesia profonda realtà. Questi concezione hu assunto due forme diverse: la monistica e la pluralislica . pp. 29-30. Lo stesso pensiero è espresso più largamente in: L'Eaperience reliyteuse, Qhap. IN: Critique de la Saintele, pp. 250-284 La frase è dell'Arzold. Cir: A Plural. Univ., JAMES, L'Ewper. relig. Si è detto che”il Dio tiel tolsmo è rigettato dal JAMES semplicemente perchè così porta la moda, Intendiamoci; se per ni0da si vuol significare «il complesso delle idee morali e delle forme sociali» di una data epoca, l'osservazione è giusta; se per moda s'intende quella brutta cosa che tutti conoscono, non credo che sia esatto il dire chè il James giudica di Dio in base ad essa. Cfr.. L'Erpér, relig., 1. c. JAMES, LI Plural. Uniw., pp. 30-31. Secondo il monismu la sostanza umana (e mondia- ©. le) si identifica bensì con Ja divina, ma non diventa veramente tale che nella forma della totalità. Lo spirito finito non ha realtà che neila comunione con lo pi spirito Assoluto; cioè ìl divino esiste autenticamente È solo quando è esperimentato nella sua assoluta l0 rà lalità. Pev il monista essere significa due cose: se si È predica delle cose finite significa: essere un oggetto Ì dell’Assoluto; se si predica dell’Assoluto stesso vuol i dive: essere il pensamento dell'insieme degli oggetti. LvAssolulo ci Îa pensandoci, precisamente come noi, nei sogno, facciamo gli oggetti sognandoli, o, in una storia, i personaggi immaginandoli. Mondo e assojulo sono la stessa cosa espressa con nomi diversi: pensiero e pensato (Gedanke und Gedachleg s – cf. Grice, SIGNIFICARE E SIGNIFICATO – SEGNARE E SEGNATO – Meinung – ge-meint). Quale grandiosa concezione nella sua terribile unità!» esela: ma il James . Quale intimità fra il mondo e 1 ASsolulo! > Ma, pur troppo, a un esame diligente questa 31 LI St x. milà ci apparisce illusoria e materiale; in realtà il divino è affatto estraneo al mondo come nel teismo monarchico . E in vero: per lassolulisla noi, POSI ad uno ad uno nella nostra finilezza empirica non abbiamo nessun rapporto con l'Assoluto; per far (parle di esso dobbiamo perdere l'essere nostro individnale con la sua limitatezza e coi suoi difetti. L'AsEa solulo è noì e lutte le allre apparenze, ma non è I nessuno di noi in quanto fali, poichè nel tutto TION x siamo « trasformati» diventiamo altra cosa. Dio quaFat: tenus infinilus est è altro da Dio, qualenus humanam wr mentem conslituit ha scritto lo Spinoza, il primo ; grande assolulisla . La vera conoscenza di Div = serive l'Hegel comincia quando conosciamo che le cose, quali ci si mostrano immediatamente, non han: ‘no verilà . L'Assoluto secondo il Taggarl non è processo, ma stato immobile: il movimento JAMES, Zbta. James, A Plural. Univ., Di. » DI art ri È aaa” ul = Pa. ASTRA La Religione nel Pragmatismo il cangiamento sono assorbiti nella sua immutabili È i come forme di mera apparenza . Che cosa più DA estranea a noi di un essere che non è nè intelligenza nè volontà, nè una persona, ne una collezione di persone, nè vero, nè bello, nè buono nel senso che noi diamo a queste parole? come scrive BRADLEY [citato da Grice, Prolegomena]. Che cosa facciamo di questo mostro metafisico incapace: di odiare e di amare, di soffrire e di desiderare? L’Assoluto non può essere personale nel senso ordinario della parola; dunque non può interessarsi delle persone: la sua relazione con ess? è tutt'al più una relazione di inclusione, puramente logica, quindi, non morale . Io non posso avere nè cuore nè pensiero per un essere che nulla ha comune con me; se Lui nella sua inerte auto-beatlitudine non s’inleressa di me come posso io interessarmi di Lui? = Non solo l'Assoluto non è un principio morale, ma non ha neppur valore scientifico. Per aver valore scientifico dovrebbe essere un aiuto alla comprensione intellettuale dell'Universo. Ebbene Esso non è la ragione suprema ed ullima di ogni cosa in par ; ticolare (e l'universo si compone di cose particolari) > appunto perchè è la ragione esplicativa di ogni cosa î in generale; e qual'è il valore di una spiegazione gemerale che non spiega nulla in particolare? . È, come si vede l'applicazione all’Assoluto dell’astrat lezza dei concetti con i quali sì prova, in teologia, 2 che Dio esiste e se ne deiermina l’essenza, secondo lo Schiller. s JAMES, Ivi; SClilLLER, Stud, i D p o i ud. in Hum. Essay XII, passim; JAMES, 0p. cit. pp. 47-48; SCHILLER, iul, p. 286 g. e: (Essr IV, pagine 111-140. IDRA RRE JAMIS, ©p. cut., avi,; SCHILLER, Ess. JV. ScHILLER® Stud. in Hum,, D. | James, A _Plural Univ., p. id; SCHILLER, Stud. in Hum. bp,; « If th» One is neither of these {hings (beautiful and | good), I will not worship it. nor call it Good. If it is indifferent to 9ur Gocd, I am indifferent to its existence n. SCHI,LER, Stud, in IHum., p. 25). db Ît Pragmatismo Ti) Ma c'è di più. Uno dei problemi che ha maggiormente alfalicalo il pensiero umano è il problema del î male, il più fondamentale e il più pressante dei problemi religiosi. Esso ha un lalo teorico e uno pratico. Il teorico si formula: « Com'è possibile il male?» Il prutico: « Come liberarci dal male? » Il primo sor ge dall’impossibilità di conciliare la bontà di Dio. con la sua onnipolenza e con la sua infinità. Se Dio è il tutto, la perfezione assoluta, senza limitazione nè possibilità di limiiazione, donde il nale? Se Dio è onnipotente perchè non trionfa del male, di tulru il male? . li panteismo assolulista ci dice che la periezione di Dio è la sorgente delle cose; ebbene, guardate: il primo altu di questa perfezione è la spa ventevole imperfezione di tutto il finito sperimenta bile. Come mai la perfezione dell’assoluto, richiede 7 queste schifose forme di vita che troviamo nella realtà? Ecco il problema che nessun assolutista € . nessun infiniusta potrà maì risolvere. Negarlo nou è risolverlo. Lire, come fa l’assolutismo, che la impertezione del tuito non è che apparenza, una illusione degli esseri finiti, che il maligno non esiste 0 è assorbito con Dio nella sintesi superiore dell’Assoluto, ecc., ecc., non è risolvere, ma ingarbugliare il problema. Il male c è è noì vogliamo liberarcene. L ìl problema pratico si presenta: « Come scemulti | x la quantita del male che è nel mondo? ». Il lato pratico del problema, chie è il solo veramente importante, non ha sensu per l'assolulista: tutto ciò che è, è necessariamente come apparenza dell’Assoluto : ogni cosa l determinata nel suo essere e nel suo divenire; ia connessione fra le cose è assoluta, ogni evento è determinato da lulti gli eventi . Non esi lai” sad SCHILLER, po 287-258. nati James, 1 Pturat. Univ. , Una simile domanda è rivolta dal James al teismo creazionista del Leibniz (e si può | rivolgere ad ogui specie di creazionismo). Vedi: A «Plural. Univ.. « Perchè Dio crea liberamente questo mondo imperfetto, e non si contenta di contemplarlo nello schema ideale perfetto? James, 4 Plural. Univ. La Religione nel Pragmatismo ioni; i é che stono possibilità di nuove connessioni; non vi è c ; DE ‘possibilit: quela che s’identitica Son IP DESeRa silà. L’indelerminatezza del reale e la bo. FR na sono chimere. Ecco a che conduce. la Assoluto. Eibovo queste terribili accuse ACCIAIO deil’Assolulo noi ci aspettiamo di NEdSri dan nato alla irrealtà dal metodo PrOgmal sa MEO amet no RO . Dal punto di vista intel: ì es , E ris : CRA gua SelSsolnio Do i SA ISRUIL SDOlai elipotesi RO se l'Assoluto rende dei serDi all'uomo. Orbene, quantunque l'Assoluto sia e non possa essere il Dio della religione popolaure ordinaria e non si debba confondere col Dio del Cristianesimo c della Lcologia ortodossa ne vedremo più sotto il perchè tuttavia è stalo e può essere il Dio di una certa classe. d'uomini, che in Lui solo trovano la pace. Ciò che sembra logicanente assurdo c impossihi può essere dimostraio in q non le dice Schiller ualche modo con una fede eroica e palelica, Non v'è materiale così poco proInettente che non possa divenire il fondamento di una veligione. Non' vi sono conclusioni così bizzarre che non possano essere accellale con fervore religioso. Non vi sono desideri così assurdi Ia cui soddisfazione non possa essere riguardata come un atto di cullo . Perciò l’assolulo può esistere ed esiste come Dio se ha una reale iniluenza s ulla vita umana, se è qual“ehe cosa di vitale e di valutabile pragmalicamente. Ebbene, la storia delle religioni ne ha dimostrato l'utilità. Vi sono unime che hanno bisogno di una sicurezza assoluta che l'esito del mondo sarà buono, che l'universo non audrà in isfacelo sotto il COZZO Zut; Der Pragmatismus, Vorl., ASSI, SCHILLER, S/ud. in Ilum. Iîì Pragmatismo Ti degli clementi instabili e fortuiti; lale sicurezza non può aversi che ammettendo un'assoluta necessità e una interna coerenza del mondo, una determinazione a priori del futuro. Vi sono anime che provano un sentimento d’orgoglio al pensiero di essere una parle, una «manifestazione », un «veicolo» o una ripreduzione della Mente Assoluta . Vi sono quaggiù anime stanche, accasciate sotlo il peso del male, incapaci di trovare in sè stesse la forza di vincerlo; la loro vita si sfascia ed hanno bisogno di risolversi nell’Assolulo, come una goccia d'acqua nel mare. Noi tutti abbiamo dei momenti in cui aspiriamo al Nirvana, alla liberazione di noi stessi dalla esperienza finita. Questo stato è proprio degli Indiani, dei Buddisti e dì certi temperamenti mistici ai quali è conforto ed ebbrezza il sapere « che tutto è necessario ed essenziale, anche l’uomo col cuore e con l’anima ammalati: che tutto è uno in Dio e che in Dio lullo è buono. che in que-. slo mondo di apparenze, qualunque sia il nostro successo, siamo sempre dei miserabili. Vi è dunque un istinto dell’Assoluto. L’Assoluto può servire all'uomo, e perciò, nonostante le sue assurdilà, il pragmatismo lo rispetta ci dicono a una voce il James. e lo Schiller poichè gli istinti umani sono preziosi © sacri e tutto ‘ciò che opera è vero finchè opera. IL’Assoluto è salvo sotto le grandi ali della misericordia... del pragmatismo., Il quale pragmatismo inclina tuttavia ad un'altra concezione del mondo e quindi di Dio. L’'Assoluto mena necessariamente all’indifferenlismo e al quielismo; non è uno sprone al lavoro audace dei forti che non rifuggono dal male della vita ma lo affrontano pur nel dubbio di trionfarne, esso è per le anime un oppio spirituale; è il Dio dei deboli, degli stan- JAMES, Mer Praymatismus, VITI Vorl., passim; SCHILLER, Stwal. in Mum., JAMES. Numerosi esempi di questo singolare stato d'anicao ha offerto il James in: L'Expér. relig.,JAMES, Der l'ragmat.; SCHILLEK, op. c., p. YI. fo) La Religione nel Pragmatismo chi ; il pragmatismo non può accertarlo. Si è aCcusato il pra matismo di irrceligione; @ torto però. Non è a credere che la dottrina pragmalista, rigeltando VAssoluto e il Dio del teismo monarchico, neghi che il mondo contenga in forma di coscienza qualcosa di più grande e di meglio che la nostra coscienza. Forse che la nostra fede istintiva in esseri superiori, il nostro persistente rivolgersi verso una società divina non è che una illusione patetica di anime incorreggibilmente sociali e immaginative? . No, l'ipotesi di Dio è vera, perchè ha una eMceacia reale; per quanto possano essere gravi le difficoltà che le si oppongono, l'esperienza dimostra che essa opera. Il problema di Dio consiste in questo: come elaborare l'idea di Dio in muniera di farla entrare in accordo con le allre verità operative? , Ebbene, è logicamente possibile di credere in esseri sovrumani senza punto identificarli con l'Assoluto. Il con_celto dell’Assoluto sta in funzione del monismo idealistico ; il concetto pragmalista di Dio sla in funzione del pluralismo: è la forma pluralistica del panteismo religioso. Il pluralismo in quanto ha rapporto con la religione ammette col monismo la immanenza di Dio nel mondo, come vita e sostanza profonda delle “cose, sostanzialmente identica con la vita e con l'essere più vero dell'uomo , ma differisce inconciliabilmente dal monismo negli svolgimenti ulteriori della lesi unica. Per il pluralismo la vera realtà delle cose è la loro individualità. Il mondo è collezione, non unità. Ogni JAMES, iui. Jimes, Her Praugmal, Anche lo Sc È Ste 4 DI È 162, A o SCHILLER prois contto LASERSA CIFITTRLIEIONO fatta alle nuove dottrine f adley, Cfr: Stud. in Mum., D. 195. Per Îl res della citazione, vedi; A Plural, Unlv.. Per E Jamrs, ber Pragmat., James, A Plarai. Univ, Schiller parla del Pluralisino in generale in: Stud. in Human D ; vl ROSSO alla sfuggita in altri luoghi per la relazione del. pluralismo con l'Umanismo, vedi. Humanism, PI LA SE cosa pensabile, per quanto vasta e inclusiva, ha un ambiente esteriore: non è mai (ullo-inclusiva (AU inclusive). Nessuna inchiude lulte le cose assorbendone la realtà tutta, nessuna domina su tutte. Men{re la realtà del monismo è caratterizzata dalla All form (formia del tutto o dell'uni-tulto), quella del pluvalismo è caratterizzata dalla Zach-form (forma del le individualità o distributiva, come altrove la chiama il James): è la forma dataci dalla esperienza iminediata. Il mondo pluralistico è piuttosto una repubblica federale che un impero, un regno. L'unione delle cose singole atomi e unità spirituali non è compenetrazione di tulte in ognuna, non è il tipo del la unione monislica della tosalità-unità (Alleinheit), non è complicazione universale, ma contiguità, continuità, concatenazione di individui; è il lipo di unione synechislica , quindi vi è dislinzione e indipendenza. Perciò nessun centro di coscienza, nessuna azione puo lutto abbracciare: qualche cosa sfugge sempre e non può mai essere ridotta all'unità to) Non c'è un'assoluta unità causale del mondo; non cè un'assolula unila generica; non e'è un'assoluta unità teologica e morale; non c'è un’assolula unità estetica, non c'è un’assolula unità noelica attuale JAMES, A Plural Univ.. Il synechismo è quella tendenza del pensiero filosofico che fa dell’idea di continuità una delle più Importanti in filosofia. Il continuo è inteso come qualens cosa le di cui possibilità di determinazione sono inesavribiti. Oltre questo synechismo che è metafisico ve n'è uno epistemologico, cioè la concezione della verità sistematica come gradualmente approssimabile, ma non mai interamente taggiunsipilo dal pensiero. I.'uomo tende a una interpretazione scinpre più razionale e coupleta dell'universo, ma ogni fase del processo conoscitivo non è che una razionalizzazione parziale della realtà. CIr. l’arucolo del PrRcE Pragmatism nel ictionary of Philosophy del Bal&win. Secondo il Peirce il | Pragmatismo è parte deila dottrima più larga del synechismea. (Credo che il nemne sia del Peirce). Cfr. la bellissima opera Thegries of Knowledge, del P. WALKER S. T., TLongmans, Londra: da essi ho prese queste cliazioni n proposito del symechismo, dal La Religione nel Pragmalismo dell'universo . Vi sono «reali possibilità, reali indelerminazioni, reali incominciamenti, reali finì, roali mali, reali crisi, reali catastrofi e reali scompi . Nel mondo accanto all'ordine vi è il Cso ne, accanto al sapere, vl è l'ignoranza, accanto a bello il brutto, accanto al bene il male: non vi è dunque perfetta, unità, ma molteplicità reale neil unità imperfetta. Forse l’unità perfetta non vi sarà mai; forse non potranno essere liberate dalla disgregazione e dal disordine che certe parli del mondo, quelle alle quali si estende la nostra allivilà uni ficatrice. Ad ogni modo la piena unità, se sarà possibile, nella ipotesi pluralista non è al priucipio ma alla fine, non un primo ma un ultimo ; la salute ogni salule, anche ia parziale non è necessaria, certa a priori, ma solo possibile. Nella concezione assolulista il fondamento della realtà è l’unità statica; nella pluralista sono delle possibilità, pure possibilità. Il pragmatismo riconosce un valore reale alla prima, ma preferisce la seconda, come più in armenia col suo temperamento, poichè essa è alta a suscitare nel nustro spirito un numero maggiore di esperienze future e sprigiona in noi determinate allivilà. Il suo effetto sull'uomo non è il quielismo, 1a il lavoro strenuo, poichè com’essa insegna, da lui {dall’uomo) dipende la vittoria sul male: vittoria possibile a prezzo di lotta contro i pericoli e la resi stenza della realtà ad essere redenta è unificata. Così il jvagmatismo tiene Ja via di mezze fra l'ollimismo per il quale la salvezza del mondo e dell’uomo è “sicura e il pessimismo per il quale ogni salute anche parziale è impossibile. Il pragmatismo è meliotristi: per esso il fuluro sarà di più in più migliore del vresente come il presente è migliore del passato. E la possibilità anzi la probabilità della salvezza per JAMES, Mer Pragmatismus; A Puwal. Univ. specialmente Zesi. JAMES, Will to Believe, p. IX { Schiller: In Huinanism, pagina SI p, Gitato dallo Schiller JAMES, Der Pragmatismus. i mo. il Pragmatismo 8 ja liberazione dal male e per la diminuzione della moltiplicità non unificata aumenta in proporzione del numero e della bontà delle forze iiberatrici. Vi sono delle forze sovrumane che lavorano e lottano con noi? Allora la incertezza della salute è ridoita di mollo; possiamo sperare che l'esito del mondo sarà buono. Qui si mostra in tutto il suo valore reale l'ipolesi di Dio; per questo gli uomini religiosi del tipo pluralistice hanno sempre credulo in Lui . Ma chi accelta il pluralismo ed ha bisogno di forze sovrumane , deve elaborare il concello di queste in modo da accordarlo con le esigenze e con le verità operative di tale dollrina. Quindi: la realtà divina (o le lealtà: vedremo più sotto se al singolare o al plurale) deve coesistere con lulte le altre realtà individuali inferiori, non assorbirle;j deve lasciar sussistere le possibilità, le indeterminazioni, la libertà e quindi la incerlezza del futuro; dev'essere personale al iagdo nostro, poichè diversomente ci è impossibile 1 mità con essa: in una parola: può e deve esSIRO più grande di noi, ma ron infinita, più potente RT Ta Tio onnipotente. Noi non sappiamo che Alon Si Di s7ranico alla nostra natura; noi vo: FTT ESAC sla intimo a ciò che è umano in Tondo dr 5 amen e umano, al mondo in quanto è ONT sperienza. Noi e il mondo di cui siamo Perche Dig SO nel tempo e abbiamo una storia; RSA la f apporti reali, non puramente astratCES col mondo deve esistere nel tempo e una storia, deve quindi escludere la staticità È RE Der Pragmat.. IESUe i celli accetta il pluralismo con tutti i suoi pericoli e Îlifmonda Fuso 4 se la sente di lottare du solo per rendere Riones E TERE RMS: tali uomini non hanno bisogno ui reliTenero » che pool temperamento diameualmente opposto «al tieni Ja SR dsc lAssuluto. Come si vede, il pragmatismo sulla AT i mezzo che è la via aurea perchè conta a dleì temperamenti umani. I più degli sono dai i . I pi egli uomini : si EONANO I SIANZA dei due temperamenti opposti: a questi mamente ul tipo meltorislico del telsmo, Pragmatismo PEPE], Pg ASS RE. I RARE 1 pragmatismo È s2 La Religione ne,” ed avere Un ambienté esiratemporale dell'Assolulo esterno come noi. essere, IN una arola, uno degli euch, UD mombro del mondo pluralistico, una conti nuazione di esso . i ; Uno o più? Monoteismo 9 polteismo? Si può con: cepire Dio monoteisticamente e politeisticamente dice il James purchè sj ammetta la sua finità; è Vunica via per sfuggire a tutti gli assurdi e gli 1nconvenienti che por sè l Assoluto . Tuttavia il pragmatismo inclina evidentemente al politeismo, alla concezione di diversi del, ognuno dei quali Ss! occupa di una frazione dell'universo; © di una gerarchia di coscienze inferiori che vanno dalla c0d una suprema, senza soluzione scienza della razza ® | i a non è infinita perchè di continuità; © la suprem infir ‘sintesi di coscienze finite ; © è dice il Boutroux ‘un sostituto pragmatistico dell'Uno astratto degli idealisti; in essa € per essa le coscienze inferiori possono entrare in relazione fra loro, amarsi e comprendersi : sla qui il suo valore pratico. Tanto James come Schiller tengono molto a rovarci che la loro concezione del divino sì accorda perfettamente con la religione pratica, con la esperienza religiusa dell'uomo ordinario, e con la teolo ia orlodossa non inquinata dal veleno monistico. Ne Jehova dell'Antico Testamento nè il Padre Celeste del Nuovo hanno nulla di comune con l'Assojulo se non questo, che lutti e tre sono più grandi dell'uomo. Difficilmente io posso concepire qualche fn 9” cosa di più diverso dall'Assoluto del Dio di David 0 JAMES, A putrat, Univ., DI. JAMES. ) È la teoma di Fechner che il JAMES €S sone nella IV Let ‘tara del suo: 4 Plural. Unw.: "Concerning. Fechner 0 oo : ì questa coscienza feclneriana « esistente dietro le quinte ; da È del mendo» e non ienulicabilc con l'Assoluto dei ° rascendentalisti, il James sveva già pirlato in una conferenza « sull'im- i Saggi “Pragmatisti: « L'ime | i | mortalità dell'anima, Cfr: (mortalità dell'anima », Di JI. Il Pragmatismo di Isaia. Il loro Dio è un essere essenzialmente finito nel cosmo; vi ha un'abitazione e attaccamenti locali e personali. La coscienza religiosa ordinaria postula un Dio parziale, un Dio che ci soccorra e simpatizzi con noi poveri framinentli finiti del tutto . In nessuna religione il Divino, il principio dell'aiuto e della giustizia, è riguardalo come onnipolente in pratica. Il politeismo originario dell'umanità si è svolto solo imperfellamente e oscuramente nel monoteismo. E il monoteismo stesso, in quanto è veramente una religione e non il tema di conferenze universitarie, ha sempre vedulo in Dio nient’allro che un aiuto, un primus int:r pares in mezzo alle altre potenze che presicdono alla storia del mondo e la formano. Il teisimo pratico e popolare è sempre stato piu o meno francamente un pluralismo, per non dire un politeismo. Cioè, il leismo volgare si adatta a un universo risullante di più principì indipendenti gli uni dagli altri, purchè gli sì permetta di credere che il principio divino (dal quale viene l’aiuto) sia il principio supremo, al quale gli altri sono subordinati . E vero che questo Dio e rivestito anche dal volgo, come dai filosofi, di qualcuno di quegli attributi melafisici che abbianìo così severamente giudicali. È «unico », è «infinito »; l'idea che possano esistere -più dei finiti nn è neanche discussa. Ciò si spiega dal falto che il popolo s'inchina davanti alla autorità dei filosofi amanti di unità e dei mistici inclinati al monoteisra9». In reullà la credenza religiosa è semplicemen'e la fede in qualche cosa di più grande in cui si può trovare la liberazione dal male. I bisogni pratici e le esperienze (i; James, A Plural. Univ. SQUILLER, Stud. in Zum., Schiller aveva difesa. e svolta la idea di un Dio finito gia In: Riddles of the SpIinz Cfr.: Le Dieu fini (par Dessoulavy), Rev. de Fhilos. Scun LER, Stud, in IHum. TAMES, Der Pragmat., p. 192. JAMES, L'Expér. relig., Chap. V, p. pormi T u oei”niuocoenau<{iite0tt@ en TEZZE RR a ge 84 La Religione nel Pragmatismo dell'anima religiosa NOn esigono altra credenza che esta: esisle per ogni individuo una porsnza supe: riore et lui, e a lui favorevole, alla quale può \.nirsl perchè parlecipa della sua stessa nabvura. Per suscitare la confidenza dell’uomo pasta che quel potere sia assai grande, sia più grande dell'io cosciente, non è necessario che sia infinito © unico. Si potrebbe conceirlo come Un “ jo» più grande € più divino, del quale io attuale non sarebbe che l'espressione in piccolo: Puniverso spirituale sarebbe allora Vinsienic di questi «io» più 0 meno comprensivi, ma non la uniti ussoluta. Questa specie di politeismo è sempre stata la religione del popolo e 10 è ancora . La credenza opolare “ ammette ì miracoli e le direzioni provVIdenziali; non prova nessuna difficolià @ mescolare il mondo ideale è il mundo reale, i supporre che le polenze spirituali intervengano nel gioco delle forse tisiVide che a determinarne gli avvenimenti particolari ». Qui sta il vero valore di Dio o del Divino e ì praginaUusti sì schierano tra i difensori di questo sopraunatutali. smo. Il soprannaturaUsino grossolano? Si, dice il Ja mes; e io sono persuaso che questa è L'ipotesi che sodita disfa un più gran numero di legittime aspirazioni del cuore e dello spirilo: per questo il pragmatismo la fa sua, ed anche perchè è mirabilmente confermera da ai cerle esperienze religiuse. Quelli che le hanno provate st Riti sanno che nol abillamo in un ambiente spirituale invisibile, donde ci viene l’aiuto; che la nostra anima è misteriosamente una con un'animu più vasta di cul noi siamo gli strumenti. Niente ci forza a credere che uesta anima sla intinita, perfetta: l'ipotesi più naturale e più probabile è ammettere che VI ha un Dio, ina finito, sia in potere 0 in sapere 0 nell'uno e neli'al- } tro. 1:4% (i) gas, L'Erpér. relig., DD, 7 i, JAMES, LED. , dove si trovano le parole sottoli î neate da ine; A piurat. Univ., PD. 308, gli. A_PAE: 125 è più Da categorico. DOpu aver dgto ragione 2 Giovanni Mul il quale DI aveva detto che bio non può essere oggetto di religione ine L che non gli si toglie la onnipotenza, aggiunge: To credo che : unicamente un Dio finito è degno di questo nome, appunto perche, per lui, Dio è e dev'essere il Dio della religione.bd mici dissi a = o Ie Les E così è sciollo il problema del male. Im questa concezione Dio non è responsabile dell’esistenza del male, non lo sarebbe nemmeno se il male non dovesse mai esser vinto, Nel mondo panteistico, come s’è veduto, il male, come ogni altra reallà, deve avere il suo principio in Dio: e la bontà di Dio, che è essenziale assolutaumente alla religione dice lo Schiller come sì salva? Ebbene ammettiamo che fin dall'origine il mondo è un insieme di principî distinti, che il male non è parte essenziale, ma un elemento indipendente e la bontà di Dio è salva: il problema teorico del male èsciolto. E col leorico anche il pratico. Se tullo ciò che è, è essenziale, come parte dell'Assolulo, il male è indistruttibile; se invece è elemento non appartenente alessenza della realtà, noi possiamo sperare di poterÌ lo espellere (il male) presto 0 tardi . Perciò lutte a le forme di teologia, eccettuata quella più filosofica che ee ha subito l'influsso degli assolutisli, concepiscono di fulto il male come dovuto a un potere che non è Dio e ne è in qualche modo indipendente: è denominato variamente: materia, volontà libera, o il diavolo. La onnipotenza di Dio dei teologi non è quella dell’Assoluto: essa è dipendente da necessità metafisiche . HE Concludendo: In questa concezione di Dio elaborala col criterio del valore pratico sulle rovine della critica. È dell'Assoluto e del leismo scolastico e in armonia col si pluralismo, abbiamo tutto ciò che corrisponde alle. 4 esigenze umane del divino; è salva la libertà dell'uomo: è dato un fondamento alle sue speranze è al suoi desideri di salule ed è resa possibile la massima. intimità fra il mondo c Dio: intimità di sentimento e intimità morale, cioè la vera religione, che tanto ha operato e opera sulla condotta. : Noi chiediamo ; « Di che natura sono le reallà spl TOA = L'Expér. relig., Chap. V, D. . . “A ScHILLer, Stud, in Mum.; JAMES, 4 Plural. Uniw,, La Religione nel Pragmatismo; P, rituali più alte? » « Io l’ignoro » risponde il James . Chiediamo ancora: ‘ esistenza di Dio è un puro "contenuto soggettivo, ovvero è oggettiva? Poichè am mettiamo bene che l’azione di Dio, nell'esperienza re| ligiosa, è reale, che ha un'efficacia reale e che tutto | accade come Se una forza sopramondana agisse direttamente sul mondo dell'esperienza umana ; am mettiamo bene che l’esistenza di Dio ha un reale valore pratico quando è affermata con fede, specialmente coloso com'è quello del pluralismo ; in un mondo peri ina noi sappiamo dal James stesso « che certi oggetti ovocano in nol delle reazio uramente intellettuali pr C i C î ‘così 0 più forli che gli oggetti sensibili o reali . Ora è precisamente questo che domandiamo: le realtà sovraumane hanno un'esistenza oggeltiva, indipen dente per sé dalla nostra esperienza soggettiva, 9 in dipendente solo perchè noi, con Patto di [ede, V'alfer miamo lale? e TS il pragmatismo questa domanda non ha sen -S0; richiamiamoci alla mente la sua dottrina della verità, della realtà e della conoscenza. Una dottrina che nega il valore rappresentativo dei concetti e professa il nominalismo; che dichiara di te abbandonare la logica francamente, recisamente © irrevocabilmente» non può condurre che all'agnoslicismo e allo scetticismo. È Ben poco ci rimane da dire dell’applicazione pragmalistica del criterio delle conseguenze alla reli gione dopo quanto siamo venuti esponendo fin qui. Che cos'è la religione? È assai probabile che nen e che quindi è impossibile definirla. « Religione » non designa un principio unico, ma piuttosto una collezione: non v'è un'emozione religiosa elementare, come L'Expér. relig., D. 136. James, L'Erper. relig.. D., Zut, p. 45. ù A_Plur, Univ. arriveremo mai a scoprire “ l'essenza della religione »- Il Pragmatismo non esistono nè un oggelto religioso nè un atto religioso specificamente determinati. Se è impossibile dare una definizione astratta della essenza della religione non è però impossibile delimitarne il campo e inchiudere in una formula i lraiti caratteristici empimci délla religione. Una divisione salta subito agli occhi: tra istituzioni religiose (o religioni stabilite) e religioni individuali (o personali). La religione stabilita è un insieme di istituzioni, di cerimonie, di riti, di sacrifici propiziatori, di dogmi, di organizzazione del clero; si può definirla: un'arte pratica di assicurarsi il favore della divinità, La religione personale è la vita interio re dell'uomo religioso; gli atti che essa produce sono personali, non rituali ; l'individuo sbriga da sè i propri affari con la divinità ; e la chiesa coi suoi preli, coi suoi sacrumenti e con tutti i suoi intermediari passa in ultima linea. Si può definire: «le impressioni, i sentimenti, gli atli dell'individuo preso isolatamente in quanto si considera in rapporto con ciò che gli apparisce conie divino » , comunque poi s'intenda questo divino: come legge dell'universo, come anima del mondo o come un Dio personale. Parliamo anzitutto del valore della religione in senso personale e poi del valore delle religioni o istituzioni religiose. Per quanto grande sia la differenza con cui l'elemento religioso si combina nell'uomo con gli altri elementi del pensiero, anzi, per quanto diverso sia il principio stesso religioso nella molteplicità delle sette, dei credo, e dei tipi religiosi , noi possiamo affermare che le credenze più caratteristiche della vita religiosa sono: 1.° Il mondo visibile non è che una parte d'un universo invisibile e spirituale, dal quale viene lutto il suo valore. 2.° Il fine dell'uomo è l'unione intima, armoniosa con questo universo. James, L'Expér. relig., D. 2427. « Nous entendrons exclusivement par le divin une réalité première de telle nature que l'individu se sent obbligé de prendre vis-A-vis_ delle une attitude solennelle et grave, en Jaissant de coté tout blasphème et toute plaisanterie. Son io che sottolineo. JAMES, L'Expér, relig., P. 406, tas dee tie. nea 880. La Religione nel Pragmatismo La preghiera, cioè la comunione con lo spirit dell'universo sio esso un Dio 0 solamente una ; legge è UV atto che non resta senza effetto: ne i risulla un influsso di energia spirituale che può mo“A ‘ dificare in una maniera sensibile (anto i fenomeni materiali quanto quelli dell'anima . (ei Nella valutazione di queste credenze il criterio non sarà, naluralmente, un sistema speculativo o {eologico, ma i frutti, le conseguenze pratiche : dal frutto . sì conosce. l'albero. E poichî nella religione il sentimento vi ha la parte fondnmentale, vediamo qual'è il valore affettiva della religione. Tolstoi ha detto che Ja religione fa vivere gli uomini. Il sentimento veligioso è uneccitazione giocunda, un'espansione dinemogenica che tonifica e rianima la potenza vitale: aggiunge n valore nuovo alla vita, c agli oggetti più ore inart un fascino e uno splendore insolili. Se la religione non avesse che questo valore soggettivo, IR non fosse che una serie di fenomeni psichici, senza } $ nessull contenuto intellettuale, vera 0 falsa che cessa RAI fosse, nol sarebbe meno una delle funzioni biologi UU: che più importanti della specie umana; ciò che ha SRO, fatto dire al Leuba che il fine della religione non è Dio, ma la vita, una vila più larga, più ricca: Dio 2: non si conosce, non si comprende, Ma si sfrutta . Ma la religione ha anche un'immensa fecondità pratica sociale. II frutto della vila religiosa è la santità, che inchiude in sè tutto ciò che di meglio ci abbia dato la storia. La santità ha avulo bensì delle manifestazioni ché la coscienza moderna non può acceltare, ma VE n'ha di quelle e SONO più numerose che ci rivelavo nei santi dei precursori © dei creatori. La sanlità accresce nel mondo în somma di energia mora: le, di bontà, d'armonia, di felicità. La santità con la AMES, 405. Nol sappiamo già a quale fra le varie convezioni «el divino il pragmatismo dà la preferenza e per quali ragioni. Citato dal JAN:S, D.: «Il ne faut Pas dire que l’on connalt Dieu, cu qu'on Je comprend; ll faut dire que l'on s'en serta, sua forza d'animo, col suo amore eroico pei miserabili più ributltanti, col suo spirito di. sacrificio, è un fallore essenziale del benessere sociale. La religione è la condizione necessaria di certi effetti, la «fonte dei quali nè l'individuo nè la società hanno saputo trovare altrove: il disinteresse, l'energia, la perseveranza. : 2 BAR Olire questo valere affettivo, o biologico, indivi duale e svciale, la religione ha anche un valore inlelleltuale? Questa questione si divide in due dice il James: «Solto la moltitudine delle credenze vi sono delle affermazioni comuni? » E: «sono vere tali affermazioni?» La risposta alla prima questione è affermativa: in tutte le religioni vi sono due stali »- . d'anima identici: il sentimento d’inquietudine che <S in noi c'è qualche cosa che va male, e il sentimento che noi siamo salvati dal male entrando in rapporto con esseri superiori con qualche cosa più yrande di noi: lotta e liberazione: ecco la sintesi della religione personale e il perchè del suo immenso valore sulla vita. Ma che cos'è questo qualche cosa di più grande? È reale o immaginario? Come possiamo en{rare in rapporto con lui? Qual'è, insomma la verità della religione? Xispondeve a quesle questioni impiicile nelia se-. conda è costruire delle sopracredenze (surcroyances) individuali e collettive, tutte buone se aiimentano il nucleo vitale della religione. Vi possono essere e vi sono di fatto tante aggiunte individuali alla credenza unica quanle sono le anime o i lipi religiosi , Il «rapporto col divino potendo essere, o essere inter{ pretato come rapporto o morale o fisico, o rituale, «Si capisce come possano nascere delle costruzioni 7A _ losofiche e leologiche delle quali abbiamo visto Valore e anche come sorgano le Chiese. James, e con lui, naturalmente, più o meno tuil SA JAMES, L'Expérien. relig.) JasrEs, Ci è nota la sua croyance. 0% ‘La Religione net Pragmatismo pragmalisti non ama a dir poco le Chiese, con la loro organizzazione, coi loro. dogmi, con le loro tradizioni, perchè in esse è uccisa la vita inte AQ ogni modo e dogmi e culto e mi debbono es: sere giudicati daì frutti individuali e social, e i frutti della vita religiosa sono sommessi alla giurisdizione del buon sense e dei pregiudizi filosofici e istinti morali dice allrove . Ed essendo questi pregiu‘dizt, questi istinti e questo buon senso frutti, essi stessi, dî una. evoluzione empirica incessante, anché le idee religiose si andranno incessantemente modificando. Dal giorno che ìi frutti di una data forma religiosa perdono ognì valore, dal giorno che la vec chia credenza è in contraddizione con un nuovo ideale; dal giorno che la ragione la dichiara lroppo puerile, troppo assurda o troppo immorale essa cade trascinando, nella sua caduta, il Dio creato dall'uomo per «servirsene. E noi confessiamo che in i una dottrina interamente antropocentrica, nella quale l'uomo è la misura di iulte le cose, cioè, le esi È enzo, i desideri e gl’interessi umani nel modo che s'è veduto, lutto ciò è logico ©... anche utile, fino et un certo punto. Ed è naturale che il pragmatismo crede di fare un mondo di bene alla religione € alle religioni. Ci dice Schiller: Il pragmatismo jo uma nist,0) ha dimostrato che la volontà di credere sta. ulla base, non solo della religione, ma di qualunque - gpecie di inferenza 0 di atto razionale, e che, quindi, la sfera dei iudizi di valore non è coestensiva solo | |» alle verità religiose, ma a qualunque verità: la fede i lia così cessato dì essere un ‘avversario e un sosli- i futo della ragione ed è diventata un suo costitutivo | essenziale. Come potrà la ragione contestare la validità della dor: L'Erpér. relig. Pel «s î actetta: Pel «servirsene» cita ancora il Lepba L lì Pragmatismo dI fede, se la fede è essenziale alla sua stessa validità? E altrove: « Tutte le religioni (concrete) possono profillare dell’atteggiamento di simpatia che l'umanismo assume davanti agli istinti religiosi della nalura umana e verso le evidenze e i metodi delle religioni. 1l pragmatismo, affermando il fatto religioso e il suo valore sulla base dell'esperienza interiore e dei risultati individuali e sociali, rende vani gli altacchi razionalistici e mette la religione al sicuro dalle confutazioni dialettiche. Il pragmatismo inol(re, come si è mostrato un eccellente « eirenicon » tra le dottrine filosofiche, apparirà un «eirenicon» non meno efficace tra le religioni. Non è vero che lutte operano (in senso pragmatista) in una cerchia più o meno vasta? Ma allora esse sono identiche nella loro parle veramente vilale, attiva: e che importa sc differiscono teoricamente? Terzo beneficio: il: pràgmalismo libera, così, le religioni da ciò che vi è in esse di non-funzionale, dalle incrostazioni parassilarie ed csiziali, e, per tal modo, le rinvigorisce. Che cos'è la parte non-funzionale della religione? È il suo lato teologico . 18 qui una tirata contro i sistemi teologici, contro le infiltrazioni della metafisica greca nel « Credo atanasiano » e contro l’identificazione di Dio con «l'Uno». Già! La conclusione possiamo accettarla anche noi, ma basandola su fondamenti affutio diversi da quelli del pragmatismo: «La reli- 5 gione più vera è quella che proclama una vita mi- $, gliore e la promuove. ; Stud. in Hum. ScurLrer: Stud. in Hum. ,..(8ì E la conclusione dell'Essay, XVI: Fatt, Reason and Ri ligion in: Stud. in Humarism: «the truest reli tons that Which issues in and fosters the best life», Rd A eri della Logica formale nella con= S 1. Caratt { 2. La validità formale. cezione di Schiller. gi. Schiller sotto il nome di « logica formale» inchiude e condanna non solo quella che da al tri è designata col nome di logica formalistica mn anche la logica formale propriamente detta, e, criticando e condannando quella, presume di aver criticato e condannato anche questa, cioè, in blocco, . tulla la logica tradizionale e classica, alla quale dovrà sostituirsi la logica psicologica, 0 psicologistica, cioè quel complesso di leggi o regole o norme del pensiero che risultano dall'analisi psicologica del pensiero, ossia dalla considerazione dei processi del pensiero, non in una pretesa forma di esso di materia idel concetto, del giudizio, del raziocinio con: siderati astraltamente nella loro forma verbale di temine, proposizione € sillogismo considerai9 esso pure, a sua volla, astrattamente), ma nel loro sorgere e syolgersi allraverso la fitta rete psichica di Fferessi, di desideri, ecc. : la logica dello psicologi smo e della forma speciale di esso offertaci dal pragmatismo, insomma. Una logica et posteriori risut SCHILLER. Formul Logic. A sclentifle and s0cial Problem. > Un yol, Macmillan and 0.9, London. stinta dalla | er selezione, non a priori, una logica, pare, SOA sì, ma indotta in base a postulati, non dedotta. Il pensiero puro, così come la forma pura del pensiero non esistono; quindi ogni logica è necessariamente empirica nella sua origine e nel suo valore. E così con la logica sillogislica è condannata anche la logica del concello col solo semplicismo che abbiamo imparato a conoscere altre volte nello Schiller. Ma, evidentemente, prima di condannare in blocco, bisogna vedere se tra la logica formale e formalislica c'è idenlità, o se non c’è invece una diiferenza radicale che impone una pertraltazione a parle e radicalmente diversa di quelle due discipline. La logica formale vera è la dottrina della forma unica del pensiero: il concelto, come sintesi di individuale c come concelto universale contro, come scienza del concetto puro. Per essa la forma verbale in cui si suole incarnare generalmente il concetto non ha nessun valore logico e si guavda bene dal cousiderane le distinzioni verbali come distinzioni conceltuali 0 l’identità di forma verbale come identità concettuale. La logica forinalislica invece, trasporta nei concetti le qualità e le distinzioni dei termini, trasporta nei giudizi le modalita e le specie delle proporzioni, lrasporta nei raziocinì le figure e ì modì dei sillogismi: anzi la distinzione stessa delle forme logiche in concelti, giudizì e raziocini è nient’allro che una proiezione di forme verbali nell’altivita del pensiero. Perciò la logica formalistica qua talis, non ha valore speculativo (logico in senso vero), ima solo empirico © UCSCLILLvo; ci dà, Massunti, con piu o meno pretese (il copielezza, i modi piu consueti dei quali l'uomo 51 serve nel suo discorrere, nell'esposizione e ncila a discussione delle idee; è un'arte in senso di tecnica, 9 meglio, è una collezione (non connessione) delle forme del discorso empirico umano, una specie di leltorica 0 grammatica messa a servizio non del parlur bello ma del parlur giusto. Può essere ed è fino a un certo punto praticamente utile come tutte le discipline descriltive assunte a discipline nurmative d universale, come storia o guidizio sintetico, a priori, . DA | Sèhiller e la logica formale e precettistiche, ma non ha valore speculativo, ron ci dè, anzi ci nastonde la forma intima. del pensiero necessario € unico, © SÌ contenta di offrire! le forme esteriori, arbitrarie è quindi componibili € combina: bili all'infinito. I Jo Schiller na un buon gioco a mostrare il caraltere arbitrario di questa logica, la astrallezza di essa, la îmulilità e perfino il danno non leggero che essa può anrecare allo sviluppo Serio delle scienze © della mente individuale. Ha ragione lo Schiller: « IL îs nol .? ossible t0 abstract {rom the aclual use of the logical | material and lo consider forms ol lought @ 4 Ihemselves, voilout incurring thereby a total loss, 1’ hi nol only of Wrui, but also of meaning ”. i s 2. Ma con ciò non si è déito che ba ragione @ | ‘non riconoscere altre logica ché que:lu psicolugica, | tutt'altro. Oltre la logica formalistica (0 tormale cu- | mè la chiama erroneamente lo Schaller), c'è la logica i formale vera secondo la quale la maleria è fusa nel la forma, poichè per èssa la forma logica, concel‘tuale, sintesi di materia e forma, di pensiero e lup ‘esentazione: è forma Non astratta me concrela ; e tulto il pensiero reale storico perchè appunto sun: f (esi univarsale individuale: è il razionale-reale, il fl concetto.È Dio ci salvi dalla logica psicologica 0 psicologistica! Poichè in essa, oltre che non trovare nulla di # meno arbitrario che nella logica forinalistica non sì ì trova neanche quella apparenzà di necessità e di asSolutezza che la logica tradizionale ci oifre, sia pure solto una forma astratta e verbalistica. Finchè non si accetta e non SÌ capisce la logitù del concetto puro e semplice, ogni tentativo di riforme logiche sarà nulla più che un saltare dall'arbiltàrio all’avbitrario, dall'astratto ali’astratto e un aggiungere al mele nuovo male o una forma nuova del male. L per yitenere questo scopo non mette certo conto di scrivere un grosso libro come questo. Sé lo Schiller avesse rinesso bene su quelli che lui ritiene e sono i due caratteri fondamentali della 1oMl Praqmalismo' gica formalistica e cioè: I° la credenza che sia possibile considerare la «validità formale» come una cosa a parle e indipendente e astrarre dalla verità «materiale »; 2° la credenza che sia possibile trattare la iogica senza riguardo alla psicologia e di aslrarre dal contesto atluale in cui le asserzioni sorgono, tempo, luogo, circostanze, Scopo, personalilà, ecc. e se avesse poi esaminato con più spassionatezza la logica del concetto-sloria, non avrebbe forse futto giustizia sommaria di lutta la logica tradizionale cd avrebbe trovato che parecchie delle sue critiche sono state già fatte da altri, i quali non senlirono però il bisogno di sostituire, come fa lui, le elichelte psicologiche alle elichette della logica formalistica. In questo libro c'è molto del buono anche perchè dai principio alla fine corre nelle pagine una domanda sempre crescente di concretezza ce, anzi, pare a volte che lo Schiller abbia colto il centro della critica e della ricostruzione. Purtroppo i: pregiudizi pragmalislici gli impediscono di assurgere ad un punto di vista superiore; anche lui, pur nella lotta contro gli schemi e !e elichetle, maneggia schemi ed etichette; meno mole, anzi molto bene che, da buon pragmatisla, ne è consapevole.:= et | La reazione contro l'intellettualismo. Verità e ‘utilità. Del pragmatismo non si parla più che com di un indirizzo di ricerche e di asserzioni, che ha avi | {fo il suo proverbiale quarto d'ora di celebrità pei scomparire per sempre e senza visibili influssi sullu svolgimento complessivo ulteriore del pensiero. Nata da une reazione all'intellettualismo razionalislico ed empiristico, che non sapevano valutare l'attività de: soggetto nella creazione del mondo del pensiero € della vita; allermalosi come volontarismo ceudemo:; nistico o come filosofia dell'azione utilitaria, non ha sapulo nè volulo evilare, con una doverosa distin: zione dì logica e psicologia, lo scoglio terribile dellà formula protagorica: l’uomo è la misura di tutte lt cose ed'è finito nello agnoslicisnio e nello scellici sino, È inulile she ci ripetiamo. Iidotla la filoso; fia a un prodolto dell'individuo, © ad espressioni del la nostra soggellività volitiva e i giudizi scientifici speculativi a semplici giudizi morali; negala la pos sibilità di raggiungere l'assoluto, la ragione intima immanente e ascendente dell'essere o del divenire con l'affermazione della universale soggettività e Ie ‘natività; posto l’utilitarismo a base di ogni costruzio: ne concelluale e considerati, quindi, i concetti com‘ funzioni dell'interesse individuale, 0 tutt'al più s0 ciale, il pragmatismo si risolve logicamente in uni rinunzia a fi osofare. Può essere metodo per sè, I i UT Il Pragmatismo : i lla vita colta non filosofia sc IRRMIgSORE E So nella sua razionalità e nei s o ve omalismo profes E, infatti, come s'è veduto, 1 flo: esso non ha sa di essere semplicemente ua Coe etodo WNGNan: dog int aa istcao mon è forse una dottrina? Magli vamestto he riassume il meNon è una dottrina la formula c arsi tutte todo pragmatistico: « Sono er 6 da acco utili le neri SAS SIE n è forse implicito alla svitaza in: ilitari ico e, insieme, il n più Sconto no leorecot È esp ducslo ab: Dima definito, credo, Felino due aspetti più es ziali la teoria pragmati nd AR Sa CLES Della quale non è qui il luogo di TISIRLS estesamente il valore storico. Possiamo dire il nos D pensiero in due parole: il pragmatismo è andato all'eccesso opposto nella sua reazione all intellettualismo, perchè ha negato addirittura il concetto come tale, ogni concello, rendendo, con ciò stesso, vano, perchè senza fondamento, la Rane buona . dell'indirizzo, quella che, purificata di tutto l’utilitarismo + materialistico che troppo spesso la intorbida, si può esprimere nelle parole evangeliche: Dai frutti conoscerete l'albero. L'utilità nel senso spirituale altissimo della parola è un aspetto della verità: la verità eleva, la verità libera, la verità sacrifica. Ma, non dimentichiamolo mai, una dottrina non è vera, a propriamente parlare, perchè e in quanto è utile, ma è utile perchè‘vera. La verità metafisica e logica di una idea e di un Sistema d’idee è il fondamento di tutti gli altri attributi dell'idea e del sistema e di tutte le loro corrispondenze alle esigenze etiche dell'uomo. Yogi Pragmatis Rimandiamo alle seguenti pibliografie: The Pych Zev. Parini, Saggì pragmatisti, R. Carabba, Lanciano; SPIRITO, Il pragmatismo nella Jilosofia contemporanea, Firenze, Vallecchi Sinvio TISSI, Nota bibl. al vol. su James, Milano,. Ed. Athena | Segnaliamo poi, nella ricchissima bibliografia dell’argomento oltre ui molti scritti segnalati occasioalmente nelle note le seguenti opere: G. VAILATI, Scritti, Firenze, Secher; Papini, Sul Pragmatismo, Milano, Libr. Ed. Milanese (ripubblicato da Vallecchi); M. CALDERONI è G. VAILATI, IL $ pragmatismo, Lanciano, R. Carabba, SPIRITO, ; M. CaLpeRONI, Scritti, a cura di O. CAM7 Cna, con pref. di G. PAPINI, Firenze, «La Voce», INDIVISUO LINEE FONDAMENTALI DEL PRAGMATISMO. Il Pragmatismo anglo-americano. Pragmatismo e Umanismo.Pragmatismo e conoscenza. LA TEORIA DELLA VERITÀ E DELLA REALTÀ. La condotta. La dottrina dolla verità. La dottrina della realtà. LA RELIGIONE NEL PRAGMATISMO. Lo preoccupazioni etiche e religioso. L’esistonza di Dio. Il concetto di Dio.Religione e Religioni. SCHILLER E LA LOGICA FORMALE.Caratteri della logica formale nella concozione dello Schiller. La validità formale Ù 5 5 9 - VALUTAZIONE CRITICA. La reazione contro l’intellettualismo. Verità e utilità. È. NOTA BIBLIOGRAFICA. I MAESTRI DEL PENSIERO. VOLUMI CHE INIZIANO LA COLLEZIONE i) ei n VALENTINO PICCOLI À {Bi: INTRODUZIONE DELLA FILOSOFIA. ROTTA PAOLO ROTTA. ARISTOTELE BERKELEY | IALENTINO SETCOO LI ! TAROZZI PLATONE LOCKE | S: PICURO. LAMANNA AAA ° "KANT RUIZ na LOTINO MAGGIORE FICHTE HQ C. AGOSTINO MIGNOSI E. C. SCHELLING AQUINO MAGGIORE | C. HEGEL i S. FIDANZA Big ni x TISSI c ARTESI O SCHOPENHAUER i Fa PAOLO. ROTTA E. MOTOMIL MI o SPINOZA STUART MILL “50 »ALENTINO PICCOLI E. MORSELLI Î Y MIENIINO PICCOL CUORSEI È Pubblicati: P. ROTT _ SEINOZS x ì. MiGGIONE HEGE ZINI =. 2 SoioFENnAUER LAMANNA KA MAGGIORE FIGI TITE . C. S. TOMASO VICO "TISSI _ GATESIO MORSELLI. COMTE BOT. ARISTOTELE. SCHELUINO IRINA Kc} fe3: Emilio Chiocchetti. Chiocchetti. Keywords: prammatico, Grice: “In Italy, just to know that a philosopher has a religion orientation disqualifies as a philosopher, and that is at it should. The keyword is: anti-Popish, Vico, Croce, estetica, Aquino, Gentile, Neo-Scolastica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiocchetti” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Chiodi: l’implicatura conversazionale dell’esistenti – scuola di Corteno Golgi – filosofia bresciana – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Corteno Golgi). Filosofo bresciano. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Corteno Golgi, Brescia, Lombardia. Grice: “I like Chiodi; for one, he plays, somethings rather sneakily, with the Italian language as Heidegger played with the German language: Heidegger is able to play with Latinate versus Germanic words: tat (deed) versus fakt. The Italians only have ‘fatto’ and this leads Chiodi to restrict ‘fatto’ to ‘tat’ and invent ‘effetto’ for ‘fakt!’ – “But other than that he was a genius!” Frequenta le scuole elementari al paese natio e le medie inferiori e superiori a Sondrio sotto la guida di Credaro, che lo avvia allo studio della filosofia. Dopo aver conseguito l'abilitazione magistrale si trasferì a Torino, dove si laureò sotto la guida di Abbagnano. Nell'anno successivo ottenne la cattedra di storia e filosofia del liceo classico Giuseppe Govone di Alba, dove insegnò/ Qui entrò in contatto con Cocito, del quale divenne intimo amico, ed ebbe tra i suoi allievi Fenoglio. Questi ricorderà più volte nei suoi scritti i due insegnanti, con i loro nomi o con pseudonimi; Chiodi diventerà così, nel romanzo Il partigiano Johnny, il personaggio di Monti.  Grazie ai suoi contatti con Cocito, fervente comunista e antifascista, C. entra far parte di una formazione partigiana Giustizia e Libertà col nome di battaglia di “Piero”. Venne catturato dalle SS italiane, assieme ai suoi compagni, e deportato in un campo di prigionia a Bolzano, quindi a Innsbruck. Aiutato dal comandante del lager e da un medico, ottenne il visto di rimpatrio. Era alla stazione di Innsbruck diretto a Verona. Il 3 ottobre, verso sera, giunse nell'albese. Qui riprese la sua attività di partigiano, ora sotto il nome di battaglia di Valerio, mettendosi a capo, nelle Langhe, di un battaglione della CIII Brigate Garibaldi intitolato al suo collega Cocito, impiccato dai tedeschi a Carignano (località pilone Virle), insieme ad altri patrioti. Narrò la propria esperienza di lotta, di prigionia e di guerra civile nel libro scritto in forma diaristica e pubblicato dall'ANPI, Banditi, uno dei primi memoriali di deportati politici italiani.  Dopo la liberazione di Torino, C.  torna ad Alba. Si trasfere come insegnante al Liceo di Chieri e poi al Liceo Alfieri del capoluogo piemontese. Ottenne la libera docenza e fu incaricato e poi titolare della cattedra di Filosofia della storia alla Facoltà di Lettere e filosofia a Torino. L’Accademia Nazionale dei Lincei gli assegnò il premio del Ministero della Pubblica Istruzione per la filosofia e negli fu conferito il Premio Bologna.  Alla ristampa di Banditi C. premise questa avvertenza, poi conservata nelle edizioni successive: «La presente ristampa si rivolge particolarmente ai giovani, non già per far rivivere nel loro animo gli odi del passato, ma affinché, guardando consapevolmente ad esso, vengano in chiaro senza illusioni del futuro che li attende se per qualunque ragione permetteranno che alcuni valoricome la libertà nei rapporti politici, la giustizia nei rapporti economici e la tolleranza in tutti i rapportisiano ancora una volta manomessi subdolamente o violentemente da chicchessia».  Raccolse grande stima ed affetto tra suoi allievi, che ne conservano tuttora il ricordo di un grande Maestro, limpido esempio di tolleranza e serenità di giudizio.  Attività filosofica L'attività filosofica di C. si concentra specialmente sull'Esistenzialismo, riletto in chiave positiva. La maggior parte delle sue opere è dedicata a Heidegger.  Egli è il primo traduttore in italiano di “Essere e tempo.” Proprio a C. si deve la definizione della terminologia heideggeriana in italiano, divenuta poi abituale tra gli studiosi. Valga un caso per tutti: la traduzione di “Dasein” come “esserci”, capolavoro di sintesi ed efficacia, spesso e volentieri non ancora raggiunta in questo specifico caso in altre lingue. Al filosofo tedesco dedica anche, ovviamente, diversi saggi: L'esistenzialismo di Heidegger, L'ultimo Heidegger, Esistenzialismo e fenomenologia. È, inoltre, traduttore di L'essenza del fondamento e Sentieri interrotti. A Kant dedica, invece, La deduzione nell'opera di Kant e ne tradusse la Critica della ragion pura e gli Scritti morali. È infine da ricordare il suo interesse per Sartre, del quale si occupa nell'opera Sartre e il marxismo.  L'esperienza partigiana rimase sempre una pagina fondamentale nella vita di C.i, per cui il valore della libertà occupa sempre il primo posto. Non è un caso che Fenoglio fa rivolgere da parte di Monti, nel Partigiano Johnny, proprio questo ammonimento ai giovani partigiani di Alba: «Ragazziteniamo di vista la libertà». La sua unica opera narrativa, Banditi, ricca di valore non solo storico e morale ma anche letterario, è stata definita da Lajolo «Il più vivo, più semplice, più reale di tutta la letteratura partigiana» (L'Unità) e da Fortini “un capolavoro.” Ci sono dei tratti straordinari, nel tragico come nel comico».  Opere C., Banditi, con introduzione di Beccaria, Torino, Einaudi, C., Esistenzialismo e filosofia contemporanea, Cambiano, Pisa, Edizioni della Normale, Deportati Politici Italiani, su restellistoria.altervista.org. C., Banditi, Torino, Einaudi, Conoscere la Resistenza, Milano, Unicopli, Resistenza italiana Deportati politici italiani Esistenzialismo Heidegger Opere di C.,.  Biografia di C. nel sito dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia, su anpi. Centro Studi Fenoglio C., su centrostudibeppefenoglio.Antifascismo Filosofia Filosofo del XX secoloPartigiani italiani Corteno Golgi TorinoBrigate Giustizia e LibertàDeportati politici italiani. Chiodi. Keywords: esistenti, nulla annhihila, Kant imperative, counsel of prudence, rule of ability, practical reason, existentialism, Heidegger, greatest philosopher, maxim universality, maxim universability. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chiodi” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Chitti: l’implicatura conversazionale – scuola di Citanova – scuola di Macerata – filosofia maceretese – filosofia marchese -- filosofia italiana – Luigi Speranza  (Citanova). Filosofo marchese. Filosofo italiano. Citanova, Macerata, Marche. Grice: “I like Chitti; not so much for what he philosophised about – law and law and law – but the way he corresponded with Say – a French philosopher – on the lack of an adequate philosophical vocabulary in Italian to express Aristotle’s principles of oeconomia!” Fervor, temperanza e, ingegno finissimo fanno di lui uno di quegli filosofi che sono atti egualmente alla filosofia ed all'azione.  Figlio di Giuseppe, avvocato e giudice alla Gran Corte Criminale di Reggio. Partecipa a Napoli, col padre ed i fratelli, alla rivoluzione. In seguito alla capitolazione del Forte Castel Nuovo, ripara in Francia. A Parigi, termina gli studi giuridici e strinse amicizia con molti patrioti del tempo.   Ferdinando I delle Due Sicilie Tornato a Napoli, esercita in città la professione di avvocato e difese Casalnuovo (l'odierna Cittanova) contro la feudataria del luogo, la principessa di Gerace, davanti alla regia commissione feudale. Fattosi un nome come avvocato, dopo la restaurazione ha la nomina di segretario generale al Ministero di Grazia e Giustizia del Regno. A Napoli sposa la figlia di Hipman, un capo dipartimento di uno dei Ministeri del Regno. Coinvolto nella rivolta contro Ferdinando I organizzata dai sottotenenti Morelli e Silvati, e quindi privato della carica ed esiliato. Passa un periodo a Londra, e tenta di ritornare a Napoli, ma ha l'inibizione ufficiale a rientrare nella capitale. Anda a Firenze e di lì a poco, chiamato da amici, si reca a Bruxelles.  In Belgio da lezioni di diritto pubblico e di economia sociale, ottenne la carica di segretario della Banca Fondiaria e si fece un nome. Il governo belga gli confere la licenza di professare Economia Sociale, e tenne quattro letture pubbliche nel Museo di Bruxelles. Le sue quattro letture sono intitolate da lui stesso «Corso di Economia sociale», compendio delle sue vaste vedute e della sua non comune cultura sull'argomento. Pubblica altre saggi ed in seguito alla fama acquisita, il governo belga gli conferì la carica di professore alla facoltà di diritto dell'Bruxelles. In Belgio pubblica la maggior parte dei suoi saggi e strinse amicizia con GIOBERTIi, che lo define valente economico. Nonostante la revoca dell'esilio, non torna a Napoli ma rimane in Belgio. Altre saggi: “Trattato di economia politica o semplice esposizione del modo col quale si formano, si distribuiscono e si consumano le ricchezze; seguito da un'epitome dei principi fondamentali dell'economia politica di Giovanni Battista Say” (Napoli, Stamperia del Ministero della Segreteria di Stato). Ermenegildo Schiavo, Four centuries of Italian-American history, Vigo Press. The New York Herald morning edition mercoledì. New York Daily Times pag. 4  Daily Free Democrat. The American almanac and repository of useful knowledge, Center for Migration Studies Special Issue: Four Centuries of Italian American History Wiley Online Library  Vincenzo De Cristo, Prime notizie sulla vita e sulle opere di C. Economista, Prem. Tip. e Lib. Claudiana, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Per una rassegna delle interpretazioni dell’azione  economica corporativa si veggano i nostri : Lineamenti  di politica economica corporativa. Catania, Studio Editoriale Moderno, Sono ivi ricordati i contributi più notevoli, teorici e  descrittivi, nel campo dell’azione economica corporativa. Si vegga pure il nostro studio : « Homo Oeconomi-  cus » e Stato Corporativo in : Giornale degli Economisti. Riportiamo qui la bibliografia essenziale dei contributi italiani allo studio dell’economia  corporativa, tralasciando di segnalare gli studi, numerosi, di carattere polemico e giornalistico, ma privi di  consapevolezza scientifica e, spesso, deformatori della  stessa realtà politica corporativa : Alberti M. : L’Homo Oeconomicus e V Esperienza Fascista in Giornale degli economisti, Arias G. : L’Economia Nazionale corporativa, Roma, Libreria del Littorio, idem. idem. Economia Corporativa, Firenze,  Poligrafica Universitaria, Amoroso L. e Stefani A. : Scritti cit. ; Arena C. : Scritti, cit. ; Benini R. ;  Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di teoria della politica  economica, in « Giornale degli Economisti ». Classifica le varie politiche economiche. Carattere  di quella corporativa: autogoverni economici particolari, con il compito di emanare misure rispondenti, nei  rami particolari, alla politica economica generale emanante dal governo economico centrale. Le corporazioni  sarebbero gli autogoverni economici particolari). Bruguier G. : A proposito di interventi statali, in «Archivio di studi corporativi », Pisa; Borgatta G. : Prefazione al nostro volume av. cit. : Lineamenti di politica economica corporativa; Carli F. : Teoria generale della economia politica nazionale, Milano, Hoepli, e dello stesso: Le  crisi economiche delV ordinamento corporativo della  produzione, in « Atti del II Convegno di studi sindacali corporativi», Ferrara; Chessa: Caratteri e  forme delT attività economica, in «Rivista di Politica  economica » Secondo questo autore  J economia corporativa non è altro che un’ economia di  complessi economici, che dev’ essere studiata nella sua  realta concreta, prescindendo da erronee identificazioni  dell individuo con la società e di questa con lo Stato).  Dello stesso autore: Vecchio e nuovo corporativismo economico in «Saggi di Storia e Teoria economica, in  onore di Prato», Torino, In questo studio l’autore conclude che il corporativismo italiano pur traendo alcuni suoi elementi dalle teorie enunciate dal Genovesi, dal Bastiat e dal List si differenzia da queste  in quanto che inquadra le sue idee in una concezione  piu larga, che non tiene solo conto degli interessi  dei singoli, ma anche di tutta la collettività nazionale,  che per essere sempre più aderente ai bisogni ed agli  interessi della Nazione, viene organizzata gerarchicamente dallo Stato); Degli Espinosa A.: La forma e  la sostanza della economia corporativa, Firenze Poligrafica Universitaria; Del Vecchio G.: Teoremi  economici deW ordinamento corporativo. Comunicazione  alla XIX riunione della «Società pel Progresso della  Scienza», riassunta in « Lo Stato »; Einaudi L. : Trincee economiche e corporativismo in « La Riforma Sociale », ;  e dello stesso: Corporazione aperta in «La Riforma Sociale » Fanno M. scritto cit.; Fasiani  M.: Contributo alla teoria delVuomo corporativo, in  « Studi sassaresi », ; Ferri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di vista  economico, Padova, CEDAM, Fovel M.: Economia  e corporativismo, Ferrara, S.A.T.E. e dello stesso:  La rendita e il Regime Fascista, Milano, Ediz. dei « Problemi del Lavoro», Politica economica ed economia corporativa, Ediz. «Diritto del lavoro»; Camera corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara; Fossati A.: Premesse per lo studio di ima economia e di una pplitica economica corporativa, in : « Rivista di Politica Economica »,  (Ritiene  questo A. che tanto la politica economica corporativa,  quanto l’attività corporativa come condotta ipotetica degli individui dei gruppi animati di una coscienza corporativa sono teorizzabili: il secondo per definizione, e in  tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi alla coscienza corporativa (all’autore parendo il più adatto  perchè conforme alle direttive del Regime quello che  ha a base 1 interesse della Nazione, ossia il massimo benessere individuale compatibile col benessere della Nazione); ed il primo, quando le norme abbiano sufficiente chiarezza (univocità) e costanza da consentire  una costruzione logica di conseguenze possibili. Purché non si mescolino precetti e teoremi, e peggio, non  si confondano gli uni con gli altri, è perfettamente  legittimo fare della economia corporativa una « economia » astratta, trovare il nocciolo razionale del concreto empirico). Gobbi U. : Il procedimento sperimentale della economia corporativa, « Giornale degli economisti»; Galli R. : Corso di economìa  politica, Firenze, Poligrafico Universitario, e dello  stesso: Corso sulle imprese industriali, Firenze, Poligrafico Universitario; Jannaccone P.: La scienza  economica e Vinteresse nazionale (Discorso tenuto all’inaugurazione dell’anno accademico della R. Università di Torino,  e dello stesso : Scienza,  critica e realtà economica, in « La Riforma Sociale »; Lanzillo A.: Studi di economia applicata, Padova, Cedam, e dello stesso  A.: Il contenuto dell’ economia corporativa, Rivista Bancaria, ed Economia corporativa e politica economica, Giornale degli Economisti; Lo Stato come fattore di produzione, Rivista Bancaria (Lo Stato  come inserzione di volontà nell’ attività economical.  Anche Ettore Lolini, a parte la sua antipatia per la  scienza economica tradizionale e la notevole incomprensione degli economisti ortodossi i quali riescono interessanti a seguire non come simpatizzanti delle idee liberali o di altre tendenze, ma come scienziati dell’economia, riconosce che per dare un carattere di  socialità, che concili l’interesse privato con quello  sociale o nazionale, alla economia privata, non è necessario giungere alla totale abolizione dell’economia  privata ed alla identificazione dell’ economia pubblica,  come ha fatto Spirito, il quale col porre erroneamente  al centro dell attività economica umana la produzione  e non lo scambio non ha visto che nello scambio si  ha la sintesi dell’ interesse individuale e dell’ interesse  sociale, perchè nello scambio, mentre l’interesse è individuale, il risultato è sociale. Per eliminare del tutto,  come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico dei  valori economici ed il movente egoistico dei fatti economici e identificare F iniziativa economica privata  coll’iniziativa economica pubblica o statale, bisognerebbe trasformare la psicologia umana, abolire la personalità economica umana e con essa tutte le diff erenze  di bisogni, di desideri e di gusti che esistono ed esisteranno sempre fra gli uomini, differenze che costituiscono  la base dello scambio e la molla del progresso economico  e che nessun sistema di economia socialista è mai riuscito a sopprimere. Il porre a fondamento dell’economia corporativa la  produzione e quindi l’organizzazione e la gestione economica della produzione invece dello scambio, inteso  nel senso della ripartizione del prodotto di ogni grande  ciclo produttivo fra tutti i fattori della produzione mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del lavoro,  del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli  intermediari, porta a delle conseguenze pratiche fonda-  mentali per la definizione dei fini e delle funzioni  della Corporazione. Nel primo caso, infatti, si dovrebbe  giungere alla Corporazione organo di gestione economica col passaggio di tutta l’iniziativa economica privata alla Corporazione e con la conseguente trasformazione di tutta l’economia privata in economia pubblica. Nel secondo caso, invece, la Corporazione non assumerà la direzione della gestione economica della produzione, ma avrà la funzione economico-sociale di eliminare il classismo o particolarismo economico, di impedire che uno o più fattori della produzione si facciano la parte del leone nei confronti con gli altri fattori e di adeguare l’andamento dei prezzi al produttore con quello dei prezzi al consumatore. Cfr. di  questo A.: Il problema fondamentale dell’economia  corporativa, Critica Fascista;  Masci F.: scritti cit. e: Saggi critici di teoria e metodologia economica, Catania. Sono raccolti con lievi  modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni C.:  A proposito di un tentativo di teoria pura del corporativismo, in « Fiamma italica », e  dello stesso: Strumenti teorici di corporativismo, in Giornale degli economisti,  (in questi  scritti il Pagni critica a fondo la costruzione teorica corporativa del Fovel. Contro questi si schiera anche Bru-  guier nello scritto sopra citato ed anche noi nei nostri  scritti av. cit. Contra anche Arias ed altri); Sensini G.:  L’equazione dell’equilibrio economico nei regimi corpo-  rativisti, in «Lo Stato;  Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in «Educazione Fascista », e, dello stesso : Economia corporativa e agricoltura, in Atti del Convegno di studi  sindacali e corporativi», Ferrara; Spirito U.: La  critica dell’economia liberale, Milano, Treves, dello  stesso: I fondamenti dell’ economia corporativa, Milano,  Treves, e Capitalismo e corporativismo, Firenze,  Sansoni. L’interesse suscitato degli scritti filosofici di questo  A. sono dovuti a ragioni di carattere esclusivamente  polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane filosofo.  Nella critica all’economia liberale, infatti non fa che  ripetere, con sintesi brillante, quanto è stato detto dai  seguaci della scuola storica tedesca e dagli istituzionalisti americani contro la economia liberale. È confusa  la scienza economica con la praxis dei governi liberali  e demoliberali. Nella critica al capitalismo non fa che  ripetere, in linea essenziale, quanto il Sombart ha  espresso nella sua opera monumentale sul capitalismo  e quanto altri economisti contemporanei hanno scritto  contro il sistema capitalistico, e che l’A. si guarda bene  dal ricordare. Nè è fatta alcuna discriminazione, fra  capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare che  m Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio. Nei  tentativi di costruzione teorica del corporativismo fascista tiene conto, in particolare delle dichiarazioni della  Carta del Lavoro che rincalzano la propria tesi per  Ja quale vede la soluzione corporativa n clini entità  assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia il pensiero di Hegel e di Marx. Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione teorica la  quale e apparsa a sfondo social-comunista per l’ammis-  sione della corporazione come proprietaria. Propugna,  inoltre, 1 A. il partecipazionismo operaio, altro espediente vecchio e già discusso ampiamente nei tempi  passati. Ma, con buona volontà, si può Scorgere nel  sistema di Spinto anche un liberalismo assoluto per  cui dopo aver letto gli scritti di questo A. del corporativismo si riuscirà a capire meno di prima. E non  m tenrnamo quii su altri grossolani errori espressi  dall A. nel campo delle realizzazioni pratiche corporative, come per es. su quelle in cui consiglia per il  nostro Paese una industrializzazione ad oltranza, la  emissione di prestiti esteri, una politica commerciale  che sara forse realizzata, ecc (Tutte  queste idee sono espresse nel voi.: Capitalismo e Corporativismo, Sansoni, Firenze).   Contra a Spirito, si vegga: Arias, cit., Jannaccone,  cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso cit.. Vinci, appresso citato, ed i seguenti scritti. CROCE (si veda), L’economia filosofata e attualizzata, Critica; Galli, Sull’identità dell’individuo  con lo stato, La Vita Italiana;  (jANGEMI L. : Individuo e Stato nella concezione corporatina, m «Atti del Secondo Convegno di Studi Sindacali e Corporativi, Ferrara; Brucculeri: L economia corporativa, in «La Civiltà Cattolica», e dello stesso: Crisi e capitalismo, nella stessa rivista, etc. Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e  Stato nelle Corporazioni (Archivio di Studi Corporativi) mostra come la formula  dell identità è chiarissima nel pensiero dei socialisti e  dei liberali. L’individualismo moltiplicando le sue forze non rinuncia ad essere sè stesso. Il grande significato  del Corporativismo è la disciplina economica nazionale.  Con il Corporativismo si passa dal soggettivismo all’oggettivismo. Alla organizzazione professionale è affidata,  sopratutto la oggettivazione delle scelte economiche.  Il nuovo modello della realtà economica non potrà non  essere anch’eseo, naturalistico e deterministico: non c’è  scienza senza determinismo. Caratteristica delle concezioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello Stato  Corporativo non vi saranno più disoccupati!).   La nostra divergenza ideale con l’economia degl’idealisti non va assolutamente confusa con le invettive di quei messeri interessati ad un intervento che oggi  chiedono e ieri respingevano, nè con le interpretazioni  di coloro che hanno gli occhi sulla nuca!   Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii della  Scienza Economica e l’economia corporativa («Rivista  di Politica Economica»). M. rifiuta 1 identificazione fra Stato e Individuo. Integrando  e correggendo le opinioni di Arias e Fovel considera  l’economia corporativa come una economia non euclidea. Papi, Un principio teorico dell’economia corporativa, Giornale degli Economisti, e  più diffusamente in Lezioni di Economia Generale e  Corporativa», Gedam, Padova. (P.  ritiene che il sistema corporativo si possa considerare  come lo strumento capace di assicurare le imprese contro i (risdhi extra-economici (guerre, crisi, scioperi, etc.). Rossi, Economia e Finanza. Chiarifica il  concetto di concorrenza e mostra i caratteri della teoria dell’equilibrio economico generale. L’ordinamento  corporativo traduce nel diritto positivo un complesso  di norme di diritto naturale, che presiedono al fenomeno sociale della ricchezza. Ne risulta un diritto corporativo, definizione giuridica della libertà economica  c e sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e la  figura dell’uomo corporativo si risolve nell’uomo economico libero. L’economia corporativa importa la penetrazione nell’organismo produttivo di un sistema organico, razionale di politica economica. L’economia corporativa risolve il contrasto fra l’essere e il dover  essere della vita economica. Dover essere: razionalità  (teoria economica pura), eticità (politica economica). Le forze direttrici corporative devono fornire al dinamismo economico il volano regolatore). Vinci F.: Il corporativismo e la scienza economica  (Rivista Italiana di Statistica, etc..  Questo A., conscio delle interdipendenze fra i vari fattori di produzione e fra le varie imprese e delle condizioni di concorrenza mondiale, ha dimostrato che  la « disciplina unitaria e l’autodecisione, ove conducesse  fino ala determinazione delle produzioni e dei consumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni dell’uria o dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti  reciproci, non solo fra due o tre, ma fra tutte le Corporazioni, imponendo al Consiglio Nazionale delle Corporazioni un continuo, pericoloso compito di revisione  e di conciliazione in base a valutazioni complicatissime, a criteri di difficile determinazione oggettiva. Sulla Finanza Corporativa.   Si espressero anni addietro a favore del contingente:  Griziotti, Finanza di guerra e riforma tributaria, in  «La Riforma Sociale. Contro il  contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Finanze, Torino. Ed oggi, a favore del  contingente (citiamo gli scritti più seri): Benini, loco  cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa, Echi e Commenti, e dello stesso: Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti  del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara; Bonanno: L’extra-individualismo  nelle entrate del bilancio dello Stato, « Dir. e prat.  trib. »e dello stesso: Lo Stato corporativo e la  sua finanza, Diritto del Lavoro;  Uckmar : Ordinamento Corporativo e ordinamento tributario, Relazione al I Convegno nazionale di Studi  Corporativi», Roma, e dello stesso: Verso una  revisione corporativa della pubblica finanza, Diritto  del Lavoro, Roma; Riforme tributarie e Stato  corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma, ; Finanza corporativa, in « Diritto e Pratica Tributaria.  Roma, ed infine, sempre dello stesso: Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in Atti  del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi, Ferrara. Fra questi autori la corrente radicale  trova favorevoli Benini, Bonanno e Montemurri.  Uckmar ritiene che la finanza sia individualista e perciò la vorrebbe riformata in un senso meno individualista, ma nei suoi studi esprime delle proposte che  trova consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente,  che riconoscono doversi inserire nell’ordinamento corporativo anche la finanza allo scopo di raggiungere quei  fini che gli conferiscono caratteri fascisti.   Sono contro D’Alessio, in un suo articolo: Evasione fiscale e riforma tributaria, Augustea, e Genco («Comunicazione al II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara) i quali vorrebbero arrivare all’abolizione o per  lo meno alla riduzione degli organi finanziari statali  ed alla loro sostituzione con le Corporazioni! Uckmar,  contingentista moderato, riconosce che il potere impo-  sizionale tributario spetta allo Stato. Quest’autore quindi può inscriversi fra i fautori di una finanza coordinata all’ordinamento corporativo, ma è lontano dalle  Improvvisate e rivoluzionarie trasformazioni. La finanza  oltre a presentare un contenuto politico, riveste un contenuto tecnico con il quale male si accorda la improvvisazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddi-  stazione di essere considerati rivoluzionari al cento per  cento, mentre agli altri rimarrà la soddisfazione di non  avere incoraggiato i salti nel buio che in materia finanziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e perciò  si ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non  meno rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano  i ce piu radicali. Il tempo sarà giudice sereno fra tanto contendere. Ricordiamo i seguenti scritti fra i tanti che  accolgono, con moderazione, una riforma tributaria in  ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino Ca-  Problemi di Finanza, Torino, Giappichelli; Scandali: E.: Imposizione tributaria e Stato Cor-  porativo in « Echi e Commenti », e dello   TTr- A r-,ane r e   in «Giustizia tributaria»,; Gangemi L-   rinanza Corporativa, in « Rivista di Politica Economi-   Stato C e dell ° stesso: La finanza nello  Stato Corporativo, Commercio, Roma, £ r” cernii in   «Rivista di Politica Economica» (e una carica a fondo contro la funzione graduale,  ransitona e limitata del contingente come è propugnata da Montemurri e dal Cardelli il quale ultimo  ha espresso la sua tesi in Il Commercio)i Toselli Colonna: Teoria e  problemi della- economia finanziaria corporativa, Alessandria Colombani (è questa una diligente rassegna dei problemi corporativi della finanza). Infine,  si segnala 1 eccellente studio di Borgatta: Le funzioni  WaC “ f *’ in « Lo Stato », febbraio e   CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova,  CEDAM) non sembra opportuno affidare all’Associazione Sindacale la ripartizione degli oneri tributari  a gin associati. Le associazioni sindacali, probabilmente « non sarebbero neppure molto disposte ad assumersi  tali compiti, ohe spesso non sarebbero neppure in grado  di svolgere efficientemente data la limitatezza e l’inadeguatezza dei mezzi che hanno a propria disposizione,  anche a prescindere dal giusto timore dei dirigenti di  potersi creare m tal modo animosità lesive di quella  compattezza dell’Associazione Fascista, che costituisce  uno dei suoi requisiti più essenziali in relazione ai fini  propostisi dal nostro legislatore. Un chiarimento sulla tesi riformista di Benini. La  ritorma propugnata da questo autore (studio cit.), per  quanto riguarda l’imposizione diretta, è vasta e coraggiosa: due tipi di imposte dirette, proporzionali, l’una sul reddito totale di famiglia, l’altra sul patrimonio-.   Senza dubbio, la scienza finanziaria ed il procèsso  evolutivo della legislazione fiscale degli Stati moderni  pongono in evidenza i tributi globali e personali come  il fondamento di un corretto sistema di imposizione diretta in luogo delle imposte reali imperfette e causa di  sperequazioni gravi ed inevitabili. Il nostro sistema attuale è fondato appunto sui tributi reali, integrati da  una imposta personale, la complementare, che con i  procedimenti fatti approvare dal Ministro Jung presenta una struttura che le consente di assolvere agli importanti suoi compiti. Ma, appunto perchè la riforma proposta dal Benini  muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro sistema d’imposizione diretta, sono necessari, per giungere ad essa,  lunghi e ponderati studi sulla entità, sulla composizione,  sulla distribuzione e sul raggruppamento dei redditi,  sulla organizzazione tecnica della nuova amministrazione; sopra tutto occorre, per concepire ed attuare una  riforma così vasta e complessa che le condizioni dell’economia nazionale e della pubblica finanza entrino  in un periodo di sufficiente tranquillità e stabilità. Tutte  cose queste di cui il Benini è consapevole. Un posto a parte tiene Griziotti il quale fra le  due opposte opinioni che esiste una finanza corporativa oppure il contrario che questa non esiste sostiene  una terza e differente che trova riscontro nei seguenti  scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche nello  Stato Corporativo fascista, Il Diritto del Lavoro); Idee generali sulla trasformazione  del nostro sistema tributario, esposte al Primo Convegno  di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del Consi.  glio Prov. dell’Economia di Pavia; Le  finanze pubbliche e l’ordinamento corporativo, in « Economia », N. 6 del 1930. Il Griziotti, se non erriamo,  desidera un sistema di imposte congegnate in modo da  rispettare le esigenze della produzione. Vuole un sistema tecnico e razionale che sodisfi anche i criteri della  giustizia nella ripartizione dei carichi pubblici. Rico-   Gangemi, Dottrina Fasciata ed economia. nosce che l’opera del primo periodo della finanza fascista ha tenuto conto delle esigenze della produzione.  Queste idee evidentemente indicano in Grìzìotti un  fautore della finanza corporativa. Dove il nostro non  ci trova consenzienti è nei dettagli (ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva delle rendite e dei sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.   Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese  (La Finanza e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati  Moderni, Padova, GEDAM) « Nello  Stato Corporativo l’economia continua a basarsi fondamentalmente sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè  alcuno dei principi che reggono l’economia capitalista  viene apriosticamente ripudiato: ma vi si aggiunge un  elemento che è quello del controllo sociale che, sulla  iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato dallo  Stato.  Nello Stato corporativo anche la politica finaziaria deve necessariamente seguire le direttive, che non  coincidono nè con quelle del sistema liberale-capitalista  (benché ad esse siano assai più vicine) nè con quelle  del sistema collettivista.   Essendo l’imposta uno dei principali strumenti di  cui lo stato qualora rispetti il principio della proprietà privata  si può valere, per intervenire nel campo dell’economia, individuale, è logico che ad essa faccia più largo ricorso uno Stato, che ha per principio  l’intervento, ogni qualvolta l’interesse nazionale lo richieda.  E essenziale rilevare che nel sistema corporativo,  mutano fondamentalmente i modi dell’azione statale:  mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si propone fini di benessere e prosperità, che vengono attuati  mediante la protezione di tutte quelle forze individuali  che si dimostrano utili a tale intento, lo Stato corporativo, oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa  esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione degli scopi suddetti, non solo proteggendo e favorendo le forze utili' ai propri fini, ma facendosi iniziatore dei  provvedimenti atti ai dirigere le forze individuali all’obbiettivo prefisso. Non possiamo chiudere questa nota senza ricordare  il contributo che, anche in questo campo ha dato Maffeo Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in  « Politica », maggio-giugno 1933, scritto che i nuova-  tori sistematici ed i creatori di schemi astratti farebbero bene a leggere ed a meditare se veramente sono,  come si ritengono, difensori dell’interesse nazionale. Luigi Chitti. Chitti. Keywords: economia sociale, economia politica, l’economia filosofica d’Aristotele, econnomia corporativa. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Chitti” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Ciarlantini: implicatura tachigrafica – la scuola di Bologna -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Bologna, Emilia-Romagna. Parole tra realta e fantasia. Metodo tachigrafico. Il tempo a san Giacomo e uno di accesissima ricerca metodologica su ogni fronte:  Agostino e l'occasione e la scusa. Ma in realtà C. si interessa di altro: di arrivare alla costituzione delle parole – Grice, “Utterer’s meaning, sentence meaning, word meaning” – an essay of mine whose title I find it difficult to recall on occasion --, di conoscere la struttura profonda del nostro parlare. E cambia e ricambia metodo di indicizzazione, impiegando un sacco di tempo. Alla fine un saggio e pronto e sono maturi anche due frutti non preventivati: l'invenzione di un metodo d’implicatura tachigrafica, a metà tra la stenografia e la prattica normale, basato principalmente sulla notazione della radice delle parole (“shag”) con qualche aggiunta per riconoscere la parola stessa (“shaggy”: l’unico esempio dato da Grice, “Fido is shaggy, a hairy-coated dog” in Utterer’s meaning, sentence meaning, and word meaning”. Il principio basilare è che comunque ogni parola – e. g. ‘shaggy’ --, anche abbreviata, deve essere riconoscibile sempre – Grice da l’esempio di “and” turnd into “&” and still carrying the same implicatures --, in maniera il più possibile univoca,  o nella sua scrittura o nell'insieme del contesto – Grice: “He was caught in the grip of a vice”. E poi la teoria di spiegazione universale – alla Fichte -- del linguaggio.*Perché*, quando parliamo, abbiamo associato certi suoni a certe cose, sensazioni, azioni, mentre in altre culture – pensasi a Roma antica -- e in altri tempi si sono associati altri suoni, alle allegatamene stesse cose? Da questa domanda di fondo è scaturita la teoria di C., scritta e descritta nel libretto "Parola tra realtà e fantasia. Appunti di metodo" (Ponti, Bologna). Tra l'altro ho qualche rimorso di coscienza verso Ponti, un editore in via Bassi. Perché gli lasciai sempre credere che è un professore di non so quale scuola, e lui li pubblica il saggio convinto che frotte di filosofi sarebbero venuti a comperarlo. Nei fatti tutti questi filosofi non esistevano – cf. Grice, “Vacuous Names” -- e non vennero – as Marmaduke Bloggs never attended the Merseyside Geographical Society’s party in his honour after allegedly having climbed Mt. Everest on hands and knees, but being an invention of the journalists --, e lui si rende conto di questo lentamente. Una decina di anni dopo dal segretario della sua piccola editrice li venne a C. la proposta di acquistare tutte le copie invendute e C. adesso ne regala una a qualcuno ogni tanto. C'è anche inserito il suo metodo per imparare a suonare la chitarra, e altre ricerche di metodo. Ma la teoria di spiegazione universale del linguaggio vuole tanto riprenderla e proporla a più vasto raggio. È una teoria e come tale ha bisogno nella pratica di essere testata, sperimentata e provata. Ma se è vera, anche soltanto un po', puo rivoluzionare tante cose nella nostra vita.  Se è vero, ad esempio, che uno tende ad usare i suoi (“shaggy”) che sono dettati dal suo stato d'animo (“hairy-coated”), e tende ad associare le parole, che pure ha a disposizione da un patrimonio CONDIVISO o non – il deutero-esperanto di Grice --, secondo come le vive in quel momento, potremmo arrivare, analizzando scientificamente milioni d’elementi, a dare una qualche valutazione sulla veridicità o meno della testimonianza di una persona, per esempio in giudizio. Comunque a parte questo, la comprensione della fonetica in questo modo ci fa capire ad esempio l'evoluzione di un radicale (“shag”) passando da un popolo all'altro, l'associazione di suoni e rumori a parole (“shaggy” – cf. Grice, “Utterer’s meaning, sentence meaning, word meaning” – pirot – “which we know karulise elatically” -- del vocabolario, e la storia delle parole stesse (Grice: “Would discs still be called discs if they come in square?”. Per esempio C. e convinto che la lettera "u" per noi significhi una sfumatura di "profondità, mistero, consistenza di un soggetto, che desta meraviglia e a volte smarrimento", mentre per i latini – o romani -- la "u" era meno misteriosa, anzi indicava l'essere nella sua qualità di "stato", di permanenza, di substrato delle cose. Così, per noi, "Uomo" è anzitutto sensazione di PROFONDITà personale, laddove per i latini o romani "homo" è più espressione di forza ("O") accompagnata da esclamazione di meraviglia ("H"). Cf. J. L. Austin on sound symbolism, and sp- spit, speranza. Queste sono allora le suoi ricerche e quello che face nella quiete di san Giacomo,  CTTC  continua il suo indice di Agostino e termina il suo saggio. Ed e allora che concepe il disegno di fare un dizionario etimologico – alla maniera di CROCE, “Dizionario etimologico” -- della lingua italiana. L'ha cominciato da tanto tempo, ma chissà se e quando lo portera a termine. Primo Ciarlantini. Ciarlantini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ciarlantini”.

 

Luigi Speranza – GRICE ITALO!; ossia, Grice e Cicerone: la semiotica -- l’implicatura conversazionale di Marc’Antonio – scuola di Ponte Olmo -- scuola d’Arpino – scuola di Frosinone – scuola di Roma -- filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana -- Luigi Speranza – (Italia). Filosofo italiano. Ponte Olmo, Abbazia di San Domenico, Arpino, Frosinone, Lazio. Ciceronian implicaturum: Grice: “One has to be careful: an Italian philosopher might argue that Cicerone ain’t Italian, but Roman! – so the keywords: ‘filosofo italiano’ ‘filosofo romano’ – matter!” Grice: “However, whatever the discussion, provided Cicerone IS discussed by this or that undeniable *Italian* philosopher is enough to provide us with some nice secondary literature!” – Grice: “As an example, I would mention the two-volume of the ‘Storia della filosofia’ – if you check for the “Roman chapter,” it’s mainly all about Cicerone – with some footnote to Lucrezio and Aurelio!” – Grice: “Recall that Roman-Roman philosophy is pretty recent: due to the embassy by the three Greek philosophers who arrived in Rome in 183 a. u. c., and – philosophy then became the pastime of the leisurely class, notably the Scipioni!” --  della cultura greca, attraverso la sua opera i Romani poterono anche acquisire una migliore conoscenza della filosofia greca. Tra i suoi maggiori contributi alla cultura latina, vi fu la creazione di un lessico filosofico latino: Cicerone si impegnò, infatti, a trovare il corrispondente vocabolo in latino per ogni termine specifico del linguaggio filosofico greco. Tra le opere fondamentali per la comprensione del mondo latino si collocano, invece, le Lettere/Epistulae (in particolar modo, quelle all'amico Tito Pomponio Attico) che offrono numerose riflessioni su ogni avvenimento, permettendo così di comprendere quali fossero le reali linee politiche dell'aristocrazia romana.  C. occupò, per molti anni, anche un ruolo di primaria importanza nel mondo della politica romana: dopo aver salvato la repubblica dal tentativo eversivo di Lucio Sergio Catilina (e aver così ottenuto l'appellativo di pater patriae, padre della patria), fu un membro eminente della fazione degli Optimates. Infatti, nelle guerre civili, difese strenuamente, fino alla morte, una repubblica giunta ormai all'ultimo respiro e destinata a trasformarsi nel principatus augusteo. C. nacque a Ponte Olmo, in prossimità del fiume Fibreno accanto al comune di Arpinum (area attualmente occupata dall'Abbazia di San Domenico. Gli Arpinati ricevettero la civitas sine suffragio nel IV secolo a.C. e i pieni diritti di cittadinanza nel 188 a.C.; in seguito, la città ottenne anche lo status di municipium.[5] La lingua latina era in uso già da lungo tempo[6]; tuttavia, ad Arpino, era diffuso anche l'insegnamento della lingua greca, che l'élite senatoriale romana preferiva spesso a quella latina, riconoscendone la maggiore raffinatezza e precisione.[7] L'assimilazione, da parte dei Romani, delle comunità italiche vicine a Roma (avvenuta tra il II e il I secolo a.C.), permise a C. di diventare scrittore, statista e oratore.  C. apparteneva alla classe equestre (la piccola nobiltà locale) e, anche se lontanamente imparentato con Gaio Mario (il corifèo dei Populares durante la guerra civile contro gli optimates di Lucio Cornelio Silla[8]), non aveva alcun legame con l'oligarchia senatoriale romana; era dunque un homo novus. La famiglia era composta dal padre Marco Tullio C. il Vecchio, uomo colto ma di origine sconosciuta; dalla madre Elvia, di nobile casato e integri costumi[9] e dal fratello Quinto.  Il cognomen Cicero è il soprannome di un suo antenato abbastanza noto per un'escrescenza carnosa sul naso (presumibilmente, una verruca) che ricorda un cece -- cicer, ciceris è il termine latino per cece. Quando Marco presenta, per la prima volta, la propria candidatura a un ufficio pubblico, alcuni amici gli sconsigliarono l'utilizzo del suo cognomen ma egli rispose che «avrebbe fatto sì che esso diventasse più noto di quello degli Scauri e dei Catuli.   céce e cécio nap. cecere, ven. cesere,  c. ciciru, sard. cixiri; prov. cezer; fr. ceire; ted. kicher (pruss. kockers  ¡sello): dallat. cicer (= ciR-crR) - acc. ciCEREM - che il Curtius deriva dalla ra  KAR esser duro, onde il sser. KAR-EAR-duro e come sost. osso ed anche pisell KHAR-AS duro, ruvido, KAR-AKA noce cocco o il gr. KAR-KAROS duro e come s stant. pisello (cfr. Ardito). - Ad altri il vece sembra affine al lat. cicus involuca del seme dei frutti (cfr. Chicco), ovyero gr. KEKis escrescenza. - Specie di legun in torma di granello alquanto appuntat che secco indurisce assai e si mangia cott  Deriv. Cecerèllo; Ceciarollo; Ceciato. Cfr. G  cèrbita; Cicérchia;  ¿cerone.Studi  Fanciullo che legge C. di Vincenzo Foppa, Collezione Wallace di Londra. C. si rivelò subito un fanciullo dotato di una straordinaria intelligenza (tanto da distinguersi, a scuola, dai propri coetanei) che gli fece accumulare fama e onore.[11]  Il padre, auspicando una brillante carriera forense e politica per i figli, li condusse a Roma dove Marco venne introdotto nel circolo dei migliori oratori (e protettori della sua famiglia): Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore; Crasso ebbe particolare influenza su C. che lo considerò sempre un modello di oratore e di statista. A Roma, poté anche formarsi nella giurisprudenza, grazie alla scuola di Quinto Mucio Scevola[12]. Tra i suoi compagni, ci furono anche Gaio Mario il Giovane, Servio Sulpicio Rufo (destinato a divenire un celebre avvocato, nonché, uno dei pochi che C. considerò superiori a sé stesso) e Tito Pomponio (che prese poi il cognomen di Attico, dopo una lunga permanenza ad Atene, e che divenne intimo amico di C.; infatti, gli scrisse in una lettera: «Sei per me come un secondo fratello, un alter ego al quale posso dire ogni cosa»[13]).  In questo periodo, C. si avvicinò anche alla poesia[14]: in particolare, si cimentò nella traduzione delle opere di Omero e dei Fenomeni di Arato (opere che, in seguito, influenzarono le Georgiche di Virgilio).  Particolarmente attratto dalla filosofia,[15] alla quale avrebbe dato grandi contributi (tra i quali, la creazione del vocabolario filosofico in lingua latina), nel 91 a.C. incontrò, assieme all'amico Tito Pomponio, il filosofo epicureo Fedro in visita a Roma; entrambi ne rimasero affascinati ma solo Pomponio rimase, per tutta la vita, seguace della dottrina epicurea. Tra il 79 e il 77 a.C., conobbe il maestro di retorica Apollonio Molone[16] (che istruì, pochi anni dopo, anche Gaio Giulio Cesare) e l'accademico Filone di Larissa che esercitò su di lui, un'influenza profonda: infatti, era a capo dell'Accademia di Atene che Platone aveva fondato circa trecento anni prima; di conseguenza, grazie a lui, C. assimilò la filosofia platonica, tanto che arrivò spesso a definire Platone come il proprio dio (pur rigettando la sua teoria delle idee).  Poco tempo dopo, C. incontrò Diodoto, esponente dello stoicismo; tale movimento era già stato precedentemente introdotto a Roma, dove aveva ricevuto larghi consensi grazie all'enfasi posta sul controllo delle emozioni e sulla forza di volontà (in linea con gli ideali romani). C. non adottò completamente l'austera filosofia stoica ma preferì uno stoicismo modificato; in seguito, Diodoto divenne un protetto di C., dal quale fu ospitato fino alla morte[15].  Cursus honorum Prime esperienze Il sogno di infanzia di C. era quello di "essere sempre il migliore ed eccellere sugli altri", in linea con gli ideali omerici: infatti, desiderava dignitas e auctoritas, simboleggiati dalla toga pretesta e dalla verga dei littori; c'era un solo modo per ottenerli: percorrere i gradini del cursus honorum. Nel 90 a.C., tuttavia, era ancora troppo giovane per approdare a qualsiasi carica del cursus honorum ma non per acquisire l'esperienza preliminare in guerra che una carriera politica richiedeva. C. servì sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla durante le campagne della guerra sociale sebbene non provasse alcuna attrazione per la vita militare dato che si sentiva un intellettuale (infatti, molti anni dopo, scrisse al suo amico Attico che stava raccogliendo statue marmoree per le ville di C., "Perché mi spedisci una statua di Marte? Sai che io sono un pacifista!"[17]).  L'ingresso di C. nella carriera forense avvenne ufficialmente nell'81 a.C. con la sua prima orazione pubblica, la Pro Quinctio, per una causa in cui ebbe come avversario il più celebre oratore del tempo, Quinto Ortensio Ortalo. Ma il suo vero esordio nell'oratoria a carattere politico (almeno secondo le testimonianze scritte pervenute), si ebbe con la Pro Roscio Amerino che conserva molto di scolastico nello stile esuberante[18][19]: nell'orazione, difese, con successo, un figlio ingiustamente accusato di parricidio, dimostrando grande coraggio nell'assumersene la difesa (il parricidio era, infatti, considerato tra i crimini peggiori a Roma) mentre i veri colpevoli erano sostenuti dal liberto di Silla, Lucio Cornelio Crisogono. Se Silla avesse voluto, sarebbe stato fin troppo facile eliminare C., proprio alla sua prima apparizione nei tribunali.   Lucio Cornelio Silla C. divise le sue argomentazioni in tre parti: nella prima, difese Roscio e tentò di provare che non era stato lui a commettere l'assassinio; nella seconda, attaccò quelli che avevano realmente commesso il crimine (tra cui, anche un parente dello stesso Roscio) e dimostrò come l'assassinio favoriva più loro che Roscio; nella terza, attaccò direttamente Crisogono, affermando che il padre di Roscio fosse stato assassinato per ottenere i suoi terreni a un prezzo conveniente, una volta messi all'asta. In forza di queste argomentazioni, Roscio fu assolto.  Per sfuggire a una probabile vendetta di Silla[20], tra il 79 e il 77 a.C., C. si recò, accompagnato dal fratello Quinto, dal cugino Lucio e probabilmente anche dall'amico Servio Sulpicio Rufo, in Grecia e in Asia Minore[21]: particolarmente significativa fu la sua permanenza ad Atene dove incontrò nuovamente l'amico Attico che, fuggito da un'Italia sconvolta dalle guerre, si era rifugiato in Grecia; Attico, in seguito, divenne cittadino onorario di Atene e poté presentare a C., alcune tra le più importanti personalità ateniesi del tempo. Ad Atene, inoltre, C. visitò quelli che erano i luoghi sacri della filosofia, a cominciare dall'Accademia di Platone (di cui era allora a capo Antioco di Ascalona). Di quest'ultimo, C. ammirò la facilità di parola, senza tuttavia condividerne le idee filosofiche (ben differenti da quelle di Filone di Larissa, delle quali era convinto ammiratore[22][23]). Dopo un breve soggiorno a Rodi, dove conobbe lo stoico Posidonio, tornò in Grecia (dove fu iniziato ai misteri eleusini, che lo impressionarono molto) e dove poté visitare l'Oracolo di Delfi; in quell'occasione, domandò alla Pizia in quale modo avrebbe potuto raggiungere la gloria ed ella gli rispose che avrebbe dovuto seguire il suo istinto invece dei suggerimenti che riceveva[24].  Ingresso in politica  Busto di C. Tornato a Roma dopo la morte di Silla, C. iniziò la sua vera e propria carriera politica, in un ambiente sostanzialmente favorevole: nel 76 a.C., dopo aver pronunciato la celebre orazione Pro Roscio comoedo, si presentò come candidato alla questura, la prima magistratura del cursus honorum.[25] I questori, eletti per un massimo di venti membri, si occupavano della gestione finanziaria o assistevano propretori e proconsoli nel governo delle province. Eletto alla carica per la città di Lilibeo (l'odierna Marsala), nella Sicilia occidentale, svolse il proprio lavoro con scrupolo e onestà (tanto da guadagnarsi la fiducia degli abitanti del luogo). Durante la permanenza in Sicilia, visitò la tomba di Archimede a Siracusa: grazie al suo interesse per l'uomo, sono state rinvenute alcune importanti informazioni sullo scienziato (in particolare, per quanto riguardi il suo planetario).  Al termine del mandato, i siciliani gli affidarono la causa contro il propretore Verre, colpevole di aver tiranneggiato l'isola nel triennio 73-71 a.C.[26][27]. C. raccolse le prove della colpevolezza, pronunciò due orazioni preliminari (Divinatio in Quintum Caecilium e Actio prima in Verrem) e l'ex-governatore, attaccato da prove schiaccianti, scelse l'esilio volontario[28]. Le cinque orazioni preparate per le successive fasi del processo (che costituiscono l'Actio secunda), furono pubblicate in seguito e costituiscono un'importante prova del malgoverno che l'oligarchia senatoria esercitava a seguito delle riforme di Silla. Attaccando Verre, C. attaccò la prepotenza della nobiltà corrotta ma non l'istituzione senatoria stessa (anzi, fece appello proprio alla dignità di tale ordine affinché ne estromettesse i membri indegni). Acquisì, inoltre, un enorme prestigio perché a difendere Verre era Quinto Ortensio Ortalo, considerato il più grande avvocato dell'epoca[29]: "sconfitto", Ortensio dovette accettare che il suo posto venisse preso da C. (il quale, si guadagnò il titolo di "Principe del Foro"); nonostante l'episodio, tuttavia, i due oratori strinsero, in seguito, un buon legame di amicizia (infatti, proprio a Ortalo che elogiò anche nel Brutus, C. dedicò un'intera opera non pervenuta, l'Hortensius).  A Roma, l'oratoria e l'attività forense erano uno dei principali mezzi di propaganda per i politici emergenti, poiché non esistevano documenti scritti di argomento politico (con l'eccezione degli Acta Diurna che, però, godevano di scarsa diffusione). Contro C., tuttavia, rimaneva la diffidenza dei nobili verso gli homines novi, accresciuta dal fatto che l'ultimo homo novus ad acquisire rilevante peso politico fosse stato un concittadino dello stesso C., Gaio Mario. Tuttavia, anche lo stesso Silla, fiero oppositore di Mario, aveva preso alcuni provvedimenti che permettevano e facilitavano l'ingresso degli equites nella vita politica, dando così a C. la possibilità di raggiungere le vette del cursus honorum.  Il successo ottenuto da quelle orazioni (che vennero poi chiamate Verrine), anticipatrici dei principi di un governo umano e ispirato a onestà e filantropia, portò C. in primo piano sulla scena politica: nel 69 a.C., venne eletto alla carica di edile curule[30] e, nel 66 a.C., diventò anche pretore con una elezione all'unanimitàL. Nello stesso anno, pronunciò il suo primo discorso politico, Pro lege Manilia de imperio Cn. Pompei, in favore del conferimento dei pieni poteri a Pompeo per la guerra mitridatica; in quell'occasione, Pompeo era appoggiato dai cavalieri, interessati alla rapida risoluzione della guerra in Asia, mentre gli era contraria la maggioranza del Senato[32]. Il motivo dell'impegno di C. in una causa ostile all'alta aristocrazia (che, d'altronde, era restìa ad accoglierlo tra le proprie file) stava probabilmente nell'importanza che essa aveva per i pubblicani (titolari degli appalti pubblici e della riscossione delle imposte) e gli affaristi, minacciati nei loro interessi da Mitridate VI. La provincia dell'Asia Minore, minacciata dal sovrano del Ponto, era, infatti, particolarmente attiva dal punto di vista dell'economia e del commercio.  Consolato  C. denuncia Catilina, affresco di Cesare Maccari a Palazzo Madama in Roma che raffigura C. mentre pronuncia una delle orazioni contro Catilina Nel 65 a.C. C. presentò la candidatura al consolato. Nel 64 venne eletto console per l'anno successivo (ossia il 63 a.C.). La sua posizione venne illustrata dal fratello Quinto in un'opera (di dubbia attribuzione: la scrisse lo stesso C.?), Commentariolum petitionis, scritta per consigliarlo nella campagna elettorale. Per un gioco delle classi, C. risultò eletto con il voto di tutte le centurie.[33] Assieme a lui risultò eletto il patrizio Gaio Antonio Ibrida, zio di Marco Antonio, futuro triumviro e acerrimo nemico dell'arpinate, accusato dallo stesso C. (In toga candida, orazione - pervenutaci in condizioni frammentarie - tenuta in Senato come candidato poco prima delle elezioni del 64) di essere collusore di Lucio Sergio Catilina.[34] La fiducia riposta in C. dalla classe equestre venne ripagata già all'inizio del consolato con la pronuncia di quattro orazioni (De lege agraria) contro la proposta di redistribuzione delle terre del tribuno Publio Servilio Rullo.[35]  Durante il proprio consolato C. dovette contrastare il tentativo di congiura messo in atto da Catilina. Questi era un nobile impoverito che, dopo aver combattuto insieme a Silla e aver completato il cursus honorum, aspirava a diventare console. Catilina si candidò a console tre volte e tre volte venne fermato con processi dubbi o con possibili brogli elettorali e infine ordì una congiura per rovesciare la repubblica.[36] Catilina contava soprattutto sull'appoggio della plebe, a cui prometteva radicali riforme, e sugli altri nobili decaduti, ai quali prospettava un vantaggioso sovvertimento dell'ordine costituito, che lo avrebbe probabilmente portato ad assumere un potere monarchico o quasi, inoltre sembrerebbe fosse stato supportato politicamente da Gaio Giulio Cesare che venne però tenuto fuori dallo stesso C. e non ebbe conseguenze.[37] Venuto a conoscenza del pericolo che la Repubblica correva grazie alla soffiata di Fulvia, amante del congiurato Quinto Curio,[38] C. fece promulgare dal Senato un senatus consultum ultimum de re publica defendenda, cioè un provvedimento con cui si attribuivano, come era previsto in situazioni di particolare gravità, poteri speciali ai consoli.[39][40] Sfuggito poi a un attentato da parte dei congiurati,[41] C. convocò il Senato nel tempio di Giove Statore, dove pronunciò una violenta accusa a Catilina, con il discorso noto come Prima Catilinaria[42][43], che si apre con il celebre incipit  (LA) «Quousque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?»  (IT) «Fino a quando, Catilina, abuserai della nostra pazienza?»  (Marco Tullio C., Catilinarie I,1)  Catilina, visti i suoi piani svelati, fu costretto a lasciare Roma per ritirarsi in Etruria presso il suo sostenitore Gaio Manlio, lasciando la guida della congiura ad alcuni uomini di fiducia, Lentulo Sura e Cetego.[44][45]  Grazie alla collaborazione di una delegazione di ambasciatori inviati a Roma dai Galli Allobrogi, C. poté però trascinare anche Lentulo e Cetego davanti al Senato: gli ambasciatori, incontratisi con i congiurati, che avevano dato loro documenti scritti in cui promettevano grandi benefici se avessero appoggiato Catilina, furono arrestati fittiziamente e i documenti caddero nelle mani di C.. Questi portò Cetego, Lentulo e gli altri davanti al Senato, ma nel decidere quale pena dovesse essere applicata, si scatenò un acceso dibattito: dopo che molti avevano sostenuto la pena capitale, Gaio Giulio Cesare propose di punire i congiurati con il confino e la confisca dei beni. Il discorso di Cesare provocò scalpore, e avrebbe probabilmente convinto i senatori se Marco Porcio Catone Uticense non avesse pronunciato un altrettanto acceso discorso in favore della pena di morte. I congiurati furono quindi giustiziati, e C. annunziò la loro morte al popolo con la formula:  (LA) «Vixerunt»  (IT) «Vissero»  (Marco Tullio C.)  poiché era considerato di cattivo auspicio pronunciare la parola "morte" (ed espressioni di significato affine come "sono morti") nel foro. Catilina fu poi sconfitto, nel gennaio 62, in battaglia assieme al suo esercito.  C., che non smise mai di vantare il proprio ruolo determinante per la salvezza dello Stato (si ricordi il famoso verso di C. sul suo consolato: Cedant arma togae, trad: "che le armi lascino il posto alla toga [del magistrato]"), grazie al ruolo svolto nel reprimere la congiura, ottenne un prestigio incredibile, che gli valse addirittura l'appellativo di pater patriae. Nonostante ciò, la scelta di autorizzare la condanna a morte dei congiurati senza concedere loro la provocatio ad populum (ovvero l'appello al popolo, che poteva decretare la commutazione della pena capitale in una pena detentiva) gli sarebbe costata cara soltanto pochi anni dopo.  Durante la guerra civile Dal primo triumvirato alle Idi di Marzo  Gaio Giulio Cesare (Musei Vaticani) A seguito del riemergere dei contrasti tra senatori e populares, e dell'accordo tra Cesare e Pompeo ai danni dell'oligarchia senatoria, C. fu messo da parte. L'ultima possibilità di rientrare nel gioco politico gli fu offerta nel 60 a.C. dai tre più potenti uomini del momento, ovvero Pompeo, Cesare e Crasso, alla conclusione dell'accordo per il primo triumvirato: essi chiesero a C. di appoggiare la legge agraria a favore dei veterani di Pompeo e della plebe meno abbiente. C., tuttavia, rifiutò non solo per non apparire un traditore dell'aristocrazia, ma anche per l'attaccamento all'ordine legale e sociale di cui gli ottimati si proclamavano difensori.[46]  Dopo questo rifiuto e la costituzione del primo triumvirato, C. si tenne fuori dalla politica ma ciò non bastò a salvarlo dalle vendette dei populares: all'inizio del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro, nemico di C. per un precedente processo per sacrilegio,[47] fece approvare una legge con valore retroattivo che condannava all'esilio chiunque avesse mandato a morte un cittadino romano senza concedergli la provocatio ad populum. Si trattava, in realtà, di un'abilissima mossa politica di Cesare (che per l'appunto prima di partire per la Gallia attese che C. fosse fuggito da Roma) che, attraverso il suo alleato Clodio, eliminava così dalla scena politica uno dei suoi avversari più tenaci, che avrebbero potuto osteggiarlo durante la sua ascesa al potere. C. fu dunque processato per la sua condotta durante il processo ai Catilinari Lentulo e Cetego[48] e costretto all'esilio. Lasciò Roma la notte tra il 19 e il 20 marzo di quell'anno e si recò a Vibona, sperando di portarsi in Sicilia, ma il pretore Virgilio - benché suo vecchio amico - non glielo consentì: in effetti l'isola distava da Roma meno delle 500 miglia prescritte dal bando e pertanto C. optò per la città di Brindisi, dove soggiornò tredici giorni negli orti di Lenio Flacco prima di salpare per Durazzo. In più occasioni nei suoi scritti l'oratore loda l'ospitalità e l'amicizia dei brindisini e della famiglia di Lenio Flacco. Nei mesi dell'esilio C. non si diede pace, implorando le sue conoscenze perché favorissero il suo ritorno. Clodio, però, fece approvare anche una serie di altre leggi che prevedevano che C. non si potesse neppure avvicinare al confine dell'Italia, e che le sue proprietà venissero confiscate[49] In realtà la villa sul Colle Palatino fu addirittura distrutta, e una sorte simile toccò poco dopo a quelle di Formia e di Tusculum[50][51]. Nel 57 a.C. la situazione a Roma migliorò, allorché i nobili e Pompeo posero un freno alle iniziative di Clodio Pulcro: C. poté dunque rientrare in Italia e, proveniente da Durazzo, giunse nuovamente a Brindisi - come narra lui stesso - il 5 agosto: nel porto oltre ai suoi familiari e la figlia Tullia che festeggiava il compleanno, c'era anche Lenio Flacco; le accoglienze tributate al retore furono raddoppiate dal fatto che nella città quel giorno ricorreva anche l'anniversario della deduzione a colonia.  Tornato a Roma riprese la sua lotta contro il tribuno della plebe[52][53]. Simpatizzante degli optimates per via anche della sua personale amicizia con Milone, uno dei capi della fazione, tenne tre orazioni in difesa di tre optimates. Nel 56 a.C. C. pronunciò l'orazione Pro Sestio in cui allargava il suo precedente ideale politico: l'alleanza tra cavalieri e senatori a suo avviso non era più sufficiente per stabilizzare la situazione politica. Occorreva, quindi, un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi alla sovversione tentata dai populares: tale proposta prende il nome di consensus omnium bonorum. Sempre lo stesso anno tenne l’orazione Pro Caelio con cui C. si trova a difendere Marco Celio Rufo dall’accusa di tentato avvelenamento della sua amante, Clodia (sorella del tribuno della plebe Clodio Pulcro e identificata dagli studiosi come la Lesbia di Catullo). Nonostante la donna venisse dipinta come colei che per prima aveva tentato di uccidere l’amante in quanto avversario politico del fratello le accuse erano inconsistenti e C. spiegò il gesto compiuto da Marco Celio Rufo come un errore di gioventù. Nel 55 a.C. scrive In Pisonem, orazione contro il governatore di Macedonia Lucio Calpurnio Pisone, suocero di Cesare. Patrizi e plebe si scontravano con l'uso di bande armate, e in uno di questi scontri, più precisamente sulla via Appia, Milone, organizzatore delle bande dei possidenti, uccise il tribuno Clodio.[54][55] Al processo per omicidio, tenutosi nel 52 a.C., C. difese Milone improntando la sua orazione sulla differenza tra tirannicidio e omicidio; in questo caso sarebbe stato tirannicidio e per tanto giustificabile. Ma, non riuscendo a pronunciare il suo discorso con la giusta forza per il clamore della folla e per il timore che gli incutevano i partigiani di Clodio nel foro, Milone venne condannato all'esilio a Marsiglia (una versione della Pro Milone venne pubblicata solo successivamente, dando modo di verificare come fosse un'orazione tra le più abili e sottili sul piano giuridico).   Il mondo romano allo scoppio della guerra civile (1 gennaio 49 a.C.). Sono inoltre evidenziate le legioni distribuite per provincia Dopo essere stato nominato augure nel 53 a.C. al posto di Crasso,[56] nel 51 a.C. come proconsole si recò in Cilicia,[56] proprio mentre i rapporti tra Cesare e Pompeo si inasprivano. Durante il soggiorno lontano da Roma, i pensieri dell'oratore furono rivolti alla minaccia della guerra civile. Tornato in patria, non cessò di invitare le parti alla moderazione ed alla conciliazione, ma i suoi inviti caddero nel vuoto anche a causa del fanatismo che spingeva Pompeo all'intransigenza nei confronti delle richieste di Cesare. Quando Cesare varcò il Rubicone, C. cercò di accattivarsene il favore, ma poi decise ugualmente di lasciare l'Italia per unirsi a Pompeo.[57][58] Sbarcò, dunque, a Dyrrachium, ma, raggiunti i Pompeiani, si accorse di quanto le speranze che egli riponeva in loro quali salvatori della repubblica fossero infondate: ognuno di loro era lì non in difesa degli ideali, ma soltanto per tentare di trarre profitto dalla guerra. Dopo la grande vittoria di Cesare nella battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., C. decise di tornare a Roma, dove ottenne il perdono dello stesso Cesare nel 47 a.C.[59]  C. rivelava nelle sue opere ed in lettere ad amici come Cornelio Nepote, riguardo alla personalità di Cesare:  «Non vedo a chi Cesare debba cedere il passo. Ha un modo di esporre elegante, brillante ed anche, in un certo modo si pronuncia in modo elegante e splendido... Chi gli vorresti anteporre, anche tra gli oratori di professione? Chi è più acuto o ricco nei concetti? Chi più ornato o elegante nell'esposizione?»  (Svetonio, Vite dei Cesari, Cesare, 55.)  La speranza di C. di collaborare al governo di Cesare venne troncata dalla piega assolutistica e monarchica presa dal potere[60]. L'oratore si ritirò, iniziando la stesura di opere di carattere filosofico ed oratorio. A questo si aggiunse il divorzio dalla moglie Terenzia e la morte della figlia Tullia, seguita dalla separazione dalla seconda moglie Publilia, una giovinetta.  Quando Cesare fu ucciso, il 15 marzo del 44 a.C., a seguito della congiura ordita da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, per Roma, e per lo stesso C., si avviò una nuova fase politica, che avrebbe avuto termine solo con l'avvento dell'impero.  L'opposizione ad Antonio e la morte C. non fu, certamente, colto di sorpresa dall'assassinio, da parte dei Liberatores, di Giulio Cesare: era sicuramente al corrente della congiura che si andava tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori, pur manifestando una grande ammirazione per l'uomo che era destinato a divenire il simbolo stesso della congiura, Bruto. E lo stesso Bruto, infatti, con il pugnale sporco del sangue di Cesare ancora in mano, additò C. definendolo l'uomo che avrebbe ristabilito l'ordine nella repubblica.[61]  Scrisse a Lucio Minucio Basilo, uno dei cesaricidi, una lettera per congratularsi dell'assassinio di Cesare:  (LA) «Tibi gratulor, mihi gaudeo; te amo, tua tueor; a te amari et, quid agas quidque agatur, certior fieri volo.»  (IT) «Con te mi congratulo, per me sono contento; ti sono vicino, ho cura delle tue cose; ti chiedo di volermi bene e di farmi sapere che cosa fai e che cosa succede.»  (C., Ad Familiares, vi, 15)  La data della missiva non è conosciuta, ma viene solitamente ritenuta vicinissima o coincidente alla congiura.[62] L'espressione «quid agas quidque agatur» la indicherebbe[62] come scritta prima che C. si recasse al Campidoglio, dove i cospiratori avevano trovato rifugio dopo l'assassinio, asserragliati nel tempio capitolino e protetti dai gladiatori di Bruto.[63]  C., infatti, tornò ad essere anche di fatto uno dei maggiori rappresentanti della fazione degli optimates, mentre Marco Antonio, luogotenente e magister equitum di Cesare, prendeva le redini della fazione dei populares. Antonio tentò di fare in modo che il senato decidesse di organizzare una spedizione contro i Liberatores (che intanto si erano trasferiti nella penisola balcanica), ma C. fu promotore di un accordo che, assicurando il riconoscimento di tutti i provvedimenti presi da Cesare nel corso della sua dittatura, garantiva l'impunità a Bruto e Cassio.[64] Poco dopo, i due, assieme agli altri congiurati, fuggirono verso la penisola ellenica.[65]   Statua di Augusto comunemente detta Augusto di Prima Porta, custodita ai Musei Vaticani. Tra C. ed Antonio, comunque, i rapporti non erano dei migliori, e i due, d'altra parte, si trovavano all'esatto opposto in ambito politico: C. era il difensore degli interessi dell'oligarchia senatoriale, convinto sostenitore della repubblica monopolizzata dai ricchi, mentre Antonio avrebbe voluto fare suoi i progetti di Cesare ed assumere gradualmente un potere monocratico.[66] Intanto, un'altra figura si andava affermando dal nulla nel panorama politico di Roma, la figura del giovane Ottaviano (destinato a diventare Augusto), pronipote di Cesare e suo erede designato nel testamento.[67][68] Ottaviano decise di adottare una politica filosenatoriale, senza mostrare nessuna volontà di imitare le mosse di Cesare.  C., allora, si schierò ancora più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede politico di Cesare, e come uomo mandato dagli dèi per ristabilire l'ordine.[69] C. sperava, infatti, nell'affermazione di un giovane princeps in re publica che, assistito da un membro del senato di grande esperienza, come lo stesso C., riportasse la pace e riformasse la repubblica.[70] Iniziò, inoltre, tra il 44 a.C. e il 43 a.C., a pronunciare contro Antonio una serie di orazioni, note con il nome di Filippiche in quanto richiamavano quelle omonime pronunciate da Demostene contro Filippo II di Macedonia. Intanto, Antonio, nella volontà di condurre una nuova guerra in Gallia per accrescere il proprio prestigio, decise di marciare contro Decimo Giunio Bruto Albino, governatore della Gallia Cisalpina, e lo assediò nella città di Modena. Qui Antonio fu però raggiunto dagli eserciti consolari guidati da Aulo Irzio, Gaio Vibio Pansa e dallo stesso Ottaviano, che lo sconfissero.[71]  Tornato a Roma, Ottaviano si trovò nella situazione di dover scegliere tra il totale abbandono della politica cesariana, che avrebbe tenuto in vita l'agonizzante repubblica, e l'allontanamento dal Senato, al quale rischiava di asservirsi totalmente.[72] Scelse di proseguire almeno in parte la politica cesariana, e costituì, assieme ad Antonio e a Marco Emilio Lepido, il secondo triumvirato, un accordo politico secondo il quale i tre uomini avrebbero dovuto compiere una profonda opera di riforma della repubblica.[73] C. fu costretto ad accettare che sarebbe ora stato impossibile attuare il suo piano di un princeps, ma non per questo ritirò le severe accuse rivolte ad Antonio nelle Filippiche. Quest'ultimo, allora, nonostante la fievole opposizione di Ottaviano, decise di inserire C. nelle liste di proscrizione, decretando, così, la sua condanna a morte.[74]  C. lasciò allora Roma e si ritirò nella sua villa di Formia, che aveva ricostruito dopo gli episodi legati a Clodio. A Formia, però, fu raggiunto da alcuni sicari inviati da Antonio, che, aiutati da un liberto di nome Filologo,[75] poterono trovarlo fin troppo facilmente. C., accortosi dell'arrivo dei suoi assassini, non tentò di difendersi, ma si rassegnò alla sua sorte, e venne decapitato. Tale località prese il nome di Vindicio (dal latino "vindicta", vendetta), attuale frazione di Formia.[76] Una volta ucciso, per ordine di Antonio, gli furono tagliate anche le mani (o forse soltanto la mano destra, usata per scrivere ed indicare durante i discorsi), con cui aveva scritto le Filippiche,[77] che furono esposte in senato insieme alla testa, appese ai rostri che si trovavano sopra la tribuna da cui i senatori tenevano le loro orazioni, come monito per gli oppositori del triumvirato.[78][79]  (LA) «Prominenti ex lectica praebentique immotam cervicem caput praecisum est. Nec satis stolidae crudelitati militum fuit: manus quoque scripsisse aliquid in Antonium exprobrantes praeciderunt.»  (IT) «Sporgendosi dalla lettiga ed offrendo il collo senza tremare, gli fu recisa la testa. E ciò non bastò alla sciocca crudeltà dei soldati: essi gli tagliarono anche le mani, rimproverandole di aver scritto qualcosa contro Antonio.»  (Livio - Ab Urbe condita libri, CXX - cit. in Seneca il Vecchio, Suasoriae, 6,17)  (GRC) «Αὐτὸς δ' ὥσπερ εἰώθει τῇ ἀριστερᾷ χειρὶ τῶν γενείων ἁπτόμενος, ἀτενὲς ἐνεώρα τοῖς σφαγεῦσιν, αὐχμοῦ καὶ κόμης ἀνάπλεως καὶ συντετηκὼς ὑπὸ φροντίδων τὸ πρόσωπον, ὥστε τοὺς πλείστους ἐγκαλύψασθαι τοῦ Ἑρεννίου σφάζοντος αὐτόν. Ἐσφάγη δὲ τὸν τράχηλον ἐκ τοῦ φορείου προτείνας, ἔτος ἐκεῖνο γεγονὼς ἑξηκοστὸν καὶ τέταρτον. Τὴν δὲ κεφαλὴν ἀπέκοψαν αὐτοῦ καὶ τὰς χεῖρας, Ἀντωνίου κελεύσαντος, αἷς τοὺς Φιλιππικοὺς ἔγραψεν. Αὐτός τε γὰρ ὁ Κικέρων τοὺς κατ' Ἀντωνίου λόγους Φιλιππικοὺς ἐπέγραψε, καὶ μέχρι νῦν Φιλιππικοὶ καλοῦνται.»  (IT) «Ed egli, come era solito, toccandosi le guance con la mano sinistra, impassibilmente rivolse lo sguardo ai sicari, ricoperto dal sudore e dalla capigliatura e disfatto nel volto dalle preoccupazioni, tanto che i più si coprirono il volto mentre Erennio lo uccideva. E fu ucciso mentre sporgeva il collo dalla lettiga, quando quello che trascorreva era il suo sessantaquattresimo anno. E, per ordine di Antonio, tagliarono la sua testa e le sue mani, con le quali aveva scritto le Filippiche. C. stesso infatti intitolò Filippiche le orazioni contro Antonio e tuttora sono chiamate Filippiche.»  (Plutarco, Vite parallele, Vita di C., 48, 4-6)  Una volta sconfitto Antonio, Ottaviano scelse Marco, figlio di C., come collega per il consolato, e proprio Marco comminò le pene ad Antonio, facendone abbattere le statue e decretando che nessun membro della gens Antonia avrebbe più potuto essere chiamato Marco.[80]  Plutarco racconta che quando, tempo dopo, insignito del titolo di Augusto, Ottaviano trovò un nipote che leggeva le opere di C., gli prese il libro, e ne lesse una parte. Una volta che glielo ebbe restituito, disse: "Era un saggio, ragazzo mio, un saggio, e amava la patria".[81]  Vita privata Matrimoni C. probabilmente sposò Terenzia all'età di 29 anni, nel 77 a.C. Il matrimonio - di convenienza - fu piuttosto armonioso per 30 anni. Terenzia era di famiglia patrizia ed era una ricca ereditiera, entrambi fattori particolarmente importanti per il giovane ambizioso che era C.. Da Terenzia C. avrà due figli: Marco Tullio C., che come il padre diventerà un politico a Roma, e Tullia o «la dolce Tulliola», come appunto viene descritta da C. in una delle sue innumerevoli lettere; che sposò prima con un Pisone Frugi e poi in seconde nozze con Publio Cornelio Dolabella dal quale divorzierà perché il padre sosteneva la fazione degli ottimati mentre Dolabella era luogotenente di Cesare, infine morirà molto giovane all'età di 34 anni. Una delle sorelle o cugina di Terenzia era stata scelta come vergine Vestale, il che costituiva un grandissimo onore. Terenzia era una donna dal carattere forte e prese parte alla carriera politica di suo marito più di quanto permise a lui di prenderne negli affari di famiglia. Non condivise, tuttavia, gli interessi intellettuali di C. né il suo agnosticismo. C. lamenta a Terenzia in una lettera scritta durante il suo esilio in Grecia che «...né gli dei che Lei ha adorato con tale devozione né gli uomini che io ho servito hanno mostrato il più piccolo segno di gratitudine nei nostri confronti».[82] Terenzia era una donna devota e probabilmente piuttosto materialista.  Alla fine del 47 a.C. o all'inizio del 46 a.C. C. ripudiò Terenzia.[83] I motivi del distacco sono ignoti, ma C. accusò la moglie di averlo trascurato durante la guerra, di non essere neppure venuta ad accoglierlo al suo ritorno e di avergli restituito la casa gravata di forti debiti.[84]  Verso la fine del 46 a.C. C. sposò Publilia, giovane e ricca fanciulla orfana di padre, che viveva sola con la madre.[85] Secondo Terenzia (che accusava Publilia di essere la causa del suo divorzio), la giovinezza della fanciulla avrebbe causato l'innamoramento di C., mentre secondo Tirone, liberto dell'oratore, dietro la decisione ci sarebbe stato il desiderio di usufruire dei beni della giovane[86]; C. peraltro era già stato nominato tutore di Publilia, e ne amministrava le ricchezze.[87] Poco dopo il matrimonio, Tullia, figlia di C., morì di parto.[88] Egli rimase fortemente colpito e nel luglio del 45 a.C., mentre gli amici gli recavano conforto, decise di ripudiare Publilia colpevole di essersi rallegrata della morte di Tullia, dopo soli sette mesi di matrimonio.[89]  Il divorzio dalla storica consorte Terenzia e le seconde nozze con Publilia, destinate anch'esse alla rottura, resero C. oggetto di feroci critiche, come quelle rivoltegli da Antonio nelle repliche alle Filippiche.  Entrambe le mogli di C. morirono in tardissima età, cosa insolita per quei tempi (Terenzia addirittura centenaria; in quanto a Publilia, era ancora viva durante l'impero di Tiberio, avendo sposato in seconde nozze il console Gaio Vibio Rufo, secondo quanto afferma Cassio Dione).  Prole È universalmente noto l'amore di C. per la figlia Tullia, sebbene il matrimonio con Terenzia, da cui lei era nata, fosse stato un matrimonio di convenienza. Tullia era l'unica persona che C. non criticò mai. La descrive così in una lettera al fratello Quinto: «Com'è affettuosa, com'è modesta, com'è intelligente! Quando lei si ammalò improvvisamente nel febbraio del 45 a.C. e morì, dopo che era sembrato che potesse guarire, dando alla luce un figlio, C. scrisse ad Attico: «Ho perso l'unica cosa che mi legava alla vita».[17]  Attico invitò C. ad andarlo a trovare nelle prime settimane dopo la morte di Tullia per poterlo consolare. Nella grande biblioteca di Attico, C. lesse tutto quello che i filosofi greci avevano scritto circa il superamento del dolore, «...ma il mio dolore sconfigge ogni consolazione».[90] Cesare e Bruto gli spedirono lettere di condoglianze, e così fece anche il suo vecchio amico e collega, l'avvocato Servio Sulpicio Rufo. Questi spedì una lettera che in seguito è stata molto apprezzata, piena di riflessioni sulla fugacità di tutte le cose.  Dopo un po', C. decise di abbandonare ogni compagnia per ritirarsi in solitudine nella sua villa di Astura, appena acquistata. Si trovava in un bosco solitario, ma non lontano da Napoli, e per molti mesi non fece altro che camminare per il bosco, piangendo. Scrisse ad Attico: «Io mi immergo là nel bosco selvatico e fitto la mattina presto, e vi soggiorno fino a sera».[17] Più tardi decise di scrivere un libro per insegnare a se stesso come superare il dolore; questo libro, intitolato Consolatio, fu estremamente apprezzato in antichità (in particolare da Sant'Agostino), ma sfortunatamente è andato perduto, e ne restano solo pochi frammenti. In seguito C. progettò anche di far erigere un piccolo tempio alla memoria di Tullia, la "sua incomparabile" figlia, ma poi non portò a termine il progetto, per ragioni ignote.  C. sperava che il figlio Marco scegliesse di diventare filosofo come lui, ma era un'aspettativa priva di basi: Marco, per conto suo, desiderava intraprendere la carriera militare, e nel 49 a.C. si unì a Pompeo ed al suo esercito, e partì con loro per la penisola ellenica. Quando nel 48 a.C., dopo la disastrosa sconfitta dei pompeiani a Farsalo, Marco si presentò a Cesare, questi lo perdonò. C., allora, non perse tempo, e lo mandò ad Atene a formarsi nella scuola del filosofo peripatetico Cratippo, ma Marco, ben distante dall'occhio vigile del padre, passò il tempo a mangiare, bere e divertirsi, seguendo le lezioni del retore Gorgia.  Dopo l'assassinio del padre, Marco si unì all'esercito dei Liberatores, guidati da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, ma dopo la sconfitta nella battaglia di Filippi, nel 42 a.C., fu perdonato da Ottaviano. Questi, infatti, sentendosi in colpa per aver permesso che C. fosse inserito nelle liste di proscrizione del secondo triumvirato, decise di favorire la carriera del giovane Marco. Quest'ultimo divenne, dunque, augure, e fu poi nominato prima console nel 30 a.C. assieme allo stesso Ottaviano, e poi proconsole in Siria e nella provincia d'Asia.  L'umorismo ciceroniano [91]  Vedendo un busto marmoreo che raffigurava suo fratello Quinto, uomo di bassa statura, C. osservò: "Che strano! Mio fratello è più grande quando è mezzo che quando è intero" Anche il marito della figlia non era alto, e vedendolo indossare l’armatura e le armi di legionario C. chiese ai presenti: "Chi ha legato mio genero alla spada?". Un certo Vibio Curione aveva il vezzo di abbassarsi l'età e C.: "Ma allora quando andavamo a scuola insieme non eri ancora nato?". Saputo che Fabia Dolabella asseriva di avere trent’anni, C. assentì: "È vero! Sono vent’anni che glielo sento dire." C. non aveva nobili natali per cui il patrizio Metello Nepote lo derideva, durante le udienze in tribunale, chiedendogli chi era suo padre. Ma C.: "Per quanto ti riguarda, invece, tua madre ti ha reso difficile rispondere a questa domanda!" Ad un avversario disonesto che lo attaccò in Senato domandandogli: "Perché abbai tanto?", C. rispose: "Perché vedo un ladro!" C. politico  Lo stesso argomento in dettaglio: Pensiero politico di C..  Busto di C. (LA) «Potestas in populo, auctoritas in senatu»  (IT) «Il potere è del popolo, l'autorità del senato»  (Marco Tullio C., De Legibus,3,12)  Come uomo politico, C. è sempre stato bersaglio della critica di antichi e moderni. Le accuse mossegli vanno dall'incoerenza alla vanità, alla poca lungimiranza. Ma la sua conduzione oggettivamente può essere giustificata se la si contestualizza nella politica del tempo, fatta in un mobile gioco di accordi e conflitti tra gruppi di potere e famiglie nobili, che sfruttavano le etichette di partito per mire personali.  «C. era attaccato al governo repubblicano per tradizione e per ricordo, rammentando le grandi cose che esso aveva fatto e a cui egli, come molte altre persone, doveva le sue dignità, il suo grado sociale e il nome. Non poteva dunque pensare a rassegnarsi così facilmente alla sua caduta, anche se la libertà effettiva non esisteva più a Roma, e non ne restava che l'ombra. Non bisogna biasimare coloro, come C., che vi s'attaccano e fanno sforzi disperati per non lasciarla perire, poiché quest'ombra, questa apparenza li consola della libertà perduta e infonde loro qualche speranza di riconquistarla. Questo era ciò che pensavano i Romani che, come C., dopo matura riflessione, senza entusiasmo, senza passione, e senza speranza, andarono a raggiungere Pompeo»; questo è ciò che Lucano fa dire a Catone in quei versi ammirevoli che esprimono i sentimenti di tutti coloro che, senza nascondere la triste condizione della Repubblica, si ostinarono a difenderla fino alla fine: «Come un padre, che ha or ora perduto il figlio, prova una sorta di piacere a dirigere i riti funebri, accende con le sue mani il rogo, non lo lascia che a malincuore e il più tardi possibile, così, Roma, io non t'abbandonerò prima di averti tenuta morta tra le mie braccia. Io seguirò fino alla fine il tuo solo nome, o libertà, anche quando non sarai più che un'ombra vana».[92]  Preoccupazione costante di C. fu la difesa dello status quo e dei diritti della grande proprietà latifondista, desideroso soprattutto di acquisire presso i notabili romani il credito necessario per entrare a far parte della classe dirigente. Egli si adoperò quindi per la conservazione del potere e dei privilegi di cui godeva la classe degli optimates, secondo una formula che, in sostanza, significava sicurezza e tranquillità (otium) per tutti i possidenti, e che implicava che il potere (dignitas) rimanesse nelle mani di un'oligarchia. Il suo preteso desiderio che in questa élite si entrasse per "merito" e non per nascita, quand'anche non lo si voglia meramente intendere come un sottinteso riferimento alle sue vicende personali, rimase comunque un'astrazione teorica, un'utopia, anche per l'assenza, allora come oggi, di una vera modifica nel tessuto politico e sociale della Repubblica.[93]  C. fu, inoltre, sostenitore dell'ideale politico della concordia ordinum (intesa tra il ceto equestre e senatorio divenuta poi concordia omnium bonorum, ovvero concordia di tutti i cittadini onesti), e la esaltò, in particolare, nella quarta orazione contro Catilina: allora, per la prima volta nella storia tardo repubblicana, i senatori, i cavalieri ed il popolo si trovarono d'accordo sulle decisioni da prendere, decisioni dalle quali dipendeva la salvezza dello stato. C. auspicava che la concordia potesse durare per sempre, pur capendo che essa era nata, in quel particolare frangente, solo per la pressione emotiva: d'altronde, la concordia non faceva leva su un particolare progetto politico, ma solamente su motivi di carattere sentimentale ed economico.[94]  C. filosofo Per le opere, vedi l'apposita sezione  La filosofia prima di C.  Ritratto di C. C. fu il primo degli autori romani a comporre opere filosofiche in latino: ne andava, infatti, molto fiero, ma si scusava, allo stesso tempo, di aver dedicato alla filosofia così tanto tempo. Alcuni, infatti, ritenevano che fosse disdicevole per un uomo romano dedicarsi alla filosofia, altri pensavano che comunque non bisognasse dedicarle più di un certo tempo. Altri ancora, infine, erano convinti sostenitori della totale superiorità della filosofia greca e consideravano per l'appunto solo le opere greche degne di essere lette.[95]  C. era però convinto che, se i Romani si fossero dedicati seriamente alla filosofia, avrebbero allora raggiunto le stesse vette dei Greci, che già avevano eguagliato nella retorica. Ma il gusto per le speculazioni filosofiche era totalmente estraneo alla società romana: il vir era, d'altronde, un uomo d'azione. I Romani conobbero la filosofia grazie al contatto con i Greci, ma consideravano inutile, se non addirittura deleteria, una vita spesa alla continua ricerca di un sapere che non portava nessuna gloria alla patria né alcuna ricchezza. Il Senato arrivò, infatti, addirittura ad espellere dall'Urbe i filosofi ateniesi che vi erano giunti in visita nel 155 a.C., Carneade, Diogene e Critolao.[95]  La stessa nobilitas senatoriale non voleva, poi, che il popolo e i giovani si interessassero alla filosofia (che avrebbe prodotto in loro un certo amore per l'otium, allontanandoli dalla vita reale), ma furono costretti ad ammettere che nessun uomo degno di tale nome poteva restare estraneo a questa scienza. I senatori decisero di richiamare a Roma i filosofi che avevano scacciato per prendere da loro delle vere e proprie lezioni di filosofia, vietando, comunque, loro di insegnare la filosofia pubblicamente. Persino Marco Porcio Catone, fiero oppositore della penetrazione della cultura greco-ellenistica a Roma,[96] studiò la filosofia greca, come tutti gli esponenti dell'oligarchia senatoriale del tempo.[95]  A riscuotere un istantaneo successo a Roma fu lo stoicismo, ma presto ad esso si unirono le altre dottrine, i cui esponenti arrivarono "in massa" a Roma nel corso del I secolo a.C. In poco tempo, dunque, la situazione aveva subito un totale ribaltamento e non esisteva più uomo estraneo alla filosofia.[95]  Formazione filosofica di C. C. non si comportò diversamente dai suoi contemporanei, ma, almeno in gioventù, studiò la filosofia convinto che si trattasse esclusivamente di un valido supporto per la retorica: iniziò a comporre opere filosofiche, infatti, soltanto in tarda età, quando solo la composizione, appunto, poteva essere l'impiego del suo tempo libero. Nella filosofia C. cercò e seppe trovare la consolazione di cui aveva bisogno, il rimedio somministratogli dall'antica saggezza.[95]  Da giovane, C. studiò d'impulso l'epicureismo, dottrina che aveva avuto numerosi discepoli anche a Roma, tra cui Amafinio, Cazio e Lucrezio. In principio, C. fu, infatti, allievo di filosofi epicurei, quali Fedro e Zenone. Più tardi, sotto l'influsso di altri maestri, abbracciò, almeno in parte, lo stoicismo, ma non ne fu mai un convinto sostenitore: come altri al suo tempo, elaborò una personale fusione tra le due filosofie, in modo eclettico.[95] Mostrò, tuttavia, forti preferenze per la dottrina accademica insegnatagli da Filone: la teoria del probabilismo e del verosimile si adattavano perfettamente ad una personalità quale quella di C., a cui si addiceva perfettamente anche l'elevazione morale dello stoicismo. Questa particolare mescolanza fra più filosofie fu la vera filosofia di C..[95]  Opere  Marci Tullii Ciceronis Opera Omnia, 1566 Scritti filosofici  Frontespizio di una stampa del De officiis; Christopher Froschouer, 1560 Le opere filosofiche di C. costituiscono un'importante fonte su teorie filosofiche ellenistiche poco documentate direttamente. In particolare gli Academica sono una testimonianza essenziale sullo scetticismo della media Accademia. In molti casi C. traduce per la prima volta in latino termini filosofici greci.[97] Ad esempio i termini probabile e probabilità, usati con leggere varianti in tutte le lingue occidentali per indicare concetti filosofici e scientifici, traggono il loro significato attuale dalla scelta di C. di tradurre con il latino probabilis il termine πιθανὸς (pithanòs), nel senso in cui esso è usato da Carneade.[98]  Il De re publica e il De legibus, e la traduzione del Timeo e del Protagora contribuirono a diffondere a Roma il Platonismo.[99]  Panoramica alfabetica di tutte le opere filosofiche Academica priora (prima stesura dei libri sulla dottrina della conoscenza dell'accademia platonica). Catulus (Dialogo), la prima parte dell'Academica priora, perduto. Lucullus (Dialogo), la seconda parte dell'Academica priora, conservato. Academici libri oppure Academica posteriora (versione tarda del trattato sulla dottrina della conoscenza dell'accademia platonica, in quattro libri). Cato Maior de senectute ("Catone il censore, sull'anzianità"). C. immagina Catone il Censore all'età di 84 anni ed esprime la sua nostalgia del buon tempo antico, quando a Roma l'uomo politico eminente poteva mantenere prestigio e autorevolezza fino alla più tarda età. Consolatio: una consolazione a sé stesso scritta alla morte dell'amata figlia Tullia, in cui C. esorta a considerare la caducità di ogni cosa e l'importanza della filosofia. L'opera è andata perduta. De Divinatione ("Sulle profezie"): Quest'opera, probabilmente la più originale tra tutte quelle composte da C., mette in luce un'opinione molto esplicita sulla fiducia che bisogna riporre nell'arte aruspicina. Sebbene discuta anche delle opinioni stoiche al riguardo, si nota che C. tratta gli argomenti con la dimestichezza di chi ha potuto osservare da vicino il funzionamento della religione romana (nelle vesti di augure), e può trarne un lucido giudizio, che non può non essere negativo. Da quest'opera e dal terzo libro del De natura deorum i primi cristiani attinsero argomenti per combattere il politeismo. De finibus bonorum et malorum ("Sui confini del bene e del male"). È un dialogo in cinque libri che si pone il problema di cosa sia il sommo bene, tenendo in considerazione le due filosofie antiche stoica ed epicurea che, rispettivamente, lo classificavano come virtù e piacere. De Fato ("Sul Fato"), giuntoci non integralmente. Viene argomentata la dottrina provvidenzialistica degli stoici. De natura deorum ("Sull'essenza degli dei"): Il De natura deorum fu scritto nel 44 a.C., subito prima della morte di Cesare, ed inviato a Bruto. C. orchestra una conversazione tra un epicureo, Velleio, uno stoico, Balbo, ed un accademico, Cotta, che espongono e discutono le opinioni dei vecchi filosofi sugli dei e sulla Provvidenza. L'ateismo dissimulato di Epicuro viene confutato da Cotta, che sembra rappresentare lo stesso C.. Cotta prende, poi, la parola, per confutare anche il pensiero stoico riguardo alla Provvidenza. Se C. respingeva con certezza il parere degli epicurei al riguardo, non possiamo, invece, sapere con altrettanta certezza cosa pensasse della religiosità dello stoicismo: le parole di Cotta, pervenuteci, tra l'altro, solo in parte, non contengono nessuna riflessione dello stesso C.. Si è però ipotizzato che C. abbracciasse almeno in parte il probabilismo accademico, sebbene suoi ammiratori fossero invece convinti che si fosse allontanato del tutto dallo scetticismo. Comunque, è importante il poter constatare l'estrema discrezione dell'atteggiamento di C.: egli è persuaso che il culto nell'esistenza degli dei e nella loro azione sul mondo debba esercitare una profonda influenza sulla vita, e che è, dunque, di un'importanza fondamentale per il governo di uno stato. Esso deve, perciò, essere mantenuto vivo nel popolo. Sono il politico e l'augure che parlano. C. non trova gli argomenti degli stoici molto convincenti, e li confuta per mezzo di Cotta. Infine, si dice incline a credere che gli dei esistano e che governino il mondo: lo crede, perché è un'opinione comune a tutti i popoli. Questo" accordo" universale equivale per lui ad una legge della natura (consensus omnium populorum lex naturae putanda est). In quanto alla pluralità degli dei, sebbene non si esprima categoricamente su questo punto, sembra che non ci creda, o per lo meno che, come gli stoici, consideri gli dei come nient'altro, per così dire, che le emanazioni del Dio unico. Concepisce poi questo Dio unico come uno spirito libero e privo di qualsiasi elemento mortale, all'origine di tutto. Non risparmia, invece, i racconti mitici del politeismo greco-romano; schernisce e condanna le leggende comuni a tutti i popoli. Era soprattutto questa parte dell'opera, il terzo libro, ad affascinare i filosofi del XVIII secolo: non era difficile mettere in luce gli aspetti ridicoli della religione popolare, e si può dire che anche al tempo di C. ciò era diventato un luogo comune filosofico. Gli uni, respingendo con disprezzo queste favole, che giudicavano grossolane, respingevano anche ogni credenza; gli altri adottavano la dottrina stoica. A C., invece, l'esistenza degli dei appariva come necessaria: tutti i popoli credevano, e di conseguenza credeva anche lui. Pressappoco nello stesso modo, C. analizza, poi, il tema dell'immortalità dell'anima, prendendo in prestito molte delle opinioni espresse a questo proposito da Platone.[100] De officiis ("Sui doveri"): Il De officis, che - pare - fu scritto dopo la morte di Cesare, nel 44 a.C., è l'ultima opera filosofica di C., che la dedicò al figlio Marco, che si trovava ad Atene. L'opera, ispirata ad un lavoro dello stoico Panezio, è divisa in tre libri: il primo tratta di ciò che è onesto, il secondo di ciò che utile, ed il terzo traccia una comparazione tra utile ed onesto. Nell'opera, C. non fornisce profonde spiegazioni con rigore scientifico, ma enuncia una serie di ottimi precetti, indispensabili per fare di un uomo un buon cittadino romano, ligio ai suoi doveri e dunque in grado di vivere nell'ottica della virtus. Hortensius: sorta di protrettico ovvero esortazione alla filosofia, modellata su un'analoga opera perduta di Aristotele. Come testimoniato dal proemio al II libro del De divinatione, in essa appariva Quinto Ortensio Ortalo, il quale svalutava l'attività filosofica; contro questa tesi si pronunciava C.. L'opera fu assai apprezzata nell'antichità, specie da Agostino; essa è andata perduta e gli unici frammenti pervenutici provengono da citazioni che ne fa appunto Agostino. Laelius seu de amicitia ("Lelio" o "sull'amicizia"). Paradoxa Stoicorum (Teoremi di spiegazione dei paradossi etici della scuola degli stoici): Si tratta di esercitazioni di casistica oratoria, spesso giudicate di basso livello dalla critica. Tusculanae disputationes ("Conversazioni a Tusculum"): Le Tusculanae disputationes furono composte nel 45 a.C., sotto la dittatura di Cesare, quando Catone Uticense era già stato costretto al suicidio e la repubblica aveva, in fin dei conti, cessato di esistere. Il dittatore si era dimostrato clemente, ma aveva dato a intendere agli intellettuali che non avrebbe accettato una loro "insubordinazione": a C., che aveva scritto un libro in memoria di Catone, Cesare aveva risposto con l'Anticato ("Anticatone"), in cui criticava l'illustre morto, mostrando quale sarebbe stato il suo atteggiamento verso gli oppositori. Per C. la situazione era davvero complicata: sua figlia Tullia era appena morta, e la vita politica aveva perso ogni senso. L'oratore decise dunque di ritirarsi nella villa di Tusculum, particolarmente amata da Tullia, dove si dedicò allo studio della filosofia. Gli argomenti delle disputationes rispecchiano dunque il suo stato d'animo: cos'è la morte? Cos'è il dolore? C'è un modo per alleviare le afflizioni dell'animo? Cosa sono le passioni? Come si deve confrontare il saggio nei confronti di questi elementi turbatori della propria imperturbabilità? Infine: cos'è la virtù? Basta a rendere felice una vita? Tra le ultime riflessioni ve n'è anche una a proposito del suicidio, inteso come mezzo per eludere la morte. C. tratta questi temi con il suo solito stile eloquente, ma vi si intravede un forte senso d'impotenza: è evidente che il suo pensiero è sempre rivolto, nonostante tutto, a Roma ed alla politica. De re publica ("Sulla repubblica"), sul modello della Repubblica di Platone. De legibus ("Sulle leggi"): Il De legibus fu composto probabilmente nel 52 a.C., dopo che C. era stato nominato augure. Si tratta di uno scritto che può considerarsi complementare del De re publica, del quale ricalca pregi e difetti: non è un lavoro puramente filosofico, né un semplice trattato di giurisprudenza, ma piuttosto un compromesso tra le due scienze. Nel primo libro, ispirato all'omonima opera di Platone e al trattato Sulle leggi di Crisippo, C. dimostra con una grande elevazione di pensiero e di stile l'esistenza di una legge universale, eterna, immutabile, conforme alla ragione divina, che si confonde con lei. Proprio la ragione divina, infatti, costituisce il diritto naturale, che esisteva prima di tutti gli ordinamenti. Dopo quest'avvio, C. passa all'analisi delle leggi in rapporto alle varie forme di governo, così come farà, molto tempo dopo, Montesquieu. Non avendo a disposizione altra repubblica all'infuori di quella romana, C. non immagina leggi diverse da quelle romane: esse sono le leggi perfette. Terminata l'analisi, C. si limita, nel secondo libro, ad enunciare le poche che possono essere considerate imperfette, soprattutto tra quelle che regolano il culto. L'attenta analisi delle consuetudini religiose appare, alla luce della data di pubblicazione, come un'attenta manovra di propaganda, con la quale C. appare ai suoi concittadini come uomo ben degno della carica sacerdotale che gli è stata affidata. Nel terzo libro, di cui sono andati perduti alcuni passi, C. analizza la natura e l'organizzazione del potere, il carattere delle diverse funzioni dello stato e l'antagonismo salutare che deve esistere tra le forze che lo costituiscono. Queste domande, di interesse generale così vivo poiché toccavano direttamente il problema della libertà politica, avevano un'importanza considerevole per i contemporanei di C.. Quale doveva essere la parte dell'aristocrazia o del senato, e quale quella del popolo nel governo della repubblica? Non era lontano il tempo in cui Cesare avrebbe dato la risposta definitiva a questo quesito, e tutti coloro che presagivano ciò che sarebbe accaduto tentavano di rafforzare l'autorità della nobilitas e del senato. Nell'opera, il fratello di C., Quinto, è fortemente contrario al tribunato della plebe, carica che ritiene potenzialmente troppo pericolosa: C., pur discostandosi dalle opinioni del fratello, riconosce il pericolo che il tribunato della plebe costituisce per il mantenimento della calma e della pace. Possediamo solamente i primi tre libri del De legibus: ce n'erano probabilmente sei. Il quarto era dedicato all'esame del diritto politico, il quinto al diritto criminale, il sesto al diritto civile. Si trattava di opere particolarmente preziose, perché C. non ha mai trattato altrove gli stessi argomenti. Non dimentichiamo che i trattati De re publica e De legibus furono scritti in un'epoca durante la quale la costituzione romana era ancora in piedi, prima della guerra civile e la fine dell'antica libertà. Questa circostanza spiega il carattere dei due lavori: sono al tempo stesso libri teorici e pratici, ed anche tecnici. Dopo l'avvento di Cesare, l'elemento speculativo dominerà nella filosofia di C., che infatti fuggirà la vita pubblica per ritirarsi nella contemplazione.[101] Orazioni  C. mentre pronuncia un'orazione in Senato. Particolare, Cesare Maccari, 1882-1888, Villa Madama, Roma. (LA) «In principiis dicendi tota mente atque artubus contremisco.»  (IT) «All'inizio di un discorso mi tremano le gambe, le braccia e la mente.»  (Marco Tullio C.)  C. è certamente il più celebre oratore dell'antica Roma. Nel Brutus egli ritiene completato con se stesso (non senza un certo fine autocelebrativo) lo sviluppo dell'arte oratoria latina, e già da Quintiliano la fama di C. quale modello classico dell'oratore è ormai incontrastata. C. ha pubblicato da sé la maggior parte dei suoi discorsi; cinquantotto orazioni (alcune parzialmente lacunose) sono state rinvenute nella versione originale mentre circa cento sono conosciute per il titolo o per alcuni frammenti. I testi si possono dividere tra orazioni pronunciate di fronte al Senato (o al popolo) e tra le arringhe pronunciate in qualità di - utilizzando termini moderni - avvocato difensore o pubblica accusa, nonostante anche questi ultimi abbiano spesso un forte substrato politico come nel celeberrimo caso contro Gaio Verre (unica volta in cui C. compare come accusatore in un processo penale). Il suo successo è dovuto alla sua abilità argomentatoria e stilistica, che si sa adattare perfettamente all'oggetto dell'orazione e al pubblico,[104] soprattutto alla sua tattica astuta, che si adatta di volta in volta al particolare uditorio, appoggiando appropriatamente diverse scuole filosofiche o politiche, al fine di convincere il pubblico contrario e raggiungere il proprio scopo.  Tecniche di memorizzazione Per memorizzare i suoi discorsi C. utilizzava una tecnica associativa che venne chiamata tecnica dei loci o tecnica delle stanze.[105] Egli scomponeva il discorso in parole chiave e parole concetto che gli permettessero di parlare dell'argomento desiderato e associava queste parole, nell'ordine desiderato, alle stanze di una casa o di un palazzo che conosceva bene, in modo creativo e insolito. Durante l'orazione egli immaginava di percorrere le stanze di quel palazzo o di quella casa, e questo faceva sì che le parole concetto del suo discorso gli venissero in mente nella sequenza desiderata. È da questo metodo di memorizzazione che derivano le locuzioni italiane "in primo luogo", "in secondo luogo" e così via.  Panoramica alfabetica di tutte le orazioni De domo sua ad pontifices ("Sulla propria casa, al collegio pontificale", 57 a.C.): arringa pronunciata per uno scopo particolare: durante l'esilio di C. il suo avversario Clodio aveva consacrato una parte della proprietà di C. sul Palatino alla dea Libertas; C. dichiara questa consacrazione invalida per ottenerne la restituzione. È da tale contesto che nasce la locuzione Cicero pro domo sua. De haruspicum responsis ("Sul responso degli aruspici", 56 a.C.): Clodio redige un passo sulla profanazione di alcune reliquie durante una perizia degli aruspici sul terreno di C. sul Palatino e chiede la demolizione di una casa di C. ivi in costruzione. Contro questa ed altre accuse C. si rivolge con un appello al Senato, nel quale spiega, che la maggior parte delle accuse di Clodio si basano su indagini dolosamente carenti. De imperio Cn. Pompei (De lege Manilia) ("Sul comando di Gneo Pompeo (sulla legge Manilia)", 66 a.C.), orazione di carattere politico pronunciata di fronte al popolo in occasione dell'attribuzione, effettuata su proposta del tribuno della plebe Gaio Manilio, a Gneo Pompeo di poteri speciali per la conduzione di una campagna militare contro il re del Ponto Mitridate VI. De lege agraria (Contra Rullum) I–III ("Sulla legge agraria (contro Rullo)", 63 a.C.): orazione pronunciata durante l'anno di consolato, tenuta in Senato (I) e davanti al popolo (II/III); un quarto dell'orazione è stato perduto. De provinciis consularibus ("Sulle province consolari", 56 a.C.), orazione pronunciata in senato riguardo alle province consolari romane. De Sullae bonis ("Sui beni di Silla", 66 a.C.). Divinatio in Caecilium ("Dibattito contro Cecilio", 70 a.C.), dibattito riguardo all'assunzione del ruolo di accusatore nel processo contro Verre. Quinto Cecilio Nigro fu sotto Verre questore in Sicilia e presentò la propria candidatura nel ruolo di accusatore. Per C. egli era infatti invischiato nelle macchinazioni di Verre. In L. Calpurnium Pisonem ("Contro Lucio Calpurnio Pisone", 55 a.C.), orazione d'accusa politica contro Lucio Calpurnio Pisone Cesonino. In Catilinam I–IV ("Contro Catilina I-IV" ovvero "Le Catilinarie", 63 a.C.), orazioni contro Lucio Sergio Catilina: i discorsi del 7 e dell'8 novembre 63 a.C. pronunciati di fronte al Senato (I) e al popolo (II); i discorsi della scoperta e della condanna dei seguaci di Catilina, del 3 dicembre di fronte al popolo (III) e del 5 dicembre di fronte al Senato (IV) In P. Vatinium ("Contro Publio Vatinio", 56 a.C.), orazione accusatoria contro P.Vatinio riguardo all'interrogatorio nel processo contro P.Sestio. In Verrem actio prima ("Prima accusa contro Verre", 70 a.C.), orazione accusatoria nel processo contro Verre, accusato di concussione (crimen pecuniarum repetundarum) In Verrem actio secunda I–V ("Seconda accusa contro Verre I–V", 70 a.C.), questi cinque discorsi non sono mai stati pronunciati a causa dell'esilio volontario di Verre, ma vennero comunque pubblicati in forma scritta. Oratio cum populo gratias egit ("Ringraziamento al popolo", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro che hanno appoggiato il ritorno di C. dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella vita politica. Oratio cum senatui gratias egit ("Ringraziamento al senato", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro che in Senato hanno appoggiato il ritorno di C. dall'esilio, e gli hanno permesso il rientro nella vita politica. Philippicae orationes I – XIV ("Le filippiche"), orazioni contro Marco Antonio. Pro M. Aemilio Scauro ("In difesa di M. Emilio Scauro", 54 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Marco Emilio Scauro. Pro T. Annio Milone ("In difesa di Tito Annio Milone", 52 a.C.), orazione difensiva, originariamente diversa dalla versione pubblicata, non sortì il proprio effetto in quanto la curia era assediata dai fedeli della fazione clodiana. Dopo l'esilio di Milone subirà profonde modifiche per essere pubblicata quale ci è pervenuta: la più bella orazione di C.. Contiene tra l'altro la celebre citazione "Inter arma enim silent leges" Pro Archia ("In difesa di Archia", 62 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore del poeta antiochiano Aulo Licinio Archia. Pro Aulo Caecina ("In difesa di Aulo Cecina", 69 a.C./ca. 71 a.C.), orazione tenuta per il querelante in un processo civile per un'azione di rivendicazione. Il fondamento giuridico è l'interdetto de vi armata (rimedio del possessore contro lo spossessamento violento). Sostenitore della parte avversa è Gaio Calpurnio Pisone; entrambe le parti fanno ricorso manifestamente all'autorevolezza del giurista Gaio Aquilio Gallo. Pro M. Caelio ("In difesa di M. Celio", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro A. Cluentio Habito ("In difesa di Aulo Cluenzio Abito", 66 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro G. Cornelio ("In difesa di Gaio Cornelio", 65 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro L. Cornelio Balbo ("In difesa di Lucio Cornelio Balbo", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro P. Cornelio Sulla ("In difesa di Publio Cornelio Silla", 62 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Marco Fonteio ("In difesa di Marco Fonteio", 69 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Q. Ligario ("In difesa di Quinto Ligario" 46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Quinto Ligario, indirizzata a Cesare in quanto dittatore. Pro Marco Marcello ("In difesa di Marco Marcello", 46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Marco Marcello, indirizzata a Cesare in quanto dittatore. Pro muliere Arretina ("In difesa di una donna di Arezzo", 80 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Lucio Murena ("A favore di Murena", 63 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore in un processo di corruzione elettorale. Pro Gneo Plancio ("In difesa di Gneo Plancio", 54 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Publio Quinctio ("In difesa di Publio Quinzio", 81 a.C.), il più antico discorso giuridico tradizionale di C. a favore del querelante in un processo civile. Oggetto del contendere è la legittimità dell'azione di sequestro preventivo eseguita dal convenuto Sesto Nevio contro il cliente di C. Publio Quinto. Difensore della parte avversa è Quinto Ortensio Ortalo, giudice è Gaio Aquilio Gallo. Pro C. Rabirio perduellionis reo ("In difesa di Gaio Rabirio, colpevole di alto tradimento", 63 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Rabirio Postumo ("In difesa di Rabirio Postumo"), 54 a.C./53 a.C. oppure 53 a.C./52 a.C.), orazione difensiva pronunciata nella fase pregiudiziale del processo contro Aulo Gabinio a causa di concussione nelle province. Verte attorno alla presenza di "bustarelle" in connessione con la reintegrazione al trono d'Egitto di Tolomeo XII Aulete. Pro rege Deiotaro ("In difesa del re Deiotaro", 45 a.C.), orazione in difesa del Re Deiotaro, rivolta a Cesare Pro Sex. Roscio Amerino ("In difesa di Sesto Roscio da Amelia", 80 a.C.), orazione di difesa, è la prima arringa di C. in un processo per omicidio. Sesto Roscio era accusato di parricidio. Durante la guerra civile un parente si era impossessato del patrimonio del padre di Roscio e ora cercava di assicurarsi il maltolto, il quale apparteneva ai legittimi eredi del deceduto. C. ottenne l'assoluzione. Pro Q. Roscio Comoedo ("In difesa dell'attore Quinto Roscio", circa 77 a.C. o 76 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro P. Sestio ("In difesa di Publio Sestio", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Titinia ("In difesa di Titinia", 79 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Marco Tullio ("In difesa di Marco Tullio", 72 a.C./71 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro L. Valerio Flacco ("In difesa di Lucio Valerio Flacco", 59 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.  Miniatura quattrocentesca del De oratore. Scritti di retorica  Lo stesso argomento in dettaglio: Retorica latina. Così come per C. è difficile distinguere tra vita ed opere, così in particolare differenziare tra scritti filosofici e retorici è sì pratico e chiaro, tuttavia non rappresenta pienamente la concezione e l'opinione di C.. Già nella sua prima opera conservata (De inventione I 1-5) chiarisce che la sapienza, l'eloquenza e l'arte del governare hanno sviluppato un legame naturale, che indubbiamente ha contribuito allo sviluppo della cultura degli uomini e che dev'essere ristabilito. Egli ha in mente quest'unità come modello ideale sia negli scritti teoretici sia anche nella sua propria vita activa al servizio della Repubblica - o almeno è così che egli ha voluto idealizzare e vedere la propria realtà.  Perciò non è affatto sorprendente se C. ha sviluppato i suoi scritti filosofici con i mezzi della retorica e strutturato le sue teorie della retorica su principi filosofici. La separazione tra sapienza ed eloquenza C. l'addossa alla "rottura tra linguaggio e intelletto" compiuta dalla filosofia socratica (De oratore III 61) e tenta attraverso i suoi scritti di "risanare" questa frattura; e quindi per una migliore attuazione la filosofia e la retorica secondo lui devono essere dipendenti l'una dall'altra (v. p.e. De oratore III 54-143); C. stesso dichiara che "io sono diventato un oratore non nelle scuole dei retori ma nei saloni dell'Accademia": con ciò allude alla sua formazione sulle dottrine della Nuova Accademia di Carneade e Filone di Larissa, suo maestro.  Panoramica alfabetica delle opere sulla retorica pervenuteci Brutus: il libro dedicato a Marco Giunio Bruto venne scritto all'inizio del 46 a.C. e tratta, nella forma di un dialogo tra C., Bruto ed Attico, la storia dell'arte retorica romana fino a C. stesso. Dopo un'introduzione (1-9) C. inizia un confronto con la retorica greca (25-31) e sottolinea che l'arte oratoria poiché è la più complessa di tutte le arti solo tardi giunse alla perfezione. Mentre ritiene gli antichi oratori romani appena mediocri, parla di Catone come base della propria esperienza. Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore, entrambi protagonisti del De oratore, sono dettagliatamente confrontati (139 e ss.). Dopo un'escursione sull'importanza del giudizio del pubblico (183-200) e una riflessione sull'oratore Ortensio (201-283), C. respinge fermamente il modello dell'Atticismo (284-300). L'opera culmina in confronto tra l'arte oratoria di Ortensio e di C. stesso, non senza una notevole dose di autocelebrazione (301-328), egli infatti presenta se stesso come il punto d'arrivo di un processo di sviluppo dell'arte oratoria. Punto principale dell'opera è la critica alla diffusione nello stile neoattico, a cui anche il giovane Bruto appartiene, difendendo il suo stile, assai più ricco e magniloquente, dalla critica di essere un esempio dello stile asiano. De inventione: ("L'invenzione retorica"): sviluppato tra l'85 a.C. e l'80 a.C. questo è il primo di due libri di una descrizione globale della retorica, mai completata. C. rinunciò a completarla, per dedicarsi ad una più accattivante rappresentazione nel De oratore, e tuttavia l'opera servì, nonostante il carattere frammentario, come testo d'insegnamento fino al Medioevo. La parte completata tratta nel primo libro dei concetti principali della retorica (I 5-9), la dottrina dell'insegnamento della retorica in riferimento ad Ermagora di Temno (I 10-19) nonché il ruolo dell'oratore (I 19-109); il secondo libro tratta delle tecniche d'argomentazione, soprattutto nelle arringhe giuridiche (II 11-154) nonché brevemente delle orazioni di fronte al popolo (II 157-176) e in occasione di celebrazioni (II 177-178). Le dichiarazioni di C. per quanto riguarda il contenuto dell'opera presentano molte somiglianze con la Rhetorica ad Herennium, ma per lungo tempo erratamente ritenuta sua, cosa che ha portato a numerose discussioni tra gli studiosi riguardo al rapporto tra le due opere. Entrambi gli scritti sono all'incirca dello stesso periodo e si basano direttamente o indirettamente sulle medesime o su affini fonti greche. Inoltre c'è una notevole somiglianza letterale in alcuni periodi, cosa che suggerisce probabilmente anche una comune fonte latina, forse originata da un comune insegnamento dottrinario che ha mediato il preponderante contenuto di origine greca. De optimo genere oratorum ("Sulla miglior arte dell'oratoria"): questa breve opera, scritta probabilmente nel 46 a.C. o, secondo altri pareri, già nel 50 a.C., è un'introduzione alla traduzione delle orazioni di Demostene ed Eschine, per e contro Ctesifonte. L'introduzione verte soprattutto sugli atticisti romani, all'incirca con le stesse argomentazioni dell'Orator. La traduzione comunque non ci è pervenuta, e non è chiaro se C. l'abbia mai effettivamente completata. L'autenticità dell'opera è stata più volte messa in discussione, ma oggi è per lo più accettata. De oratore (Sull'oratore): la più importante opera sulla retorica di C. non dev'essere confusa con l'opera quasi omonima Orator. È un'opera composta nel 55 a.C. in forma di dialogo, così come per il Brutus. I protagonisti stavolta sono Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, esempi, secondo C., dei più grandi oratori della generazione precedente. Nel I libro è Crasso (portavoce di C.) ad esporre la tesi principale dell'opera ossia che il buon oratore deve avere un'approfondita conoscenza dell'argomento di cui vuole trattare, osteggiando la concezione di alcuni retori greci che ritenevano sufficiente una formazione basata su regole, tecnicismi ed esercizi per affrontare qualsiasi discorso. Il II libro tratta invece delle "parti" in cui si suddivide la retorica, cioè l'inventio, la dispositio e la memoria; nel III libro si parla dello stile, cioè l'elocutio, e dell'actio, cioè il modo in cui l'oratore deve comportarsi durante l'orazione. Il de oratore è considerata l'opera di C. scritta con più cura formale e per questo motivo è sempre stata utilizzata e studiata come modello primo dello stile ciceroniano. Orator ("L'oratore"): Venne scritta nell'estate del 46 a.C. ed è anche questa dedicata a Marco Giunio Bruto e descrive un modello ideale del perfetto oratore, riprendendo molti dei temi già trattati nel De oratore. Contrariamente alla disputa di quel tempo tra gli atticisti, che - come Bruto - pretendono dall'oratore uno stile sobrio e preciso, e gli asiani, che prediligono uno stile molto ricercato e magniloquente, C. ritiene che il perfetto oratore, come Demostene, deve dominare tutti gli stili e saper passare da uno all'altro con naturalezza. Per questo motivo bisogna dedicarsi soprattutto alla formazione filosofica: solo così potranno svolgere i tre compiti dell'oratore: probare, delectare, flectere (dimostrare, divertire, convincere), i quali vengono bene ordinati e descritti (76-99). C. parla anche qui brevemente dell'inventio (44-49), della dispositio (50) ma tratta soprattutto dell'elocutio (51-236), soffermandosi sulle figure retoriche e sulla costruzione ritmica del periodo. Partitiones oratoriae ("Partizione dell'arte oratoria"): Quest'opera venne scritta nel 54 a.C., quando il figlio di C., Marco, stava studiando la retorica, ed è ideata come una sorta di 'catechismo', trattando la teoria della retorica, soprattutto con divisioni schematiche, nella forma di domanda e risposta tra padre e figlio. L'originalità di C. in quest'opera spicca molto meno, a causa dello stile molto semplice e delle poche novità introdotte. I Topica (44 a.C.): scritti nel corso del viaggio in Grecia, su sollecitazione dell'amico Trebazio, trattano della dottrina dell'inventio divulgata da Aristotele, ovvero l'arte di saper trovare gli argomenti. In questa produzione retorica vengono considerati i luoghi (topoi) come ottimo spunto per ogni genere di argomento ed utilizzabili per qualunque disciplina (poesia, politica, retorica, filosofia, ecc.) Opere perdute Tra le opere tardive di C. si possono annoverare scritti consolatori, contributi alla storiografia, poesie (alcune anche sul suo periodo di consolato) e traduzioni. Queste opere sono per la maggior parte perdute. Delle poesie ci rimangono comunque svariate citazioni anche in altri lavori dello stesso C.. Questi frammenti dimostrano l'influenza di uno dei più importanti poeti latini, Catullo e di altri neoterici.  Panoramica alfabetica delle opere poetiche ed epico-storiche di C. Alcyones: epillio composto da C. dopo il 92 a.C. nel quale veniva cantato il mito di Alcione e del marito Ceice. Dato che questi si paragonavano a Giove e Giunone per la loro ricchezza, sfarzosità e potenza, gli dei fecero fare loro naufragio durante un tragitto in mare. Dato che Ceice morì nella tempesta, Alcione si lasciò annegare per il dolore, così Giove tramutò entrambi i defunti in uccelli alcioni. Aratea: libera traduzione giovanile dei Fenomeni celesti del poeta ellenistico Arato di Soli. De consulatu suo: poemetto autobiografico composto da C. tra il 60 a.C. e il 55 a.C. in cui si parla dell'ascesa al consolato dell'autore e della sua vittoria nel processo contro Lucio Sergio Catilina. De temporibus suis: altra opera autobiografica perduta scritta nel 54 a.C. in cui C. celebrava i suoi interventi migliori durante il consolato. Epigrammata ("Epigrammi"): componimenti satirici scritti da C. quando aveva circa vent'anni. Stando alle testimonianze di Quintiliano, l'opera era di genere comico e ironico e trattava di vari argomenti fantastici e reali. Līmōn: il titolo deriva dal sostantivo greco Λειμών, "prato"; ciò sottolineava il carattere variegato dell'opera, un poema in esametri in cui venivano trattati diversi argomenti letterali e sociali. Infatti una testimonianza di Svetonio riporta un giudizio severo dell'autore riguardo a un'opera del commediografo Terenzio. Marius: poema epico-storico in cui C. parla delle imprese del console Gaio Mario. L'opera è importante per il passaggio dell'autore dal genere alessandrino a quello storico mescolato alla poesia, cioè epico. Nilus: opera quasi sconosciuta. Si pensa che C. l'abbia scritta per lodare le qualità del fiume Nilo dell'Egitto. Pontius Glaucus: componimento in stile alessandrino di C.. Scritto circa nel 93 a.C., l'opera trattava del mito di Glauco, il quale dopo aver mangiato un'erba afrodisiaca dai poteri magici, si trasformò in un animale marino. Tymhaeus: vasti frammenti del lavoro compiuto sul Timeo di Platone, che C. presumibilmente non ha mai pubblicato, preparando semplicemente abbozzi di traduzione. Uxorius: opera nota quasi esclusivamente attraverso il titolo, che significa Il marito devoto (alla moglie); si ritiene avesse argomento leggero e carattere scherzoso, se non apertamente comico. Epistolario  Edizione delle Epistole agli amici, Venezia 1547 Le epistole di C. furono riscoperte da Petrarca e dal cancelliere e umanista Coluccio Salutati. Complessivamente furono ritrovate circa 864 lettere, delle quali una novantina furono scritte da corrispondenti, e ciò inizialmente provocò un grande entusiasmo, temperato successivamente dal fatto che l'immagine che traspariva di C. non era quella dello strenuo eroe difensore della Repubblica, come si era sempre dipinto nelle sue opere e nelle sue orazioni, ma una versione molto più umana, con le sue debolezze e i suoi aspetti meno retorici, ma certamente affascinanti nella loro genuinità.  Le epistole furono raccolte e archiviate dal segretario di C., Tirone, fra il 48 e il 43 a.C. Si dividono in 4 categorie:  Epistole agli amici (Epistulae ad familiares) (16 libri) Epistole al fratello Quinto (Epistulae ad Quintum fratrem) (3 libri) Epistole a Marco Giunio Bruto Epistole ad Attico (Epistulae ad Atticum) (16 libri) Memoria Presente in tutto il Medioevo, il ricordo di C. fiorì durante il Rinascimento[107]; Giovanni I di Brandeburgo principe elettore del Brandeburgo nel XV secolo, venne ricordato, dopo la sua morte, con l'appellativo di C., proprio a causa della sua eloquenza.  Negli Stati Uniti d'America vi sono ben quattro città cui è stato dato il nome "Cicero" in onore di Marco Tullio C.. Inoltre l'espressione latina Cicero pro domo sua viene utilizzata per descrivere chi parla sostenendo il proprio tornaconto, ma che maschera più o meno bene il fine del suo discorso come perorazione per altra causa. Essa deriva da un'orazione tenuta da Marco Tullio nel 57 a.C. per ottenere la restituzione della propria casa, requisitagli durante l'esilio.[108]  Il nome di C. è diventato un'antonomasia per indicare la guida che accompagna i turisti nella visita a monumenti e luoghi illustrando loro ciò che stanno visitando.[108] Parimenti con il nome C. vengono identificate le marche da bollo, di diverso valore (e colore), ma tutte riportanti l'effigie del busto di Marco Tullio C., da apporre agli atti giudiziari, il cui ricavato alimenta il Fondo di previdenza degli avvocati. Note ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., 2, 1. ^ Dionigi Antonelli, Abbazie, prepositure e priorati benedettini nella diocesi di Sora nel Medioevo, Pontificia Università Lateranense, Roma, Loffredo, S. Domenico di Sora e i luoghi natali di C., Tipografia dell’Abbazia di Casamari, Veroli Narducci  Rawson, p. 1. ^ Rawson, Rawson, Plutarco, Vita di C., 1, 1. ^ Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., 3, 2. ^ Rawson, pp. 14-15. ^ Plutarco, Vita di C., 2, 3.  Rawson, p. 18. ^ Plutarco, Vita di C., 4, 5.  C., Lettere ad Attico ^ Plutarco, Vita di C., 3, 5. ^ Rawson, p. 22. ^ Plutarco, Vita di C. Haskell, p. 83. ^ Plutarco, Vita di C., 4, 1-2. ^ Rawson Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., . ^ Plutarco, Vita di C., 7, 8. ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., 9, 1. ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. lutarco, Vita di C., Sallustio, De Catilinae coniuratione, 5 ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Sallustio, De Catilinae coniuratione, 29,2 ^ Plutarco, Vita di C., Sallustio, De Catilinae coniuratione Sallustio, De Catilinae coniuratione, 31,6 ^ Plutarco, Vita di C. Sallustio, De Catilinae coniuratione, 32,1 ^ Plutarco, Vita di C., Rawson, p. 106. ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Haskell, p. 201. ^ Plutarco, Vita di C. Haskell, p. 204. ^ Plutarco, Vita di C. Rawson, Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Everitt, Plutarco, Vita di C., Svetonio, Vite dei Cesari, Gaio Giulio Cesare, 9. ^ C., Seconda Filippica  Frank Frost Abbott, Commentary on Selected Letters of Cicero, Preface, section 1, su www.perseus.tufts.edu. URL consultato il 9 marzo 2023. ^ Appiano, Guerra civile Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., 42, 5. ^ Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., Svetonio, Vite dei Cesari, Augusto 83,2 ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., Seneca il vecchio, Suasoriae, trascrizione di un frammento di Tito Livio, Ab Urbe condita libri, 120 ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C. C., Lettere ai familiari ^ Plutarco, Vita di C., Plutarco, Vita di C., 41, 3. ^ C., Lettere ad Attico,12,18b,2 ^ Plutarco, Vita di C., 41, 4. ^ Plutarco, Vita di C. Plutarco, Vita di C., 41, 7. ^ Plutarco, Vita di C., C., Lettere ad Attico Boldrer, Oratoria e umorismo latino in C.: idee per l’inventio tra ars e tradizione - Oratory and Latin Humour in Cicero: Inventio between Ars and Tradition, in Ciceroniana Lucano, Pharsalia, II,300 ^ Risari, E. Lo scontro politico: i "populares", in C., Le Catilinarie, Mondadori ^ E. Risari, L'ideale politico: la "concordia ordinum", in: C., Le Catilinarie, Mondadori  L. Perelli, Il pensiero politico di C.. Tra filosofia greca e ideologia aristocratica romana. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri Vedere: Claudio Moreschini, "Osservazioni sul lessico filosofico di C.", Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, e Alain Michel, "Cicéron et la langue philosophique : problèmes d'éthique et d'esthétique", in: La langue latine, langue de la philosophie, Actes du colloque de Rome (17-19 mai 1990), Rome : École Française de Rome Le notizie riguardanti le opere di C. sono tratte dalle opere stesse ^ La Bottega dei Traduttori, Traduttori del passato: C. e la traduzione nel mondo antico, su La bottega dei traduttori, 21 dicembre 2023. URL consultato il 1º marzo 2024. ^ Perelli Perelli, p. 149. ^ Rawson, p. 303. ^ Haskell C., Orator ^ Janet Coleman, Ancient and Medieval Memories: Studies in the Reconstruction of the Past, Cambridge C. C., L'Epistole di M. Tullio C. scritte a Marco Bruto, Aldus, 1556. URL consultato il 9 marzo 2023. ^ Virginia Cox, John O. Ward (eds.), The Rhetoric of Cicero in Its Medieval And Early Renaissance Commentary Tradition, 2006.  Voce de: Il Vocabolario Treccani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. I, 1997 Bibliografia Fonti primarie Per le opere dello stesso C. si vedano le apposite sezioni  Appiano di Alessandria, Historia Romana, pp. De Bellis Civilibus. ((EN) The Roman History traduzione in inglese su LacusCurtius). Cassio Dione, Historia Romana.  ((EN) Roman History traduzione in inglese su LacusCurtius). Plutarco, Vitae parallelae, Vita Ciceronis. Lives  traduzione in inglese di John Dryden). Sallustio, De Catilinae coniuratione. The War With Catiline  traduzione in inglese di John Carew Rolfe. Svetonio, De Vita Caesarum, pp. libri I-II.  (EN) The Lives of the Twelve Caesars  — traduzione in inglese di John Carew Rolfe. Fonti secondarie G. Boissier, C. e i suoi amici (Cicéron et ses amis), traduzione di Carlo Saggio, BUR Canfora, Giulio Cesare. Il dittatore democratico, Laterza, Cox e John O. Ward (a cura di), The Rhetoric of Cicero in Its Medieval and Early Renaissance Commentary Tradition, Leiden, Brill, Everitt, Cicero. A turbulent life, Londra, John Murray Fezzi, Il tribuno Clodio, Laterza, Fraschetti, Augusto, Laterza Fruttero, Franco Lucentini, La morte di C., Nuovo Melangolo Gibbon, Declino e caduta dell'Impero Romano, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1986, ISBN 88-04-34168-8. Pierre Grimal, C., Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1986; altre ediz.: Garzanti, Milano, 1987 e successive rist.; Il Giornale, Milano De Caria Francesco, "C., Cato Maior 79-81 e Senofonte Ciropedia VIII 7,17 e C. Cato Maior 59 e Senof. Oec. IV 20-25", in "Rivista di cultura classica e medioevale  Haskell, This Was Cicero: Modern Politics in a Roman Toga, New York, Alfred A. Knopf, 1942. Kazimierz Kumaniecki, C. e la crisi della Repubblica romana, Centro di Studi Ciceroniani, Roma Lepore, Il princeps ciceroniano e gli ideali politici della tarda Repubblica, Istituto italiano per gli studi storici, Napoli, 1954 Ettore Lepore, Il pensiero politico romano del I secolo, in Arnaldo Momigliano; Aldo Schiavone (a cura di), Storia di Roma. Vol. II/1, Torino, Einaudi Marchesi, Storia della letteratura latina, Principato, Narducci, C.. La parola e la politica, Bari, Laterza, Narducci, Eloquenza e astuzie della persuasione in C., Firenze, Le Monnier, 2005, ISBN 88-00-81505-7. E. Narducci, Introduzione a C., Bari, Laterza, Perelli, Il pensiero politico di C.. Tra filosofia greca e ideologia aristocratica romana, La nuova Italia Perelli, Storia della letteratura latina, Paravia, 1969, ISBN 88-395-0255-6. (EN) E. Rawson, Cicero, A portrait, Allen Lane Rawson, L'aristocrazia ciceroniana e le sue proprietà, in Moses I. Finley (a cura di), La proprietà a Roma, Bari, Laterza, 1980. D. L. Stockton, C.. Biografia politica, Milano, Rusconi Stroh, C., Bologna, Il Mulino Traina, Marco Antonio, Laterza, Utcenko, C. e il suo tempo, Editori Riuniti. J. Vogt, La repubblica romana, Bari, Laterza, 1975. P. Zullino, Catilina, l'inventore del colpo di stato, Milano, 1985. Filosofia (EN) Raphael Woolf, Cicero, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford. (EN) Edward Clayton, Cicero, su Internet Encyclopedia of Philosophy. Logica e Retorica nelle Opere Filosofiche di C., su historyoflogic.com. Bibliografia delle Opere Filosofiche di C., su historyoflogic.com. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Marco Tullio C. Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua latina dedicata a Marco Tullio C. Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Marco Tullio C. Collabora a Wikiversità Wikiversità contiene risorse su Marco Tullio C. C. su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Francesco Arnaldi, C., Marco Tullio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, C., Marco Tullio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata C., Marco Tullio, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana C. su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN) John P.V. Dacre Balsdon e John Ferguson, Cicero, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (EN) Marco Tullio C., in Jewish Encyclopedia, Funk and Wagnalls. Modifica su Wikidata (EN) Marco Tullio C., su Internet Encyclopedia of Philosophy. Modifica su Wikidata (EN) Marco Tullio C., su The Encyclopedia of Science Fiction. Modifica su Wikidata Marco Tullio C., su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Modifica su Wikidata Opere di Marco Tullio C., su Liber Liber. Modifica su Wikidata (LA) Opere di Marco Tullio C., su Musisque Deoque. Modifica su Wikidata (LA) Opere di Marco Tullio C., su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Opere di Marco Tullio C. / Marco Tullio C. (altra versione) / Marco Tullio C. (altra versione) / Marco Tullio C. (altra versione) / Marco Tullio C. (altra versione) / Marco Tullio C. (altra versione) / Marco Tullio C. (altra versione) / Marco Tullio C. (altra versione), su MLOL, Horizons Unlimited. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Marco Tullio C., su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Marco Tullio C., su Progetto Gutenberg. Modifica su Wikidata (EN) Audiolibri di Marco Tullio C., su LibriVox. Opere riguardanti Marco Tullio C., su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata (EN) Bibliografia di Marco Tullio C., su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Modifica su Wikidata (EN) Marcus Tullius Cicero, su Goodreads. Modifica su Wikidata (FR) Bibliografia su Marco Tullio C., su Les Archives de littérature du Moyen Âge. Tulliana - C. e il pensiero romano, su tulliana.eu, Sito ufficiale della Società Internazionale degli Amici di C.. The Latin Library:Tutte le opere di C., su thelatinlibrary.com. (EN) Opere di C.: testi con concordanze e liste di frequenza, su intratext.com. Woolf, C., in Zalta, Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information, Stanford. Harald Thorsrud, Cicero: Academic Skepticism, su Internet Encyclopedia of Philosophy. Principali edizioni digitalizzate (LA) Marco Tullio C., Epistolae. [Antologia], [Milano], [Antonio Zarotto], [1480]. URL consultato l'8 aprile 2015. (LA) Marco Tullio C., Epistolae, Lutetiae, Ex officina Iacobi du Puys, sub signo Samaritanae, è regione collegii Cameracensis Marco Tullio C., [Opere]. 1, Parisiis, Ex officina Iacobi du Puys, sub signo Samaritanae, 1566. (LA) Marco Tullio C., [Opere]. 2, Lutetiae, Ex officina Iacobi du Puis, sub signo Samaritanae, è regione collegii Cameracensis, 1565. (LA) Marco Tullio C., Orationes, Lutetiae, Ex officina Iacobi Dupuys è regione collegii Cameracensis sub Samaritanae insigni Marco Tullio C., Orationes (antologie), Mediolani, Regiis typis Opere di Cícero presso la Biblioteca Nazionale del Portogallo Predecessore Fasti consulares Successore Lucio Giulio Cesare Gaio Marcio Figulo 63 a.C. con Gaio Antonio Ibrida Decimo Giunio Silano Lucio Licinio Murena C. V · D · M Guerra civile romana  V · D · M Guerra civile romana V · D · M Poeti epici antichi V · D · M Plutarco Grottaferrata   Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Età augustea   Portale Filosofia   Portale Letteratura   Portale Lingua latina   Portale Politica: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di politica Wikimedaglia Questa è una voce in vetrina, identificata come una delle migliori voci prodotte dalla comunità. Voci in vetrina in altre lingue Voci in vetrina in altre lingue senza equivalente su it.wiki  Categorie: Avvocati romaniPolitici romani del I secolo a.C.Scrittori romaniScrittori Nati ad Arpino Morti a Formia Marco Tullio C.Consoli repubblicani romani TulliiPolitici assassinati Personaggi citati nella Divina Commedia (Inferno) Senatori romani del I secolo a.C.Personaggi legati a un'antonomasiaGiuristi romaniAuguriAforisti romaniPersone legate ai Misteri eleusiniDecapitazioneStudiosi di traduzioneRetori romani[altre] . L'interesse per la problematica semiotica nel mondo ro­ mano fa parte di quel processo di costante e progressiva ac­ quisizione del patrimonio culturale greco, che inizia nel III secolo a.C. Ma, nel passaggio dal mondo greco a quello ro­ mano, il paradigma semiotico abbandona il campo della fi­ losofia in senso stretto, per installarsi, in maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia la conoscenza attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole postaristoteliche, il modello stesso della conoscenza in generale e, a partire dagli stoici, aveva trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica, una delle branche più astratte della filosofia, in quanto sotto­ partizione della stessa logica. Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente orientati in direzione pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del paradigma se­ miotico, ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più congeniali, del dibattito politico e giudiziario, dibattito de­ stinato a essere condotto con gli strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi conto, nel modo più chiaro, del cambiamen­ to di prospettiva, basta mettere a confronto l'atteggiamento di Aristotele con quello di C. nei riguardi della retori­ ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un suo importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema dei segni; ma, come era già avve202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi analitici, aveva tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella dei tipi di sillogismo. Cosi fa­ cendo, aveva indicato un percorso ben preciso: la logica stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de­ vono rimanere un punto di riferimento anche quando l'inte­ resse si sposta, come nel caso della retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni referenziali a quelli efficaci . In C., e in genere nella trattatistica retorica roma­ na, si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori­ ca non occupa più il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al contrario, è la filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui scopo è quello di contri­ buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è l'elo­ quenza l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del De oratore (Il, 159-160) mostra abbastanza chia­ ramente l'opinione di C. circa i rapporti tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene detto che i dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma non di produrne. In effetti, per C. la retorica costituisce il "corona­ mento" della filosofia, dalla quale non può essere dissociata (De orat., III, 59-61), e non deve essere considerata una tec­ nica capace di aggiungere un'espressione elegante a un pen­ siero già formato. Come mettono bene in luce Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in C. agisce un principio, sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se si parla bene, si pensa anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramente bene se non quando si parla ve­ ramente bene. Tuttavia la retorica, indiscutibilmente, presenta anche un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra che essa è organiz­ zata secondo due tipi di assi. Il primo concerne i tipi di di­ scorso: il discorso dei tribunali (giuridico); il discorso del­ l'assemblea (politico); il discorso delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo riguarda le parti della retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono essere messi in atto per strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri­ cerca degli argomenti); dispositio (ordinamento di quel che  9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 203 è stato trovato); elocutio (resa degli argomenti in forma or­ nata); memoria (procedimenti mnemotecnici); actio (recita­ zione del discorso: gesti e dizione). La problematica riguardante il segno si colloca nel cuore della inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove che convincano l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato. Le prove, in retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e si inseriscono nel pro­ gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo dei due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro­ gramma è il commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio o sulla sua forza proba­ toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia, come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare l'espressione "prova" per indicare le probationes (pf­steis) retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno­ tazione scientifica la cui assenza appunto definisce le "pro­ ve" retoriche. Tuttavia, un merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di dare una classifi­ cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni autore ha assolto in ma­ niera particolare, proponendo una classificazione che non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li­ nee secondo le quali i tre grandi autori della trattatistica re­ torica romana, cioè Cornificio (autore della Rhetorica ad Herennium), C. e Quintiliano, ricostruiscono nelle rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia­ scuno secondo diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium, attribuita un tempo a C. sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi asse­ gnata a Cornificio (Calboli: 1969).  204 9. RETORICA LATINA La problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della constitutio coniecturalis dove, per verifica­ re se sia stata commessa o no una determinata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la col­ pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret­ tamente a cui i segni devono rimandare non è il fatto o rea­ to, che è ovviamente noto, ma l'agente responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un certo fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed è ben illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi reso conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla spada. Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma insanguinata. Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del fratello con la spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la verità per congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione nell'esempio Oa colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può scaturire da una intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La retorica antica, come ha sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una fiducia incrollabile nel metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo e l'ametodico non portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti­ pico procedimento diairetico, suddivide lo stato congettura­ le in sei parti, sei diverse vie per arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità), conlatio (confronto), signum (pro­ cedimento indiziario), argumentum (segno), consecutio (conseguenza), adprobatio (conferma). Troviamo qui una terminologia in parte familiare, in quanto probabile può essere considerata la trasposizione la­ tina di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci solo a questi due casi. Ma i contenuti delle espressioni latine so9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM no completamente difformi dalle corrispondenti nozioni greche. Infatti il probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che era utile commettere il crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da comportamenti di tale turpitudine" (Il, 3), defi­ nizione nella quale non rimane molto deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è connessa alla caratteriz­ zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se [l'accu­ satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem­ pre stato avaro, se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto congenito con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla sua ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di "movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione (del crimine)" (II, 6). Non ritro­ viamo nemmeno qui la nozione greca di smeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia­ ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico­ struire il fatto scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di por­ tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la sua definizione non è ancora molto elo­ quente ("Argumentum è ciò attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e con un so­ spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe­ nomeno percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile direttamente; la sua struttura è quella in ferenziale, espressa da un periodo ipotetico: "Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per gonfiore o lividezza, significa che è stato uc­ ciso da una dose di veleno" (Il, 8); se si trova del sangue sulle vesti dell'imputato, se è stato visto sul luogo del delit­ to, significa che egli è colpevole (ibidem) ecc. Caratteristicamente l'argumentum viene suddiviso in tre tipi, in relazione al rapporto temporale (anteriorità, con­ temporaneità, posteriorità) che si instaura fra antecedente e conseguente del segno; classificazione, questa, che risale al­ la retorica prearistotelica (si trova a esempio nella Rhetori­ ca ad Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le reazioni fisiche non controllabili Un'altra nozione interessante è quella di consecutio, che Calboli mette in relazione ai sjmptoma della terminologia medica. Si tratta, come dice Cornificio, dei "segni (signa) che solitamente presentano i colpevoli e gli innocenti" (II, 8), come, a esempio, che l'imputato, quando si è giunti a interrogarlo, "sia arrossito, sia impallidito, ab­ bia titubato, sia caduto in contraddizione, si sia smarrito, abbia fatto qualche promessa, che sono segni di coscienza non tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle reazioni fisi­ che non controllabili, dei segni involontari che possono ve­ nire messi in relazione, in maniera abbastanza codificata, con degli stati d'animo (come il senso di colpa). Questi se­ gni, per quanto non siano facilmente dissimulabili, sono pe­ rò manipolabili a livello di interpretazione: infatti l'avvoca­ to difensore può intervenire sulla loro presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è turbato per la gravità del pe­ ricolo e non per la coscienza della colpa; d'altro canto, l'ac­ cusatore può intervenire sull'assenza di segni di tal genere sostenendo che l' imputato aveva a tal punto premeditato la cosa da presentare la massima sicurezza, ragione che rende l'assenza di turbamento "segno di sicurezza, non d'inno­ cenza" (ibidem).  probabile causa - vita conlatio alii nemini bonum - neminem alium potuisse slgnum occasio - spes per- ficiendi spes celandi l argumentum consecudo adprobatio - praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD HERENNIUM Come si può vedere, il procedimento indiziario che viene messo in atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari li­ velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni della premeditazione. che nella tassonomia di Cornificio sono distribuiti tra il probabile, la conlatio (che consisteva nel dimostrare che l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e possibilità di commettere il delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci sono i segni delfatto stesso, che sono rappresentati dagli ar­ gumenta: essi mettono in relazione diretta l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è quella sorta di segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal comportamen­ to dell'imputato osservato in un momento diverso e succes­ sivo rispetto a quello dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente la classificazione della materia congetturale effettuata da Cornificio con il se­ guente schema (Curcio 1900):  - locus - tempus - spatium - consequens   Se messa a paragone con quella della Retorica aristoteli­ ca, la classificazione di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non saldamente fondata. Tuttavia, con­ temporaneamente, appare molto più aderente alla materia instans conscientiae - signe  confidentiae - signa  innocentiae  208 9. RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non priva di una logica inter­ na nel suo seguire i segni deli'imputato in un percorso che parte dal momento precedente il crimine e culmina nel pro­ cesso . Cornificio discute anche della forza argomentativa dei se­ gni, quando propone di organizzare in una struttura logica gli argomenti trovati. E, a questo proposito, nota che ci so­ no dei segni che non garantiscono nessuna certezza come a esempio: uoeve aver partorito, poiché porta in braccio un bimbo piccolo", oppure: "Dal momento che è pallido, deve essere ammalato" (Il, 39). Come si può notare, si tratta di segni che corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi non sono sicuri perché, a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma anche una quantità di altre cose. Quello che è però interessante è che Cornificio non li rifiu­ ta, ma sottolinea un loro valore argomentativo nel caso che compaiano in gran numero ("se però vi si aggiungono an­ che tutti gli altri, tali segni hanno un certo peso per accre­ scere il sospetto). C. C. affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere che parlano dei se­ gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi­ to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a carattere so­ cio-politico, volta a definire la figura deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut­ to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio­ nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio­ ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com­ pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que­ ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa­ rossismo, come nel De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di C. e con­ densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro­ vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an­ tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i segni involontari (l'im­ pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come indi­ zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi­ noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da Cice­ rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap­ pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar­ gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco­ gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in . un mo­ do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili­ ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon­ strans) . I segni necessari sono così definiti. Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro­ vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., l, 86). Come C. spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re­ lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae­ rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini­ to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione C. mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio­ ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv.,  9.2 C. 21 1 I, 47), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar­ tizione dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi­ le), ali'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi­ le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite­ ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan­ za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no­ stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri­ vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo­ lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio­ nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio­ ni, come dimostra il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo­ sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della tarda matu­ rità di C., nella quale la classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa­ mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati argumentatio  necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi­ nione positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos­ sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat, quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio/ l "signum erodibile indicBtLm comparabile /  Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo­ ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda­ lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut­ tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para­ digma divinatorio all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati. Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin­ seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau­ sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice C., è "ciò che accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri­ sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili­ stico e generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co­ me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi­ dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman­ da alla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari­ stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat­ tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si­ gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali  214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor­ so contraddittorio, tremore, gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). C. non definisce QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte­ ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor­ nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi­ che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate­ goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i smefa da un punto di vista episte­ mologico per la loro insicurezza, C. è pronto a rico­ noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero­ niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina­ zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente­ mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o  trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza­ inclinazione alla libidine coniecturs - l - verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu­ rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di­ vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con­ gettura) e divinazione naturale. Infine, come C. pole­ micamente rileva (De div.), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo­ sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di­ verse ed entrambe plausibili. Ma C. apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di­ vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet­ tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi­ losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora­ neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per­ ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica.  216 9. RETORICA LATINA C. affronta questi argomenti nel De natura deo­ rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que­ st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di C. contro la teoria soste­ nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon­ te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu­ nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata­ ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro­ cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia­ listi, ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum (inter­ preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in­ terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau­ se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo­ do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con­ nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul­ la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan­ ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri­ patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no­ minati, De div., II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:     218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che C. muove ai sostenitori della divi­ nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale C. nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se­ gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della divinazione, C. istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro­ fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div.), le prati­ che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade­ re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip­ pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes­ sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). C. poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28).  Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div.); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio­ so, ma a ben diverse cause naturali (De div.);  l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne­ cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra­ gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del regime politico dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re­ torica divenisse inutilizzabile come mezzo di agitazione po­ litica e sociale: per questo, da strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita C., era divenuta so­ prattutto materia teorica. In questo quadro Quintiliano è colui che espone i principi dell'arte retorica nella maniera migliore e più completa di chiunque altro e contemporanea­ mente registra il processo di cadaverizzazione che l'elo­ quenza stava subendo. Nella sua Institutio oratoria tratta un programma completo del ciclo educativo del perfetto orato­ re, in cui la competenza semiotica ha una posizione di rilie­ vo. Gran parte degli elementi che compongono l'opera di Quintiliano hanno indiscutibilmente una pertinenza semio­ tica; ma nella lnstitutio è presente anche una sezione speci­ ficamente dedicata ai segni, come era ormai consuetudine per ogni trattato di retorica. Vaie anche nel caso di Quintiliano la considerazione fatta a proposito degli altri trattatisti di retorica, e cioè che la ri­ flessione sul segno è saldamente inquadrata all'interno del­ l'ottica giuridica con cui viene trattata la materia. I segni in­ fatti fanno parte delle probationes artificiales, cioè delle  RETORICA LA... INA prove che l'abilità (ars) dell'oratore saprà trovare per far assolvere o condannare un imputato. D'altro canto, le pro­ bationes inartificiales sono quegli elementi che derivano dali'esterno del processo e vengono consegnati ali'oratore insieme al suo dossier. Il seguente schema ne mostra l'inventario completo: 9.3. 1 Orientamento della retorica di Quintiliano probstiones (prove)  i n a rt i f i c/i a l tJ s praejudicia (pregiudizi) rumores (voce pubblica) tormenta, quaesita ( inter­ rogatorio sotto tortura) tabulae (scritture, atti, contratti ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia (testimonianze) a rtificisles  formale Va pure detto che la retorica di Quintiliano, accanto a un orientamento giuridico, ne presenta anche uno fortemente teorico, che tende a inquadrare la materia il più possibile in termini logici e formali (anche se è stato rilevato che Quinti­ liano non si trova del tutto a suo agio in questo campo) (Kennedy). Così tutti e tre i tipi di prove tecniche (signa, argumenta, exempla) vengono inquadrati in un reticolo di relazioni lo­ giche vicine al genere deli'implicazione, ovvero del rappor­ to "se p, allora q". Infatti il meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di fatto) argumentum (prova di ragionamento) exemplum (esempio) ed epistemologico QUINTlIANO 221 delle prove deve assumere una forma logica che coincide con uno dei seguenti quattro tipi: (i) il concludere dalPesse­ re una cosa che un'altra non sia (p-+ - q) ("È giorno, dun­ que non è notte"); (ii) il concludere dall'essere una cosa che un,altra sia (p-+q) (''Il sole splende sulla terra, dunque è giorno"); (iii) il concludere dal non essere qualcosa che qualcos'altro sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi è giorno"); (iv) il concludere dal non essere qualcosa che un'altra sia ( -p-+ - q) ("Non è un essere razionale, quindi non è un uomo") (lnst. Or.). Analizzati ali'interno di questa griglia, i segni tendono a configurarsi come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti; nozione, questa, che Quintiliano non ha bisogno nemmeno di rendere esplicita, in quanto attinta direttamen­ te dalla tradizione della retorica e della logica greca. Dallo stesso ambito, del resto, verranno attinti anche molti esem­ pi, tra cui l'ormai celebre "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo", che, più o meno variato, ritorna in tutti i trattatisti del segno. Come Aristotele, a cui fa costante riferimento, Quintilia­ no è orientato verso un'ottica epistemologica, piuttosto che di calcolo logico: ciò che lo interessa è soprattutto la possi­ bilità di acquisire una conoscenza a partire da un segno. Scrive Eco (1984: 38) a questo proposito: "Aristotele, inte­ ressato ad argomentazioni che in qualche modo rendessero ragione dei legami di necessità che reggono i fatti, poneva distinzioni di forza epistemologica tra segni necessari e se­ gni deboli. Gli stoici, interessati a puri meccanismi formali dell'inferenza, evitano il problema. Sarà Quintiliano, inte­ ressato alle reazioni di un'udienza forense, a cercare di giu­ stificare, secondo una gerarchia di validità epistemologica, ogni tipo di segno che in qualche misura risulti 'persua­ sivo' ". A proposito del carattere persuasivo dei signa, Quintilia­ no fa una precisazione preliminare: i signa hanno molto in comune con le prove extratecniche, in quanto, a esempio, una veste insanguinata, le grida o i livori non vengono esco­ gitati dali'arte deli'oratore, ma gli vengono consegnati nel dossier. Inoltre, se esi rimandano a un significato inequivocabile, scompare la possibilità di argomentazione; se, in­ vece, essi sono ambigui, non sono delle prove ma necessita­ no essi stessi di prove (lnst. or.). Per questa ragione i segni devono essere divisi innanzitut­ to in necessari e non necessari. I signa necessaria sono quelli che, come dice Quintiliano, "aliter se habere non possunt" (lnst. or.), cioè sono degli antecedenti che rimandano in maniera necessaria a dei conseguenti, e vengono messi in corrispondenza con i tekmria della tradizione greca. Si tratta di segni insolubili (alyta smefa), ovvero legati inscindibilmente ai conseguen­ ti. L'informazione che se ne ricava è sicura e incontroverti­ bile . La furia classificatoria, tipica del mondo antico, porta inoltre Quintiliano a sottoclassificare questo tipo di segni in base al fatto che i loro conseguenti siano individuabili nel tempo passato ("Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo"), nel presente (''Se soffia un forte vento sul ma­ re, si formano su di esso le onde"), nel futuro ("Se uno è stato ferito al cuore, morirà") (lnst. or., V, 9, 5). Questi segni vengono, poi, sottoposti anche a un altro ti­ po di classificazione basata sul criterio di reversibilità dei termini: ci sono relazioni segniche, come "Se vive, respira", che mantengono la relazione di necessità anche invertendo antecedente e conseguente: "Se respira, allora vive"; ma vi sono anche relazioni segniche in cui la reversibilità non è possibile, come in "Se cammina, si muove", "Se ha partori­ to, si è unita con un uomo", "Se è ferito al cuore, morirà", "Se si è raccolta la messe, si è seminato", "Se è stato ferito dalla spada, ha una cicatrice" (lnst. or., V, 9, 7). Quintilia­ no sembra sollevare qui il problema della "conversazione" (antistréphein), che per Aristotele (An. Pr., 70 b, 32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè dell'"esserci un unico segno di un'unica cosa".  QUINTllANO 9.3.3 I segni non necessari 223 I signa non necessaria, che Quintiliano mette in corri­ spondenza con gli eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei fatti su cui vi è comunemente accordo, quelli che, se­ condo Eco (1984: 40), potendo essere altrettanto convincen­ ti di un segno necessario, dipendono dai codici e dalle sce­ neggiature che una certa comunità registra come "buone". Quintiliano ne distingue tre tipi fondamentali, in base al­ l'intensità del legame che si stabilisce fra antecedente e con­ seguente: firmissimum (sicurissimo), corrispondente alla norma statistica, come "Se sono genitori, amano i propri fi­ gli"; propensius (molto probabile), come "Se uno sta bene in salute, allora giungerà fino al giorno successivo"; non re­ pugnans (non contraddittorio), cioè non contrastante con il senso comune, come "Se c'è stato un furto dentro la casa, allora è stato fatto da chi era in casa". Nessuna di queste inferenze presenta un grado di certezza accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos­ sono essere molto efficaci, soprattutto nel caso che si pre­ sentino in gran numero avvalorandosi a vicenda (lnst. or., V, 9, 8), poiché ricostruiscono una tessitura isomorfa a quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali Nel contesto dei signa non necessaria (lnst. or.) Quintiliano parla del signum senza altra determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e vestigium, sia con il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga considerato una categoria autonoma rispetto alle due prece­ denti (segni necessari e verisimiglianze), come del resto av­ veniva nella fonte aristotelica, o se Quintiliano consideri analoghi eik6ta e smeia. Nella seconda ipotesi si potrebbe parlare di un vero e proprio errore di Quintiliano, come fa Cousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri un sinonimo l'espressione vestigium e ricorra all'esempio del sangue che permette di scoprire l'uccisione, spinge a stabilire un parallelo con i vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39) cice­ roniane, dove compariva lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva, della abituale categoria degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, ferite ecc.) (lnst. or., V, 9, I l) percepibili sensorialmente. Quintiliano li definisce come quelli "attraverso cui si comprende un'altra cosa, (per quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9), sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di significazione, che parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella precedente categoria (quella dci signa non necessa­ ria == eik6ta) venivano classificati fatti o proprictfi che forni­ vano un'informazione non sicura, perché non convalidabile dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente sicuro che arriverà a domani); nella cate­ goria dei signa sono classificati fatti che sono insicuri per­ ché ambigui (una macchia di sangue su una veste può ri­ mandare tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare del sangue di una vitti1na durante un sacrifi­ cio). La classificazione, allora, dovrebbe essere così formu­ lata: necessaria relazione necessaria tra a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo· l ------- signa  non necssaria verisimiglianze non conva!idabili scienti­ ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà fino al g iorno successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se macchia di sangue, allora omi­ cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega anche come mai Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di verisimiglianza (e non si­ gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora e che  9.3 QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma non necessari, Er­ magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché vaga nei boschi con i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti­ liano ha una certa riluttanza a considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto deboli come elementi pro­ banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo come se­ gno, temo che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si traggono da un fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano allo stesso modo dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la condizione tipica della semiotica giuridi­ ca, in perenne dialettica tra la forza oggettivamente proba­ toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di fare un uso persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica semiotica generale, non c'è al­ cun problema a considerare come segni "tutte le conseguen­ ze che si traggono da un fatto". Le proprietà che l'enciclo­ pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono tutte, a buon diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno poi le relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella forza probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono i casi in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente intuito dalla retori­ ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer­ tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura­ li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco­ mandando, nel secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin­ guaggio Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di lin­ guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il trattato giovanile De dialectica: in esso sono riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi­ pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra­ verso segni (Simone). Ma vari elementi differenziano l'impostazione agostinia­ na da quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco­ gliendo e formalizzando una lunga tradizione di origine so­ prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri­ ta. Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene­ rale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De Magistro). STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'e­ nunciato il punto di congiunzione tra il significante (semaf­ non) e il significato (semain6menon), elemento che comun­ que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve­ ce, individua nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento in cui significante e signifi­ cato si fondono, e considera questa fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda­ to che le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si­ gna] e che non può essere segno ciò che non significhi [si­ gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro­ le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i si­ gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov; Markus). 10.1 n triangolo semiotico e la stratificazione ter­ minologie& È del resto con l'analisi della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con­ cetti di significato, significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio­ ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo luo228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la res, che viene definita come un og­ getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op­ pure che sfugge alla percezione (De dialect., cap. V). È così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se­ guenti termini: dicibile  vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della signifi­ cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi­ sione terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente di una parola: (i) può infatti avve­ nire che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire che la parola, intesa co­ me combinazione del significante e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva­ to Baratin ( 198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (si­ gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por­ tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui­ stici antichi. RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa­ to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al­ tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo­ sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen­ so completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e­ nunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet­ tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi­ bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet­ tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im­ plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag­ gio; per Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es­ senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe­ raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto - configura subito come una rela­ zione di significazione: il nomt "significa" una cosa (nozio230 10. AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune modificazio­ ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti­ no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte­ nuti era stato concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri­ guardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguag­ gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin­ guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta­ zione del reale (per quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin­ via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla conoscenza del secondo. Eco ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra­ ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello equazionale:  onIE=>c  m_E:! c dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic­ tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u­ nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'al­ tro (livello ii).   10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI Conseguenze dell'unificazione delle prospet­ tive La prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co­ me sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a tro­ varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in­ fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma­ na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili­ tà di percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun­ que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui­ stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec­ cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per­ dere il carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri­ stallizzato nella forma degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione della dia­ lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto­ ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce­ pito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di­ rettamente responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co­ se di cui esse sono segno. Tutta la grande tradizione serniotica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla conoscen­ za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag­ gio fornisca o meno, di per se stesso, informazioni sulle co­ se che significa. Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici nel De Magistro. L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio: in· segnare (docere) e richiamare alla memoria (commemo­rare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con­ temporaneamente informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in­ sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca­ si: il primo caso è quello in cui il locutore produce un se­ gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non permetterà di comprendere il ri­ ferimento ai "copricapr', che essa effettua; il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si rife­ risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno  COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE in questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono­ scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co­ noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co­ sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es­ sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual­ mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi­ li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive­ lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga­ ranzia tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi­ mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo, ci spingono a cercare (De Mag.). Espressione e comunicazione del verbo inte­ riore In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani­ mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter  234 10. AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan­ do ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensio­ ne dei destinatari. Il verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è determinato dalle im­ pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza. Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni del simbolismo univer­ sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo. Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia­ rezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia­ na, che è individuabile anche nello schema riassuntivo pro­ posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore pensato proferito sa pere    10.6 Le classificazioni È comunque innegabile, come sottolinea Simone, che se la semiologia agostiniana presenta un aspet­ to "teologico", connesso al problema del verbo divino, tut­ tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet­ to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana,  l . 2. 3. 4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni naturali/segni intenzio­ nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni conven­ zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra­ slato secondo la natura del designato: segno/cosa LE CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se­ gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel­ lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene­ ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica­ zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber­ nardelli 1987), secondo il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La classificazione di Agostino non è totalmente a inclu­ sione, come tende a essere quella porfiriana; e si può osser­ vare che se venissero sviluppati i rami collaterali, si vedreb­ bero comparire, una seconda volta, alcune categorie elenca­ te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge­ nere a specie quando definisce la relazione tra nome e paro­ la come "la stessa che c'è tra cavallo e animale" e includen­ do la categoria delle parole in quella più ampia dei segni (DeMag., 4.9).  genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME -- segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata) differenze  ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti     nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili ( virtus)   SIGNIFICANTE delle .. AES" LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa" La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co­ me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as­ sumere come segno una res che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il bestiame" (De doctr. Christ.). Ma, immediatamente dopo, cosciente del­ la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua testa (Gen.); né quella pecora che Abramo immolò al posto di suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De doctr. Christ., l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran­ sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere a qual­ cos'altro; le cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse (Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le cose che non sono usate come segni, ma sono signifi­ cate attraverso segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime possano essere assun­ te con funzione significante. Dopo aver così articolato i rapporti tra segni e cose, Ago­ stino propone questa definizione di segno nel De doctrina Christiana. Il segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem) qualcos'altro".  238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui­ re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se­ gni, di cui ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole; ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni. I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce­ zione Una classificazione incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al­ tri sensi" (De doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci sono quel­ li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi­ cali, come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito, in una posizio­ ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester­ nare" (Dedoctr. Christ.). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban­ diere e le insegne militari, le lettere. LE CLASSIFICAZIONI Infine vengono presi in considerazione i segni che riguar­ dano altri sensi, come l'odorato (l'odore dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca­ ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri­ sto e fu guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data" Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né desiderio di si­ gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ.). Ne sono esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano, inintenzionalmente, irrita­ zione o gioia . Dopo averli definiti, Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente interessato ai signa data, in quan­ to a questa categoria appartengono anche i segni della Sa­ cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e pensano" (De doctr. Christ.). Gli esempi sono soprattutto i segni linguistici umani (le pa­ role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa classe an­ che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali tra i segni natu­ rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva "naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono i "segni convenzionali", come Markus aveva suggerito (e come del resto era sta­ to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na  240 10. AGOSTINO ben precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ.). È del resto il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que­ sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46), porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in corrisponden­ za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi illimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si può stabi­ lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat­ tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce­ zione semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi­ tata" di Peirce. Come ha rilevato anche Markus, il significato di un segno, per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag., III e VII). Questa concezione del significato si rende possibile sol­ tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago­ stiniana si apre così, come ha messo in evidenza Eco, verso un modello "istruzionale" della descrizione semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto di otto segni, dei quali, appunto si cerca il significato.  SEMIOSI ILLIMITATA L'indagine comincia da l si l, di cui si riconosce che espri­ me un significato di "dubbio", dopo aver tuttavia sottoli­ neato che non si è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si passa, poi, a lni­ hi/1, il cui significato viene individuato come !'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa­ rebbe equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe­ rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica contestuale: il termine può esprimere separa­ zione rispetto a qualcosa che non esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso virgiliano; oppu­ re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so­ no alcuni negozianti provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco (una se­ rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di­ versi (ma tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni tanto al modello istruzio­ nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva, è proprio grazie ali'assunzione generalizza­ ta del modello implicazionale che la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni semiolingui­ stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in generale, è possibile, però, rilevare una connes­ sione storicamente documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti­ colare del segno. A esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C. la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona (1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che "la scrittura cu­ neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3 Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu­ rioso notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios (''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era­ clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi, come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca­ pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero (1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio.  Si potevano contare oltre cento oracoli per tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti tavolette.  244 NOTE CAPITOLO 2. 1 Infatti da un'analisi del vocabolario dell'azione oracolare compiuta da Crahay  risulta che alcuni vocaboli presentano il testo della rivelazione come un segno, molto spesso un segno anticipatorio, in quanto orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi si ricordino i due verbi smafno e prosmafnO (cioè "informare in anticipo con segni") e l'ag­ gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime l'idea di un'informazio­ ne prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si opera un confronto con civiltà come quella mesopotamica che mettevano la divinazione al centro della vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il modello formale anche a tutti gli altri ambiti culturali (a esempio, alla medicina e alla giurisprudenza). 3 Cfr . anche //., I I I, 277 . Per i passi citati sono utilizzate, nel corso del­ l'intero testo, traduzioni correnti, talvolta parzialmente modificate. 4 Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86): "The lord, who has the oracle in Delphi, l neither discloses nor hides his thought, l but indica­ tes it through signs". s Infatti la divinazione è indissolubilmente legata ad Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato alla sapienza. La sapienza del dio è totale e simul­ tanea e non ha bisogno di essere frammentata in parole. Tuttavia agli uo­ mini egli concede, invece, solo la frammentazione della parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quanto in essa la sapienza divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone ritiene essere l'essenza stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244 a-c) l'etimolo­ gia di mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro che la sapienza vista dal­ l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry (1950) per la presenza di possibili procedi­ menti anche di cleromanzia (divinazione attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi fenomeni naturali potevano perdere il carattere di ca­ sualità ed essere sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come av­ veniva nel caso dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni dati dallo stormire del vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per una disamina generale e approfondita dei vari ti­ pi di divinazione i testi basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8 "Lobo", "vescichette" e "porte" erano i termini tecnici designanti par­ ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione prendevano come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia anima/ium, l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della consultazione oracolare ci sono note attraverso un cer­ to numero di iscrizioni epigrafiche, provenienti principalmente da Delfi e da Dodona; cfr. Parke-Wormell e Fontenrose. Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava, come vedremo  NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine, l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine "modo", poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un unico meccanismo, ma di una galassia di procedimenti espressivi molto eterogenei, che vanno dalla banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo scambio di prospetti­ va (metalogismi) ecc. L'espressione "modo" enigmatico fa naturalmente riferimento alla categoria di modo simbolico elaborata da Eco. Pur­ troppo non è qui possibile usare direttamente quella categoria perché essa, pur avendo molti punti in comune con questa che qui proponiamo, se ne discosta per la presenza di alcuni caratteri specifici (rapporto stretto tra si­ gnificante e significato, nebulosa di sensi multipli tendenzialmente coesi­ stenti ecc.) che qui non si ritrovano. È un peccato, perché ci sarebbe sem­ brato appropriato definire "simbolico" il modo di parlare del dio. 1 1 Il meccanismo retorico dell'enallage ricorda il meccanismo oracolare usato dalla Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio (Aen., VI): la sa­ cerdotessa di Apollo scrive le varie parti del responso su delle foglie, se­ guendo l'ordine sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia quelle fo­ glie al vento, che scompiglia l'ordine precedente, creandone un altro, in cui i riferimenti incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e difficile l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due attributi antitetici della li­ ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia benigna ed esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche); l'arco, quella maligna e deva­ stante. Del resto l'etimologia stessa del suo nome suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente", ed è sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove le sue frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli). Per una nozione complessa e articolata della nozione di "verità" nel mondo antico, si veda Detienne. In particolare, sulla concezione di a/theia come "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune al poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne. D'ora in avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente, per una documentazione completa sulla medicina gre­ ca, dovrebbero essere prese in specifica considerazione almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste ultime, appartenendo a un'epoca molto più recente e attingendo a una tradizione filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato molto avanti lo studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso che stiamo svolgendo . Rimandia­ mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia attribuzione dei trattati di medicina. NOTE 3 Si possono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto il gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter­ ne, il libro II delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar­ caica del trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della medicina (Di Benedetto). In secondo luogo, un gruppo di trattati in cui appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me­ todologici della medicina. Vegetti ha proposto di definire convenzionalmente "pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimi ri­ sulta (indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a molti autori e probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460 e il 370 a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metà del V secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4 Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti; Vegetti. Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati­ ca non arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni ci atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal­ volta apportandovi delle modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita una distin­ zione fornaie tra anamnsis, relativa ai fenomeni collocati nel passato, diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente, e pr6ghnOsis, cioè previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di Benedetto-Lami (1983: 166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (tr. it.). Si deve poi segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai verbi di "dire", con il significato di "pubblicamente ", anziché con un si­ gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate avviene nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr. Di Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella testa, Le articola­ zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.). 10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ri­ calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si dice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi pro­ cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds (1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (tr. it.). Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di sfug­ gita, che il carattere molto arcaico della concezione espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della comunità umana: c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio assolutamente analogo a questo si trova nel cap. 21 del =  NOTE trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol­ /ens, la tesi secondo cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia do­ vuta a causa divina, in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essen­ do questa, per l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fosse di origine divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti. 1"' Si pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il son­ no di cui parla Platone nel Timeo e a1la diminuzione dei turbamenti nell'aria che rende possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di­ vinatione per somnum) . •s Per la nozione di "omomaterico",  Eco (1975: 295): per "omoma­ tericità" si intende il fenomeno per cui "l'oggetto, visto come pura espres­ sione, è fatto della stessa materia del suo possibile referente.  anche Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983). 17  Vegetti; Manuli. 18 Sull'abduzione si vedano Thagard; Proni (1981); Eco (1983); Bonfantini-Proni; Bonfantini; Peirce; Eco. Di Benedetto (1986) ha messo in luce, in maniera molto convincente, i rapporti tra i moduli espressivi di presentazione della malattia nella medi­ cina greca e quelli dei trattati mesopotamici ed egiziani;  anche Di Be­ nedetto-Lami . Campbell Thompson. 2 1 Per questa nozione,  Conte.  Hjelmslev.  Arist., An. Pr., Il, 70 a-b; Rhet.,  Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3 Arist., De int.,16a; An.Pr.,11,70a-b. "' Su questa nozione  Di Cesare. s  Eco.  Heinimann. 7  Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco. Emerge qui, per quanto nebulosamente, il tema della doppia articola­ zione del linguaggio umano, che verrà poi sviluppato in epoca contempo­ ranea da André Martinet (1960). 9 Anche se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica (1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti­ mema come sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici  248 NOTE (Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi­ smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel secondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente "neces­ sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..non necessario" (mè anankafon) (Rhet.). 1 1 Lo stesso punto di vista e la stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica. 12 Quanto al carattere di confutabilità di questo tipo di segno, Aristote­ le così commenta l'esempio dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi­ smo che si sviluppa attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu­ tabile (ljsimos), senza eccezione. In realtà, quando i termini si comporta­ no come si è detto sopra, non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida è pallida, e se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà necessario che questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a, 34-37). 1 Dei segni quello necessario è la prova, quello non necessario non ha un nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le proposizioni da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è tale è la prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la proposizione enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie­ ne dimostrata e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar (prova) e pé­ ras Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet.). Si deve tuttavia segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di­ stinzione tra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questi termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion;  Le Blond.  Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!.  Arist., An. Post. È del resto sulla base delle immagini prodotte nella mente dagli oggetti esterni, in particolare su certi tipi di immagini, chegli stoici chiamano ka­ talptikaì phantasfai, che viene basato il "criterio di verità", cioè "ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere ( = sono il caso) e certe altre sono false ( = non sono il caso)" (Sext. Emp., Adversus Mathematicos, VII, 29);  Mi­ gnucci; Sandbach; "The crite­ rion of truth" di Rist.  anche Sext. Emp., A dv. Math. 1 Si deve sottolineare che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo /éghein.  6  Diog. Lart., Vitae; Long  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12. 8  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9  Diog. Lart., Vitae, Vll, NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che, come sostiene Diogene Laerzio (Vitae), gli stoici distinguevano tra il "proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da significare (sma{nein) lo stato delle cose in mente;  anche Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 80. Long sostiene di preferire, per lekt6n, la traduzione "what is said" rispetto a quella propo­ sta da Mates e dai Kneale, "what is meant", in quanto la prima è più gene­ rale e permette al lekt6n di essere interpretato come avente funzione tanto logica quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che vi è una tradizione, risalente al Crati­ lo platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale a dire "questo è il suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sesto dovrebbe essere compreso nei termini di una proposizione implicita come "'Dione è il nome di costui" oppure "Questo è Dione";  Long. ..s I lekta venivano classificati dagli stoici in completi e incompleti; cia­ scuno dei due tipi dava luogo a una sottoclassificazione, anche molto com­ plessa, che non prenderemo qui in considerazione; si veda a questo propo­sito Mates. Mates: Mates infatti concepisce i lekta come signi­ ficato delle parole e avvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di intension di Carnap. 1  Zeller. 12  Bréhier. 13  Mignucci (1965: 96). 14 Una definizione del criterio di verità la fornisce Sesto (A dv. Math.): "Ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere e certe altre sono false". Sul problema del criterio di verità,  Rist; Sandbach; Mignucci anche Adv. Math., VIII, 245-257. 18  Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda, a proposito di questa questione terminologica, la esaustiva 1  Platone, Th.; Soph. In effetti il discorso interno, endiathetos /6gos, a differenza delle espressioni emesse materialment, prophorikòs 16gos, è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo dagli animali. Dice infatti Sesto (Adv. Math., VIII, 275-276): "(Gli stoici) dicono che l'uomo differisce da­ gli animali irrazionali a causa del discorso interno, non a causa di quello pronunciato, in quanto corvi, pappagalli e gazze pronunciano suoni arti­ colati";  anche Pohlenz trattazione di Conte, curatore dcll'edizione italiana dei Kneale. 20  Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la dimostrazione in quanto al genere è, a quel che pa250 NOTE re, un segno";  anche Adv. Math., VIII, 180. 22 Il testo del De signis, con traduzione inglese, è contenuto in Ph . e E.A. De Lacy (1978). 21  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp. Pyrrh., II, 97. 2'  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 146; Hyp. Pyrrh., Il, 98. 27  anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale tripartizione verrà esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il capitolo relativo. 29  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 154. 11  Sext. Emp., Adv. Math. Al di là del carattere pole­ mico, l'osservazione di Sesto è interessante perché, citando "medici" e "fi­ losofi", fissa i due punti estremi di un ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione di tale interesse da parte dei medici (come, poi, di­ mostrano anche i numerosi esempi di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio sistematico del segno da parte dei filosofi. 12  Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13  Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math.,  . 34  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1'  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 249-250; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 37  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251. 11  Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39  Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo in consi­ derazione solo i primi tre criteri, perché il quarto sembra avere un'origine diversa dalla scuola megarico-stoica. 4()  Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv. Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie interpretazioni del condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere in considerazione. Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a), dei Kneale e di Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in una successione cronologica e teo­ rica. "2  Phil., De signis, XIV, 11-14= 19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai paragrafi del testo greco, sono messi in correlazione con il segno " = " ai capitoli della traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 275-276; 287.   Goldschmidt (1953: 79 e sgg.); Verbeke (1978: 401-402); Manuli (1986: 262). ..s Sul rapporto tra filosofia e divinazione, Verbeke (1978: 402) osserva molto opportunamente che per gli stoici il filosofo "est le médecin de cet organisme vivant qu'est le monde; il est aussi une sorte de prophète, un de­ vin, un exégète, un interprète des signes qu'il observe". 46  Cic., De divinatione.  49  Sext. Emp., Adv. Math., Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 140; Adv. Math., Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180: "D'altronde anche la dimo­ strazione è, in linea generale, un segno, giacché essa è considerata come di­ svelatrice della conclusione". 1 Il testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è ora disponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi citeremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il prossimo capitolo. 2  Diog. Laert., Vitae, X, 31;  ancheEpic., EpistulaadHerodo­ tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi K.D.), XXIV. 3 Phil.,Designis,fr.l. "  Diog. Laert., Vitae, X, 33; Epic., Nat., fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960: 296-297). Long (1971 b: 1 14) sostiene che un simile rap­ porto tra linguaggio e pro/essi è presupposto anche nella Ep. Hdt., 37-38.   Diog. Laert., Vitae,  Epic., Ep. Pyth.,  Epic., Ep. Hdt.,  Diog. Laert., Vitae,  Sext. Emp., Adv. Math.,  Diog. Laert., Vitae,  Diog. Laert., Vitae,  Epic., Ep. Hdt.,  Epic., Ep. Hdt., 48. 1"  Sext. Emp., Adv. Math., Epic., K.D., XXIV. 16  Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è espressa dal verbo smeiolJ (Ep. Hdt., 38) e prende la forma dell'induzione nella teoria epicurea. Il sostantivo da esso derivato, smeilJsis, non direttamente attestato negli scritti di Epicuro, avrà ampio spazio nel trattato di Filodemo. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel prossimo capitolo, il criterio della "non incompa­ tibilità" con i fatti conosciuti è centrale nella teoria dell'inferenza come è esosta nel De signis di Filodemo. °  Diog. Laert., Vitae, X, 33. 21  Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut., Adversus Colo­ tem, 1119f. 22 Si deve segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema semantico in Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo trattato qui e recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco, sostenendo che non esiste nella filosofia linguistica epicurea un livello spe252 NOTE cifico del "significato" in termini intensionali. 23  Sedley; il testo di Sedley in parte si discosta da quello di Arrighetti. Come veniva evitato, nel Crati/o platonico, tanto da Cratilo quanto da Socrate.  capitolo relativo a Platone in questo libro. 26  Plat., Crat., 421 d, 435 c;  Sedley. La data di composizione del trattato, che è controversa, oscilla tra il 542e il 40 a.C.;  De Lacy. Il titolo greco, essendo il testo in parte corrotto, è frutto della conget­ura di Gompers; altre congetture sono state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nella sua versione latina De signis;  De Lacy. Nella prima sezione vengono riportate le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella seconda viene esposta la versione di Bromio del­ l'enumerazione e confutazione di Zenone degli argomenti contro l'inferen­ za empirica; nella terza viene riportata l'enumerazione di Demetrio di La­ conia degli errori comuni degli antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda lista degli errori degli oppositori, è anoni­ ma, ma, con molta probabilità, è anch'essa da attribuire a Demetrio. ..  Marquand; Deledalle.   Phil., Designis, coll.VIII,32-IX,3= cap.13). Il riferimentobi­ bliografico al trattato di Filodemo è dato in maniera duplice, indicando prima la colonna e il numero delle righe del testo greco del papiro, poi il numero del capitolo corrispondente nella traduzione inglese effettuata dai De Lacy. 6 Come è a più riprese ribadito anche nella terza sezione che riporta il pensiero di Demetrio;  col. , 13-25 = cap. 45, e col. , 12-24=cap. 57. 7 col.,1-15=cap.18. 8  col. I, 1-12 9  col. I, 12-16=cap. 2. 1°  col.. 11 In Peirce, del resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessante considerazione (sulla possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o non esista), la quale sembra riproporre, in epoca contem­ poranea, una tematica simile a quella stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri e comuni: "Un'Icona è un segno che si riferisce all'Og­ getto che essa denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ef­ fettivamente, sia che non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto, l'Icona non agisce come segno". = cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19.  NOTE 12  Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro.  col. col. III, 4-8= cap. 5. 1 col.  = cap. 6. 16  coli., 35 -, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle obiezioni stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. , 4 · XVII, 28 = capp. 23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. , 28 - XXIII, 7=cap. 38. 18  col. , 3-7=cap. 24. 19 Una discussione attribuita ai "dogmatici" sul problema della defini­ zione come combinazione di attributi, a esempio "animale", "mortale", "ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico, Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. , 1 1-28 = cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A coli. , 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll. , 13 - , 8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col., 6-9=cap. 41. 29 La tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda antichità le de­ finizioni vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di Galeno: "animali razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac. Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto Empirico: "animale razionale mortale, provvisto di intelli­ genza e razionalità" (Adv. Math.). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr. 1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18 Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. , , 13=Cfr.coli.,32-I,3= cap.35. coli., 35 - , 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.). Groupe . col . col. col . col. col. , 5-7 = cap. 52., 11-15=cap. 52. XXI, 27-29 = c, 27-31 =, 23-29=. A questo proposito C. parla di "regolarità della ragione" (ratio et constantia) contrapposta alla "sorte" (fortuna) (De div., I l, 1 8) In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione significatio; a esempio in De Magistro. 2 Si deve notare che Agostino adopera l'espressione verbum in due sen­ si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello dell'uso metalinguistico della pa­ rola; (ii) uno generale, che corrisponde alla nozione ampia di "parola", co­ me "segno di ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De dialectica: Quel che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo per mezzo della parola [di­ cibile]". La dictio, inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo­ sizionali, come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij Les Storcien.s et leur logique, Actes du Colloque de Chan­ tilly, Vrin, Paris Al, D.J. The Philosophy ofAristotle, Oxford, Ox­ ford (tr. it. La filosofia di Aristotele, Lampugnani Nigri, Milano, AMANDRY, La mantique apollinienne à Delphes. E5sai sur lefonction­ nement de roracle, Thèse (Bibliotèque des Écoles Françai­ ses de Athènes et de Rome), Paris Oracles, littérature et politique", in Revue des études an­ ciennes, 61, 1-2, pp. 400-413 AllENs, Aristotle's Theory of Language and Its Tradition. Benjamins, Amsterdam-Philadel­ phia AlusTOTELE Opere. I. Organon (trad. di G. Colli), Einaudi, Torino ARluGHEITI, Epicuro. Opere, Einaudi, Torino AVl BELLOSO, I. 1984 "Le discours divinatoire", in Actes sémiotiques – Bulletin. BARATIN Origines stolciennes de la théorie augustinienne du signe", in Revue des études latines, BARATIN, M.-DESBORDES, L'analyse linguistique dans l'antiquité classique, 2 voli., Klincksieck, Paris BARNES, J.-BRUNSCHWIG, J. et alii 1982 Science and Speculation. Studies in Hellenistic theory and practice, Cambridge University Press, Cambridge BARTHES, L 'ancienne rhétorique", Communications, 1 6 ( tr . it . La retorica antica, Bompiani, Milano, BARTHES, R.-MARTY, Orale/scritto", in Enciclopedia, Einaudi, Torino, BARTHES, R. -MAURIÉS, p. 1981 "Scrittura", in Enciclopedia, Einaudi, Torino, BELARDI, w. 1975 l/linguaggio nella filosofia di Aristotele, K.Libreria Editri­ ce, Roma BENVENISTE, Le vocabulaire latin des signes et des présages", in Le vo... cabulaire des institutions indo-européennes Il. Pouvoir, droit, religion, Les Éditions de Minuit, Paris (tr. it . Il voca­ bolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino, BERNARDELLI, Teorie del segno in S. Agostino, Università di Bologna, ma­noscritto BERREITONI, Il lessico tecnico del I e III libro delle Epidemie ippocrati­ che", in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa,  BLOCH, Les prodiges dans l'antiquité classique, Paris(tr.it.Prodigi e divinazione nel mondo antico, Newton Compton, Roma, 1 976) BOCHENSKI, Ancient Forma/ Logic, North-Holland, Amsterdam 1956 Formale Logik, K. Alber, Freiburg (tr. it. La logicaforma­ le, voli. 2, Einaudi, Torino, 1972) BoiSACQ, Dictionnaire étymologique de la langue grecque, C. Winter, Heidelberg BoNFANTINI, Pragmatique et abduction", in Versus, BoNFANTINI, M.A.-PRONI, L'abduzione, numero monografico di Versus, 34 BoNoMI, La struttura logica de/ linguaggio, Bompiani, Milano BoiTERO, Symptomes, signes, écritures", in J.-P. Vernant (ed.), Di­ vination et rationalité, Seuil, Paris (tr. it. Divinazione e ra­ zionalità, Einaudi, Torino, BoucHÉ-LECLERQ, Histoire de la divination dans /'antiquité, 4 voli., Paris BoURGEY, L. 1953 Observation et expérience chez /es médecins de la collection hippocratique, Vrin, Paris 1955 Observation et expérience chez Aristote, Paris BRATESCU, Éléments archa"iques dans la médecine hippocratique", in La Collection hippocratique et son role dans l'hf.stoire de la médecine, "Colloques de Strasbourg, Brill, Leiden, La théorie des incorporels dans /'ancien stolcisme, Vrin, Paris BRISN, Du bon usage du dérèglement", in J.P. Vernant, Di­ vination et rationalité, Seuil, Paris (tr. it. Divinazione e ra­ zionalità, Einaudi, Torino, Bmtv, R.G. (ed.) 1961 Sextus Empiricus, Against the Logicians, The Loeb Classi­ CALABRESE, Lineamenti per una storia delle idee semiotiche", in O. Ca­ labrese-E. Mucci, Guida alla semiotica, Sansoni, Milano CALABRESE, 0.-MUCCI, E. 15 Guida alla semiotica, Sansoni, Milano CALBOLI, Cornifici, Rhetorica ad C. Herennium, Patron, Bologna CAMBIANO, Storiografia e dossograjia nella filosofia antica, Tirrenia Stampatori, Torino CAMPBELL THOMPSON, R. 1937 "Assirian Prescriptions for the Head", in The American Journal of Semitic Languages and Literatures,CAllDONA, Antropologia della scrittura, Loescher, Torino CARLIER, Divinazione", in Enciclopedia, Einaudi, Torino, CARNAP, Meaning and Necessity, The University of Chicago Press, BllÉHIER, E. cal Library, London Chicago (tr. it. Significato e necessità, Laterza, Bari, La logica stoica in alcune recenti interpretazioni", in CELLUPRICA, v. chos, CoLLI, La nascita della filosofia, Adelphi, Milano La sapienza greca, vol. l o, Adelphi, Milano CONTE, Premessa del curatore" alla traduzione italiana di W .C. e M. Kneale, The Development of Logic, Clarendon Press, Oxford, 1962 (tr. it. Storia della logica, Einaudi, Torino) Fenomeni di fenomeni", in G. Galli (ed.), Interpretazione ed Epistemologia, Atti del VII Colloquio sulla Interpreta­ zione, Macerata, Marietti, Torino, CoNTE, La pragmatica linguistica", in C. Segre (ed.), Intorno alla linguistica, Feltrinelli, Milano, CORTASAS, Pensiero e linguaggio nella teoria stoica del lekton", in Ri­ vista di Filologia, l06, pp. 385-394 CousiN, Études sur Quintilien I et II, Boivin and C., Paris CRAHAY, La littérature oraculaire chez Hérodote, Liège et Paris 1974 "La bouche de la vérité", in J.-P. Vernant, Divination et rationalité, Seuil, Paris (tr. it. Divinazione e razionalità, Einaudi, Torino, 1982, pp. 217-237) ClIS, C. 1 987 Aspetti semiologici latini tra C. e Quintiliano. A Ila ricerca del paradigma indiziario, tesi di laurea, Bologna CROOKSHANX, F.G. 1923 "L'importanza di una teoria dei segni e di una critica del linguaggio nello studio della medicina", in C.K. Odgen­ I.A. Richards, The Meaning of Meaning, Routledge and Kegan Paul, London (tr. it. Il significato del significato, Il Saggiatore, Milano, CuRc1o, Le opere retoriche di C., Acireale (rist. "L'Erma" di Bretschneider, DE LACY, Meaning and Methodology in the Hellenistic Philosophy", in The Phi/osophical Review, DE LACY, The Epicurean Analysis of Language", in American Jour­ nal ofPhilology, Piato", in T.A. Sebeok, Encyclopedic Dictionary oj Semiotics, Mouton/de Gruyter, Berlin-New York-Amster­ dam, DE LACY, PH. ed E.A. 1938 "Ancient Rhetoric and Empirica! Method", in Sophia, Philodemus: on Methods of Inference, Bib1iopolis, Napoli DEL CORNO, Mantica, magia, astrologia", in M. Vegetti (ed.), Ilsapere degli antichi, Boringhieri, Torino, DELCOURT, L'oracledeDelphes,Payot,Paris DELEDALLE, G. DELEUZE, G. 1969 Logique du sens, Les Éditions de Minuit, Paris (tr. it. Logi­ ca del senso, Feltrinelli, Milano, 1975) DE MAURO, Introduzione alla semantica, Laterza, Bari 1971 Senso e significato, Laterza, Bari Que1le philosophie pour la sémiotique peircienne? Peirce et la sémiotique grecque", in Semiotica, Plato 's Sophist. A Philosophical Commentary, North-Hol­ DE RuK, L.M. land, Amsterdam-Oxford-New York DETIENNE, M. 1963 De lapensée religieuse à lapenséephilosophique. La notion de Dafmon dans le pytagorisme ancien, Les Belles Lettres, Paris 1967 Les maitres de la vérité dans la Grèce archafque, Maspero, Paris (tr. it. I maestri di verità nella Grecia arcaica, Later­ za, Roma-Bari, DETIENNE, M.-VERNANT, Les ruses de l'intelligence - La métis des Grecs, Flamma­ rion, Paris (tr. it. Le astuzie dell'intelligenza nell'antica Grecia, Laterza, Bari, DI BENEDETTO, Tendenza e probabilità nell'antica medicina greca", in Cri­ tica storica, Il medico e la malattia, Einaudi, Torino DI BENEDETTO, V.-LAMI, Ippocrate. Testi di medicina greca, Rizzo1i, Milano DI CESARE, La semantica nella filosofia greca (pref. di T. De Mauro), Bulzoni, Roma Il problema logico-funzionale del linguaggio in Aristote­le", in J. Trabant (ed.), Logos Semantikos I, de Gruyter, Berlin-Gredos, Madrid, pp. 21-30 DIELS, H.-KRANz, DieFragmentederVorsokratiker,Weidmann,Berlin(tr.it. I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari, DILLER,Opsis adlon ta phainomena", in Hermes, DINNEEN, An Introduction to Genera/Linguistics, Holt, Rinehart and Wiston, New York (tr. it . Introduzione alla linguistica ge­ nerale, Il Mulino, Bologna, 1970) Dooos, The Greeks and the lrrational, University of California Press, Berkeley-Los Angeles (tr. it. l Greci e /,irrazionale, La Nuova Italia, Firenze, 1978) DUBARLE, Logique et épistémologie du signe chez Aristote et chez les Sto"iciens", in E. Jo6s, La Scolastique, certitude et re­ cherche: en hommage à Louis-Marie Regis, Bellarmin, Montréal, DUCHROW, Signum und superbia beim jungen Augustin", in Revue des études augustiniennes, Eco, Segno, ISED1, Milano Trattato di semiotica generale, Bompianit Milano "Corna, zoccoli, scarpe. Alcune ipotesi su tre tipi di abdu­ zione", in U. Eco-T.A. Sebeok (eds.), Il segno dei tre, Bompiani, Milano, pp. 235-261 Semiotica efilosofia del linguaggio, Einaudi, Torino "Aristotle: Poetics and Rhetoric", in T.A. Sebeok (ed.), Encyclopedic Dictionary ofSemiotics, Mouton/de Gruyter, Berlin-New York-Amsterdam, Latratus canis'\ in Micro Mega, Eco, U.-LAMBERTINI, R.-MARMO, C. -TABARRONI, On Animai Language in the Medieval C1assification of Signs "t in Versus, EDELSTEIN, Piato's Seventh Letter, Brill, Leiden ENGELS, La doctrine du signe chez Saint Augustin"t in Studia Pa­ tristica, V I, pp . 366-373 EvANs-PRITCHARP E.E. 1937 Witchcraft,Orac:'sandMagieamongtheAzandetOxford  (tr. it. Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Angeli, Milano, FAOOT, Medicina e probabilità", in Kos, l, l, pp. 24-31 F'EIUU, S. 1916 "Saggio di classificazione degli oracoli", in Athaeneum, FESTA,  lframmenti degli stoici antichi, Laterza, Bari FLACELIÈRE, Le délire de la Pythie est-il une legende?", in Revue des Études Anciennes, FONTENROSE, The Delphic Oracle. lts Responses and Operations, with a Catalogue of Responses, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London FREGE, G. 1892 "Ober Sinn und Bedeutung", in Zeitschriftfur Philosophie undphilosophische Kritik (tr. it."Senso e denotazione", in A. Bonomi, ed., La struttura logica de/ linguaggio, Horn­ piani, Milano, FiuEDRICH, Entzifferung verschollener Schriften und Sprachen, Sprin­ ger-Verlag, Berlin (tr . it . Decifrazione delle scritture e delle lingue scomparse, Sansoni, Firenze, FROHN, Hippocrates", in T.A. Sebeok (ed.), Encyclopedic Dictio­ nary ofSemiotics, Mouton/de Gruyter, Berlin-New York­ Amsterdam, GENEITE, Mimologiques. Voyage en Cratylie, Seuil, Paris GERNET, Anthropologie de la Grèce antique, Maspero, Paris (tr. it.  Antropologia della Grecia antica, Mondadori, Milano, GLIDDEN Epicurean Semantics", in Syzttesis. Studi sulrepicurei­ smo greco e romano, offerti a Marcello Gigante, Gaetano Macchiaroli, Napoli, GOLDSCHMIDT, Le système stofcien et l'idée de temps, Vrin, Paris GOLTZ, Studien zur altorientalischen und griechischen Heilkunde, Wiesbaden GRAESER, The Stoic Theory of Meaning", in J.M. Rist (ed.), The Stoics, University of California Press, Berkeley (Cal.), GRIMALDI, Semeion, Tekmerion, Eikos in Aristotle's Rhetoric", in American Journal ofPhilology, GRMEK, Les maladies à l'aube de la civilisation occidentale, Payot, Paris (tr. it. Le malattie all'alba della civiltà occidentale, Il Mulino, Bologna, GRMEK, M.D.-ROBERT, Dialogue d'un médecin et d'un philologue sur quelques passages des Épidémies VII", in R. Joly (ed.), Corpus Hip­ pocraticum, "Actes du Colloque Hippocratique de Mons, Mons, GROUPE Rhétorique générale, Larousse, Paris (tr. it. Retorica gene­ rale. Le figure della comunicazione, Bompiani, Milano, HALLER, Untersuchungen zum Bedeutungsproblem in der antiken und mittelalterischen Philosophie", in Archiv fur Begriff­ sgeschichte, HALLIDAY, Greek Divination. A Study of /ts Methods and Principles, Argonaut. lne., Chicago HANKE, Weltrings 'sEMEION' in der aristotelischen, stoischen, epikureischen und skeptischen Philosophie", in Kodikas/ Code, HEINIMANN, F. 1945 NomosundPhysis. HerkunftundBedeutungeinerAntithe­ se im griechischen Denken des 5. Jahrhunderts, Friedrich Reinhardt, Base) HERZFELD, Divining the Past", in Semiotica, Divination", in T.A. Sebeok (ed.), Encyclopedic Dictio- nary of Semiotics, Mouton/de Gruyter, Berlin-New York­ Amsterdam, HURST, lmplication, Mind, IRIGOIN, J. 1983 "Préalables linguistiqu:!s à l'interprétation des termes te­ chniques attestés dans la collection hippocratique", in F. Lasserre-Ph. Mudry (eds.), Formes de pensée dans la Co/­ lection Hippocratique, "Actes du l V Colloque international hippocratique (Lausanne 21-26 sept. 1981)", Droz, Genève, pp. 173-180 IRWIN, Aristotle's eoneept of signification", in M. Schofield-M. Nussbaum (eds.), Language and Logos. Studies in ancient Greek philosophy presented to Owen, Cambridge University Press, Cambridge, JACKSON, The Theory of Signs in St. Augustine's De doctrina Chri· stiana", in Revue des études augustiniennes, JAEOER, Paideia. DieFormungdesgriechischenMenschen,de Gruy­ ter, Berlin-Leipzig (tr. it. Paideia. La formazione dell'uo­ mo greco, La Nuova Italia, Firenze, JOLY, Un peu d'épistémologie historique pour hippocratisants", in M.D. Grmek, Hippocratica, "Actes du Colloque hippocratique de Paris (4-9 sept. 1978)", Éditions CNRS, Paris, KENNEDY, Quintilian, Twayne, New York KERÉNYI, Problemi intorno alla Pythia", in Apollon, Dilsseldorf (tr. it. in Atti del Convegno su "L'infallibilità: i suoi aspetti fi­ losofici e teologici", Roma, KNEALE, The Development of Logic, Clarendon Press, Oxford (tr. it. con una "Premessa" di A.G. Conte, Storia della logica, Einaudi, Torino, 1972) KltETZMANN, History of Semantics", in Encyclopedia ofPhilosophy (P. Edwards ed.), The Macmillan Company and The Free Press, New York, Piato on the correctness of names", in American Philoso­ phica/ Quarterly LABAT, R. 1948 Manue/ d'épigraphie akkadienne. Signes, Syllabaire, Idéo­ grammes, Pane Geuthner, Paris, Traité akkadien de diagnostics et de pronostics médicaux, Paris-Leiden LANATA, Medicina magica e religione popolare in Grecia fino all 'età di lppocrate, Edizioni dell'Ateneo, Roma  LANZA, Scientificità della lingua e lingua della scienza in Grecia", in Belfagor, Lingua e discorso neii,Atene delleprofessioni, Liguori, Na­ poli 1983 "Quelques remarques sur le travail linguistique du méde­ cin", in F. Lasserre-Ph. Mudry (eds.), Formes de pensée dans /a Collection Hippocratique, "Actes du IV Colloque international hippocratique (Lausanne, Droz, Genève LEAR., Aristot/e and Logica/ Theory, Cambridge University Press, Cambridge LE BLOND, Logique et méthode chez Aristote. Étude sur la recherche des principes dans la physique aristotélicienne, Vrin, Paris LESZL, W. 1985 "Linguaggioediscorso",inM.Vegetti(ed.),//saperedegli antichi, Boringhieri, Torino, LICHTENTHAELER, "En 1981 comme en 1948: relations de causalité expérimen­ tales et analogies hippocratiques", in F. Lasserre-Ph. Mu­ dry (eds.), Formes de pensée dans la Col/ection Hippocrati­ que, "Actes du IV Colloque international hippocratique (Lausanne, Droz, Genève, LIEB, H. 1981 "Das 'semiotische Dreieck' bei Ogden und Richards: eine Neuformulierung des Zeichenmodells von Aristoteles", in Jtirgen Trabant (ed .), Logos Semantikos l, de Gruyter, Ber­ lin-Gredos, Madrid, LITÉ, Oeuvres complètes d'Hippocrate, Adolf M. Hakkert, Am­ sterdam LIVERANI, M. 1963 Introduzione alla storia deJrAsia anteriore antica, Centro di Studi Semitici, Roma  LWYD, Grammar and Metaphysics in the Stoa", in A.A. Long (ed .), Problems in Stoicism, The Athlone Press of Univer­ sity of London, London, LLOYD, Early Greek Science. Thales to Aristotle, Chatto and Win­ dus, London (tr. it. La scienza dei Greci, Laterza, Bari) Magie, Reason, Experience. Studies in the Origin and Deve­ lopment of Greek Science, Cambridge University Press, Cambridge (tr. it. Magia, ragione, esperienza. Nascita e forme della scienza greca, Boringhieri, Torino, 1982) LoNO, Language and Thought in Stoicism", in Long, Problems in Stoièism, The Athlone Press of University of London, London, Aisthesis, Prolepsis and Linguistic Theory in Epicurus", in Bulletin of the lnstitute of Classica/ Studies of the Univer­ sityofLondon, LoNo, Problems in Stoicism, The Athlone Press of University of London, London LoNIE, The Hippocratic Treatises "On Generation •, "On the Natu­ re of the Chi/d", .,Diseases IVU, Walter de Gruyter, Berlin­ New York LoRENZ, K.-MI1TELSTRASS, On Rational Phi1osophy of Language: the Programme in Plato's Cratylus Reconsidered", in Mind, LoTMAN, Ju.M.-UsPENSKu, Tipologia della cultura, Bompiani, Milano Lucci, Filodemo di Gadara e la 'Logica' epicurea", in Elenchos, L'orizzonte linguistico del sapere in Aristotele e la sua tra­ LUOARINI, L. sformazione stoica", in //pensiero, l.UKASmWICZ, Aristotle,s Syllogisticfrom the Standpoint ofModern For­ ma/ Logic, Oxford University Press, Oxford MALONEY, G.-FROHN, Concordantia in Corpus Hippocraticum!Concordances des oeuvres hippocratiques, voli. 1-V, Olms-Weidmann, Hil­ desheim-ZOrich-New York MANE1TI, Cicero ", in Sebeok, Encyclopedic Dictionary of Semiotics, Mouton/de Gruyter, Berlin-New York-Amster­ dam, Quintilian", in T.A. Sebeok (ed.), Encyclopedic Dictio­ nary of Semiotics, Mouton/de Gruyter, Berlin-New York­ Amsterdam, MANuu, MARKUS St. Augustin on Signus", in Phronesis, MARQUAND, A. 1883 "The Logic of the Epicureans", in Studies on Logic by Members of the Johns Hopkins University, Boston, pp. l-Il Medicina e antropologia nella tradizione antica, Loescher, Tori no "Medico e malattia", in M. Vegetti (ed.), Il sapere degli an­ tichi, Boringhieri, Torino, Traducibilità e molteplicità dei linguaggi nel Deplacitis di Galeno", in G. Cambiano (ed.), Storiografia e dossografia nellafilosofia antica, Tirrenia Stampatori, Torino MARTINELLI, Sulla semiotica epicurea. Il uve signis di Filodemo e la po­ lemica contro la scuola stoica, Università di Bologna, ma­ noscrit to  MARTINET, É/éments de linguistique générale, Armand Colin, Paris (tr. it. Elementi di linguistica generale, Laterza, Bari, MATES, Diodorean lmplication", The Philosophical Review, Stoic Logic and the Text of Sextus Empiricus", in Ameri­ can Journal of Philo/ogy, Stoic Logic, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London M E LAZ OZ, La teoria del segno linguistico negli Stoici", in Lingua e Stile, MIGNUCCI, Il significato della logica stoica, Patron, Bologna 1966 "L'argomento dominatore e la teoria dell'implicazione in Diodoro Crono", in Vichiana, MoRPuRoo-TAGLIABUE, Linguistica e stilistica di Aristotele, Edizioni deli'Ateneo, Roma MoRRow, Studies in the P/atonie Epistles, Bulletin 43, University of Illinois Urbana, Illinois MtilER, An Introduction to Stoic Logic", in Rist, The Stoics, University of California Press, Berkeley-Los Ange­ les-London 0EHLER, Aristotle", in T.A. Sebeok, Encyc/opedic Dictionary of Semiotics, Mouton/de Gruyter, Berlin-New YAm­sterdam, PAGLIARO, Nuovi saggi di critica semantica, D'Anna, Firenze-Messina  "Il problema del segno nella filosofia antica", in Filosofia del linguaggio, Edizioni deli'Ateneo, Roma La parola e l'immagine, Edizioni Scientifiche Italiane, Na­ poli PARKE, H.W. 1967 The Oracles of Zeus: Dodona, Olympia, Ammon, Black­ well, Oxford PARKE, H.W.-WORMELL, The Delphic Oracle,  Oxford PARKER, R. 1983 Miasma: Pollution and Puriflcation in Early Greek Reli­ gion, Clarendon, Oxford PEIRCE, Collected Papers, Harvard University Press, Cambridge -58 (Mass.) Semiotica. l fondamenti della semiotica cognitiva (M.A. Bonfantini - L. Grassi - R. Grazia, eds.), Einaudi, Torino Le leggi dell'ipotesi (M.A. Bonfantini - R. Grazia - G. Pro­ ni, eds.), Bompiani, Milano PELLEGRINI, Le système divinatoire astrologique: la temporalité en que­ stion", in Actes sémiotiques-Bulletin, PÉPIN, SYMBOLA, SEMEIA, OMOIOMATA. A propos de De Interpreta­ tione et Politique, in Aristo­ teles - Werk und Wirkung. Band l. Aristoteles und seine Schule, W. de Gruyter, Berlin, PINGBORG, J. 1975 "Classica) Antiquity: Greece", in T.A. Sebeok (ed.), Cur­ rent Trends in Linguistics, Mouton, L'Aia-Pari­ gi,  PLEBE, Introduzione alla logica formale, attraverso una lettura lo­ gistica di Aristotele, Laterza, Bari Pom.ENZ, Die Stoa, Vaudenhoeck und Ruprecht, Gttingen (tr. it. La Stoa, Nuova Italia, Firenze)  272 RIFERIMENTI BffiLIOGRAFICI PRANTL, Geschichte der Logik im Abendlande, S. Hirzel, Leipzig PRETI, Sulla dottrina del smeion nella logica stoica", in Rivista critica di storia della filosofia, PRIETO, L.J. Pertinence et pratique. Essai de sémiologie, Éditions de Mi­ nuit, Paris (tr. it. Pertinenza e pratica, Feltrinelli, Milano, PRON1, Genesi e senso dell'abduzione in Peirce", in Versus, RAMAT, Gr. hieros, scr. isirah e la loro famiglia lessicale", in Die Sprache, 8 REGENBOGEN "Eine Forschungsmethode antiker Wissenschaft", in Quel­ len und Studien zur Geschichte der Mathematik, l, 2, Ber­ fin, pp. 132-182, ora in Regenbogen, 0., Kleine Schriften, C.H. Beck'sche Verlagsbuchhandlung, Mtinchen, REY, Théories du signe et du sens, 2 voli., Klincksieck, Paris 1984 "What does semiotic come from?", in Semiotica RIST, J.M. 1969 Stoic Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1972 Epicurus. An Introduction, Cambridge University Press, Cambridge RlsT, J.M. The Stoics, University of California Press, Berkeley-Los Angeles-London ROBERT, F. 1983 "La pensée hippocratique dans les Épidémies", in F. Las­ serre-Ph. Mudry (eds.), Formes depensée dans la Collection Hippocratique, "Actes du IV Colloque international hippocratique (Lausanne, Droz, Genè­ ve, ROHDE, Psyche. Seelencult und Unsterblichkeitsglaube der Grie­chen, Freiburg (tr. it. Psiche. Fede nell'immortalitàpresso i Greci, Laterza, Bari) RoMEo, "Heraclitus and the Foundations of Semiotics", Versus, Ross, Aristotle, Methuen, London (tr. it. Aristotele, Feltrinelli, Milano) Roux Delphes. Son oracle et ses dieu.x, Belles Lettres, Paris Russo, A. Sesto Empirico, Contro i logici, Laterza, Bari SANDBACH Phantasia Kataleptike", in Long Problems in Stoicism, The Athlone, London, "Ennoia and Prolpsis in the Stoic Theory of Knowledge", in Long, Problems in Stoicism, The Athlone Press of the University of London, London, SANTA.MBR.OGIO, Minima Methodica", in Kos, SAUSSURE, Cours de linguistique générale, Payot, Paris (Mauro, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari) ScHIMIDT Stoicorum Grammatica, Adolf M . Hakkert, Amsterdam SEBEOK Contributions to the Doctrine of Signs, Indiana University, Bloomington (tr. it. Contributi alla dottrina dei segni, Fel­ trinelli, Milano, The Sign and lts Masters, University ofTexasPress,Austin SEBEOK Encyclopedic Dictionary of Semiotics, Mouton/de Gruyter, Berlin-New York-Amsterdam SEDLEY "Epicurus, On Nature, Book XXVIII", in Cronache Erco­ lanesi, On Signs" in J. Barnes-J. Brunschwig et alii (eds.), Science and Speculation. Studies in Hellenistic theory and practice, Cambrige University Press, Cambridge, SIMONE"Semiologia agostiniana", in La cultura, SISSA, G. 1981 "La Pizia delfica: immagini di una mantica amorosa e bal­ samica", in Aut Aut, Il segno oracolare, una parola divina e femminile", in F. Baratta-F. Mariani (eds.), Mondo classico. Percorsi possi­ bili, Longa, Ravenna, TAYLOR, A.E. 1912 "The Analysis of EPISTEME in Plato's Seventh Epistle", in Mind, XXI, pp. 347-370 THAOAR.D, Semiotics and Hypothetic Inference in C.S. Peirce", in Versus,  TmvEL, Le 'divin' dans la collection hippocratique", in La Collec­ tion Hippocratique et son role dans l'histoire de la médeci­ ne, "Colloque de Strasbourg, Brill, Lei­ den, pp. 57-76 TuoMPsoN, R.C. 1923 Assyrian Medicai Texts, Oxford  TODOROV, T. 1977 Théories du symbole, Seuil, Paris (tr. it. Teorie del simbo­ lo, Garzanti, Milano, 1984) 198.5 "À propos de la conception augustinienne du signe", in Re­ vue des Études augustiniennes, VANCE, E. "Augustine", in Encyclopedic Dictionary of Semiotics, in T.A. Sebeok, Mouton/de Gruyter, Berlin-New York­ Amsterdam, pp. 62-64 vANCE STAIANO, Medicai semiotics: Redefining and Ancient Craft", in Se­miotica, VEGETTI "Teoria ed esperienza nel metodo ippocratico", in // Pensie- ro, Nascita dello scienziato", in Be/fagor, 6, pp. 641-663 1979 Il coltello e lo stilo, Il Saggiatore, Milano 1983 Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiato­ re, Milano VEGETTI, Opere di lppocrate, Utet, Torino VERBEKE, La philosophie du signe chez les Stolciens", in A.A. V.V., Les Stofciens et leur logique, Actes du Colloque de Chan­ tilly, Vrin, Paris VERNANT, La divination. Contexte et sens psychologique des rites et des doctrines". in JournaldePsychologie normale etpatho­ /ogique, luglio-settembre, pp. 299-325 VERNANT, Parole et signes muets", in Vernant (ed.), Divination et rationalité, Seuil, Paris (tr. it. Divinazione e razionalità, Einaudi, Torino) VERNANT, Divination et rationalité, Seuil, Paris (tr. it. Divinazione e razionalità, Einaudi, Torino) VIANO, Studi sulla logica di Aristotele: l'orizzonte linguistico della logica aristotelica", in Rivista critica di storia della filoso­ fia, "La dialettica di Aristotele", in Rivista difilosofia, La dialettica stoica", in Rivista di filosofia, VOLLI, U. 1979 La retorica delle stelle, L'Espresso Strumenti, Roma WALD "Le rapport entre signum et denotatum, dans la conception d'Augustin", in S. Chatman-U. Eco-J.M. Klinkenberg (eds.), A semiotic landscapelpanorama sémiotique, Mou­ ton. The Hague-Paris-New York, WEINOARTNER, "Making Sense of Cratylus", in Phronesis, 15, pp. 5-25 WENSKUS, o. 1983 "Vergleich und Beweis im 'Hippokratischen Corpus' ", in F. Lasserre-Ph. Mudry (eds.), Formes de pensée dans la Collection Hippocratique, "Actes du IV Colloque interna­ tional hippocratique (Lausanne)", Droz, Genève WELTRING, Das SEMEION in der aristotelischen, stoischen, epikureischen und skeptischen Philosophie, Hauptmann, Bonn (ried. in Kodikas/Code, 9, 1-2, 1986, pp. 39-1 18) ZELLER, Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwick- -68 lung, Fues's Verlag, Leipzig, Marcus Tullius, Roman statesman, orator, essayist, and letter writer. He was important not so much for formulating individual philosophical arguments as for expositions of the doctrines of the major schools of Hellenistic philosophy, and for, as he put it, “teaching philosophy to speak Latin.” The significance of the latter can hardly be overestimated. Cicero’s coinages helped shape the philosophical vocabulary of the Latin-speaking West well into the early modern period. The most characteristic feature of Cicero’s thought is his attempt to unify philosophy and rhetoric. His first major trilogy, On the Orator, On the Republic, and On the Laws, presents a vision of wise statesmen-philosophers whose greatest achievement is guiding political affairs through rhetorical persuasion rather than violence. Philosophy, Cicero argues, needs rhetoric to effect its most important practical goals, while rhetoric is useless without the psychological, moral, and logical justification provided by philosophy. This combination of eloquence and philosophy constitutes what he calls humanitas  a coinage whose enduring influence is attested in later revivals of humanism  and it alone provides the foundation for constitutional governments; it is acquired, moreover, only through broad training in those subjects worthy of free citizens artes liberales. In philosophy of education, this Ciceronian conception of a humane education encompassing poetry, rhetoric, history, morals, and politics endured as an ideal, especially for those convinced that instruction in the liberal disciplines is essential for citizens if their rational autonomy is to be expressed in ways that are culturally and politically beneficial. A major aim of Cicero’s earlier works is to appropriate for Roman high culture one of Greece’s most distinctive products, philosophical theory, and to demonstrate Roman superiority. He thus insists that Rome’s laws and political institutions successfully embody the best in Grecian political theory, whereas the Grecians themselves were inadequate to the crucial task of putting their theories into practice. Taking over the Stoic conception of the universe as a rational whole, governed by divine reason, he argues that human societies must be grounded in natural law. For Cicero, nature’s law possesses the characteristics of a legal code; in particular, it is formulable in a comparatively extended set of rules against which existing societal institutions can be measured. Indeed, since they so closely mirror the requirements of nature, Roman laws and institutions furnish a nearly perfect paradigm for human societies. Cicero’s overall theory, if not its particular details, established a lasting framework for anti-positivist theories of law and morality, including those of Aquinas, Grotius, Suárez, and Locke. The final two years of his life saw the creation of a series of dialogue-treatises that provide an encyclopedic survey of Hellenistic philosophy. Cicero himself follows the moderate fallibilism of Philo of Larissa and the New Academy. Holding that philosophy is a method and not a set of dogmas, he endorses an attitude of systematic doubt. However, unlike Cartesian doubt, Cicero’s does not extend to the real world behind phenomena, since he does not envision the possibility of strict phenomenalism. Nor does he believe that systematic doubt leads to radical skepticism about knowledge. Although no infallible criterion for distinguishing true from false impressions is available, some impressions, he argues, are more “persuasive” probabile and can be relied on to guide action. In Academics he offers detailed accounts of Hellenistic epistemological debates, steering a middle course between dogmatism and radical skepticism. A similar strategy governs the rest of his later writings. Cicero presents the views of the major schools, submits them to criticism, and tentatively supports any positions he finds “persuasive.” Three connected works, On Divination, On Fate, and On the Nature of the Gods, survey Epicurean, Stoic, and Academic arguments about theology and natural philosophy. Much of the treatment of religious thought and practice is cool, witty, and skeptically detached  much in the manner of eighteenth-century philosophes who, along with Hume, found much in Cicero to emulate. However, he concedes that Stoic arguments for providence are “persuasive.” So too in ethics, he criticizes Epicurean, Stoic, and Peripatetic doctrines in On Ends 45 and their views on death, pain, irrational emotions, and happiChurch-Turing thesis Cicero, Marcus Tullius ness in Tusculan Disputations Yet, a final work, On Duties, offers a practical ethical system based on Stoic principles. Although sometimes dismissed as the eclecticism of an amateur, Cicero’s method of selectively choosing from what had become authoritative professional systems often displays considerable reflectiveness and originality.  “Cicero = Tully” Grice: “Actually, ‘Cicero’ and ‘Tully’ mean different things! ‘Cicero’ is more of a description than a name!” La morte di C.. Cicero proscribed by the triumvirate. Cicero killed by Marco Antonio, one of the three ‘vires’, along with Ottaviano. Cicero offered his hands, with which he had written the Filippiche. His head and hands were displayed at the Senate. The Romans never quite liked him because he was only a provincial nobility and never displayed courage. C. affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: le opere di argomento retorico; e le opere che parlano dei se­gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi­to – le opera de argomento retorico --, possiamo osservare che l'interesse per il concetto di segno non è ugualmente centrale in tutte queste opere. Infatti, da una parte, ci sono il “De oratore”, I'”Orator”, il “Brutus”, il “De optimo genere oratorum” -- che affrontano una problematica a carattere so­cio-politico, volta a definire la figura dell’oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo. In queste opere tut­to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica -- e con esso anche la problematica sul concetto di segnio e di prova indiziaria) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si configura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il “De inventione”, le “Partitio­nes oratoriae” e i “Topica”, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio­ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com­pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que­ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa­rossismo, come nel “De inventione”, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio all'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. Il “De inventione” con­densa l'ampia tradizione retorica che dal Liceo giunge fino a Ermagora -- è quindi naturale che al suo interno si tro­vano riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si sedimenta. In particolare, è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an­tecedente p che permette discoprire un conseguente q. Viene poi confermata l'attenzione verso il segno involontario -- l'im­pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato -- come indi­zio di colpevolezza. Infine, compare la classica divisione del indizo secondo la sua relazione temporale con il fatto crimi­noso -- anteriorità, contemporaneità, posteriorità. Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione del segno proposta da C. è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap­pare infatti all'interno della teoria dell’ “argumentation”, cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi. L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco­ gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera probabile – “probabiliter ostendens” -- ), o la dimostra in un mo­do necessario – “necessarie demonstrans” -- De inv. Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno. Infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione, già aristotelica, tra una forza argomentativa debole – “probabili­ter ostendens” -- e un'inferenza necessaria – “necessarie demon­ strans”. Il segno necessario e così definite. "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro­vato diversamente da come viene detto.” Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo.” “Se respira, è vivo” – “Se è giorno, c'è luce” -- De inv., l, 86. Come C. spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re­lazione inscindibile – “cum priore necessario posterius cohae­rere videtur” -- De inv., l. 86. Il rapporto di rinvio *non* necessario viene poi cosi defini­ to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" -- De inv., l, 46. Con questa definizione, C. mette in evidenza due caratteri: quello probabilistico e quello doxastico. Il primo di questi e da Aristotele attribuito peculiarmente all'”eikos” -- verisimile. E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele classifica come “eikos”. “e è madre, ama suo figlio” – “Se è avido, non fa gran caso del giuramento.”  (De inv.). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio­ne che per Aristotele definine il verosimile -- Arist., Rhet.. C'è però un terzo esempio. "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" -- De inv.- che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al semeion aristotelico. La categoria di “signum”, poi, compare come una sottopar­tizione del segno non necessario, accanto al “credibi­le” -all’ “iudicatum” e al “comparabile.” Se le ultime tre nozioni – credibile, iudicatum, comparabile -- appaiono distinte in base a crite­ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il “signum” corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan­za particolare. "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no­stri sensi e indica (significa) un qualcosa che sembra deri­vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" -- De inv., I, 48. Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, dell’indizio, inteso come fenomeno percepibile, scarsamente codificato e generalmente non vo­lontario. Qui sono presentati in una forma non proposizio­nale. Ma niente vieta che venga sviluppato in proposizio­ ni, come dimostra il caso dell’indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". L’indizio, infine, venne suddiviso secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Nelle “Partitiones oratoriae”a classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità. Innanzitutto la terminologia viene completa­ mente latinizzata. Dall’altre, l’indizio -- qui chiamato  “argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi­ nione positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaia come sottopartizione di un'altra categoria. Il concetto asume un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos­ sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat, quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio---signum erodibile indicBtLm comparabile / -- --. Infine, viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo­ghi estrinseci" -- corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' -- corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1’ -- che venne criticata nel “De inventione” (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei “Topica”. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle divine: gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda­lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia. Tut­tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para­digma divinatorio all'interno del fatto semiotico, anche quando ormai il segno si e completamente “laicizzato”. Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura, si ricorderà L,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprime: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno caratteristico. Il segno umano e invece trattato come un argomento intrin­seco, in particolare tra quello che riguarda lo stato di cau­sa congetturale. La congettura può essere tratta da due tipi di segni: il verisimilie e la nota propria rei ( Il verisimile, come dice C., è "ciò che accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri­sponde all’”eikos” aristotelico, di cui ha il carattere probabili­stico e generalizzante. La “nota propria rei” e definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co­me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi­dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo “propria”, che riman­da alla nozione di fdion semeion -- segno proprio. Per Ari­stotele, segno proprio e la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr.). Il segno proprio ha puo carat­tere di necessità e si define come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si­gnis). Ci e, poi, il “vestigium facti,” dei quali venneno dati questi esempi -- "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor­ so contraddittorio, tremore, gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). C. non define QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte­ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, ed agli argumenta di Cor­nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigium facti e più in relazione con il segno necessario (nota propria rei) o con il verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi­ che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate­goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle “Partitiones oratoriae” (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, il vestigium facti (chiamato lì anche signum) vennne definiti come “consequentia”, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che define appunto, per Aristotele, il segno non necessario. Ma mentre Aristotele condanna i smefa da un punto di vista episte­mologico per la sua insicurezza, C. è pronto a rico­noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina­zione. Innanzitutto, il fatto che entrambe si avvalgano del segno per arrivare alla conoscenza di un fatto non direttamente accessibile alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente­mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o  trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza­ inclinazione alla libidine · coniecturs -verisimilie (quod plerumque rta notse proprise rerum (quod numquam alrter frt certumque declarat) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu­rali) e prova extratecnica corrisponde la distinzione tra di­vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con­gettura) e divinazione naturale. Infine, come C. pole­micamente rileva (De div., II, 55), il segno della divinazione e talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo­sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di­verse ed entrambe plausibili. Ma C. apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di­vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet­tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi­losofia a fondamento razionalistico, e contempora­neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stesso. La superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per­ ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica. C. affronta questi argomenti nel De natura deo­rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que­ st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di C. contro la teoria soste­nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon­te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu­nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata­ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro­cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla “divinatio artificialis”, in cui l'interpretazione del segno è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decrizione, demandata a specia­listi, ciascuno esperto in un settore: extispices -- esaminatori delle viscere --, interpretes monstrorum et fu/gurum (inter­preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures -- interpreti del volo degli uccelli --, astrologi -- interpreti delle stelle --, in­terpretes sortium -- interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso. In tale divinazione, l'informazione proveniente dal divino si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine del Portico secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau­se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il  logos divino e costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per intero da parte degl’uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(De div.).Questofasìche gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo­ do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con­nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul­ la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iterattività. Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan­ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie del Liceo (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no­minati, De div.), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale col divino, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente del divino. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano. Le obiezioni che C. muove ai sostenitori della divi­nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale C. nega valore alla divinazione, è che essa non ha veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come segno non e tale, ovvero che non si comporta veramente come d’antecedente rispetto a di conse­guente. Per distinguere un segno vero rispetto a quello presunti della divinazione, C. istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi. Ma, mentre le pratiche pro­fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati­ che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade­ re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip­pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes­sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina). C. poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico. Le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div., Il, 83). Si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio­ so, ma a ben diverse cause naturali (De div.). L'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne­cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div.). In certi casi l'interpretazione è motivata da ra­gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74).Grice: “Most English gentlemen knew Cicero via the Macmillan’s Loeb Classical Library, a book fit for the gentleman’s pocket! One at a time, since there are quite a few volumes dedicated to Cicero! Mr Chips makes fun of the revised pronounciation, /kikero/!” Grice: “Cicero was quite confused, sexually. His favourite target of attack was Marcantonio, which paid him good, since Marcantonio sent someone to cut his hands (‘for all the dirty lies you wrote about me’). He accuses Marcantonio of various things which did not fit Cicero’s ideal of VIRTUS – virtus is what modern scholars refer to as ‘masculinity’ if you look for it in keywords – or even better masculinities in the plural. The sexuality side to the masculinity was of little importance to the Romans and Cicero – the ‘masculinity’ side WAS. Cicero’s main classification is between ROMAN MEN and future Roman men. A Roman man is aged 20+ (has already dedicated his first beard to the gods), and obviously freeborn. Freed citizens do not count since a lot of calamities could have occurred to these ‘freed’ men BEFORE becoming free. So, even though, while becoming free they attained the rights of the Roman man, they were yet considered NON-MAN by the Roman man. The FUTURE man is a Roman male under 20. They were considered sacred. The erotic pleasure a ROMAN man wanted to find he could rely on two very practical institutions – one was that of SLAVERY. A male slave was used as recipient of sexual desire. The ROMAN man’s desire and his satisfaction counts, but he cannot pretend that his SLAVE’s does – by definition, a slave does not have a will – or he would not be a slave. Slave he has become by the circumstances, not by will, and if this ‘job’ included in the job description that of satisfy a Roman man’s desire, it was the job description of a job he never applied to. The other very useful institution was that of the PROSTIBULUM. The Roman man distinguishes lexically between MERETRICX, a female prostitute, and a PROSTIBULUM. There is some overlap here. While a ROMAN MAN could have passed as a prostitute, there’s no reason why he should. OH THE OTHER HAND, a slave could be put into prostitution by a pimp – so slave – nonliberus – and prostibulum were not exclusionary. Again, in the case of PROSTIBULUM, it would be idiotic of the Roman man to pretend that the desires of the PROSTIBULUM counted. They were there to please. Brothels – there was one called Ganymede, in Ostia – quite popular, next to a latrine – had all the amenities of bedrooms, locked doors, etc.. WHAT MATTERED to the ROMAN man was that his REPUTATION OF VIRTUS – or masculinity as self-control – kept untouched, so that the receptive role in the sexual act would have no witnesses if it occurred at all. Cicero was well aware of all this. But it would be idiotic to focus just on CICERO. The keyword should be ROMAN MASCULINITIES, and Ancient Rome. In this way, we can cover the periods of the archaic regal period, the republic – Cicero and Cesare – and the Empire. When it comes to professional philosophers one has to be careful in that they were a breed apart. They catered to the very elite, so their views did not represent ‘popular’ morality. Roman law is another trick. Cicero mentions a law against ‘stuprum’ – which is best understood as ‘stuprum’ against any of the two sexes. The evidence for the philosopher should include visual, and literary. Virgil and his national epic count large – and the Hellenistic references he makes to Ganymede and his Niso ed Eurialo being erastes and eromenos would be understood to his audience. And so would Hadiran’s affair with this foreigner (a replica of the Ganymede myth – and Cicero calls Marcantonio a ‘ganymede’ --. Like Zeus, Adrian was the MASCULINE VIR VIRTUOUS, dominant and controlling. Like Ganymede, Antinous was the foreigner subservient!” Manetti has explored the semiotics of CICERO in some detail. In general, he approaches first CORNIFICIO, who is the author of a treatise on rhetoric for long attributed to Cicero. The semiotic of Cicero is lawyer-based. His idea is that if x, y.  x is a sign of y. y is the cause of x. x is the effect of y. He is interested in semiotics as part of the analytica – or demonstration which is not necessary. It is interesting to compare Cicero’s semiotics with one by this Spaniard, Quinitilian. Quintilian, possibly a homosexual, had an obsession with what signs qualify as naturally meaning that the person is a homosexual. He said there were none. It is in this discussion that semiotics works. Grice: “Cicero was quoted twice at the Mostra augustea della romanita – a sentence, and Svetonio’s description of the birth of Augustus under his consulship.” A topic of analysis if ‘natura’. There are natural tendencies in man. And some which are CONTRA NATURAM. Oddly, semioticisans like Cicero and Quintilian refer a lot to these ‘contra-naturam’ conventions – or non-naturale. Grice: “Austin liked Cicero because he made ordinary Latin into extraordinary philosophese!” Il C. di Rensi.  Spero enim homines mtellecturos  quanto sit omnibus odio crudelitas et  quanto amori probitas et clementia. C. Cassio in Cic., Ad farri. XV, 14    C. Renisi . Vita    parallele,li due filosofi    4  C. era vicino ai sessantanni, quando lo  Stato legale romano, che già precedentemente aveva subito terribili scosse, ma che mediante una  saggia riforma avrebbe potuto rinvigorirsi sul suo  stesso tronco senza frattura o soluzione di continuità, riceveva da Cesare il colpo di grazia...  Non è più necessario rivendicare la grandezza  di C. contro le denigrazioni del Mommsen  e di altri due o tre storici tedeschi (I). Egli non  era una ràbula e un politico superficiale. Bensì  un uomo di Stato dallo sguardo ampio e sicuro,  nel cui animo si radicava e viveva di vita vigorosissima tutta la grande tradizione politica romana, Una bella e vivace confutazione del Mommsen si  può leggere nel saggio di A. Horncffer, Cicero und die  Gegenwarl, contenuto nel volume Das Klassische Ideal  (Lipsia, Klinkhardt, 1909). L' Horneffer però rivendica  solo il valore di C. come epistolografo e oratore,  non come filosofo.   e pur senza che l’animo servilmente vi soggiacesse,  ma, anzi, insieme, con la chiara coscienza della  nuova direzione che quella tradizione doveva prendere, e della misura e forma in cui doveva prenderla, per svilupparsi fecondamente e superarsi vivificandosi. Accanto a ciò, mente che s’era impadronita di tutta la più alta cultura dell'epoca :  Demostene e Platone insieme pel suo paese, come  riconosce Wilamowitz-Moellendorf Accanto  a ciò, una squisitissima sensibilità artistica e una  passione vivacissima per le cose d’arte ; basta vedere quanto “ vehementer , com’egli stesso dice,  attendeva che Attico gli mandasse sculture ed oggetti artistici greci: “genus hoc est voluptatis rneæ  (Ad Att.) ; e   basta aver letto attentamente le sue orazioni e  aver scorto il perfetto senso d’arte con cui sono  costruite e che vi circola. Accanto a ciò, infine,  una sensibilità in generale per le cose, le persone,  gli eventi, gli affetti, così moderna, che in lui, nella  sua pronta e multiforme impressionabilità, ritroviamo  interamente noi stessi : e il suo dolore erompente  e pieno di accenti passionali per la morte della  figlia Tullia, è il palpito d’un cuore dei nostri  tempi. Uomo, in una parola; assolutamente completo. Platon. Un filosofo di così sottile e sicuro buon gusto  e di cosi grande penetrazione storica (e particolarmente  Il rimprovero che gli si fa di debolezze e incertezze è uno dei soliti rimproveri che gli eroi  di poltrona hanno quasi sempre occasione di rivolgere al grande che si è trovato a dover davvero vivere avvolto da un gigantesco turbine di  avvenimenti, e che nemmeno se fosse stato mille  volte più grande poteva abbracciarne tutte le fila,  come è invece agevole a quelli che non fanno se non  pacificamente rileggerli nel loro tranquillo gabinetto  venti secoli dopo. Egli non fu debole ed incerto  nè nella repressione della congiura di Catilina, nè  nella lotta per la salvezza della costituzione contro il cesarismo rinvelenito da Antonio, lotta che  chiuse cosi gloriosamente la sua carriera mortale.  Le sue incertezze di altri momenti sono unicamente  frutto della sua profonda moralità. Perché l’uomo  fondamentalmente morale e intelligente, in mezzo  a cataclismi enormi che travolgono gli individui  come fuscelli, quali quelli in cui C. si trovò,  mentre non può operare contro coscienza, e per  questa, che pure sarebbe l’unica via possibile, salvarsi o tornare a grandeggiare, però avverte anche  i pencoli micidiali a cui espone sè ed 1 suoi operando secondo coscienza : e la condotta risultante è necessariamente quella che tracciano le  fluttuazioni di tale angoscioso conflitto interno. circa la storia romana) come Montesquieu ne dà questo  giudizio. Ciceron, selon moi, est un des plus grands  espnts qui aient jamais été (Pensées diVerses), Ab illis est periculum si peccare, ab hoc si recte  fecero, nec ullum in his malis consilium periculo  vacuimi inveniri potest  {Ad Att, X, 8). Quando  i frangenti in cui un uomo si trova realmente a  vivere sono davvero quelli così delineati, si può  domandarsi se sia umanamente possibile la rettilineità che esigono da lui coloro che poi spulciano  comodamente gli eventi della sua vita. Sicuro e  diritto, in tali circostanze, è l'uomo amorale che  non sente scrupoli : il cinico ed elegante arrivista  Celio Rufo, che a C. da questo consiglio  {Ad. Di'». Vili, 14): “ Suppongo che non ti  sfugga come nelle discordie politiche interne gli  uomini debbano seguire, finché si lotta senz’armi,  la parie più onesta, ma la più forte quando vengono in gioco guerre ed eserciti, e stabilire che  è migliore ciò che è più sicuro  (Celio Rufo, del  resto ottimo scrittore, tanto che per molti umanisti ed altri dotti è ancor oggi il miglior modello  di stile). Ma C. era un uomo di coscienza.  Questa soltanto, non la sua incapacità mentale,  la causa della sua rovina.   Egli era andato con Pompeo, non già sedotto  dalla speranza della vittoria, ma quando la causa  di costui era ormai pressoché perduta e con la  piena nozione di tale condizione di cose, e mentre  Cesare, Antonio, Celio, per cercar di trattenerlo  almeno neutrale, gli facevano offerte larghissime :   secuti non spem, sed officium  {Ad Div.). Vi era andato essendo consapevole, non solo dell’inettitudine e impreparazione di Pompeo e di  quelli che erano con lui, ma altresi del fatto che  poco o nulla c era da sperare da essi circa la  restaurazione della legalità, animati come costoro  erano da propositi di persecuzione sillana (Ad Att.; Ad D/v.), e   chiaro ormai essendo che dai pompeiani non meno  che dai cesariani non si pensava che a far man  bassa dello Stato: “ regnandi contendo est » (Ad  Att.), “ dominatio quaesita ab utroque est,  non id actum beata et honesta civitas ut esset. Vi era andato straziato dall’ idea  d una guerra civile e unicamente in obbedienza a  considerazioni d ordine morale. E’ la coscienza  che ci costringe, scrive ad Attico (X,8), a staccarci da Cesare più ancora se vincitore che se  vinto, per non essere solidali con ciò che seguirà  alla sua vittoria, stragi, estorsioni, violenze “ et  turpissimorum honores, et regnum non modo Romano homini, sed ne Persae quidem cuiquam tolerabile Era andato da Pompeo, senza illusioni  e speranze, unicamente per senso del dovere.   Sed valuit (scrive più tardi a Cecina) apud me  plus pudor meus quam timor ; veritus sum deesse  Pompeii saluti, cum ille aliquando non defuisset  meae. ltaque vel officio, vel fama bonorum, vel  pudore victus, ut in fabulis Amphiaraus, sic ego  prudens ac sciens, ad pestem ante oculos positam  sum profectus (Ad Div.). Egli sapeva  cioè di andare alla rovina e vi andò in obbedienza  a yu principio d'onore (pudor) e di gratitudine,  per quel poco che Pompeo aveva fatto onde richiamarlo dall’esilio. “ Pudori tamen malui famaeque cedere quam salutis meae rationem ducere  riconferma a M. Mario. E ritornando  più tardi in una lettera a Torquato, che aveva  anch’egli seguito la parte pompeiana, su quell’episodio a entrambi comune, sente di poter ricordare in cospetto al correligionario politico nec nos victoriae praemiis ductos patriam olim et liberos et fortunas reliquisse, sed quoddam nobis officium iustum et pium et debitum reipublicae  nostraeque dìgnitati videbamur sequi, nec cum id  faciebamur tam eramus amentes ut explorata nobis  esset victoria. Ne è questa un’opportunistica configurazione postuma della sua condotta di quel tempo. Basta percorrere la sua corrispondenza con Attico (suo amico intimo e suo  editore, uomo consumato nell’ impresa di tener il  piede in più staffe e nella difficile arte di conservarsi amici i vincitori senza inimicarsi i vinti)  per constatare che tale veramente, cioè il senso del  dovere, era il nobile sentimento da cui fu mosso. Officu me deliberalo cruciat, cruciavitque  adhuc ; cautior certe est mansio ; honestior existimatur traiectio (Ad Alt.). E quando  Pompeo è pressoché spacciato e stretto da tutte  le parti, e C. è ritornato in Italia, egli si  cruccia proprio di questo suo atto da cui gli sarebbe derivato vantaggio e che poteva quindi essere reputato abile, e si rammarica di non essere  stato con Pompeo sino alla fine; “ numquam  enim illus victoriae socius esse volui ; calamitatis  mallem fuisse  (Ad Att.). Il principio,  insomma, che in un’altra posteriore circostanza,  piena di pericoli mortali, nella sua lotta contro  Antonio, egli enuncia a Planco così : “ mihi maximae curae est, non de mea quidem vita, cui satisfeci vel aetate vel factis vel gloria, sed me patria sollicitat ( Jld Dio.), questo è il principio che domina costantemente nell’animo di C., insieme con l’insormontabile ripugnanza,  o meglio con 1’ impossibilità, di venir meno al  rispetto verso se stesso. Allorché, essendo Cesare  incontrastato padrone, l’accomodante Attico gli  dà il consiglio di obbedire ai vincitori, “ non  mihi quidem (egli risponde) cui sunt multa potiora  (Ad Att.). Certo, un uomo mosso prevalentemente da sentimenti di tale natura, nelle tragiche vicende pubbliche da cui si trovò avvolto C., va al  fondo. Resta a vedere se ciò sia un indice di  inferiorità o se non lo sia piuttosto quel successo  che è raggiunto (e la cosa è facile) in grazia dell’assenza di tali sentimenti, della mancanza d’ogni  freno etico, dell insensibilità ad ogni scrupolo di  coscienza, della nessuna riluttanza a violare cinicamente ogni principio di diritto e di morale. Nè r uomo che aveva cominciato la sua carriera  attaccando coraggiosamente nell’orazione prò Roselo  un favorito potentissimo di Siila, era un pavido.  Dimostrò ancora di non esserlo e nel suo consolato e nell’ultima fase della sua vita. L’apparenza  di timidità da lui talvolta offerta, deriva da ciò  che egli, come disse di sè, si preoccupava grandemente dei pericoli nella rappresentazione e raffigurazione mentale anticipata di essi, non già che  titubasse poi ad affrontarli nella realtà. Quintiliano  narra : “ Parum fortis videtur quisbusdam : quibus  optime respondit ipse, non se timidum in suscipiendis, sed in providendis periculis. E’ press’a poco ciò che egli scrive a Toranio:  mi accusavano di essere timido, “ eram piane,  timebam enim, ne evenirent, quae acciderunt  ;  mi dicevano timido, “ quia dicebamus ea futura,  quae facta sunt  (Ad Dio.). Nè è giusto  accusarlo di non aver saputo intuire con chiarezza  le situazioni e di essersi per questa deficienza di  sguardo gettato a corpo perduto a combattere per  soluzioni che la realtà escludeva. È questa la solita iniqua condanna che ì posteri, aggiungendosi  ai contemporanei nell’incensare i vincitori e nel  dare il calcio dell’asino ai vinti, pronunciano contro  colui che difese la causa rimasta storicamente soccombente. Quasiché il fatto che una causa sia rimasta storicamente sconfitta dimostri anche che era  giusto e logico che essa lo fosse ; quasiché il mero  fatto, il fatto del successo, sia anche verdetto di  giustizia e logicità ; quasiché assai spesso la causa  storicamente prostrata non sia quella che avrebbe  dovuto vincere. Che la cosa stia così nel caso di  C., lo dimostra il fatto che la causa da lui  combattuta e che vinse costituì la rovina della vita  di Roma : basta per accertarsene constatare che  nella stessa nostra memoria di posteri la vita di  Roma resta chiaramente presente e attira la nostra  appassionata attenzione appunto sino ad Augusto;  ci rimangono ancora come appendice già torbida  i primi imperatori ; poi tutto ci si confonde dinanzi in un lungo stato comatoso chiazzato di  continui sussulti sanguigni, in cui (se non siamo storici di professione) non distinguiamo piu ne nomi,  nè persone, nè eventi, di cui non ricordiamo, nè  c’importa ricordare, più nulla. Si rammenti come, per es., scorgeva Roma Massimo d’Azeglio. “ Fra tutti gli Stati dell’antichità è Roma  quello che ho in maggior stima, fino all’epoca dei Gracchi,  intendiamoci ! lo ammiro que’ tempi durante i quali dominò  la legge ; durante i quali le più bollenti passioni agitate  dai più vitali interessi, non cercavano altr armi nè altre  vittorie che un voto ne’ Comizi . E poco prima : Se  è giusto e vero il principio fondamentale delle Società  moderne, essere la legalità di un governo dipendente dalla  volontà del popolo che vi è governato, vorrei sapere se  1’umanità consultata avrebbe ne’ tempi dei Romani votato [Nemmeno i mezzi che egli aveva messo in opera  per sostenere la causa che soccombette, soo inadeguati. Tutto, invece, egli aveva provvisto ; tutto  quanto era necessario perchè essa vincesse: aveva  cercato di assicurare ad essa l’appoggio e la  fedeltà dei maggiori personaggi militari e politici ; aveva costituito e messo in campo eserciti  poderosi ; con la sua parola teneva altissimo il  tono morale del popolo all’ interno. Se la causa  non vinse, lo si deve, non a un fato storico, a  condizioni incoercibili insite nella realtà e sfuggite  allo sguardo di C., o al logos immanente  nella storia ; ma unicamente a due o tre puri casi,  che potevano accadere diversamente e in tal modo  rovesciare la situazione. Dice in qualche luogo  Rosmini che “ uno de’ mezzi, co’ quali 1’ uomo  può sciogliere la propria mente da molti pregiudizi e da’ legami delle consuetudini sensibili, si è  l’esercitarsi a considerare le cose non solo come  sono, ma come potrebbero essere. Se vogliamo applicare questo precetto al periodo di  storia in discorso (come Renouvier in Uchwnie  l’ha applicato in modo grandemente interessante a  tutta la storia occidentale dagli Antonini in poi),  scorgeremo agevolmente che due o tre futili casi,  per l'impero (Miei Ricordi, Barbera). Antologia Pedagogica a cura di G. Pusinieri, Rovereto, Mario] i quali fossero avvenuti diversamente, sarebbero  bastati a cambiare del tutto la faccia delle cose;  se, p. e., Lepido non avesse tradito, o se un giavellotto l’avesse ucciso quando egli si mosse per  portar soccorso ad Antonio ormai disfatto, se Planco  non avesse fatto il doppio giuoco, ciò sarebbe bastato per far di C. il capo dello Stato romano, e perchè egli occupasse nella politica di  Roma d’allora, e nella storia, il posto d’Augusto.  E quanto lo Stato romano e la posterità sarebbero stati più fortunati se il potere fosse venuto  in mano ad un uomo di rettitudine profonda e  di vivo senso del diritto e del dovere, come C., anziché ad un uomo la cui bassezza d animo è provata luminosamente dal fatto che, avendo  cominciato ancora puer o adolescens, come sempre  C. lo chiama, (sed est piane puer n \Ad  Att. XVI, 11), ad essere qualcosa solo per 1 appoggio datogli appunto da C. e con lo strisciarsi umilmente ai suoi piedi (“a me postulat  primum ut clam conloquatur mecum Capuae vel  non longe a Capua ducem se profitetur nec nos  sibi putat deesse oportere  ; binae uno die mihi  litterae ab Octaviano; “ deinde ab Octaviano  cotidie litterae, ut negotium susciperem, Capuani  venirem, iterum rem publicam servarem » ; mihi  totus deditus; “ nobiscum hinc perhonorifice   et amice Octavius   Ad Jltt. XVI, 8, 9, 11,  XIV, 11, 12), non si trattenne dal sacrificare ad  una propria maggiore ascesa la vita di colui che l’aveva sorretto nei suoi primi passi. Uomo egli,  si, veramente, pusillanime, che vinse le guerre solo  per mezzo dei suoi generali e specialmente di Agrippa , e non aveva il coraggio di presentarsi  nel campo se non dopo che Agrippa gli annunziava la vittoria (Svet. Aug. 16). Fondamentalmente istrione e poseur come risulta dal fatto,  narrato da Svetonio (Aug. 84), che non comunica mai nemmeno con sua moglie senza scrivere prima e leggere ciò che voleva dire, nonché  dall’altro, sempre narrato da Svetonio, che  egli amava stilizzare a particolare espressività e luminosità i suoi occhi, “ quibus etiam existimari  volebat inesse quiddam divini vigoris, gaudebatque   [Octave lui [a Sesto Pompeo) fit deux guerres  laborieuses ; et après bien de mauvais succès il le vainquit por i’habilité d’Agrippa... Je crois qu’ Octave est le  seul de tous les capitaines romains qui ait gagné 1 affection  des soldals en leuv donnant sans cesse des marques d’une  làcheté naturelle  (Montesquieu, Grandeur et Dócadence  des Romains. Tanto Cesare quanto Augusto  avevano l’abitudine di citare dei versi delle Fenicie di  Euripide. E la citazione che l’uno e l’altro aveva scelto  è rivelatrice del loro rispettivo carattere. Cesare amava  citare i versi 524-525 : “se c' è un caso in cui sia bello  violare il diritto, è quando lo si viola per conseguire la  tirannide citazione signifìcatiice dello spirito violento e  illegale. Augusto amava citare il verso 559: è meglio  per un generale procedere al sicuro (àacpaÀr/c) che essere ardito (ihf aouc)  ; citazione significatrice della vigliaccheria (cfr. Cicer. De Off. Ili, 21, 82 e Svetonio  Aug.] si qui sibi acrius contuenti quasi ad fulgorem solis  vultum summiteret e infine in modo palmare dalle  parole (“ ecquid iis videretur mimum vitae commode transigisse ) e dalla citazione greca richiedente 1 applauso per la commedia ben riuscita,  con cu; egli chiuse la sua esistenza (ib. 99). Uomo  che desta particolare antipatia precisamente in  grazia del suo proposito di moralizzare la vita  romana ; perchè niente è più ripugnante del dissoluto che si da il compito di costringere gli altri  alla virtù e posa a restauratore della morale pubblica ; e Augusto aveva cambiato tre mogli prendendo 1 ultima al manto sotto ì suoi stessi occhi,  conducendola con sé in un altra stanza donde era  ritornata spettinata e con gli orecchi rossi, e poi  introducendola in casa propria incinta d’un altro; aveva commesso le oscenità che narra  Svetonio, irripetibili, tranne forse una :  “ adultena quidem exercuisse ne amici quidem  negant; e dopo ciò faceva udire le parole ammonitrici di vita austera e imprendeva a ricondurre  i costumi alla prisca severità (I). La scandalosa condotta di sua figlia e di sua nipote, che condusse   [A cool head, an unfeeling hcart, and a cowardly  disposition, promtcd finn al thè age of nmeieen, to assume  thè maske of hypocrisy, which he never afterwards laid  aside. With thè saine hand, and proba’bly with thè same  temper, he signed thè proscription of Cicero and thè  pardon of Cinna. His virtues, and even his vices, were  artifìcial  (Gibbon, Decime and Fall] all’esilio di entrambe, e di Ovidio complice o pronubo, dimostra che nella sua famiglia stessa si  aveva il senso netto del come si poteva prendere  sul serio una riforma morale che pretendeva attuare un individuo di siffatta ìndole e di siffatti  precedenti. Non ostante che all’epoca del trionfo di Cesare  si avvicinasse alla sessantina, C. non. era  uomo che non sapesse comprendere i tempi. Li  comprendeva benissimo, più profondamente e sapientemente di Cesare e di Ottavio. La sua mente  era in pieno vigore. Subito dopo quell epoca egli  poteva scrivere quei suoi libri di filosofia che suscitarono l’ammirazione dei contemporanei e furono  e saranno letti con entusiasmo o rispetto da tutte   Coglie veramente nel segno Aurelio Vittore : Cum  esset luxuriae serviens erat eiusdem vitii severissimus ultor,  more hominum, qui in ulciscendis vitiis, quibus ipsi veliementer indulgent, acres sunt . (cap. 1). E s. può dire d.  lui quel che il Boissier dice di Domiziano : 1 ar malheur,   ce prince si sevère pour les defauts des autres, etait luimème très vicieux. 11 avait fait des lois rigoureuses contre  l’adultere et il vivait publiquement avec sa mèce, la bile  de Titus, qu’ il avait enlevée à son mari et dont il causa  la mort en essayant de la taire avorter. Ce contraste etait  choquant, et il n’ ignorait pas qu’on en etait indigne (Tacite] le generazioni successive (I). Poco più oltre egli  svolgeva anzi la sua azione politica più abile, più  decisa, piu energica e più importante, e, insieme,  con le filippiche raggiungeva un’altezza da lui  ancora non tocca nella forma d’arte che gli era  propria : “ divina  chiama giustamente un giudice  certo non facile, Giovenale (X, 125), la seconda  di esse. La sua idea di portare alla luce del  mondo politico, sotto la sua direzione, il pronipote e figlio adottivo di Cesare, ancora ragazzo  (aveva appena diciannove anni), accordandogli anche onori che a molti parevano eccessivi, e di  riuscire così giovandosi del nome di Ottavio a far  rientrare il ribollente partito cesariano nell’ordine  costituzionale e a dominare in tal modo una siInazione difficilissima, era una idea geniale, abilissima, da politico grandemente avveduto, l’unica    (I) Sull immensa influenza esercitata da C. sui   a t“ di tutti ' tempi ' veg § asi ‘'furiente  r “, Z r fe,v C f er, 0 o ™ Wandel dcr Jahrhunderte  I d-' P r a ' ed ;. lj^ 9 ) Strachan-Davidson nella  sua Vita di C. ( Heroes of thè Nations Series )  dice giustamente che se si dovesse decidere quale degli  scrittori antichi maggiormente influì sul mondo moderno,  la decisione sarebbe,n favore di Plutarco e C.   hrasmo, scrivendo ad un amico, diceva che, se da giovane   aonr enVa rf matUra era andato sempre più   apprezzando C.. Ld è proprio giusto il noto giu d. Z .o di Quintiliano : “ Ille se profecisse sciat, (e s. può  aggiungere: tanto gusto letterario, quanto in retti Jne  etico-politica) cui Cicero valde placebit.   G. Sensi . y ita paratiti « di due fila.ofi ] idea che in quel terribile cataclisma poteva dar  buoni frutti. Non è sua colpa se 1 idea non riuscì,  e proprio sopratulto per la perfidia senza scrupoli  del futuro Augusto. Per quanto avveduto e grandemente intelligente, un uomo di Stato fondamentalmente onesto come C., non fa entrare  nel suo giuoco la supposizione di una perfidia  enorme, di gran lunga travalicante la media nequizia umana, come fu quella di Augusto; nè si  può accusarlo di incapacità se non ve la fa entrare,  e se essa gli si rizza impensatamente dinanzi mandando a picco i suoi piani più accortamente e  sapientemente elaborati . Fra il 4 1 e il 40 a. C.,  cioè all’età di circa sessantaqualtro anni, C.  assume risolutamente, nel momento più pieno di  vicissitudini e pericoli, la parte di leader del Senato e del popolo romano, come egli stesso scrive  a Cornificio, “ me principem Senatui populoque  romano professus sum (Ad Dio. Xll, 24 2) ;  spiega un’attività prodigiosa, tanto verso gli eserciti  quanto rispetto alla situazione interna, per dirigere   (I) Giustamente Platone osserva (Rep.) che  le persone oneste sono facili ad essere ingannate dai  malvagi perchè non hanno in sé il modulo dei sentimenti  di costoro (fire oòv. s'/ovre? èv éaotoT; ^ 7 iapaos'y|J.axa  óp. 0 i 07 ia{H) tot; nove^oi?) ; mentre però il malvagio, abilissimo nel suo comportamento coi malvagi, resta ingannato quando tratta coi buoni, perchè, giudicando da se,  e ignorando le indoli onesti, vede dappertutto inganni  (àruaT&v Tiapà xaipòv xaì àYVOtòv uytè; fjU'o;)] la lotta contro Antonio ; getta di nuovo, attesta  scrivendo ancora a Cornificio, 1 fondamenti dello  Stato con la prima Filippica: “ fundamenta ieci  reipublicae  (Ad D/v. XII, XXV, 1); e al giocondo Peto conferma quanto abbia fatto, quanto  faccia e come ritenga che se dovesse in tale sua  azione perdere la vita l’avrebbe spesa bene ; “ sic  tibi, mi Peto, persuade, me dies et noctes mini  aliud agere, nihil curare, nisi ut mei cives salvi  liberique sint : nullum locum praetermitto monendi, agendi, providendi : hoc demque animo  sum, ut si in hac cura atque admistratione vita  mihi ponenda sit, praeclare actum mecum putem   (Ad T)iv. IX, XXIV, 3). “ In questi primi mesi  del 43, C. fu veramente il princeps, ch’egli  aveva idealizzato nel De republica : consigliere,  esortatore, ispiratore del Senato, dei consoli, dei  governatori delle provincie  . Non è questa  la condotta d un uomo le cui facoltà spirituali siano  illanguidite.   Ma, sopratutto, a prova della sua esatta comprensione dei tempi, basta ricordare come la riforma che occorreva allo Stato romano, pessimamente attuata, secondo attestò la susseguente vita  F, Amateli, C.  (Bari, Laterza).   Jamais C. n a joue. un plus grande róle politique  qu à ce moment ; jamais il n’a mieux mérité ce nom d’homme d Etat que ces ennemis lui refusent  (Boissier, Crcéron et ses amis] dell’Impero, da Cesare e da Augusto, fosse stata  prospettata per primo da C. nel De Repubblica. L’introduzione, cioè, d’un nuovo e più  fermo principio d’autorità sotto forma di un rector  rerumpublicarum d’un “ moderator reipublicae  d’un “ princeps civitatis » (De Ti,ep.).  Senonchè C., con molto maggior senso della  necessaria continuità di sviluppo dello Stato romano  e con molta maggior disinteressata cura di esso,  non intendeva che questa riforma dovesse rivolgersi a distruzione della costituzione esistente, bensì  che dovesse ingranarsi in essa e formarne un naturale complemento e uno svolgimento spontaneo  e logico ; “ homines non tarai commutandarum  quam evertandarum rerum cupidos , egli giudica  i cesariani .(De Off.), mentre per lui la  costituzione romana, come esattamente nota lo  Zielinski, è “ capace di ogni progresso in quanto  questo conducesse all’accettazione e allo sviluppo  di idee feconde (fordeTnder), non di idee distruttive. La differenza tra il modo con cui egli  concepiva la riforma e il modo con cui la attuarono Cesare ed Augusto è si può dire scolpito  dalle seguenti sue due proposizioni: “ me nunquam voluisse plus quemquam posse quam universam rempublicam  (jdd Div.); “ ego  sum, qui nullius vim plus valere volui, quam honestum otium. Ovvero: la differenza tra la concezione ciceroniana del princeps  e la pratica applicazione fattane da Cesare è resa  nel bell’ emistichio con cui Lucano descrive il modo di operare di quest’ultimo : gaudens viam fecisse ruina. Basta riflettere a tutto ciò per scorgere tosto  che non solo la mente di C. era nel suo  pieno vigore, ma altresì la sua comprensione dei  tempi (se per questa s’intende, non già furbesca  valutazione personalmente opportunistica delle circostanze, ma avvertimento delle necessità profonde  che ad un dato momento si presentano nella vita  sociale e politica d’un paese) era perfetta.  Il * ‘ sovversivismo  di Cesare è provato dal dolore  che per la sua morte manifestarono sopratutto gli Ebrei  (“ qui etiam noctibus continuis bustum frequentabant  Svet, Caes.), cioè precisamente coloro che nel seno  nello Stato romano, da essi violentemente odiato, costituivano la catapulta diretta a farlo saltare, e che, sotto la  veste del Cristianesimo, a farlo saltare effettivamente riuscirono. Si può anzi con sicurezza dire che l’impero romano si  deve agli ebrei, perchè furono i loro lunghi tetri lamenti  intorno al cadavere di Cesare che suscitarono nella plebaglia quella sommossa per e attorno al rogo del dittatore, la quale fece prender nuova forza al cesarismo. “ É  noto come per la commozione popolare che lo straziante  rito ebreo provocò colle sue lugubri lamentazioni orientali,  se ne ingenerò quel tumulto che doveva mutare la faccia  de! mondo, mandando in fumo i diplomatici accordi con  Bruto e Cassio, che dovettero fuggire in Illirio : sicché ne  vennero le lunghe guerre civili e l’Imperio di Augusto   (Ottolenghi, Voci JOriente, Lugano] Mente possente, senso politico sicuro, comprensione dei tempi piena. Non si può dunque attribuire a deficienze intellettuali il modo con cui  C. valutò Cesare e il movimento da costui  capeggiato. Egli non vide certamente Cesare come  la sua figura si è plasmata nella storia, che corona  con eternità d’ apoteosi tutto ciò che ha trovato  in ogni presente la consacrazione del bruto successo di (atto. Lo vide come glielo presentava la  realtà immediata. Lo vide come lo vide Catullo:   Pulcre convenit improbis cinaedis,   Mainurrae pathicoque Caesarique ; E questo Caesar era proprio Caio Giulio Cesare  e quel Mamurra (da Catullo soprannominato Mentula) il suo generale del genio. A permettere al  quale di “ mangiare  (il verbo si usava anche in  latino con questo preciso significato) milioni su  milioni, il commovimento politico aveva principalmente servito. Doveva essere una cosa nota a  tutti, se Catullo la mette correntemente in versi:  Cinaede Romule, haec videbis et feres ? Es inipudicus et vorax et aleo. Eone nomine, imperator unice,   Fuisti in ultima occidentis insula.   Ut ista vostra diffutata Mentula  Ducenties comesset aut trecenties ?] Cinaede Romule Romolo debosciato, impudico, vorace e giuocatore : cosi Catullo vede Cesare. E press’a poco così lo vede C.   Egli non scorge Cesare, quale il fanatismo interessato dei seguaci e poi gli storici l’hanno costruito: gli storici, i quali (in generale) non fanno  mai altro se non aggiungere, per supino servilismo  postumo, la loro adulatrice consacrazione al successo di fatto e di solito non osano mai, per la  paura di passar per “singolari,,, sviscerare il  clamoroso successo di fatto ottenuto da un “ grande   nella età in cui visse, mettendone coraggiosamente  in luce le vere molle, spessissimo casuali, o basse,  o vili, ma sempre invece per essi è “ grande   colui che nella sua epoca le circostanze, o la  perfidia, o i misfatti hanno portato in alto.  Si vous avez une vue nouvelle, une idée originale, si vous présentez !es hommes et les choses sous  un aspect inattendu, vous surprenez le lecteur. Et le lecteur n’aime pas à ótre surpris. Il ne cherche jamais  dans une histoire que les sottises qu’ il sait dejà. Si  vous essayez de l’instruire, vous ne ferez que l’humilier  et le fàcher. Ne tentez pas de l’éclairer, il criera que  vous insultez à ses croyances... Un historien originai est  1 objet de la défiance, du mépris et du dégoùt universels».  Questo è l’abituale comportarsi degli storici, secondo la  satira, aggiustatissima, che ne schizza A. France (L’ ile  des Pingouins, préf.). Ci sarebbe solo da aggiungere che spesso il servilismo degli storici verso i personaggi della storia che scrivono serve al loro servilismo  verso i personaggi della storia che vivono. C. vede Cesare muoversi davanti ai suoi occhi,  nella vita vera, non nella luce abbagliante del  mito. Esso gli appare screditato, corrotto, senza  senso di morale nè privata nè pubblica, uomo la  cui vita, i cui costumi danno la certezza che si  condurrà male : e sopratutto la danno la gente che  lo circonda. “ O Dii, qui comitatus ! in qua erat  area scelerum! scrive ad Attico, dopo  uno dei suoi abboccamenti con lui. Egli sa che  Cesare aveva cominciato a costruirsi la sua potenza  accaparrandosi e tenendo alle proprie dipendenze  i manigoldi audaci e bisognosi. Egli scorge   ( I ) Nell' interessantissima antologia di pagine storiche  di Chateaubriand, testé pubblicata dall’editore Tallandier  sotto il titolo Scénes et portrails historiques, si legge. Tout personnage qui doit vivre ne va point  aux générations futures tei qu’ il était en réalité : a quelque  distance de lui, son epopèe commence : on idéalise ce  personnage, on le transfigure ; on lui attribue une puissance,  des vices et des vertus qu’ il n’eut jamais ; on arrange les  hasards de sa vie, on les violente, on les coordonne à  un système, Les biographes répètent ces mensonges ; les  peintres fixent sur la toile ces inventions et la posterité adopte  le fantóme. Bien fou qui croit à l’histoire. L’histoire est une  pure tromperie . E Montesquieu, dal canto suo aveva già  osservato : “ Les places que la posterité donne sont sujettes,  corame les autres, aux caprices de la fortune ( Grandeur  et décadence des Romains. Habebat hoc omnino Caesar: quem piane perditum aere alieno egentemque, si eumdem nequam hominem audacemque cognorat, hunc in familiaritatem libentissime recipiebat  (Fi/. Il,]  radunata attorno a Cesare tutta la gente equivoca  e sospetta, violenta e disperata, tutte le anime dannate, vexu (<x (Ad Att.), “ omnes damnatos,  omnes ignominia affectos, omnes damnatione ignominiaque dignos, omnem fere inventutem, omnem  illam urbanam et perditam plebem  (Ad Att.), tutti i giovani circa i quali pensava che “maximas republicas ab adolescentibus labefactas,, (De  Seti. VI), tutti coloro ch’egli chiamava « perdita  iuventus » (Ad Att. VII, 7) e poc’anzi « barbatuli iuvenes, grex Catilinæ, «feccia  di Romolo, i precursori di quella che  poi Giovenale denomina «turba Remi;  cosicché, egli scrive ad Attico, intorno a Cesare  è raggruppato tutto il canagliume della penisola,  « cave autem putes quemquam hominem in Italia  turpem esse, qui hinc absit; osservazione identica a quella che è costretto a fare il  cesariano Sallustio: “ occupandae reipublicae in  spem adducti homines, quibus omnia probo ac luxuria polluta erant, concorrere in castra tua,, (De Rep.  Ord.). Come Catullo, C. vede con  disgusto i cesariani ormai dominatori darsi al lusso  ed al fasto, giuochi, cene, delizie, mentre Balbo  (altro comandante del genio di Cesare e sua longa  manus in Roma) si costruisce dei palazzi, “quae  coenae? quae deliciae? at Balbus aedificat (Ad  Att.), e Antonio scorrazza l’Italia confi) Val la pena di riportare tutto il passo perchè esso  ducendosi dietro in una lettiga aperta la sua amante  in un’altra sua moglie, septem praeterea coniunctæ lecticæ amicarum sunt an amicorum ?  l^/JJ  Att. X, IO) (I). Tutto ciò desta in C.  una nausea invincibile: “ nosti enim non modo stomachi mei, sed etiam oculorum, in hominum inso- contiene un’osservazione di indole psicologica e morale  eternamente vera e colta da C. dalla vita stessa  che lo circondava : “ At Balbus aedificat ; tl yàp «ÒTfij  péÀst ; Verum si quaeris, homini non recta sed vuluptaria quaerenti nonne [kfifwTai ?  Cioè: “ Balbo pensa a  costruirsi palazzi. Che importa a lui di tutto ciò ? E in  verità, se a un uomo non sta a cuore la dignità e la coscienza, ma solo il suo interesse, fa bene a far così : può  dire ho vissuto  La ributtante figura d’Antonio risalta scolpita non  solo nelle lettere di C., ma, più ancora nelle Filippiche (v. specialmente FU. He. 18 e s.). Pagine che  stanno a dimostrare una volta di più come, in una situazione politica tirannica ed eslege, anche persone notoriamente  turpi possano salire ai più alti gradi, perchè il controllo  dell opinione pubblica e la possibilità di censure sono soppresse dalla forza e la gente costretta al silenzio.  Non  ostante, in un primo tempo C., usando l’avveduta  prudenza dell’uomo politico, aveva cercato di persuadere  quasi amichevolmente Antonio a rimanere nell'orbita della  legge. Ciò con la Fil. I, di cui è il caso di citare le seguenti righe : “ Sin consuetudinem meam, quam in republicam semper habui, tenuero, id est, si libere, quae sentiam, de republica dixero; primum deprecor ne irascatur,  deinde, si haec non impetro, peto ut sic irascatur, ut civi] lentium indignitate, fastidium™ (Ad T)iv.] Quanto a Cesare, egli è per C. “ hominem  amentem et miserum che non ha mai conosciuta  neppur l’ombra dell'onestà, che considera la tirannide come il maggior dono degli Dei, (Ad Alt. VII,  1 1 ), capace di ogni scelleraggine, “ omnia taeterrime facturum, uomo del quale  “ vita, mores, ante facta, ratio suscepti negotii, sodi  fanno ritenere che non potrà comportarsi se  non “perdite,, (ib. IX 2 A, alias 2, § 2 e s.) La sua  condotta sarà anche resa peggiore di quel che per  l’indole di lui sarebbe, dal fatto che il vincitore nella  guerra civile deve pur contro sua volontà operare ad  arbitrio di coloro che l’hanno aiutato a vincere.  “ Omnia (scrive a Marcello) sunt misera in bellis  civilibus ; sed miserius nihil, quam ipsa victoria :  quae etiamsi ad meliores venit, tamen eos feroLa stessa ripulsione, e per la stessa ragione, Filippo destava in Demostene. È circondato (egli dice) da  ladri, da adulatori, da gente che si abbandona a immoralità che non oso neanche ripetere (01. 11, 19). E Demostene si illudeva che anche perciò Filippo sarebbe caduto. Geloso e ambizioso com' è (egli dice) allontana gli  uomini di valore, che gli danno ombra ; gli uomini assennati e morigerati, che sono rivoltati dalle sue immoralità  (àxpaafav xoO pioti -/.al xal xopSaxia|jioOs)   sono da lui cacciati e ridotti a nulla, TrapEwaHa'. xal sv  Ò'jSevò; s!va'. |ispei (ib. 18). Ma pur troppo i fatti  hanno sempre provato che è vana speranza contare che queste ragioni facciano cadere un uomo dal potere. L’esigenza  morale non trova sanzione nella storia e nella politica.]ciores impotentioresque (più sfrenati) reddit ; ut  etiamsi natura tales non sint, necessitate esse cogantur ; multa enim victori eorum arbitrio per quos  vicit, etiam invito, facienda sunt (Ad Div. IV, 9).  E su questo stesso pensiero insiste anche con Cornificio (Ad ©iv. Xil, 18) : “ Bellorum enim civilium hi semper exitus sunt, ut non ea soium fiant,  quae velit victor, sed etiam, ut iis mos gerendus  sit, quibus adiutoribus sit parta victoria . La situazione scaturita dalla vittoria di Cesare  appare a C. un mostruoso sfacelo dell’eticità  pubblica. “ Tutto allora in Roma precipitava a  rovina, religione, costumi, esercito, cittadinanza, popolo, senato, magistrati, privati ; e in quel rovescio  d’ogni cosa umana e divina, poneva i fondamenti  sanguinari la tirannia degli imperatori  . C. vede come non appena Cesare, annientati i  suoi avversari, e rimasto solo sulla scena politica,  ha messo violentemente le mani sullo Stato, e in   Il modo genuinamente italiano di considerare Cesare  è quello che un veramente grande italiano, il Carducci,  ci presenta nei due sonetti II Cesarismo, che cominciano  con le parole, estremamente significanti e pregnanti,  Giove ha Cesare in cura. Ei dal delitto  Svolge il diritto, e dal misfatto il fatto.   Entrambi i sonetti mentano di essere attentemente letti,  con la nota al v. 14 del secondo, che li accompagna. BARZELOTTI (si veda), DELLE DOTTRINE FILOSOFICHE NEI LIBRI DI C.] seguito a ciò “ omnia delata ad unum sunt  (jdd  Div. IV, 9) al punto che Cesare redige in casa  sua, a suo libito, quelli che devono apparire come  senatusconsulta (Ad Div.), si formi un’atmosfera di falsità, di servilismo, di adulazione universale, tanto da parte di privati quanto di enti  pubblici, cosicché non si distingue più il sentimento  sincero dalla simulazione, “ signa perturbantur,  quibus voluntas a simulatione distingui posset «  (Ad Att. Vili, 9);  quell’adulazione e quel  servilismo, che, diventati poi a poco a poco oramai di rito, Lucano, più tardi sotto Nerone, stigmatizza con magnifici versi, facendone risalire  1' inizio appunto al dominio di Cesare :  V Cette abjection de la patrie releva I’ àme de  C. par l’indignation et par la honte. La victoire de  Cesar, au lieu de l’en rapprocher, l’en éloigna. Le succès,  qui est la raison du vulgaire, est le scandale des grandes  àmes (Lamartine, C., Calmati-Levy). È un saggio, poco conosciuto, in cui Lamartine,  in forma simpaticamente piana e scevra da ogni erudizione,  presenta, nella sua nobile luce, e con accenti assai elevati,  la figura di C.. Ne vogliamo, a conferma di precedenti osservazioni, estrarre ancora due passi. “ Les ambitieux, les factieux, les séditieux, les corrupteurs et les corrompus, la jeunesse, la populace et la soldatesque, les  barbares mèmes enrólés dans les Gaules, étaient avec  Cesar. “ Coriolan... n’avait rien fait de plus  monstrueux... et cependant l’histoire a flétri Coriolan et a  déifié Cesar. Voilà la justice des hommes irréfléchis, qui  prennent le succès pour juge de la moralité des événements  (154).] Namque omnes voces, per quas iam tempore tanto  Mentimur dominis, haec primum repperit aetas.   Qua, sibi ne ferri ius ullum, Caesar, abesset,   Ausonias voluit gladiis miscere secures,   Addidit et fasces aquilis et nomen inane  Imperii rapiens signavit tempore digna  Maestà nota (I).   C. vede come, appena risultò che Cesare  era saldamente stabilito al potere, non solo i “sovversivi ma anche gli “ ottimati le vecchie figure   V. 386, —Si avverte che la parola “ imperium   qui non significa il nostro “ impero  ma “ officio pubblico legale Lucano vuol dire che Cesare copri l’usurpazione, assumendo falsamente il semplice nome d’un officio  pubblico legale. Come è noto, è sopratutto col nome di  potestà tribunicia che ( usurpazione si effettuò. Nel libro,  ricco di dottrina e di acume, di G. Niccolint, Il Tribunato della Plebe (Hoepli, 1932) si mostra che 1’impero  si costitui deformando e nell’ istesso tempo assorbendo la  potestà tribunicia. « L'impero non era, in ultima analisi,  che il trionfo della democrazia [più esatto sarebbe dire :  demagogia], e se chi aveva fondato il suo potere sul partito  democratico, non poteva abolire la pericolosa magistratura,  non gli restava che appropiarsela nella sua sostanza, se  non nella forma esteriore... Cosi la temuta magistratura,  nata per difendere la libertà del popolo, che conteneva  perciò elementi di sovranità atti a svilupparsi in tirannide...  costituiva ora l’essenza del potere civile del monarca »  (pag. 1 59). — 11 contegno adulatorio e vilmente opportunistico comincia con gli uomini il cui prototipo è Attico.  “ C’est assurément ce qui nous répugne le plus dans sa  vie ; il a mis un empressement fàcheux à s’accomoder au  regime nouveau  (Boissier, Cicéron et ses amis.] politiche, abili a restar sempre a galla, “ huic se  dent, se daturi sint , sia pure perchè terrorizzati,  sebbene essi ora dicano che lo erano quando ossequiavano Pompeo (Ad Alt.); come essi  se^ venditant  a lui, mentre i'municipi fanno di  lm vero Deum  (ib. Vili, 16), e il grosso del  pubblico sta inerte, passivo, indifferente, non pensa  che alla propria tranquillità (“ otium ), non rifiuta,  come non ha mai rifiutato, nemmeno la tirannide  dummodo otiosi essent, non si  occupa che dei campi, delle ville, dei quattrini,  nihil prorsus aliud curant nisi agros, nisi villulas,  msi nummolos suos  (ib. Vili, 13) ; atonia che  si aggravo ancora più tardi quando diventava po^  tenie Antonio : “ mihi stomachi et molestiae est  populum romanum manus suas non in defendenda   YA/I own, " plaudendo consumere (Ad Att.  AV| . lU- Ma questa prosternazione e adula (I) Anche qui si riscontra un parallelo nella potente  e \ ibrante invettiva di Demostene per l’inerzia dei Greci  del suo tempo. Non e senza ragione (egli dice) che i  Greci una volta avevano a cuore la libertà e ora invece  hanno a cuore la servitù. Gli è che allora (prosegue) vi   iTera^ C ° Sa 'vi  Persian ° e fece la Grecia   def rarH mVlnC |! bl 6 “ T* ® “ mare : ed era la fermezza  (Filla 36 C 37ìT 81 asciavano corrompere e comprare   uiterr di bene ** Gr “   j .',, 1 era un tempo non avere   fil ventre el’ ^ “7 qUa 'Ì la misura della felicità  e il ventre e 1 inguine (xig yaatpl jisxpoOvtsc xaì iole   V ' l0X ° tS Tr ' v £tJ °aqtovtav) l a libertà fu bevuta alla ] zione universale, questo continuo panegirismo ormai diventato di prammatica, non è, per C.,  se non un’universale falsificazione di coscienza,  quella stessa per cui più tardi egli osservava che  i cittadini gementi sotto l’oppressione avevano dato  a Cesare colpevole dell’ orrendo parricidio della  patria il titolo di parens patriae : “ potest cuiquam  esse utile faedissimum et taeterrimum parricidium  patriae, quamvis ìs, qui se eo abstnnxerit, ab oppressi civibus parens nominaretur ?,, {De Ojf.  Ili, 83) . Questa situazione che fa fremere d’orrore C. (2), nella quale egli trova che non c e   salute di Filippo e di Alessandro. E, data questa vostra  viltà e servilità, (dice altrove) è mutile che speriate nella  malattia o nella morte di Filippo : anche se muore, vi  creerete tosto voi stessi un altro Filippo, "ay^Éu; upet;  gxepov OIXiotvov Tìsir/ae-re (Fil.). In questo stesso luogo, volendo C. dimostrare  che l'utile e il giusto non possono distinguersi, scrive fra  l'altro : « Hanc cupiditatem [quella di Cesare di voler  dominare tirannicamente la patria] si honestam quis esse  dicit, amens est ; probat enim legum et libertatem mteritum,  earumque oppressionem taetram et detestabilem glonosam  putat ». Come, aggiunge, può essere ciò utile all usurpatore?  Anche i re legittimi hanno avversari ; « quanto plures ei  regi putas, qui exercitu popuh romani populum ipsum  romanum oppressisset ? Ricco com’era d’un pathos etico affine a quello di  Kant, si intuisce chiaramente dalle sue lettere e dai suoi  scritti che egli sentiva profondamente, come il filosofo  tedesco, che il “ dovere relativo alla dignità dell umanità  in noi, e che è per conseguenza un dovere verso noi piu posto“ non modo pudori, probitati, virtuti, rectis studiis, bonis artibus, sed omnino Iibertati ac   Dh - V. 16), gli appare sopraia!,  basata sulla menzogna e sul falso, perchè sotto  1 adesione, 1 adulazione, l’apoteosi che l’atmosfera  ufficiale orma, impone, circola larghissimamente  quel malcontento e quell’esecrazione generale verso  ì distruttori dello Stato legale, che egli constatava  già precedentemente quando essi avevano iniziata  tale loro opera di demolizione (“ sumiTITJm odium  omnium hominum in eos qui tenent omnia ; mutationis tamen spes nulla Ad Alt. Il, 22). Questa esecrazione generale, sotto le parvenze dell’ossequio più profondo, s’è ora concentrata in Cesare,  il quale, dopo poco tempo di dominio, ormai in  realta persino “ egenti ac perditae multiludini in  odium acerbissimum venerit. Invero,  Cesare stesso sapeva d’essere odiato e di dover  esserlo, sopratutto per la posizione di superiorità  e distanza, così urtante al senso cittadinesco romano, che egli aveva finito per prendere : dopo  la sua uccisione, Mazio racconta a C. che    stess., può esprimersi in modo più o meno chiaro nei  seguent, precetti: non siate schiavi degli uomini: non  permettete che, vostri diritti siano impunemente calpestati  (Dottr. della Virtù). Che è, del resto, il  precetto evangelico : \ii) r £veafre SotW.c- àv&pdmwv (1,   SU V1 ’ 2 ' 3 1 t V Xeu ^ e P t( É Xptaxòs   UylCWXw!]) ^ ” 4Xlv tu r»   G. Reati . Vita parallele di due filosofi  avendo dovuto una volta Cesare far fare anticamera a quest ultimo, aveva detto : se un uomo  come C. deve attendere per essere introdotto  da me e non può a piacer suo parlarmi, “ ego  dubitem quin summo in odio sim  ? (Ad Att.  XIV, 1 e 2) (I).    A proposito dell’uccisione di Cesare. Vi sono molti  i quali pensano che perchè Bruto era stato « perdonato »  da Cesare e poi anzi « beneficato », egli dirigendo « il  tradimento e l’uccisione del suo benefattore », abbia dato  « perfido esempio di cuore ingrato e irreverente » (Corradi). Questa opinione è la tipica prova della completa  mancanza d’ogni senso di ciò che è diritto. Proprio il fatto  che Cesare gli aveva * perdonato », doveva essere per  Bruto una giusta ed onesta ragione di più per abbonirlo.  Bruto aveva preso le armi contro Cesare in difesa dello  Stato legale : dunque conforme al diritto. Decidere sul suo  caso, condannarlo od assolverlo, spettava alle autorità legali  (Senato), non a un individuo. Il solo fatto che non già le  leggi o le autorità legalmente costituite, ma l’individuo  Cesare, potesse a suo beneplacito interrompere o far  proseguire i processi, ordinare condanne o assoluzione,  assolvere Bruto, « perdonare » a Bruto (quasiché condannare  od assolvere, e, peggio, « perdonare », supposto si trattasse  di delitto, fosse di competenza d’un individuo, e quasiché  questo stesso fatto non comprovasse lo sfasciamento dello  stato legale compiuto da Cesare) era una ragione di più  per avversare e condannare legittimamente l’uomo e il  sistema, e per ricorrere ad ogni mezzo onde liberarsene.  — Che, per citare un altro fatto, onde far ritornane Marcello  dall esilio ì senatori abbiano dovuto pregare un individuo,  gettarsi ai piedi d un individuo, dell' individuo Cesare, è  un fatto che doveva legittimamente suonar condanna per  [Era, insomma, la situazione che un filologo italiano contemporaneo descriveva di recente crn  tutta esattezza così : “ La crescente potenza di  Cesare, il quale, dopo la funesta giornata di Farsalo, erigendosi a signore assoluto, e sopprimendo  la libertà della vita politica di Roma, aveva, per  primo, inaugurato la lunga e mostruosa serie degli    questo individuo, che si sovrapponeva in tal guisa alle  leggi : condanna, anche quando « perdonava », perchè  precisamente così dimostrava che dipendeva, non più dalle  leggi assolvere o condannare, ma da lui perdonare o no.  Piena ragione ha Seneca quando in un capitoletto pieno  di considerazioni interessanti circa l’atto di Bruto, dice che  egli non aveva ragione di gratitudine verso Cesare, perchè  questi non aveva acquistato il diritto di fare il bene se  non violando il diritto e perchè chi non uccide non arreca  un beneficio, ma si astiene da un maleficio : in ius dandi  beneficii iniuria venerai; non enim servavit is, qui non  interficit, nec, beneficiun dedit, sed missionem » (De Benef.). Del pari piena ragione ha C., il quale, ad  Antonio, che gli rinfacciava come un benefizio usatogli di  non averlo ucciso al suo sbarco a Brindisi, rispondeva :  questo è lo stesso beneficio di cui potrebbe vantarsi un  assassino per non aver ucciso taluno : quod est aliud  beneficium latronum, nisi ut commemorare possint iis se  dedisse vitam, quibus non ademerint ? » (Fil. II, C. 111).  E si noti ancora che Seneca e Lucano, vivendo entrambi  alla corte di Nerone, il quale, pure, era della casa Giulia,  poterono il primo dare a Bruto la massima delle lodi  facendo dire da Marcello a sè stesso : “ tu vive Bruto  miratore contentus  (Ad Helviam), il secondo  dipingere nel suo poema con smaglianti colori di grandezza morale “ magnanimi pectora Bruti. ] imperatori romani ; la viltà degli adulatori, che  disertavano il partito dei vinti per quello più vantaggioso dei vincitori ; le mene degli ambiziosi,  che, r er trar partito dalle circostanze ad accumular potenza e ricchezze, pullulavano su su dal  fondo di quella corrotta società, come marcida  fungaia dal fondo d’un’ acqua stagnante ; le crudeltà dei prepotenti, che volevano, anche a mezzo  di violenze e di sangue, aprirsi un varco nella  folla dei concorrenti a quella specie d’albero della  cuccagna ch’erano le usurpazioni dei poteri dello  Stato con le loro mille seduzioni e promesse di  dominio e di saccheggio dei beni pubblici e privati ; il vivo cordoglio e l’abbandono sconsolato  in cui vivevano, nell’esilio volontario o non volontario, le anime dei virtuosi e degli onesti, fautori  del partito repubblicano ; tutto insomma contribuiva  a mostrare l’immagine dell’irreparabile catastrofe...  Anziché assopirsi, cresce a dismisura nelle classi  non mai dome nel loro caratteristico orgoglio, il  malcontento per il nuovo regime... La miseria intanto cresce spaventosamente in Roma e nella  provincia ; lo spettro della fame s’aggira nelle  campagne desolate e incolte dell’ Italia ; le classi  medie e il popolino sono ridotti alla miseria ed  alla disperazione... Torme di miserabili si vedono  per ogni dove languire d’ozio e di fame  (I)    U. Moricca, Introd. a C. De Finibus, Torino,  Chiantore,. Ora, tanto appare a C. falsa e menzognera  la situazione che egli è certo che non può durare.  La maschera di clemenza di Cesare e le sue bugie  circa la restaurazione finanziaria (divitiarum in  aerario ) sono cadute; è impossibile che egli e  i suoi, non d’altro capaci che di scialacquare, riescano ad amministrare soddisfacentemente le provincie e lo Stato ; cadranno da sè, per gli errori  propri, “ per se, etiam languentibus nobis,,, “ aut  per adversarios aut ipse per se, qui quidem sibi  est adversarius unus acerrimus  ; questa tirannide  non può reggere sei mesi, “ iam intelliges id regnimi vix semenstre esse posse.   Probabilmente, ciò di cui C. avrebbe sopratutto incolpati i cesariani è che essi cadevano in quell’errore che il Romagnosi descrive così : “ La temerità e  l’intolleranza sono i vizi che sogliono guastare questo procedimento [inventivo dell’ incivilimento). Si pecca di temerità allorché si tentano innovazioni o rifiutate dalla natura  o non preparate sia nei fondamenti, sia dal tempo. Si  pecca d’intolleranza allorché si vuole seminare e raccogliere ad un sol tratto, e però si passa ad infierire contro attriti che da se stessi vanno cessando in forza della  riforma fondamentale già praticata. Siate severi nel mantenere la giustizia, e nel rimanente lasciate operare il  tempo sul fondo ben disposto. 1 vostri stimoli artificiali,  le vostre correzioni minute, invece di giovare nuociono,  invece di affrettare ritardano; e se per caso avrete un  frutto precoce, ne avrete mille falliti » {Dell’ Indole e dei  Fattori dell’ Incivilimento, Avvertimento finale). Auree parole d’uno dei nostri massimi pensatori politici, che andrebbero anche oggi meditate e tenute presenti. Alle] Tale previsione di C. andò incontro ad  nna smentita colossale. Quella “ divinatio  dell’andamento degli eventi che egli, ricavatala dallo  studio e dalla pratica, aveva la coscienza di possedere ( 1 ), qui gli fallì del tutto. E' vero che Cesare quali vanno accostate, sempre ad illustrazione del sentimento politico, che, in quelle perturbate circostanze, si  sprigionava vivo in C., le seguenti: “ guai a quel  popolo, nel quale, spento il punto d’onore, non prevalgono che poteri individuali!  (/,/. di Ciò. FU Giurispr.   T e ° r \. P \ 1,1 C - 1V ): nonché la sua affermazione  dei diritti dell uomo, da lui chiamati originaria padronanza naturale di ogni individuo. Quelli che vennero  appellati diritti dell'uomo formano appunto il complesso  di questa originaria padronanza. L’indipendenza, la libertà  1 eguale inviolabilità e il diritto di difesa e di farsi render  ragione, sono tutte condizioni di questa originaria padronanza  (Lett. a G. Valeri). Cu, quidem divinationi hoc plus confidimus, quod  ea nos mhil in his tam obscuris rebus tamque perturbatis  umquam omnmo fefellit. Dicerem, quae ante futura dixissem,  ni vererer ne ex eventis fìngere viderer. Ad Dio.Exitus, quem ego tam video animo, quam ea quae  ocuiis cemimus. Ad Dio.Tamquam ex aliqua  specula prospexi tempestatem futuram  (Ib. IV, 3). Questa  sicura previsione degli eventi, questo sicuro presentimento,  C. lo possedeva in effetto. Anche nella circostanza  suaccennata egli prevedeva giusto, preveveva cioè quello  che tutto faceva ritenere dover accadere. Se i fatti si svolsero  in senso del tutto opposto alla sua previsione, si può, in  un certo senso, dire che ebbero torto i fatti, non C. Cioè che la realtà è irrazionale e casuale, e che mai vi  tu un periodo di storia che sia stato come quello irrazionale  e casuale.] è ucciso poco dopo e probabilmente lo fu quando  e perchè divenne chiara a tutti l’impossibilità in  cui egli era di dominare la situazione, di riordinare cioè seriamente lo Stato e di soddisfare insieme le brame dei suoi seguaci , cosicché  Mazio — uno dei pochi cesariani onesti, che, come  risulta da una sua nobilissima lettera (Ad T)iv.  XI, 28), non aveva sfruttato Cesare vivo, e che  gli rimase fedele anche morto, e anche durante  quel momento in cui, subito dopo l’uccisione del  dittatore, il cesarismo sembrava crollato e i cesariani in pericolo diceva, deplorandone la morte:   che catastrofe ! non c’è più rimedio ; se lui,  con 1’ ingegno che aveva, non trovava la via d’uscita, (exitum non reperiebat), chi la troverà  ora ?,, (Ad Att. XIV, I ). Ma dopo la morte  di Cesare, come appunto prevedeva Mazio le cose  finirono per peggiorare rapidamente. Anche C. è costretto a constatarlo. Il tiranno perì (egli  dice) ma vive la tirannia (Ad Att.); Va però tenuta presente anche la profondissima  osservazione di Montesquieu : « Il étoit bien difficile que  Cesar pùt défendre sa vie ; la plupart des conjurés étoient  de son parti ou avaient été par lui comblés de bienfaits :  et la raison en est bien naturelle. Ils avoient trouvé de  grands avantages dans sa victoire : mais plus leur fortune  devenoit meilleure, plus ils commen 9 oient à avoir part  au malheur commun : car, à un homme qui n’ a rien, il  importe peu à certains égards en quel gouvernement il  vive » (Grandeur et décadence cfr. XI). ] d siamo liberali dal re dai regno (yìj Di,. ’ /aj' fi marzo non consolano più come  pnma (Ad AH.): " stolta L iZZ  Martmrum consolano, animis usi sumus virilibus  cooubs puenbbus ; excisa est arbor, non avulsa i, fi ; e st . a ‘° Iasc,al ° vi vo in Antonio  1 erede del regno (ih. XIV, 21); si poteva con   piu libertà parlare contra illas nefarias partes   xiv r vivo che non ucci - tó   ' X V ’ 1 : lnfine crebbe meglio che Cesare   vivesse ancora “ nonnumquam Caesar desiderandus. Infatti, la situazione era diventata quale la descrive ad Attico così • “ S ed  vides magistrati ; si quidem illi magistratus'; vides  tyranni satellites m impems ; vides eiusdem exercniis ; vides in latere veteranos. In conseguenza il sistema di governo che C.  prevedeva non poter durare un semestre, durò  invece, continuamente aggravandosi o peggiorando  per quattordici secoli, cioè per quanto visse l’impero bizantino.   Ma la fallacia di questa previste   la torio all. mente di C.. E' la fallacia  propria delle menti profondamente razionali, che  hanno una fede inconcussa nella ragione ; e la  mente di C. era appunto secondo la felice  dennizione che ne dà Io Zielinski, un “ Aufkàrungsvers tand» (I). A codeste menti è impossibile   (I) O. c. P . 147. ammettere che la mostruosità, l’irrazionalità, l’assurdo vengano a tradursi permanentemente nel fatto,  si facciano solida e stabile realtà. "Ciò è assurdo,  quindi è impossibile  ; questo è per siffatte menti  un canone assolutamente insopprimibile, sradicando  il quale essa sentirebbero di strappar le proprie  medesime radici. A cagione della stessa forza della  loro compagine razionale, è ad esse impossibile  riconoscere che il fatto che una cosa sia assurda  non impedisce menomamente che essa divenga  realtà e che anzi quasi sempre nella storia umana  avviene che ciò che all’ inizio la mente scorgeva  come cosa “ assurda », “ pazzesca , implacabilmente ciò non ostante si realizza. Come buon  platonico C. non poteva a meno di essere  fermamente convinto che oòx eattv Sit àv xij |a£r;ov  xoótotj xaxòv TTaìfoi y) Xóyou? (juar^aag (Fed. 89 d.).  Nel logos egli aveva indefettibile fede. Egli scorgeva  dietro a sè, fin dove 1 occhio della memoria poteva  giungere, soltanto governo di popolo. Questo era per  lui una conquista permanente» della civiltà, la civiltà stessa, la civiltà che non può perire. Con tale  forma di governo il suo spirito si era immedesimato ; essa faceva parte essenziale della sua coscienza d uomo, formava il cardine su cui poggiava  tutta la sua vita spirituale. Pensare che tale   [Che tale stato d'animo fosse non solo “ ciceroniano  ma “romano,,, emerge anche da ciò che l’indignazione per la caduta di quella forma di governo si formi potesse crollare e permanentemente scomparire, era come pensare che potesse precipitare  tutto ciò che si è sempre visto stabile, la terra,  il sistema solare, ciò che è l’incarnazione di un’eterna legge della natura. Sempre gli uomini quano si sono trovati in una fase di cangiamento analoga a quella in cui si trovò C. e   tanto più quanto più la loro mente era fortemente  razionale hanno emesso la medesima errata previsione di lui ; ciò è assurdo, quindi impossibile,  quindi non può durare. prolunga sino in S. Ambrogio, in cui, da signore romano  d antica razza quale era, la romanità viveva ancora, “ Hic  erat pulchemmus rerum status, nec insolescebat quisquam  perpetua potestate, nec diuturno servitio frangebatur. Nemo  audebat alium servitio premere, cuius sibi successuri in  honorem mutua forent subeunda fastidia; nemini labor  gravis quem dignitas «ecutura relevaret. Sed postquam dommandi libido vindicare coepit indebitas et ineptas nolle  deponere potestates... continua et diuturna potentia gignit  msolentiam. Quem invenias Hominem qui sponte deponat  impenum et ducatus sui cedat insigne, fiatqe volens numero postremus ex primo ?  {Hexameron, XV).   ...  osa et nota : lo stesso errore, la stessa   illusione— nobilissimo errore ! — troviamo, come già si  e rilevato, in Demostene, il dramma della cui vita fa  esattamente riscontro a quello di C.. Anche Demoj. en  e . p - e - ne,,a seconda Olintiaca prevedeva che la potenza  di rilippo era alla fine ; npÒQ a ùvfjv tfy.ec ~riv teXsut^v  t« «payiiax aòttji (§ 5). E questa previsione era per  lui principalmente fondata appunto sul fatto che una potenza  costrutta sulla malvagità non può durare. Oò yàp gcmv, ] Il dramma, terribile dramma, della vita di C., è appunto questo. II dramma dell’uomo   oìjy. laxiv, u> àvopEg ’Avrjvatoi, àSixoùvta -/.al èruopxoOvxa xa: ^£'joÓ|ìsvov Sóvajuv j3ej3aiav XTiqaaad’at...  xwv jrpà^ewv xàg àp%à<; xxl xàg ÒTtofliaeig àX^S-sT;  xa’. òtxaiag Etvai /tpcaTjxei (§ 10). E nemmeno dieci  anni dopo Filippo trionfava definitivamente a Cheronea.  Ad ogni momento troviamo questi pensieri nelle orazioni  di Demostene, che perciò sono cosi istruttive circa le  illusioni in cui il « razionalismo » induce gli uomini. Ma  neppure la battaglia di Cheronea guarì Demostene dal1 illusione. Plutarco narra che quando Filippo fu assassinato,  Demostene comparve nell’assemblea, raggiante, tpatSpòg,  splendidamente vestito, incoronato : con la morte dell’uomo,  secondo lui, la costruzione improvvisata ed effimera doveva  certo crollare. E quando Alessandro si fece avanti a sorreggerla Demostene rideva di quel ragazzo imbecille, ndsioa  xai |ia T txT)V (Plot., Dem. § 23). Ma la costruzione  fondata sulla perfidia, e che perciò, secondo Demostene,  non poteva reggersi, sboccò invece nel trionfo addirittura  fantastico ottenuto appunto da Alessandro. Gli uomini non  possono rassegnarsi a credere che una politica malvag-a  possa ottenere un successo duraturo, che il male trionfi  permanentemente. Pur troppo, invece, è questa una pia  illusione; e le cose vanno precisamente cosi. E gli astrattisti,   1 « razionalisti », gli spiritualisti, non sanno ricavare dal  male che sotto ì loro occhi permanente trionfa, neppure  quell unico bene che vi si potrebbe ricavare : quello cioè  di essere definitivamente istrutti dell andamento assolutamente arazionale, alogo, ateo, del mondo e della vita.  Chiusi nel loro mondo dei meri concetti, è a quelli e  alle deduzioni da quelli che continuano a credere, anziché  aprire gli occhi ai fatti. < Sapiunt alieno ex ore petuntque  res ex auditis potius quam sensibus ipsis » (Lucr.). che con disperazione vede rovinare intorno a sè  senza possibilità di salvezza il mondo civile di  cui la sua più intima vita stessa era intessuta, il  mondo razionale e trionfare ineluttabilmente, in causa impia, victoria etiam foedior  ( T)e  Off. 11, c. Vili), l’ingiustizia ed il male, una  forma di mondo umano impensabile assurda,,.  11 dramma della coscienza eticamente desta che  vede con orrore ciò che essa giudica aberrazione  morale e iniquità acquistare ufficialmente il carattere di nobiltà, grandezza, elevazione, e avviarsi  a restare definitivamente sotto questo aspetto nella  storia. Quando si fa a poco a poco chiaro nella  mente di C. 1 ineluttabilità dell’evento, quando  egli è ormai costretto a vedere che non c’è più  speranza, a domandarsi: “ quae potest spes esse  in ea republica, in qua hominis impotentissimi  (violento) atque intemperantissimi armis oppressa  sunt omnia ?  (Ad Div. XI); quando deve constatare che “ tot tantìsque rebus urgemur, nullam  ut allevationem quisquam non stultissimus sperare  debeat  (Ad Div.), il suo strazio non ha  confini- Ciò che già precedentemente, quando tale  condizione di cose si delineava, egli cominciava  a sentire, civem mehercule non puto esse qui  temporibus his ridere possit  (Ad. Div.),  diventa ora il suo stato d’animo permanente. La  vita non ha più sorriso : “ hilaritas illa nostra  erepla mihi omnis est. Il suo grido è quello del coro degli Spiriti nel Fausi.   Du hast zerstòrt   Die schòne Welt   Mit màchtiger Faust ;   Sie stiirzt, sie zerfàllt !   Ein Halbgott hat sie zerschlagen !   Wir tragen   Die Triimmern ins Nichts hinuber   Und kiagen   Uber die verlorne Schòne. Questo dramma strappa a C. espressioni  di dolore profondamente dilacerante. E la sua  corrispondenza è forse la lettura più viva che l’antichità e probabilmente la letteratura d’ogni tempo  ci offra, appunto perchè, come in nessun altro scritto, vi si scorge con l’immediata evidenza della vita  vissuta e quasi vedessimo la cosa svolgersi giorno  per giorno sotto i nostri occhi, come sotto quel  dramma sanguini il cuore d’un uomo. Certo anche la  terribilità della sua rovina personale affligge gravemente C.: “ natus enim ad agendum   semper aliquid dignum viro, nunc non modo a gendi rationem nullam habeo, sed ne cogitandi   quidem  (Ad Div.) ; ed egli ha ragione   di deplorare di essere stato travolto proprio nel  momento in cui avrebbe potuto e dovuto, cogliendo  il frutto dell’opera della sua vita, toccare l’apice  della sua carriera. Omnis me et industriae meae  fructus et fortunae perdidisse. “ Casu  nescio quo in ea tempora aetas nostra incidit, ut  cum maxime florere nos oporteret, tum vivere  edam puderet. Certo anche la rovina che incombe sulla sua famiglia e specialmente  sulla sua figlia lo tortura. “ Quibus in miseriis  una est prò omnibus quod istam miseram patre,  patrimonio, fortuna omni spoliatam relinquam  (Ad Att.). Ma ciò che forma il crepacuore  di C. non è la sua situazione personale,  bensì il baratro in cui è precipitato lo Stato.'  “ Sed tamen ipsa republica nihil mihi est carius  (Ad Dio.). Ego enim is sum,  qui nihil umquam mea potius, quam meorum civium causa fecerim. Ma ora ? “ Ego  vero, qui, si loquor de re publica, quod oportet,  insanus, si, quod opus est, servus existimor, si  taceo, oppressus et captus, quo dolore esse debeo ?  (Ad Att.). Due sono sopratutto le note in cui erompe  1 espressione di questo suo strazio. In primo luogo,  andarsene, andarsene dovunque, pur di non veder  più simili cose: “ evolare cupio et aliquo pervenire  ubi nec ‘Pelopidarum nomea nec facta audiam   egli ripete con un tragico antico (Ad Att.); “ ac mihi quidem  iam pridem venit in mentem bellum esso aliquo  exire, ut ea quae agebantur hic, quaeque dicebantur, nec viderem nec audirem  (Ad ‘Dio. ); longius etiam cogitabam ab urbe discedere,  cuius iam etiam nomen invitus audio. Tu mi sembravi pazzo (scrive a Curio) quando  abbandonasti Roma per la Grecia, ora veggo che  sei “ non solum sapiens, qui hinc absis, sed etiam  beatus : quamquam quis, qui aliquid sapiat, nunc  esse beatus potest ?  (Ad Db.). E’ il  desiderio che si fa strada persino nei suoi trattati, p. e. nelle Tusculane, dove parlando di Damarato. Io giustifica cosi : num stulte anteposuit  exilii libertatem domesticae servituti ?  O, se andarsene non si può, almeno ritirarsi in  solitudine : “ nunc fugientes conspectum sceleratorum, quibus omnia redundant, abdimus nos, quamtum licet, et saepe soli sumus  (De Off.).   In secondo luogo, morire. “ Perire satius est,  quam hos videre  (Jd Db.) < Mortem]  quam etiam beati contemnere debebamus, propterea quod nullum sensum esset habitura (I), nunc  [Che cosa pensi intimamente C. della vita  futura, risulta, non già dal quadro, avente scopi puramente  estrinseci, che traccia nel Somnium Scipionis. ma dalla  sua corrispondenza Oltre il passo sopra ricordato, e due  altri, (Ad Dw.) ricordati più innanzi, basterà  citare: « Fraesertim cum impendeat, in quo non modo  ^ or,*. verum finis etiam doloris futurus sit » (ib.  Vi, 4). E anche in altre opere di C. questo suo  vero pensiero si manifesta. Cosi nelle Tusculane:  Mors. aeternum nihil sentienti receptaculum ». Cosi in  Pro Marcello c Q uo d (la fine) cum venit, omnis  voluptas preterita prò mhilo est, quia postea nulla est  futura» Cosi in Pro Cluentio (cap. LXI § 171): «quid  ei tamdem almd mors eripuit, praeter sensum doloris ?]  sic affecti, non modo contemnere debeamus, sed  etiam optare » ( ib. V. 21); la filosofia sembra  < exprobrare quod in ea vita maneam, in qua  nihil insit, nisi propagatio miserrimi temporis > ; non si sa < si aut hoc lucrum est  aut haec vita, superstitem reipublicae vivere >; « nam mori millies praestitit quam haec  pati > (Ad. AH.) ; « eis conficior curis,  ut ipsum quod maneam in vita, peccare me existimem > (Ad Div. IV. 13); « mortem cur consciscerem causa non visa est, cur optarem, multae  causae > (ib. VII, 3). In uno spirito, così profondamente romano, cioè volto all’attività pratica  e civica, la desolazione dello Stato faceva spuntare questo pensiero : « Ipsi enim quid sumus ?  aut cum diu haec curaturi sumus ? » (jdd Att.  XII, li); * quid vanitatis in vita non dubito quin  cogites > (Ad Div.). Cosi, pur nell'atto che  prevede la prossima caduta del cesarismo, dice. Allo stesso modo la pensava Cesare, il quale nel discorso,  riferito da Sallustio, da lui tenuto in Senato circa la pena  da darsi ai complici di Catilina, si oppose alla pena di  morte appunto perchè con questa cessa la coscienza e  quindi ogni male : « Eam cuncta mortalia dissolvere ; ultra  neque curae neque gaudio locum esse» (Cat. LI). Va  però notato che C. dà un’altra interpretazione a  questo punto del discorso di Cesare. Cesare cioè era  contrario alla pena di morte. Egli « intelligit, mortem a  diis immortalibus non esse supplici causa constitutam, sed  aut necessitatem naturae, aut laborum ac miseriarum  quietem esse » (In S. Catilinam).] id spero vivis nobis fore ; quamquam tempus  est nos de illa perpetua iam, non de hac exigua  vita cogitare » (Ad. Att.). E il pensiero della  morte come unico scampo e rifugio viene a grandeggiargli dinanzi in modo, che bene spesso lo  vediamo insinuarsi anche nei suoi scritti teorici :  così, p. e., nel proemio del terzo libro del De  Oratore: sed 11 tamen rei publicae casus secuti  sunt, ut mihi non erepta L. Crasso a dis immortalibus vita, sed donata mors esse videatur > (IH, 2);  e così nelle Tusculane : « multa mihi ipsi ad  mortem tempestiva fuerunt, quam utinam potuissem obire ! nihil enim iam acquirebatur, cumulata erant officia vitae, cum fortuna bella restabant. Morte per sè, morte per coloro che  amiamo ; questo soltanto è ciò che lo « status  ipse nostrae civitatis » ci costringe a desiderare :  « cum beatissimi sint qui liberi non susceperunt,  minus autem miseri qui his temporibus amiserunt,  quam si eosdem, bona, aut denique ahqua republica,  perdidissent... non, mehercule, quemquam audivi  hoc gravissimo, pestilentissimo anno adolescentulum  aut puerum mortuum, qui mihi non a Diis immortalibus ereptus ex his miseriis atque ex iniquissima  conditione vitae videretur > (Ad Div.V. 16).   Ne solo nell animo di C. il trovarsi « in  tantis tenebris et quasi parietinis rei publicæ induce il desiderio di sfuggire a  questo sfacelo con la morte ; ma tale sentimento  era certo diffuso. Nella bellissima lettera con cui    G. Renai • Vita parallele di due filosofi] Servio Sulpicio cerca di consolare C. per  la morte della figlia, 1 argomento principale che  egli fa valere e, nelle circostanze presenti, “ non  pessime cum iis esse actum, quibus sine dolore  licitum est mortem cum vita commutare  e che  Tullia visse finché visse lo Stato, “una cum republica fuisse  (Ad Dio.) ; al che C.  dolorosamente risponde che l’attività pubblica lo  consolava dei dolori domestici, l’affettuosa intimità  con la famiglia delle traversie pubbliche, ma ora  “ nec eum dolorem quem a re publica capio domus iam consolari potest, nec domesticum res publica. Ed anche in Catullo, il disgusto invincibile suscitatogli dai “ turpissimorum  honores , disgusto che faceva gemere dal suo  canto C., cosi ; “ o tempora ! fore cum dubitet Curtius consulatum petere ?  (Ad Att. XII,  49, e circa Vatinio II, 9) suscita 1’ aspirazione  alla morte (LII) :   Quid est, Catulle ? quid moraris emori ?   Sella in curulei struma Nomus sedet,   Per consulatum peierat Vatinius ;   Quid est, Catulle ? Quid moraris emori ? Donde attinge C. qualche conforto in  questa immensa iattura ? Non dal foro che egli  (interessante confessione) dichiara di non aver mai  amato e nel quale del resto oggi non c’è più nulla  da tare : “ quod me in forum vocas, eo vocas,  unde, etiam bonis meis rebus, fugiebam : quid enim  mihi cum foro, sine iudiciis, sine curia ?  (Jld  Jltt. XII, 21). Era il momento in cui i vincitori  della violenta lotta politica, giravano per Roma  baldanzosi ed allegri, e i sostenitori dello Stato  legale, battuti, erano melanconici : “ Mane salutarne domi et bonos viros multos sed tristes,  et hos laetos victores, qui me quidem perofficiose  et peramenter observant  {Ad Div.). Due  di essi, anzi, Irzio e Dolabella, si erano messi a  prender lezioni d’eloquenza da lui, o forse, con  questo pretesto, lo sorvegliavano per conto di Cesare. Anche queste lezioni recano a C. qualche sollievo {yld Di\>. IX, 18). In maggior misura, egli ne ricava dal far udire, quando e come  era possibile, qualche parola di ammonimento. Così,  pur avendo risoluto di non più parlare in Senato,  allorché sulla universale istanza di questo, Cesare  amnistia Marcello (che non aveva fatto nessun  passo per essere richiamato e sembrava non desiderarlo  e che fu, del resto, assassinato da un  suo impiegato nel momento in cui stava per partire alla volta di Roma), C. prende la pa (0 La voce dei gaudenti sfruttatori di situazioni immorali rinfaccia sempre a coloro che le condannano, come  un torto, di essere afflitti o melanconici. Cosi quella voce  si fa udire, secondo Seneca : c Istos tristes et superciliosos  alienae vitae censores, suae hostes, publicos paedagogos  assis ne feceris » (Ep.). ] rola per ringraziare il dittatore ; ma sa anche attraverso i ringraziamenti esporgli il parere più  libero e ^coraggioso che forse mai Cesare abbia  sentito. “ Quodsi rerum tuarum immortalium (egli  ha 1 ardue di significargli) hic exitus futurus fuit,  ut devictis adversariis rem publicam in eo statù  relinqueres, in quo nane est, vide quaeso, ne tua  divina virtus admirationis plus sit habitura quam  glonae . (Pro Marc. Vili). Tu devi, egli incalza,  preoccuparti della vera gloria, del giudizio che daranno i posteri sulle tue azioni, saper considerare  ciò che tu fai, non cogli occhi abbacinati dei contemporanei, ma con quelli di coloro che giudicheranno le cose a distanza, nell’avvenire. Se tu non  avrai ristabilito la vera legalità nello Stato, tu sarai certo sempre ricordato, ma non con giudizio  concorde : “ erit inter eos etiam, qui nascentur,  sicut mter nos fuit, magna dissensio, cum alii laudibus ad caelum res tuas gestas efferent, alii fortasse ahquid requirent, idque vel maximum, nisi  belli cmlis incendium salute patriae restinxeris, ut  illud fati fuisse videatur, hoc consilii. E questo un nobilissimo linguaggio da cittadino  onesto e d’animo forte ; linguaggio che, bisogna  riconoscerlo, Cesare sa ascoltare, come altri e ben  più vivaci attacchi contro di lui, con tolleranza ed  equanimità, “civili animo,, (Svet,, Caes., 75). Anche C. nella sua corrispondenza talvolta  constata che Cesare andava orientandosi a mitezza. P. e.:] L intolleranza, 1 oppressione, 1 uso del potere per  far tacere censure al detentore di esso, e persino  per impedire di rispondere agli attacchi, comincia  con Augusto ; ed è ciò che fa uscire Asinio Pollione (lo stesso, alla nascita del cui figlio il servile  Virgilio, pronto a vendersi a tutti i potenti e a  prostituire poi il suo genio a colui che tra questi  occupa nella storia per bassezza e nequizia uno degli nam et ipse, qui plurimum potest, quotidie mihi delabi  ad acquitatem et ad rerum naturam videtur  Ad Dio.  VI, 10!, Che cosi fosse (ed è la stessa cosa che accadde  con Augusto) è naturale, perchè, se un uomo non è straordinariamente perverso, il suo grande successo e trionfo  personale lo rende incline alla benevolenza verso gli altri,  a diffondere anche intorno il sentimento di felicità che il  successo gli dà. Solo un uomo dal cuore fondamentalmente malvagio nel suo più pieno e grandioso trionfo,  quando ogni cosa gli va a seconda, diventa sempre più  duro e crudele, e non è pago se non condisce quel trionfo  col darsi la sensazione di poter a suo beneplacito tormentare, perseguitare, far soffrire altri uomini. Tale era  Siila, secondo le parole che Sallustio mette in bocca ad  Emilio Lepido : Cuncta saevus iste Romulus, quasi ab  externis rapta, tenet, non tot exercituum clade neque consuhs et aliorum principum, quos fortuna belli consumpserat, satiatus : sed tum crudelior, curri plerosque secundae  res in miserationem ex ira vertunt  (Hist. Fragni.). Raramente, si, ma però talvolta avviene che un uomo, favorito dalia più straordinaria fortuna, diventi sempre più  bramoso di far del male agli altri. “ Felicitas in tali ingenio avaritiam, superbiam ceteraque occulta mala patefecit  (Tac., Hist.] Itimi posti, Ottavio, dedica la sconciamente  cortigiana e piagg.atr.ee Egloga) nell’elegante  epigramma, riportato da Macrobio (Satura II 4)  che non si può più scrivere dove in risposti si  può proscrivere : temporibus triumviralibus PoIIio  cuna fescenmnos,n eum Augustus scripsisset, ait:   g taceo ; non est emm facile in eum scribere  qui potest proscribere (2)   Più ampio conforto ricavò C. dagli studi,  bbene una volta fuggevolmente accenni che forse  senza la sua cultura sarebbe più atto a resistale!  exculto emm animo nihil agreste, nihil inhuma- Si vegga nel libro diV. Alfieri D»/ p •, »    I  J1 '> e la dimostrazione che questa   viltà ha in Virg.ho guastato l’arte. “Quella parte divTna  e ha per base il vero robusto pensare e sentire tm-,1  niente manca in VIRGILIO (si eda)  (L.) “ V  -esse avuto nell’animo quella   P napesco, assai maggiore sarebbe stato egli stesso e  quindi assai maggiore il suo libro  (L. II C VI •  vegga anche il C. Vili) E il Canti 1 . Ci  j ;•, C S ‘   uh. ed. I. 582 n 94.«V- r ÌU '. Sorla de S^ Italiani, V l D VIRGILIO (si veda) si lascia traricchire anche Boissier, Lopposition sous tes Césars p. I3Ì”   RnU 1 j- qUe f°, . t epigramma ’ senza citare la fonte il   Les e Rom P - r0ba . b,,mente a memor ia, la seguente versione:  Les Komains disaient avec raison qu’ il est rare mi’ num est . (Ad Alt.) ; e sopratutto dallo  studio della filosofìa, la passione per la eguale '’quotidie ita ingravescit, credo et aetatis maturitate ad  prudentiam et his temporum vitiis, ut nulla res alia  levare animum molestiis possit.  (Ad Dio. IV, 4).  Le sue lettere di questo periodo sono piene delle  sue attestazioni che non vive se non negli studi  filosofici e non trae conforto che da essi. Ad aumentare  questo conforto, ad aiutarlo a stornare il pensiero  dalle calamita dello Stato, s aggiunge la sua attività di scrittore. Sono questi gli anni della sua  intensa e feconda produzione filosofica. Nisi mihi  hoc venisset in mente, scribere ita nescio quae,  quo verterem me non haberem  (Jld Alt.) Equidem credibile non est, quantum scribam  die, quin etiam noctibus, nihil enim sommi. “ Nullo enim alio modo a miseria quasi  aberrare possum. Vero è che le  afflizioni e le ìnquietitudmi, I incertezza dell’avvenire, derivanti dal pessimo andamento degli affari  pubblici, non permettono piena pace nemmeno nello  studio : Utinam quietis temporibus, atque aliquo,  si non bono, at saltem certo statu civitatis, haec  inter nos studia exercere possemus !  Però, appunto in tali circostanze, “ sine his cur vivere velimus ?  (Ad Dio. IX, 8). Così nascono i trattati di filosofia di C., circa i quali si cita  sempre per aiutare a deprezzarli la fuggevole frase  “ sono copie  cascatagli dalla penna scrivendo al suo amico e certo come convenzionale espressioni   t Xlì Vf fr ° nte j 1Iammiraz ' on e di lui (Ad  X ’ ’ ma 51 dimentica di affrontare tale  fra e con le sue numerose e consuete esternaziom  dalle quali risulta che ben altra era la stima ch’egli   off" 3 de ‘ pr0pr ;. scrltti ' “ Res difficiles  (ib. XII  38) egli dice di star scrivendo ; quanto alle Jìc G Q rto -5 C ° nVInt,° “ U ‘, Ìn f3lÌ 8 enere ne aVud, cos quidem simile quidquam   le chiama “ argutolos libros  ^ XIli.Y 8,00^   XIII 19? ac n ra ? posset supra ” r/4. ); 1 libri del De Oratore gli sono “ ve  hementer probati (ib.) e così il De Finibus ib   ?AJ ÀI XvT i, soddisfa Attico   bl v ’ im7 e M) e l0ra,OT L'P'a (M   AA- (  eSpnme anehe,a sua Propria   soddisfazione per queste due opere ; » mihi vakle   pbcent, maHem tibi dice dei libri, perduti d!  Giona (Ad Ali). In particolare, i| e  sua opere filosofiche le Tusculane, che facilmente  si prendono per un mero esercizio letterario, sono invece un libro profondamente vissuto, rampollato  da a tragica realtà di vita i cui C." si dibatteva e che come tale, come idoneo cioè a fornir conforto e forza in quelle circostanze doveva  essere generalmente sentito, e certo da Attico se  C. gl, scrive : “ quod prima disputatio Tuscu ana te confirmat, sane gaudeo : neque enim  ndhim est perfugium aut melius aut paratius (XV, 2 e v. anche XV, 4). Bel libro, che in  ogni epoca, nelle medesime circostanze da cui  esso è nato, è servito allo scopo per cui era stato  scritto : “die Eroica der romischen Philosophie   come con calzante espressione lo definisce lo Zielinski. Ma il supremo conforto di C. è  un altro. Esso consiste non tanto nell’ immergersi nella  filosofia come un’occupazione mentale opportuna  a distornare il pensiero da quello che poi Lucano,  il grande poeta anticesariano, definirà “ ius sceleri  datum, quanto nel rivivere in sè i concetti della filosofia come atti a fornire forza d'animo per affrontare e sopportare le sciagure derivanti da una situazione politica e sociale particolarmente triste : filosofia cioè non come “ostentationem scientiae, sed legem vitae  ( Tusc.).  Anche in lui, per usare l’espressione di cui poi si  servì Marco Aurelio zi 5 óypaia. Giustissimamente Moricca. Saremmo forse anche noi tentati di ritenere l’operetta tulliana un’amplificazione rettorica, se non pensassimo che  quelle parole... furono scritte per una generazione d’uomini... nelle cui orecchie esse... andavano diritte al cuore . Un libro di morale dell’epoca di C. è da considerarsi non come una fredda e vuota argomentazione  rettorica bensi come un’eco squillante delle voci del passato, che sale dalle tombe e vince i secoli. Secondo il testo di Trannoy, Les Belles Lettres. bisogno di vivere tali precetti A' i,• .  ventar succo e sangue e il f T l d ‘ faHl dl  gere a ciò, C. Lnl f" 0 S ° rZ ° per 8 iun '  maniera singola,«sima, scnVoSo^v"' 0 i'I “ na  consolazione a se stesso “ D • Un ^ ro dl  profecto anfe me TeZ. ^Z 'T   consolarer ; que m librum jf . me per i‘ tera s  serint librari; affirmo tibi^nuLm” 3 " 1 S ‘,^'P'  esso talem ; totos die® U c °nsolationem   quid, sed t n^sper 1 C ;,b ° 5 T“ qU ° proflci ™  XII 14) p t,sper im P e dior, relaxor  (Ad 4tt  'a ll'Tlzr ™ di r'*   d«e meditazioni morali!^ e8mam0 le Mslre   '4«fr-r v lLStó et,r°d servire 4   stoicismo, di cui poi in,CaZI ° ne Pra ' ÌCa de,, °  e d oppressivi, uomm Lme° Tm "p" ^ tehi   vid.o Prisco fornirono ° Peto ed EI ’   e che successivamente si anc ° Ta p ‘ù insigni, .1 hiosofo :z :L: r, ai ^   cristiano, il sacerdnie • ’ p ° SCIa> n el mondo   ci i,Tat' e ' x:; a ” d f «   molti tenevano costantemente in d m ° nre ’ anZI  rettoredi coscienza e confortatore, iHoro ZofoOX. Plauto, fatto morire da Neron» •  mi istanti assistito e confortato dai “ / V ‘ ene " ei 3U0 ' u,tl  Cerano e Musonio (Tac., Ann. XwTv)), Trlse^’’] O Socrates et socratici viri ! (esclama C., qui, veramente riguardo a traversie di carattere privato). Numquam vobis gratiam referam Un immortales quam m ihi ista prò nihilo,, (Ad Alt.  XIV, 9). Attico (egli scrive al suo liberto e segretario Tirone) mi vide agitato, crede che sia sempre lo stesso, “nec videt quibus presidii philosophiae  septus sim  (Ad Div.). La disperata  e rovinosa condizione dello Stato “ quidem ego  non ferrem nisi me in philosophiae portum contulissem  (ib. VII, 30). “ Equidem et haec et  omnia quae homini accidere possunt sic fero ut  philosophiae magnam habeam gratiam, quae me  non modo ab sollecitudine abducit, sed etiam contra omnes fortunae impetus armat, tibique idem  censeo faciendum, nec, a quo culpa absit, quidquam m malis numerandum  (Ad Di\>.)   E noi vediamo veramente questo pensiero centrale  dello stoicismo, cioè lo sforzo di distornare il  proprio interesse da ogni cosa esteriore per concentrarlo unicamente nel nostro comportamento, e  m ciò trovare appagamento e pace (questo, come  si può chiamare, ottimismo della disperazione, che  e il solo che resta nei momenti di maggiormente  infelici condizioni esterne, perchè vuole appunto,  riconoscendo tale inguaribile infelicità, trovare an  Demetrio: e Seneca dice di Cano.  dato al supplizio da Caligola, “ prosequebatur illuni  Losophus suus  (De Tranq. An.).  man phi- ] cora una tavola di salvezza), vediamo questo pensiero centrale dello stoicismo svelarsi sempre più  chiaro agli occhi di C. e proprio come postogli innanzi delle circostanze di fatto. “ Sic enim  sentio, id demum, aut potius id solum esse miserum quod turpe est  (Ad Att. Vili, 8 e v.  anche X, 4). “ Video philosophis placuisse iis  qui mihi soli videntur vim virtutis tenere, nihil esse  sapientis praestare nisi culpam  (Jld Dio. IX, 19).  Cogliamo il procedere di questa appassionante tragedia, per cui un uomo di indole ilare e disposto  a gioire delle cose, degli spettacoli naturali, delI arte, della letteratura, delle relazioni sociali, delI attività pubblica e anche della ricchezza, è, a  poco a poco, dal rovinio politico, risospinto entro  se stesso e costretto a vedere e cercare la felicita soltanto nel proprio retto comportarsi. Le  meditazioni filosofiche (scrive a Varrone) ci recano ora maggior frutto “ sive quia nulla nunc in  re alia acquiescimus, sive quod gravitas morbi  tacit, ut medicmae egeamus eaque nunc appareat,  cuius vim non sentiebamus cum valebamus (Ad  r i0 ’ IX> 3 \ Naturalmente con questo alto sentimento a cui C. è ora pervenuto, il pensiero della morte, qui fonte anchesso di consolazione e forza, viene a intrecciarsi. “ Nunc vero,  eversis omnibus rebus, una ratio videtur, quicquid  e veni t ferre moderate praeserlim cum omnium rerum  mors sit extremum magna enim consolatio est cum  recordere etiamsi secus acciderit te tamen recta vereque sensisse (Ad Div.). “ Nec enim  dum ero angar alia re, cum omni vacem culpa ;  et si non ero, sensu omnino carebo  (ib. VI, 3)  Il crollo dello Stato è cosa gravissima, “ tamen  ita viximus et id aetatis iam sumus, ut omnia quae  non nostra culpa nobis accident, fortiter ferre debeamus  (Jld Div.).   E tali pensieri, tali alti ed austeri conforti ed  incoraggiamenti, i grandi spiriti di quel periodo si  scambiavano tra di loro, prova, sia di quanto il  dolore per la catastrofe dello stato era largamente sentito, sia dell’estensione che a lenimento di  questo dolore siffatto ordine di pensieri allora aveva preso. È la genuina visuale stoica a cui i nefasti  avvenimenti politici ha tutti guidati. Non aliundo pendere, nec extrinsecus aut bene aut male vivendi suspensas habere rationes (Ad Div.). Se C. ad ogni momento ripete di sè  quidquid acciderit, a quo mea culpa absit, animo forti feram (Ad Div.), nec  esse ullum magnum malum praeter culpam. Sed tamen vacare culpa magnum est  solatium. Se per sè pensa -- fortunato, quam existimo levem et imbecillam, animo firmo et gravi, tamquam fluctum a saxo frangi  oportere. Se l’esperienza di quella  dolorosissima fase lo fa approdare alla definitiva conclusione che -- in omni vita sua quemque a recta  conscientia transversum unguem non oportet discedere (Ad Att.) — queste sono amici, « a Lucccio  humanas contemnentem et opule Cont r 7  c g  vi  {Ad0 7   casu, et deiicto h Z,n non aP r l “ 1U,piludi ”' non  veri  (ih V |7) ’ M a i ° rum ln,una commo Pme.;/ cu,pl'ai picca,tT'° ; " “ÌJ   digni et Ss TstrrdublteTo; ea maxime conducant ! P ° SSimus) : e a Torquato ‘ ‘ f T Tectl8s  (A.   praesertim quae absit a   ancora a Torauato  “ P ) e   delio Stato) vereor ne I ^ n 3 ' (,a rovina  teperiri, praete, i|| am q “ a TtaMa"e“ “ P °7   “r: e, atque noTZIt,»   questi sentimenti ogni IralToìtTd' !“l “ 7 ° a  anch’egli aveva bisogno ’’No|!\e oh 7 ?   scrive Sulpicio in morte di Tullia) Cicerón  1 et eum aui a Ine ' '-',cer °nem esse  ' 3l,,S COnsuer,s Praecpere et dare conIli    silium quae alns praecipere soles, ea tute tibi  subirne, atque apud animum propone; vidimus aliquotiens secundam pulcherrime te ferre fortunam  fac ahquando intelligamus adversam quoque té  aeque ferre posse. Dalle lettere di C. si potrebbe così ricavare un antologia di massime di vita stoica da  servire efficacemente in ogni tempo al ripresenarsi di analoghe circostanze (e tale è forse sopratutto la ragione per cui queste lettere suscitarono  in ogni tempo I ammirazione, anzi il culto di nobili animi), pm efficacemente ancora che non i suoi  trattati, come le Tusculane e il De Officiis, ove  egli dava sistemazione teorica alle medesime idee  1 qual, però appunto perchè non contengono se’ non quelle dee morali che, suscitate in C.  dalle vicende di ogni giorno, riempiono la sua corrispondenza, ci si ridimostrano, non mere esercitazioni letterarie, ma anzi libri cresciuti su dalla  vita vera e scritti col sangue che le ferite inferte  da questa facevano stillare dal suo cuore. « Herzenphilosophen > chiama giustamente C. lo]  Plutarco racconta (Oc 49) che un giorno OTTAVIANO essendosi accorto che un suo nipote scorgendolo nascondeva impaurito un libro sotto la  oga, glielo prese, e visto che era di C. ne  lesse un tratto, poi lo reshtui al ragazzo, dicendo •  uomo dotto e amante della patria, Xó r,o : *vl'  ?. «rat, io T,o £ *«l Tardo (come al so’   hto) riconoscimento del meriti di colui che egli aveva raggirato, tradito, abbandonato al carnefice Ma  C. e qualcosa di più. Spirito altissimo e   st'anzetn m n “'T'? 1 "” da »! le circoero \  j " 6 r 1 ' **' vivere, espres.   sero, m ragione di tale sua sensibilità, una soma   d dolore enorme, egli seppe da questa esperienza  d, dolore trarre un-espenenza morale di elevazione   e di purificazione del dolore stesso nel fuoco della  filosofia intesa come via, di cui molti e b   dTrendl' ' aPaC '' QUeS '° * P a,ll “ la "”ente ciò  che rende appassionatamente attraente la sua grande   figura alla quale veramenle-secondo un penTero   che trova eco sino m Giovenale (Vili, 243)-e   Roma' ltf !a " “ u la 8erva arl “lazione lo dava   Sr p a,t a, a, ' ebl> ' a,hibl,Ì, ° N di ' P ad Sed Roma parentem, Roma patrem patriae C.m libera dixit. Platone  Ultime pubblicazioni dello stesso Autore Pesco Piente Fu, un [Mi|an0i CogliariJ.  f? Ap ° r ' e Jella R'Hgiont [Catania, - Etna 1  Motwl Spirituali Platonici [Milano, Gilardi e Noto]   nSTT, d ' W Jr aZl0nalim0 |N«poli. Guida],  Materialismo C c0 [R om ., CaS a Pagine di Diario : Scheggio [Rieti, Biblioteca Editr.J,  Cicute [Todi, Atanórj.   Impronte [Genova, Libt. Ed. Italia]  Sguardi [Roma. La Laziale],   Scolli [Torino, Montes, 1934], Imminenti : Critica deir Amore e del Lavoro [Catania.  Critica della Morale [Catania, “ Etna ..Etna.   Achilli, A., et al. 2007. "Mitochondrial DNA variation of modern Tuscans supports the Near Eastern origins of Etruscans." American Journal of Human Genetics 80:759-68.  Adams, Douglas Q. 1988. Tocharian Historical Phonology and Morphology: New Haven: American Oriental Society.  - 1999. A Dictionary of Tocharian B. Amsterdam: Rodopi.  Adams, D(ouglas] Q. and J. P. Mallory, eds. 1997. The Encyclopedia of Indo-European Culture. London: Dearborn.  -, eds. 2006. The Oxford Introduction to Proto-Indo-European and the Proto-Indo-European World. Oxford: Oxford University Press.  Adams, J. N. 1977. The Vulgar Latin of the Letters of Claudius Terentianus (P. Mich. VIII, 467-72). Manchester: Manchester University Press.  Wackernagel's Law and the Placement of the Copula esse in Classical Latin. PCPhS Supplement 18. Cam-bridge: Cambridge Philological Society. Wackernagel's Law and the position of unstressed personal pronouns in Classical Latin." Transactions of the Philological Society 92:103-78. . 1996. "Interpuncts as evidence for the enclitic character of personal pronouns in Latin." Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik Bilingualism and the Latin Language. Cambridge: Cambridge University Press. .. 2007. The Regional Diversification of Latin 200 BC-AD 600. Cambridge: Cambridge University Press.  Adiego Lajara, Ignacio-Javier. 1992. Protosabelio, Osco-Umbro, Sudpiceno. Barcelona: Promociones y Publicaciones  Universitarias de Barcelona.  . 1993. Studia Carica: Investigaciones sobre la escritura y lengua carias. Barcelona: Promociones y Publicaciones Universitarias. . 1999. "Sobre la correptio iambica del drama latino arcaico." In Estudios de métrica latina, ed. Jesús Luque Moreno and Pedro Rafael Díaz y Díaz, 1:55-67. Granada: Universidad de Granada. . 2001. "Lenición y acento en protoanatolio." In Anatolisch und Indogermanisch: Akten des Kolloquiums der Indoger-manischen Gesellschaft, Pavia, 22.-25. September 1998, ed. O. Carruba and W. Meid, 11-18. Innsbruck: Institut für Sprachen und Literaturen der Universität Innsbruck. The Carian Language. Leiden: Brill. Agostiniani, Luciano. 1977. Iscrizioni anelleniche di Sicilia: Le iscrizioni elime. Florence: Olschki.  Contribution à l'étude de l'épigraphie et de la linguistique étrusques." LALIES 11:37-74. . 1992b. "Les parlers indigènes de la Sicile prégrecque." 11:125-57. . 1995. "Sui numerali etruschi e la loro rappresentazione grafica." AION(ling) 17:21-65. . 1997. "Sul valore semantico delle formule etrusche 'tamera zelarvenas' e 'tamera Sarvenas." In Studi linguistici of-ferti a Gabriella Giacomelli dagli amici e dagli allievi, [ed. Amalia Catagnoti et al.], 1-18. Padua: Unipress. La defixio di carmona (Siviglia) e lo sviluppo dei nessi consonantici con /j/." In Italica Matritensia: Atti del IV Convegno SILFI: Società internazionale di linguistica e filologia italiana (Madrid, 27-29 giugno 1996), ed. Maria Teresa Navarro Salazar, 25-35. Florence: Cesati. . 2003. "Le iscrizioni di Novilara." In I Piceni e l'Italia medio-adriatica: Atti del XXII Convegno di studi etruschi ed italici, Ascoli Piceno, Teramo, Ancona, 9-13 aprile 2000, 115-25. Pisa: Istituti editoriali e poligrafici internazionali. Ahlquist, Helge. 1909. Studien zur spätlateinischen Mulomedicina Chironis. Uppsala: Berling Albright, Adam. 2005. "The morphological basis of paradigm leveling." In Paradigms in Phonological Theory, ed. Laura  Downing, Tracy Alan Hall, and Renate Raffelsiefen, 17-43. Oxford: Oxford University Press.  Allen, W. Sidney, 1953. Phonetics in Ancient India. London: Oxford University Press.  1973. Асселі ad Rhyriam: Prosodic Features of Latin and Greek. A Stady in 'Tneury and Reconstruction. Cambridge: Cambridge University Press. 1978, Vox Latina: A Guide to the Prononciarion of Classical Latin. 2nd ed. Cambridge: Cambridge University Press. 1987. Vax Grueca: A Guide to the Prominciation of Classical Greek, 3rd ed. Cambridge: Cambridge University Press. Alvar, Manuel, A. Lorente, and G. Salvador. Atlas linguistico y etnográfico de Andalucia. Granada: Universidad  de Granada, Consejo Superior de Investigaciones Cientificas.  Alvar Ezquerra, Manuel. 1999. Atíns lingiistico de Castilla y León. Valladolid: Junta de Castilla y León, Consejeria de  Educación y Cultura.  Alvarez Rodríguez, Adelino, 2001. El futuro de subjantiva: Del lurin al romcnce. Málaga: Analecta Malacitana.  Amadasi Guzzo, Maria Giulia. 1990. Iscrizioni fenicie e puniche in ftait Rome: Libreria dello Stato.  Andersen, Paul Kent. 1983. Word Order Typology and Comparative Constructions. Amsterdam: Benjamins.  André, Jacques, 1978. Les mats à redoublement en latin. Paris: Kliocksieck.  Anglade, Joseph. 1921. Grammaire de lancien provenptl, ou ancienne langue doc. Paris: Klincksieck.  Anteiter, Peter, and Erzsébet Jerem, eds. 1999, Studia celtica et indogermanica: Festschrift für Wolgang Meid zum 70.  Geburtstag, Budapest: Archaeolingua.  Antonsen, Elmer H. 1975, A Concise Grammar of tire Oider Runic buscriptions. Tübingen: Niemeyer.  Anttlia, Raimo. 1972. An Entrocluction to Historical and Comparative Lingwistics. New York: Macmillan:  Arad, Maya. 2003, "Locallty constraints on the interpretation of roots: 'The case of Hebrew denominal vers." Natural  Language and Linguistic Theury 21:737-78.  Arapojanni, Xeni, Jöeg Rambach, and Louis Godart, 2002. Kavkania: Die Ergetnisse der Ausgrabung von 1994 muf dem  Hilgel von Agrilitses, Mainz: von Zabern.  Arce-Arenales, Manuel, Melissa Axelrod, and Barbara Fox, Active voice and middle diathesis." In Fox and  Hopper 1-21.  Arena, Renato, Iscrizioni greche arcaiche di Sicilia e Magna Grecia. Milan: Cisalpino-Goliardica.  Arias Abellán, Carmen. 2002. "Les dérives latins en -arius." In Kircher-Durand 2002, 161-84.  -, cd. 2006. Latin vulgaire, latin tardif VII: Actes du Vilême Colloque international sur le latin vulgaire et tardif. Seville: Universidad de Sevilia.  Arnold, The teratination -ersis." Clussical Revlew 3:201-2.  Aronofi, Mark 1994. Morphology by Itself Stems and infiectional Classes. Cambridge, MA: MIT Press.  Aronoff, Mark, and Kirsten Fudemao. 2005. What is Morphology? Malden, MA: Blackwell.  Aruma, Peetec, Ursiavische Grammatik: Binführung in das vergleichende Studium der slavischen Sprachten.  Heidelberg: Winter.  Ascoli, Zur lateinischen Vertretung der indogermanischen Aspicaten" Zeitschrift für vergleichende  Sprachforsching 17241-81, 321-53.  - 1873. "Saggi ladini" Archivio giottologico italiano Attenni, Luca, and Daniele Maras. Materiali arcaici dalla collezione Dionigi di Lanuvio ed il più antico alfabetario latino." Studi etrusciti Aura Jorro, E 1985-93. Diccionario micénico. Madrid: Consejo Superior de Investigaciones Cientificas, Instituto de  Piblogia  Bader, Françoise, 1962. La furmation des composés nominaux du latin. Paris: Belles Lettres.  -, ed. 1994. Langues insio-européennes. Paris: Centre national de la recherche scientifique.  Bakker, Egbert, 1994. "Voice, aspect and Aktiansart: Middle and passive in Ancient Greek." In Fox and Hopper 2347.  Bakkum, Gabriel Cornelis Leonides Maria, 2009. The Lutin Dialect of the Ager Faliscus: 150 Yeirs of Scholership. University of Amsterdam. Amsterdam: Amsterdam University Press.  Baldi, Remarks on the Latin r-form verbs" Zeitschrift für vergleichende Sprachforschung The Foundatians of Latin, Berlin: de Gruyter.  Balles, Die lateinischen Adjektive auf -idus und das Calandsystem" In Tichy, Wodtko and Irslinger Latein, Altgriechisch. Vol. 1 of Nominale Wortbildung des Indogermonischen in Grundzigen: Die Wortili- dungsinuster augewähiter indogermanischer Eincelsprachen, ed. Rosemarie Lahr. Hamburg: Kovne.  Ballester, Xaverio, 1996. Fonemática del latin clísico. Zaragoza: Departamento de Ciencias de la Antigüedad.  Fonemática de /u/ en latin." Faventia La tipologia y la fonologia latina." In IX congreso español de estudios clásicos, ed. Francisco Rodriguez Adra-dos, 33-20. Madrid: Sociedad española de estudios clásicos.  Bammesberger, Alfred. 1984. Lateinische Sprachwissenschaft. Regensburg: Pustet. Der Aufban des germanischen Verbalsystems. Heidelberg: Winter.  Die Morohnlogie des urgermanischen Nomens, Heidelberg: Winter. , ed. 1998. Baltistik: Aufgaben und Methoden, Heidelberg: Winter. Altenglisch eard/eart "(thou) art" und Johannes Schmidts Beitrag zur Erklärung des verbum substantivum im Germanischen." In Lochner won Hüttenbach Languages in Preitistoric Europe. Heldelberg: Winter. Bandelt, Hans-Jürgen. 2004. "Etruscan artifacts" American Joursal of Human Genetics Mosaics of ancient misachonrial DNA: Positive indicators of nonauthenticity European Journal of HHuman  Genetics Barber, Eltzabeth Wayland. 1999. The Mummies of Drümchi. New York: Norton.  Barrack, Charles. 2002. "The giattalic theory revisited: A negative appraisal" Indogermanische Furschunger The glottalic theory revisited. Part 2: The typological fallacy underlying the glottalic theory? Indogermanis che Forschnangen 108:1-16.  Bartholomac, Christian. 1979. Altistnisches Wörterbuch. Berlin: de Gruyter. A reprint of the 1904 original plus the  1906 suppiement.  Bartoli, M. G. 1906. Dus Daimatische: Altromanische Sprachweste von Vegla bis Ragusa and ire Stellung in der Apennino-Balkanischen Romania Vienna: Holder.  Bartonik, Antonin. 2003. Hundbuch des mykenischen Griechisch. Heidelberg: Winter.  Barwick, Carolus. 1964. Flavii Sosipatri Charisti Artis Grammaticae Libri V. 2nd ed. Reprint of 1925 edition with ad.  denda and corrigenda by E. Kähnert. Leipzig: Teuhner.  Battisti, Carlo, and Giovanni Alessio, 1950-57. Dizionario elizologico italiano. Florence: Barbèra.  Bauer, Charles Francis. 1933. The Latin Perfect Endings -ere und - erunt. Philadelphia: Linguistic Society of America.  Bechtel, Friedrich. 1921-24. Dis griectischen Dialekte. Berlin: Weidmann.  Beekes, Comparutive Indo-European Linguistics An Introduction. Amsterdam: Benjamins.  - 2002. "The prehistory of the Lydians, the origin of the Etruscans, Tray and reneas. Bibiothes Orientalis Belardi, Walter, 1994. Prohio storico-politico della lingua e della letteratura ladina. Rome: Calamo, Beltrán Cebollada, José Antonio, 1996. El itinitivo de narración en latin: Nueve valoración del irfinitivo de narración  en lutir en el periodo comprendido entre Plauto y Tácita, Zaraguza: Universidad de Zaragoza.  Benedetti, Marina. I composti radicali latini: Ename storico e comparativo. Pisa: Glardini.  1995. Le consonanti dopo -au- fra lenizione e rafforzamento: Un capitolo di fonetica storica latina e romanza. Pisa: Istituti editoriali e poligrafici internazionali. , 1996. "Dittonghi e geminazione consonantica in latino: Un caso di deriva." Studi e suggi linguistici La distesi nella terminologia antica e moderna." In Dal 'paradigma alla parola: Riflesioni sul metalingua-gio della linguistica. Alti del comegno, Udine-Gorizia, 10-11 febbraio 1999, ed. Vincenzo Orioles, 209-34. Rome: Calamo. 2002. "Radici, moefemi nominali e verbali: Alla ricerca dell'inaccusatività indoeuropea" Archivio giottolegico ital-dano. Bennett, Charles. Syntax of Early Latin. 2 vals. Boston: Allyn et Bacon.  Benveniste, Emile, 1935. Origines de la formation des nums en indo-caropéen. Paris: Maisonneuve.  , 1948. Noms dagent et noms daction en indo-européen. Paris: Maisonneuve. , 1949, "Sur quelques développements du parfait indo-européen." Archivam Linguisticum Génitif et adjectif en latin." Studi Clasico. "Active and middle voice in the verb." In Problems in General Lingwistics, trans. Mary Elizabeth Meek, 145-51. Coral Gables, FL: University of Miami Press. Originally published in Journal de psychologic Bernard, Emanuei. 1960, Die Thesis der Priposition in lafeinischen Verbalkamposita. Winterthur: Keller.  Bernardi Perini, Giorgio, 1974. Due problemi di fonetica latina. Rome: Atenco.  Berlocci, I congiuntivi del tipo (ne) atrigas in latin arcaico." Atti dell'stituto Venelo di scienze, lettere al  arti, Classe di scienze monali, lettere ed arti 164:243-86.  Bertolotti, Rosalinda, 1958. Saggio sulla etimologia popolare in latino e nelle lingue rounanze. Milan: Paideia.  Bettini, Maurizio, 1990. "La correptio lambica." In Metrica dlessica e lingwistica, ed. Raberto Danese, Franco Gori and  Cesare Questa, 263-409. Urbino Quattro Venti.Bhille, Frédérique. 1990. Les emprunts du latin eu grec: Approche phonétique, Vol. 1, Istroduction et consomantisme.  Louvain: Peeters.  1991. "Existait-ll une diphthongue vi en latin?* In Lingwistic Sincies on Latin: Selected Papers from the 6th International Colloquiion on Latin Linguistics (Budapest, 23-27 March 1991), ed. Joszef Herman, 3-18, Amsterdam: Benjamins. 1995. Les emprunts du latin au grec: Approche phonétique. Vocalisme et couchisions. Louvain: Peeters. Blake, Barry Case. 2nd ed. Cambridge: Cambridge University Press.  Blänsdorf, Jürgen, ed. 1995. Fragmenta poetarum Latinorion epicarm el lyricorum practer Ennizm et Lacilum, 3rd  ed. Stuttgart: Teubner.  Blaylock, Curtis. 1965. "The monophthongization of Latin AE in Spanish." Romance Philology 18:16-26.  Bobaljik, Jonathan David, Forthcoming. "On comparative suppletion." bobaljik.uconn.eda/files.html.  Boldrini, Prosodie und Metrik der Rinser. Trans. Bruno W. Haupili. Stuttgart: Teubner.  Bolelli, Tristano. 1941. "Le voci di origine gallica del Romanisches erymologisches Wörterbuch di W. Meyer-Lübke" Ltalla dialettale Le voci di origine gallica del Romanisches etymulogisches Würterbuch di W. Meyer-Lübke: Continuione" L'ltalia dialettale Bonfunte, Giuliano. "Ideas on the kinship of the European languages.* Cahiers d'histeire mondiale 1:679-99.  Boanet, Le latin de Gréguire de Tours. Paris: Hachette.  Bopp, Franz. 1820. "Analytical comparison of the Sanskrit, Greek, Latin and Teutonic languages." Annals of Oriental Literature Bourciez, Edoward Eugène Joseph, 1967. Eléments de linguistique ramane. Paris: Klincksieck.  Boutkan, Ditk. 1996. A Concise Grammar of the Old Frisian Dialect of the First Riastring Manuscript. Odense: Odense  University Press.  Boutkan, Dirk, and Suerd Michiel Siebings. Old Frisian Etymological Dictionary, Leiden: Brill.  Boyce, Bret, 1991, The Language of the Freedmen in Petronius' Cena Trimalchionis. Leiden: Brial.  Bramanti, V. 1970. Filippo Sassetti: Lettere da vari puesi, 1570- 1588. Milan: Longanesi.  Bräuer, Herbert. 1961-69. Slavische Sprachwissenschaft. Berlin: de Gruyter.  Braune, Wilhelm, and Frank Heidermanns. 2004. Gothische Grammatik: Mit Lesesticken und Wörterverzeichnis. 20th  ed. rev. by Frank Heidermanns. Tübingen: Niemeyer.  Braune, Wilhelm, and Ingo Reiffenstein. 2004. Althochdeunche Grammatik. 15th ed. rev. by Inge Reiffenstein. Tubingen: Niemeyer.  Breyer, Gertraud. 1993. Etruskisches Sprachgut im Lateinischen unter Ausschluss des spezifisch onomastischen Bereiches.  Louvain: Pecters.  Briquel, Dominique, 1992. "Le problème des origines étrusques." LALJES 11:7-35.  Bribe, Claude, 1991. "Le phrygien" In Bader  Briche, Claude, and Anna Panayotou. 1991. "Le thrace" In Bader 1994, 181-205.  Broughton, The Magistrates of the Roman Republir. Vol. 1. New York: American Philological Association.  Brugmann, Kari. 1878. Preface to Morphologische Untersuchangen auf dem Gebiete der indogermantischen Sprachen, by  Hermann Ostholf and Karl Brugmann. Heidelberg: Hirsel. Zur Gechichte der labiovelaren Verschlusslaute im Griochischen." Berichte der Königlich sächsischen Gesell-scheft der Wissenschuften, Philoingisch historische Kiasse 47.3:32-56. . 1897-1916. Grundriss der vergleichenden Grammatik der indegermanischen Sprachen. 2nd ed. 5 vols. Strassburg. . 1901. Kuzze vergleichende Grammatik der indogermunischen Sprachen. Strassburg. . 1906. Grundriss der vergieichenden Grammatik der indogermanischen Sprochen. Vol. 2, Part 1: Lehre von den Wort-formen und ikrem Geinauct. 2nd ed. Strassburg: Trübner. 1925. Die Syntax des dinfachen Satzes im indogermanischen. Berlin: de Gruyter. Brunner, Karl. 1965, Altenglische Grammarik. 3rd ed. Tubingen: Niemeyer.  Back, C. D. 1913, "Hidden quantities again." Classical Review A Gramur of Oscan and Umbrian. 2nd ed. Hoston: Ginn. . 1948. Comparative Grammar of Greek and Latin. 4th printing, Chicago: University of Chicago Press.The Greek Dialects. Chicago: University of Chicago Press.  Busa, Roberto, 1988. Totius latinitatis lemmata. Milan: Istituto Lombardo, Accademia di scienze e lettere.Butler, Jonathan Lowell, 1971, Latin -inus, -ing, -inus and -ineus: From Profo-indo-European to the Romance Lan-guages. Berkeley: University of Califoenia Press.  Butt, Miriam. 2006. Theories of Gase. Cambridge: Cambridge University Press.  Bybec, Joan, Revere Perkins, and William Pagluca, 1991. The Bruittion of Grammar: Tense, Aspect, and Modalty in the Languages of the World. Chicago: University of Chicago Press.  Calabrese, Andrea, 2003. "On the evolution of the short high vowels of Latin into Rocnance" In Romance Linguistice Theory and Acquisition, ed. Ana Teresa Pérez-Leroax and Yves Roberge, 63-94. Amsterdam: Benjamins.  Calboli, Gualtiero, ed. 1990. Latin vulgaire, Jatin tardif Il: Actes da Ième Colloque international sur le latin vulgnine at  lardif, Bologne, 29 ani-2 septembre 1988. Tubingen: Niemeyer.  -, ed. 2005. Papers on Grammar. Vol, 9, Latina Lingwa! Proceedings of the Twelfth International Collogium on Latin Linguistics (Bolognd, 9-14 Juse 2003). Rome: Herder.  Callebat, Louis, ed. 1995. Latin vulguire, latin tardif IVi Actes du de Collague international sur le latin vindgaire el tandic Caen, Endesheim: Olms-Weidmann.  Camodecz Tabular Pompeionae Sulpicioram: Edizious critio dellarchivio poteolano del Sulpicit. Rome Quasar.  Campanile, Enrica, 1961. "Elementi dialettali nella fonetica e nella-morfologia del latino" Studi e saggi linguistici Due studi sul latino volgare." E'ltalia dialettale I latino dialettale" In Caratteri e diffusione del latino in età arcaica, ed. E. Campanile, 13-24. Pisa Glar-dini. 1999. "Sai presenti proterodinamici dell'indocuropeo." In Saggi di lingwistica comparativa e ricostriczione culturale, ed, Maria Patrizia Bologna et al, 339-43. Pisa: Istituti editoriali poligrafici internazionali. Campbell, Alistair. 1959, Old English Grammar, Ohdord: Clarendon. Reprinted with corrections 1962.  Campbell, Lyle. 2004, Historical Linguistic An Introduction. 2nd ed. Cambridge, MA: MIT Press.  - Forthcoming, "Why Sir Willam Jones got it all wrong, or Jones' role in how to establish language familics." In Festschrift/Menorial Volume for Larry Thask, ed. Joseba Lakarra.  Candrea, L. A. and Ov. Densusianu, 1914. Dicfionarul etimelogic al limbii romane: Elementele latine. Bucharest: SeecaJum.  Cannon, Garland, 1990. The Life and Mind of Oriental Jones: Sir William Jones, the Father of Modern Linguistics Catabridge: Cambridge University Press.  Cano, Rafael, ed. 2005. Historia de la lengua españcla. 2ud ed. Barcelona: Ariel.  Cariton Introduction to the Phonological History of the Slavic Langriages Columbus: Slavica.  Carruba, Obofrio, 1970. Das Pulaische: Texte, Grammatik, Lexikon. Wiesbaden: Harrassowitz.  Casretto, Antje. 2004. Nominnie Wortbikhung der gotischen Sprache: Die Derivation der Substantive, Heldelberg; Winter.  Castellanti, Arrigo, 1962. "La diphsongaison des eet o ouverts en italien" In Actes du X° Congres incrnational de linguistique et philologie romanes, ed. Georges Straka, 951-64. Paris: Klincksieck.  Catford, A Practical Introduction do Phonetics. 2nd ed. Oxford: Clarendan.  Cavenaile Corpus Papyrorum Latinarum. Wieshaden: Harrassowitz.  Ceccarelli, Lucio. 1999. "Note sull'Endsilbenkürzung in Plauto." In Estudios de métrica latina, ed. Jesús Luque Mareso  and Pedro Rafaei Diaz y Diaz, 1:181-201. Granada: Universidad de Granada.  Chantraine, Pierre, 1933. La farmation des noms en grec ancien. Paris: Champion. Reprinted in 1979 (Paris: Klincksieck).  Grammaire homérique. 2 vols. Paris: Klincksieck. 1999. Dictionaire étymologigue de la langue greoque. 2nd ed. Paris: Klincksieck. - Cheung, Johnny, 2006. Etymological Dictionary of the Iranian: Verb. Leiden: Brill. Christidis, A.-F, ed. 2007. A History of Ancient Greek: From the Beginnings te Late Antiquity. Cambridge: Cambridge  University Press.  Christol, Alain. 1991. "Lexical consequences of a phonetic law (*eye > 8) in Latin verbs." In New Studies in Latin Linguistice: Selected Papers from the 4th International Colloquium on Latin Lingwistics, Cambridge, April 1987, ed.  Robert Coleman, 49-62. Amsterdan: Benjamins.  - 1996, "Te rhotacisme" Latomus 55:806-14. 2005, "Subjonctif latin (-s-) et futur indien (-sy-)." In Calboli 2005, 1:25-36.  Chung Transderivational relationships in Chamorro phonology. Language 59-35-66.Churchill, J. Bradford. 2000. Dice and facie: Quintilian Eistitutio Orutoria 1.7.23 and 9,4.39." American Journul of Philolagy Cignolo, Chiara, ed. 2002. Terentiani Mauri de Litteris de Syllabis, de Metris, Hildesheim: Olms.  Cioranescu, Alexandru. 2001. Dictionarui etimologic al limbii romane. Bucharest: Sacculum. Translated from Tudora Sandru-Mehedingi and Magdalena Popescu-Marin, Diccionario etamológico nomano (La Lagana, Canarias: Uni-versidad de La Lagana, 1954-66).  Clackson, James. 1994. The Lingwistic Relationship between Armenian and Greek. Oxford: Blackwell.  The word-order pattern magna cum laude in Latin and Sabellic" In Penney Indo-European Linguistics: An Introduction. Cambridge: Cambridge University Press. Clackson, James, and Geoffrey Harrocks. 2007. The Blackwell History of the Latin Langwoge. Malden, MA: Blackwell, Cohn, Abigail C., and William H. Ham, 1999. "Temporal properties of Madurese consonants: A preliminary report." In Selected Papers from the Eighth International Conference on Austronesian Linguistics, ed. Elizabeth Zeitoun and Paul Jen-kuei Li, 227-49, Taipel: [Institute of Linguistics, Academia Sinical- Coleman, Hobert. 1971. "The monophthongization of lae/ and the Vulgar Latin vowel system." Transactions of the  Philological Sociely Greek influence on Latin syntax." Thansactions of the Philoiogical Society 1977:101-56. , 1990. "Dialectal variation in Republican Latin, with special reference to Pracnestine" Proceedings of the Cambridge Philological Society 216c1-25, Collart, Jean. 1960. "A propos des études syntaxiques chez les grammairiens latins." Rulletin de la Finculé des lettres de  Strashug Reprinted in Collart 1975b, 195-204.  , 1978a. "Doeuvre grammaticale de Varron." In Collart 1978b, 4-21. ed. 1978b. Varron, grammaire entique el stylistique latine. Paris: Belles Lettres. Colanna, G. 1994. "Inediti, Lazio, Ager Signinus." Studi Etruschi 60:298-301.  Comric, Bernard, 1976. Aspect. Cambridge: Cambridge University Press,  1985, Tense. Cambridge: Cambridge University Press. 1993. "Typology and reconstruction" In Historical Lingwistics: Problents and Perspectives, ed, Charles Jones, 74-97. London: Longman. Comrie, Bernard, and Greville G. Cosbett. 1993. The Slavunic Langwages. London: Routiedge.  Consejo Superior de Investigaciones Cientificas, 1962. Arlas lingístico de la Península Ibérica. Madrid: Consejo Superior de Investigaciones Cientificas.  Conway, Robert S. 1893. "On the change of d to I in Halic." Indogermanische Forschangen 2:157-67.  Cooper, Frederic Taber. 1895. Word Formation in the Roman Sermo Plebeius: An Historical Srady of the Devciopment of Vocabulary in Vinigar and Late Latin, with Special Reference to the Romance Languages Boston: Ginn.  Cooper, Guy L. III. 1972. "In defense of the special dual feminine forms of the article and pronouns to. taiv, Tata, raura, KTA. In Attic Greek." Transactions of the American Pitilological Association Corbett, Greville G. 1991, Gender. Cambridge: Cambridge University Press.  - 2000. Number, Cambridge: Cambridge University Press.  Cordes, Gerhard. 1973. Aitniederdeutsches Blensentarbuch: Wort-und Lautichre. Heidelberg: Winter.  Corominas, Joan [Joan Coromines), 1980. Diccionario crítico etinológico castellano e hispinico. With the collaboration  of José A. Pascual. Madrid: Gredos.  - 1991. Diccionari elimologic i complementari de la Hengua catalana. With the collaboration of Joseph Galsey and Max Cahner. Barcelona: Curial Edicions Catalanes.  Corriente, Poesia dialectel árabe y romance en Alandalis: Cejeles y xarajat de muwaiahat. Madrid:  Gredos.  Cortelazzo, Manlio, Michele Cortelezo, and Paolo Zoll. 1988. Dizionario ctimologico della lingua italiano. 2nd ed.  Balogua: Zanichelli.  Courtney, Edward. 1995. Misa Lopilaria: A Selection of Latin Verse Inscriptions. Atlanta: Scholars Press.  Courtois, Christian, et al. 1952. Tablettes Albertini: Actes privés de lépoque wandale (fin du V. siècie). Paris: Arts et  métiers graphiques.  Cousin, Jean. 1951. Bibliographie de la langue latine, Paris: Belles Lettres.  Cowgill, Greek où and Armenian oc." Langwage 36:47-50.  -, 1970. "Italic and Celtic superlatives and the dialects of Indo-European" In Indo-Europen and indo-Europeans: Papers, ed. George Cardona, Henry M. Hoenigswald, and Alfred Sena, 113-53. Philadelphia: University of Pennsylvania Press.  1973. "The source of Latin stäre." Journal of Indo-Europein Stadies The origins of the Insular Celtic conjunct and absolute verbal endings" In Rix The source of Latin vis 'thou wilt" Die Sprache The personal endings of theratic verbs in indo-European." In Grimmutische Kategorien: Funktion und Ge-schichte. Akten der VII. Fachnogung der Indogermanischen Gesellschaft, Berlin, 20.-25. Februar 1983, ed. Bernéried Schierath, 99-108, Wiesbaden: Reichert. PIE "dugo "two in Germanic and Celtic, and the nom-acc. dual of non-neuter o-sters" Milnchener Studien zur Sprachwissenschaft 46:13-28.  1987. "The second plural of the Umbrian ver" In Festschrift for Henry Hoenigswald on the Occasion of His Seven- fieth Birthday, ed. George Cardona and Norman H. Zide, Tübingen: Narr. ,The cases of Germanic pronouns and strong adjectives" In The Collected Writings of Warren Comgill, ed. Jared S. Klein, Ann Arbor: Beech Stave, Crespo, Emilio, and José Luis Garcín Ramón, eds 1997. Berthold Delbrück y la sintaxis indoeuropea hay: Actas del Coloquio de la Indogermanische Gesellschaft, Madrid, 21-Madrid: UAM; Wiesbaden: Reichert. Cristofani, Mauro, 1996. "Sulla dedica di Pyrgi." In Alle soglie della dessicità: Il mediterraneo tra tradizione e lanovazi. ane. Studi in anore di Sabatino Moscati, od. Enrico Acquaro, Pisa: Istituti editoriali e poligrafici inter-nazionali. Crookston, 1. Comparative constructions." In Concise Escyclopedia of Grammaticul Categories, ed. Keith Brown  and fim Miller, 76-81, Amsterdam: Elsevier,  Cugusi, Paolo. 1992, Corpus epistularum latinarum papyris tabulis ostracis servatarum. Florence: Gonnelli.  Cuny, Indo-curopéen et sémitique" Revue de phométique Cupaiuolo, Fabio, Bibliografia delia lingua latina, Naples: Leffredo Bibliografia della metrica latina. Naples: Loffredo., Rassegna bibliografica di studi di lingua latina (1992-2003), Bolletino di studi latini Dahl, Osten. 1985. Tense and Aspect Systems. Oxford: Blackwell,  Darms, Schwüher und Schwager, Hahn und Fuhre Die Vedahl-Ableitung in Germanischen. Munich:  Kitzinger.  De Bernardo Stempel, Patrizia. 1999. Nominale Worthildung des älteren Irischen: Stammbildung und Derination.  Tübingen: Niemeyer. Kernitalisch, Latein, Venetisch: Ein Btappenmodell" In Lochner von Hüttenbach et al. 2001, 47-70.  Debrunner, Albert. 1954. Altindische Grammatik. Die Nominalsufixe. Göttingen: Vandenhoeck et Raprecht.  De Coene, Italo-Celtic after W. Cowgill." Bulletin of tine Board of Celtic Srudies 27:406-12.  Delatte, L., et al. 1981. Dictiornaire fréquentiel et index inverse de la langue latine, Liège: L.A.S.L.A.  Delamarre, Dictionnaire de la langue garloise: Une approche linguistique du viena celtique concincetal  2nd ed. Paris: Errance.  Delbrück, Berthold. Vergleichende Syntax der indogermanischen Sprachen. Strassburg Trühner. Val. 1  1893, vol. 2 1897, vol. 3 1900 = vols. 3-5 of the first edition of Brugmann and Delbrück's Grundriss der vergleichenden Grammatik der indogermanischen Sprachen.  del Tutto, Loretta, Aldo Luigi Prosdocimi, and Giovanna Rocca. Lángua e cultura intorno al 295 a.c. tra Roma e gli italici del nord. In La battaglia del Sentino: Scontro fra nazioni e incontro in una nazione, ed. Diego Poli, Rome: Calamo.  De Marinis, Rafface C., and Giuseppina Spadea, I Liguri: Un antico popolo curopeo tra Alpi e Mediterraneo.  Milan: Skira.  De Martino, Marcello. 2000. "1 suoni di L ed L.L latine secondo i grammatici detà imperiale: Un tentativo di 'revisione"  Inalogermavische Forschurgen I suoni di Led LL latine secondo i grammatici d'étà imperiale: un tentativo di revisione: Il." Indogermanische Forschumgen de Melo, Wolfgang David Ciriko. The type fitxo in Plautus and Terence" Oxford University Working Rapers in  Linguistics, Philologs and Phonefics 7:163-80.  , 3005. "The sigmatic subjunctive in Plautus and 'Terence" In Calboli The Barly Latin Verb System: Ardhaic Forms in Piatus, Terence, and Beyond. Oxford: Oxfard University Press.Demiraj, Bardbyl. 1997.Albanische Etymologien: Untersuchungen zum albanischen Erbwortschatz. Amsterdam: Radopi. Demiraj, Shaban. 1993. Historische Grammatik der albanischen Sprache. Vienna: Österreichische Akademie der Wissenschaften.  De Nigris Mores, Sugli aggettivi latini in -ax." Acme: Annali della Pacoltà di Lettere e Fllosofia dell'Università  degli Stadi di Milano, Derksen, Rick, 2008. Elymological Dictionary of the Slavic Inferited Lexicon. Leiden: Brill. de Saussure, Ferdinand, 1878. Mémoire sur le système primitif des voyelles dans les langues indo-europdennes. Leipzig:  Teubner.  -, 1909. "Sur les composés latins du type agricuin." in Melanges offerts à Louis Mavet, 459-71. Paris: Hachette. Re-printed in Recueil des publications scientifiques de Ferdinand de Saussure, 583-94. Geneva: Sonor, 1922.  De Simone, Carlo, 1968-70. Die griechischen Entlehnungen im Etruskischen. Wiesbaden: Harrassowitz  Iscrizione messspiche della grotta della poesia." Annali della Scola normale superiore di Pisa, Etrusco Emscie Mezendie." Antiguité classique I Tirreni a Lemnos." Studi Etruschi 60:145-63. De Simone, Carlo, and Simona Marchesini 2002. Monomenta linguae Messapicae. Wiesbaden: Reichert. de Vaan, Michiel, 1997 [2000). Heview of V. Blabek, Numerais: Companative-Etymolagion! Analyses of Numeral Systems und their Implications (Saharin, Nubion, Figyption, Berber, Kartvelian, Uralic, Altaic and Indo-European Languages) (Broe: Masarykova Univerzita, 1999). Die Spnache 39:239-44. , 2003. The Avestan Vowels, Amsterdam: Rodopi. , 2004. "Narten' roots from the Avestan point of view" In Per aspera ad asteriscos: Studia Indogermanica in honorem Jens Elmegänd Rasmussen sexogenarif Idibus Miartits anno MMIV, ed. Adam Hyllested et al., 591-99. Inusbruck: Institut für Sprachen und Literaturen der Universität Innsbruck. 2008. Etymological Dictionary of Latin and the Other alic Langwages. Leiden: Brill. Devine, A. M., and Laurence ID, Stepbens, 1977, Two Studier in Lafin Phonalogy: Saratoga, CA: Anma Libri.  , 1980. "Latin prosody and meter: Brevis breviens." Classical Philology 75:1-42-57. , 1994. Tie Prosody of Greek Sprech. New York: Oxford University Press., 2006. Latin Word Order: Structured Meaning and Information. Oxford: Oxford University Press. Devoto, Glacomo, 1929, "Italo-greco e italo-celtico" En Salloge linguistica dedicata alla memoria di Graziadio Isaia  Ascoli nel primo cenfenario delia nascite, Tarin: Chiantore.  → 1991. Storia detta lingun di Rama. 2nd ed. Bologna: Cappell. Heprint of 1944 edition with a new preface by A. L  Prosdocimi.  de Vries, Jan. Aitnondisches etymologisches Wörterbuch. 2nd ed. Leiden: Brill.  Dickey, O dee ree ple: The vocative problems of Latin words ending in-eus." Glotta Diels, Paal, Alzkirchenslavische Grammatik, mit einer Auswahl von Texten und einem Wörterbuch. Heidelberg:  Winter.  Dietrich, A. 1852. 'Zur Geschichte des Accents im Lateinischen." Zeirschrift für Vergleichende Sprachforschung 1:543S6.  Di Giovine, Srudio sul perfetto indoeuropeo, Vol, 2, La posizione del perfetto all'interno del sistersa verbale indocurapea. Rocne: Dipartimento di stadi glottoantropologici dell'Università di Roma "La Sapienza".  Il perfetto indoeuropeo tra endomorfismo e esomocásmo." In Penney 2004, 3-17.  d'Ovidio, F. 1858. "Spigolature romanze dalle pagine d'un latinista." Archielo glottologico italiano 10:413-46.  Dressier, Wolfgang, 1965. "Die Funktion des historischen Infinitlys im lateinischen Verbalsystem." Kratyias 10:191-6.  Drexler, Hans. 1964. "Prokeleusmatische Wörter bei Plautus und Terenz" Bollettina del cominato per la preparazione  delledizione nazionale dei classici greci e latini, N.S. fasc. 12, Accademia dei Lincei, Roma, 3-31.  Driessen, C. Michiel. 2On the etymology of Lat. fivus." In Sprachkantakt und Sprachwandet Akten der XI.  Fachtagung der indogermanischen Geseilschaft 17.-23. September 2000, Halle an der Sanie, ed. Gerhard Meiser and Olav Hackstein, 39-64. Wiesbaden: Reichert.  Duarte i Montserrat, Carles, and Alex. Alsina i Keith. 1981-86. Gramática histórica del catald. Barcelona: Curial.  Duhois, Laurent. 1989-2008. Inscriptions grecques dinlectales de Sicile: Contribution à litude du vocabulaire grec colomial. Rome: Ecole française de Rome.  - 1995. Inscriptions greoques dialectales de grande Grèce. Geneva: Droz.  Duhoux, Yves. 1983. Introduction aux dialectes grecs anciens: Problèmes et méthodes, recueil des textes traduits.  Louvain-la-Neuve: Peeters.2006. "La lettre 4 en arcadien archaique." Kadmos 45:2-68.  Duhoux, Yves, and Anna Morpargo Davies, 2008. A Composion to Linear 9; Mycendeun Greek Texts and Their Warld  Louvaln-la-Neuve: Pecters.  Dunkel, George E. 1979. "Reciprocus und Verwandtes" Indegermanische Forschangen 84:181-95.  , 1987. "Heres, portal: Indegermanische Richtersprache." In Festschrift fur Henry Hoenigowald ou the Orcasion ef His Seventieth Birthday, ed. George Cardona and Norman H. Zide, 91-100. Tübingen: Narr. -, 2000. "Latin verbs in -igüre and-igüre." In Lochner von Hüttenbach et al. 2000, 87-99. 2006. "On the 'thematicization' of Latin sum, volo, eo and edo" In Jasanoff et al. 1998, 83-100. Dupraz, Emmanuel. 2002. "Sur la préhistoire des infinitifs présents passifs en latin." Bulletin de la Société de linguisligue de Paris Les nominatifs masculins pluriels thématiques en -es du latin républicain." Revue de philologie 78.239-55.  Durante, Marcello 1981. Dal latino all'italano moderno: Soggio di storia linguistica e culturale. Bologna: Zanichelli.  Dybo, V. A. 1961. "Sokraßdenie dolgot v kelto-itabjskix jazykax i ego anadenie dija balto-slavjanskoj i indocvropejakoj  akcentologii" Vaprosy slavjanskogo jazykoznanija 5.9-34  Fckert, R., Elvira-Julia Bukerkwite, and F. Hinze, 1994. Die kalrischen Sprachen: Eine Einführung. Lelpeig: Langen-scheidt.  Edwards, G. Patrick, 1971, The Language of Hesiod in Its Trnditional Context. Oxford: Blackwell.  Eichenbofer, Wolfgang 1999. Histurische Laulehre des Bündnerromanischen. Tübingen: Francke.  Eichner, Heiner. 1973, "Die Etymolugie von beth. mehur"" Minchentr Studien zur Surachwissenschaft Die Vorgeschichte des hethitischen Verbalsystems." In Rix Das Problem des Ansatzes eines urindogermanischen Numerus "Kollcktiv' ('Komprehensiv)" In Gramma- tische Kintegorien: Funktion un Geschichte. Akten der VII. Fachtagung der Indogermanischen Geselschaft, Berlin, 20.-25. Februar 1983, ed. Bernfried Schlerath, 134-69. Wleshaden: Reichert. Reklameiamben aus Roms Königszeit, 1." Die Sprache 34:207-38  Finhauser, Eveline, ed. 1992. Lieber freund.: Die Briefe Hermars Osthoffs an Karl Brugmann, 1875-1901. Trier: Wissenschaftlicher Verlag.  Elbourne, Paul, 1998. "Proto-Indo-European voiceless aspirates" Historische Sprachforschung Plain volceless stop plus laryngeal in Indo-European." Historische Sprachforschung Aspiration by Is/ and devoicing of mediae aspiratae" Historische Sprachforschung Elock, W. D. 1975. The Romance Langugges. 2nd ed. rev. by I. Green. London: Faber et Fober.  Endzelins, Lettische Grammatik. Heidelberg: Winter.  Janis Endzelins Camparative Phanology and Morphology of the Baltic Languoges. Trans, William R. Schmal-stieg and Benjamins fegers. The Hague: Mouton.  Engelbrecht, Aug. Godf. 1884. "Beobachtungen über den Sprachgebrauch der lateinischen Komiker" Wiener Studien  6:2:6-48.  Ernoat, Alfred. 1909. Les éléments dialertaux du vocabulaire latin. Paris: Champion.  . 1929. "Les éléments étrusques da vocabulaire latin" Bulletin de la Société de lingistique de Paris. 1946. Philologica. Vol. 1, Paris: Klinckslock , Les adjectifs larins en -osus et en -ulentus. Paris: Klincksieck. , Recueil de textes latins archaigses. 4th ed. Paris: Klincksieck. , Notes de philologie latine. Geneva: Droz. 1989. Morphologie historique de latin. 1th ed. Paris: Klincksieck. Emout, Alfred, and Antoine Meillet. 1985. Dictionnaire étymologique de la langue latine. 4th ed. Paris Klincksieck.  Emoul, Alfred, and François Thomas Syntaxe Latine. 2nd ed. Paris: Klincksieck.  Erast, Gerhard, et al, eds. 2003. Romanische Sprachgeschichte: Ein internationales Handbuch eur Geschichte der 7o-manischen Sprachen - Histoire lingwistique de la Romania: Maruel international d'histoire lingwistique de la Rama-mia. Val. 1. Berlin: de Gruyter.  Erteschik-Shir, Nomi, and Tom Rapoport, eds. 2005. The Syntax of Aspect. Oxford: Oxford University Press Eska, Joseph, 1995a. "The linguistic position of Lepontic" In Proceedings of the Twenty ourtit Armal Merting of me Herkriey Lingwistics Society, ed. B. K. Bergin, M. C. Plauché, and A. C. Bailey, Berkeley»Berkeley Linguistics Society  , PIE "p 7a in Proto-Celtic." Mänchener Studien zur Sprachwissenschaf 5863-30. , 2007. "Bergins Rule: Syntactic diachrony and discourse strategy" Diachronica Review of Jordân Cólera Zeitschrift für celtische Phulologle 56: 194-9.Eska, Joseph, and Rex Wallace, Remarks on the thematic genitive singular in Ancient Italy and related matters" Inconfri linguistici Venetic consonant stem dative singulars in -12" Stufi Etruschi.  Euler, Welfram. Oskisch-Umbrisch, Venetisch und Lateinisch: Grammatische Kategorien zur Inneritalischen Sprachverwandtschaft" In Oskisch-Umbrisch: Texte und Grammatik. Arbeitstagung der Indogermanischen Gesellschaft und der Società Italiana di Glottologia vom 25, bis 28. September 199] in Freibung, ed, H. Rix, 96-105. Wies-baden: Reichert.  Brans, D. Simon. A Grammar of Middie Welsh. Dublin: Dublin Institute for Advanced Studies.  Ranciallo, Anticipazioni romanze nel latino pompeiano" Archivio giottologico italiano Fernández Gonzalez, José Ramón, 1985, Gramática histórica provenzal. Oviede Universidad de Oviedo.  Fernández Martinez, Concepción, Limites precisos de la aspiración inicial en latin." Habis Ferreiro, Manuel, Gramática histórica galega. 4th ed. Santiago: Laiovento Finzi, Gli statuti della repubblica di Sassari." Archivio storico sardo 6:1-48.  Fisiak, Jacek, ed. 1976. Recent Developments in Historical Phonology. The Hague: Mouton.  Flach, Dieter and Andreas Flach. Das Zwölfgegesetz: Leges XII Tabularum. Darmstadt: Wissenschaftliche  Buchgesellschaft.  Flemming, Edward. 2003. "The relationship between coronal place and vowei backness" Phanology A phonetically-based model of phonological voisel reduction." weh.mit.edu/-leming/www/paper/vowel-red/pdf.  Flobert, Pierre. Les verbes déponents latins, des origines à Chariemagne. Paris: Belles Lettres. La réalité phonologique de /g*/ en latin" In Etudes de lingwistique générule et de linguistique latine affertes en hommage a Guy Serbat, professeur émerité d ('Université de Paris-Sorbonne par ses collègues et ses dieves, Paris: Société pour l'information grammaticale. Review of Reichler-Beguélin 1986. Revue des études latines Lapport des inscriptions archaiques à notre connaissance du latin prélittéraire" Latamais Fügen, T. 1997. "Der Grammatiker Consentius" Glorta 74:164-92.  Forssman, Berthold. 2001. Lettische Grummatik. Dettelbach: Röll.  Fortson, Benjamin W. IV. Hiltite juwalas." Die Sprache Linguistic and cultural notes ob Latin Ionias and related topics" In Indo-European Perspectives, ed. Mark  R. V. Southern, Washington, DC: Institate for the Study af Man. The origin of the Latin future active participle." In Nussbaum Langwage and Rhytion in Piantes: Synchronic and Diachronic Studies. Berlin: de Gruyter. Indo-European Language and Culture: An Introduction. 2nd ed. Malden, MA: Wiley-Blackwell. , Forthcoming a, "Ileary eyes and ladles of clay: Two liquid Sabellicisms in Latin." Glotta , Forthcoming b. "Reconsidering the history of Latin and Sabellic adpositional morphosyntax." American Journal of Ploiner Fortson, Benjamin W. IV, and Rex Wallace, 2003. "A word-final prop voel in colloquial Latin?" Glotta Fax, Barbara, and Paul 1. Hopper, eds. 1994. Voice: For and Punction. Amsterdam: Benjamins.  Fraenkel, Eduard. 1925. "Zum Texte römischer Juristen." Hermes Si dis placel." Studi italiani di filologia classica Fraenkel, Benst. Litauisches etymologisches Wärterbuch. 2 vols. Heidelberg: Winter.  Friedrich, Johannes, Hettisches Fementarbuch. 2nd ed. Heidelberg: Winter.  Frisk, Hjalmar: 1960-72. Griechisches elymologisches Wörterbuch. 3 vols. Heidelberg: Winter, Fruyt, Problèmes métiodologiques de dérivation di propos des suffixes latinas en ...cus. Paris: Klincksieck  Funaioli, Hyginus [= Gino). 1907. Grammaticae Romance frogrienta. Leipzig: Teubner.  Gacbel, R. E. 1982. "The varied use of -es and -is for the accusative plural of i-stern wurds in Vergil's Geongics. Letomuns  41:104-31.  Gaide, Françoise. 1988. Les substantifs masculins latins en 0)6, ..(i)onis. Louvain: A.N.R.I:  Galdi, Giovanbattista. 2004. Grammatica delle iscrizioni latine dell'impero (province orientali): Morfosintassi nominale.  Rome: Herder.  Gallée, Johan Hendrik, and Heinrich Tiefenbach. 1993. Altsächsische Grumumatik. 3rd ed. rev. by Heinrich Tiefenbach  Tübingen: Niemeyer.  Gamkrelidze, Thomas V. and V. V. Ivanor. Sprachtypologie und die Rekonstrulction der gemeinindogermantschen Verschbüsse," Phonetica Garcia Castiliero, Carlos. 1998, "Irlandés antiguo ferar, umbro ferar y las desinencias medias indoeuropeas de tercena  persona." Veleia La formarión del tema de presente primario osco-umbro. Vitoria-Gasteix: Universidad del Pais Vasco, Servicio  Editorial/Euskal Herciko Unibertsitaten, Argitalpen Zerbitzua.  García González, Uso de 1 longa en los diplomas militares de CIE. XVI (c. 50 D. C.-300 D. C.)." In  Aclas del VIII Congreso español de estudios clásicos, 1:519-25. Madrid: Ediciones clásicas.  Garde, Paul. 1976. Mistoire de l'accentuation slave, Paris: Institua détades staves.  Gartett, Andrew, and Patricla Statin. 2001. "The origin of the Latin frequentative" Manuscript, University of Califar:  nin at Berkeley.  Gartner, Theodor. 1883. Ractoramanische Grammatik. Hellbronn: Henniger.  Geldner, Karl. 1951-57. Der Rip- Veda. Cambridge: American Oriental Society.  Gerschner, Robert. Die Deklination der Nomina bel Plautus. Heidelberg: Winter.  Giacalone Ramat, IMPLICATURA: I DERIVATI LATINI IN -TURA, Rendiconti dell'Istituto Lambardo Probleme der lateinischen Wortbildung: Das Suffix-tira." In Rix Giacomeli, Roberta, 1979. "Written and Spaken anguage in Latin-Falican and Greck-Messapie." Journal of indo  Erropean Studies 7:149-75.  Giannini, Stefania, and Giovanna Marotta, 1999. Fra grammatica e pragmatica: La geminazione consonantica in fatino,  Pisa: Giardini.  Gianollo, Chiara. 2005. "Middle voice in Latin and the phenomenon of split intransitivity. In Calboli Gilliéron, Jules, and Ed |mond) Edmont. Atlas linguistique de la France, Paris Champion.  Gimson, A. C., and Alan Cruttenden. 2001. Ginsons Provunciation of English, 6th ed. rev. by Alan Cruttenden. London: Oxford University Press.  Gippert, Jost. 1997. "Laryngeals and Vedic metre" In Lubotsky Ein Problem der indagermanischen Pronominalflexion." In Per aspera ad asteriscos: Studia indogermanica in honorem Jens Elmegand Rasmussen sexagenarii latibus Martits anno MMIV, ed. Adam Hyllested et al., 155-65.  Innsbruck: Institut für Sprachen und Literaturen der Universität Innsbruck.  Godel, Hobert, 1961. "Sur l'evolution des voyelles brèves latines en syllabe intéricure" Cahiers Ferdinand de Sanssure An introduction to the Study of Classical Armenian, Wiesbaden: Reichert.  Goold, Catullus 3.16." Phoenix 23:186-203.  Gordon, Arthur E. 1973. The Letter Nates of the Latin Alphabet, Berkeley: University of California Press.  Gradenwitz, Laterculi vocum latinarum: Voces Latinas et a fronte et a tergo ordinandas. Leipzig: Hirzel.  Grandgent An Outline of the Phonology and Morphology of Oli Provenpai, Hoston: Heath.  Grassi, Herbert. 2005. "Bine littera Claudiana am Magdalensberg. Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik 153:2412.  Grassmann, Hermann. 1996. Wörterbach zu Rig-Vesia. 6th ed. rev. by Maria Kozlanka. Wiesbaden: Harrassowitz.  Gratvick, Terence: The Brothers. 2nd ed. Warminster: Aris et Phillips.  Green Language and History in the Early Germanic World. Cambridge: Cambridge University Press.  Grevander, Sigfrid, 1926. Untersuchungen zur Sprache der Malomedicina Chironis. Lund: Gleerup.  Guastella, Gianni. "La voce della dita: Ritmo, lingua e metro nella versificazione degli scenici latini arcaici." Quaderni  urbnati di cuitura classice Guenter If Gersanic stops isberited a voicing contrast, why is what we find today an aspiration contrast?" In New Insights in Germanic Lingwistics, ed. Irmengard Rauch and Gerald F. Carz, 1:101-21. New tark:  Lang  Gusmani, Roberto, 1964. Lydisches Würterbuch. Heidelbeng Winter. Gussenhoven, Carlos, 2004. The Phonology of Tone and Intunation. Cambridge: Cambridge University Press.  Gvozdanovié, Jadranka, ed. 1992, Eudo-Europein Numerals. Berlin: de Gruyter.  Heckstein, Olax, 1997, *Probleme der homerischen Formeniehre 1" Minchener Studien zur Sprachwissenschgt 57:1946.  -2002. "Uridg. *CH.CC» "C.CC." Historische Spracyorschung 115:1-22.  Hajnal, Ivo, 1992. "Homerisch dépoç, 'Hepißo und ipi: Zur Interrelation von Worthedeutung und Lautform." Historische Sprachforschung Die Twesis bel Homer und auf den mykenischen Linear B-Tafein: Ein chronologisches Problem." In Indo-European Perspectives Studies in Honour of Ansa Morpergo Duvies, ed. J. HL. W. Penney, 146-78. Oxford: Oxford  University Press.  Hale, Mark. 1987. Studies in the Comparative Syntax of the Oldest Indo-Iranian Languages. Harvard.  Notes on Wackernagels Law and the language of the Kigreda" In Studies in Memory of Warren Cawgill  (1929-1985), ed. Calvert Watkins, 38-50, Berlin: de Gruyter.  Diachronic syntax." Syntax Historical Linguistics: Theory and Method. Malden, MA: Blackwell. Hale. William Gardner, and Carl Darling Buck, A Latin Grammar, Boston: Ginn: Reprinted University of Alabama Press, Hall, Robert A. Jr. 1946. "Classical Latin noun inflection." Classical Philology Hamp, Eric. 1972. "Palaic ba-a-ap-na-n3 'river'." Mänchener Srudien zur Sprachwissenschaf 3035-7.  Handford, S. A. 1947. The Latin Subjunctive: Its Usage and Development from Plantus to lacitus, London: Methuen.  Hanson, Kristin, and Paul Kiparsky, A parametric theoty of poetic meter." Langwrage Hanzikovd, Ludmila, ed. 1989-. Erynologicky stovik jazytt staroslovinsktho. Prague: Academia.  Harris, Alice C., and Lyle Campbell, 1995, Historical Syntax in a Cross-linguistic Perspective. Cambridge: Cambridge  University Press.  Harris, Martin, and Nigel Vincent, eds. 1988. The Romance Languages. New York: Routledge.  Hartmann, Review of P. von Bradke, Beitrige zur Kenretnis der vorhistorischen Entwickelung unserer Sprachen  (Giessen: Ricker). Deutsche Literaturzeitung 11:1831.  Hartmann, Markus. Die frühlateinischen Inschriften und ihre Datierung: Bremen: Hempen.  Haspelmath, Verbal noun or verbal adjective? The case of the Latin gerundive and gerund." Arbeitspapiere, Institud für Sprachwissenschaft der Universität zu Kain. Neue Folge From resultative to perfect in Ancient Greek" In Nuevos estudios sobre construcciones resultativos, ed. José Luis Iturrioz Lera (Función, Guadalajara: Centro de Investigación de Lenguas Indigenas,  Haudry, Jean. 1981. "La derivation en indo-européen." Linformation grammaticale Hawkins, John David. Corpus of Hieroglyphic Luwian Inscriptions. Berlin: de Gruyter.  Hehl, Die Formen der lateinischen ersten Deklination auf den Inschriften. Tübingen: Heckenhauer.  Heidermanus, Frank. 1993. Etymologisches Wörterbuch der germanischen Primäradicktive. Berlin: de Gruyter.  2005. Bibliographie zur indogermanischen Wortforschung: Wortbildung. Etymologie, Onomastologie und Leba-wortschichten der alten und mudernen indogermanischen Sprachen in systematischen Publikarionen ab 1800. Tubin-gen: Niemeyer.  Henning, W. B. 1948. "Oktô(u)." Transactions of the Philological Society 1948:69.  Herman, Jozsef, ed. 1987. Latin vulgaire, latin tardif: Actes du fer Colloque internationale sur le latin vulgaire et tardif  (Pécs). Tübingen: Niemeyer.  La conscience linguistique de Grégoire de Tours" In Petersmann and Kettemann, 31-48. 2000. Vulgur Latin. Trans. by Roger Wright. University Park, PA: Pennsylvania State University Press. Hettrich, Heinrich. Die Entstehung des lateinischen und griechischen Acl." In Rekonstruktion und relative Chronologie: Akten der VII. Fachlagung der Indogermanischen Gesellschaft, Leiden, 31. August-4, September 1997, ed. Robert Beckes, Alexander Labotsky, and Jos Weitenberg, 221-34. Innshruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck. 1993. "Nochmals zu Gerundium und Gerundivum." In Indogermanica et Haliar: Festschrift für Helmut Rix zum 65. Geburtsfog, ed. Gerhard Meiser, 190-208. Innsbruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck. , 1997. "Syntaktische Rekonstruktion bei Delbrück und heute: Nochmals zum lateinischen und griechischen AcL" In Crespo and García Ramón 1997, 219-38. Hettrich, Heinrich, and Jeong-Soo Kim, eds. 2002. Indogermanische Syntax: Fragen wnd Perspektiven. Wiesbaden:  Reicbert.  Hinton, Leanne, Jobanna Nichols, and John J. Chala, eds. 1994. Sound Symbolism. Cambridge: Cambridge University  Press.  Hock, Hans Henrich. 1986. Principles of Historical Linguistics. Herlitt de Gruyter.  Morphology and f-apocope in Slavic and Baltie" In Proceedings of the Bighteents UCLA Indo-Esropern Con-ference, Los Angeles, Nov. 3-4, 2006, ed. Karlene fones-Bley, Martin Huld, Angela Della Volpe and Miriam Robbins Dexter, Washington, DC: Institute for the Study of Man. 2009. "my > (*)ny in Greek and Italie Common innovation, parallel development, or fortuitous similarity?" Studies in the Lingwistic Sciences Illinois Working Papers 81-93.Hockett, Charles 1955. A Manual of Phonology. Baltimore: Waverly: Hoenigswald, Enrico [Henry Hoenigswald). 1937. "Su alcuni caratteri della detivazione e della composizione nomsnale indoeuropea." Rendiconti dell Istitido Lombardo, Lettere, ILs. A note on Latin prosody: Initial s impure after short vowel" Transactions of the American Philological Association ".P and liqald," Classical Quarterly Silbengrenze und Vokalschwächung im Lateinischen" In Panagl and Krisch 1992, BI-5. Holmann, Ein grundsprachliches Possessivsuffix" Miänchener Studien zur Sprachwissenschaft 6.35-40.  - 1976. "Das Kategoriensystem des indogermanischen Verbums" Mänchentr Sendien zur Sprachwissenschaff 28:1941. Reprinted in Ausatze zur indoiranistik, ed. Johanna Narten, 2-523-540. Wiesbaden: Reichert.  -, 1992. Aufsütze zur Indoinusistik, ed. Johanna Narten. Vol. 3. Wiesbaden: Reichert.  Hoffmann, Kari, and Bernhard Forssman. 2004. Avestische Lant- amd Flexionsiehre, 20d ed. innsbrucke Inistitut für  Sprachen und Literaturen der Universität Innsbruck.  Holiner, Harry A. Ir. and H. Craig Melchert. 2008. A Gnommar of the Hätite Language. Part 1: Reference Grammar.  Part 2: Tutorial. Winona Lake: Eisenbrauns.  Hofnann, J. B., and Anton Scantyr, 1965. Lateinische Syntax und Stylistik. Munich: Beck. An updated Italian translation of the stylistics section of this book was published as Siistica latins, ed. Allonso Traina, trans, Camillo Neri, updated by Kenato Oniga, revisions and indices by Bruna Fieri (Bologna: Patron, 2002).  Hogg, A Gnommar of Old English. Oxford; Blackwell. Only vol, 1 on phonology has been published  so far.  Hollifeld, [Patrick) Henry, 1985. On the phonological development of monosyllables in West Germanic and the  Germanic words for 'who' and 'so. Indogermanische Forschingen 90:196-206.  Holthausen, Ferdinand, 1921. Aitsächsisches Elementarbuch. 2od ed. Heidelberg: Winter.  Holtz, Louis. 1981. Donat et la tradition de Tenseigument grammatical: Etude sur lArs Donati et sa difiacion el édition critique. Paris: Centre national de la recherche scientifique.  Hooker, J. T. 198D. Linear B: An Introduction. Bristol: Bristol Classical Press.  Hopper, Paul J. 1973. "Glottalized and murmured occlusives in IE." Glossa 7:141-66.  Horrocks, Geoffrey, 1981. Spuce and Time in Homer: Prepositional and Adversial Particles in the Greck Epic. New York:  Агла. Greek: A History of the Language and its Spenkers. London: Longman.  Householder, Fred W. 1947. "A descriptive analysis of Latin declension" Word 3:48-58.  Liescu, Maria, and Werner Marogut, eds. 1992. Latin vulgaire, intin tandif III: Actes du Illême Colloque international sur  le latin vulguire et fardif (Innsbruck, 2-5 September 1991). Tobingen: Niemeyer.  Ile-Svitye, V. M. 1979, Nominal Accentuation in Baltic and Slavic, Translated by Richard L. Leeds and Ronald F. Feldstein. Cambridge, MA: MIT Press.  Iverson, Gregory K., and Joseph C. Salmous. 1992. "The phonology of the Proto-Indo-European root structure constraints." Lingua jaberg, Kari, and J. Jud, 1940. Sprach- und Sachatlas Auliens und der Südschweiz Zofngen: Ringier.  Jacksan, Kenneth Hurlstone. 1953. Language and History in Early Britain: A Chronological Surwey of the Brittonic Languages, First to Twelth Century A.D. Edinburgh: Edinburgh University Press.  Jacobs, Haike. 2003. "Why preantepenultimate stress in Latin requires an OT-account." In Development in Prosodic  Systems, ed. Paula Fikkert and Haike Jacobs, 395-418. Berlin: de Gruyter.  Jakobson, Roman. 1960. "Why 'mama' and 'papa?" In Perspectives in Psychological Theory: Essays in Honor of Heinz Werner, ed. Bernard Kaplan and Seymour Wapner, 21-9, New York: International Universities Press Jamison, Stephanie W, 1983, Function and Form in the -áya-Formations of the Rig Veda and Atharv Vedt. Göttingen:  Vandenhoeck et Ruprecht.  . 1988. "The quantity of the outconie of vocalised laryngesls in Indic." In Die Laryngahheorle amd die Rekoristruktion des indogermanischen Laut und Formengstems, ed. Alfred Bammesberge, 213-26. Heidelbeng: Winter. , 1991. Ihe Ravenous Fyenas and the Wounded San: Myth and Ritual in Ancient India. Ithaca, NY: Cornell Liniversity Press. 2002. "Rigvedic sim and im." In Indian Lingwistic Studies Festschrift in Honor of George Cardon, ed. Madhav M. Deshpande and Peter E. Hook, 290-312. Delhi: Motilal Banarsidass. JasanofE, The Germanic Third Weak Class." Langiage Gr. appro, lat, ambo et le mot indo-européen pour Tun et l'autre" Bulletin de la Société de lingristique de Paris The position of the -bi conjugation." In Hethitisch und Indogermanisch: Vergleichende Studien zur histo-rischen Grammarik und zur dialergeographischen Stellung der indogermanischen Sprachgruppe Airkleisusiens, ed. Erich Neu and Wolfgang Meid, 79-90. Innsbruck: Institut für Sprachrissenschaft der Universität Innsbruck.  Stadive and Middie in Indo-European. Innsbruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck. 1980. "The nominative singular of a-stems in Germanic." In American Indian and Indo-European Studies: Papers in Honor of Madison S. Recier, ed. Kathryn Klar, Margaret Langdon, and Shirley Silver, The Hague: Mouton. A rule of final syllables in Slavic." Journal of Indo-European Studies The sigmatic sorist in "Tocharian and Indo-European" Tochurian and Indo European Sindies The origin of the Italic imperfect subjunctive" Historische Sprachforschung The ablaut of the root aorist optative in Proto-Iedo-Europcan." Münchener Studien zur Sprachwissenschaft The Brittanic subjunctive and future" In in hanorem Hoßper Pedersen: Kallogeu der Indogermenischen Gesellschaft vom 25, his 28. März 1993 in Kopenhagen, ed, Jens Elmegird Hasmussen, Wiesbaden: Rei-chert. Gathic Avestan cikoitarad" In Lubotsky An Italo-Cellic isogloss The 3pl. mediopassive in "-atro" In Festschrift for Eric Hamp, ed. Douglas Q, Ad-ams, 1:146-61. Washington, DC: Institute for the Study of Man. , 2003. Hittite and the lsdo- European Verb. Oxford: Oxfard University Press. Plus ça change..: Lachmann's law in Latin" In Penney Notes on the internal history of the PIE optative" In East and West: Papers in indo-European Linguistics, ed. Brent Vine and Kazubiko Yoshida, 47-68. Bremen: Hempen. . Forthcoming a. "The origin of the Latin gerund and gerundive" In A Festschrift in Honor of Michael Filler, ed. Harvey Goldhlatt and Nancy Shields Kollmann, Cambridge, MA. www.poople.fas.harvard.edu/-jasanoff/publica- tions html. Forthcaming b. **-bi, *-#is, "ois: Following the trail of the PIE Instrumental plural." In Isternal Recoustruction in Indo-European: Methods, Results, and Problems, Section Papers from the XVIth Eufernational Conference on Historical Linguistics, University of Copeningen, 21th-15th August, 2003, ed. Jens Elmegird Rasmussen and Thomas Olander. Jasanoff. Jay, H. Craig, Melchert, and Lisi Oliver, ods, 1998. Mir Curad: Staulies in Honor of Calvert Watkins. Innsbruck:  Institut für Sprachwissenschaft der Univerität Innsbruck.  Jespersen, Otto. 1922. Langmage: Is Nature, Devslopment, and Origin. London: Allen et Unwin.  Jiménez Zamudio, Rafael, En torno a devas cornisces sacrum (CIL F+975 =)* Emerita 53:277-83.  Jones, The Works of Jones. [Ed.  janes. London: Robinson.  Jordán Cólera, Carlos, 1998. Eutroducción al Celtibérico. Zaragoza: Ediciones del Departamento de Clencias de la Anliguedad, Area de Filologia Griega, Universidad de Zaragoza. Celtibérico, Zaragoza: Area de Filología Griega, Departamento de Ciencias de la Antiguedad, Universidad de Zaragoza.  Joseph, Brian, and Richard Janda, eds. 2003, Handbook of Historical Linguistics. Malden, MA: Blackwell.  Joseph, Brian, and Rex Wallace, Latin sum/Oscan sim, sins, esam." American Journal of Philelogy On the problematic fil variation in Faliscan." Glotta Is Faliscan a local Latin patois?" Diachronica Socially determined variation in Ancient Rome" Language Variation and Change 4:105-19. Kager, René. 1995, "The metrical theory of word stress." In The Handbook of Phonological Theory, ed. John A. Goldsmith, 367-402, Cambridge, MA: Blackwell.  Kajanto, firo, 1965. The Latin Cognomina. Helinki: Keskuskirjapaino. Reprinted Ronse. Bretschaeider, Karulis, Konstantins, 1992. Latvies etimologlas vindnica. Riga: Avats.  Kaster, Robert A. 1988. Guardlions of Language: The Grammarian and Sociery in Late Antiquity Berkeley: University of California Press.  Kastner, Wolfgang, Die griechischen Adjektive zweier Endunger auf-oc, Heidelberg: Winter.  Katitic, R. 1976. Ancient Langunges of the Balkans. The Hague: Mouton.  Katz, Joshua T: 1998. Topios in Endo-European Fersonal Promouns Harvard University. Testimonia ritus Italici: Male genitalia, solemn declarations, and a new Latin sound law." Harvurd Studies in Classical Pliology Kavitskaya, Darya. Compensatory Lengthening: Phanetics, Phonology, Llachrony. Nee York: Routledge.  Kazavis, Gergios N. (Tepyc N. Kateßrs), 1940. Nisyrau laographika [Nicupou Agoypagia]. New York: Divry.  Keilius, Henricus (Heinrich Keil], GRAMMATICI LATINI Leipzig: Teubner.  Keller, Otto. 1891. Lateinische Volksetymciogie wond Verwitnates. Leipzig: Teuhner.Kemmer, S, 1993. The Middle Voice. Amsterdam: Benjamins.  Kenstowicz, Michael, 1991, "Enclitic accent: Latin, Macedonian, Italian, Polish." In Certamer Phonologicum IF: Papers from the 1990 Cortona Phanology Meeting, ed. Pier Marco Bertinetto, Michel Kenstowicz, and Michele Loporcano,  Turin: Rosenburg &- Seller.  Kent, THE SOUNDS OF LATIN: A DESCRIPTIVE AND HISTORICAL PHONOLOGY, Baltimore: Linguistic Society of America.  Old Persian 2nd ed. New Haven: American Oriental Society.  Keat, Roland G., and Edgar H. Sturtevant, 1915. "Elision and biatas in Latin prose and verse." Transactions of the  American Philological Ascociation 46:129-55.  Kessler, Brett. nd. "On the phonological nature of the Proto-Indo-European laryngeals" spell,psychology wusil.  edu/~bkessieri.  Keyser, The origin of the Latin minverals 1 to 1000" American Journal of Archacalogy Kieckers, Ernst. 1930. Historische lateinische Grammatik, mit Berücksichtigung des Vilgirlateins und der romanischen  Sprachen. Munich: Hucher.  Kim, Ronald. 2000a. "Reexamining the prehistory of Tocharian B 'ewe." Tocharian and Indo-European Studies To drink in Anatolian, Tocharlan, and Proto-Indo-European" Historische Sprachforschung Tocharian B dem « Latin vénitt Szemerényis Law and *& in PIE root aorists" Münchener Studien zur Sprack-wissenschaft On the historical phonology of Ossetic: The origin of the oblique case suffix." Journal of the American Oriental Society, Kimball, Sara 5. 1999, Hittite Historical Phonology. Innsbruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität Jansbruck  Kiparsky, Phonological Ghange. MIT:  Aspect and event structure in Vedic." Yearbook of South Asian Langnages and Linguisties The Vedic Injunctive: Historical and synchronic implications" The Yearbook of Sauth Asian Languages and Linguistics stanford.edu/-kiparsicy/Papers/injanctie.articepdf. . 2006. "Amphichronic linguistics vs, evolutionary phonology: Theoreticul Linguistics Kircher Durand, Chantal, Grammaire fondamentale du latin, Création lexicale: La formation des noms  par dérivation suffixale. Louvain: Pecters.  Klaiman, Grammation/ Voice. Cambridge: Cambridge University Press.  Klein, Hans-Wilhelm, ed. 1968. Die Reichenaver Glossen. Part 1, Binieitung, Text, voliständiger Index und Konkondanzen. Munich: Hueber.  Klein, The contribution of Rigvedic Sanskrit to Indo-European syntax" In Crespo and Garcia Ramón  Teaching Indo-European." Diachranica, Klingenschuit, Gert. 1975. "locharish und Urindogermanisch" In Rix Zur Etymologie des Lateinischen." In Maythofer et al. Das aitarmenische Verbum. Wiesbaden: Reichert. The lateinische Nominalflexion." In Panagl and Krisch Kloekhorst, Alwin, 2008. Elymological Dictionary of the Hatite Inherited Lexicon. Leiden: Brill. Knoppers, Gary: 1992. "The god in his temple: The Phoenician text from Pyrgi as a funerary inscription." Journal of  Near Bastern Studies 51:105-20.  Kobayashi, Masata. 2004. Historical Phonology of Oli Indo-Aryan Consonants. Tokya: ILCAA.  Kahm, Aitiateinische Forschungen. Leipzig: Reisland.  Kartlandt, Frederik: Greck numerals and PIE glottalic consonants" Münchener Studien zur Sprachwissenschaft  Proto-Indo-European glottalic stops: The comparative evidence." Folia Linguistica Historica 6:183-201.  Krahe, Hans, and Wolfgang Meid.  Germanische Sprachwissenschaft. 7th ed. Berlin: de Gruyter.  Kramer, Historische Grammatik des Dolomitemladinischen: Lartichrz. Gerbrunn bel Würzburg: Leh, Die Verwendung des Apex und P. Vindob, L. 1 c" Zeitschrift fir Papyrologie und Epigraphik Etymologisches Wörterbuch des Dolomiteniadinischen. Hamburg: Buske. Krause, Wolfgang. 1968. Handbuch des Gotischen. 3d ed. Munich: Beck.  Die Sprache der urnordischen Runeminschrißen. Heidelberg: Winter.Krause, Wolfgang, and Werner Thomas. Tocharisches Elementarbuch. Vol. 1. Heidelberg: Winter.  Kroch Syntactic change" In The Handeook of Contemporary Syriachic Thoory, ed. Mack Baltin and  Chris Collins, Malden, MA: Blackwell.  Kruschwitz, Peter. 2004. Römische Inschriften und Wackernagels Gesetz. Heidelbeng: Winter.  Kühner, Raphael, and Bernhard Gerth. Ausfüherliche Grammatik der griechischen Sprache. Part 2: Sataleine.  3rd ed. Hanover: Haha.  Kühner, Raphael, and Carl Stegmann, 1955. Ansführiiche Grammarik der lateinischen Sprache. Part 2: Suralehre. 3rd ed. rev. by Andreas Thierfelder, 2 vols. Leverkusen: Gottschalk. An index locorum was published by Gary S. Schwarz  and Richard L. Wertis as index locorum zu Kühner-Sleymann "Satzlehre', Darmstadt: Wissenschafliche Buchgescllschail, 1980.  Kulper, Notes on Vedic noun inflexion." Mededelingen der Koninklike Nederlandse Akndemie wan Wetenschappen Kümmel, Martin Joachim. 2000. Das Perfekt im Indoinänischen: Eine Unterstchung der Form and Funkrion einer er  erbien Kategorie des Verbus und ihrer Welterendwicklung in den altindoiranischen Sprachen. Wiesbaden: Rei-chert.  - 2002. Konsonanterwande: Bausteine zu einer Typologie des Launwandels und ire Konsequenzen für die ver- gleichtende Rekonstruktion. Wiesbaden: Reichert.  Kurylowicz, Jerzy: 1927a a indo-européen et h hittite" In Symbolae granumaticae in honorem Joannis Rozwadowski,  95-101. Cracow: Drukarnia Uniwersytetu Jagiellorskiego. An English translation by Axel Holvoet is available in  The Young Kurylowicz, ed. Wajciech Smoczynski, 5-16 (Cracow: Puligrafix, Les effets du 2 en indo-iranien." Prace Pilologicane An English translation by Axel Holoct is available in The Young Kurylowicz, ed. Wojciech Smoczynski, 17-58 (Cracow. Poligrafix, A remark on Lachmannis Law." Harvard Stalies in Classical Philology 72:295-9. Kurz, Josef, ed. 1958-97. Slovnik jazyka starosiovensktho. Lexican linguas palacoslovenicat. Prague: Ceskoslovenské  akademie ved.  Lahiri, Aditi, and B. Elan Dresher. 1999. "Open syllable lengtbening in West Germanic." Langunge 75.678-719.  Lambert, Pierre-Yves, 2003. La langue gralnise: Description linguistique, commentaire d'inscriptions choisies. 2nd ed.  Paris: Frrance.  Lamberterie, Charles de, 1992. "Introduction à l'armenien dassique" LALIES).  Langlois, Pierre. Les formations en -bundus: Index et commentaire." Revue des étades latines Langsions, D. R. 2000. Medical Latin in the Roman Empire. New York: Oxford University Press.  Lass, Roger. 1994. Old English: A Historical Linguistic Companion. Cambridge Cambridge University Press.  LaurentPast Participles from Latin to Romance. Berkeley: University of California Press.  Lausberg, Heinrich. 1963-72. Romanische Sprachwissenschuft. Berlin: de Gruyter.  Lazzarini, Maria Letizia, and Paolo Poccetti, 2001. Liscrizione palecitalica da Tortona. Il mondo enotrio tra V e IV secolo a.C: Atti dei seminari napolefani, ed. Maurizio Bugno and Concetta Masseria, Naples:  Loltredo.  Lazzeroni, Romane. 1996. "Antila, I dittonghi, e la cicata: Una riposta." Studi e sagri lingristici La quarta declinazione latina: Genere grammaticale e organizzazione dei paradigmi." Archivio glottologico italiano Isaccusatività indocuropea e alternanza vedica." Archivio giottologico italiano 89.1-28. Lease, Emory B, 1904. "Contracted forms of the perfect in Livy"" Classical Review Lee, Charmaine. Linguistica romanzza. Rome: Carocci.  Lehiste, Ilse. The timing of utterances and linguistic boundaries" Journal of the Acoustical Society of America  51:2018-24.  Lehmann, Op the Latin of Clandius Terentianus (P. Mich. VIII. 467-472). Cuadernos de filologia  clásica Latin syllable structure in typological perspective." In Calboli Lehmann, Winfred P. 1974. Proto-so-European Syntax Austin: University of Texas Press.  . 1986. A Gothic Etymological Dictionary. Leiden: Brill. Theoretical Bases of indo-European Linguistics. London: Routiedge. Lejeune, Michel, 1971. Lepontica. Paris: Belles Lettres.  1972. Phonétigue kistorique du mycénien et du grec ancien. Paris: Klincksieck. Manuel de la langue vénite. Heidelberg: Winter. , 1982. "Venetica XVIII: Dans la plus ancienne épitaphe atestine, vinetikaris ou vineti karis!" Latomes 41:732-42. 1938, Recueil des inscriptions gauloises, Vol. 2, part I: Textes gallo-étrusques: Textes gallo-latins sur pierre. Paris Centre national de la recherche scientifique. . 1990. "Notes de linguistique Italique X: 'Bois" disait ce Sicule: 'je hoirai' répuad ce Falisque." Revie des études latines Le nom de mesure Airpa: Escal lexical" Revue des études grecques 106:1-11. Lepschy [Lepscky], Giulio C, 1962. "Il probiema delfaccento latino" Annali della Scuola normale superiore di Plus,  lettere, Leskien, Die Bildung der Nomina im Litanischen. Berlin: Hirzel.  . 1990. Handbuch der althugarischen (alrkirchsivischen) Sprache, 10th ed. ter. by Johannes Schrüpfer. Heidelberg:  Winter.  Leumann, Manu, 1917. Die lateinischen Adjektiv auf -lis. Strassburg: Trübner.  Das fat. Suffix -dneus" Indogermanische Forschurger Die Adjektiva auf - Icius. In Kleine Schriften, [ed. Heinz Haffter, Ernst Risch, and Walter Riegsl. 3-35, Zürich: Artemis. Originally appeared in Giotta Lateinische Laut und Formenlehre, Vol, 1 of Lateiniche Grunmatik by Manu Leumann, I. B. Hofmann, and Anton Seantyr. Munich: Beck. Levente, László 2002.  •"The quantity of final - In the nominative-accusative of Latin U-stem neuter nouns" Acta  Antiqua Hungarica 42:133-40.  Lewis, Henry, and Holger Pedersen. 1961. A Concise Comparative Celtic Grammar. 3rd ed. Göttingen: Vandenboeck  et Ruprecht.  Lincoln Theorizing Myth Narrative, Ideology, and Schoiarship, Chicago: University of Chicago Press.  Lindeman, Fredrik Otta, 1965. "La lal de Sievers et le début du mot en indo-européen." Norsk Thisskrift for Sprogviderskap Intruduction to the "Laryngenl Theory" Innsbruck Innsbrucker Beiträge zur Sprachwissenschaft. Revised version of 1987 edition (Oslo: Norwegian University Press).  Lindner, Thomas. 1996. Lateinische Komposita: Ein Glossar vornehmlich zum Wortschatz der Dichtersprache. Innsbruck: institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck. Lateinische Komposita: Morphtologische, historische und lexikalische Studien. Innsbruck: Instätut für Sprachen und Literaturen der Universität Innsbruck.  Lindner, Thoass, and Oniga Zur Forschungsgeschichte der lateinischen Nominalkomposition. Per  una storia degli studi sulla composizione nominale latina." In Calboli Lindsay, W. M. 1892. "Ueber die Versbetonung vin Wörtern wie facilius' in der Dichtung der Republik" Philologus  51:364-74.  , 1894, The Latin Langoge: An Historical Account of Latin Sounds, Stems, and Flexions, Oxford: Clarendon. , 1913. Sexti Pompei Festi De verburum siguificats quae supersunt cum Panit epitome. Leipzig: Teubner. 1922, Early Latin Verse. Oxford: Clarendon. , 1930, Festus. Pp. 71-467 of Glossaria Latina dussu Academiae Britannicas edita IV (Placidus, Fesrus), ed. J. W. Pirie and W. M. Lindsay, Paris: Belles Lettres, 93-467. Reprinted Hildesheim: Olms, 1965, with indices by A. Thier-felder. Liver Rätoromanisch: Eine Einführung in das Bindnerromanische. Tübingen: Narr.  Llvingston, Ivy. 2004. A Linguistic Commentary on Livins Andronkws. New York: Routledge.  Lloyd, Albert, and Otto Springer: 1988- Etymologisches Wörterfnech des Arlochdeutschen, Göttingen: Vandenhoeck  et Ruprecht.  Lloyd, Paul M. 1993. Del latin al español. Trans. by Adelino Alvarez Rodriguez, Madrid: Gredos.  Lochner von Hüttenbach, Fritz Freihert, Michaela Ofitsch, and Christian Zinko Jahre Indogermanistik  in Graz (1873-1996): Forschtung und Lehre. Grax: Universitätsbibliothek.  Lofstedt, Bengt. 1967. "Bemerkungen zut Adverb im Lateinischen." Indogermanische Forschungen 72-79-109.  Lofstedt, Einar. Philologischer konmenter zur Peregrinatio Actherlae: Ustersuchungen zur geschichte der latei-mischen sprache. Uppsala: Almgvist et Wiksell. [An Italian translation by Paolo Pieroni with updated bibliography and notes was published as Commento filologico aila Perigrinatio Aetherioe: Ricerche sulla storia della lingue latina, Bologne: Pitron, Sywfaction: Studien und Beiträge zur historischen Syntax des Lateins. Vol. 2. Lund: Gleerup.  • 1942. Symactica: Shedien und Beiträge zur historischen Syntax des Lateins, Lund: Gleerup.  1939. Late Latin, Oslo: Aschehoug: Cambridge, MA: Harvard University Press. 'There is a 1980 Italian translation by Glovanni Orlandi with updated bibliography: Il latino tardo: Aspetti e probiemi, Brescia: Paideía  Lomanto, Valeria, and Nino Marinone, eds. 1990. Index Grammaticus: An Index to Latin Grammar Texts. Hildesheim:  Olms-Weidmann.  Lombard, Alf. 1936. Einfinitif de narration dans les langues romanes. Uppsala: Almqvist et Wiksells.  La Monaco, Francesco, and Piera Molinelli, eds. 2007. LAppendix Probi: Nuove ricerche, Florence: Gallazzo.  Loporcaro, Michele, 2005. "La sillabazione di muta cum liquida dal latino al romanzo." In Latin et langues ramanes:  Mtudes de linguistique offertes à József Herman à l'occasion de son 80ème anniversaire, ed. Sándor Kise, Luca Man-din, and Giampaolo Salvi, 419-30. Tübingen: Niemeyer. L'Appendix Prohl' e la fonologia del latino tardo" In La Monaco and Molinelli 2007, 95-124.  Larenzo, Ramon. 1968. Sobse croeologia do vocabultrio galego-portugues (Anotapies ao Dicionario etimoligico de Juse  Pedro Machado), Vigo: Galaxia.  Lottner, Ober die Stellung der Italer innerhalb des indoeuropäischen Stammes" Zeitschrift far vergieichende  Sprachfurschung 7:18-49, 161-93.  Lubotsky, Alexander, ed. 1997. Sound Law and Annlogy: Papers in Hanor of R. S. P. Beckes on the Docasion of His 60t  Birthday, Amsterdam: Rodopi  - 2000. "Indo-Aryan 'six." In Lochner von Hüttenbach et al. Lucchesi, Elisa, and Elisabetta Magni, 2002. Verchie e nuove (in)certezze sul Lepis Satricanus, Pisa: ETS.  Lodtke, H. 1962. "Zar Ausspeache von Lat. /al und /a/, Glotta Lahr, Rosemarie, 1993. Zur Unstrukturierung von agenshaltigen Sachverhaltsbeschreloungen in Komplementfunktion, dargestellt an altindogermanischen Sprachen." Historische Sprachforschunger Lani, Old Church Slavonic Grammar. 7th ed. Berlin: de Gruyter.  Luque Moreno, Jesis. 2006. Accentus (ПО2016): El canto del lengunje. Representación de los prosodemas en la  escridura alfabética. Granada: Editorial Universidad de Granada.  Macdonell, Arthur Anthony, 1910. Vedic Grammar, Strassburg: Trubner.  A Vedic Grammar for Students. Oxford: Clarendon.  Machado, José Pedro. 1987. Dicionário etimológico da lingra portuguesa con a mais antiga documentapio escrita e  comhecide de maitos das vocabules estudiados. Lishon: Horizonte  Maiden, Martin. 1995. A Linguistic History of Italian, London: Longman. Perfect pedigree: The ancestry of the Aromanian conditional" In Cajord University Working Papers in Lin-guistics, Philolog: and Phonetics, ed. Ashdowne and Finbow Oxford: [Facuity of Lin- guistics, Philology and Phonetics).  Maltby, Tiballas and the language of Latin elegy. In Aspects of the Language of Latin Poetry, ed. J. N. Adams  and R. G. Meyer, New York: Oxford University Press.  Malsahn, Melanie, Das lemnische Alphabet: Eine digenständige Entwicklung" Studi Etruschi On the ablaut of the root aorist in Greck and Indo-European." Historische Sprachforschung Manessy-Guitton, Jacqueline. 1963. Recherches sur les dérivés nominaux à bases sigmatiques en sanscrit et en latin.  Dakar: Université de Dakar.  Mancini, Marco. Isidoro di Siviglia e la questione degli cositoni in latino" In Scribthair a cinm -oguie: Scritti im memoria di Enrico Companile, ed. Riocardo Ambrosini, Maria Patrizia Bologna, Filippo Motta and Chatia Orlandi,  2:547-63. Pisa: Pacini.  Dilatandis litteris': Lino studio su C. e la proaunzia 'rustica" In Studi linguistici in onore di Roberto Gusmani, ed. Raffaella Bombi et al., Alessandria: Orsa. Pra latino dialettale e latino preromanzo: Fratture e continuità." In La preistoria dellitaliano: Alti della Tavola rotonda di linguistica storica, Università Ca' Foscuri di Venezia, ed. Jizsef Herman and Anna Marinetti, Tübingen: Niemeyer. Agostino, i grammatici e il vocalismo del latino d'Africa. Rivista di linguistica Una testimonia di Consenzio sul namerale 'trenta' in latino volgare." in Roma et Romania: Festschriß filr Gerhard Ernst zun 65, Geburtstag, ed. Sabine Heinemann, Gerhard Bernhard, and Dieter Kattenhusch, Tübingen: Niemeyer. Manczak, Wisold, 1999. "Opinion de Robert Murray et Naomi Cull sur lorigines des langues romanes" In Petersmann  and Kettemann, Grec oûc" Glotta Maniet, Albert. Plante, lexique inverse, listes grammaticales, relevis divers. Hildesheim: Olms.  MareS, De litterarum latinaram nominihus." Wiener Studien, Marichal, Robert, Les graffites de La Grufeseque. Paris: Centre national de la recherche scientifique.  Les ostraca de Bu Njew. Tripoli: Grande Jamahira arabe, libyenne, popalaire et socialiste, Eépt. des antiqui-Mariner Bigorra, 5, Las cinco declinacionas latinas en dos fases de la historia de la lingística. Hidinantica 3:407-14.  Marinetti, Anna, Le iscrizioni sudpicene. Florence: Olschki. Venetico Acquisizioni e prospettive" In Protostoria e storia del "Venetorum Angulus": Atti del XX Convegno di studi etruschi ed italici, Portograro, Quarto d'Altina, Este, Adria, Pisa: Istituti editoriali e poligrafici internazionali.  Mariotti, Italo, ed. 1967. Marii Victorini Ars Grammatica: introduzione, testo critico e commento. Fiorence: Le Monnier.  Marolta, Giovanna, The Latin syllable" In The Syllable: Views and Facts, ed. Harry van der Hulst and Nancy  Ritter, Berlin: de Gruyter.  Marouzeau, Quelques aspects de la formation du lutin litéraire. Paris: Klincksiock Marstrander, Cari, 1929. "De funité italo-celtique Norsk Zidskrift fur Sprogwidenckep Martinez. Javier, and Michiel de Vaan. Introducción al Avéstico. Madrid: Ediciones Clisicas MartzlofE, Vincent. Les thèmes de présent dans lépigraphie italique et on larin archaique. Université  Lumière-Lyon 1l.  Matasovic, Kanko, 1997, Knutka poredbenopovijessa gramarika latinstogo jezika, Zagreb: Matica arvatska.  Uses and misuses of typolagy in Indo-Buropean linguistics" In Lochner von Hüttenbach et al. Etymological Dictionary of Proto-Celtic: Leiden: Brill. Mather, Que modo inciendi verbi composita in pracsentibas temporibus enuntiaverint antiqui et  scripserint." Harward Studies in Classical Philingy Matras, Varon. 2002. Romani: A Linguistic Istroduction, Cambridge: Cambridge University Press.  Matthews, Morphology. 2nd ed. Cambridge: Cambridge University Press.  Matzinger, Joachim. Zu armenisch mck wir." Historische Sprachforschung Messapisch und Albanisch" iternational Journal of Diachronic Linguistics Untersuchungen zum altermenischen Nomen: Die Flexion des Substantivs. Detelbachc Röll . Der altalbanische Text Mösuame e Krishtere (Dottrina cristiana) des Leke Matröngw von 1592: Eine Einfüh-rung in die albanische Sprachwissenschaft. Dettelbach: Roll. Maychofer, Manfred, Supplement zur Sammlung der alpersischen Inschriften. Vienna: Österreichische Alademic  der Wissenschaften.  , 1986. Indogermanische Grammatik. Vol. 1, Lastiehre. Heidelberg: Winter. , Blymologisches Würtertruch des Alrindoarischen. Heideberg: Winter. Mayrhofer, Manfred, Martin Peters, and Oskar I. Pfeiffer, eds. 1980. Lautgeschichte wud Etymologie: Akten der VI.  Fachtogung der Indogermanischen Geselischaft, Wien, Wiesbaden: Reichert.  Mazzini,  "Ii manuale di storia della lingua latina" Paideia McAlpin, David W. Velars, uvulars, and the North Dravidian hypothesis" Journal of the Americon Oriental Society McCone, Kim 1991. The Indo-European Origius of the Old Irish Nasal Presents, Subjunctives and Futures Innshruck:  Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck.  Towards a Relative Chronology of Ancient and Medieval Celtic Sound Change. Maynooth: Department of Old Irish, St. Patrick's College. The Early Irish Verb. 2nd ed. Maynuoth: An Sagart. , 2005. A First Old trish Grammar and Reader, Incinding an Introduction to Middle irlsh. Maynooth: Department of Old and Middle Trish, National University of Ireland. McManus, Damian. A Guide to Ogum. Maynooth: An Sagart.  McNeal How did Pelasgians become Hellenes? Herodotus Milnois Classical Stadies Meier-Brügger, Michael, 1980. "Lateinisch audire/oboedire Etymologie und Lautgeschichte" In Maychafer et al, Griecitische Sprachwissenscheft. Berlin: de Gruyter.  Humerisch appou(Sic), mykenisch d(uJuan(phi) und Verwandtes" Glotta Eudo-Еиторем Lingwistics. Trans by Charles Gertmenian. Berlin: de Gruyter. Meillet, Antoinc. De l'expression de Faoriste en latin." Revue de Philologie De quelques emprunts probables en gres et en latin" Mémoires de la Societe de linguistique de Paris Sur le sulfixe indo-européen "-nes-" Mémoires de la Société de linguistique de Paris Les noms du 'feu' et de l'eau' et la question du genre" Mémolres de la Société de lingristique de Paris Les dialertes indo-européens. 2nd ed. Paris: Champion. The first edition was 1908, There is a 1968 English translation by Samuel N. Rosenberg, The Indo-European Dialects (University, AL: University of Alabama Press). Esquisse d'une grammaire comparée de l'arménien dassique. 2nd ed. Vienna: Pp. mékhitharistes. Introduction à lêtude comparative des langues indio-curupéennes 8th ed. Paris: Hachette. Aperçu d'une histoire de la langue grecque. Avec bibliographie mise à jour ef complétée par Oliver Masson. Paris: Klincksieck. Le slave commun. 2nd ed. Avec le concours de A. Vaillant. Paris: Champion. Esquisse d'une histoire de la langue latine. 2th ed. Paris: Klincksieck. Only the bibliography has been updated Meillet, Antoinc, and joseph Vendryes. Traité de grammaire comparée des langues classiques. 5th ed. Paris: Champion. Meiser, Gerhard. 1986. Lautgeschichte der umbrischen Sprache. Innsbruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck.  1993. "Uritalische Modussyntax: Zur Genese des Konjunktiv Imperfekt" In Oskisch-Umbrisch: Texte und Gram-matik. Arbeitstagung der Indogermanischen Gesellschaft und der Società Italiona di Giottologia vom 25, bis 28. September 1991 in Freiburg, ed. Helmut Rix, 167-95. Wieshaden: Reichert. , Das Gerundivum im Spiegel der italischen Onomastik." In Sprachen und Schriften des antiken Mittelmeer-muns: Festschrift für Jürgen Untermann zon 65. Geburtshgg, ed. Frank Heidermanns, Helmut Rit, and Elmar Scebold, 255-68. Innsbruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck. , 1998. Historische Laur- und Formenchre der lateinischen Sproche. Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft. 2003a. Veni, vidi, vici: Die Vorgeschichte des lateinischen Perfekrsystems. Munich: Beck. 2003b. "Lat mando, mandi "kaue." In Linguistica é storia, Sprachwissenschaft ist Geschichte: Scritti in onore di Carlo De Simone, ed. Simona Marchesini and Pacio Pocoetti, Pisa: Giardini. Meisaner, Torsten. 2006. S-stem Nouns and Adjectives in Greek and Proto-Indo-European: A Diachronic Study in Wind  Formation. Oxford: Oxfoed University Press.  Melchert, H. Craig. 1987. "Proto-Inde-European velars in Luvian" In Studies in Memory of Warren Congill (19291985), ed. Calvert Watkins, 182-204. Berlin: de Gruyter.  Cuneiform Lavian Lexicon, Chapel Hill: self-published. Available online at www.linguistics.uck.edu/peuple/ Melchert/webpage/LUV1.EX.pdf. , 1994a. Anatolian Historical Phonology. Ansterdam: Rodopi. The feminine gender in Anatolian." In Früh, Mittel, Spätindogermanisch: Aeten der IX. Fachtagung der Indogermanischen Geselischaft vom 5, bis 9. Oktober 1992 in Zibrich, ed. George Dunkel et al., Wiesbaden: Reichert. , Hittite arki-'chant, intone vs. arkiowa-'make a plea." Journal of Cuneiform Studies 50-45-S1. Hittite nominal stems in -anzan-" In Indogermanisches Nomen: Derivation, Flexion und Ablaut. Akten der Arbeitstagung der Indogermanischen Gerellschaft = Society for indo-Europenn Studies = Sociêté des études indio-européennes, Freiburg, 19, bis 22. September 2001, ed. Eva. Tichy, Dagmar S, Wodtko, and Britta Irslinger, Bremen: Hempen. , ed. 2003b. The Lulans. Leiden: Brill. . PIE thom' in Caneiform Luvian?" In Proceedings of the Fourteent Annual UCIA Eudo-Earopean Carfer-ence, Los Angeles, November 8-9, 2002, ed. Karlene Jones-Bley et al, Washington, EXC: Institute for the Study of Man. 2004. A Dictionary of the Lycian Language. Ann Arbor: Beech Stave. 2005. "Indo-Baropean linguistics: A 19th century science in the 21st century." Collitz Lecture, presented at the Linguistic Society af America Institute, Cambridge, M.A, Greek mdlybdos as a loanword from Lydian." In Hitlites, Greeks and their Neighbors in Anatolla, ed. Billie Collins et al. www.linguistics.ucla.edu/people/Melchert/recent_papers.html. Mellct, S, M. D. Joffre, and G. Serbat, 1994. Grammaire fondamentale du Latin: Le signifié du verbe. Louvain: Pecters.  Menéndez Pidal, Ramón. 1962. Manual de gramática histórica española. 11th ed. Madrid: Espasa Calpe, Mercado, Angelo. 2006. The Latin Saturniun and Italic Verse. UCLA. peopleucsc edu/-anmercad/research.htmi#Discertation.  Mesa Sanz, El desco y el subjuntivo: Andlisis de los actas de habia y e valor "aptalivo" en lengra latina. Alicante: Universidad de Alicante.  Mester, R. Armin, 1994. "The quantitative trochee in Latin." Natural Language and Linguistic Theory 12:1-61.  Meyer-Labke, W. 1920. Einführung in des Sinditam der romanischen Sprachwissenschaf. 3rd ed. Heidelberg: Winter,  - 1935. Romanisches etymologisches Würterbuch. 3rd ed. Heidelberg Winter.  Mikalson, Ennius' usage of is ea id." Hatvard Strafies in Classical Philology Miller, D. Gary. Latin Suffixal Derivatives in English and Their Eudo European Ancestry, Oxford: Oxford University Press.  Miranda, E., ed. 1990-. Iscrizioni greche d'halia: Napol, Rome: Quasar.  Moll, F. de B. Gramática histórica catalana Madrid: Gredos. The Catalan translation, Gramárica histárica  catalana (Valencia: Universitat de Valencia) is unchanged.  Moller, Review of Friodrich Kluge, Beitnäge zur Geschichte der germanischen Compugation (Strassburg:  Trübner). Englische Studien Mommsen, Die unteritalischen Dialekte. Leipzig: Wigand  Moralejo, Notación de la aspiración consondatica en el latér de la República: Testimorios epignificas datadas. Bologna: Compositori.  Morani, Moreno 1986. "Un problema di grammatica Latina: Laccusativo plurale del teri in «42" AUti del Sodalicio  Giostologico Milanese Introdiczione alia linguistica intina. Munich: LINCOM Europa.  Mocetti, Luigi. inscriptiones Graecue Urbis Romae. Rome: Istituto Italiano per la Storia Antica.  Morgenstierne, Georg, 1983. "Hemerkungen zum Wort-Akzent in den Gathas und im Paschto." Mänchener Stadien  zur Sprachwissenschaft Morpusgo Davies, Ninefeeuth-century Linguistics. History of Lingwisties, ed. Giulio Lepechy:  London: Longman.  Morris Jones A Weish Grammaz, Historical and Componalive: Phanclogy and Accidence. Oxford: Clarendon.  Mayse-Faurie, Le drefa: Langue de Lifou (Tes Loynuté), Phonologis, marphologie, syntaxe. Paris Sociêté  détudes linguistiques el antropologiques de France.  Mras, "Assibilierung und Palatalisierung im späteren Latein." Wiener Studien Muljacit, Das Dalmatische: Stadien zu einer untergegangenes Spruche. Cologne: Böblau.  Muller, Jean-Claude 1986. Early stages of language comparison from Sassetti to Sir William Jones Kratylos Muller-Wetzel, Martin. 2001. Der lateinische Konjunklin: Seine Einheit als deiktische Kategorie. Eise Erklärung der  modalischen Systeme der klassischen Zeit. Hildesheim: Olins-Weidmann.  Narten, Zum proterodynamischen Wuraciprisens" In Protidinam Inaiar, Inauian, and Indo-Europous Sradles Presented to Franciscus Bernardus Jacobus Kulper on His Sixtieth Birthday, ed. Heesterman, G. H.  Schokker and V. L. Subramoniam, The Hague: Mouton.  Nedoma, Robert, 1995, Die Inschriß auf dem Helm B von Negau: Möglichkelten und Grenzen der Deutung nonditlischer  epigraphischer Denkondler, Vienna: Fassbaender.  Neri, I sostantivi in -u del goticos Morfologia e preistaria. Innsbruck: Institut für Sprachen und Literaturen,  Abteilung Sprachwissenschaft. Riflessioni sull'apofonia radicale di proto-germanico "nami" 'nome." Historische Sprachforschung Niedermann, Max, 1899. "Studien zur Geschichte der lateintschen Woribildung." Indogermanische Forschungen Prècis de phonétigue historique de Intin. 4th ed. Paris: Klincksleck.  Nieto Ballester, E. Remarques sur le prétenda datif singulier en 4 dans le latin archaique" Indogerimanische  Forschungen Nikolaey, K dejstviju zakona Rixsa v drevnegredeskom jazyke" In Hydá mánasa: Stornik statej k 70-letjo s0 dnjo rodderija professora Leonarda Georgievida Gertsenderga, ed. N. N. Kazanskl, Saint Petershurg-Nauka  Noreen. Adolf. 1904. Altschwedische Grammatik, mit Ebuschluss des Algurnischen. Halle: Niemeyer.  Alisländische und altnorwegische Grammatik (Laut- und Flexionslehre) anter Berlicksichtigung des Urnardischew. Halle: Niemeyer.  Nussbaum, Ennian Laurentis Terra" Harwind Studies in Clasical Philology Studies in Latin noun formation and derivation: Y in Latin denominative derivation" En Indo-European  Studies II, ed. Calvert Watkins, Linguistics, Harvard, Caland's Law and the Caland System, Harvard, Head and Horn in Indo-European. Berlin: de Gruyter. Five Latin verbs from a root "leik-" Harvind Studies in Classical Philology Latin dolom, auritus, acutus, avitus: Four of a kind?" Paper presented at the 15th East Coast Indo-European Conference, Vale University, The Saussure Effect' in Latin and Italic." In Lubotsky More on "decasuntive" nocinal stems." Paper presented at the 17th East Coast Indo-European Conference, The University of North Carolina at Clapel Hill, Two Studies in Greek and Homeric Lingwistics, Göttingen: Vandenboeck et Ruprecht. , Severe problems" In Jasanoff et al. JOCIDUS: An account of the Latin adjectives in -idus" In Compositiones indogermanicae in memoriam Jochem Schindler, ed. Heiner Elchner and Hans Christian Luschützky, Prague: Enigma. A benign interpretation." Paper presented at the 22nd East Coast Indo-European Conference, Harvard Cool *-Ed-: The Latin friged and Greek alynown, tein, and plysavoc types" Paper presented at the East Coast Indo-European Conference, Virginia Tech, Latin present stems in -sa-: A possibly not so minor type" Paper presented at the Kyoto Indo-European Conference, Kyoto Verim Docenti: Sradies in Historical and Indo Eirobean Lingwistics Presented to Jay H. Jasanoff by Sti-dents, Colleagrets, and Friends Ann Arbor: Bosch Stave. Natting, The ablative gerund as a present participle" Classical Journal Nyman, Latin -la 'nom. pl: as an Indo-European reBex" Glorta Nyrop, Kristaffer. 1913-67. Grammatre historique de la langue française. Vol. 1, Histoire externe de la langue et la phonétigur, Sth ed. rex. by I Laurent, Morphologie, La formation des mots, 2nd ed. rev. by K. Sandfeld, Semantique, La syntaxe; noms et pronoms, La syntaxe; verbes, particules, la proposition, 1930. Copenhagen: Gyldendal.  Oettinger, Norbert. 1997. "Grundsitzliche Oberlegungen zum Nordwest-Indogermanischen" Encoutri linguistici  Zum nordwest-indogermanischen Lexion: Mit ciner Bemerkung zum hethitischen Genitiv aaf-L"In An-reiter and Jerem Die Stammbildung des hethitischen Verbuns. 2nd ed. Dresden: TU Dresden. Neuerung in Lexikon und Worthildung des Nordwest-Indogermanischen." In Bammesberger Chals, The phonetics of sound change." In Historical Linguistics: Problems and Perspectives, ed. Charles  Jones, London: Longman.  Phonetics and historical phonology" In The Fiandbook of Historical Linguistics, ed. Brian D. joseph and Richard I. Janda, 669-86. Malden, MA: Blackwell.  Olander, Thomas, The dative plural in Old Latvian and Proto-Indo-Furopean." Infogermanische Farschunger  Oliver, Revilo P. 1966. "Apex and Sicilicus" America Journal of Philology Olsen, Birgit Anette. 1988. The Prato-Indo-European Instrument Nown Suffix *-tom and its Variants, Copenhagen:  Munksguard. The Now in Biblical Armenian: Origin and Word-formation, with Special Emphasis on the indo-European Heritage. Berlin: de Gruÿter.  Oniga, I COMPOSTI NOMINALI LATINI: UNA MORFOLOGIA GENERATIVA, Bologna: Patron.  "Lapofonia nei composti e l'ipotesi dell' intensità iniziale in latino (con aleune consequenze per la teoria dell'ictus metrico) In Metrica classica e linguistica, ed. Roberto Danese, Franco Gori and Cesare Questa, Urbino: Quattro Venti. 2003. "La sopravvivenza di lingue diverse del latino neil'italia di eti imperiale" Lexis Osthaff, Hermann. Das Verbum in der Nominalcomposition im Deutschen, Griechischen, Slavischen und Romanischten. Jena: Costenoble.  Paden, Introduction to Old Cecitan. New York: Modern Language Association of America.  Palmer, Prank R. 2001. Mood and Modality. 2nd ed. Cambridge: Cambridge University Press.  Palmer, Leonard R. 1961. The Latin Language, London: Faber and Faber.  Panagi, Prisuppositionen und die Syntax der lateinischen Komparation." Salzburger Beitrage zur Linguistik Zu den Formen auf -mint im lateinischen Verbalsystem." In Flarilegium lingwisticum: Festschrift für Wolf. gung P. Schwid zum 70. Gehurtsfog ed. Eckhard Eggers et al., Frankfurt am Main: Lang. Panagi, Oswald, and Thomas Krisch, ed. 1992. Latein and Indugermanisch: Akten des Kollogniums der Indagerna-nischen Gescilschaft, Salzburg Innshruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck.  Parker, The Relative Chronnlogy of Some Major Latin Sound Changes. Yale, Latin siso » sero and related rules." Glotta Parsons, A new approach to the Saturnian verse and its relation to latin prosody." Transactions of the  American Piafiologioni Association Patri, Sylvain. Observations sur la loi de Winter" Historische Sprachforschung Paul, Hermann. Prinzipien der Sprachgeschichte. 5th ed. Halle: Niemeyer.-Podersen, Holgez. La cinquieme déclinaison latine. Copenhagen: Höst. The Discovery of Language: Lingwistic Science in the Nineteenth Century, Translated by John Webster Spargo. Bloomington: Indiana University Press.  Pellechia, M., The mystery of Etruscan origins: Novel clues from Bos taurus mitochondrial DNA." Procentings of the Roym Society: Bialugical Sciences Pellegrini, Giovan Battists. Alcune osservazioni sal 'retoromanzo" Lingwistica (Ljubljana) Pellis, Ugo, et al. Ariante linguístico italiano. Rome: Istituto poligrafico e Zecca dello Stato.  Penney. Indo-Europens Perspectives: Studies in Honour of Davies. Oxford.  Penny, A History of the Spanish Langnage. 2nd ed Cambridge Cambridge University Press.  Perrot, Les dérives latins en - men et -mentum. Paris: Klincksieck Peters, Attisch hiêmi." Die Sprache Unfersuchungen zur Vertretung der Endogermanischen Laryngule in Griechischen. Vienna: Osterreichische Akademie der Wissenschaften. Tin tiefes Problem." In Compositiones inslogermanicoe in memoriam jochem Schindler, ed. Heiner Eikhner and Hans Christian Luschützky, Prague: Enigma. Gallo-Int.) marcasior." In Anreiter and Jerem Petersmann, Hubert. 1973. "Zu Cato de agr. 134,1 und den frübesten Zeugnissen fir den Ersatz des Nominativs Piuralis von Substantiven der 1. Deklination durch Formen auf-as" Wiener Studien Petersmann, Hubert, and Rudolf Kettemann, eds, 1999. Latin vulgaire, latin tardif Vi Actes dur Ve Colloque international  sur le latin vulgeire et tandif. Heidelberg: Winter.  Petit,Lituanien." LALIES Suc- eu groc ancien: La famille du promom néfléchi. Linguistique grecque et comparaison indo-curopéenne. Louvain: Poeters. Apophonie et catéguries grammaticales dans les langues baltiques. Louvain: Peeters. Pfister, Max. 1979-. Lessico etimologico italiano. Wiesbaden: Reichert.  Pianezzola, Gli aggetivi verbali ir -hundus. Florence: Sansoni.  Pinault, Introduction au tokharien" LALIES Chrestomathie takharienne: Textes et grammaire. Louvain: Peeters.  Pinkster Latin Synslux and Semantics. London: Routiedge.  Pironz, Il ruovo Pirona: Vocabolario frisiano. Udine: Bosetti.  Pirson, J. 1906. "Mulomedicina Chironis: La syntaxe du verbe" In Restschrift zum XII. allgemeinen deutschen Neuphilologentage in München, Pfingsten, 1906, ed. E. Stolireither, Erlangen: Junge.  Pisani, Vittore, Storie di parole," Archivio glorrologico italiano. "7 da e in latino?" Die Sprache 26:185-6.  Poccetti, Etrusco Feluske = Faliscus? Note sull'iscrizione della stele arcaica di Vetulonia." Studi etruschi Poccetti, Paolo, Diego Poli, and Carlo Santini, UNA STORIA DELLA LINGUA LATINA: FORMAZIONE, USO, COMUNICAZIONE, Roma: Carocci.  Pakorny, Julius. 1959 69. Indogermanisches erymologisches Wörterbuch. Bern: Francke.  Paljakov; Oleg. 1995. Das Probem der Buito-slavischen Sprachgemeinschef. Frankfurt am Main: Lang.  Pope, Mildred Katharine, 1952. From Latin to Modern French. 2nd ed. Manchester: Manchester University Press.  Porzio Gernis Contributi metodologici allo studio del latinó arcalco: La sorte di M e D finali." Memorie della Accademia Nacionale dei Lincei, Cl. di Sc. morali, storiche e filologiche, Gli clementi celtici del latino." In I Ceiti d'halia, ed. Enrico Campanile, Pisa: Giardini.  Rosner, The Romance Languages, Cambridge: Cambridge University Press.  Postgate, ]. P. Operatus and operari." Jauznal of Philology Poucet, Tarigine sabine de la commutatio du -d- en -t, un mythe linguistique?" Antiguité dassique 35:140-48.  Poultney The Bronze Tables of Iguviam. Baltimore: American Philological Association. The language of the Northern Picene inscriptions" Journal of Indo-Baropean Studies Powell, A new text of the Appendix Probi." Classical Quarterly Prinz, Zur Entstehung der Prothese vor s-impurum im Lateinischen." Glotta Probert, Philomen, On the prosody of Latin enclitics." Ofand University Working Pupers in Lingristics, Filologx and Phonetics Prokosch, Eduard. 1939. A Comparative Germanic Grammar. Philadelphia: Linguistic Society of America.  Prosper, Manca Maria. 2002. Lenguas y religiones prerromunas del occidente de la Peninsuia Ibérica, Salamanca Universidad de Salamanca  Fuelma, Mario, Nachtrag zu spectrom: Bin beues Wortzeugeis" Museum: Heiveticum Puhvel, Hirtite Etymological Dictionary. Berline de Gruyter.  Latin faror: Help from Hitite" In Jasanoff et al. Pultrovi, Lucie, 2005. The Vocalism of Latin Medial Syllables. Prague: Univerzita Karlova v Praze, Nakl. Karolinum.  Purnelle, Gérald. 1995. Les usages des graveurs dans la notation d'upsion et des phonèmes aspirés Le cas des antiroponymes grecs dans les inscriptions latines de Rame. Geneva: Druz.  Puscariu, Sextil. Etymologisches Würterbuch der nmänischen Spruche. Heidelberg: Winter.  Die romänische spraches Ihr wesen und ihre volkliche prägung. Trans. Heinrich Kuen. Leipzig: Harrassowitz.  Quellet, Henri. 1969. Les dérivés latins en -or: Etude lexicographique, statistique, morphologique et sémantique. Paris:  Klincksieck.  Questa, Cesare. La metrica di Píauto e di Terenzio, Urbino: Quattro Venti.  Quirk, Ronald J. 2006, The Appendix Probi: A Scholar's Guide to Text and Context. Newark, DE: de la Cuesta.  Ramat, Anna Glacolone, and Paolo Ramat, eds. 1998. The Indo-European Langsages. London: Routledge.  Rasmussen, Jens E. 1994. "Miscellaneous morphological problems in Indo-European languages Ill: Arbejdspapiner  udsendr of testitut for Lingvistik, Kaberhavs Universilet Studien zur Morphophonemik der indogermanischen Grundsprache. Innsbruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck , The origin of the Latin gerund and gerundive" Copenhagen Working Papers in Linguistics, Against the assumption of an 1! ""*ctures rule." In Proceedings of the Twelfth Arenal UCLA Indo-European Conference, ed. Martin Huld et al., Washington, DC: Institute for the Study of Man. Rauch, Irmengard, The Old Saxon Language: Grammar, Epic Narrative, Linguistic Interference. New Yorie Tang.  Reichelt, Hans. Awestisches Flementarbuch. Heidelberg: Winter.  Reichenkron, Historische latein-altromanische Grammatik. Wiesbaden: Harrassowitz.  Reichler-Béguelin, Marie-José, 1986. Les noms larins du type mêns: Erude morphologique, Brussels: latomus.  Renou, Louis. Grammarie sanscrite. 3rd ed. Paris: Maisonneuve.  Reypulds, Elinor, Paula West, and John Coleman. Proto-Indo-European 'laryngeals' were vocalie." Diachronica  Rheinfeldes, HL. Altfranzösische Grammatik. 5th ed. Munich: Hueber.  Ricken, Elisabeth, 1999. Untersuchungen zur nominaien Stammbildung des Hethrinschen. Wiesbaden: Harrassowitz  Tat. egt führte, itc-l 'warf" and h.-luw. INFRA a-ka 'unterwarf." In Nussbaam, Riggsby, Andrew M. Elision and hiatus in Latin prose" Classical Antiquity Kinge, On the Chronology of Sourd Citages in Tocharian. Vol. 1, Fram Prufo-Indo-European to ProtoTocharian. New Haven: American Oriental Society,  On the origin of 3pl. imperative-vcov." In Festschrif far Eric Hamp, ed. D. Q. Adanis, Washington, DC: Institute for the Study of Man. A Lingwistic History of English. Froms Proto-indo-European to Prodo-Germanic. Oxford: Chdord Uni-versity Press. A sociolinguistically informed solution to an old historical problem: The Gothic genitive plural," Transactions of the Philological Society, Old latin - mind and 'analogy. In Nussbaur Risch, Ernst. Der Typus parturise im Lateinischen." Indogermanische Forschungen Wartildung der homerischen Sprache. 2nd ed. Berlin: de Gruyter. 1981. Gersndivum und Gerundion: Gebrauch im klastschen und älteren Latein, Eatstehung und Vorgeschichte. Berlin: de Gruyter. Gab es im Latein ein Neutrum Singular nudinson?" In Sprachwiserschafiliche Porschungen: Festschrit fr Johann Knabloch zum 65. Geburtstag am 5. Januar 1984 durgebracht von Freunden and Kollegen, ed. Hermann M. Olberg and Gernot Schmidt, 329-38. Innsbruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität lansbruck: Risselada, Rodie. 1993. Emperatives and Other Directive Expresions in Latin: A Study in the Pragmatics of a Dead  Language. Amsterdam: Gichen.  Kitter, R.-P. 1996. introducción al armenio antiguo. Madrid: Ediciones Clásicas.  Kix, Helmut, Sabini, Sabeili, Samnium: Fin Beitrag zur Lautgeschichte der Sprachen Altitaliens." Beitnäge zur  Namenforschung, Die lateinische Synkope als historisches und phonologisches Problem." Kratylos Reprinted in Strunk Fexion und Wortbildung: Akzen der V. Fachtagung der Indogermanischen Gesellschaft, Regenshung, Wiesbaden: Reichert. Das keltische Verbalsystem auf dem Hintergrund des indo-iranisch-griechischen Rekonstruktionsmodella" In Indugermanisch und Keltisch: Kalloguiren der Indogenmanischen Gesellschaft am 16. und 17. Februar 1976 in Bonn. Vortnüge, ed. Karl Horst Schmidt, Wiesbaden: leichert. Review of M. Lejeune, linthroponymsie osque (Paris: Belles Leitres, 1976). Kratyios Pyrgi-Texte und etruskische Grammatik." In Akten des Kolloquiams zum Thema "Die Göttin von Pyrg!: Archolgische, lingwistische, und religionsgeschichrliche Aspekte (Tubingem, 16.-17. Jantar 1979), [ed. Aldo Neppi Modona and Friedhelm Prayon], Florence: Olschki. Rapporti onomastici fra il panteon etrusco e quello romano." In Gli etruschi e Roma: Arti del'incontro di studio in onore di Massimo Pallottina, Rona, 11-13 dicemöre 1979, [ed. G. Caloana et al.J. 104-26. Rome: Bretach-neider. Das letzte Wort der Duenos-Inschrift." Mänchener Studien zur Spruckwissenschaft Die Endung des Akkusativ plural commune im Oskischen." In O-o-pe-ro-si: Festschrift für Emast Risch zum 75, Geburtstag, ed. Annemarie Etter, 583-97. Berlin: de Grayter. Tat, patronus, matrona, colonus, pecumia." In Indogermanic Europsed: Festschrift fior Wolfgang Meid zum 6) Geptetstag am 12.11.1989, ed. Karin Heller, Oswald Panagi, and Johann Tischler, Gra: Instirut fir Sprachwissenschaft Graz.  , Etruskische Texte: Editio Minor. In collaburation with Gerhard Meiser. Tübingen: Narr. "Etrusco un, sme, un he, tibi vos' e le preghiere del rituali paralleli nel Liber Linteus." Archeologia dassica Üridg &'esio- in den südindogermanischen Ausdricken für 1000" In Studia etymologica indocuropaca memorine A. J. van Windekens (1915-1989) dicata, ed. I. Isebeert, Louvain: Department Orientalistiek. , Historische Grammutik des Griechische. 2nd ed. Darmstadt: Wissenschafliche Buchgesellschatt. 1995a. "Einige lateinische Präsensstammbildungen zu Set-Wurzeln. "In Karylowicz Memorial Voltane, etl. Wojciech Smncayiskt, 1:399-408, Cracow: Uiniversitas. -. 1995b. "Griechisch ¿xiorauar: Morphologie und Etymologie" In Verbe ef Structurne: Festschrift fier Klaus Strunk zum 65. Geburtstag, ed. Heinrich Hettrich et al, 237-47. Innsbruck: Institut für Sprachwissenschalt der Universität innsbruck. Oskisch bravús, oskisch uruvi, lateinisch urvum und 'europäisch' brave." Historische Sprachforschug 108:84-92 . 1995d. "Il latino e l'etrusco" Eulopia Reriew of Schriiver 1991. Kratylos Germanische Runen und venetische Phonetik." In Vergielchende germanische Philologie und Skandinavistit: Festschrift fir Obnar Werner, ed. Thomas Birkmann et aL. 231-48, Tübingen: Niemeyer. Ratisch und Etruskisch. Jansbruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck.  La scrittura e la lingua." In Gli etruschi: Una nuova inmagine, ed. Mauro Cristofani, Florence: Martello.  Sabellische Texte: Die Texte des Oskischen, Ursbrischen, ind Südpikenischen. Heidelberg: Winter, Ausgliederung und Aufgliederung der italischen Sprachen." In Bammesberger I nomi delle figure dei miti greci nelle lingue dell'#alia antica: The first traces of Achilles and Hercules in Latin." In Penney Lehnbezichungen zwischen den Sprachen Altitaliens" in Sprachkontakt und Sprachwandel: Akten der XI. Fachlagung der indogermanischen Gesellschuft, Halle an der Suale, ed. Gerhard Meiser and Olav Hackstein, 559-72. Wiesbaden: Reichert. Roberts, lan. Dinchronic Syntax. Oxford: Oxford University Press.  Robinson, Old English and Its Closest Relatives: A Survey of the Farliest Germanic Languages. Stanford:  Stanford University Press.  Rohifs, Vom Vulgürlatein zum Aitfranzösischen: Einführung in das Studium der alfranzüsischen  Sprache. Tübingen, GRAMMATICA STORICA DELLA LINGUA ITALIANA E DEI SUOI DIALETTI, Turin: Einaudi. Fonetica, Morfologia, Sintassi e formazione delle parole trans. PERSICHINO (vedasi)  trans. FRANCESCHI (vedasi) Franceschi and Fancelli., Die Sonderstellung des Rätoromanischen" In Raetia Antiqua et Moderna: W. Theodor Elwert zum 8D. Ge- burtstag, ed. Günter Holtus and Kurt Bingger, Tubingen: Niemeyer. Romero, Joaquin, n.d. "Temporal reduction effect in diachronic change: Rhotacism." Abstract avallahle at www.zas.  gwa-berlin.de/events/phon_interfaces/abstracts/romero.pdf.  Ross, Alan S. C. and Jan Berns, Germanic" In Ino-Europenn Numerals, ed. Jadranka Grazdanovié, 555-715.  Berlin: de Gruyter.  Rassler, Die lateinischen Reliktwörter in Berberischen und die Frage des Vokalsystems der afrikanischen  Latinität" Belträge zur Namenfarschung, Rothe, Wolfgang, Einfübrung in die historische Laut und Formeniehre des Ramänischen, Halle: Niemeyer.  Russell, Paul. Recent work in BRITISH LATIN, Cambridge Medieval Celtic Stadies 9:19-29.  Sabanéeva, M. K. 1995. Essai sur lévolution du subjonctif latin: Probièmes de la modalité verbale, Louvain: Peeters.  Sadovski, Velizar: Dvaniva, tatpurusa and bahuvriai: On the Vedic sources for the names af the compound  types in Pánini's grammat" Transactions of the Philological Society 100:351-402.  Salarewicz, Le rhotarisme latin. Vilnius: Naklad Towarzystrez Przyjaciol Nauk ve Wilnie.  Historische lateinische Grammatik. Halle: Niemeyer. Lingristic Studies. The Hague: Mouton. Note sur le developpement de i devant ube voyelle en Latin." Eos Salvi, Giampaolo, 1997, 'Cola e clitici in latino," Palimpszeszt 8. irodalom.elte.hu/palimpszeszt/08_szam/06.htm.  Sanz Ledesma, Manuel El albanés Gramática, historia, textos. Madrid: Ediclones Clásicas.  Sblendorio Cugusi, I sostantivi latini in -tudo. Bologna: Patron.  Scarlata, Salvatore, Die Wurzelkomposita im &g-Veda. Wiesbaden: Reichert.  Schad, Samantha, A LEXICON OF LATIN GRAMMATICAL TERMINOLOGY, Pisa: Serra.  Schafiner, Stefan, Das Vernersche Gesetz und der innerparadigmalische grammatische Wechsel des Urgerna-mischen im Nominalbereich. Innsbruck: Institut für Sprachen und Literaturen der Universität Innsbruck.  Scharfe, Hartmut. The Vedic word for 'king?" Journal of the American Oriental Society Scheid, Commentarit Fratrum Arvoliun qui supersuni: Les copies épigraphiques des protocoles annacis de la confrérie arvale, 21 au-304 ap. J.-C. Rome Ecole française de Rome, Soprintendenza archeologica di Roma.  Schindler, Jochem, Das Wurzelnomen im Arischen und Griechischen. Ph.D. diss., Julius-Maximilians-Universität zu Würzburg-, Lapophonie des noms-racines indo-européens" Bulletin de la Société de linguistique de Paris Bemerkungen zur Herkunlt der Idg. Diphthongstämme und zu Eigentümlichkeiten ihrer Kasusformes." Die Sprache Zum Ablaut der neutralen s-Stämme des Indogermanischen.* In Rix Lapophonie des thèmes indo-européens en rin" Bulletin de la Société de lingwistique de Paris Notizen zum Sieversschen Gesetz." Die Sprache Zur Herkunft der altindischen cvl-Bildungen" In Mayrhofer et al. Alte und neue Fragen zum Indogermanischen Nomen (erweitertes Handout). In in honorem Hoiger Pad-ersen: Kalloguium der Indogermanischen Geseitschaft vam 25. bis 28. März 1993 in Kopenhagen, ed. Jens Elmegärd Rasmussen, Wiesbaden: Reichert. Schmidt, Gernot. 1978. Stamumbilduny wnd Flexion der indogermanischen Personalpromnina. Wicsbaden: Harras50Wit  Schmidt, Jobannes. Die griechischen ortsadverbia auf -ui -vc und der interrogativstamm ku. Zeitschrift für  vergleichende Sprachforschung Schmidt, Keltisches Wortgut im Lateinischen." Glotta Schmitt, Einführung in die griechischen Dialchte, Darmstadt: Wissenschaftliche Bochgesellschalt.  Compenditm linguarm iranicarsan. Wiesbaden: Reichert. , The Bisitan Inscriptions of Darias the Greal: Old Persian Text. Londoa: School of Oriental and African Stud-tes. , Grammarik des Klassisch-Armenischen mit sprachverglechenden Erländerungen. Innsbruck: Institat für Sprachwissenschaft der Universitat Innsbruck. Schmitz, Philip C. 1995, "The Phoenician text froen the Etruscan sanctuary at Pyrgi" Journal of the American Oriental  Society Schneller, Christian, 1870. Die romanischen volksmundarten in Südtirol, noch ihrem zusammenhange mit den romanischen und germanischen sprachen etymologisch and grammarikalisch dargestellt. Vol. 1. Gera: Amthor.  Schrifver, Peter. The Reflexes of the Proto-indo-Eurapean Laryngenis in Latin. Amsterdam: Rodopi.  , Studies in British Celtic Historical Phonology. Amsterdam: Rodapi , Studies in the History of Ceitic Pronouns and Partides. Maynooth: Department of Old Trish, National Uni-versity of ireland. , The Chateaubleau tile as a link between Latin and French and between Gaulish and Brittonic" Études cel. tiques Athematic 1-presents: The Italic and Celtic evidence" Incantri lingwistici Revien of Meiser Kratylos Schröder, Eingführung in das Studium des Rumanischen: Sprachwissenschaft und Literaturgeschichte. Berlin:  Schmidt.  Schrodt, Richard, 1976. Die germanische Laudverschiebung und ihre Stellung im Kreise der indogermanischen Sprachen.  2nd ed. Vienna: Halosar. Althochdeutsche Grammatik: Syntax. Tübingen: Niemeyer.  Schuhmann, Roland, Zur deminutiven Funktion des "-lo-Suffixes in Substantiva." In Tichy. Wodtko and Irslinger Schultz-Gora, Oskar. Alprovenzalisches Elementarbuch 4th ed. Heidelberg: Winter.  Schulze, Wilhelm. 1887. "Etymologische Miszellen." Zeitschrift für verglekchende Sprachforschung Schumacher, Stefan. Sprachliche Gemeinsamkeiten zwischen Rätisch und Etruskisch." Der Schlern Die keltischen Primärverben. Innsbruck: Institut für Sprachen und Literaturen der Universität Innsbruck. Die rütischen Inschriften: Geschichte unsd heufiger Stand der Forschung. 2nd ed. Innsbruck: Institut für Sprachen und Literaturen der Universität Innsbruck Schwyzer, Griechische Grammatik, Vol. 1, Lautlehre, Wortbildung, Flexion. Munich: Beck.  Schneyzer, Eduard, and Albert Debrunner. Griechische Grammatik, Syntax und syntaktische Stylistik. Munich: Beck,  Scida, Emily. 2004. The Inflected Infimitive in Romance Langages. New York: Routledge.  Seebold, Elmar. Ae, fwegen und ahd, zwine zwei." Anglia, Vergleichendes und etymologisches Wörterbuch der germanischen starken Verben. The Haguc: Mouton.  Seidi, Christian, Le système acasuel des protoromans ibérique et sarde: Dogmes et faits" Vac Romanior Die finanziellen Schwierigkeiten eines Getreidebändlers und der Profit, den die Linguistik daraus zichen kann." In Aspects of Latin, ed. Hanna Rosén, Innsbruck: Institur für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck, "Les variétés du latin." In Erst et al. Seldeslachts, Herman, Etudes de morphologie historique de verbe Intin et indo-européen. Louvzin: Pecters.  Sen, Ranjan. Vowel-weakening before muta cum liquidi sequences in Latin" Oxfond University Working Papers  in Linguistics, Platiology anul Prometics Senn, Handbuch der Iitauischen Sprache. Heidelberg: Winter.  SENSI (vedasi) Treblae 144 in Inscriptiones latinae liberne repuélicae" In Epigrafia: Actes du callaque international dépigraphie latine en mémoire de Attilio Degrassi pour le contenaire de sa maissance, ed. Silvio Panciera, Rome: Ecole française de Rome, Université de Roma-La Sapienza. (A supplement to ILLRP.)  Serbat, Les dérivés nominaux latins à suffixe mediatif. Paris: Belles Lettres.  -, Le 'futur antérieur' chez les granumairiens latins" In Collart, Erat Pipa quoedam..." Revue des études Intimes Que signifient les marques pronominales des indéfinis latins?" Bulletin de la Société de linguishique de Paris Linguistique Jarine et linguistique générale: Fuit conférences faites à la Fuculté de philosophie et lertres de 'Université catholique de Louvain. Louvain-la-Neuve: Peeters, Les structures du latin avec un choix de fextes traduits et annotés de Plante aux "Serments de Strasbourg". 41h ed. Paris: Picard. Serbat, Gury, eGraneaire fondamentale du latin, Lourain: Pecters.  Shapiro, On the origin of the term Indu-Germanic." Historiographica Lingmistica, Shintani, On Winter's Law in Balto-Slavic Arbeidspapirer udsendt af Institut for Lingvistik, Kabenhavns Universitet Sühler, New Comparative Grammar of Greek and Latin. Oxford, The myth of the direct reflexes of the PlE palatal series in Kati" In Studies in Honor of Joan Puhve. Ancient Languages and Philology, ed. Dorothy Disterheft, Martin Huld, and John Greppin, Washington, DC: Institute for the Study of Man.  Langnage Histury: Art Introduction. Amsterdam: Benjamins. Edgertons Law: Tse Phantom Evidence. Heidelberg: Winter. Simon, 2solt, Lat, riger, nigra, nigrum und das indogermanische Suffix-ró-: Acta Antiqua Hungarica 43431-Skutsch, VII. iaientare, lainnus" Archiv für lateinische Lexikographie Skutsch, "Nocts." Glotte The Annals of Q. Ennius. Oxford: Clarendon. Smith,, A. R. Bradlow, and T. Bent. Production and perception of temporal contrast in foreign accented English. In Proceadings of the XVih infernational Congress of Phanetic Sciences, ed. M. J. Sole, D. Recasens, and ]. Romero, Barcelona: Universitat Autonomá de Barcelona.  Smith, Gérard, Réflexions sur le sulionctif latin archaique et préclassique. Dreux: Dreux.  Smith, Martin S, Petronii Arbitri Cena Trimalchionis. Oxford: Clarendon.  Smoczynski, Wojciech. Lexikon der alpreussachen Verbes. Innsbruck: Institut für Sprachen und Literaturen der  Universität Innsbruck.  Solin, Heikki, Marti Leiwo, and Hilla Halla-aho, Latin vulguire, intin tindif Vl: Actes die Vie Colloque lnter  national sur le latin vulgaire et hardif, Helsinki, Hildesheim: Olms.  Solinas, 11 celtico in Italia." Studi etruschi Salmsen, Felix. 1894. Studien zur lateinischen Lautgeschichte. Strassburg: Trübner  Somerville, Tbe orthography of the new Gallus and the spelling rules of Lucilius." Zeitschrif für Papyriogie und Epigrapiui: Sommer. Ferdinand. Lucilius als Grammatiker" Hermes Handbuch der lateinischen Lawd-und Formeniehne Eine Einfihrung in das sprachwissenschaffliche Studiam des Lateins. 2nd and 3rd ed. Heidelberg: Winter. , Kritische Erläuterungen zur lateinischen Land- und Formenlehre: Heidelberg: Winter. , Affinitas acquivaca" In Schriften aus dem Nachlass, ed. Bernhard Forssman, Munich: Kitzinger. Sommer, Ferdinand, and R. Pfister 1977. Handbuch der lateinischen Laut- und Formenlehre. Vol. 1, Einleitung und  Lautlehre. 4th ed. rev. by R. Pfister. Heldelberg: Winter.  Sonderegger, Stefan, Althochdeutsche Sprache und Literatur: Eine Einführung in das alteste Deutsch. Darstellung  and Grammarik: 3rd ed. Berlin: de Gruyter.  Soubiran Lélision dans la poésie letine. Paris: Klincksieck. Essai sur la versification dramatique des romains: Séncire tambique et septénaire trochaigue. Paris: Centre national de la recherche scientifique. Prosodie et métrique du Miles glariosus de Plaute: Introduction et commentaire. Louvain: Peeters.  Southern, Sub-grammatical Survival: Indo-European S-moolle and its Regeneration in Germanie  Washington, DC: Institute for the Study of Man.  Stang, Christian. Vergleichende Grammatik der baltischen Sprachen. Oslo: Universitetsforlaget.  Starke, Die kellschrift luwischen Texte in Umschrift. Wiesbaden: Harrassowitz  -, Untersuchtungen zur Stammbildung des keilschrif-luwischen Nomens. Wieshaden: Harrassowitz.  Stassen, Leon. Comparison and Universal Gramonar. Oxford: Blackwell.  Stefanelli, Rossana Focile an dificudt" in Studi linguistici offerti a Gabriella Giacomelli dagil amici e dagli alievi, (ed. Amalia Catagnoti et al j. 393-403, Padua: Unipress  Stefenelli, Arnalf. Die Volkssprache im Werk des Petron im Hinblick auf die romanischen Sprachen. Vienna: Brau.  miller.  Steinbaner, Dieter: Newes Hundinach des Etruskischen. St. Katharinen: Scripta Mercaturac.  Steller, Walter, Abriss der aitfriesischen Grammatik, mit Benücksichtigung der westgermanischen Dialecte des Aitenglischen, Altsüchsischen und Aithockdeutschen, mit Lesestücken und Wortverzeichnis, Halle: Niemeyer.  Stephens, Laurence D. Universals of consonant dusters and Latin gr-" Indogermanische Farschungen Latin gr-: Further considerations." Indogermanische Forschungen The role of palatalization in the Latin sound change // > /ß/" Transactions of the American Pliological Association The Latin canstruction fore/futurum (esse) ur : Syntactic, semantic, pragmatic, and dischronic consider- ations." The American Journal of Philology Stifter, David. 2006. Sengoideic: Old Erish for Hegiuners. Syracuse, NY: Syracuse University Press.  Stok (vedasi) Appendix Probi TV. Naples: Arte.  Stolz, F.. A. Debrunner, and W. P. Schmid. Geschichte der lateinischen Sprache, 4th ed. Berlin de Gruyter. 'There is an Italian translation, Storia delia lingua latina by Cario Benedikter, with Introduction and notes by A. Traina and an appendix that is a transiation of a Russian essay by J. M. Tronskij on the formation of the literary language  (Bologna: Patron). This work was updated by E. Vineis Streitberg. Urgermanische Grammatik. Hesdelberg: Winter.  Die gotische Fibel. 7th ed. Heidelberg: Winter.  Strodach, George K. 1933, Latin Diminutives in -elio/a- and - ilio/a: A Study in Diminutive Formation. Philadelphia:  Linguistic Society of America.  Strunk, Klaus. Ober Gerundivum und Gerundium II" Gymnasium Probleme der lafeinischen Granmuatik. Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft. Zum Verhältnis von Wort und Satz in der Syntax des Lateinischen und Griechischen." Gymnastum Lateinisches Gerandium/Gerundivum und Vergleichbares* In Jasanoff et al. Stuart-Smith, Jane. Phonetics and Philology: Sound Change in Italic. Oxford: Oford University Press.  Stüber, Karin. Die primären s-Stämme des indogermanischen. Wiesbaden: Reichert.  Sturtevant, Tenuis and Modia" Transactions of the American Philological Association THE PRONUNCIATION OF LATIN, Philadelphia: Linguistic Society of America Suirez Martinez, Le -u chez les neutres de la 4ème déclinaison Iatine" In Aspects of Latin, ed. Hannah Rosén, 91-8. Innsbruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck,  Szemerényi, The development of the Indo-Furopean Mediae Aspiratae in Latin and Etalic." Archivum  Lingwistican Latin hibernus and Grock youtpivoç The formation of tine adjectives in the Classical languages" Glotta Istroduction do Indo-Furopean Lingwistics. Oxfocd: Clarendon. Sanaider, Lyliane. Les adjectifs en -idus, -a, -um. In Kircher Durand TAGLIAVINI (vedasi) Einfüloung in die romanische Philologie. Tübingen: Francke. Transinted by Reinhard Meister-feld and Uwe Peterben from Le origini delle lingue neolatine (Bologna: Patron). The portraits of the great Romance scholars, however, can only be seen in the Italian edition.  Tekavtié, Sulla forma verbale vegliota "fera' e sull' origine del futuro veglioto." Incontri linguistici Thieme, Paul. 1982. "Mening and form of the 'Grammar' of Papini." Studien zur Indologie sond Iranistik 8-9:1-34.  Reprinted and expanded in Kleine Schriften, ed. Renate Sähnen-Thierne, Stuttgart: Steiner, Thilo, G, and H. Hagen, Servii Grammatici qui ferunter in Vergilli carmina commentarii, Leipeig Teubner  Thonsas, François. 1938. Recherches sur ie subjonchif lutin: Histoire et valeur des fornes. Paris: Klincksieck.  Thomason, Sarah Grey, and Terrence Kaufman, 1988. Language Confact, Creolization, and Generic Lingidstics. Berkeley: University of California Press.  Thorhallsdóttir, Gadrún. 1993. The Development of Eitervocalic *j in Prato-Germanic. Cornell.  Thumb, Albert, and Richard Hauschikl. 1958. Handbuch des Sanskrit. 3rd ed. Heidelberg: Winter.  Thurneysen, A Grammar of Oid irish. Revised edition with supplement by D.A. Binchy and O. Hergin.  Dublin: Dublin Institute for Advanced Studies.  Tichy, Die Nomina auf-tar- in Vedischen. Heidelberg: Winter. A Survey of Proto-into-Exropenn. Trans. Cathey. Bremen: Hempen.  Tichy, Eva, Dagiar 5, Wodtko, and Beitta Erslinger, eds. Indogermanisches Namen: Derivation, Flexion und  Atlaut. Bremen: Hempen.  Timpanaro, Sebastiano, 1965. "Mute cum liquida in poesia latina e net latino volgare" in Studi in anore di SCHRIAFFANI (vedasi), Rome: Ateneo.  Tingdal, G. C. Andelser -is i ackus, plur. Aos de efteraugustelska författurne. Göteborg: Hermann.  Tischler, Hethätisches etymologisches Glossur. Innsbruck: Institut für Sprachissenschaft, Innsbruck.  Hethitisches Handwürterbuch mit dem Wortschatz der Nachbarsprachen. 2nd ed. Innsbruck: Institut für  Sprachen und Literaturen der Universität Innsbruck.  Tjäder, Jan-Olof, Die nichtitterarischen lateinischen Papyri Italiens aus der Zeit Lund: Gleerup.  Toporov-, Priski) jazyk. Moscow: Nauka.  Touratier, Christian, 1994. Syntaxe latine, Louvain-la-Neuve: Peeters.  Trask; A Dictionary of Phonetics and Phonology. London: Routledge.  The History of Basque. London: Routiedge. Where do marna/papa words come from?" University of Sussex Working Papers in Linguistics and English Language sussex.ac.uk/linguistics/1-4-1.htmal. Trantngann, Reinhold, Die altpreussischen Sprachdenkmüler, Einleitung, Texte, Grammatik, Wärterbuch Göttingen: Vandenhoeck et Buprecht.  - Bafrisch-slavisches Würterßuch. Göttingen: Vandenhoeck et Ruprecht. Tremblay, Gramotaire comparée et grammaire bistorique: Quelle réalité est reconstruite par la grammaire comparder" In Áryas, aryens et iraniens en asle centrale, ed. Gérard Fusaman et al., Paris: Callège de France.  Trubachev, O. N. Erimologicheskij slovar slavjanskix jazykav. Moscow: Naulta  Taur, Reaven. Onomatopoeia: Cuckoo-language and tick-tocking. The constraints of semiotic systems. trismegistos.com/IconicityInI.anguage/Articles/Tsur/  Turner, The position of Romani in Indo-Aryan." Journal of tie Gypsy Lore Society Tuttle, Alpine systems of Romance sibilants" In Ractia Antiqua et Moderna: Ehvert zurs  80. Geburtstag. ed. Günter Hoitus and Kurt Ringger, Tübingen: Niemeyer.  Uhlich, Jürgen, On the linguistic classification of Lepantic" In The Celtic World: Critical Concepts in Historical  Studies, ed. Raimund Karl and David Stifter, London: Routledge.  Untermann, Jürgen. Zur semantischen Organisation des lateinischen Wortschatzes. Gymnasium Wurzelnomina im Lateinischen." In Panagi and Krisch Wörterbuch des Oskisch-Uinbrischen. Heidelberg: Winter. Quolus und Valesiasio. Zam pronominalen Genitiv im Lateinischen." In Linguistica è storia: Stritti in omore di Cario De Simone. Sprachwissenschaft ist Geschichte: Festschrift fir Cario De Simone, ed. Simona Marchesini and Paolo Poccetti. Pisa: Giardini. Vainänen, V, Intraduction au LATIN VULGAIRE, Paris: Klincksieck. The Italian translation by A. LIMENTANI (vedasi), Introduzione al LATINO VOLGARE, Bologna: Patron, has many additions and correctivas. Vaillant, Grammaire comparée des langues slaves. Lyon: IAC.  Vairel, The position of the vocative in THE LATIN CASE SYSTEM. American Journal of Philology, Les énoncés prohibitifs au subjonctif, ne facias, ne feceris et ne faxis." Revue de philologie van der Meer, L. Bouke. Liber Linteus Zograbiensis = The Linen Book uf Zagreb: A Comment on the Longest  Etruscan Text. Louvain: Pecters.  van Driem, Languages of the Himalayas: An Ethnolinguistic Handbouk of the Greater Himalayan Region  Containing an Introduction to the Symbiotic Theory of Langwage. Leiden: Brill.  Van Valin, An introduction to Syntax. Cambridge: Cambridge University Press.  Vasmer, Russisches etymologisches Wörterbuch. Heidelberg: Winter. The Russian translation by Q Trubachev, Erimologibeskij slovar' russkogo jazyka (Moscow: Progress) has revisions and corrections.  Vendryes, Les correspondances de vocabulaire entre l'indo-iranien et l'italo-celtique." Mémoires de la  Société de linguistique de Paris Sar quelques formations de mots latins. Les substantifs masculins en -a. Ii: Quelques dérivés de thèmes  en -u- (-tu-)" Mémoires de ln Société de linguistique de Paris.  Vendryes, Lexique étymologique de l'imandais ancien. Dublin: Dublin Institute for Advanced Studies.  Ventris, Michack, and John Chadwick, Documents in Mycentean Greek. 2nd ed. by John Chadwick. Cambridge:  Cambridge University Press.  Verner. "Eine Ausnahme der ersten Lautverschiebung" Zeirschriß für vergleichende Sprachforshung 2Vernesi, C., et al. The Etruscans: À population genetic stady." American Journal of Human Genetics Vernet i Ports, Mariona. La segona conjugació verbal latina: Estudi etimologic I comparatis sobre lorigen protoindoeuropeu de la formació dels seus temes verbals. Barcelona: Institut d'Estudis Montjaic.  Viljama, Toivo, The Infinitive of Narration in LIVIO (vedasi). A Study is Narrative Technique. Turku: Turan yliopista.  Villar, The Latin diphthongs "-al, *-al in final syllables." Indogermanische Forschungen A New Interpretation of Celiberian Grammar. Innsbruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universita Innsbruck.  Vincent, The evolution of C.structure: Prepositions and PPs from Indo-European to Homance" Linguistics Vine, Brent. Studies int Archic Latin Inscriptions. Innsbruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität  Ennsbruck  Remarks on the Archaic Latin 'Garigliano Bowl inscription"" Zeitschrif für Papyrologie und Epigraphik A note on the Ducsas inscription." In UCIA 2udo-European Stadies, Ivanov and Brent Vine, Los Angeles: UCLA Program in Indo-European Studies.  Latin "opid and optare." In Poetika, istorija, literatury, lingvistiba: Sbornik k 70-letiju Vjaceslava Vsevoiodovida Eranova, ed. A. A. Vigasin et al.. Moscaw: OGL. Alt épatam, Ion. eipwtái ask." Glotta Greek opri, English spoon: A note on "Ehner's Law." Mänchener Studien zur Sprachwissenschaft South Picene imih." American Philalogical Associa- tion, Montreal, Quebec, Canada, An alleged case of inflectional contamination: on the f-stem inflection of Latin CIVIS" Incontri linguistiel On 'Thurneysen-Lavet's Law' in Latin and Italic." Historische Sprachforschung On the etymology of Latin tranquillus 'calm." International Journal of Diachronic Linguistics and Linguistic Reconstruction Viparelli, Tra prosodia e metrica: Sw alni problemi del Carmen de figuris. Naples: Loffredo von Bradke, Beiträge zur Kenrinis der vorhistorischen Entwicklung unseres Sprachshammes. Glessen: Münchew. Voretzsch, Einfihrung in das Stadium der alfranzüsischen Sprache zum Seltstunterricht für den Anglinger.  8th ed. Tübingen: Niemeyer.  Wachter, Arlateinische Inschrifter: Sprachliche und epigraphische Untersuchungen zu den Dokumenten  bis elwa 150 v Chr. Bern: Lang.  Wackernagel, Jacob. Über ein Gesetz der indogermanischen Wortstellung" Indogermanische Forschungen Genetiv und Adjcktiv" In Melonges de lingwistique offerts à M. Ferdinand de Soussure, Paris: Cham-pion. 1926. "Conubium" In Festschrift für Pawl Kretschmer: Beiträge zur griechischen und lateinischen Sprachfarschung. 289-306. Vienna: Verlag für Jagend und Volk. Vorlesungen über Syntax, mit besonderer Berücksichtigung von Griechisch, Lateinisch und Deutsch. 2 vols. Basel: Birkhäuser. [Edited and translated into English with commentary and bibliography by Lang-slow as Lectures on Syntax, with Special Reference to Latin, Oxford. Wackernagel, facob, and Albert Debrunner. Altindische Gramonatik. Göttingen: Vandenhoeck et Ruprecht.  Wagner, Max Leopold. Flessione nominale e verbale del sardo antico e moderno." L'italia dialettale La lingua sarda: Storia, spirito e forma. Bern: Francke. Historische Wortbilegslehre des Sardischen. Bern: Francke. Dizionario etimologico sardo. Heidelberg: Winter. Fonetica starica del sardo. Cagliari: Trois. Italian translation of Historische Laudichre des Sardischen (Halle: Niemeyer), with introduction and appendix by Giulio Paulis. La lingua sarda: Storia spirito e forma. New ed. with introduction by Giulio Paulis. Nuoro: ilisso. Waldc, Alois, and Hofmann. Lateinisches etymologisches Wirterbuch. Heidelberg: Winter.  Wallace, Rex. The deletion of s in Plautus." American Journal of Philology Perfect subjunctive and future perfect paradigms." Ciassical Journal The origins and development of the Latin alphabet." In The Origins of Writing, ed. Wayne M. Senner, Lincoln, NE: University of Nebraska Press.  , ed. Res Gestae Divi Augusti OTTAVIANO (vedasi). Wauconda: Bolchazy-Carducci. Venetic" In Woodard, The Sabellic Langnages of Ancient Italy. Munich: LINCOM Europa. Zikh Rasma: A Manal of the Etruscan Language and Inscriptions. Ann Arbor: Beech Stave. Ward, Stop plus liquid and the position of the Latin accent." Language Wartburg, Walther von. Französisches etymologisches Wärterbuck: Eine Darstellung des galloromanischen  Sprachschatzes. 2nd ed. Bonn: Kiopp.  Watkins,"Talo-Celtic revisited" In Ancient Indo Europcan Dialects: Proceedings, ed. Henrik Birabaum  and Jaan Puhvel, Berkeley: University of California Press  Latin sons," In Studies in Historical Lingwistics in Honor of George Sherman Lane, ed. Walter W. Arndt et al., Chapel Hill: University of Noeth Carolina Press. Geschichte der indogermanischen Verbalflexion. Indegermanische Grammatik, od. Jerxy Kurytowicz. Heidelberg: Winter. A further remark on Lachmann's Law.' Harvard Studies in Classical Philelogy Etyma Enniana." Harvard Studies in Classical Philology "Latin ioviste et le vocabulaire religieux indo-curopéen." In Melanges linguistiques offerts d Emile Beriveniste, ed. M. Dj. Moinfar, Louvain: Pecters. , The etymology of Old Trish dúan." Celtica Towards Proto-Indo-Buropean syntax; Problems and pseudo-problems" In Papers from the Parasession on Diachronic Syntax, od. Sanford B. Steever, Carol A. Walker, and Salkoko S. Mufvene, Chicago: Chicago Linguistic Society. Syntax and metrics in the Dipylon vase inscription." In Shalies in Greek, Italic, and Indo-Eurapean Linguistics Offered to Leunard R. Palmer on the Occasion of His 70th Birthday, ed. A. Morpurgo Davies and W. Meid, Innsbruck: Institut für Sprachwissenschaft der Universität Innsbruck. Proto-Indo-European: Comparison and reconstruction." In Ramat and Ramat, ed. The American Heritage Dictionary of indo-Eurapean Roots. 2nd ed. Boston: Houghton Mifilin. Watmough, Margaret M. T. 1997. Studies in the Etruscan Loanwards in Latin. Florenoe: Olschki.  Welss, Michael, Studies in Italic Nominal Morphology. Cornell.  Life everlasting: Latin iagis 'everflowing' Greck dyis 'healthy, Gothic ajukdaps 'eternity' and Avestan yusuaef- living forever." Minchener Studien zur Sprachwissenschaft S5:Review of Sihler American Journal of Pitifology On some problems of final syllables in South Picene." In Jasanoff et al. Review of Woodard American Journal of Philology Latin arbis and its cognates." Historische Spractfurschung Cui bono? The beneficiary phrases of the Third Iguvine Table." In Nussbaum Language and Ritual in Sabellic Italy: The Ritual Complex of the Whard and Fourth Aguvine Tables. Leiden: Brill. White, English Sperch Timing: A Domain and Locus Approach. University of Edinburgh. cstred.ac.uk/projects/eustace.dissertation.html.  Waitney, William Dwight. A Sanskrit Grammar, Incinding Boch the Classical Language, and the Older Dialects, of Vedin and Brahmana. 2nd ed. Leipzig: Breitkopf et Härtel.  Widmer, Paul. Nartennumen. M.A. thesis (Lizenziatarbeit), Universitär Bern.  Williams, Edwin Bucher. From Latin to Portuguese. 2nd ed. Philadelphia: University of Pennsylvania Press.  Willmott, The Moods of Homtric Greek Cambridge.  Winter, Ibe distribution of short and long vowels in stems of the type Lith. Esti; wisti ; mèsti and OCS jasti: westi : mesti, in Baltic and Slavic languages" In Fisiak Reconstructional comparative linguistics and the reconstruction of the syntax of undocumented stages in the development of languages and language families" la Historical Syntax, ed. Jacek Fisiak, Beriln: Mouton.  Wodtko, Dagmar. Wörterbuch der keitiberischen Inschrißen. Vol. 1 of Monumeute linguarum hispanicarum, ed.  Jürgen Untermann. Wiesbaden: Reichert.  Woodard, Greck Writing from Knosses tu Homer: A Linguistic Interpretation of the Origin uf the Grad  Alphabet and the Continuity of Anciert Greek Literacy. New York: Oxford The Cambridge Encyclopedia of the Worlds Ancient Languages, Cambridge: Cambridge University Press. Wright, A Sociophilologicai Study of Late Latin. Turnhou (Belgium): Brepols. Latin vulgaire, latin tardif VII: Actes du Ville Colloge international sur le latin vulgaire et tandic  Hildesheim: Olms  Wylin, Il verbo etrusco: Ricerce morfosintadtica delle forme usate in funzione verbale. Rome: Bretschneider.  Esiste una seconda lamina A di Pyrgit" Parola del Passato Zair, Dybos Law: Evidence from Old Irish" Oxford University Working Papers in Linguistics,  Pinilology, and Phoneties Zamboni, Alberto, 2002.  "Secale: Etimo latino e diffusione romanza." In Ex traditione inovatio: Miscellanea in honoren Max Pfister septuegenarii oblata, ed. Glinter Holtus and Johannes Kraner, Darmstadt: Wissenschaftliche Buchgesellschaft.  Zamboni, Dizionario elimologico storico friulano, Udine: Casamassima.  Zamora Vicente, Alonso. 1967. Dialectologia española 2nd ed. Madrid: Gredos.  Zellmer, E. 1976. Die lateinischen Wörter auf-ura 2nd ed. Frankfurt am Main: Ziegler, Die Sprache der altirischen Ogom-Erschrifen. Göttingen: Vandenhoeck et Ruprecht Zimmer, Stefan. 2000. Studies in Weish Word-formation. Dublin: School for Celtic Studies, Dublin Institute for Advanced Studies  Zimmermann, La fin de Faleris Veteres: Un témoignage archéologique." J. P. Getty Museum Journal Zinkevizius, Zigmas, 1996. The History of the Lithunian Langwoge. Vilnius: Mokalo ir enciklopediju leidykia.  Zucchelli, B. 1969. Stradi sufle formazioni latine in lo-non diminutive e sui laro rapporti con i diminutivi. Parma: Unlversità degli studi, Istituto di lingua e letteratura Latina. DELIA RETORICA   LIBRI QUATTRO  DI   T. GIOII   AD ERENNIO   VOLGARIZZATI  da GALLONI NAPOLI   TIPOGRAFIA ITALIANA Liceo V. E. al Mere (e Ilo LA RETORICA  Avvegnaché, impedito d agli affari domestici,  a fatica io possa dar tempo bastante allo stadio, o  questo medesimo tempo, che mi è concesso, più  volentieri io soglia nella filosofia impiegare, nondimeno la tua volontà, o Gaio Erennio, mi ha mosso a scrivere dell’ arte del dire, acciocché tu non  islimassi o non aver io per amor tuo voluto o sì  veramente avere la fatica fuggito. E tanto più studiosamente quest’opera ho presa, in quanto che  sapeva che non senza un motivo volevi imparar la  Rettorica. Imperciocché non picciol frutto ha in sè  l’abbondanza del dire congiunta alla facilità dell’orazione, se governata venga da una diritta intelligenza, e da una ragionevole moderazione di animo. Laonde io ho lasciate da parte quelle cose,  che per una specie di ostentazione gli scrittori Greci  nei loro libri raccolsero. Li quali per non parere  di saper poco andarono in cerca di cose al tutto LA RLTTORICA (estranee, a cagione che l’arte si giudicasse cosa  difficile ad apprendersi: ed io per lo contrario non  ho tolto che quelle, che mi parevano dirittamente  appartenere al suggello. Imperciocché io, non già  per la speranza del guadagno o da una vana ambizione stimolato, mi sono posto a scrivere, siccome fanno molli , ma sì solamente per appagare ,  com’ io poteva, i tuoi dcsiderii. Ora, per non proceder tropp’ oltre con vane parole, comincerò a  trattar l’argomento, avvisandoli in prima che l’arte  senza l’assiduilà del dire non giova gran fatto; talché devi intendere che questa ragione del precetto  vuol essere acconciala nell’esercizio.   II. Il dovere dell’oratore si è di poter parlare  di quelle cose, che all’ uso civile sono regolate  dalle costumanze e dalle leggi, conciliandosi, per  quanto ei può, l’approvazione di chi lo ascolta.  Tre sono i generi delle cause, che l’ oratore deve  prendere: il dimostrativo, il deliberativo, il giudiziale. 11 dimostrativo è quello, che si propone o  la lode o il biasimo di alcuna determinata persona. Il deliberativo è quello che, proprio alla consultazione, ha perfine o il persuadere o il dissuadere. Il giudiziale è quello che, proprio alla controversia, comprende in sé accusa o dimandagione  con difesa. Dirò ora le condizioni, che aver deve  un oratore: poscia dimostrerò come debbono essere trattali questi tre generi di cause. È neccssa  Digitized by Google    rio adunque die un oratore abbia invenzione, disposizione, elocuzione, memoria, e pronunciazionc. L’invenzione è un pensamenlo di cose vere o  verisimili, che valgano a far degna di approvazione la causa. La disposizione è un ordine c una  distribuzione delle cose, la quale c’insegna dove  debbasi collocare ciascuna di esse cose. L’elocuzione è alle cose trovate un adattamento di parole  e sentenze idonee. La memoria è un fermo comprendimento dell’animo delle cose o delle parole,  c della disposizione loro. La pronunciazione è un  moderamento della voce del volto e del gesto con  • venustà. Tre cose ciconduconoall'acquisto di tutte  queste doli; l’arte, l’imitazione, el’esercizio. L’arte  è un insegnamento, che ci somministra una via determinata c la maniera del dire. L’imitazione è quella, per la quale noi siamo spinti con sollecita cura  a voler rassomigliare ad alcuno nel dire. L’esercizio è un assiduo uso, ed una consuetudine del dire.   III. Poiché adunque abbiamo dimostralo quali  cause dee prendere l’oratore, e di quali doti essere  fornito, diremo ora come si possano queste proprietà dell’oratore applicare alla composizione di  un discorso. L’invenzione compiesi tutta in sei  parti del discorso, cioè in esordio, narrazione, divisione, confermazione, confutazione c confusione. L’ esordio è principio di orazione, pel quale  l’animo dell’ uditore si dispone all’ attenzione. La     (i LA UETTOIUCA   narrazione è l’esposizione di cose avvenute, o che  si danno come avvenute. Ln divisione è quella, per  cui poniamo in chiaro ciò, che si ha per consentito, o che si adduce in controversia; e per cui  esponiamo le cose di cui dobbiamo tratiare. La  confermazione è una esposizione dei nostri argomenti con affermazione. La confutazione è un solvimenlo degli argomenti conlrarii. La conclusione  è un artificioso termine del discorso. Ora, poiché  ad una colle doti proprie dell’ oratore, siamo ^  nuli, onde la cosa fosse più facile a comprendersi, a far parola delle parti del discorso, attribuendole all’ invenzione, sarà conveniente di parlare innanzi dell’ esordio. Posta la causa, affinché l’esordio sia più acconcio al soggetto, bisogna esaminare qual è il genere della causa. Quadro sono  i generi delle cause, l'onesto, il turpe, il dubbio,  e l’umile. La causa è detta del genere onesto,  quando noi difendiamo ciò, che sembra meritevole di essere difeso da tulli, od oppugnamo ciò,  che sembra meritevole di essere oppugnato da  tutti, come se parliamo in favore d’un uomo prode  o contro un parricida. Si chiama genere turpe,  quando si oppugna cosa onesta, o si difende quella,  che è disonesta. Dubbio genere è, quando la causa  è in parte onesta e in parte disonesta. Umil genere è, quando si mette innanzi cosa comunemente  dispregiata. Stando le cose in questi termini, converrà  adattare la qualità degli esordii al genere della  causa. Due sorti di esordii vi sono: l’esordio diretto, che i Greci chiamano proemio, c l’ esordio  per insinuazione, detto da loro efodo. L’ esordio  diretto è quello, pel quale senza più ci possiamo  rendere 1* animo dell’ uditore disposto ad udirci.  Esso si tratta in guisa da far per l’appunto attenti,  docili, e benevoli gli uditori. Se noi avremo il genere della causa dubbio, cominceremo dal dimandare benevolenza, onde non ci riesca di danno quella parte, ch’ei conterrà, di bruttezza. Se il genere  della causa sarà umile, ecciteremo l'attenzione. Ma  se il genere della causa sarà turpe, allora useremo  l’esordio per insiimazione (del quale parleremo più  sotto), a meuo che non ci fosse avvenuto di trovar  cosa, per la quale, accusando l’avversario, potessimo ottener benevolenza. Se poi il genere della  causa sarà onesto, noi potremo a nostra volontà  usare o non usare I’ esordio diretto. Se vorremo  usarlo, o ci bisognerà mostrare ciò, che fa onesta  la causa, od esporre brevemente il soggetto, che  prendiamo a trattare. Se non vorremo usarlo , ci  bisognerà incominciare citando una legge, un testo, o qualche altra cosa, che sia di fermo appoggio alla nostra causa. E poiché noi vogliamo avere  l’uditore docile, benevolo, ed attento, farò aperto  in che modo si possa ciascuna di queste tre cose ottenere. Noi potremo aver docili gli uditori, se  esporremo brevemente il punto principale della  causa, ed ecciteremo la loro attenzione; perocché  è docile colui, che è disposto ad ascoltare attentamente. Li avremo attenti, se noi prometteremo  di aver a dire cose importanti, nuove, straordinarie, o cose, che riguardino lo stato, o coloro stessi, che ci ascoltano, o il culto degli Dei immortali;  e se pregheremo che ci ascoltino attentamente; e  se esporremo con ordine le cose, che noi prendiamo a trattare.   V. Benevoli ci possiamo rendere gli uditori per  quattro modi: parlando di noi medesimi, degli avversari^ degli uditori, e del soggetto stesso. Noi  riporteremo benevolenza parlando di noi medesimi, se loderemo senz’arroganza l’uffìzio nostro, o  ricorderemo ciò, che facemmo a prò della repubblica, o dei parenti, o degli amici, o di quelli stessi, che ci ascoltano; purché tutte queste cose si  convengano al soggetto, di cui si tratta. E parimente se andremo discorrendo le miserie nostre,  siccome povertà, carcerazione, avversità; c se pregheremo che ci diano aiuto, e dimostreremo nello  stesso tempo che non abbiamo voluto collocare in  estranei la nostra speranza. Noi accatteremo benevolenza parlando degli avversari, se li addurremo  nell’odio, nell’invidia, nel dispregio. Li addurremo  nell’ odio, se manifesteremo di essi alcun fatto o    4   turpe o orgoglioso, o perfido o crudele, o arrogante, o malizioso, o iniquo. Li trarremo nell’ invidia, se porremo innanzi la loro forza, la potenza,  la fazione, le ricchezze, l’ambizione, la nobiltà, le  clientele, l’ospilalilà, le amicizie, le parentele: o  dimoslremo ch’eglino più confidanoin queste cose  che nella verità. Li avvolgeremo nel dispregio, se  metteremo innanzi la loro inerzia, la dappocaggine, la pigrizia, la lussuria. Noi raccoglieremo benevolenza parlando degli uditori, se recheremo in  mezzo i giudizi nei quali essi diedero prova di coraggio, di sapietqp, di clemenza, di magnanimità;  e se faremo aperto quale slima si abbia di essi, c  quale sia l’aspettazione del presente giudizio. Parlando poi del soggetto medesimo ci renderemo  benevolo l’uditore, se innalzeremo la nostra causa  lodandola, e deprimeremo quella degli avversari  dispregiandola. : ì-m   VI. Parleremo ora dell’esordio per insinuazione.  Tre sono le occasioni, in cui non possiamo usare  l’ esordio diretto, le quali sono diligentemente da  considerare; o quando abbiamo una causa disonesta, voglio dire, quando il soggetto medesimo ci  fa contrario l’ animo dell’ uditore; o quando 1' animo dell’ uditore pare essere stato persuaso da chi  innanzi parlò contra noi; o quando esso è già stanco delle parole di chi arringò prima. Se dunque  la causa è del genere turpe, potremo per insinua   10    LA RETT0R1CA    zione cominciare con queste ragioni: essere d’uopo  riguardar la cosa, non la persona ; o la persona,  non la cosa; non approvare neppur noi quelle azioni che gli avversari nostri affermano essere stale  fatte, e sì essere indegne e nefande. Appresso, allorché avremo discorso a lungo della gravità del  fatto, proveremo che nulla di simigliando è stato da  noi commesso; o metteremo innauzi un giudizio  pronunziato da altri giudici intorno ad una causa  simile, o identica, o minore, o maggiore. Di poi a  poco a poco ci accosteremo al nostro soggetto, e  verremo a confrontamenlo. Ottenerli pure lo scopo, se dichiareremo di non voler dir nulla degli  avversari o di alcun fatto toro, e nondimeno copertamente ne parleremo lasciando sfuggir parole.  Se 1’ uditore sarà stato persuaso, vale a dire se il  discorso degli avversari avrà indotta la convinzione  negli uditori ( il che non sarà diffìcile di conoscere, poiché ci sono noti i mezzi, con cui possiamo  indurre la convinzione ); se noi, dico, giudicheremo indotta la convinzione, ecco quali saranno le  diverse maniere ondeinsinuarci per entro alla causa: prometteremo in prima di parlare di ciò, che  l’avversario avrà messo innanzi come suo più fermo sostegno; o cominceremo da uno de’suoi detti  e soprattutto da uno degli ultimi; o useremo la  forma del dubbio, mostrandoci incerti di ciò che  dobbiamo dire o confutare in prima con pieno nostro stupore. Se poi sarà di già stancala F attenzione dell’ uditore, noi cominceremo da qualche  cosa, che muover possa il riso, come sarebbe o da  un apologo, o da una favola, o da un contraffacimento, o da una storta interpretazione, o da una  inversion di parole, o da un equivoco, o da un indovinello, o da uno scherzo, o da una giulleria, o  da una esagerazione, o da un acconciamento e mutamento di lettere; e inoltre promovendo aspettazione, recando una similitudine, una novità, un  fallo accaduto, un verso; o approfittandoci ad una  interpellazione, ad un sorriso di alcuno; o promettendo di lasciar da parte molte cose, che avevamo  in animo di dire; e di non voler parlare in quella  forma, in cui sogliono gli altri, con esporre brevemente in questo caso e il metodo altrui e il nostro.   VII. Ecco il divario, che passa tra F esordio per  insinuazione e F esordio diretto: l’esordio diretto  deve esser tale, che subitamente, recali innanzi gli  argomenti già da noi detti, ci rendiamo F uditore  o benevolo, o attento, o docile: ma l’esordio per  insinuazione deve esser tale, che copertamente per  dissimulazione diveniamo al medesimo scopo di  ottenere l’esposto vantaggio nell’esercizio del dire. Ma questi tre vantaggi benché si debbano aver  di mira per tutto il corso dell’orazione, voglio dire  che gli uditori ci si mostrino continuamente attenti, docili e benevoli; pure ciò debbesi soprattutto cercar di conseguire a prò della causa per mezzo  appunto dell’ esordio: Ora mostrerò quali sono i  difetti, che dobbiamo schivare per non fare un  esordio vizioso. Nel cominciare il discorso conviene aver cura che il dire sia piano, e le parole comunemente accettale nell' uso per non essere tacciati di affettazione. È un esordio vizioso quello,  che può convenire a più cause; il quale esordio  chiamasi volgare. Parimente è vizioso quello, che  si adatta così alla causa dell’ avversario come alla  nostra; il quale chiamasi comune. È anco vizioso  quello, onde l’ avversario può far uso contro di  noi, indottavi una leggiera mutazione. Medesimamente è vizioso quello, che è composto di parole  troppo studiate, o è troppo lungo; e sì quello, che  non par nato naturalmente dal soggetto, di guisa  che si leghi senza stento alla narrazione ( il qual  chiamasi esordio staccato, e in cui si comprende  anche l’esordio traslato); e quello finalmente, che  non rende nè benevolo, nè docile, nè attento l’uditore.   Vili. Ma dell’ esordio basti il fin qui detto: passiamo ora alla narrazione. Di narrazioni ci ha tre  generi. Il primo è quando esponiamo un fatto, e ne  tiriamo ogni circostanza a nostro vantaggio per ottenere vittoria; il qual genere appartiene appunto a  quelle cause, che si espongono ad essere giudicate. Il secondo genere di narrazione è quello, che alcuna volta interviene nel mezzo della causa per motivo di prova, o di accusa, o di transizione, o di ap-*  pareccliiamento, o di lode . Il terzo genere è quello,  che è bensì estraneo alla causa civile, ma nel quale  conviene nulladimeno esercitarsi per poter più acconciamente trattar nelle cause quei due generi di  narrazione, che abbiamo detto di sopra. Di colesta  narrazione ci ha due specie, 1’ una che riguarda le cose, l’altra le persone. Quella specie, che riguarda le cose, ha tre parli, la favola, la storia, la supposizione. La favola è quella, che contiene cose,  nè vere nè vcrisimili; come quelle, che si hanno  nelle tragedie. La storia è un fatto accaduto, ma  lontano dalla memoria del tempo nostro. La supposizione è una cosa finta, ma che nondimeno potè  accadere, come i fatti supposti delle commedie.  Quel genere di narrazione, che riguarda le persone, deve contenere le grazie del dire, la diversità  dei caratteri, la gravità, la leggerezza, le speranze,  i timori, i sospetti, i desiderii, la dissimulazione,  la pietà, i variamenti delle cose, i mutamenti della  fortuna, gl’ inaspettati mali, losubite allegrezze, i  lieti fini. Ma l’esercizio è maestro a siffatto genere  di narrazione. Discorriamo ora solamente di quel  genere che è proprio di una causa vera.   IX. È necessario che la narrazione abbia tre qualità, che sia breve, chiara, e verisimile: le quali  condizioni, poiché sappiamo essere indispensabili, vediamo come si possano conseguire. La narrazio* ne sarà breve, se cominceremo là donde è necessario incominciare; e se non risaliremo alle prime  origini delle cose; e se narreremo sommariamente  e non partilamente; e se non discenderemo sino  alle ultime conseguenze, ma ci fermeremo là dove  basti ; e se non daremo luogo a digressioni; e se  . non devieremo dal soggetto, che avremo preso; e  se in guisa esporremo gii esili delle cose, che indovinar si possa ciò che è stalo fallo innanzi, benché noi lo tacciamo; come se, per esempio, dirò:   « che io sono ritornalo dalla provincia », s’ intenderà ancora che io era andato nella provincia. E al  lutto sarà meglio tacere non solo ciò che è contrario alla causa, ma anche ciò che non è ad essa nè  contrario nè favorevole. Ed è anco a guardare di  non ripetere due o tre volle la cosa medesima; e  di non ripigliare a capo di ogni frase ciò che è  stato dello in finediognuna, come in questo esempio : « Simone arrivò la sera da Atene a Megara;  dappoi che fu arrivato a Megara, lese insidie alla  donzella; dappoi che le ebbe tese insidie, lefe’ violenza nel luogo stesso ». La narrazione sarà chiara, se noi esporremo prima ciò che è stalo fatto  prima, e conserveremo l’ ordine delle cose e dei  tempi così come le cose saranno state fatte, o come sarà verisimile che siano state falle. E qui sarà  da vedere che noi evitiamo la confusione, gli avviluppamenli, le ambiguità, i vocaboli nuovi, le digressioni estranee al soggetto; clic non risalghiamo troppo ai principii; che non discendiamo troppo alle ultime cose; che non ommelliamo nulla di  ciò che spetta al soggetto; e finalmente conseguiremo la chiarezza, se osserveremo i precetti, che  pure riguardano la brevità; perciocché quanto più  la narrazione sarà breve, tanto più sarà chiara e  facile ad intendersi. La narrazione sarà verisimile,  se noi diremo conformamente al costume, all’opinione, alla natura; se ben converranno gli spazii  de’ tempi, i caratteri delle persone, i motivi delle  deliberazioni, le opportunità de’ luoghi, affinchè  non ci si possa opporre o che il tempo non è stato  bastevole, o che non eravi alcun motivo, o che il  luogo non era conveniente, o che quelle cotali persone non potevano essere o agenti o pazienti. Se  il fatto, che si narra, è vero, pur bisognerà, narrandolo, osservare tutte queste condizioni; perchè, se non si osservino, la verità può sovente non  essere creduta. Se poi il fatto è supposto, tanto più  bisognerà osservarle. Finalmente converrà usare  cautela nell’oppugnare quei falli, che sapremo essere testificati o da uno scritto degno di fede, o  dall’autorità rispettabile di taluno. Quanto alle cose, die ho fin qui dette, credo di concordare con  tutti gli altri scrittori dell’arte; se non che ho detto  alcun che di nuovo intorno agli esordii PER INSIUNAZIONE, o perusare l’espressione di Grice, IMPLICATURA –Holdcroft, Forms of indirect communication -- avendoli io solo, fra tanti altri, distinti  in tre classi, affinchè una via al tutto certa avessimo, e una regola chiara in tal genere di esordii.   X. Ora, poiché mi rimane a parlare di quella  parte dell’ invenzione, in cui principalmente consiste P arte dell’ Oratore, farò che non paia aver io  nella trattazione di questa parte posto minor cura  di quello che P importanza del soggetto richiede,  quando avrò prima dello alcun che intorno alla divisione delie cause. La divisione delle cause è distribuita in due parti. Terminata la narrazione, noi  dobbiamo primieramente mostrare in che conveniamo cogli avversari, e poscia, se sono a noi vantaggiosi i punti, in cui conveniamo, passare a ciò  che è soggetto di controversia. Per esempio: «Che  da Oreste sia stala uccisa la madre, convengo cogli  avversarli; che egli abbia ciò fatto a drillo, o che  gli sia stato ciò lecito, ecco il punto che è soggetto  a controversia ». Ed egualmente nella risposta :  « Che Agamennone sia stalo ucciso da Clilennestra, tutti Io affermano, ma benché ciò sia, pure  pretendono che io non doveva vendicare mio padre ». Fatta la divisione, noi dovremo ricorrere alla  distribuzione, la quale pure ha due parti, cioè l’enumerazione e la esposizione , L 1 enumerazione  consiste nel dire il numero delle cose, di cui prendiamo a parlare; e non bisogna che nel numero  abbia più di tre parli; perchè il dirne più o meno è cosa pericolosa, e può mettere nell’uditore il sospetto di meditazione e di artifizio ; la qual cosa  toglie fede al discorso. L’esposizione poi consiste  nel mettere innanzi con brevità e senza ommissioni  le cose, delle quali togliamo di parlare.   XI. Passiamo ora alla confermazione, e alla confutazione. Tutta la speranza della vittoria, e tutto  l’affare della persuasione sta nella confermazione  e nella confutazione; imperciocché quando avremo  esposte le nostre prove, e distrutte quelle dell’avversario, noi avremo intieramente adempiuto al1’ uffizio dell’ Oratore. Noi potremo adunque trattare egualmente queste due parti della confermazione e della confutazione, se ci sarà aperto (ostato  della quistione. Quattro stati di quislione statuirono gli altri retori; ma Ermete, mio maestro, non  ne ammise che tre, non già perchè volesse levar  via qualche cosa di ciò che quelli attribuirono alla  parte dell’ invenzione, ma per mostrare che essi  separarono in due ciò che era d’ uopo presentare  nella sua semplice ed indivisibile unità. Lo stato  della quistione è il primo conflitto del difensore  contro l’ imputazione dell’ accusatore. Tre sono  adunque, come ho detto, gii stati della quistione,  il congetturale, il legale, il giurisdiziale. Lo stato è  congetturale, quando vi è controversia di fatto, a  cagione di esempio: « Aiace, allorché conobbe ciò  che fatto avea durante il tempo del suo delirio, si trafisse con la spada in un bosco. Vi capita Ulisse:  vede 1’ ucciso; gii leva dal corpo il ferro insanguinato. Sopravviene Teucro; vedendo il fratello ucciso, ed il nemico del fratello con la spada in mano tinta di sangue, accusa Ulisse di assassinio ».  Qui, poiché si cerca la verità per congettura, vi  sarà controversia di fatto, e da ciò chiamasi congetturale lo stato della quistione.   XII. Si chiama stato di quistione legale, quando  sorge controversia intorno ad uno scritto. Siffatto  stalo ha sei parli, lettera e spirilo, leggi contraddittorie, ambiguità, definizione, traslazioae, analogia. Ci ha controversia intorno alla lettera e allo  spirito quando l’ intenzione di chi ha scritto sembra discordare dallo scritto medesimo, per esempio : « Suppongasi che vi sia una. legge , la quale  disponga che coloro, i quali per cagione di burrasca abbandonino la nave, debbano perdere la nave  ' e ogni cosa; e che, se la nave vada in salvo, tanto  essa quanto l’allre cose rimangano proprietà di chi  è restalo nella nave. Ora, spaventali tutti dalla  grandezza della burrasca abbandonarono la nave,  e cercarono salvamento sopra di un palischermo ,  eccetto un ammalalo, il quale per impotenza non  uscì di nave c non si mise in salvo. La nave per  caso e per fortuna si ridusse in porto sana e salva:  1’ ammalato si trova possessore di essa : 1’ antico  padrone della nave ne fa dimanda in giudizio come di cosa sua ». Queslo si è stato di quistion legate riguardante la lettera e lo spirito del lesto.  La controversia ha origine da leggi contraddittorie, quando una legge ordina o permette una cosa,  e l’allra la proibisce, come : « Una legge proibisce che un uomo condannato di concussione parli  davanti alPassemblea del popolo. Un’ altra legge  ordina che P augure proponga all’ assemblea del  popolo colui che domanda di essere surrogato nel  posto del collega defunto. Ora, un augure, che fu  condannato di concussione, propose il successore  del suo collega defunto. Si domanda che sia punito ». Questo è stato di quistion legale, che ha le  origini da due leggi contraddittorie. La controversia nasce dall’ambiguità, quando una cosa scritta  in un senso ne presenta due, o più; per esempio:  « Un padre di famiglia, instituendo erede il proprio figlio, legò pure in testamento a sua moglie  dei vasi d’argento in questi termini: « Tullio, mio  erede, darà a Terenzia, mia moglie, trenta libbre  di vasi d’argento, a scelta sua ». Morto il testatore, la donna domanda i vasi preziosi , e magnificamente cesellali. Tullio dice di dovere a lei  dei vasi d’argento pel peso di trenta libbre, ma a  sua scelta ». Ecco uno stato di quistion legale, che  sorge dall’ambiguità delle parole. La quistionc dipende dalla definizione quando c'è discordanza intorno al nome, col quale si dee chiamare un’azione : ecco un esempio: « Essendo Lucio Saturnino  per portar la legge frumentaria dei semiassi e dei  terzi di asse, Quinto Cepione, che era in allora  questore urbano, avvisi il Senato, che l’erario non  poteva sopportare una cotanta largizione. Il Senato  decretò che, se egli avesse recata quella legge al  popolo, sarebbe stato riguardato come autore di  un fatto contro alla Repubblica. Saturnino si provò  a recarla. I suoi colleghi fecero opposizione: egli  nondimeno fece portare innanzi la cassetta de’suffragi. Cepione, vedendo che , a malgrado del decreto del Senato e della opposizione dei colleghi,  ei recava la legge in danno della cosa pubblica, si  fa violentemente strada con alcuni de’migliori cittadini, rompe i ponti, rovescia le cassette, ed impedisce che la legge passi. Cepione viene accusato  di. lesa maestà ». Lo stato della quislione è legale,  dipendente dalla definizione ; conciossiachè non  verrà bene determinalo che cosa sia lesa maestà,  se non sia ben definito il vocabolo stesso. La controversia nasce da traslazione quando V accusalo  domanda, o che la causa sia trasferita ad altro tempo, o che sia cambialo l’ accusatore, o che sieno  cambiati i giudici. Di questa parte di costituzione  se ne servono i Greci nelle cause pubbliche, c noi  per lo più nelle cause private. In siffatta parte la  scienza del diritto civile ci sarà di gran giovamento. Nondimeno anche nelle cause pubbliche noi qualclie volta ce ne serviamo, ed ecco in che modo: « Se alcuno è accusalo di peculato, perchè è  voce che egli abbia portalo via da un luogo privato  dei vasi d' argento di pubblica spettanza, egli può  rispondere, dopo di aver defluito che cosa sia furto, e che cosa sia peculato, clic, rispetto a lui,  bassi a giudicarlo di furto e non di peculato». Una  siffatta parte di costituzione legale è di rado invocata dinanzi ai nostri tribunali, perchè se si tratta  di azion privala, il pretore giudica delle eccezioni,  e perde la causa colui che non si attiene alle forme prescritte; c se si tratta di causa pubblica, le  leggi provvedono che antecedentemente, se l’accusato ciò crede di suo vantaggio, sia dato giudizio, se quell'acusalore abbia o no il diritto di accusare. La controversia ha le origini dalla analogia, quando si presenta in giudizio un fatto, intorno a cui v'ha alcuna legge propria, la quale  decida, ma che nondimeno può riferirsi a qualche  altra legge. Per esempio: Una legge dice: Se uno  è furioso, la persona e i beni di lui saranno nella  potestà de’ suoi agnati e gentili: » Un'altra legge  dice: « Colui, che sarà giudicalo di avere ucciso  il padre o la madre, sia ravvolto e legalo in un  sacco di cuoio, e gittalo in un fiume. » Ed un’altra dice : Se un padre di famiglia ha per testamento disposto de’suoi beni c de’suoi schiavi, sia rispettata la sua volontà. » Ed un’altra dice finalmente: » Se un padre di famiglia muore senza testamento, i suoi schiavi ed i suoi beni siano degli  agnati e dei gentili. » Orbene: Malleolo fu giudicato di avere ucciso la madre: appena condannato  gli fu ravvolto il capo in un cuoio di lupo, gli fu*  ron messi i ceppi ai piedi, e fu condotto nel carcere. I suoi difensori portano delle tavolette nella  prigione; ricevono da lui, in presenza di testimonii, giusta la legge, il suo testamento, c poco dopo  è condotto al supplizio. Coloro, che per testamento  ne erano gli eredi, domandano l’eredità. Il fratello  minore di Malleolo, che nel fatto di esso era stalo  l’accusatore, dichiara che per la legge di agnazione quella eredità è a lui devoluta. Qui non può  essere prodotta alcuna legge speciale intorno a  questo caso, e ciò nonostante se ne producono  molte, dalle quali si trae per analogia, che Malleolo abbia o non abbia potuto di diritto far testamento. E. co qual è lo stato di quistion legale fondalo sopra l’analogia.   XIV. Noi abbiamo dimostrato tutte le diverse  specie di quistion legale: ora parliamo della quistione giurisdiziale. Ci è lo stato di quistion giurisdiziale quando si conviene del fatto, ma si domanda, se esso è o non è conforme al diritto. Di  tale stato di quistione ce n’ ha due specie: l’una  specie chiamasi assoluta, el’ altra assuntiva. Ella è assoluta, quando noi sosteniamo che un’ azione  è rettamente fatta, senza clic ricorriamo a motivi  estrinseci; per esempio: « Un commediante rivolse  la parola in pieno teatro nominatamente al poeta  Accio: Accio lo accusa d’iugiuria: il commediante  non si fa altra difesa che questa: dice che è lecito  nominare colui, sotto il cui nome è data a rappresentare in teatro una commedia. » La quistionc è  assunliva, quando, essendo per sè stessa debole  la difesa, si cerca di sostenerla con alcuna cosa  presa fuori dal soggetto. Le parli assunlive sono  quattro: La confessione, la discolpa, la recriminazione, l'alternativa. La confessione sta, allorquando l’accusato domanda che gli sia perdonato: essa  ha due parti: o la scusa, o la preghiera. La scusa  è, quando l’accusato dichiara di non aver commesso il delitto con animo deliberato. Danno scusa  la fortuna, l’ignoranza, la necessità. La fortuna,  « come Cepione avanti ai tribuni della plebe intorno alla perdila della sua armala. » I.’ ignoranza,  « come colui, che mise a morte quello schiavo,  che aveva ammazzalo il proprio padrone, al quale  egli era fratello, avanti che avesse aperte le tavole  del testamento in cui quello schiavo era dichiarato  libero. « La necessità, « come quel soldato, che  non tornò alle insegne il giorno prefisso, perchè  le acque gli avevano impedito il ritorno. « La preghiera è, quando l’accusato confessa di aver commesso il fallo, e di avere operalo deliberatamente,  e nulladimeno dimanda che gli si usi misericordia.  Questo mezzo in giudicio non si usa quasi mai, a  meno che non si parli in favore di un uomo conosciuto per molle belle azioni. Se il caso è tale, noi   10 vestiremo della forma di uno de’luoghi comuni  proprii aH’amplificazione, dicendo, per esempio :  « Se un tale misfatto avesse pur egli commesso,  bisognerebbe nondimeno mandarlo perdonalo in  grazia delle sue belle azioni passate; ma egli non  implora alcun perdono. » Questo mezzo adunque  in giudicio non si usa; ma ben può usarsi dinanzi  al senato, o ad un Generale di armata, ed al suo  consiglio di guerra.   XV. La causa ha sostegno nella recriminazione,  allorquando noi non neghiamo di aver commesso   11 fallo, ma diciamo di esservi stali spinti dal fallo  altrui: « Come Oreste, il quale, per fare a sè difesa, gilta la cagion del delitto sopra la propria madre. » La causa ha sostegno nella discolpa, allorquando noi cerchiamo di difenderci non in quanto  al fatto, ma in quanto alla colpabilità, ghiandola  o sopra di alcun’ altra persona, o sopra di alcuna  cosa. Ella giltasi sopra di alcun’ altra persona,  « come se è accusato uno, il quale confessi di avere ucciso Publio Sulpicio, ma rechi a sua discolpa di avere ciò fatto per comandamento dei consoli, ed affermi che essi non solo glielo comandarono, ma gli fecero ancora conoscere il perchè  egli poteva ciò fare. » Si gitta sopra una cosa,  « Come se alcuno sia impedito da una legge statuita dal popolo di far ciò che un testamento gli  ordina ». La causa ha sostegno nell’ alternativa,  quando noi diciamo che non si poteva a meno di  non fare o Luna cosa o T altra, o che fu miglior  partito far ciò che facemmo. Ecco un esempio di  questa specie: « Caio Popilio, essendo accerchiato  dai Galli, nè polendo in alcuna maniera scampare,  venne a parlamento coi capitani dei nemici e ottenne di andarne libero colla sua armata a condizione ch’ei lasciasse le sue bagaglie; stimò miglior  partito perdere le bagaglie, che Tarmata: salvò  Tarmata, lasciò le bagaglie: or viene accusato di  lesa maestà ».   XVI. Io credo di avere bastantemente dimostrato  quali sieno i diversi stali di quistione, e quali le  loro parti. Ora dimostrerò in qual maniera e con  qual ordine si dovranno da noi trattare, dopo che  avrò fatto ben conoscere quale convenga dirsi da  una parte e dalfallra il punto essenziale della causa, a cui debbesi riferire ogni ragionamento di tutto  il discorso. Trovato adunque lo stato della quistione, si deve tosto cercar la ragione: per ragione io  intendo ciò che costituisce la causa, e che comprende il punto fondamentale della difesa; c per  continuare a farmi meglio intendere, farò ciò'aper con un esempio: « Oreste nel confessare che ha  uccisa la madre, se non desse una ragione del  fallo, toglierebbe via a sè ogni difesa: nc dà adunque una, la quale se data non fosse, non avrebbe  luogo pausa di sorte alcuna: Mia madre, dice egli,  ha ucciso mio padre: « Ecco che la ragione che  ne dà, è appunto quella, io lo ripeto, che contiene il punto fondamentale della difesa, e-se vi mancasse questa ragione, non vi rimarrebbe neppure   11 più piccolo dubbio che potesse venire ritardata  la condannagione. — Trovata la ragione, bisognerà cercare la replica dell’avversario; vale a dire,  il punto principale dell’ accusa, ciò che recasi in  mezzo in opposizione di questa ragione della difesa , di cui abbiamo detto. Ecco come questo  punto verrà determinalo: quando Oreste avrà detta  la sua ragione così: « Io ho ucciso a buon diritto  mia madre perchè ella ha ucciso mio padre »; l’accusatore replicherà in questo modo: « Ma ella non  doveva essere uccisa da le, nè sostenere una pena  senza essere stata prima condannata. «Dalla ragione della difesa, e dalla replica dell’ accusa ne  sorge la quistione di giudizio, che noi chiamiamo  giudicazione, e i Greci xp/vójuevov. Questa verrà  costituita dal concorso della ragione della difesa,  e della replica dell'accusa in questo modo: « Poiché Oreste dichiara di avere ucciso la madre per  vendicare il proprio padre, era egli giusto o no che Clilenncslra venisse uccisa dal figliuolo senza  un giudizio ? » Ecco qual è il modo di trovare il  punto di giudicazione: trovato il punto di giudicazione, converrà che a quello sia riferita ogni ragione dell'inlero discorso. Il metodo adunque da seguirsi per trovare in tutti gli stati di quislionc, c nelle diverse loro  parli, il punto di giudicazione sarà questo , fuorché nello stalo di quistione congetturale. Imperciocché in esso nè si domanda la ragione del fallo,  perchè il fatto è negalo, nè si cerca la replica dejl’avversario, perchè manca appunto la ragione.  Laonde in siffatto stato di quislionc il punto di  giudicazione viene determinato dalla imputazione  c dalla negazione, in questo modo: Imputazione:  « Tu hai ucciso Aiace. » Negazione: « Io non 1’ ho  ucciso. » Punto di giudicazione: « La ha egli ucciso o no? » A questo punto si deve, come ho già  detto, riferire ogni ragione delle due aringhe. Se  vi saranno più stali di quistione, o più parli di quistioni in una medesima causa, ci saranno anche  più punti di giudicazione, ma si troveranno tutti  nella maniera medesima. Io ho posto diligente  opera a parlare con brevità e chiarezza di quelle  cose che dovevano essere fin qui discorse. Ora,  poiché abbastanza è cresciuto di mole il volume,  è più conveniente esporre in un altro libro il seguito del nostro soggetto, onde non venga la mente tua, per la moltitudine degl’insegn amenti, oppressa da soverchia fatica. E se quest’ opera sarà  compila più lardi di quello che tu desideri, ne dovrai dare la colpa si all’ampiezza delle materie, e  sì ancora alle occupazioni mie. Nulladimeno io  m’affretterò, e supplirò coll’induslria alla scarsità  del tempo, a One di soddisfare al tuo desiderio  donandoti quest’ opera in coglraccàmbio de’ tuoi  buoni uffizii verso di me, e come pegno della mia  affezione verso la tua persona. O Erennio, io ho brevemente  esposto quali cause deve prender l’oratore, in quali  doveri dell’arte conviene ch’ei s’affatichi, e in quale. maniera può facilissimamcnlc adempiere a siffatti doveri. Ma perchè non era possibile il trattare tulle Icquistioni ad un tempo, e bisognava prima dilucidare le più importanti, per farti poi più  facilmente intendere le altre, così io ho giudicato  conveniente di accostarmi di preferenza a quelle  ehe erano le più difficili. Ci ha tre generi di cause, il dimostrativo, il deliberativo, e il giudiziale:  il giudiziale è il più difficile; tratterò dunque di  esso pel primo. Tanto ho pur fallo nel libro precedente, toccando dei cinque doveri dell’oratore, dei  quali il principale e il più difficile è l’invenzione: or id darò in questo secondo libro presso a poco  compimento a quanto concerne l’invenzione, non  «serbando che una piccola parte di essa pel ler zo.Io ho comincialo primieramente a parlare delle  sei parti proprie di un discorso: nel primo libro ho  detto dell’esordio, della narrazione e della divisione, nè più a lungo di quello che bisognava, nè  meno chiaramente che mi pareva essere da te desideralo: di poi ho dovuto discorrere congiuntamente della confermazione c della confulazione;  per lo che ho fatto conoscere gli stati diversi di  quistione, c le parti loro: di che venivasi a mostrare nel tempo medesimo in qual modo, posta la  causa, sì può trovare lo stato della quistione, e le  parti sue: appresso ho insegnalo come bisognava  cercare il punto di giudicazione; trovato il quale',  come è da curare che ogni ragione dell’intero discorso si riferisca a quello: per ultimo ho avvertilo  che vi sono più cause, alle quali possono adattarsi  più stati di quistione, o più parti di essa.   II. Rimane, penso io, a mostrare in qual maniera accomodar si possano le cose dell’invenzione ir  ciascuno stalo di quistione, c a ciascuna parte di  essa; ,e parimente quali siano gli argomenti delti  dai Greci £jri%£ip^P-ara , cui bisogna usare, e quali  siano quelli, cui bisogna lasciar da parte; le quali  due cose riguardano appunto la confermazione c  la confutazione. Insegnerò per ultimo in qual maniera dovrà farsi la conclusione oratoria, che è appunto l’ultima delle sei parti di un discorso. Prima  di tutto adunque noi cercheremo come convenga di trattare ciascuna causa. Cominciamo dal considerare la causa congetturale, che è la prima e la  più diffeile. Nella causa congetturale la narrazione dell’accusatore deve contenere dei sospetti gettati c sparsi destramente qua c là in modo da far  pensare che niun alto, niun dello, niuna venuta,  ninna partenza, niun fallo insomma sia stato senza  un motivo. I.a narrazione del difensore deve prescolare una esposizione semplice e chiara, acconcia a tor via ogni sospetto. Ciò che costituisce un  tale stato di quistioue, è distribuito in sei parti: in  probabilità, in confronto, in segno o indizio, in  argomento, in conseguenti, e in prova. Facciamo  aperto il valore di ciascuno di siffatti mezzi. La  probabilità è quella, per la quale si dimostra che  il delitto fu vantaggioso all’accusato, e ch’egli non  fu mai uomo aborrente di una tale turpitudine.  Nella probabilità si vogliono considerar due cose:  la cagion del delitto, e la condotta dell’ accusato.  La cagione, che può aver mosso al male, si è, o la  speranza dell’utile, o Levitazione del danno: come  allorché si cerca, se mediante il delitto ei pensò  di avere qualche vantaggio, per esempio onori,  ricchezze, potere, se volle soddisfare a qualche  sregolato amore o a qualche appetito di tale natura. 0 veramente se ebbe in animo di evitar qualche danno, come inimicizie, infamia, dolore, supplizio.  In quanto sia atla speranza dell’ utile, l’accusatore verrà dimostrando la cupidità dell’animo  del suo avversario, c in quanto sia all’evilazion del  danno ne andrà esagerando le paure. 11 difensore,,  al contrario negherà, se potrà, che vi fosse una  cagione, o procurerà di attenuarla; quindi conchiuderà che è ingiusto l’indur sospetto di malvagia  azione in tutti quelli, ai quali è derivato vantaggio  da alcuno lor fatto. Appresso si toglierà ad esaminare la condotta dell’ accusato dagli antecedenti.  Nel che l'accusatore andrà primieramente considerando, se al suo avversario abbia già a rimprovc*  rare qualche cosa di somigliante; e ciò non trovando di lui, cercherà se egli potè mai essere sospettato di una simile azione; e si adoprerà in questo  di dimostrare che la condotta di lui ben concorda  con la cagione da esso accusatore assegnata al delitto, di cui si tratta, come: Se affermerà che la  cagione del delitto è stato il danaro, dimostrerà  che colui è sempre stalo un avaro; se l'onore, che  ei fu sempre ambizioso: così potrà congiungcrc il  vizio dell’ animo con la cagion del delitto. Se non  potrà trovare in lui un vizio dell’animo, che concordi con la cagione, ne cercherà uno di natura  diversa. Se non Io potrà, per esempio, dimostrare  avaro, lo dimostri, se in qualche modo il può, corrompitore e misleale: in fine per uno o più altri  vizii farà lordo l’ animo del suo accusato; c conchiude, clic non dee far meraviglia, che quello  stesso uomo, che in addietro operò così male, abbia ora commesso qucsl’altro misfatto. Se l’avversario godrà nome puro ed intatto, dirà che bisogna tener conto dei fatti, non del nome; eh’ egli  per lo passato seppe occultare le sue turpitudini;  ma che ora esso accusatore farà aperto che colui  è reo di misfatto. Per quanto spetta al difensore,  egli in primo luogo verrà dimostrando, se potrà,  •che la vita dell’ incolpato è senza macchia; se ciò  non potrà, piglierà difesa dalla inconsideratezza,  dalla stoltezza, dalla giovinezza, dalla violenza,  dalla persuasione: con le quali scuse verrà ad allontanare da lui il biasimo delle azioni anteriori  all'accusa, di cui presentemente si tratta. Ma se il  difensore si troverà forte imbarazzato dalle turpitudini e dalla mala fama del suo accusato, prima ,  di tutto darà opera a provare che si sono sparse  delle calunnie sopra un innocente; e farà uso di  questo luogo comune, Che non bisogna credere  alle voci del volgo. Se nessuno di questi sussidii  potrà essere usato, egli s’appiglierà all’ estrema  difesa, che è quella di dire, che non è suo obbligo di ragionare intorno ai costumi di lui davanti  a eensori, ma sì di rispondere alle accuse degli avversari davanti a giudici.   IV. Il confronto è, quando l’accusatore dimostra  che l’azione, ond’ è incolpalo l’avversario, n-m è  siala vantaggiosa a nessun altro clic a quello; o  clic non la poteva altri eseguire che l’avversario;  o che il medesimo o non poteva compirla con altri mezzi diversi, o almeno noi poteva tanto facilmente, o che, mosso dalla cupidigia, ha trascurati  altri mezzi più comodi. In questo caso il difensore mostrerà che è d’ uopo che 1’ azione sia stata  vantaggiosa ad altre persone, o che altre persone  eziandio abbiano potuto fare ciò, di. cui è accusato  il suo cliente. Il segno è quello per coi si dimostra che P accusalo andò in cerca della comodità  di fare l’azione. Esso comprende sei parti: Il luogo, il tempo, la durata, l’occasione, la speranza  della riuscita, la speranza di non essere scoperti.Rispetto al luogo, si cerca, se era frequentato o  deserto; se è sempre deserto, ovvero se fu solamente quando si commise il fatto; se era sacro e  profano, pubblico o privato; quali luoghi vi sono  allenenti; se colui, che fu vittima, poteva essere  veduto o udito. A me non incrcscercbbe di descriver qui quale di tulle queste cose potesse convenire all’accusato, e quale all’accusatore, se ciascuno non potesse facilmente di per sè farne giudizio, posta che fosse la causa; perciocché l’arte  deve sì insegnare i principii dell’invenzione; ma  in quanto al .resto è l’esercizio quello che celo fa  conseguire facilmente. Rispetto al tempo si cerca  così: -In quale stagione dell’ anno; in qual ora; se di giorno o di notte; c in qual ora del giorno o  della notle dicesi avvenuto il falto,eperchè in quel  tal tempo. Rispetto alla durata essa si considera  così: Se fu abbastanza, perchè il fatto potesse compiersi, e se l’accusato potè esser certo che quella  quantità di tempo era per bastare a compirlo. Imperciocché poco monta che lo spazio del tempo  sia stato bastante .a compire il fatto, se non si è  potuto ciò sapere c calcolare innanzi. Rispetto all’occasione si va cercando, se essa sia stata opportuna ad intraprendere il fatto, se ce ne sia stata  un’ altra migliore, che o siasi lasciata sfuggire, o  non siasi aspettata. Quanto alla speranza della riuscita si esaminerà essa in questo modo: Se i segni  or ora delti concordino insieme: se inoltre apparirà per una parte esservi stalo forza, danaro, consiglio, conoscimento, precauzione; c per l’altra si  mostrerà esservi stato debolezza, povertà, sciocchezza, ignoranza, incuria: da ciò potrà sapersi se  l’accusato doveva aver fidanza o non averla. Quanto  alla speranza del non essere scoperti, sarà fatta più  o meno evidente secondo il numero de’ complici,  de’testimoni, du’cooperalori, o siano liberi o siano  schiavi, e dogli uni e degli altri insieme.   V. L' argomento è quello, per cui si mette in  chiaro il fatto con più certe prove, e con più fondati sospetti. Esso si rapporta a tre tempi: All’antecedente, al presente, al conseguente. Rispetto al tempo antecedente bisogna considerare dove l’accusato si trovò; dove e con chi fu veduto; se fece  qualche preparamento; se andò a trovare alcuno;  se disse qualche cosa; se ebbe con sè alcuno dei  complici o de’ cooperatori; se fu in qualche luogo  fuori della consuetudine sua, o in ora inopportuna. Rispetto al tempo presente si cerca, se sia stalo  coito flel fatto ; se si è udito qualche strepilo,  qualche grido, qualche romorc, o finalmente se si  è compreso alcun che per mezzo di qualche senso,  con la vista, con 1’ udito, col tatto, coll’ odorato*  col gusto: perciocché il testimonio d’ alcuno di  questi sensi può aggrandire il sospetto. Quanto al  tempo conseguente si riguarderà, se dopo il fatto  vie rimasta alcuna traccia, cheindichi esservi stato  delitto, e chi nc possa essere 1’ autore. Che vi sia  stato delitto si riconosce a questo modo: Se il corpo del morto è gonfio e livido, è segno che vi è  stato avvelenamento. Se ne scopre poi l’ autore a  questo modo: Se un pugnale, se una veste, se  qualche altro oggetto di questo genere sia stato  lascialo, o qualche vestigio si è rinvenuto; se vi  ebbe sangue nelle vesti dell’accusato; se fu preso  o veduto, dopo il fatto, nel luogo dove dicesi essere quello accaduto. I conseguenti son quelli,  quando si cerca quali esser possono i segni, che  risultano, della colpabilità o della innocenza. L’accusatore dirà, se potrà, clic il reo, quando fu arreslato, arrossì, impallidì, vacillò, si contraddisse,  cadde ncirabballimenlo, feccdelle promesse; tutti  segni, che manifestano la coscicuza. Se l’accusato  non fece nulla di tutto ciò, l’accusatore dirà c!ie  colui calcolò prima così bene ciò che gli avrebbe  a tornar vantaggioso, che rispose con una sicurezza insuperabile; il clic è segno di audacia e non  d’innocenza. 11 difensore poi, se l’ accusalo lasciò  vedere dello sbigottimento, dirà che esso restò commosso non per la coscienza d’un delitto, ma per  la grandezza del pericolo. Se non diè segni di sbigottimento, dirà che, forte della sua innocenza,  non poteva restare commosso.   VI. La prova confermativa è quella, di cui facciamo uso all’ ultimo, quando il sospetto è bene  stabilito. Essa ha dei luoghi proprii e dei luoghi  comuni. I proprii sono quelli ohe non possono servire che all’ accusatore o al difensore. I comuni  sono quelli che in una causa convengono all’ accusalo, e in un’ altra all’ accusatore. Nella causa  congetturale il luogo proprio dell’ accusatore è,  quando dice che non bisogna aver compassione  dei malvagi, e quando esagera 1’ atrocità del delitto. Il luogo proprio del difensore è, quando eccita la compassione e si lagna di calunnie nell’accusatore. I luoghi comuni, così dell’accusatore come del difensore, sono il parlare in favore o contro dei leslimonii, in favore o contro della tortura, in favore o contro degli argomenti, in favore o contro della voce pubblica. Noi diremo in favore dei  testimonii, se allegheremo la loro buona fama e  condotta di vita, non meno che la immutabilità  delle loro testimonianze. Contro dei testimonii diremo, se allegheremo la turpitudine della loro vita, la mutabilità delle loro testimonianze ; c se sosterremo o che non poteva farsi, o che non è stalo  fatto ciò clic essi affermano, o clic noi potevano  sapere, o clic nelle loro parole ed argomentazioni  havvi della parzialità: questo sarà appunto il modo  di biasimare o di approvare i testimonii. Noi parleremo in favore della tortura se dimostreremo che i nostri maggiori usarono aneli 'essi i tormenti c le durezze per iscoprire il vero, e  vollero che coll’ eccesso del dolore fossero gli uomini forzati a dire ciò che sapevano. E l’argomentazione nostra sarà più decisiva, se, ricorrendo alle  medesime prove, clic furono adoperate in tutta la  quistione congetturale, daremo alle confessioni  fatte per questo modo il carattere della vcrisimiglianza; il che pure converrà di fare anche rispetto  alle testimonianze. Ecco poi come parleremo contro della tortura: Primieramente diremo che i nostri maggiori non ne vollero far uso che in alcuni  casi speciali, quando con questo mezzo si potesse  discoprire la verità ocombettcrc la falsità delle parole, clic in una data quistione si proferissero, co  ino sarebbe in questo caso: In qual luogo sia stata messa una lai cosa; ovvero se si Iraf lasse di qualche fallo consimile, che non potesse essere scoperto o riconosciute che con questo unico mezzo. In secondo luogo diremo che non bisogna  poi prestar fede al dolore, perchè 1’ uno può essere più debole all' altro nel sopportarlo, o più  ingegnoso a trovar menzogne, perchè finalmente  può spesse Gate conoscere o sospicare ciò che il  giudice desidera udir da lui^ed egli ben sa che,  ove dica ciò* viene ad esser messo Gne al suo dolore. Quest’ argomentazione sarà ancora più valida, se confuteremo le confessioni strappale per  mezzo della tortura con ragionamenti appoggiati  al probabile; c ciò bisognerà fqrc coi modi già indicali per le cause congetturali. Se noi vorremo  dar forza agli argomenti, ai segni, c agli altri luoghi, che accrescono la sospizionc, converrà che  parliamo in questa forma: Allorché un gran numero di argomeiUi c segni concorrano, i quali s’accordino fra loro, è d’ uopo che la cosa presa a dimostrare assuma il carattere non di sospetto, ma Il testo dice, et si quid esset, quod videri , aut  aliquo similisig no iiercipi possct-, ma ([ucsUìeLÌonc non  ha certamente un senso probabile. Le correzioni proposte dai filologi sono molte c varie. Nella traduzione ho  procurato di dare un senso probabile. Il Trai.  di certezza; e così è d’ uopo che più si creda al  segni e agli argomenti che aPtcslimonii; perciocché i segni e gli argomenti sono i fedeli espositori  di ciò che veramente è accaduto, ed i testimonii  possono essere corrotti per danaro, per favore, per  timore, per avversione. Volendo noi parlare contro agli argomenti, ai segni, c agli altri sospicamcnti, dimostreremo che non vi ha nulla, di cui  tion possiamo essere accusati in conseguenza di sospetti; in appresso attenueremo ciascun sospetto  in particolare, e daremo opera a mostrare che esso  può venire addossalo non tanto a noi, quanto a  qualunque altra persona; e che è cosa indegna  che una* congettura e un sospetto debba, senza  aiuto di* testimonii, riguardarsi come una prova  bastante. Noi parleremo in favore della voce pubblica, se sosterremo che l’opinione non si forma punto a caso senza verun fondamento; e se diremo  che non è occorsa cagione, per la quale taluno  avesse interesse a mentire c ad inventar favole; e  proveremo con ragioni che, quando pure fossero  per solito false tutte le altre voci, questa, di cui si  tratta, è però vera. Se vorremo parlare contro alla  voce pubblica, mostreremo primieramente che ce  ne ha di molte clic sono false, c citeremo esempi,  dei quali sia stala falsa la fama; e diremo che o  sono nostri nemici, o uomini di natura malevoli e maldicenti (fucili che inventarono una siffatta favola, e addurremo qualche finto racconto contro  ai nostri avversarli, il qual diremo essere ripetuto  da tutti; onde anche allegheremo una voce vera di  cui essi abbiano ad arrossire, protestando però che  noi non prestiamo fede ad essa, perchè chiunque  può metter fuori alcuna brutta voce contro di chicchessia, e seminare qua e colà una calunnia. Ma  se la voce parrà esser mollo probabile, bisognerà  che noi per forza di argomenti togliamo via alla  fama tutta la credenza. Siccome la quislione congetturale è la più difleile a trattarsi, e spessissimo si presenta nelle cause vere, così noi abbiamo  esaminate tutte le sue parti con tanto più di diligenza, affinchè arrestati non fossimo dal più piccolo vacillamento od intoppo, se a questa ragione  dell’insegnamento volessimo un giorno accoppiare  l'assiduità dell’ esercizio.   IX. Ora passiamo alle parti della quistion legale. Quando insorga dubbio che vi sia discordanza  fra il lesto e l’intenzione di colui che ne fu l’ autore, se noi difenderemo loscrillo, useremo dopo  la narrazione i luoghi seguenti: Primieramente faremo 1’ elogio del suo autore: poi leggeremo ad  alta voce lo scritto: quindi domanderemo, se per  ventura gli avversari sappiano che sia mai stato  scritto in una legge o in un testamento o in una  stipulazione o in qualunque altra scrittura cosa alcuna che aver possa attinenza al soggetto in quislione. In appresso, istituito il confronto di ciò clic  è scritto con ciò che gli avversarli interpretano  siccome vera intenzione, domanderemo a che dovrà il giudice appigliarsi; se a cièche è positivamente scritto, o a ciò che è sottilmente immaginato: in seguilo biasimeremo e confuteremo il sentimento immaginato dagli avversarii ed attribuito  allo scritto. Di poi domanderemo, se l’autore aveva  intenzione di scrivere nel modo che s’interpreta,  qual cosa lo impedì di scrivere appunto così? Dopo  ciò noi faremo aperto qual sia il verosenso, e metteremo in luce la cagione, per cui lo scrittore sentì  appunto come scrisse, e proveremo che quello  scritto è chiaro, conciso, naturale, compiuto, determinato. E qui noi produrremo esempi di giudizìi pronunziati a favore dello scritto, avvegnaché  gti avversarii adducessero nell’ autore di quello e  sentimento e intenzione diversi. Finalmente mostreremo quanto sia pericoloso dipartirsi dallo scritto. Havvi un luogo comune contro di colui, che,  pur confessando di avere operato contro a ciò che  è dalle leggi ordinato o scritto in un testamento,  cerca di difendere il fatto proprio. A favore dell’ intenzione noi parleremo così:  Primamente loderemo l’aggiustatezza e la concisione dello scrittore, perchè scrisse nè più nè meno di  ciò che era necessario, e s’avvisò di non essere temito a scrivere ciò clic, senza essere scritto, poteva venire inteso: secondariamente diremo esser  proprio soltanto dell’ uomo di mala fede lo appigliarsi alla parola e alla lettera, e non tener conto  deirinlcnzione. In appresso diremo clic ciò che c  scritto, o non può essere eseguilo, o veramente,  se può essere eseguilo, esso è contro alla legge,  aU'uso, alla natura, all’equità, al buono; c niuno  dirà, che P autore non abbia voluto clic lutto sia  fallo secondo il giusto: ora ciò clic noi abbiamo  fatto, egli ò interamente conforme alla giustizia.  Aggiungeremo poi che l’opinione contraria o è assurda, o è insensata, o è ingiusta, o tale che non  può avere effetto, o che non è d’a.ocordo coi sentimenti clic precedono, e con quelli che vengon  dopo, o eh’ ò in opposizione col diritto comune, o  con le altre* leggi comuni, o coi giudicati. Dopo  ciò faremo enumerazione degli esempi di giudicati  in favore dell’ intenzione e contro lo scritto; e finalmente produrremo dei brevi estratti di leggi e  di stipulazioni, nelle quali possa essere compresa  dall’inlcllcllo c l’ intenzione e l’ esposizione degli  scrittori. Ilavvi poi un luogo comune contro di colui che reciti uno scritto, e non interpreti l’intenzione di chi ha fatto. Allorché due leggi saranno  discordanti fra loro, bisognerà prima vedere, se  vi sia abrogazione o derogazione: appresso, sq  queste leggi dissentano cosi, che l’una comandi e l’altra proibisca; o che l’uria obblighi e l’altra permetta. Imperciocché sarà debole la difesa di colui,,  che dirà, di non aver fatto ciò, a cui da una legge  è 'obbligato, cssendovcne un’altra che permette;  perchè ha più forza una legge che obblighi, che  una che permetta. Parimente è debole la difesa,  quando si mostra clic si è fatta quella cosa che  viene stabilita da quella legge alla quale è stala  fatta abrogazione o derogazione; e se non si è tenuto conto di ciò, che viene ordinato dalla legge  posteriore. Allorché si saranno bene considerate  queste cose, bisognerà subitamente addurre, leggere, commendare la legge a noi favorevole. Appresso dichiareremo il senso della legge contraria,  e quella trarremo al vantaggio della nostra causa.  All’ ultimo dalla quistione giurisdiziale assoluta  prenderemo la ragione del diritto, e cercheremo  quella parte del diritto che stia a favor nostro :  della qual parte parleremo più sotto. Se lo scritto è ambiguo, vale a dire che si  presti a due o più interpretazioni, noi lo tratteremo  aqueslomodo:Inprimo luogo cercheremo, se sia o  no ambiguo; poi mostreremo come avrebbe dovuto  essere esposto, se lo scrittore gli avesse voluto dare  quel senso, che gli avversari interpretano. In seguilo mostreremo che la nostra interpretazione  .non solo è da preferirsi, ma è anche onesta, giusta, conforme alla legge, all’uso, alla natura, al bene, all’ equità; clic quella degli avversarli è .il  contrario; die infine uno scritto allora non è ambiguo, quando si capisce quale dei due significati  è il vero. Ci sono alcuni,! quali son di parere che,  a trattare siffatta causa, bisogna mollo conoscere  la scienza delle anfibologie, che i dialettici insegnano; ma noi pensiamo cha essa non solo non è  di alcuno aiuto, ma che anzi è d’ impedimento;  perciocché costoro tengono dietro a tulle le amfibologic, anco a quelle, clic, prese al contrario,  non presentano senso veruno. Laonde eglino altro  non sono che molesti inlcrrompitori dell’ altrui  parlare, e interpreti odiosi cd oscuri di uno scritto;  e, mentre parlar vogliamo con cautela ed esattezza,  riescon peggio che bimbi. Cosi mentre temono di  lasciarsi sfuggire una parola clic abbia più di un  senso, non osano neppurpronunziarcil loro nome.  Ma quando tu vorrai, io confuterò le loro puerili  opinioni coi più solidi argomenti. Intanto non è  stato inutile il dir qui per incidenza ciò che ho  detto, a fine di giltarcin discredito questa garrula  scuola di fanciulli.  Quandouscrcmo la definizione, noi daremo  prima una breve definizione della parola : per  esempio: « È colpevole di lesa maestà chi fa violenza a quelle cose che costituiscono la grandezza  dello Stalo, quali sono appunto i suffragi del popolo, e le adunanze de’ magistrali. Or dunque tu, quando rovesciasli i ponli, li oppoiiesli ai suffragi  del popolo, e all’ adunanza de’ magistrali. » L’accusato per contrario risponderà: « E colpevole di  lesa maestà chi porla danno alla grandezza dello  Sialo. Io non le portai danno, anzi la difesi, perchè conservai P erario, mi opposi all’ avidità dei  tristi, non permisi che la maestà dello Stato perisse tutta intiera. » Prima adunque si spiegherà  brevemente e acconciamente a vantaggio della  nostra causa il senso della parola: poi si combinerà il fatto nostro con la definizione della parola;  quindi si confuterà la ragione della definizione  contraria, se sia o falsa, o inutile,, o sconcia, o ingiusta; e gli argomenti a ciò li piglieremo dalle  parli del diritto che spelta alla quistionc giurisdi*  ziale assoluta, della quale oramai terremo' parola.  Per la traslazione poi si cerca primieramente, se  alcuno, a cui non appartenga, possa nel fatto presente avere azione, per dimandagione od istanza;  o se gli possa ciò spellare in altra maniera, in altro tempo, in altro luogo; o se per altra legge, o  con altro giudice, o con altro accusatore. A tutte  le quali cose sarà fatta ragione secondo le leggi,  l’uso, l’equità, ed il bene: di clic tutto parleremo  nella quislione giurisdiziale assoluta. Nelle cause  fondate sopra l'analogia cercheremo prima, se in  cose maggiori, o minori, o simili, è stala fatta alcuna legge analoga, o data analoga decisione: poi se la cosa addotta è simile o no alla cosa di cui si  traila; poi se è a disegno che nulla si è scritto intorno a quella cosa, perchè non vi si è voluto provvedere, o perchè si è giudicalo che vi fosse bastantemente provveduto con altre leggi analoghe. Noi abbiamo a bastanza parlato delle parti della quislione legale; ora rechiamoci alla quislione giurisdiziale.   XIII. Noi faremo uso della quislione giurisdiziale assoluta allorché, confessando di aver fatta  un’azione, sosterremo di averla fatta a diritto, sen- za aiutarci con veruna estrinseca difesa. In essa  conviene cercare, se si è operalo a buon diritto,  del qual diritto noi potremo discorrere, se conosceremo le parli costitutive di esso. Le quali parti  sono sei: Natura, legge, uso, giudicalo, equità,  patto. Il diritto, che vicn dalla natura, è quello  che si osserva per cugion di cognazione o di pietà;  quel diritto, pel quale spettano doveri reciproci  così ai padri verso i figli, come ai figli verso i padri. Il diritto, che vien dalla legge, è quello che  è costituito dalla volontà del popolo; come è quello  che ci obbliga di presentarci in giudizio quando  vi siamo chiamati. Il diritto, che vien dall’ uso, è  quello, clic, in mancanza di legge, è osservato comunemente, come se fosse stabilito da una legge:  per esempio: « Se tu avrai fatto deposito del tuo  avere presso un banchiere, lo potrai giustamente ridomandare anche dal socio di esso ». Iitliritlo,  che viene da un giudicalo, è quello intorno a cui  è stata pronunziata sentenza o interposto decreto.  Ma sovente i giudicati variano secondo il diverso  modo di pensare di un giudice, di un pretore, di  un console, di un tribuno della plebe; e ne avviene clic spesse fiale sopra la cosa medesima 1’ uno  decreta e giudica ad un modo, e l’ altro ad un altro; come sarebbé a dire: « Marco Druso, pretore  urbano, profferì giudizio diesi potesse far lite per  cagion di mandato coll’ erede; Sesto Giulio profferì giudizio contrario. Parimente Caio Celio giudice rimandò assoluto per accusa d'ingiurie quel1* attore, che aveva offeso il poeta Lucilio, nominandolo in iscena : Publio Muoio, al contrario,  condannò quell’altorc che aveva nominato in isccna il poeta Lucio Azzio ». Poiché adunque due  cause simili possono essere stale giudicate diversamente, bisognerà che noi, quando ciò sia accaduto, facciamo conoscere cosi i giudici come le occasioni, non meno che il numero dei giudicati, che  furono in favore o in danno della cosa. Dall’equità  viene il diritto, quand’ esso sembra fondato sulla  verità c sull’ utile comune; come: « Chi ha più di  sessanl’ anni, ed è impedito da malattia, può farsi  rappresentare in giudizio per mezzo di procuratore ». Per forza di questo principio può costituirsi  anche un nuovo diritto secondo 1’ occasione c la dignità della persona. Dal patto viene il diritto,  quando due o più persone hanno fatto fra loro una  convenzione, un accordo. Ci son dei patti che voglionsi osservare in forza di leggi, per esempio:  « Potrassi far causa nel luogo dove si è pattuito;  se non si è pattuito, dovrassi trattarla o nel comizio, o nel fóro prima del mezzogiorno a. Similmente vi sono de’ patti, che senza intervento di  leggi si osservano in forza di convenzione, i quali  si dicono esecutorii per diritto. Ecco adunque  quali sono le vie, per le quali conviene trovare il  torlo, o confermare il diritto; e ciò deve farsi nella  quislione giurisdiziale assoluta. Nella quislione giurisdiziale assentiva, allorché per l’ alternativa si domanderà quale delle  due cose sia stato meglio di fare, o quella, che  l’accusato confessa di aver fallo, o quella, che l’accusatore dice clic era d’uopo di farsi: si dovrà primieramente esaminare quale delle due sia stata  più vantaggiosa in confronto, vale a dire più bella,  più facile, più profittevole. Poi bisognerà domandare, se spellava a lui il giudicare quale delle due  era più vantaggiosa, o se apparteneva ad altrui il  dettare le condizioni. In seguilo l’accusatore, giovandosi delia quislione congetturale, interporrà il  sospetto, che l’ accusalo non abbia operato con  questa ragione di anliporre il meglio al peggio, ma  che abbia proceduto con mal dolo: ed anco domanderà in fine, se si poteva evitare di venire in  quel tal luogo. II difensore, all’opposto, confuterà  F argomentazione congetturale con alcuna delle  cagioni probabili, di cui si è già parlato. L’accusatore, dopo aver messi in campo i motivi detti di  sopra, userà un luogo comune contro all’ avversario, dicendo, che egli ha piuttosto preferito il nocevole al vantaggioso, allorquando non era più in  poter suo il dettare le condizioni. Il difensore poi,  contro di coloro, che giudicano onorevole F antipode l’estrema rovina all’ utile, userà il luogo comune per compianto; e nel medesimo tempo domanderà agli accusatori e ai giudici stessi, checosa  avrebbero fatto se stati fossero in quel posto; e  metterà loro sotto gli occhi il tempo, il luogo, la  cosa, e i motivi, che ebbe il suo cliente.   XV. La recriminazione si ha, allorquando l’accusato va pretestando cagione al fatto proprio il  fallo d’altrui. In tal caso l’accusatore cercherà primieramente, se a ragione si possa trasferire la reità  in altrui; secondariamente esaminerà, se il fallo,  che è imputalo ad altrui, è così grave come quello  che F accusalo confessa di aver commesso egli  medesimo: di poi, se era d’uopo commetter fallo,  perchè altri ne ha commesso uno innanzi; di poi,  se era d’uopo ctie di quel primo fallo fosse avanti  dato giudizio; di poi, conciossiachè niun giudizio  sia slato pronunzialo del delitto imputato ad altrui, se l’accusalo abbia diritto di costituir cosi sè medesimo giudice di un’azione, che non è ancora  stata secondo le leggi giudicata. Qui cadrà in acconcio quel luogo comune, per cui l’ accusatore  farà rimprovero all’accusato, elfei mostri così esser d’avviso, che s’abbia a preferire la violenza ai  giudizii, e domanderà pur anche, che cosa accadrebbe, se gli altri facessero altrettanto, cioè che  pigliassero supplizio di coloro che non sono per  anco condannati, adducendoper ragione, ch’eglino medesimi ne hanno prima dato l’esempio. Che  si direbbe, se l’accusatore egli stesso avesse voluto  fare altrettanto ? Il difensore, al contrario, porrà  nel mezzo 1’ enormità del fallo di colui sopra del  quale verrà trasferita la reità ; e porrà sotto agli  occhi il fatto, il luogo, il tempo per modo, che gli  udij^ri si persuadono, o clic non era possibile, o  che non era giovevole, che l’ affare venisse recalo  dinanzi ai tribunali.   XVI. La concessione è quella, per la quale noi  domandiamo che ci sia perdonato. Essa si divide  in due parti: in iscusa e in preghiera. La scusa è,  quando dichiariamo di avere operato senza pensamento. Essa abbraccia tre parti: la necessità, la  fortuna, l’ ignoranza. Parleremo prima di queste  tre parti, c poi diremo della preghiera. Primieramente si dovrà considerare dall’accusatore, se noi  fummo indotti a questa necessità per colpa nostra, o se fu la neccssilà per sè stessa quella che ci indusse alla colpa. In appresso si cercherà in qual  modo si poteva da noi evitare quella necessità od  attenuarla; e se colui, che si scusa con la necessità, ha tentalo tutto quanto era in poter suo di fare  o di immaginare per resistere ad essa; e se trarre  si possano dalla quistione congetturale dei sospetti, che portino indizio essere stato fatto pensatamente ciò che dicesi accaduto per necessità; e finalmente, quando pure vi sia stata una qualche  necessità se convenga tenere questa necessità  come una scusa bastante. Se poi l’accusato dirà,  essersi da lui commesso il fallo per ignoranza,  „ l’accusatore cercherà primieramente, se quegli  poteva sapere o non sapere; di poi, se ha fatto  opera di sapere o no; c quindi, se ei non seppe  per puro caso, ovvero per sua colpa: imperciocdiè  chi si scusasse di essere stato privo di ragione o  per ubriachezza, o per trasporto di amore o di  collera, egli parrebbe che avesse perduta la cognizione per un vizio dell’animo e non per ignoranza:  laonde non difenderebbe sè colla ignoranza, ma  si macchierebbe di una colpa. Dopo ciò per mezzo  della quistione congetturale cercherà, se realmente sapeva o non sapeva; c considererà, se l’ignoranza esser debba difesa bastante, quando pur  consti che la. cosa sia stala fatta per ignoranza.  Quando se ne attribuisce la cagione alla fortuna,  c clic il difensore dica, doversi per questo motivo  perdonare all’accusato, bisognerà che l’accusatore  metta in campo tulle quelle considerazioni medesime, che abbiamo poste là, dove parlammo della  necessità. Imperciocché tutte queste tre specie di  scusa hanno allìuilà fra loro, sì chea tutte si possono accomodare le considerazioni medesime. In  siffatte cause tornano in acconcio i luoghi comuni,  rispetto all’ accusatore, contro a colui, che, pur  confessando di avere peccato, trattiene inutilmente i giudici con parole, e, rispetto al difensore, di  implorare il perdono dall’umanilà e dalla compassione, e di sostenere che, dovendosi io tutte cose  aver riguardo all’attenzione, non v’ha colpevolezza  in quelle azioni clic sono stale fatte senza un positivo consiglio. Noi useremo la preghiera, se, confessando il fallo, e lasciata da parie la scusa dell’ ignoranza, o della fortuna, o della necessità, domanderemo clic ci sia perdonalo. E qui il motivo del  perdono si trae dai luoghi seguenti: Se parranno  essere più, ovvero più grandi i meriti che i torli;  se alcuna virtù o nobiltà sarà in colui che supplicherà; se alcuna speranza ci avrà che perdonando  al reo, abbia ciò ad essere di universale giovamento; se si mostrerà che il supplicante medesimo fu  clemente e compassionevole quando aveva in sua  mono il pplerc; se il fallo, ch’ei commise, noi commise per odio o crudellà, ma spinto da obblighi e da retta intenzione; se per una cagione si- ,  mile fu mai perdonato ad altro reo; se parrà non  dovere a noi derivar danno mandandolo perdonato; se per un tale perdono non ce ne verrà alcun  biasimo dai nostri concittadini, o da qualche altra  cittadinanza. Si passerà quindi ai luoghi comuni intorno airumanHà,allafortuna,allacompassione, alla mutazione delle cose. L’ avversario poi rivolgerà  tutti questi luoghi contro l’accusalo aggiungendovi  l’ amplificazione e l’ enumerazione di tutti i falli,  che gli vengono imputati. Questa maniera di trattazione torno vana nelle cause pubbliche, siccome  ho già detto nel primo libro; ma potendo esser  giovevole davanti al senato, o ad un consiglio militare, ho creduto bene di non doverla tacere.  Quando noi vorremo rimuovere l’accusa per mezzo  della discolpa, getteremo la cagione del nostro  fallo o sopra di una cosa, o sopra di una persona.  Se si getterà la causa sopra di una persona, primieramente si cercherà, se colui sopra del quale  sia gettata la causa, potette tanto, quanto il reo  dimostrerà, e in qual maniera si poteva o con onore o senza pericolo resistere ad esso : c quando  pure si animella quello che il reo dice, se nullameno sia ragionevole di scusare il reo dell’ avere  operato per impulso altrui: e passando quindi alla  quistione congetturale si discuterà, so. fu operalo con cognizione di causa o no. Se poi la cagione si  getterà sopra di una cosa, si terrà la stessa maniera di ricerche, e vi si unirà tutto ciò che abbiamo  già detto intorno alla necessità. Poiché ci pare di avere bastantemente  dimostrato di quali argomenti è d’uopo far uso in  ciascuna delle quislioni del genere giudiziale, ora  verrò insegnando come abbellir si possano e perfettamente trattare questi argomenti medesimi.  Imperciocché egli non è mollo difficile trovare ciò  dhe serve di sostegno alla nostra causa, ma, trovato che sia, si è difficilissimo pulirlo e convenientemente esporlo. E quest’ arte è appunto quella,  che fa che noi non ci fermiamo più a lungo di  quanto bisogna sopra le stesse cose, e non ritorniamo più e più volle al punto medesimo, e non  abbandoniamo il ragionamento incomincialo, enon  passiamo male a proposito ad un altro. Mercè  adunque quest’arte, e sarà facile a noi di trovare  nella memoria tutto quanto avremo detto in ciascun luogo, e potrà l’uditore comprendere e fermar nella mente la distribuzione cosi di tutta la  causa come di ciascheduna prova. L’ argomentazione adunque più compiuta e più perfetta si è  quella che comprende cinque parli: La proposizione, la ragione, la confermazione della ragione,  rornamento, e la recapitolazione. La proposizione  è l’esposizione compendiosa di ciò che vogliamo provare. La ragione è il principio , che dimostra  esser giuslo ciò, a cui miriamo , soggiungendolo  brevemente. La confermazion della ragione è quella, che fortifica con molle prove ciò che la ragione  ha brevemente esposto. L’ornamento è quello, di  cui facciamo uso per abbellire ed arricchire la  causa, allorché le prove sono bene stabilite. La  ricapitolazione è quella che conchiude brevemente, raccogliendo le diverse parti dell’ argomenta- .  zione.   XIX. Se vorremo adunque far uso di tutte queste cinque parti, ecco come tratteremo l’argomentazione : « Noi abbiamo a dimostrare che Ulisse  aveva un motivo di uccidcrcAiace; perciocché voleva torre di vita un nemico acerrimo, dal quale  non a torlo temeva per sé sommo pericolo. Vedeva che, vivente Aiace, egli non era sicuro della  persona; colla morte di lui sperava di procacciare  salvezza a sé : era suo costume, -in mancanza di  mezzi legittimi, di usar la frode per toglier via un  nemico; di clic è una prova convincente la non degna morte di Palamede. Dunque e il timor di un  pericolo spingeva lui ad uccider quello, dal quale  temeva una punizione, c la consuetudine del delitto dilungava da esso ogni dubbio di metter mano  all’assassinio. Imperciocché in generale gli uomini, i quali non commettono mai senza un perchè  i falli più leggieri, sono da ultimo tirati a commet  Lifino il.  tereiMclitli più grandi, allora che certi sono di  averne accogliere un vantaggio. Or bene: se molli  spinti furono al male dalla speranza del guadagno,  se una gran parte degli uomini gillossi nei delitti  per T ambizione del potere, se altri pagarono un  leggiero guadagno a prezzo della più gronde iniquità, chi si meraviglierà clic costui, tiranneggialo  dal più vivo timore, non siasi astenuto da un assassinio ? Un eroe pien di coraggio e d’integrità,  che non perdonava ai nemici, oltraggiato, irritato,  non si potè partir vivo da un rivale pieno di paura  c di ribalderia, che sapeva di esser colpevole, insidioso, nemico: a chi parrà strana cosa cotesta ?  Se noi vediamo le bestie feroci levarsi pronte ed  irose per nuocere ad altro animale bruto, non è  da giudicarsi impossibile cheanche l’animo feroce,  crudele, ed inumano di costui siasi avidamente  gittato a dar morte al suo nemico ; tanto più se  consideriamo, che nelle bestie non si scorge vcrun  motivo nè buono nè cattivo, c che in costui sappiamo essere sempre stali assaissimi e grandissimi  molivi. Se dunque io ho promesso di svelare la cagione, dalla -quale indotto Ulisse commise l’assassinio, c se ho dirtiostrato esserci intervenuta ragione potentissima d’ inimicizie e timor di pericolo,  non v’ha dubbio ch’ci non confessi che tale è stata  la cagione del suo delitto. L’ argomentazione più  perfetta è adunque quella che si compone di cin que parli ; ma non è sempre necessario di usare  quesla maniera di argomenlazione. Imperciocché  vuoisi, per esempio, lasciar da parie la recapitolazione, quando la cosa è così limitala che facilmente si possa tenere a memoria; e vuoisi pur pretermettere l'ornamento, quando il soggetto poco si  presta di per sé stesso all’amplificazione e adornamento. Se 1’ argomentazione è breve, e nello  stesso tempo è modesto il soggetto e poco fecondo, bisogna allora astenersi daU'ornamento e dalla  recapitolazione. In ogni argomentazione, rispetto  all’uso delle due ultime parli, è da tener conto di  quello clic ora ho defto.L'argomcnlazioue più perfetta Iva dunque cinque parli; la più breve ne ha  tre, la mediocre, tolto via da essa o l’ornamento o  la rccapilolazione, ne ha quattro.   XX. Due generi di argomentazioni viziose ci  sono: 1’ uno, che appartenendo propriamente alla  x causa può essere confutato dall’avversario; l’altro,  che, essendo inconcludente, non ha bisogno di  venir confutato. Quali siano le argomentazioni che  convenga di confutare, e quali quelle che debbansi deprezzare e passar sotto silenzio senza confutarle, tu non potrai chiaramente conoscere se  non li porgerò gli esempi. Questa cognizione delle  viziose argomentazioni li apporterà due vantaggi:  il primo, di farli evitare i difetti nel ragionamento,  il secoudo , d’ insegnarli a conoscer facilmente     quelli clic l’avversario non ha sapulo cvilare. Poicliè adunque noi abbiamo mostralo che la perfetta  e compiuta argomentazione si compone di cinque  parti, consideriamomi ciascuna qualjsono i difetti  da evitarsi, acciocché e nei medesimi possiamo  guardarcene, e col metodo istesso attaccare le argomentazioni dogli avversarli in lutto le parli loro,  e farle da alcuna parte cadere. L’esposizione è viziosa, quando, prendendo per modello taluno, o  la maggior parte degli uomini, si appropria a lutti  ciò che non è conveniente necessariamente a tutti,  come se si dicesse così: « Tutti coloro clic sono  poveri, amano meglio di procacciarsi ricchezze con  le ribalderie, clic conservare la povertà seguendo  il dovere. » So uno esponesse così la sua argomentazione senza curarsi di cercare qua! ne fosse la  ragione o la oonl'errpazion della ragione, noi potremmo facilmente confutare la sua stessa esposizione, mostrando che è falso ed ingiusto attribuire  a lutti i poveri ciò che può essere solo di qualche  povero malvagio. Parimenti è viziosa l’esposizione, quando si afferma che ciò che accade di rado,  non può punto accadere, come: « Niuno d’una sola  occhiata, e in passando, può esser preso d’amore:»  perciocché essendo pure accaduto che taluno fa  d’ un’ occhiala preso di amore, c quegli affermando che ciò non è accaduto ad alcuno, poco importa che poi ciò accada di rado, quando si sa che qualche volta accade od è possibile che accada. Similmente è viziosa l’esposizione, quando  noi mostriamo di avere enumerale tutte le circostanze di un fatto, e ne ommeltiamo qualcheduna  essenziale, per esempio: « Poiché adunque è manifesto eh c stalo ucciso un uomo, è d’ uopoche  sia stato ucciso o da malandrini, o da nemici, o  da te, cui egli ha per testamento lasciato crede in  parte. Di malandrini in quel luogo non se pe sono  veduti mai, di nemici non ne aveva alcuno: non  resta altro, che, se non è stato ucciso nè da malandrini, che in quel luogo non ne furono mai, nè  da nemici, cui egli non aveva, sia stalo ucciso da  le. » In siffatta esposizione noi faremo uso della  confutazione, mostrando che altre persone, oltre  a quelle che l’oratore ha nominate, hanno potuto  commettere l’omicidio: come se nel citato esempio, allorché fu dello essere d’ uopo che sia stato  ucciso o da malandrini, o da nemici, o da noi, risponderemo che egli potè essere ucciso o dai proprii schiavi, o dai nostri coeredi. Distrutto in questo modo il sillogismo dell’ avversario, ci verrà  aperto un più vasto campo di difesa. Bisogna adunque nella esposizione evitare anche questo, di non  tralasciare alcuna parte essenziale, quando parer  possa essersi da noi raccolta Ogni cosa. Viziosa  parimente è quella esposizione che si compone d’una enumerazione falsa, come se, essendo più le  idee, che si presentano, ne sponiamo meno, come:  « Due sono le cose, o giudici, che spjngon tulli gli  uomini al male, la lussuria c l’ avarizia. Che? aggiungerà taluno; e l’ amore? e l’ambizione? e la  superbia? c la paura della morte? e la cupidigia  d’impero? tante altre passioni in fine? » L’enumerazione ancora è falsa, quando, non essendovi  campo che a poche idee, ne presentiamo molle,  come: « tre cose molestano gli uomini: il timore,,  il desiderio, e la tristezza. » bastava dire il timore  e il desiderio, perchè la tristezza va necessariamente congiunta sì all’ una sì all’ altra delle due  cose suddette.  Ancora è viziosa quella esposizione che è  pigliala troppo da lontano, per esempio: « Madre  di tulli i mali è la stoltezza la quale più d’ogni altra cosa genera gl’insaziabili dcsidcrii; gl'insaziabili desiderii non hanno nè fine nè misura; questi  generano l’ avarizia ; e l’avarizia spinge 1’ uomo a  qualunque misfatto. Spinti dunque dall’ avarizia i  nostri avversarti, sì commisero un tale delitto. >;  Qui bastava esporre quest'ullima idea soltanto per  non imitare Ennio e gli altri poeti, ai quali è permesso di parlare in questa maniera:   « Oh avessero gli Dii voluto che nella selva Pclia, dalle scuri taglialo, non fosse mai caduto a  , terra il pino, e che con esso non si fosse mai tolto di fabbricar la nave, clic or porla il nome di Argo;  dalla quale trasportati gli eletti guerrieri Argivi  n' andarono a conquistare il dorato vello di un  montone in Colchidc per Io perfido comandamento  del re Pelias ! Imperciocché giammai non avrebbe  la casa sua lasciala l’ errante mia padrona Medea,  piena d’affanni il cuore, ferita di uncrudcleamorc.»   Qui sarebbe bastatoli diro, (se il poeta si fesse  dato pensiero solo di-ciò clic era bastante):   « Oh avessero gli Dii voluto che giammai non  avesse la casa sua lasciata I’ errante mia padrona  Medea, ferita d’ amore ! »   Bisogna adunque ben guardarsineUo esposizioni di questo genere di risalire a cose così lontane;  perciocché non v’ ha bisogno che io mi perda qui  a biasimarne a parte a parte i difetti, come di tante altre, quando è chiaro che sono viziosissime di  per sé.  È poi viziosa quella ragione, clic non è  adattata alla esposizione, sia per la propria debolezza, sia per la sua falsità. Pecca di debolezza  quella ragione, la quale non mostra che la cosa è  necessariamente tale quale è stata esposta, come  in questo luogo di Plauto:   « Castigare un amico, clic per colpa il merita,  è ingrato uffizio; m:r talora utile e profittevole. »  ' Questa è l’ esposizione : vediamo qual ragione  ne è addotta. Imperciocché oggi castigherò il mio amico  per una colpa, per lo quale ei merita di essere castigato. »   Egli dimostra qual sia 1’ utile da ciò che farà,  non da ciò che conviene di fare. È ragione falsa  quella, che consta di una ragione non vera, come  in questo esempio: « L’ amore non è da fuggirsi,  perchè ei genera amicizia verissima. )) 0 come in  quesl’allro: « E da fuggirsi la filosofia, perchè ella  è madre della indolenza c della pigrizia. » Se queste ragioni non fossero false, noi dovremmo pure  ammetter per vere le esposizioni che le precedono. Ancora è debole quella ragione che non arreca  una cagione necessaria della esposizione, come in  questo luogo di Pacuvio:   « Alcuni filosofi dicono clic la fortuna è stolta,  cieca, e insensata ; e vanno predicando che ella  volubile si lien diritta sopra un globo di pietra, e  clic cade da quella parte verso cui la sorte spinge  il globo. I.a dicono eieea, perchè non vede il luogo  dov’ella deve fissarsi; stolta, perchè è crudele, incerta, instabile; insensata, perchè non sa distinguere nè chi merita nè chi demerita- Altri filosofi  poi vi sono, i quali negano esserci per cag.ion di  fortuna veruna miseria, ma tutte cose reggersi dal  caso; opinione, dicono essi, più verisimile, la quale  in fatto è tuttodì dall’ esperienza dimostrala ; ed  Oreste ne è un esempio, il quale prima fu re, e divenne poi mendico; il che gli accadde per cagione del suo naufragio: dunque la colpa non fu della fortuna, j)   Qui Pacuvió usa una ragione debole, quando  afferma, che più veramente lutto si fa per caso c  non per fortuna; perciocché tanto nell’uno quanto nell’ altro sistèma dei filosofi pur potè farsi  che queirOrcstc, che era stato re, divenisse mendico. È debole eziandio quella ragione, che  non ha che l’ apparenza della ragione, ma altro  non dice che ciò che è stalo dello nella esposizione, come: « Un gran male è l’avarizia per gli uomini, perchè gli uomini per lo smodato desiderio  delle ricchezze vengono da molte e grandi incomodità travagliali. » Qui, se ben si consideri, vicn  data per ragione, cambiale le parole, la cosa slessa, che fu detta nella esposizione. Ancora è debole  quella ragione, la quale soggiunge alla esposizione una cagione meno idonea di quello che la cosa  richiede, per esempio: « Utile è la sapienza, perchè quelli che sono sapienti, hanno consuetudine  di seguire la pietà. » Ovvero: « È utile aver dei  veri amici, perchè allora avrai con chi scherzare. »  Se noi adduciamo siffatte ragioni, l’esposizione  non vieti confermala con una prova universale, assoluta, ma minima affatto. Ancora è debole quella  ragione, la quale si possa appropriare anche ad    un’altra esposizione, come fa Pacuvio,chc arreca  la medesima ragione per provare tanto clic la fortuna è cicca, quanto eh’ ella è insensata. Nella  confermazione della ragione vi sono molli difetti  ^a evitarsi nel nostro ragionamento, e molli altri  da notarsi in quello degli avversari!; c tanto più  attentamente vogliono essere considerati in quanto clic un’accurata confermazione della ragione  consolida mollo gagliardamente tutta intera Ja nostra argomentazione. Appunto per ciò gli oratori  diligenti nella eonfcrmazion della ragione fanno  uso della doppia conclusione, vale a dire del dilemma, a questo modo:   « 0 padre, voi mi colpite di una crudele ingiustizia. Imperciocché, se tenevate Crcsfonlc per un  malvagio, perchè me Io concedevate a marito ? E  se è un uomo onesto, perchè, a malgrado mio e  suo, mi costringete a lasciarlo ? »   Simili conclusioni, ovvero dilemmi, o si rivolgeranno in contrario, osi confuteranno in una delle  due parti. Si rivolgeranno in contrario così:   « Io non commetto, o figlia, contro di le veruna ingiustizia. Se egli è onesl’ uomc, rimarrà tuo  marito; ma se è malvagio, io por mezzo del divorzio ti torrò a gravi mali. »   Si confuteranno in una delle due parti, se delle  due proporzioni del dilemma si dissolverà ol’ una  o l’ altra, come: Se stimavate Crcsfontc un malvagio, perchè  concedermegli in isposa ? — Lo credetti un onesto  uomo; m’ingannai; lo conobbi dappoi, c l’ odio  adesso. «   XXV. La confutazione adunque di un tale dilemma si fa in due maniere: la prima maniera, mostrata di sopra, è più ingegnosa; quest’altra è più  facile a trovarsi. Similmente è viziosa la conl'ermazion della ragione, quando malamente usiamo  come segno certo di una data cosa un tal segno,  che può significarne più d’ una , per esempio :  a Poiché colui è pallido, fa d’ uopo clic sia stato  ammalalo. » Ovvero, « Fa d’uopo che colei abbia  partorito, poiché tiene sulle braccia un bambino.»  Colesti segni non presentano di per sé stessi una  certezza, se non vi •concorrano altri segni analoghi: che se vi concorrano, allora potremo più facilmente avere la convinzione. È parimenti giudicalo diretto il dire contra 1’ avversario cosa , che.  può convenire o contra un altro, o conira quel medesimo clic parla, per esempio :   « Miseri son quelli, che tolgono moglie; — ma  tu la togliesti due volle. »   E ancora difetto usare una difesa, che sia comune; per esempio: * Colui peccò per iracondia , o  per inesperienza, o per amore. » Se cosiffatte scuse si dovessero tenere per bpone, allora n’andrebbono impuniti i più grandi delitti. Egli è parimente    Digitized by Google    un altro difetto il dare per cerio ciò che non è  generalmente ricevuto per tale, perchè è cosa pur  sempre soggetta a controversia , per esempio :  « Olà, non sai tu che gli Dei, i quali hanno il potere di muovere le còlesti cose e le terrestri, fanno  tra loro pace, e manlengonsi in concordia? »  CosVEnnio introduce Cresfontc, che porge quesf esempio in favore del suo diritto, quasiché avesse già dimostrato con ragioni abbastanza certe che  la cosa è così. È parimente difettoso ciò che sembra dirsi oramai troppo lardi , c ad affare finito,  come: « Se io avessi ciò preveduto, o Quiriti, non  avrei permesso che la cosa venisse ad un tal punto; io avrei fatto così e colà; ma in quel momento  questo espediente non mi venne al pensiero. » E  ancora riguardalo come difetto il cercar di coprire  con una qualche ombra di difesa un’ azione, che  fu manifestamente colpevole, per esempio :   « Io sì ti lasciai, quando lutti venivano a te, signore di un fiorentissimo regno; ma ora essendo  tu da tutti abbandonato, io sola con grandissimo  mio. pericolo mi accingo a riporti sul tuo trono, a  Medesimamente è riguardato siccome  difetto che si dica una cosa in modo che possa esser presa in un senso diverso da quello clic si è  voluto significare. Di tal falla sarebbe questa sentenza, che fosse pronunziala da alcuno potente e  fazioso in pubblica adunanza : « E meglio avere un re che cattive leggi. » Imperciocché sebbene  questa cosa possa essere della senza un fine malizioso, persola cagione dicrescerforza airargomento, pure, poi’ la potenza di colui che parla, non è  detta senza un odioso sospetto. È pur male l’usare  definizioni false o volgari. False sono queste, come  se alcuno dica: « Non sono ingiurie se non quelle  che risultano da percosse o da oltraggi. » Volgari  definizioni son quelle, che possono senza più trasferirsi ad altra cosa; come se alcuno dica : « Il  delatore è, per descriverlo in breve, un uomo degno di forca; perciocché è un cittadino perverso e  pestilenziale. » Qui usasi una definizione, che non  si addice meno al delatore che al ladro, al sicario,  al traditore. Similmente è difetto pigliar come  prova ciò che è posto in djsquisizione; come se alcuno accusi altrui di furto, c dica: « Questo colale  • è un uomo cattivo, avaro, fraudolento , e di ciò  è una prova il furto di cui viene accusalo. » È ancora difetto risolvere la cosa in deputazione con  altra egualmente in deputazione, per esempio:  « Non conviene, o Censori, che leniate costui per  isousato da ciò che dice, clic egli non ha potuto  presentarsi a voi, come si era obbligato con giuramento; perchè, se non avesse potuto ritornare  all’esercito, farebbe egli una scusa eguale al tribuno militare? » Questo argoménto è vizioso per  ciò clic viene recata innanzi per esempio non una    cosa già spedita e giudicata, ma una cosa ancora  indecisa e posta egualmente in controversia. Altro  difetto si è, quando non si rischiara abbastanza la  cosa che forma il punto essenziale della controversia, e la si lascia da parte, come se fosse di già  consentita; per esempio: « L’oracolo, se pur lo intendete, parla chiaro ; egli comanda, che, se vogliamo impadronirci di Troia, si diano queste armi  a tale guerriero qual si fu colui che le portò: questo guerriero ecco son io: è giusto che io possegga  le armi fraterne, e che vengano aggiudicate a me,  o come a congiunto di Achille, o come all’ emulo  del suo valore. »   Un altro difetto si è quello di non essere nel  proprio parlare d’accordo con sè medesimo, e di  contraddire a ciò che prima si èdetto, per esempio:   « Io non posso, meco medesimo pensando, spiegare perchè io accusi costui; imperciocché se egli  ha verecondia, perchè mai accuso io un uomo che  è onesto? Se poi ha un animo, che non sente verecondia, perchè mai accuso io un uomo che fa  poco conto di quello che dico? In verità egli dà assai buone ragioni per  non accusare quell’uomo. E perchè dunque soggiunge :   « Ora io sì li farò smascheralo rimontando al  principio ? »   È similmente da biasimare ogni discorso che urli la volontà dei giudici o degli uditori, elio ferisca le parti ch’ei seguitano o le persone che da  loro sono amate, o che , per qualche altro modo  consimile, offenda le opinioni loro. Ancora è vizio  non sostenere nella confermazione le cose che  nella esposizione si è promesso di sostenere. Ancora è da guardarsi dal parlare di una cosa, allorché se ne ha un’altra in controversia, e per evitar  questo difetto vuoisi por mente o di non aggiunger nulla al soggetto, o di nulla levargli, o di non  far cambiar natura alla causa trasformandola in  un’altra, come appresso Pacuvio fanno appunto  Zelo ed Anfione; i quali, dopo di avere introdotta  questione intorno alla musica, d’ altro poi non ragionano che della natura della sapienza, c dell’utilità della virtù. Vuoisi ancora osservare che, se  l’accusa rechi una cosa, la difesa non ne confuti  un’altra, come fanno sovente molti avvocati imbarazzati da una causa difficile; come: « Se taluno,  venendo accusato di avere per broglio cercala una  carica, risponda clic sovente in campo ha ricevuto  ricompense da’ suoi capi. » Se noi nel discorso  degli avversar» porremo una grande attenzione a  ciò, sovente li coglieremo in difetto, e per siffatto  modo cogliendoli mostreremo, che essi nulla dir  possono intorno a quel soggetto. È parimente vizio  dir male di un’ arte , o di una scienza, o di uno  sludio qualsiasi a cagione de’ vizii di coloro clic quel colnlc studio professano: come quelli clic  biasimano la Rcttorioa a cagione della vituperevole  condotta di qualche oratore. Similmente è errore  il pensare che, poiché si è dimostrato essere stalo  commesso il delitto,, sia pur anche dimostralo chi  ne è stato T autore, come: « Egli è manifesto che  il cadavere era sfiguralo, gonfio, livido: dunque  quel tale fu tolto di vita con veleno. » Conciossia^  che se ad imitazione di molli si ponga ogni cura  a provare che quel tale Tu avvelenato, si verrà a  cadere in un difetto non picciolo; perchè non si  cerca già, se vi è stalo delitto, ma bensì da chi  è stalo commesso.   XXVIII. È pur da riguardare comevizio, quando  si paragonano due cose, lo esaltarne una, e non  dir parola dell’altra, ovvero parlarne con alquanto  di negligenza; come, qualora faccndosrquislione,  se sia meglio clic al popolo si dia grano o no, tu  ponga cura ad enumerare quali siano i vantaggi  dell’ uno di questi avvisi, c trapassi come di niun  valore quali esser possano i disavvantaggi dell’avviso opposto, ovvero nc dica solamente i più piccoli. Altro vizio si è ancora, quando si paragonano  due cose, pensare che sia necessario di biasimarne una, perchè lodasi l’altra, come sarebbe: Se  facciasi quislionc a quale dei due popoli debbasi  concedere onor maggiore, se agli Albani o ai Vestini, per cagione di servigi prestati alla Rcpubblica Romana ; c colui, che parla in favore degli  uni, dica offesa contro agli altri; perchè none necessario che, se In dai la preferenza agli uni, dica  poi male degli altri. Imperciocché tu ben potrai,  dopo di avere assai lodali gli uni, impartir qualche  lode anche agli altri, per non dar a credere che tu  abbi alquanto appassionatamente combattuto contro alla verità. Altro vizio pure si è quello di levar  controversia intorno al nome e vocabolo di quella  cosa, di cui può esser giudice supremo l’uso:  come fece Sulpizio, il quale dopo essersi opposto al richiamo degli esuli, ai quali non era stalo  concesso di difendere la propria causa, più tardi,  mutalo avviso, nel mentre clic proponeva la legge  medesima da lui prima combattuta, sosteneva che  quella era una legge diversa per un semplice cambiamento di nomi: perciocché egli diceva di richiamare non, già degli esuli, ma dei cittadini cacciali  per violenza; quasi che fossesi indotta controversia  con qual nome dovessero quelli venir chiamali dal  popolo Romano, o come se non tulli coloro, ai  quali era stala interdetta l’acqua e il fuoco, si dovessero chiamar esuli. Nondimeno noi possiamo  perdonargli, s’ ei lo feGC con un perchè: quanto  a noi riconosciamo essere vizio muovere controversia per un semplice cambiamento di nomi. Poiché l’ornamento consta di similitudini, di esempi, di amplificazioni, di giudicali, e MODO HI. cT allri luoghi oralorii, alti a sviluppare cd arricchire rargomenlazione, esamineremo quali esser  possano i vizii nell’ uso di questi mezzi. È viziosa  quella similitudine, la quale in qualche parte è  disacconcia, e non presenta eguali rapporti fra i  termini della comparazione, o nuoce all’ oratore  che l’usa. È viziosa 1’ esempio, se può essere tacciato di falsità, o è indegno di venire imitato, o è  al di sopra o al disotto del soggetto. Ci ha vizio,  se si adduca un giudicato, che riguardi una quistionc diversa, o tal cosa, sopra cui non v’ha alcuna contestazione; oppure, se è ingiusto, o tale,  che gli avversar» possano addurne a loro favore o  più altri analoghi, o più idonei. Medesimamente  è difetto, allorché l’accusato confessa il fallo, l’argomentare sopra quello, e dimostrare che ha avuto  luogo, bastando in tal caso solamente amplificarlo. Similmente è difetto amplificare ciò che prima  ha bisoguo di essere dimostrato, come: « Se alcuno accusi un tale di avere ucciso un uomo, e,  avanti di avere bastantemente provata 1’ accusa,  amplifichi il delitto, e dica, che niente v’ha di più  indegno che di uccidere un uomo : » chè non si  domanda già, se l’ azione sia o no indegna, ma se  veramente sia stata commessa.   Le recapilolazione è viziosa, quando primieramente non ripete ogni cosa nell’ ordine col quale  fu detta innanzi; quando non riepiloga con BREVITA; quando nella sua enumerazione non presenta  un insieme ben determinato c chiaro, che faccia  ricordare qual fu Mila prova la proposizione o  esposizione, c in appresso la ragione; e finalmente  la confermazione della ragione; in somma, qual  si fu P argomentazione tutta intera.   XXX. Le conclusioni , le quali vengon chiamate dai Greci epiloghi , hanno tre parli, componendosi esse della enumerazione, dell’amplificazione, e della commiserazione (1). L' enumerazione è quella, per cui noi raccogliamo e ripetiamo in pochi detti quelle cose, di cui abbiamo par- ' lato, non per riprodurre interamente, ma per richiamare a memoria il discorso, ripigliando per  ordine tutto ciò che sarà stalo, dello, di maniera  che si risveglino nella mente dell’ uditore le idee  eh’ egli avrà potuto ritenere. Bisogna altresì nella  enumerazione por mente a non rimontare sino all’esordio od anche solamente alla narrazione, perchè il discorso si parrebbe lavorato e preparato  con isludio speciale per fare o prova d' arte, o  spaccio d’ ingegno, o ostentazione di memoria.   Per la qual cosa converrà cominciare P enumerazione dalla divisione, c quindi esporre per ordine Seguo il parere di Scliutz, clic giudica intruse le  parole. In qualuor locis uli possumus, etc., c non le  ammetto nella mia traduzione. brevemente le cose che saranno state nella confermazione e nella confutazione trattate. L’aroplilìcazione è quella, che ha per obbielto di eccitare  gli uditori per mezzo de’luoghi comuni. Dieci precetti facilissimi insegnano i luoghi comuni proprii  ad amplificare l’accusa. Il primo luogo si traedal1’ autorità , allorché noi rivochiamo alla mente  quanto la cosa, onde trattasi', sia stala a cuore agli  Dei immortali, ai nostri maggiori, ai re, alle città,  alle nazioui, agli uomini più sapienti, al senato; e  soprattutto in qual maniera speciale abbiano le  leggi pronunziato intorno a siffatte cose. Il secondo luogo è, quando noi esaminiamo a chi sono  falle le azioni, onde noi accusiamo taluno ; se all’universale degli uomini, il clic è il più grave delitto; se a superiori (alla qual classe appartengono coloro, che noi abbiamo compresi nel luogo  comune dell’ autorità) ; se ad eguali, vale a dire  ad uomini collocali nella stessa condizione di ani- ,  mo, di corpo, e di fortune; se ad inferiori, vale a  dire ad uomini, che rimangono da noi trapassati  in tutte coleste cose- Il terzo luogo consiste nel  domandare che cosa ne interverrebbe , se a ciascheduno si concedesse il simigliarne, cioè di fare  quello che ha fatto l’ avversario ; e nel mostrare  quanti danni e mali seguir possano dal lasciare  impunito quel tale delitto. Il quarto luogo consiste nel mostrare che, ove si mandi perdonato il   to reo, molli altri, che ancora sono ritenuti dal timore di un giudizio, diverranno più pronti al misfare. Il quinto luogo è , quando mostriamo che,  se una volta solo sia dato diverso giudizio, non vi  sarà più nulla che possa rimediare al male, o correggere F errore dei giudici; nel qual luogo non  sarà disutile paragonare quel misfatto con altri,  per mostrare che alcuni possono venire o dal tempo tolti, o dalla prudenza corretti; ma che cotesto  da niuna cosa umana può venire o tolto o corretto.  Il sesto luogo è, quando proviamo che fu opralo  pensatamente, e diciamo che un atto volontario  non ammette veruna scusa, e che F imprudenza  sola può domandar grazia. Il settimo luogo è ,  quando mostriamo che F azione è abbominevolc,  crudele, nefando, tirannica: del qual genere sono  gli oltraggi fatti ad una donna, o quelli che cagionano le guerre, e fanno versare il sangue in battaglia. L’ottavo luogo è, quando mostriamo che il  delitto non è comunale, ma singolare, sozzo, infame , senza esempio , affinchè venga punito più  prontamente e con maggiore severità. 11 nono luogo componesi della comparazione del delitti, quando si sostiene, per esempio, che è un delitto più  grande recar violenza ad una donna libera , che  spogliare un tempio ; perchè a questa cosa può  spingere il bisogno, a quella soltanto intemperante  burbanza.il decimo.luogo è quello, pel quale lutto ciò che si è operato nel mandare a fine il fatto, e  tutto ciò che suol esserne conseguenza, noi esponiamo con tratti così vivi, così accusanti, così distinti, che si creda di vedere oprarsi e compiersi  il fatto stesso con tutte le sue ordinarie conseguenze. Per giungere allo scopo di muovere la  compassione. nell’ animo dell’uditore noi dipingeremo le diverse mutazioni della fortuna ; noi paragoneremo la nostra passata prosperità colla presente nostra disgrazia; noi enumereremo e porremo sotto agli occhi le tristi conseguenze, che deriverebbero per noi dalla perdila della nostra causa; noi supplicheremo i nostri giudici, e raccomandandoci alla loro pietà ci commetteremo interamente nel loro arbitrio; noi descriveremo i mali,  che per la calamità nostra cadrebbero sopra i nostri parenti, sopra i nostri figli, sopra i nostri amici, dichiarando nel medesimo tempo che è il loro  abbandono e la loro miseria quella clic più ci cuoce, e non già i nostri proprii mali ; noi ricorderemo la clemenza, l’ umanità, la compassione , clic  abbiamo sempre usata verso gli altri ; noi dimostreremo che siamo stati mai sempre o per lungo  tempo nelle avversità; noi lamenteremo il nostro  destino, la nostra sorte; noi finalmente prometteremo che in avvenire il nostro animo sarà forte e  paziente degli avversi casi. Trattando la commiserazione converrà clic noi siamo brevi ; perocché  niente v’ ha clic più presto si secchi quanto una  lagrima. In questo secondo libro noi abbiam trattate le quislioni presso a poco più oscure deU’arte  oratoria: laonde noi faremo qui fine a questo libro. Kel terzo esamineremo gli altri precetti tanto  quanto ci parrà conveniente. Se tu studierai questo trattato con tanta accuratezza con quanta io  ho procurato di comporlo, sì io raccoglierò nella  tua istruzione il frutto della mia fatica, c sì tu stesso approverai nel medesimo tempo la mia diligenza e andrai lieto del tuo progresso: le regole dell’arte adorneranno il tuo sapere, ed io avrò maggior premura di dar compimento a ciò che resta.  Son certo clic, in quanto a* le, accadrà ciò che dico, perchè so quanto vali: noi intanto passiamo  ad esaminare gli altri precetti per far paghi i tuoi  giusti desi lerii, la qual cosa è per me la più cara  diluite. Come ad ogni causa del genere giudiziale  convenisse di applicare i precetti dell’invenzione,  abbastanza distesamente, io credo, fu dimostrato  nei libri precedenti. In questo terzo libro ora abbiamo riserbata la trattazione delle regole dell’invenzione spettanti alle cause del genere deliberativo q dimostrativo per farti quanto più presto conoscere tutta intera la teorica, che concerne l’ invenzione. Restano ancora quattro parti della Rcttorica: tre verranno spiegate in questo libro, cioè  la Disposizione, la Pronunciazionc, e la Memoria:  di quanto poi riguarda l’Elocuzione, poiché essa  richiede una più ampia trattazione, abbiamo prescelto di parlarne in un quarto libro, il quale finito ben presto, siccome spero, noi ti manderemo,  affinchè veruna parte non ti manchi deH’arlc oratoria. Infraliamo tu potrai ben apprendere queste  prime parli e con noi, se li aggrada, e tal fiata senza di noi, leggendole, acciocché nulla t’ impedisca di potere avanzarli al pari di noi in quest'arte  del dire. Ora prestami tutta la tua attenzione: noi  continueremo a camminare verso la prefissa mela.   II. Nelle deliberazioni o si cerca quale di due  partiti è il migliore, o qual è in generale il partito  che si deve prendere. Quale di due parlili è il migliore, per esempio: «Se abbiasi a distrugger Cartagine, o lasciarla sussistere ». Qual è in generale  il partilo che si deve prendere, per esempio: « Come se Annibale, richiamalo dall’ Italia a Cartagine, consulti se debba rimanere in Italia, o tornare  a casa, o andare in Egitto per impadronirsi di Alessandria». Alcune volte la deliberazione cade sulla  natura stessa della quislione: «Come se il Senato  esamini, se debba o no riscattar dal nemico i prigionieri ». Altre volte la deliberazione viene indotta da qualche cagione esterna: « Come se il  Senato nell’occasione della guerra Punica deliberi, se dispensi con Scipione, acciocché ei possa  essere nominato consolo prima che abbia l’età voluta dalla legge ». Altre volle la deliberazione e  riguarda la natura stessa della quislione, e di più  viene indotta da qualche esterna cagione: «Come  se il Senato deliberi, nella guerra Italica, se debba  dare o no il diritto di cittadinanza agli alleati ». Io  quelle cause, in cui la deliberazione riguarderà lo  natura stessa della quislione, il discorso si aggirerà sempre intorno al soggetto. In quelle cause  poi, in cui la deliberazione verrà indotta da esterna cagione, dovrassi questa stessa cagione o innalzare o deprimere. Ogni discorso di colui, che  in una deliberazione dà il suo parere, conviene  che si proponga per fine 1’ utile, di modo che dovrà ogni mezzo oratorio tendere a questo fine. In  una discussione politica l’ utile ha due parli, la  sicurezza e l’onestà. La sicurezza consiste nell’evitare con qualsivoglia mezzo un pericolo presente  o futuro. Essa si appoggia o sopra la forza o sopra l’ inganno; e noi potremo usare o separatamente ciascuno di questi mezzi, o lutti e due insieme. La forza si spiega per gli eserciti, per le  flotte, per le armi, per le macchine di guerra, per  le leve degli uomini, e per le altre cose di questo  genere. L’inganno si compie per danaro, per promesse, per dissimulazione, per celerità, per mcnlimenlo, c per altri spedienti, di cui parlerò a tempo più opportuno, se mai applicherò l’ animo a  scrivere sopra l’ arte militare, o sopra 1’ amministrazione della cosa pubblica (1). L’onestà si compone del bene e del lodevole. Il bene è ciò che  risulta dalla virtù e dal dovere. Il bene comprende Questo è un altro luogo, che induce a credere che  Cantore della Rettorica sia proprio Cicerone. Egli fa  menzione di due opere, le quali si sa essere state più  tardi da lui composte. la prudenza, la giustizia, la fortezza, la temperanza. La prudenza è una certa finezza d’ ingegno,  che, dietro un certo calcolo,, può scegliere tra i  beni ed i mali: chiamasi ancora prudenza la cognizione di un’ arte: parimente appellasi prudenza  una memoria ricca di molte cose congiunta ad una  esperienza grande negli affari. La giustizia è l’ equilà, che dà a ciascuno ciò che gli è dovuto secondo il suo merito. La fortezza è la bramosia delle  grandi cose, il disprezzo delle volgari, e la tolleranza della fatica in ragione della loro utilità. La  temperanza è nell’ animo una facoltà moderatrice,  che contiene le passioni.   III. Il nostro parlare appoggerassi alla prudenza, se, paragonando i vantaggi coi danni, consiglieremo a cercare gli uni e ad evitare gli altri: o  se consiglieremo in alcuno frangente qualche misura da noi sperimentata o conosciuta, c mostreremo in che modo e con quali mezzi noi possiamo  conseguire lo intento; o se persuaderemo un partito, del quale o abbiamo noi stessi veduto i vantaggi, o abbiamo udito a raccontarli: nel qual caso  ci sarà ognora facile di tirare altrui nella persuasione di ciò che vorremo, recando l’ esempio. Noi  faremo buon uso delle parti della giustizia, se imploreremo la pietà in favore o degli innocenti v  dei supplicanti; se mostreremo essere conveniente  di rendere il guiderdone ai benemeriti; se proveremo essere d’uopo vendicarsi delle offese; se  giudicheremo doversi ad ogni costo serbar la fede;  se diremo doversi scrupolosamente rispettar le leggi e le costumanze sociali; se diremo doversi con  amore coltivare le alleanze e le amicizie ; se dimostreremo doversi religiosamente osservare i doveri, che la natura c’ impose verso i parenti, gli  Dei, la patria ; se diremo doversi inviolabilmente  guardare le ospitalità, le clientele, le consanguineità, i parentadi; se mostreremo non doverci noi,  nè per guadagno, nè per favore, nè per pericolo,  nè per invidia, allontanare dal diritto cammino; se  diremo dover noi in ogni nostra azione aver di  mira l’equità, la giustizia. Con simili ed altri mezzi, che la giustizia ci offre, se nell’ assemblea popolare, o nel consiglio avviseremo esser da fare  alcuna cosa, proveremo che è giusta; e coi mezzi  conlrarii, che è ingiusta. Così i luoghi medesimi  ci gioveranno tanto al persuadere quanto al dissuadere. Se diremo che vuoisi far cosa per fortezza d’animo, proveremo che non solo bisogna cercare e volere le cose grandi ed eccelse, ma ancora  che gli animi forti debbono disprezzare le cose  umili e basse, e riguardarle siccome inferiori alla  propria loro dignità. Parimente diremo che non  bisogna mai lasciarsi allontanare da veruna cosa  onesta per grandezza di pericolo o di fatica; che  bisogna preferire la morte all’ infamia ; che niun dolore ci dee costringere ad abbandonar la virtù;  che non dobbiamo temer le inimicizie d’ alcuno  per cagion del vero; che per la patria, pei parenti, per gli ospiti, per gli amici, per tutto ciò insomma, che la giustizia vuole da noi, bisogna affrontare qualunque pericolo, e sottostare a qualunque  disagio. Noi ricorreremo alle parti della temperanza, se biasimeremo la smodata avidità degli  onori, dell’oro, e d'altre cose siffatte; se racchiuderemo tulli i nostri desiderii nel giusto limite  delia natura ; se mostreremo a ciascuno quanto  può bastargli, dissuadendolo dal passar quel punto, e statuendo la sua misura ad ogni cosa. Di tal  fatta sono le parti proprie della virtù, le quali sono  da amplificare, se vuoisi persuadere, e sono da attenuare, se trattasi di dissuadere; e così saran pure attenuali quei mezzi che ho indicati di sopra.  Conciossiachè nessuno vi sarà, il quale stimi di  dover lasciar da parte la virtù; ma ò noi presenteremo le parti, che confuteremo, siccome non offerenti alla virtù i mezzi di prodursi, o mostreremo  che la virtù troverà meglio il suo posto nelle parti  contrarie. E così mostreremo, se ci sarà possibile, che quella cosa, che all’ avversario nostro è piaciuto di chiamare giustizia, altro non è Che dappocaggine, e infingardia e viziosa licenza ; che  quella, ch’ei chiamò prudenza, altro non è che  una scienza inetta, garrula c noiosa; che quella, eh’ egli appellò temperanza, altro non è che mera  pigrizia e scioperata negligenza; che quella finalmente, eh* ei disse fortezza, altro non è che gla' dialoria e spensierata avventatezza.   IV. Il lodevole è ciò che ci procura, e pel presente e per l’ avvenire, un’ onorevole riputazione.  Noi lo distinguiamo dal bene, non perchè queste  quattro parti, che comprendiamo sotto alla parola  bene, non ci procurino per solito questa onorevole  riputazione ; ma perchè quanlunque il lodevole  nasca dal bene, pure è necessario che nel discorso l’uno e l’altro siano separatamente trattati. Infatti egli non si dee cercare il bene per amore  della sola lode, ma se la lode ne deve poi esser la  mercede, la volontà del ben fare raddoppierà di  forza. Così, dopo di aver dimostralo die 1’ azione  è buona, noi proveremo o eh’ ella otterrà le lodi  di giudici competenti ( comò se, biasimala da persone di basso ordine, debba venire approvata da  persone di più elevalo ordine ); o eh’ ella sarà lodata da alcuno de’noslri compagni, o da tutti i cittadini, dalle estere nazioni, e dalla posterità tutta. Essendosi di già veduto come si dividano i luoghi concernenti le cause del genere deliberativo,  ora esporremo con tutta brevità come debba essere  distribuito l’intero discorso. Si potrà adunque incominciareo dall’esordio diretto, o dall’esordio per  insinuazione, facendo uso degli stessi mezzi che abbiamo irrdicati per le cause del genere giudiziale. Se intervenga un Fatto da raccontare, si seguiranno le stesse regole già date per la narrazione.  Poiché in questa sorte di cause il fine è 1’ utile,  e quest’utile abbraccia la sicurezza e l’onestà; se  potremo servirci d’entrambe le cose, imprenderemo nel nostro discorso a dimostrare che noi abbiamo per fine e l’una e l’altra; c se saremo obbligali di ristringerci ad una sola, annunzieremo qual  è quella che vorremo far valere. Se diremo di aver  per iscopo la sicurezza, la nostra divisione riguarderà la forza ed il consiglio; perocché ciò che. nel  precetto, per esser più chiaro, io chiamai inganno,  nel nostro discorso sarà più onesto chiamar consiglio. Se diremo di aver per fine l’onestà o sia il  bene, e tutte le parti del bene converranno al soggetto, allora lo divideremo in quattro parti;se tutte  non potranno convenire, esporremo nel discorso  sol quelle che ad esso soggetto converranno. Nella  confermazione e nella confutazione ci serviremo  dei luoghi, che abbiamo già indicali, per ben convalidile i nostri mezzi, ed abbattere quelli degli  avversari!. Per la maniera poi di trattare 1’ argomentazione artificiosa si consulterà il secondo  libro.   V. Ma se accada, che nella consultazione il parere dell’uno si appoggi sopra ragione di sicurezza, e il parere dell’ altro sopra ragione di onestà. come nel caso di coloro, che, assediali dai Cartaginesi, deliberano intorno al partilo da prèndersi;  colui, che consiglierà doversi preferire la sicurezza, farà uso de’luoghi seguenti: Che nessuna cosa  è più utile della propria conservazione; che si rende impossibile l’uso della virtù a colui che non ha  provveduto innanzi alla propria sicurezza;chc neppure gli Dei vengono in soccorso di coloro che si  gettano sconsigliatamente nel pericolo; che non  s'ha da stimar cosa onorevole quella che mette a  repentaglio la nostra salute. Colui, al contrario,  che consiglierà di preferire l’onore alla sicurezza,  farà uso de’luoghi seguenti: Che in nessun tempo  si deve rinunziare alla virtù; che il dolore (se è ciò  che si teme), che la morte (se è questa che si paventa), sono ben piccola cosa a petto al disonore  e all'infamia; che s ha da considerare quale ignominia ne -verrebbe altramente; c che nondimeno  noi non ne conseguiremmo nè vita immortale, nè  perpetua felicità; che niente ci assicurerebbe che,  sfuggito quel pericolo, noi non cadessimo in alcun  atiro; che per la virtù è bello andare anche volontariamente a morte; che al coraggio è solita venir  pure in aiuto la fortuna; che vive sicuro chi vive  con onore, non chi sol guarda alla sicurezza presente; e che chi vive nell’ignominia goder non può  di una perpetua felicità. Le conclusioni nel genere deliberalivosono d’ordinario le medesime come nel genere giudiziale, se non che in questagenere  torna utilissimo recare il più gran numero possix bile di esempi di falli anteriori.   VI. Passiamo ora al genere dimostrativo. Poiché  questo genere ha per iscopo la lode od il biasimo,  noi con certi mezzi costituiremo la lode, e coi  mezzi contrarii trovar potremo il biasimo. La lode  adunque può riguardare o le qualità esteriori, o  l'animo, oil corpo. Le qualità esteriori sono quelle  che ci possono venire o dal caso, o dalla fortuna,  sì buona, si cattiva; come la nascita, l'educazione,  le ricchezze, il potere, gli onori, la patria, le amicizie, e tutti i vantaggi finalmente di questa specie; e per l'opposto le cose tutte che a queste sono  contrarie. 1 vantaggi o disavvantaggi del corpo son  quelli che la natura attribuì al corpo stesso, come l’agilità, il vigore, la dignità, la sanità, e le  cose a queste contrarie. 1 vantaggi o i disavvantaggi dell’animo sono quelli che dipendono dalla nostra volontà e dal nostro intendimento, come la prudenza, la giustizia, la fortezza, eia temperanza, e quelle cose che sono contrarie a queste (l).In una orazione di questo genere si piglierà   (t) Nel testo trovansi qui le seguenti parolè : Erit  igitur haec confirmatioet confutatio nobis; ma parendomi con lo Scliulz che siano affatto fuor di luogo, io  le ricuso come inlegitlime, e non le traduco. l’esordio odalla nostra propria persona, odalla persona di colui, del quale parliamo, ovvero da quella  degli uditori, o dal soggello slesso. Dalla nostra persona: Se loderemo alcuno, diremoche noi facciamo  ciò o per dovere, perchè fra quello e noi passa un  vincolo di amicizia ; o per propensione, perchè  esso è dotato di tanta virtù, che tutti deggiono volerlo celebrare; o infine perchè è diritta cosa mostrare, lodando altrui, qual sia T animo nostro, o  sia il nostro carattere. Se biasimeremo, noi diremo  che facciano questo o a buon diritto, perchè anche  noi fummo così trattati; o per amor del bene, perchè noi riguardiamo come utile che da tutti sia  conosciuta una malizia e scelleratezza unica; o finalmente perchè biasimando altrui amiamo di far  conoscere ciò che a noi non piace. Dalla persona,  di cui noi parliamo: Se loderemo alcuno, noi diremo che abbiam timore di non potere colle parole  raggiungere l’altezza delle sue azioni; che è d'uopo che tulle le lingue imprendano a celebrare le  sue virtù ; che gli stessi suoi fatti passano l’ eloquenza di tulli i panegiristi. Se biasimeremo, potremo due quelle cosè che ci parranno contrarie  a queste, cambiando poche parole, come con l’esempio fu poco innanzi dimostrato. Dalla persona  degli uditori : Se loderemo alcuno, diremo che ,  parlando noi davanti a persone che bene lo conoscono, spendiamo poche parole per sola cagione di avvertire; o se non fosse a loro conosciuto, domanderemo che vogliano ben conoscere un tal  uomo, perchè trovandosi nello stesso amore della  virtù coloro stessi dinanzi ai quali lodiamo, nel  quale amore è pure stata od è la persona, clic da  noi si loda, speriamo che saranno più facilmente  per approvarci suoi fatti giusta il desiderio nostro.  Il biasimo starà nei mezzi contrari: poiché, se è conosciuta la persona, affermeremo che noi siamo per  dire poche cose della scelleratezza sua; e se non  sarà conosciuta, domanderemo che vogliamo ben  conoscerla, affinchè possano schivare la sua perversità; perchè essendo coloro, clic odono, dissimili al tulio da colui che si biasima, noi speriamo  che saranno per disapprovare altamente lasua condotta. Dal soggetto stesso : diremo che siamo incerti qual cosa dobbiamo principalmente lodare ;  che abbiamo timore che, anche dicendo molle cose  in favore del nostro soggetto, noi ne ommetliamo  ben molle di più; c continueremo con sentenze di  questa forma ; alle quali sentenze sostituiremo le  contrarie, ove si tratti di biasimare.   VII. Trattato l’esordio conformemente ad alcuna  di quelle fonti, di cui abbiamo parlato, non sarà  necessario elicne segua alcuna narrazione; ma se  mai ne intervenga una, c che siamo obbligati di,  raccontare con lode a con biasimo qualche azione  della persoua di cui togliamo a parlare, cercherò  LIBRO III.    9i    mo le regole della narrazione nel primo libro. La  divisione verrà fatta così: Primieramente esporremo le cose, che vorremo lodare o biasimare; poi  diremo con ordine, come cd in qual tempo ciascuna nazione ha avuto luogo, affinchè si sappia ciò  che è stato fatto, e con quale sicurezza e precauzione. Ma converrà render conto delle virtù o dei  vizi dell’animo, e mostrar poscia come l’animo abbia tratto partito dai vantaggi o disavvantaggi del  corpo o delle qualità esteriori. Per descrivere la vita terremo quest’ordine:Cominciando dalle qualità  esteriori, parleremo della slirpe;a lode della persona, diremo di quali maggiori sia nata; è di nobile  stirpe, diremo ch’è stala pari o al disopra della sua  stirpe; se è di bassa origine, diremo che essa ha  trovato suo presidio non nelle virtù degli avi, ma  . nelle sue. A biasimo; se sarà di nobile schiatta, diremo che è stala di disonore agli antenati; se sarà  di bassa estrazione, che nondimeno ha pur loro recato scapito.Parlando poi dell’educazione, se si tratti di lode, diremo che la persona, di cui si parla, è  stata per tutta la puerizia bene ed onestamente educata nelle v buone discipline; se si tratti di biasimo,  diremo il contrario. Dopo ciò passeremo ai vantaggi  del corpo. Cominciando dalla natura, se si tratti di  lode, diremo che, se quest’uomo ha in sè congiunta dignità e bellezza, ciò gli ha giovato ad onore,  non a danno e a vergogna, come a tanti altri ; se ha forza ed agilità singolare, diremo che ciò è stato  l’ctTeUo di onorevoli esercizii e industrie; se gode  di una costante sanità, che ciò è il fruito delle sue  cure, e della sua temperanza nelle passioni. Se si  tratti di biasimo, se egli possegga questi vantaggi  corporali, diremo che ha fatto mal uso di questi  doni, ch’ei deve, come qualsivoglia gladiatore, al  caso e alla natura ; se non ne possegga alcuno ,  tranne la bellezza, diremo che ne è stalo privato  per sua colpa ed intemperanza. Appresso noi ritorneremo alle cose esteriori , e considereremo  quanto abbiano potuto sopra di esse le virtù o i .  vizii dell’animo: se egli sia ricco o povero; quali  sono le sue cariche, le sue glorie, le sue amicizie,  le sue inimicizie; nel sostenere le inimicizie, che  ha mai opralo di forte; per qual cagione s’ è egli  procaccialo inimicizie ; con qual fede, con quale .  amore, con quale ossequio ha coltivate le amicizie:  qual si fu nelle ricchezze ; o nella povertà come  si è egli condotto ; qual animo ha egli mostrato  nell’esercizio del potere ; se egli non è più, qual  » è stata la sua morte; quali conseguenze ha la sua  morte prodotte ?   Vili. Tutti poi gli atti, pei quali si manifesta l’attività dello spirito umano, vogliono essere rapportati alle quattro virtù dette più sopra; di maniera  che, se lodiamo, noi diremo che si oprò con giustizia, con fortezza, con temperanza, con prudenza ; c se biasimiamo, noi diremo che si oprò con  ingiustizia, con codardia, con intemperanza, con  istoltezza. Per questa disposizione si vede ormai  chiaro come si devono trattare le tre parli della  lode e del biasimo ; solo avvertiremo clic non è  necessario che noi nella lode e nel biasimo facciamo entrare tulle queste tre parti, perchè sovente  non vi tornano neppur tulle in acconcio, c sovente  vi hanno così poca importanza, che è inutile di  parlarne: laonde farà d’ uopo sceglier di queste  tre parti quelle che parranno offerire più solido  argomento. Le conclusioni dovranno esser brevi ;  e si faranno entrare nel corso stesso della causa  frequenti e brevi amplificazioni tolte a’ luoghi comuni. Nè, perchè questo genere di causa si presenti di rado nella vita, si dee perciò meno diligentementcconsiderarc; conciossinchè bisogna pur  volere poter fare acconciamente ciò che può accadere di dover fare alcuna volta. E ancorché meno  spesso si tratti separatamente questo genere dimostrativo, pure accade di sovente che nelle cause  giudiziali e deliberative intervengano molte parli  di lode o di biasimo. Per la qual cosa noi giudichiamo' doversi collocare qualche poco di studio  anche in questo genere di causa. Ora, poiché abbiamo terminata la parte più difficile della Rettorica, vale a dire, poiché abbiamo illustrata l’ invenzione, e adattata questa ad ogni genere di causa, è lempoche ci accostiamo alle altre parli. Prenderemo dunque a parlare della disposizione.   IX. Poiché la disposizione è quella che c’ insegna a meltere in ordine le cose somministrateci  dairiuvcnzionc, sì che ciascuna abbia il suo posto  determinato che le conviene ; facciamoci a mostrare qual modo debba tenersi in tale operazione.  Due sorte di disposizione ci ha: P una, che dipende dalle regole dell’ arte, e 1’ altra, che si conforma alle occasioni. Noi disporremo secondo le regole dell’ arte quando seguiremo i precetti che  nel primo libro abbiamo dati; i quali sono di usare  l’ esordio, la narrazione, la divisione, la confermazione, la confutazione, la conclusione; e di osservare nel discorso 1’ ordine di queste parli in quel  modo che abbiamo innanzi prescritto. Parimente  sarà secondo le regole dell’ arte, quando noi distribuiremo non solo l’ insieme del discorso, ma  aneora le diverse parti dell’ argomentazione, spiegate net secondo libro, cioè l’ esposizione, la ragione, la confcrmazion della ragione, gli ornamenti, e la recapilolazione. Due disposizioni adunque  ci ha : 1’ una di tutto il discorso, e 1’ altra dell’ argomentazione, così l’una comel’altra fondale sulle  regole dell’ arte. Ma vi è un’ altra disposizione, la  quale, lasciata al giudizio dell’ oratore, allora che  bisogna allontanarsi dall’ ordine fìssalo dall’ arte,  si conforma all’ occasione ; come se s’ incominci dalla narrazione, o da qualche argomento dei più  solidi, o dalla lcllura di qualche testo ; o se dopo  1' esordio si passi alla confermazione, c poscia alla  - narrazione; o se invcrtasi nel modo stesso l’ordine  regolare ; il che non bisogna mai fare, se non  quando la causa ciò richieda assolutamente. Se,  per esempio, ci parranno assordale le orecchie degli uditori, e stracchi gli animi loro dai. nostri avversarti per l’abbondanza delle parole, sarà bene  lasciar 1’ esordio, e incominciare la causa o dalla  narrazione o da qualche robusto argomento. Poscia, se sarà vantaggioso, perchè non è sempre  necessario, ci sarà lecito di ritornare alle idee proprie dell’ esordio.   X. Se la nostra causa parrà circondata da molta  difficoltà, sì che nessuno abbia I’ animo disposto  ad udire favorevolmente l’ esordio, noi, dopo aver  dato cominciamenlo dalla narrazione, potremo tornare indietro, esponendo le idee che sarebbero  convenute all’esordio. Se la narrazione essa stessa  parrà poco probabile, daremo cominciamenlo da  qualche argomentazione solida. È sovente necessario ricorrere a questi cambiamenti e a queste  trasposizioni di parli quando lo stesso soggetto ci  obbliga a cambiare ad arte la disposizione prescritta dall’ arie. Nella confermazione e nella confutazione conviene altresì di seguire disposizioni  simili delle argomentazioni ; collocare nel principio e alla fine le argomenlazioni più valide; c le  mediocri, c quelle clic non sono nè inutili alla  causa, nè necessarie a convincere, che, separatamente presenlalc, e ad una, ad una, sarebbero deboli, ma clic riunite alle altre divengono forti e decisive, dovranno essere collocale e disposte nel  mezzo. Imperciocché, fatta la narrazione, l’animo  dell’uditore aspetta subitamente gli argomenti che  possono confermare la causa. Bisogna adunque recare nel mezzo qualche solida prova. E fioichèle  cose dette in fine sono quelle che più facilmente  s’ imprimono nella memoria, è utile, alla fine del  discorso, lasciare nell’animo degli uditori la fresca  impressione di un molto solido ragionamento.  Questa disposizione di mezzi, simile a buona' ordinanza di soldati, può facilissimamenleneldire, siccome quella nel combattere, procacciar la vittoria.   XI. Molli Retori riguardarono la pronunciazionc  siccome ciò clic v’ ha di più utile all’ oratore, e di  più acconcio a generare la persuasione. Quanto a  me, non dirò tanto facilmente eh’ ella sia la più  importante delle cinque parli della Rettorica, ma  sì non temerò di affermare che nella pronunciali) Chi legge il libro II. De Oratore, capo 77,  Si chiama articolo, o inciso la distinzione, che si fa di ciascuna parola per  pause, tenendo sospesa la frase sino all’ ultimo :  per esempio: « Coll’impeto, colla voce, coll’ aspetto hai sbigottiti gli avversar». » E parimente: « Tu  coll’ invidia, coll’ ingiustizia, coll’ autorità, colla  perfìdia hai tolto via i nemici. » Tra la veemenza  di questa figura, e quella della precedente ci ha  questo divario, che quella fa passi più tarpi e più  radi, e questa s’ avanza più rapida e più pronta. In  quella mi pare di veder portare la spada al petto  dell’ avversario da braccio allungato c pugno slret lo, e in questa venirneferilo il petto da colpi spessi  e rapidi . La continuazione o il periodo è una  stretta e non interrotta concatenazione di parole in  sino a senso compiuto. Noi trarremo grandissimo  vantaggio da questa figòra , se l’ useremo in tre  parti : nella sentenza, nel contrario, nella conclusione. Nella sentenza, per esempio : « Non può la  fortuna fare gran danno a colui che pose suo presidio più fermamente nella virtù, che nel caso . »  Nel contrario; per esempio : « Se alcuno non locò  molla speranza nel caso, qual danno sì grande far  gli potrà il caso? » Nella conclusione; per esempio:  « Se la fortuna può moltissimo su di quelli , che  tutti i fatti loro lasciano in cura del caso, non bi*  sogna adunque tulle cose commettere alla fortuna,  onde ella non piglia su di noi troppo grande dominio. In queste tre ligure la concatenazione delle  parole è così necessaria alla forza del discorso,  che poco valente sarebbe tenuto un oratore, se  non sapesse la sentenza, il -contrario e la conclusione con ben congiunte locuzioni esporre. Ci sono  ancora altri casi, in cui la continuazione può usarsi  con vantaggio, benché non sia proprio necessario  1’ usarla.   XX. Si chiama Compar quella figura, che ha in  sè i membri, che già dicemmo, della frase formali  quasi del medesimo numero di sillabe. Ciò non otteremo già col coniare le sillabe ( il che sarebbe una puerililà ), ma bensì l’ uso c l’esercizio ci metteranno in grado per un certo naturai senso di conformare ciaschedun membro a quello che avrem  posto di sopra; per esempio: « In battaglia il padre  succumbeva.a casa il figlio s’ammogliava, ciò lutto  un fatai caso governava. » E parimente : « Alla  fortuna dee l’uno la felicità, all’ industria deo l’altro la virtù. » Sovente però può intervenire in questa figura, che il numero delle sillabe non sia affatto eguale, e nondimeno paia esserlo, se anche  l’uno o l’ altro membro è più corto di una o di due  sillabe; ma neH’uno essendo più le sillabe, nell’altro la sillaba o le sillabe siano più lunghe e più  piene; talché la lunghezza o la pienezza di queste  sillabe compensi e pareggi il maggior numerò  delle sillabe dell’altro membro. Si chiama SimiUter cadens una figura , quando nella medesima  struttura delle parole se ne hanno due o più, le  quali per egual modo nei medesimi casi si pronunziino, per esempio: « Hominem laudas egentem virtutis, abundaniem fclicitutis. E parimente :’ « Cuius omnis in pecunia spes est, eius  a sapienlia est animus remotus. Diligenlia comparai divitias, negligentia corrumpit animum;  Tu lodi un uomo povero di virtù, ricco di felicità. unno ìv. - et tamen quurr* ita vivit, neminem prue se dadi  hominem. La figura Similiter desinens si haquandoleparole presentano una stessa desinenza, senza die i casi  siano gli stessi; per esempio: « Ttirpiier audes facere, nequiter sludes dicere. Vivis invidiose, delinquis studiose, loqueris odiose. E parimente: « Audaeter lerritas , humiliter placas  ».  Queste due figure, V una delle quali consiste nella  simiglianza delle desinenze, e l’ altra nella simiglianza dei casi, mollo bene si accordano fra loro;  anzi i buoni scrittori per lo più le collocano insieme nelle stesse parli del discorso. Ciò si farà nella  seguente maniera: Perditissima ratio est amorem  petere, pudorem fugere, diligere fonnam, negligere famam  ». Qui le parole, ebe hanno casi, Colui, che ita messo tutta la sua speranza nell’oro, Ita l’animo ben lontano dalla saviezza. Acquista  le ricchezze colla operosità, e corrompe il proprio animo colla inlìngardaggiue; e nondimeno, vivendo in tal  guisa, nessuno reputa uomo a confronto di sè. Osi oprare disonestamente, e ti studii a parlare  scelleratamente. Odiosa è la tua condotta, ami il defitto, ed offensivo è il tuo parlare. Audace sci nel minacciare, umile nel supplicare. Niente di più vergognoso può farsi quanto di finiscono con casi simili, e quelle che non ne hanno, finiscono con la stessa desinenza. L’ annominazionè o paranomasia si ha ,  quando si ripete la stessa parola, o lo stesso nome  cambiandovi una o due lettere, una o due sillabe;  o quando si applica la medesima parola a due  cose fra loro differenti. Ella si forma per molle e  varie maniere. Colla diminuzione o contrazione  della stessa lettera, per esempio : « Hic qui se  magni fiee iactat , atque ostentai , veniit a te ante,  quam Romam venit (1) ». 0, facendo il contrario,  per esempio: « Hicquos homines alea vincil, eos  ferro statini vincit. Coll’ allungamento della  medesima lettera, per esempio: Hunc avium dulcedo ducil ad avium (3) ». Coll’ abbreviazione  della medesima lettera, per esempio : « Hic torneisi videtur esse honoris cupidus , tamen non  tantum curiam diligit, quanlum Curiam.   abbandonarsi all’ amore, e di rinunziare al pudore; di  esser avidi della bellezza e non curanti della fama. Costui, che spiega tanta giattanzac ostentazione, fu da te venduto avanti che fosse a Roma venuto »,   (2) « Quelli, che costui in giuoco vince, tosto di catene avvince. Il canto degli uccelli trae costui fuor di via ».    « Benché costui paia ambizioso degli onori pur  non ama tanto la curia quanto Curia. Curia è una cortigiana famosa. Aggiungendo delle lettere, per esempio « Hic sibi  posset temperare , nisi amori piatici ottemperare  ». Levando delle lettere, per esempio: « Si  lenones vilasset tanquam leones , vilae se tradidisset. Trasponendo delle lettere, per esempio: « Videte , iudices, utrum Uomini navo, au  vano credere malilis. E parimente: Nolo  esse laudator, ne videar adulator. 0 mutando una lettera : per esempio : « Deligere oportet ,  quem velis diligere. Di tal fatta sono le annominazioni o paronomasie, che fanno sostenere  alle lettere un leggiero cambiamento, sia allungandole, sia trasponendole, sia assettandole in altra  maniera non molto diversa.   Yi ha altre paronomasie, in cui le parole  non hanno una cosi stretta rassomiglianza, ma conservano però una certa analogia fra loro. Eccone  una dì questo genere: « Quid veniam, qui siiUj  quare veniam, quem insimulem , cut prosim, Egli poiria temperar se stesso, se non amasse  meglio ottemperare alTamore. Se fuggiti avesse i lenoni come i leoni, avrebbe  conservata la vita.   Vedete, o giudici, se amate piuttosto di prestar  fede a un uomo coraggioso o ad un uomo vano. Non voglio essere lodatore per non parere  -adulatore. Egli conviene scegliere colui che tu vuoi amare. quem postulerà, brevi cognoscetis Qui si  trova in alcune parole una certa analogia, che fa  d’ uopo ricercar meno che quelle degli esempi  precedenti, ma che pur vuol essere qualche volta  usata. Ecco un’altra forma della medesima figura:, Demus operaia , Quirites ne omnino Paint  Conscripli circumscripti pulentur. Questa  paranomasia si accosta alla rassomiglianza perfetta  un poco più che la precedente, ma meno che  quelle riferite innanzi, perchè ad esse non solamente sono state aggiunte delle lettere, ma ne  sono state altresì levate delle altre. Una terza forma di questa figura si è di presentare diversi casi  di uno o più nomi. Di un sol nome; per esempio: Alexander Macedo summo labore anirnum ad  virtulem a pueritiu confirmavit. Alexandri virtùtes per orberà terme eum laude et gloria sunt  vervulgatae. Alexandro si vita longior data esset , Oceanun manus M acedo num tran svola sset.  Alexandrum omnes, ut maxime meluerunt, ilem  plurimum dilexerunt. Qui un solo nome si è  Voi conoscerete ben tosto la cagione, che qui  mi guida, chi io sia, che cosa io mi proponga, chi io  accusi, chi io difenda, chi io citi in giudizio. Facciamo in modo, o Quiriti, che i padri coscritti non vengano stimati affatto circoscritti.   (3) « Alessandro Macedone dallasua infanzia esercitò  con grandissima costanza l’animo suo' alla virtù. Le fallo successivamente passare in differenti casi.  Ora vediamo una paronomasia, in cui più nomi  saranno usali in differenti casi alla loro volta:  Tiberiam Gracchum, rempublicam administranlem, indigna prohilmit ìipx diutius in ea commorari. Caio Graccho simdiler , occisio oblata est ,  quae vi rum reipublicae amanlissimum subilo de  sinu eivilutis eripuil. Saturninum, fide caplum  malorum, perfidine scelus vitae pricavit. Tuus, o  Druse, sanguis domeslicos parietes, et vultam  parenlis adspersit. Sulpicium, cui paullo aule  omnia concedebant, eum brevi spatio non modo  vivere, sed eliam sepeliri prohibuevunl(l) ». Quc virtù di Alessandro si conservano con lode e gloria  nella ricordanza del mondo intiero. Se ad Alessandro  fosse stala consentita dagli Dei una più lunga vita, un  pugno di Macedoni saria volato al di là dell’ Oceano.  Se tutti temettero grandissimamente Alessandro, lo  amarono pur anco di moltissimo amore. Una morte indegna tolse Tiberio Gracco alla  onorato incarico d’amministrar la Repubblica, al quale  era tutto intento. Similmente a Caio Gracco fu tolta  la vita da nemica mano, che alla città improvvisamente  rapi un uomo caldissimo d'amore per la Repubblica.  Saturnino, che posto avea sua fede ne’ malvagi, spensero i perfidi amici medesimi. Il tuo sangue, o Druso,  bagnò le domestiche pareli, e il volto della madre.  Sulpicio, al quale poco prima tutto concedevano, privaron ben tosto non solo della vita, ma anche dello  onor del sepolcro. ste tre ultime figure Similiter cadens, Similiter  desinens , e Annominazione o Paronomasia, allorché avremo alle mani una causa vera, non le dovremo usare che mollo di rado; perciocché non si  possono trovare senza sforzo e perdita di tempo. Siffatti giuochi dell’inlellelto sembrano  avere per iscopo piuttosto il diletto che la verità.  Laonde l’uso frequente di queste figure toglie all’eloquenza la sua autorità, la sua nobiltà, la sua  severità. E non solo toglie alla parola tutta la sua  virtù, ma l’uditore rimane disgustato da una tale  maniera di dire, perchè trova in queste figure fi'  nezza e giocondità, non mai bellezza e dignità. Il  bello ed il grandioso possono piacere a lungo, ma  il giocondo c l’aggraziato generano ben tosto sazietà allo sdegnante orecchio. Facendo noi dunque abuso di queste figure mostreremo di compiacerci di una puerile elocuzione; ma se le frammetteremo nel discorso con parsimonia, o ve le  spanderemo variamento qua e là, esse gioveranno  a render più brillante il discorso stesso, come se  fossero altrettanti punti luminosi. La soggiunzionc  è quando noi domandiamo- ai nostri avversari!, o  in generale agli uditori, che cosa può dirsi a favor  di quelli, o contro di noi; c poscia soggiungiamo ciò  che bisogna veramente dire o non dire, o ciò che  può essere favorevole olla nostra causa, o nocevolc  a quella degli avversari, per esempio: « Io doman  (io adunque come questo uomo è divenuto sì ricco.  Gli e forse sialo lascialo un ampio patrimonio? Ma  i beni tulli di suo padre furono venduti. Gli è forse toccala qualche eredità? No certamente; anzi  tulli i suoi parenti lo hanno diseredato. Ha egli  avulo guadagno da lite o da giudizio? Non solo  non ha oltenuto nulla di ciò, ma anzi di più è stalo  condannato a pagare una grossa ammenda. Dunque se non deve la sua ricchezza a veruna di queste cagioni, siccome voi tutti vedete, o bisogna  dire che a costui nasce l’ oro in casa, o che egli  ha acquistato ricchezze con mezzi illeciti. Eccone un altro esempio: « Io ho spesse  volle osservato, o giudici, che molti accusali possono trovar favore in qualche onorevole circostanza, la quale neppur dagli accusatori può essere  impugnata; ma il nostro avversario nulla può fare  di simigliarne. Imperciocché, invocherà egli la virtù  di suo padre? ma voi questo padre nella coscienza  vostra condannaste alla pena di morte. Passerà  egli in rassegna il tempo della sua vita antecedente onestamente speso in alcun luogo? ma voi  tutti senza più sapete com'egli ha vissuto sotto i  vostri occhi medesimi. Enumererà forse de’ parenti, al cui nome voi abbiale a rimanere commossi?  ma egli non ha parenti. Menerà forse innanzi degli  amici? ma niuno è, che non riguardi siccome uno  scorno l’essere chiamalo amico di costui ». E similmente: « Il nemico, cui tii riputavi colpevole,  adducesti forse in giudizio? no; perciocché tu Tue*  chiesti senza che fosse condannato. Avesti tu fimore delle leggi, che proibiscono di ciò fare? ma  tu neppure pensasti che ei fossero leggi. Quando  egli ti faceva presente l’antica reciproca amicizia,  ti sentisti commosso? niente del tinto; anzi tu lo  uccidesti con più rabbia. E che? allorquando i suoi  figliuoletti ti si gittarono ai piedi, fosti tocco da  compassione? anzi con sommissima crudeltà volesti che rimanesse insepolto il padre loro ». ilavvi  in questa figura mollo di veemenza e di gravità,  perciocché dopo che si è domandalo che cosa bisognava fare, si soggiunge tosto che quella cosa  non si è punto fatta. Di che nasce mollo facilmente  che s’ingrandisca l’indegnità della cosa. Noi possiamo altresì riferire la soggiunzione alla nostra  propria persona, per esempio: « Che doveva io  fare, allorché mi vidi soprappreso da una sì grande moltitudine di .Galli? Forse combattere? ma, oltrecchè saremmo usciti a battaglia con pochegentiavevamo pur anche una posizione mollo sfavorevole. Star dentro agli alloggiamenti? ma noi non  avevamo nè soccorsi da attendere, nè vettovaglie  per potere a lungo campare la vita. Abbandonare  gli alloggiamenti? ma eravamo accerchiali. Contar  per nulla la vita de’soldati? ma mi pareva pure di  averli ricevuti con questa condizione di conscr varli incolumi, per quanto potessi, alla patria c ai  parenti. Ricusare le condizioni del nemico? ma la  salvezza de' soldati deve andare innanzi a quella  delle bagaglic ». Siffatte soggiunzioni si pongono  sovente l'una dopo l’altra, acciocché da tutte appaia venir dimostrato che non v’ era niun miglior  partito a prendere che quello, che appunto fu  preso. La gradazione è una figura per la quale  non si discende alla parola seguente prima che  siasi risaliti alPanteceddiite, per esempio: « Qual  altra speranza di libertà ci rimane, se ciò cli'ei  vogliono, possono, e ciò che possono, osano, e ciò  che osano, fanno, e ciò che fanno, a voi non è grave? >) E ancora: t lo ciò noli pensai senza che il  consigliassi: nè il consigliai, senza che intraprendessi tosto a farlo io stesso; oè intrapresi a farlo  senza che lo recassi a compimento; nè lo recai a  compimento senza che lo approvassi. » E ancora: AH’Affricano la industria procacciò virtù, la virtù gloria, la gloria rivali. » E ancora: « Lo imperio  della Grecia si fu appo gli Ateniesi: degli Ateniesi  si fecero signori gli Spartani; gli Spartani furono  superati dai Tcbani; i Tebani vinti dai Macedoni;  i quali Macedoni in breve spazio di tempo allo imperio della Grecia aggiunsero l'Asia soggiogata in  guerra, » La successiva ripetizione di ciascuna parola antecedente ha in sè una certa tal grazia; la quale ripetizione costituisce appunto questa figura  della gradazione. La definizione è quella figura,  che in poche parole e senza nulla tralasciare abbraccia gli attributi proprii di una cosa, per esempio: « La Maestà della Repubblica si è quella, in  cui si contiene la dignità e la grandezza della città. » E ancora: « Le ingiurie sono quelle, che violano o con percosse il corpo, o con villaniegli orecchi, o con altra turpitudine la vita di qualsivoglia  uomo. » E parimente: « Questa non è economia,  ma avarizia; perciocché l’dconomia si è un’ accurata conservazione delle cose proprie; c l’avarizia  si è un’ingiuriosa appetizione delle cose altrui. »  E ancora: « Non è coraggio questo, ma temerità;  perciocché il coraggio è il disprezzo della fatica e  del pericolo con ragione di utilità e compensazione  di comodi; e la temerità è un gladiatorio intraprendimento di pericoli con inconsiderala sofferenza  di fatica. « Questa figura è tenuta vantaggiosa per  ciò appunto che fa conoscere ed intendere la forza  ed il valere di qualsivoglia cosa sì chiaramente e  sì brevemente che paia non aver avuto bisogno di  esser detta con più parole, nè si pensi essersi potuta dire con brevità maggiore. Transazione chiamasi quella, la quale e  con brevità pone sott’occhio ciò che è stato detto,  ed anco dichiara in poche parole ciò che deve seguitare; per esempio: « Voi avete veduto come co stui si è contenuto verso la patria; considerate ora  quale si è mostrato verso i parenti. » E parimente:   « Voi conoscete i benefizii, ebe io ho fatti a costui; ora udite in qual modo ei rn’hn ricompensato. » Questa figura è di qualche utilità per due ragioni; prima perchè ci fa ricordare di ciò che è  stalo dello, e prepara l’ uditore a ciò che rimane  da dire. La correzione è quella, che toglie ciò che  è stato detto, e ripone in sua vece ciò che pare più  conveniente, per esempio: « Se costui avesse pregalo i suoi ospiti, anzi avesse loro solamente fatto  un segno, avrebbe potuto facilmente ottenere lo  scopo. « E parimente » : Dopo che costoro rima-*  sero vincitori, o piuttosto vinti; perciocché come  chiamerò io vittoria quella che è stata più funesta,  che vantaggiosa ai vincitori? .0 invidia,  compagna della virtù, che per lo più vai dietro ai  buoni, o per meglio dire li perseguiti! Per  questa figura t'animo dell’uditore rimane colpito,  perchè una cosa messa innanzi con comunale parlare sembra solamente detta ; ma la stessa cosa  profferita con correzione oratoria diventa assai più  notabile all’ uditore- Ma non è meglio, dirà talu- ,  no, specialmente allorché scrivi, impiegare fino da  principio il vocabolo migliore c più scelto?  Può  essere che no, se il cambiamento del vocabolo faccia conoscere che la cosa è tale, che, ove tu avessi  usato il vocabolo comunale, parrebbe essersi da te espressa troppo fiaccamente, e invece la rendi  più degna di osservazione col venire poscia al vo ;  caboto -più scelto. Al quale se venuto fossi a bella  prima, non si sarebbe allora avvertilo nè il merito  della cosa, nè quello della parola. La preterizione è quella con la quale affermiamo, o che noi tacciamo, o che non sappiamo, o che non vogliamo dire ciò che nel medesimo  tempo specialmente diciamo, per esempio: « Io  per certo parlerei della tua giovinezza, la quale tu  dedicasti ad ogni maniera d’intemperanza, se stimassi essere questo il tempo opportuno; ma ciò  tralascio avvisatamente. Ed anco non voglio dire  che i tribuni ti castigarono siccome infrangilore  della militar disciplina: c reputo estraneo al soggetto l'aver tu dovuto dar soddisfazione delle tue  ingiurie a Lucio Labeone. Di questi falli non dico  nulla, e ritorno a ciò che forma il soggetto del presente giudizio ». E parimente: « Io non dico che  tu ricevesti danaro dagli alleati; non mi fermo a  provare che espilasti le città, i regni, le case di  lutti; passo sotto silenzio i furti, e tutte le rapine  tue. Questa figura è utile, se è nostro interesse  di lasciar intendere una cosa, o che non è espediente di mostrare per minuto, o che è lunga a dire, o che è ignobile, o che non si può provare, o  che è facile a confutare; di maniera che sia meglio per noi l’aver fallo nascere copertamente un sospetto, che l'aver preso a sviluppar cose che venir ci possano confutate. La disgiunzione ha luogo, allorquando o l’una o l’altra delle proposizioni, che si espongono, od anche ciascuna di esse  si conchiude con un verbo speciale, per esempio:  « Il popolo Romano distrusse Numanzia, abbattè  Cartagine , disfece Corinto , rovesciò Fregelle.  Niente ai Numantini giovarono le forze del corpo;  niente ai Cartaginesi fu di profitto la scienza militare; niente ai Corinzi fu di presidio la scaltrita  politica; niente ai Fregellani recò vantaggio la comunanza con essonoi de’ costumi e del linguaggio ». E similmente: « Bellezza di corpo o per malattia perde suo fiore, o per vecchiezza dileguasi;»  In quest’ ultimo esempio e nell’altro antecedente  vediamo che ogni proposizione si conchiude con  un verbo speciale. La congiunzione si ha, quando  per rinterposizione di un verbo si legano insieme  si le parti antecedenti di una frase c si le conscguenti, per esempio; « Bellezza dì corpo o per  malattia perde suo fiore, o per vecchiezza » L’aggiunzione si ha, quando il verbo, ondelegansi tra  loro le parti, non è già posto tiel mezzo, ma è collocalo o nel principio o nel fine. Nel principio, per  esempio: « Perde suo flore bellezza di corpo o per  malattia o per vecchiezza. « Nel fine, per esempio »: 0 per malattia o per vecchiezza bellezza di  corpo perde suo fiore. La disgiunzionc sente al quanlo della piacevolezza; eperciò conviene usarla  di rado, onde non generi sazietà. La congiunzione  amando la brevità si può usare più spesso. Queste tre figure procedono da un solo e medesimo  genere. La conduplicazione è la ripetizione  della stessa parola o di più parole allo scopo di  amplificare o di commovere, per esempio: Tumulti eccita C. Gracco, tumulti nelle famiglie,  tumulti nello Stato»: E parimente: « Non fosti  tu commosso , allorquando tua madre ti abbracciava le ginocchia, di’, non fosti tu commosso »? E' ancora: « Osi tu oggi ancora presentarti  al cospetto di questa adunanza, o Iraditor della  patria, si, ripeto, o tradilor della patria, osi tu oggi  ancora presentarti al cospetto di questa adunanza »? La ripetizione della medesima parola scuote  altamente l’uditore, e fa alla causa contraria una  più ampia ferita, come spada, che a più riprese  ferisca sempre .nella medesima parte del corpo.  V interpretazione è quella che non ripete già la  parola stessa, ma ne sostituisce un’altra in suo luogo, avente il valore medesimo, per esempio: Tu  la Repubblica hai dalle radici rovesciata, tu la città  hai sino dai fondamenti abbattuta ». E per egual  modo: « Tu empiamente hai battuto il padre, tu  scelleratamente hai portato la mano contro l’autor  de’luoi giorni ». Egli è ben necessario che l’animo dell’uditore rimanga scosso, quando colla interpretazion de’vocaboli si viene a dare nuova forza al detto anteriore. Si ha la commutazione quando due pensieri fra loro diversi si producono, per  ragion di trasposizione, in maniera che il secondo  avente senso contrario al primo, proceda appunto  dal primo, per esempio: « Bisogna mangiare per  vivere, non vivere per mangiare ». E parimente:  « Per questa cagione io non fo poemi, perchè,  come vorrei farli, non posso, e come posso farli,  non voglio. E ancora: « le cose, che di questo  uomo si dicono, dir non si possono, e quelle, che  dir si possono, non si dicono. » E ancora: Se un  poema è un quadro parlante, sì un quadro deve  essere un parlante poema. » E finalmente: • Perchè sei un ignorante, per ciò appunto tu taci; c tuttavia, perchè tu taci, non sei per ciò un ignorante. » Non si può dire abbastanza quanto sia conveniente questa trasposizione di due sensi contrarii, in cui anche le parole si trovano trasmutale.  Noi ne abbiamo qui posti più esempi, appunto per  chè, essendo diffìcile a trovarsi questo genere, se  ne avesse una chiara idea, acciocché venendo esso  ben inteso, fosse più facile ad esser trovato all’occasione in un discorso. La permissione si fa , allorquando nel  dire noi dichiariamo di dare e abbandonare appiedo alcun che all’arbitrio di alcuno, per csem   i pio: a Poiché tulio mi è stalo tolto, e solo mi resta l’anima e il corpo, io a voi e al poter vostro  dono ciò che sol mi rimane di tanti beni. Voi fate  di me quell’ uso, o buono o cattivo, che meglio vi  piace, giacché tutto vi è permesso: contro di me  stabilite qual cosa voi volete: parlate, ed io ubbidirò. » Questa figura è sommamente alta a muovere la compassione,' quantunque si possa alcuna  volta eziandio in altri casi usare. La dubitazione  siha, allorquando l’Oratore dà vista di cercare  quale piuttosto di due o più cose ei debba dire a  preferenza: per esempio: « Nocque in quel tempo assaissimo alla Repubblica non so se dir bisogni o l’ignoranza o la perversità de’ Consoli, o entrambe queste cose insieme. » E parimente: « Tu   hai osato dir ciò? o uomo fra tutti i mortali »   in verità che io non so con qual nome degno del  tuo carattere io li debba chiamare. « L’cspedizione si ha, allorquando, dopo avere enumerate più  ragioni dimostranti come una cosa abbia potuto o  non potuto addivenire, tutte si rigettano ad eccezione di una sola, la quale appunto affermiamo:»  per esempio: «Poiché consta che questo fondo era  mio, è necessario che tu provi o che ne sei venuto  in possesso per essere stato un fondo abbandonato,  o che è divenuto tua proprietà per diritto di prescrizione, o che l’hai comperato a danari, o che  ti è pervenuto in eredità. Tu non hai potuto fartene possessore per essere stato abbandonato, giacché  io presentavami siccome padrone; tu non puoi pur  allegare in tuo favore la prescrizione: tu non puoi  presentare verun titolo di compera: tu non potevi, me vivo, avere i miei beni in eredità. Rimane  adunque che tu per violenza sii divenuto padrone  del mio fondo. » Questa Ggura è di grandissimo  giovamento alle argomentazioni congetturali; ma  non possiamo usarla a nostro piacimento, come  usiamo la più parte delle altre, non polendo noi  ciò fare, se non quando la natura stessa del soggetto ce ne dà facoltà. La dissoluzione è urta figura, che, sopprimendo le congiunzioni, presenta i membri della  frase separati: per esempio: « Segui il voler del  padre, ubbidisci alla famiglia, cedi agli amici, ti  sottometti alle leggi. » E parimente: « Discendi ad  una completa giustificazione; non li voler sottrarre  a nulla; consegna i tuoi schiavi alla tortura; fa  tulli gli sforzi perchè sia scoverlò il voro. » Questa  figura è piena di vivacità e di forza, e si presta al  parlare conciso. La reticenza si ha, allorquando,  dopo a*er detto alcune parole, si lascia il rimanente dell’incominciato.discorso al giudizio dell'tidilore: per esempio: « .Io non voglio incominciare  a disputar lèco, perchè il popolo Romano mi ha....  noi voglio dire per non parer troppo vano: in  quanto a te io so che egli ti ha spesse fiale giudicalo degno di disprezzo. » E parimente: « Osi tu,  in questo tempo tenere siffatto linguaggio? luche  ultimamente nell’altrui casa. . . non voglio proseguire per tema che, raccontando io cose degne  di te, non si creda che io tenga propositi indegni  della mia pesona. » Qui è più funesto all’avversario il sospetto generalo dalla reticenza; che una  eloquente spiegazione. La.conelusionc è quella figura, che per una breve argomentazione deduce  da ciò, che prima è stalo detto o fatto, ciò che deve  necessariamente seguire: per esempio: « Che se  ai Greci aveva detto l’oracolo che non si poteva  premier Troia senza le frecce di Filottete, e queste altro non fecero che colpir Paride, ne segue  che toglier di vita costui si fu come prender Troia. Rimangono anegra dieci figure diparole,  dette propriamente tropi, che noi non abbiamo voluto variamente disseminare qua e colà; ma che  abbiamo in vece separate da quelle che son poste  di sopra, per ciò appunto che appartengono tutte  al medesimo genere, avendo esse la proprietà di  allontanar le parole dalia loro ordinaria significazione e farne loro assumere un’altra, dando al discorso una certa quale adornatezza. Di queste figure la prima è l’onomatopea, la quale, sé una  cosa sia senza nome, o non ne abbia uno abbastanza idoneo, c'insegna a chiamarla noi stessi con  vocabolo conveniente o per ragion d’imitazione o per ragion di significazione. Per imitazione, i nostri antichi coniarono questi verbi ragghiare, vagire, mugghiare, mormorare, sibilare. Per significare la cosa abbiamo quest’ esejnpio: « Appena  che costui fé’ impelo sopra Roma, immantinente  udissi lo scoppiettio della città. » Bisogna di rado  osare l’onomatopea, acciocché la frequenza di  nuove parole non generi disgusto: ma se si usi a  proposito e con parsimonia, non solo non dispia' cerà per la novità, ma aggiungerà eziandio bellezza al discorso. L’antonomasia è quella figura, ehe  pef una specie di soprannome tolto ad imprestilo  dà a conoscere ciò che non può essere chiamalo  col proprio suo nome: per esempio volendo parlar  de’Gracchisi potrebbe dire: « Tali non si mostrarono i nipoti dell’ Affricano. » E parimente, parlando  di un avversario, dir si potrebbe: « Vedete ora, o  giudici, come mi La trattato cotesto Plagiosippo?»  Per questa figura noi possiamo elegantemente, tanto nel lodare quanto nel biasimare, prendere o dal  corpo o dall'animo o da altre cose esteriori una  qualche maniera di soprannome da collocare in  cambio del nome noto. LA METONIMIA è quélla, perla quale noi,  volendo significare una cosa, non la chiamiamo  col suo proprio vocabolo, 'ma la facciamo intendere  col cercare un nome da altre cose che abbiano affinità o correlazione con quella. Ciò si fa o ponente do l’inventore per la eosa trovata, come se volendo  alcuno significare il Campidoglio il dicaTarpeo(t);  o ponendo la cosa trovata invece del suo inventore,  come se volendo alcuno significare Bacco nomini  il vino, e invece di Cerere dica le biade: o ponendo l’arma invece della persona di cui è propria,  come se volendo alcuno significare i Macedoni,  dica: « Non cosi prestamente le sarisse s’impadronirono della Grecia: * o, volendo quel tale signifi-.  care i Galli, dica: « Non tanto facilmente fu dall’Italia scacciata la matera oltramontana: » o ponendo la causa per 1’ effetto, come se volendo «1cuno dar a conoscere che altri abbia fatta un’azione in guerra, dica: « Marte ti spinse per necessità  a ciò fare: » o l’effetto per la causa, come quando  si dice oziosa un’arte, perchè concede ozio a chi  l’esercita, e pigro il freddo, perchè rende pigri gli  uomini; o il contenente pel contenuto, come: «Non  si può l’Italia superare nelle armi, nè la Grecia  nelle discipline. » Qui invece de’ Greci e degli Italiani si son posti i paesi che li contengono: o il  contenuto pel contenente, come se, volendo alcuno nominar le ricchezze, dica l’oro o l’ argento o  Leggo con un antico manoscritto, citato nell' edizione Panckoucke: ttf si quis Tarpeium, loquens de  Capitolio, nominet; la qual lezione è la più probabile  di quante ne sono recate dagli eruditi editori antichi  e moderni sino al Panckoucke. l’avorio. Di tulle queste differenti specie di metonimie 6 più diffìcile lo esporre le tante regole, che  trovare gli esempi; perciocché non solamente i  poeti e gli oratori son per solito pieni di siffatte  metonimie, mas’ incontrano eziandionaturalmente  nel nostro quotidiano favellare. La Perifrasi è  quella, che per esprimere una cosa semplice va  cercando una circonlocuzione: per esempio: « La  accortezza di Scipione abbattè la potenza di Cartagine. » Qui, se non si fosse avuto in mira di abbellire il discorso, si sarebbe potuto dir semplicemente Scipione e Cartagine. L’iperbato è quello,  che cambia l’ordine delle parole rovesciandole o  trasponendole. Rovesciandole, per esempio: « Hoc  vobis Deos immortales arbilror dedisse pittale  prò veslra( 1). » Trasponendole, per esempio: «Instabilis in istum plurimum fortuna valuit.  E parimente: Omnes invidiose eripuil libi bene  rivendi casus facultaies. Siffatte trasposizioni, se non rendono oscuro il senso, giovano moltissimo alla continuazione, di cui abbiamo parlato  più sopra; nella qual figura bisogna che le parole Io mi penso che gl’immortali Dei vi abbian conceduto questo favore in ricompensa della vostra pietà. L’ incostante fortuna ha esercitato sopra costui  tutto il suo potere. Il caso iniquamente ti tolse tutti i mezzi di ben  vivere. Mi siano collocate con poetica armonia, affinché ella  riesca in sommo grado abbellita c perfetta. L’IPERBOLE –Grice: Every nice girl loves a sailor --è un parlare, clic trascende  il vero, sia per aggrandire, sia per impicciolire  alcuna cosa. Essa si piglia o separatamente o con  comparazione. Separatamente, come in questa frase: « Se noi rimarremo concordi, misureremo la  grandezza del nostro imperio dal punto dove leva  il sole a quello dov’egli tramonta. » L’iperbole  con comparazione poi si prende o da assimiglianza  oda preminenza. Da assimiglianza, a questo modo:   « Il corpo suo era bianco come la neve, c gli oc- *  chi brillavano come il fuoco. Da preminenza, a  questo modo: « Dalla sua bocca scorrevano le  partile dolci più del mele. » Del medesimo genere  è quest’altra iperbole: « Sì grande era lo splendor  delle sue armi che superavano in fulgidezza il sole. « La sineddoche è quella figura che fa comprendere il tutto da una parte, o una parte daltutto  o dal singolare il plurale, o dal plurale il singolare. Il tutto da una parte, così: t Quelle nuziali tibie non ti facevano accorto di questi sponsali? » Qui tutta la solennità delle nozze vien fatta  intendere sotto l’ unico simbolo delle tibie. Una parte dal tutto, dicendo, per esempio, ad un uomo  vestilo con lusso c magnificamente ornato: « Tu  dispieghi a me dinanzi tutte le tue ricchezze, e  spandi tutti i tuoi tesori. » Il plurale dal singola re per esempio:  Il Cartaginese ebbe ad aiuto l’Ispano, ebbe il feroce Transalpino, c per sino  l’Italo togato in parte parteggiò per lui. Dal plurale il singolare , come : Un’ atroce calamità  empieva di dolore il suo cuore (perfora) : perciò  dall’imo petto (ex imis pulmonibus ) levavasi per  lo travaglio affannoso il respiro.» Nel primo esempio hanno ad intendersi più Ispani, più Galli, più  Italiani ; c nel secondo, un solo cuore ed un sol  petto per quei due nomi latini posti al plurale :  nel primo luogo il singolare vi sparge una certa  grazia, e nel secondo il plurale vi aggiunge gravità. La catacresi è quella figura, che, per una specie di abuso, in vece della parola giusta c propria,  si serve di una parola analoga ed alfine; per esempio: « Brevi sono le forze dell’ uomo, o ne è piccola  ld statura, o esteso in lui l’intelletto, o grande il discorso, o scarse le parole.» Qui è agevole a capire  che per una specie di abuso si sono ravvicinate fra  loro di senso parole appartenenti a cose dissimili. LA METAFORA (Grice: You’re the cream in my coffee – TRANSLATIO) è, quando si trasporta il  vocabolo proprio di una cosa ad un’altra, il qual  vocabolo sembri poterle convenire per una qualche  simiglianza. Noi ci serviamo di essa per più motivi, ed ecco per quali: Per mettere la cosa dinanzi  agli occhi; a questo modo: « Cotesla sollevazione  svegliò Italia con improvviso spavento. » Per cagione di concisione; a questo modo: cc II novello arrivo di quelle truppe estinse in un subito la civile  libertà. » Per evitare una parola oscena; a questo  modo: « La madre sua dilettasi di quotidiane nozze » Per amplificare; a questo modo: « Non ci  furon dolori e calamità d’uomo, che potessero appartare gli sdegni di un mostro tale, e saziarne la  iniqua crudeltà. » Per attenuare, a questo modo:  « Egli si millanta che ci è stato di un grande aiuto,  perchè in occorrenze difficilissime ci ha sovvenuti  di un leggiero soffio. » Per ornare lo stile, a questo modo: « I traffichi dello Stato, che per la malignità dei ribaldi inaridirono, un di per la virtù  degli ottimati riverdeggeranno. » È prescritto che  la metafora sia modesta, sì che passi con riguardo  ad una cosa consimile, onde non paia che alla cieca e avidamente ella sia trascorsa in una cosa al  tutto dissimile senza distinzione veruna. L’ allegoria è un discorso, che altra cosa significa nelle parole ed altra nel concetto. Essa trattasi per tre maniere: Per simiglianza, per allusione, per anlifrasi.  Trattasi per simiglianza, quando si fanno seguitare  più metafore tolte ad una stessa idea; peresempio:  « Se i cani fanno V uffizio dei lupi, a quali guardiani confideremo noi il bestiame? » Per allusione,  quando da una persona o da un luogo o da qualche altra cosa si trae la simiglianza, sia per aggrandire, sia per diminuire l’idea; come, se alcuno,  parlando di Druso, lo chiami « un vieto Numitore. Per antifrasi: a questo modo; come se alcuno,  volendo motteggiare sopra di uno prodigo o sregolato, lo chiami « tegnente ed economo. In quest’ ultima specie di allegoria, che trattasi per antifrasi, ed anco nella prima, che trattasi per simiglianza potremo usare l’allusione metaforica. Eccone un esempio per simiglianza: « Che cosa dice  questo re ed Agamennone nostro? » o meglio « perchè crudele egli è, colesto Atreo? » Eccone un altro per antifrasi: « Se un empio, che battuto abbia  il padre, lo diciamo un Enea; uno intemperante e  adultero diciamolo pure un Ippolito. » Ecco presso a poco ciò che pensavamo dover dire intorno  alle figure di parole. Ora l’ordine stesso delle cose vuole che passiamo a dire delle figure di pensieri. Si ha la figura di distribuzione, quando  si partiscono certi attributi fra più obbietti o più  persone: per esempio: « Quello di voi, o giudici,  che caro ha il nome del senato, non può non detestar costui; perciocché egli con insolenza estrema ha sempre fatto guerra al senato. Quegli, il  jquale brama che nella Repubblica si mantenga  splendidissimo l’ordine equestre, dee pur volere  che costui dato venga all’estremo supplizio, acciocché egli colle turpitudini sue nort arrechi macchia e disonore ad un ordine onorevolissimo. Voi,  che avete un padre, mostrate col castigo di costui che vi sono in.abbominio gli uomini snaturati. Voi,  che avete de’ figliuoli, date a vedere con un esempio quanto terribili pene son riserbate in questa  città agli uomini di questa fatta. » E similmente:  « Egli è dovere del senato sovvenir di consigli la  Repubblica; egli è dovere de’ magistrati eseguire  i voleri del senato con zelo e fedeltà: egli è dovere del popolo scegliere ed approvare co ! propri  suffragi gli uomini più abili, e le migliori deliberazioni. * E ancora: « Il dovere dell’accusatore  si è quello di dinunziare i delitti; quello del difensore di purgarli e confutarli; quello del testimonio è di dir ciò che sa od ha udito; quello del  giudice è di contener ciascun d’essi nel proprio  dovere. Laonde, o Lucio Crasso, se comporterai  che un testimonio, oltre a ciò che sa o udito ha,  rechi in mezzo argomentazioni e congetture, confonderai il diritto di accusatore con quello di testimonio, darai favore alla cupidigia del tristo testimonio, e costringerai l’accusato a una doppia difesa. » Questa figura è ampia: essa comprende  molte cose in poche parole, e forma tra più obbietti delle divisioni assai distinte, assegnando a  ciascuno le sue attribuzioni. Si ha la figura di licenza, allorché parlando a persone, che noi dobbiamo rispettare o temere, le rimproveriamo con ragione di alcun fallo  in cui siano cadute, senza però offender quelle o    Digitized by Google     gli amici di quelle. Eccone un esempio: « Voi vi  maravigliale, o Quiriti, clic le parli vostre sienoabbandonate da tutti? Che nessuno abbracci la vostra causa? Che nessuno si dichiari vostro difensore? Attribuite ciò a colpa vostra, e cessate una  volta di rimanere stupidi. Imperciocché come mai  non dovranno tutti fuggire ed evitare di darvi aiuto? Ricordatevi un poco di quelli, che aveste per  difensori; ponetevi dinanzi agli occhi le sollecitudini loro per voi; e considerate quale compenso  indi n’ebbero tutti. Allora si # verrà in mente, se  ciò confessar vogliate, che voi per negligenza o  piuttosto per villàJi lasciaste trucidare sotto gli occhi vostri, e che co’ vostri suffragi inalzaste ai più  distinti onori i nemici loro. » E parimente: « Che  cosa mai fu, o giudici, che dubitar vi fece di pronunciar sentenza? o che cosa mai v’indusse ad indugiar la condanna a questo ribaldo? Non era stata  forse l’accusa appoggiala alle prove più manifeste?  E (poesie prove non erano, forse state tutte confermate per leslimonii? E le confutazioni degli avversarli non furono tulle puerilità e baie? Forse voi  temeste che, condannandolo tosto alla prima adunanza, poteste essere tacciati di crudeltà? Ma voi  nel voler evitare una simile taccia, la quale certo  era lungi da voi, andaste incontro all’altra di essere giudicali timidi e dappoco. Voi intanto avete  lasciato luogo a privale e pubbliche calamità senza fine; e allorché v’ è apparenza che altre maggiori  venganvi sul capo, voi ve ne state tranquilli e colle  mani a cintola. Nel giorno voi aspettate la notte, e  nella notte il giorno. Ad ogni momento voi ricevete  qualche infausta e dolorosa nuova, e voi conservale più a lungo in vita colui, che è l’autore di  tutti i mali; e, fino a tanto che potete, ritenete  nella Repubblica il flagello della patria. Se una tale maniera di licenza parrà  aver troppo di veemenza, son molti correttivi per  addolcirla. Imperciopchè vi si potranno incontanente introdurre siffatti modi: « Indarno io cerco  qui la vostra virtù; io sto nel desiderio della vostra conosciuta sapienza; io non trovo più l’antica  vostra maniera di operare, ccc. ; » affinchè quel  movimento di sdegno, che là licenza avrebbe potuto eccitare, rimanga per la lode compresso; di  maniera che l’una cosa dilunghi dalla collera e  dal disgusto, e l’altra distorni dall’errore. Siffatta  cautela usata a tempoj come nell’amicizia così  nelle pubbliche aringhe, ha questo vantaggio, che  rattiene dal fallo coloro che ci odono, e dà a conoscere che noi, i quali palliamo, amiamo non meno essi che il vero. Havvi poi un’altra specie di  licenza oratoria, la quale consta di una maniera  più fina; ed è allorquando o noi riprendiamo i nostri uditori in quel modo, in cui vogliono pur essere ripresi, o, sapendo noi che eglino ascolteranno volentieri i nostri rimproveri, protestiamo di temere non forse li ricevano con mal cuore, ma che tuttavia la verilà ci spinge sì che non vogliamo pur  pure tacere. Sottoporremo qui esempi di queste  due sorte di licenza. Eccone uno della prima sorta: « Troppo, o Quiriti, avete gli animi semplici e  •buoni; troppo prestale fede a chicchessia. Voi pensate che ognuno si sforzi di fare ciò che vi ha promesso. V’ingannate a partito, e già da lungo tempo rimanete vittime di questa falsa speranza. Stolli  voi, che amaste meglio cercare agli altri ciò che  era in poter vostro, che pigliarlo voi stessi di mano  propria ». Della seconda maniera di licenza ecco  qual sarà F esempio: ((Furono, o giudici, fra me  e quest’ uomo vincoli di amicizia, ma questa amicizia, sebbene io tema che ciò udiate mal volentieri, il voglio pur dire con franchezza, foste voi  che me la toglieste. E in qual modo? Perchè per  conservare il favor vostro, io ho amato meglio aver  per nemico che per amico colui, che a yoì dava  travaglio». Dunque questa figura, chiamata licenza jjsi può, come abbiamo mostralo, trattare in due  modi: con veemenza, la quale fia mitigala da lode, se parrà aspra troppo; o con finzione, come  dicemmoln ultimo luogo, la quale non ha bisogno  di correttivo, perchè, sebbene abbia colore di licenza, essa nondimeno per propria natura s’insinua nell’animo dell’uditore. La diminuzione si usa, allorquando  ci bisogna lodare in noi stessi o nei nostri clienti  il carattere, la bellezza, l’ingegno; ed allora, per  non parere arroganti troppo, scemiamo e impiccioliamo con parole siffatti pregi: per esempio: « Io  dico, o giudici, giacché dir lo posso, che ho procurato con tutta fatica ed industria di non essere^  degli ultimi nella scienza militare. » Qui, se chi  parla avesse detto: « ho procuralo di esser dei primi, » avrebbe avuto aria di arrogante, benché ciò  fosse universalmente riconosciuto per vero: così  egli ha dello quanto era a bastanza e per far tacere l’invidia, e per far conoscere il merito proprio. E ancora: « È egli forse l’avarizia o il bisogno che spinse questo uomo al delitto? L’avarizia? Ma egli fu prodigo inverso gli amici; il che  è segno di liberalità, cosa contraria all’ avarizia.  Il bisogno? Ma senza dubbio il padre suo gli lasciò  (non voglio esagerare) un non piccolo patrimonio. » Qui pure l’oratore ha evitato di dire un patrimonio grande o grandissimo. Nel parlare adunque de’ pregi nostri o di quelli de’ nostri clienti  noi osserveremo una siffatta riservatezza; perciocché pigliando a lodar noi stessi inconsideratamente, nella civile società suscitiamo l’invidia, e in  un pubblico ragionamento l’avversione. Laonde  in quella guisa che il buon contegno nella società ci sottrae all'Invidia, così la riservatezza in un pubblico discorso cijsalva dall'odio. Chiamasi descrizione quella, che per  mezzo di parole chiare e manifeste e nobili insieme, dipinge tutti i conseguenti di un fatto, che sia  avvenuto o che possa avvenire: per esempio: *Se  i vostri voti, o giudici, restituiranno alla libertà costui, voi lo vedrete subito a guisa di leone, a cui  fu aperto suo carcere, o a guisa d’altra feroce bestia, da catene sciolta, giltarsi nel foro, e correre  qua e là aguzzando i denti contro alle sostanze altrui, avventandosi contra tutti, amici o nemici, conosciuti e sconosciuti, togliendo l’onore agli uni,  minacciando la vita agli altri, usando violenze alle  abitazioni, alle famiglie d’ognuno, abbattendo insomma dai fondamenti lo Stato. Per la qual cosa,  o giudici, discacciate costui dalla patria, liberate  dal terrore i cittadini , provvedete in fine alla vostra medesima salvezza ; perchè se lo rimandate  impunito, contro a voi stessi, crediatelmi pure,  voi avrete scatenata una feroce e sanguinaria bestia. » Eccone un altro esempio: « Se voi, ò giudici, pronunziale contro a quest'uomo una funesta  sentenza, con un giudizio solo vi fate net tempd  medesimo à cogliere di molte vite. Un padre carico  d’anni, che fondava tutte le speranze della vecchiezza sua nella gioventù di questo sventurato,  più nulla avrà, ond’abbia ad aver cara lavila; te neri figliuoletti, privati del sostegno paterno, saranno esposti alle beffe e agli scherni de’ nemici  del lora padre; tutta una famiglia in fine sarà inabissata in una indegna calamità: e frattanto i persecutori, portando una palma sanguinosa in mano,  padroni di una crudele vittoria , insulteranno alla  miseria di costoro, e superbi inveiranno contrassi  con fatti e con parole. » E parimente: « Niuno di  voi ignora, o Quiriti, quali siano i mali orribili,  che piombar sogliano sopra una citlà presa d’assalto. Chiunque ha portalo le armi ad offesa, è incontanente senza pietà trucidato: gli altri, che per  l’età e per le forze tollerar possono la fatica, tratti  sono in servitù : flue’, che non possono, son privati di vita : e per ultimo in un solo e medesimo  tempo l'abitazion loro è messa in fiamme da nemico incendio; e coloro, cui la natura o la volontà  per parentadi o per amore congiunse insieme, sono  violentemente separati; i figliuoli parte strappali  dalle braccia de’ genitori, parte scannali in seno  ad essi, e parte contaminati dinanzi ai loro occhi.  Nessuno vi è, o giudici, che possa con parole degnamente mostrar la cosa, e col discorso dipingere  i’enormezza di una siffatta calamità. » Con questa  figura si può muovere o lo sdegno o la compassione, quando tutte le conseguenze di un fatto  unite insieme vengono con evidenti parole concisamente esposte. La divisione è una figura, la quale separando due proposizioni le sviluppa entrambe con  soggiungere a ciascuna la sua ragione: per esempio: « E pcrchè^dovrò io farti de’ rimproveri? Se  sci un uomo onesto, non li bai meritati; sesci un  tristo, non li sentirai punto. » E similmente: « Che  bisogno ho io di parlarvi de’ miei servigi? Se voi  ne conservale memoria, io non farei che stancarvi  gli orecchi; c se ve ne siete dimenticati, quando  coi fatti io non abbia acquistato il favor vostro, come potrò ora acquistarlo con le mie parole? » E  ancora: « Vi son due cose, che trascinar possono  gli uomini a un sozzo guadagno, la miseria e l’avarizia. Nella divisione fraterna noi ti conoscemmo  per avaro: or li vediamo povero e bisognoso. Come proverai che non avevi motivo di commettere  una mala azione? » Fra questa divisione e quella,  che è la terza delle parli oratorie, di cui parlammo nel primo libro dopo la narrazione, ci ha questo divario: quella divide per enumerazione o per  esposizione le cose, di cui si dee tener deputazione in tutto il discorso ; e questa disbrigasi subitamente, e, soggiungendo in poche parole a ciascuna delle due o più parli le singole ragioni, reca  ornamento al discorso. L’accumulazione è quella, che riunisce  in un sol cumulo certe cose sparse in tutta la  causa , affinchè il discorso riesca più grave, più veemente, più nocevòle alP accusato: per esempio: « Da qual vizio mai è libero costui ? E per  qual motivo, o giudici, volete voi assolverlo?  Egli è largitore della pudicizia sua e insidiatore  dell’altrui; cupido, intemperante, sfacciato, superbo, empio verso i genitori, ingrato, verso gli  amici, ostile verso i congiunti, disubbidiente verso  i superiori, adiroso cogli eguali c coi simili, crudele verso gl'inferiori, finalmente insopportabile a  tutti. Appartiene allo stesso genere quell’accumulazione, che è di un grande aiuto nelle cause congetturali, quando de’sospetti, che, separatamente  presi, erano deboli e leggieri, riuniti in uno conducono, nonché alla probabilità, alla certezza: per  esempio: « Non vogliate adunque, non vogliate, o  giudici, considerare separatamente le cose, che io  ho dette; ma raccoglietele tutte, c assembratele  in uno. Se veniva comodo a costui dalla morte di  quell’ uomo, e vituperosissima è la sua vita, avarissimo l’animo, affondatissima la fortuna domestica, c un tale misfatto a niuno era vantaggioso  che a lui; e niun altro poteva sì facilmente eseguirlo, ed egli non poteva scegliere mezzi migliori; e inoltre non ha costui nulla ommesso di ciò  che poteva assicurarne il successo, e nulla ha fatto, che non bisognava fare; e poiché il luogo era  il più proprio ad un’aggressione, e l’occasion favorevole, e opportunissimo il momento dello in traprendere; ed egli calcolato aveva tutto il tempo  necessario del venirne a fine, e contar poteva sulle  tenebre e sull’ evento del misfatto; e inoltre, poiché innanzi che l’ uomo fosse ucciso, costui è stato  veduto tutto solo nel luogo dove l’assassinio è avvenuto; e poco appresso, nel momento, in cui  succedeva il misfatto, è stala udita la voce di colui che veniva ucciso; e quindi dopo l’omicidio è  provato che egli non è tornato a casa che a notte  molto avanzata; e all’indomani, interrogato della  morte di quest’uomo, ha balbettato, s’è contraddetto; e tulli questi fatti sono in parte per testimonii, in parte per esaminazioni ed indizii dimostrati, ed anco per la voce pubblica, la quale appoggiata a questi indizii, deve necessariamente esser conforme al vero; spelta a voi dunque, o giudici, di trarre, da tutte queste prove unite insieme, non che la probabilità, la certezza della colpa. Imperciocché può ben essere che per caso si  levino contro di costui una o due di siffatte presunzioni, ma esser non può che tutte dalla prima  all’ ultima s’accordino insieme per un semplice effetto del caso. » Questa figura è veemente, e nelle  cause congetturali quasi sempre necessaria, ma  puossi eziandio qualche volta adoperare negli altri  generi di cause, e 'finalmente in ogni maniera di  orazione.   XLII. I/espolizionc è, allorquando noi ci fcrmiamo in un medesimo pensiero, o sia ci arrestiamo ad una proposizione unica, e tuttavia sembriamo aggiungervi sempre alcuna cosa. Essa è di due  maniere: o noi ripetiamo appieno la cosa medesima, ovvero discorriamo sopra la cosa medesima.  Noi ripeteremo la cosa medesima non nella stessa  maniera di prima, perchè ciò sarebbe un annoiar  P uditore, non un abbellire la cosa, ma bensì con  dei cambiamenti. Questi cambiamenti si fanno in  tre modi, o rispetto alle parole, o rispetto alla  pronunciazione, o rispetto alla forma. Si farà cambiamento rispetto alle parole, quando, esposta una  volta la proposizione, la torneremo a dir di nuovo  o più volte con altre parole significanti lo stesso:  per esempio: « Non vi ha pericolo sì grande, che  il savio, ove si tratti della salute della patria, pensi  di dover fuggire. Allorché ne deve andar di mezzo  il durevole ben essere dello Stato, un buon cittadino esporrà certo la sua vita a lutti i pericoli per  la difesa della pubblica fortuna, e sarà fermo in  questo sentimento, che per la patria ei debba gitlarsi coraggiosamente in qualsivoglia pericolo, per  quanto grande ei sia. » Si farà cambiamento rispetto alla pronunciazione, se, passando dal tuono  semplice al veemente c a tutte le altre modificazioni della voce e del gesto, nell’ allo stesso che  noi diversificheremo per mezzo delle parole il medesimo unico pensieroso accompagneremo eziandio con una varia ed. energica azione. Per mezzo  di precetto non è molto facile spiegare la cosa, ma  colla pratica è facile ad apprenderla, talché non  v’ò bisogno di dare esempi in iscritto. Il terzo genere di cambiamento sta nella  forma, che si fa prendere al pensiero; sccondochè  o vogliamo trattarlo per dialogismo o per emozione. Il dialogismo (del quale parleremo a suo  luogo più largamente tra non molto, toccandone  ora quel tanto che basta all’uopo) è una figura,  che pone nella bocca di alcuna persona un discorso  conveniente alla dignità sua; e acciocché meglio  s’intenda la cosa, noi non ci dipartiremo dal nostro  primo esempio, trattandolo per dialogismo: « Il  savio, che giudicherà di dover affrontare tutti i  pericoli per difesa della patria, dirà sovente a sé  stesso: Io non sono nato solamente per me, ma  eziandio e mollo più per la patria: questa vita, ch’io non potrei ricusare al destino, sia soprattutto spesa a salvezza della patria. Essa fu  quella che mi nudrì, che mi assicurò infino a  questo dì un’esistenza tranquilla ed onorata, che  protesse la mia vita con buone leggi, con ottime costumanze, con una liberale educazione.  Per quali servigi potrò io pagare i benefizii ch’ella  mi ha fatti? Per questo linguaggio, che il savio  tiene a sé stesso, io appunto nei rischi della repubblica non ho mai esitato di affrontare qualunque pericolo. » Similmente si fa cambiamento della  cosa rispetto alla forma, se essa cosa si tratti per  emozione, allorché, vivamente commossi noi stessi, cerchiano pur di commovcre gli animi di coloro  che ci ascoltano: per esempio: a Chi è mai qui di  sì piccola mente dotato, il cui cuore avvolto sia  nelle miserie dell’invidia, il quale abborrisca di  lodare altamente c di giudicare come il più savio  degli uomini colui, che per la salute della patria,  pel ben essere dello Stato, per la conservazione  della pubblica fortuna affronti ogni più grande,  ogni più atroce pericolo, c vi si getti dentro con  lutto l’ardore? Per verità, che, in quanto a me, io  sento nel mio cuore piuttosto il desiderio che il  potere di lodar degnamente un tal uomo, e sono  certo che anche voi tutti provate in voi il sentimento medesimo. » Una medesima cosa adunque  si può nel discorso variare in tre maniere, cioè rispetto alle parole, rispetto alla pronunciazione, rispetto alla forma; c iu quanto a quest’ullima maniera si sceglierà o la forma del dialogismo o quella  dell’emozione.   XLIV. Ma se si tratti non già di ripetere la cosa   medesima, ma di discorrere sopra la medesima  cosa, noi avremo dei mezzi più numerosi di variare il discorso. Imperciocché- dopo che noi avremo  semplicemente enunciata la cosa, vi polrem tosto  aggiungere una prova, poi profferire in due ma nicre una sentenza, la quale potrà essere o senza  prove, o con prove: in appresso potremo far uso  del contrario, delle quali cose tutte noi abbiamo  parlato nelle figure di parole; poi passeremo alla  similitudine c all’ esempio, di cui parleremo ampiamente a suo luogo; all’ ultimo termineremo colla  conclusione, della quale noi dicemmo quanto era  necessario nel secondo libro, allorché esponemmo .  la maniera di eonchiuderc l’ argomentazione. In  questo stesso libro noi facemmo pur conoscere  qual sia la figura di parole, che porta il nome di  conclusione. Una espolizione adunque di questo  genere potrà piacere mollissimo, quando si componga di un gran numero di figure di parole e di  pensieri. Affinchè sia tale deve avere sette parti.   Noi non ci allontaneremo dall’esempio già dato per  mostrarli con quale facilità, mercè le regole dell’arte, un’unica proposizione trattar si possa in diverse maniere: « Il savio per difesa della patria  non fuggirà verun pericolo, perchè sovente accade  che colui, il qual non vuole per la patria morire,  necessariamente perisca insieme con la patria. E  poiché dalla patria noi abbiamo ricevuto lutti i comodi clic godiamo, così non dobbiamo per la patria riputar grave veruno incomodo. Coloro adunque che fuggono quel pericolo, che per la patria  abbiamo obbligo d’incontrare, opcrauo da stolli;  perocché nò sottrarre si possono ai mali pubblici, ed anco n’hanno voce d’ ingrati verso la patria. Ma  quelli, che con loro incomodo pigliano sopra di sè  i pericoli della patria, sono da aversi in conto di  savii, perchè e mostrano di rendere alla patria  quell’onore che le è dovuto, ed aman meglio perire pei molli che coi molli. Infatti sarebbe ingiustissima cosa restituire alla natura, quand’clla il  vuole, quella vita che noi ricevemmo da lei, ma  che pur ci fu conservata con grandi benefizii dalla  patria, e non darla alla patria, quand’ella ce la  domanda; e, potendo noi con grande virtù e gloria  morir per la patria, preferir di vivere nell’infamia  e nella viltà; ed essendo noi pronti ad affrontar  pericoli per gli amici, pei parenti, e per tutti gli  altri congiunti, non voler mettere la nostra vita a  vantaggio della repubblica, la quale, non che tutte  queste cose, il santissimo nome di patria in sè racchiude. Pertanto come è da biasimare colui, che  , in una burrasca cerchi di salvar sè unicamente  piuttosto che tutta la nave, così è da condannare  colui, che nel pericolo delia repubblica antepone  la salute sua alla salute comune. Imperciocché,  rotta per ventura la nave, molti pure scampar possono sani e salvi, ma nel naufragio della patria non  ci ha veruno, che possa scamparne. Il che mi pare  aver Decio assai bene inteso, il quale, dicono, votò sè medesimo, c per salvar le legioni si precipitò  in mezzo a’nemici; nel qual fatto ben lasciò la vita, ma non giltolla indarno; perchè con una cosa labilissima ne riscattò una durevole, e dandone una  di poco prezzo n’ebbe una assai preziosa. Donò la  vita, e ne ricevette la patria, lasciò lo spirito, ed  acquistò la gloria; la quale perpetuandosi nell’ ammirazione dei secoli , coll’ invecchiare diviene  ognora più splendida. Che se colla ragione è dimostralo, e confermato coll’esempio, che affrontar  si debbono i pericoli per amor della cosa pubblica,  egli è adunque d’uopo avere in conto di savii coloro che per salute della patria non si sottraggono  a pericolo alcuno. » Tali sono le diverse maniere  di espolizione; intorno alla quale figura noi ci siamo trattenuti a lungo, non solamente perchè dà  forza ed ornamento al discorso, quando noi trattiamo una causa, ma soprattutto perchè essa presenta il miglior mezzo di esercizio nella facoltà del  ben dire. Bisogna adunque che nella trattazione  di una causa non vera noi ci esercitiamo nelle diverse maniere della espolizione, e che ce ne serviamo pure nei pubblici ragionamenti, quando abbellir vorremo l’argomentazione, di cui parlammo  nel secondo libro. La commorazione è quella, per la quale  noi ci fermiamo a lungo e ritorniamo sovente sopra il punto più solido della causa, quello al quale  tutta intera la causa si riferisce. È vantaggiosissimo il far uso di questa figura, c ai buoni oratori è molto famigliare; perciocché per essa non si permeile all’ uditore di allontanarl’ attenzione dal punto più importante. Non mi è possibile il dar qui un  esempio abbastanza idoneo, perchè questo punto  non è mai separato da tutta la causa intera, come  membro distinto dagli altri, ma egli è come sangue che circola in tutto il corpo del discorso. L’antitesi è quella figura, per cui oppongonsi contrarii  a contrarii. Essa è nel numero delle figure di parole, come vedemmo più sopra conquell’ esempio.  « Ai nemici placabile, agli amici implacabile ti mostri; » ma appartiene altresì alle figure di pensieri,  come si vede in questo esempio: « Voi piangete le  disgrazie di costui, c costui gioisce dei mali della  repubblica. Voi vi diffidale delia fortuna vostra, costui solo si gonfia tanto maggiormente della sua. »  Fra queste due sorte d’antitesi ci ha questo divario, che la prima consta di due parole immediatamente opposte, e qui bisogna ciré si presentino  due pensieri contrarii messi a confronto. La similitudine è una figura, che applica ad una cosa alcun che di somigliante tolto da una cosa diversa.  Si fa uso di essa o per abbellire, o per provare, o  per dilucidare una cosa, o per metterla dinanzi  agli occhi; e siccome se ne fa uso per quattro motivi, così essa si tratta per quattro maniere: per  contrario, per negazione, per laconismo, per confronto. Noi verremo mostrando come a ciascuna di queste quattro maniere corrisponda uno dei  quattro motivi, che usar ci fanno la similitudine. Quando la similitudine ha per fine rabbellire, si prende per contrario così: «Egli non si  deve giù pensare che, come 1’ atleta, che riceve  l’ardente fiaccola, meglio sostiene nella palestra  la celerità del suo corso, che rallcla,il quale gliela  trasmette, così abbia ad esser migliore un nuovo  generale, che viene a prendere il comando dell’esercilo, di quello al quale succede; perciocché là  è un cursore affaticato, che ad un cursore fresco  di forze consegna la fiaccola, equi è un generale  sperimentato, che consegna l’esercito a un generale ancora inesperto ». Anche senza una tale similitudine potevasi dire con bastante chiarezza,  evidenza e verità in questo modo: « Che i meno  abili generali succeder sogliono nel comando delle  armate ai generali più esperti »: ma la similitudine fu presa per abbellire, onde il discorso risplendesse di una certa quale dignità. Essa fu poi trattata per contrario; c prendesi appunto per contrario, quando noi neghiamo che una cosa sia simile a quella che noi rechiamo nel mezzo , in  quella maniera che qui abbiam veduto in parlando  degli atleti che corrono. Quando la similitudine ha  per fine il provare, si fa per negazione a questo  modo: « Nè un cavallo indomito, quantunque sia  ben conformalo dalla natura, esser può idoneo a que’ servigi che da un cavallo si vogliono, nè un  uomo indòtto , benché abbia naturale ingegno ,  può pervenire alla virtù». Ciò che prova questa  sentenza, si è, che diviene più vcrisimilc che senza dottrina non si può giungere alla virtù, quando  siasi riconosciuto che un cavallo indomito non potrebbe esser alto al bisogno. Dunque la similitudine è stata presa a fine di provare, e si è trattata  per negazione; il che chiaramente si manifesta sin  dalla prima parola della similitudine.   XLVII. Quando la similitudine avrà per fine di  render più chiara la cosa, si prenderà per laconismo, come: « Nei doveri dell’amicizia non bisogna,  come nelle corse del circo, limitare i proprii sforzi  al punto di toccare la mela, ma sì usare tanto di  zelo c di forze da oltrepassarla agevolmente ». Il  fine di questa similitudine è quello di far conoscere più' chiaramente che sarebbe cosa indegna rimproverar coloro, che, per modo d’esempio, dopo  la morte di un amico, pigliassero cura de’suoi figliuoli, perciocché un atleta, che corra, basta che  abbia tanto di velocità da toccar primo la meta, ma  un amico deve aver tanto di benevolenza da pervenire, nella devozion dell’ amicizia, più in là di  quello, che sentir possa l’amico. Questa similitudine è esposta per laconismo: imperciocché i due  termini di attinenza non si presentano già separati, come negli altri esempi, ma bensì congiunti ed incarnati l’uno nell’altro. Quando la similitudine  avrà per fine di metter la cosa sotto agli occhi, si  farà per confronto: per esempio: « Come un citaredo, il quale ne venga innanzi magnificamente  vestito, coperto di un mantello dorato, trascinante  una clamide di porpora di varii colori tessuta, ornalo il capo di una corona d’oro di grosse scintillanti gemme tempestata, avente tra le mani una  elegantissima celerà fregiala d’oro e d’avorio; e  sia inoltre egli stesso ammirabile per fattezze, beltà, e statura conveniente alla dignità; se dopo avere  per tutte coleste cose mossa nel popolo una grande aspettazione, fattosi di repente silenzio, mandi  fuori una voce spiacevolissima, accompagnata da  sgarbati movimenti di persona, quanto più avrà  sfoggiato di ornamenti, ed eccitala l’aspettazione,  tanto più fra derisioni e fischi sarà via cacciato;  non altrimenti un uomo, il quale, collocato in alto  grado di nobiltà c pieno d’agi e ricchezze, abbondi  di tutti i favori della fortuna, c di tutti i vantaggi  della natura, se manchi di virtù, c di scienza, la  quale di virtù è artefice, quanto più sarà di tulle  le altre cose ricco, c per quelle chiaro-ed invidiato, tanto maggiormente fra derisione e disprezzo  sarà cacciato da ogni usanza de’buoni ». Questa  similitudine, dipingendo con vivi colori le due  parli della comparazione, c facendo eguale confronto dell’ imperizia d’arte dell’uno e dell’ignoranza dell’auro, molle la cosa dinanzi agli ocelli.  Essa fu qui trattala per confronto, perchè, stabilita  l’attinenza di similitudine, tutte le parti corrispondono fra loro. Nellesimililuilini converrà diligentemente osservare di sceglier parole acconce a significar  con giusto rapporto le idee clic voglionsi esprimere nei due termini della comparazione. Se noi, per  esempio, avremo detto: «Come le rondinelle se  ne abitano jn mezzo a noi nel tempo estivo, e da  noi si partono cacciate dal freddo »; converrà che  noi dalla stessa similitudine prendiamo parole traslate, dicendo: « Così i falsi amici restano con noi  nel tempo sereno di nostra vita, ma appena ‘veggono spuntare il verno della fortuna, se ne volano  via tutti ». Egli ci sarà facile trovare rapporti siffatti, se polrcm porci dinanzi agli occhi tutti gli esseri animati o inanimati, parlanti o muti, feroci o  mansueti, terrestri o celesti o marittimi, o dall’arte  creali o dal caso o dalla natura, ordinarli o straordinarii, c scoprire in essi similitudini che contribuir possano o ad abbellire o a rischiarare la cosa,  o a porla dinanzi agli occhi. Non è però necessario  che le.due cose fra loro paragonate siano interamente simili: basta che abbiano in parte fra loro  una tal quale analogia. L’esempio è allegazion di un fatto o di un  detto con nominazione del suo autor.e. Questa fi gara si usa per gli stessi molivi della similitudine.  Essa rende più abbellita la cosa, quando noi non  1* usiamo die per cagione di abbellimento; la rende più chiara, se non ha altro scopo che quello di  rischiarare ciò che è oscuro; la rende più probabile, quando presenta la verisimiglianza; la pone dinanzi agli occhi, quando esprime tutto con tale  evidenza clic si possa, direi quasi, toccarconmano  la cosa. Io avrei qui aggiunti gli esempi di ciascuna specie, se non avessi già fallo conoscere nella  espolizionc il carattere di questa figura, e non avessi nella similitudine falli aperti i motivi di doverla  usare. Ecco il perchè io nè ho qui voluto limitarmi  a dir poche parole, onde non mi avvenisse di non  essere inteso, nò dirne di troppe nel mentre che  la cosa era già bastantemente intesa. L’immagine  è paragone di forma con forma, fra cui sia una  certa simiglianza. Essa si usa o per motivo di lode,  o di biasimo. Per motivo di lode si dirà, per esempio: « Egli andava a battaglia simile per membra  al più vigoroso toro, per impelo al più terribile  leone. « Per motivo di biasimo l’immagine deve  addurre o nell’odio, o nell’invidia, oneldisprczzo.  Nell’odio, così: « Questo mostro striscia tutto il dì  in mezzo al foro come un crestuto drago con adunchi denti, con infocato sguardo, con mortifero alito, girando qua c là gli occhi per iscoprirc una  vittima da avvelenar col respiro, da lacerar coi denli, da coprir coll’ immonda sua bava. » Per addurre nell’ invidia, così: « Costui che vanta le sue  ricchezze, curvalo ed oppresso dal peso del suo  oro, grida e giura, siccome un sacerdote di Cibele, od alcun altro indovino. » Per addurre in disprezzo, così: « Costui è simile a lumaca, che nascondendosi e rannicchiandosi in se stessa silenziosa,^ tutta quanta portata via con la propria casa  per venire mangiata».   L. Il ritratto, o la prosopografia, è quella figura, che per mezzo di parole esprime e rappresenta Testerno di una persona tanto fedelmente che basti a farla riconoscere: per esempio,  così: « Io parlo, o giudici, di quest’uomo rosso in  viso, piccolo, storto, a capelli bianchi e alquanto  ricciuti, con gli occhi azzurri, che ha una grande  cicatrice sul mento, se pure in qualche modo ei  può larvisi presente alla memoria. » Questa Ggura  torna utile, quando si vuol far riconoscere alcuno;  ed è pure graziosa, quando sia fatta conbrevilà e  chiarezza. L’etopea è quella, che descrive il carattere di alcuno, presentando certi tratti, che ne  mostrino esso carattere. Se tu vuoi, per esempio,  descrivere non già un uomo ricco, ma chi si vuol  dar l’aria d’ esser ricco, dirai così: « Osservate, o  giudici, quest’uomo, che trova sì bello di passar  per ricco; osservate in prima con qual occhio ci  guardi. Non sembra egli dirvi: Io vi farei un presente, se ve ne credessi degni? E allorché con la  mano sinistra egli sollevasi il mento, crede di abbagliare la vista di tutti con lo splendor de’ diamanti e il luccicore degli anelli che porla nelle dila. E allorché si volge indietro a chiamare il suo  unico servo, che io ben conosco, c che non è, credo, da voi conosciuto, ei lo chiama ora con un nome, ora con un altro, e poi con un altro ancora.  Olà, grida egli, vieni qui tu, o Saninone, chè io  non vorrei che colesti zoticoni facessero le cose a  rovescio: di maniera che coloro, che odono gridare e altro non sanno, si pensano eh’ egli ne preferii  sca uno tra i molti suoi schiavi. E che cosa dice a  Sannione di fare? Gli dice piano all’orecchio o di  mettere in assetto i lctticciuoli per la mensa, o di  andar a prendere da suo zio uno schiavo Etiope,  che lo conduca ai bagni, o di approntar dinanzi  alla sua*porla un cavallo delle Asturie, o di apparecchiare qualche altro fragileornamcrvtodellasua  falsa gloria. Di poi grida sì che lutti l’odano: Bada  che la somma sia per intero pagala, se è possibile,  avanti notte. Il servo che già da tempo conosce il  debole del suo padrone, risponde: Bisogna che voi  mandiate più d’un servo, se volete che la somma  sia per intero contala c portata a casa. Ebbene, dice l’uomo, conduci con le Libano c Sosia. Padron  sì, risponde l’altro. In appresso vengono a trovare  per caso il nostro vanitosa alcuni ospiti, i quali nell’occasione di un viaggio, ch’egli fece, lo avevano accollo in loro casa e trattato splendidamente.  Senza dubbio a tal vista ei rimane turbato, ma pure  non gli dà l’animo di tradire il proprio carattere;  e, Ben faceste, dice, di venirmi a trovar qui ; ma  avreste fatto meglio, se foste andati dirittamente a  casa mia. L’avremmo fatto, rispondono essi, seavessimo saputa la vostra abitazione. — Ma era pur  facile di saperla, domandandone a chiunque; tuttavia venite con me. Quelli lo seguono: Intanto,  strada facendo, ogni discorso va a terminare in  ostentazioni. Domanda qua e colà come si presentino le messi nei campi: dice che non può recarsi  a visitar le sue terre perchè le sue case di campagna gli sono stale incendiate, e che non s’attenta  ancora di riedificarle; però, aggiunge egli, ho cominciato ne’ miei fondi del Toscolo a spendere e  spandere, e a costruire sui medesimi fondamenti.   LI. Infraliamo ch’egli parla così, giunge ad una  casa, dove il giorno stesso doveva aver luogo un  banchetto di amici, e dove, conoscendone egli il  padrone, entra insieme cogli ospiti. Ecco, dice,  dove abito. Va osservando minutamente le argenterie disposte sulla tavola, e i Ire letti preparati:  approva ogni cosa. Gli si avvicina un piccolo schiavo, che gli dice piano all’orecchio che il suo padrone sta per venire, e ch’egli s’accontenti di uscire. Oh! è ben vera la nuova, esclama egli? Andiamo, o miei ospiti; il frale! mio arrivada Salerno:   10 voglio andargli incontro: voi ritornate costà alle  dieci ore. Gli ospiti partono: costui di soppiatto  cacciasi dentro alla sua casa. Alle dieci ore, sccondocliè egli aveva fissato, tornano gli ospiti: domandano di lui: allora vengono a conoscere chi sia   11 padrone della casa, e pieni di vergogna si ritirano ad un albergo. All’indomani trovano l’uomo,  narrano l’avvenuto, si querelano, glidiconolemale  parole. La rassomiglianza de’luoghi, risponde egli,  vi ha ingannati: voi avete preso abbaglio di tutto  un viottolo; io vi ho aspettati ad ora assai larda, il  che è contrario alla mia salute. Egli aveva già innanzi dato incumbenza a Saninone di andar a cercero in prestito vasellami,. arazzi, servidori. Il piccolo schiavo, destro non poco, adempie con bravura e prontezza al comando: costui introduce m  sua casa gli ospiti. Afferma di aver prestato i suoi  grandi appartamenti ad un amico per celebrarvi le  nozze- Tutto ad un tratto il scrvidorctto gli viene  a dire, che si ridomandano le argenterie (peroc _chè chi le aveva prestate non istava scnzasospelli).  Levali via di qua, grida il padrone; io ho prestato  i miei appartamenti, ho dati i miei schiavi, e si vogliono anco le argenterie? Ma benché io abbia   degli ospiti, alla buon’ora, se ne giovino pure; noi  ci contenteremo dei vaselli di Sarao. — Dirò io  tutti i fatti di costui? Tale è il carattere di questo uomo, che tulli i tratti di vanità e di ostentazione,  clic ogni di gli sfuggono, non potrebbero essere  da mq raccontali in un anno intero. » Siffatte elopee, clic dipingono al naturale il carattere di un  uomo, porgono un grandissimo diletto. Conciossiacliè esse pongono dinanzi agli occhi l’animo e i  costumi di chiunquc,o di un vanitoso, come nel precedente esempio, o di un invidioso, o di un pusillanime, o di un avaro, o di un innamoralo, o di un  dissoluto, o di un truffatore, o di uno spione; insomma non v’ha tendenza dell'animo che per mezzo di questa figura non possa venire al vivo dipinta.   LIl. Il dialogismo è, quando si attribuisce un  discorso a qualche persona esponendolo nella maniera che conviene alla dignità sua, per esempio:  Allorché la città era inondata da soldati, c gli  abitanti, tutti presi da spavento, si stavano chiusi  nelle loro case, si presentò costui vestito alla militare, con la spada al fianco, e un giavellotto In mano. Cinque giovani armali come lui lo seguivano.  Tutto ad un tratto si precipita nella casa, c grida ad  atta voce: Dov’ è il fortunato padrone di questa  abitazione? perchè non viene innanzi? ond’è questo silenzio? Immobili per lo spavento, gli altri  tulli non osano aprir bocca. Sola la moglie di questo infelicissimo sciogliendosi in lagrime giltasi ai  piedi di costui, e. Grazia, dice ella, grazia; in nome di ciò, che liai di più caro al mondo, abbi pietà di noi; non- voler uccidere chi non ha più vita: sii  temperante nella fortuna; anche noi fummo felici;  pensa che sei uomo.  Ma egli continua a gridare:  diesiate aspettando per darlo nelle mie mani?  Cessate di assordarmi coi vostri lamenti. Egli non  isfuggirà. Frattanto si annunzia al misero che il  suo nemico è in casa, e che con g'rande schiamazzo minaccia morte. A questa nuova esclama: Old  mio Gorgia, oh! fedel custode de’ miei figliuoli,  nascondili a questo barbaro, difendili, fa di potermeli condurre sani e salvi alla adolescenza. Appena ha egli profferite siffatte parole, che in un momento si avanza questo assassino, e grida: Tu dunque stai nascosto, o temerario? La mia voce non fi  ha già levata la vita? Appaga l'inimicizia mia, c nel  tuo sangue s’acquieti la mia collera. Allora coraggioso il cittadino rispondevo pensava di non esser  vinto appieno; ma ben veggo che sì: tu non vuoi  terminar meco la contesa dinanzi ai tribunali, dove  la disfatta è vergognosa e la vittoria onorevole; tu  vuoi uccidermi. Ebbene, io perirò assassinalo, ma  non vinto.  Costui allora: Come! anche nell’ora  estrema del tuo vivere vuoi dir sentenze, e abborri  di supplicare chi ti tiene in suo potere? — Allora  la donna: Anzi ei prega, ei supplica. Ma deh! tu  non essere inesorabile; e tu, mio caro marito, in  nome degli Dei, stringi supplicante le sue ginocchia. Egli è padrone di te; egli li ha vinto; sappi or tu vincere te stesso. Perchè non cossi, o donna, dice il marito, di parlarmi cose affatto indegne  di me? Taci, e pensa solo ai tuoi doveri. E tu, a che  tardi di togliermi la vita, e di levare a te medesimo  colla mia morte ogni speranza di onorato vivere?  L’assassino respinge da sè la donna piangente, eal misero, che apriva bocca per profferire non so  quali parole degne del suo coraggio, pianla d’un  colpo la spada nel fianco. » Io credo di avere in  questo esempio dato a ciascuno il linguaggio che  conveniva alla sua dignità, il che è la cosa più imporlanlQ.in questa figura. Vi sono, ancora dei dialogismi, che si porgono come conseguenze: per csempio: « Che si dirà mai se voi darete una tale  sentenza? Non parleranno forse tutti gli uomini in  questa maniera? » E qui si soggiungeranno le parole acconce al dialogismo. LUI. La prosopopea è uua figura, per la qualeuna persona assente è presentala come se fosse  dinanzi a noi; una figura, che attribuisce ad un  essere muto o immateriale un linguaggio, e una  forma, e lo fa operare c parlare secondo la propria  natura: per esempio: « Se ora questa nostra invittissima città avesse lingua per parlare, non vi  farebbe ella questi rimproveri? Io, la quale adorna  sono dei più belli trofei, e ricca dei più gloriosi  trionfi, e accresciuta delle più luminose vittorie,  sarò ora, o cittadini, dalle sedizioni vostre lacera unno iv. tu? Quella Roma, cui nè le astuzie della perfida  Cartagine, nè le forze della formidabile Nnmanzia,  nè i trovati della dotta Corinto fiatino potuto rovesciare, soffrirete voi che or venga dai più tristi omicialloli disfatta e conculcata? » E parimente:  « Se ora vivo tornasse quel Lucio Bruto, e qui dinanzi al cospetto vostro venisse, non vi parlerebbe  egli in questa guisa? lo ho i re discacciali;' voi i  tiranni introducete: io la libertà, la quale non era,  ho recata; voi, che quella avete, non la volete serbare: io con pericolo della vita ho la patria liberato; voi, polendo esser liberi senza pericolo, ciò  non curate? Questa figura pedo più personificando le cose mule e inanimale», è di una utilità grandissima nelle parli diverse dell’ amplificazione, e  nell’ eccitare la commiserazione. La significazione,   , della anche enfasi, è quella figura, che lascia più  a immaginare di quello che non esprimano le parole. Essa si tratta per esagerazione, per ambiguità, per conseguenza, per reticenza, per similitudine. Per esagerazione, allorché si dice più di  quello che la verità non permette, allo scopo di  aumentare la sospizionc: per esempio: « Costui  di tanto patrimonio in sì corto spazio di tempo non  ha salvato pur un coccio-con cui recarsi a limosinare un po’ di fuoco. » Si tratta per ambiguità,  quando una parola può riceversi in due o~più significati, ma si riceve in quello che vuol dargli l’o latore; come se volendo tu parlare di un uomo,  che è ilo buscacciando di molle eredità, dicessi: « Osserva bene tu, che hai cosi buona vista. »  I.IV. Quanto però sono da evitarsi le ambiguità, che fanno oscuro il discorso, altrettanto sono da cercare quelle che generano significazioni di questa guisa. Noi le troveremo facilmente, se conosceremo e ben considereremo i  dubbiosi o molteplici significali delle parole. La  significazione si fa per conseguenza, allorché non  si nomina che ciò che può essere conseguente  di una cosa a fine di far nascere l’idea della cosa stessa, come se tu dica al figlio di un pizzicagnolo: « Statti cheto, o tu, il cui padre solca forbirsi il naso col gomito. » Si tratta per reticenza, allorché, dopo avere incominciato un discorso, lo tronchiamo, c da ciò che abbiamo detto, lasciamo bastantemente conghietturare ciò che  manca: per esempio: « Questi, il quale si bello,  si giovane poco fa in estranea casa  io non  vo’dire di più. » Si tratta per similitudine, allorché, raccontalo un fallo analogo, non aggiungiamo altra osservazione, ma da quello lasciamo intendere ciò che pensiamo: per esempio: « Non  voler troppo fidarli, o Saturnino, di questa moltitudine di popolo. I Gracchi sono caduti, c la loro  morte è invendicata. » Questa figura unisce qualche volta molta piacevolezza a molta dignità; perocchè lascia indovinare all’ uditore ciò che l’ oratore punto non dice. 11 laconismo è quello che  non usa che le parole necessarie ad esprimere la  cosa: per esempio: Prese Lenno in passando;  quindi lasciò un presidio a Taso; poi atterrò una  città in Bitinia; di là cacciatosi nell’ Ellesponto,  subitamente s’impadronì di Abido. » E similmente: « Testò consolo, prima tribuno, divenne poi  capo della repubblica. » E ancora: Parte per l’Asia, si dichiara esule e nemico, appresso si fa comandante, c finalmente consolo. » Il laconismo  racchiude in poche parole assai cose; e fa d’uopo  usarlo di sovente, quando o le cose non hanno bisogno di un lungo discorso, o il tempo non permette d’interienervisi attorno.   LY. L’ipotiposi è quella figura che presenta un  fatto con tanta verità che si crede di averlo sotto  gli occhi. Si ottiene questo effetto, se si riunisca  in un sol quadro ciò che ha preceduto, seguito, e  accompagnalo l’azione; o, in altri termini, se non  si trascurino nè le circostanze, nè le conseguenze;  per esempio: « Appena Gracco vide che il popolo  fluttuava c dava segno di temere non forse egli  medesimo spinto fosse dall’ autori là del senato a  rinunciare al suo progetto, fece tosto bandire il  parlamento. In questo mezzo costui, non agitando  in sua mente che delitto e mali pensieri, corre giù  a volo dal tempio di Giove, e grondante di sudore, con gli occhi ardenti, coi capelli rabbuffati,  con la toga raccolta, seguito da molti altri congiurali precipito il suo corso. In questo momento  il banditore domandava silenzio per Gracco: arriva costui, e premendo col calcagno uno de’ sedili, ne rompe colla destra mano un piede, ed ordina agli altri di imitarlo. Nel mentre che Gracco  comincia a dire la solila preghiera agli Dei, questi congiurati correndo si slanciano sopra di lui;  da ogni parte concorrono altri volando: allora uno  del popolo grida: Fuggi, o Tiberio, fuggi: non  vedi tu? risguarda, dico. Ben tosto la incostante  moltitudine presaga subitaneo spavento dassi alla  fuga. Costui, spumante la bocca di scellerata rabbia, e respirante crudeltà dall’ imo petto distende  il braccio, e a Gracco, che ancor dubita di ciò che  è, e pur non abbandona il preso posto, pianta il  pugnale in una tempia. Egli non Smentendo punto  neppure con una parola la solita sua costanza cade  in silenzio. Costui coperto del sangue, da deplorarsi pur sempre, di quest’uom generoso, volgendo intorno gli occhi, come se compito avesse la  più gloriosa aziono, e allegro porgendo la sacrilega mano ai gratulanti, se ne ritorna al tempio di  Giove. » Questa figura in siffatti racconti è di un  gran vantaggio, sia per amplificare, sia per eccitare la compassione: essa mette l’azione in iscena, e la pone, per così dire, sotto ai nostri occhi. Abbiamo con molta cura raccolti tutti gl’insegnamenti atti a render adorna l’elocuzione. Se  tu, o Erennio, vi aggiungerai un assiduo esercizio,  potrai nel dire aver gravità, dignità e soavità, per  parlare da vero oratore qnon presentare un’invenzione nuda c disadorna in linguggio triviale. Ora  noi, per un comune scopo, metteremo in comune  i nostri sforzi; cercheremo cioè di raggiungere con  lo studio e l'esercizio continuo tutta la perfezione  dell’arte; il che agli altri non è agevole fare, per  tre ragioni principalmente: o perchè non hanno  con chi possano di buon grado esèrcilarsi, o perchè di sè stessi diffidano, o perchè ignorano il metodo da tenersi. Queste difficoltà sono tutte da noi  lungi, chè e volentieri ci esercitiamo insieme per  l’amicizia nostra, cui il parentado originò e l'uniformità degli studi filosofici rese più salda; e non  disperiamo di noi poiché qualche progresso facemmo e ad un più nobile scopo accesamente aneliamo; talché se non perverremo nell’oratorio aringo  dove è pur nostro intento, poco ci mancherà per  conseguire nella vita sociale un grado onorevolissimo; e sì conosciamo la via da battere, perchè in  questi libri niun precetto rcttorico abbiamo intralascialo. Infatti si è mostrato come trovar si possano le cose proprie a ciascun genere di causa; si è  detto in q ual modo abbiansi a disporre; con quali regole si debbano pronunziare; con quai mezzi ce ne possiamo ricordare; si è finalmente spiegalo come  acquistarsi possa una perfetta elocuzione.I quali insegnamenti tutti se porremo in uso, la nostra invenzione sarà ingegnosa e pronta, la nostra disposizione  distinta e chiara, la nostra pronunciazionc nobile c  non priva di venustà, la nostra memoria fedele e tenace, la nostra elocuzione adorna e piacevole.Ecco  quanto nell’arte rettorica si comprende. Tutte queste condizioni conseguiremo, se agli insegnamenti deli’ arte aggiungeremo un diligente esercizio. UN E DELLA RETTORICA AD ERENNIO LE OPERE TUTTE CON LE VERSIONI A  FRONTE: DELLA  RETTORICA AD..,  Galloni IP DELLA BETTORICA AD ERENNIO CALLOSI LA RETTORIA unito PRIMO ESrSSSE aess    \UI. M.i ik-N'n.iiiil^ Li, li il lìn Hi:  LA RETTOBULl     'I un uni i|!iii],| U .r luminili mi nlilili.lcrii iieniiv.ni  '.al  ':,ii.,. eia, quacIMguéo ,- i .,1 i    imi. Hiilnria e,( re* piM.i. ..'.! al, iu l„li, inijir.i.   min I ii'lili.in. in. un, lui,, emi  In™ in eiccrcnilii Ican-iìieiiln  frinii, ni 1 h ,1  t .[lloiiio.l.i     ueneri.II primoèi|uaiuln espnniamu un faUO.C ne  liii,i neni Lii.:,i-MriM j iic-lm \ / 1 1  |n:r ulIrncre villnrillil l|,l„l |lilli,T(: Il 1 1 fu r I lei 1 1; il |||>|I[II,I J  ig, che ni r,i, n ti, no ai! i-s^-cr gi-iJirali' li -.--fi-ii.Lo ei-ni-Ti- tii narrazioni i qni'lln, dio il.olla iillcriieii.' nei m.vz.i ,],:llr r.nih. per inolilo ili |iroia. o iti accusa, n ili irunsitnuie. « ili ani:iclii.inieiil.,.u ili lr,.lc.ll Icrzo e.,:n tu è (]ijrllu,  (i lic-n.l «li.ncu alla eau.a ci ri In, mi nel quale  imiti™' niill.i.liriieii.i ccrciucsi |"r |,til,-r jiiii leccai ci ani crii e Irallic ncllii cause rjuci duo iwnciidi  narratine, clic iililii.nim .Inno ili -'i|ir.i.l>i cnlosu  niritóoiio ci In il ih' specie, l'uni die numerili lg  chip, Pulirà Ir i-prsonn. guniti >pi..ic, cli« i itjiKirda le .ose. ha Ire ciurli, la involo, la hlocia, la molli.- il ione. Lo limici è , india, clic eoiilicne cose.   cu o mi   |i.'si/n è imi l'i.-.i liiila.ma die iiii,,liini-|m [une.   nrcadccc. eulm: i r.i'.l, mi-,|i,isIÌ .Ielle c.jiinic.lie.  Onci funere ili narrai mie. l ini riguarda le perso„,'. il.'u- coni, mere In orarie ,l.'l .Inc. 1,1 rtiiersiL.'.   in ni. II. i lai laici III, .Ielle alia Ii'Iii|ih|.  rum. pcrsonnrum ll'(lin , alos,roasili,,| 1,111 riiliiu,,'..   : n-MIi [Wa   ll. ni s-eepa vcrila-, ciii linci- serrala siili. IìiImii  f,.rcro non pelosi: sin crii fida, e m.cis mini  iil.-.TVIirirla.II.' iis rollìi, ranle aliala.;. -minili i'sl,     .il,,. .inVIalnr i  h US. nini qnae de il     ili rms Ipraelfr crlcr(*| in Iria     lui., alimi. i:n:i - |-i.:i-. | -i nulli..;. |i -H.l.iHl,   a.i.i. t.-ril i"-. I.:i.|...ir -in in ilil.i cìclieenus Sfiorirà, ipiiil niil'is ..ni.'aiil al nielli. r|l]iil in r.nil nsia i rli',|.i.1iir L II. ni iii.i.|..;   Ini. rleilani al. dr. : l  nu:,: -| . . i   1.1 1:1 coalraior-ia. 1 1  rr-. 0 cannarlo, Aaaaa'in.   linncm esse a Civile Ira inni- .',,11 Nielline;   i| Il ili ila sii. Ilio ulain'i p;n. ni l'in a»!;.!!! (i|.nr     l-rii.i-.r.i !:>.     ur in dun parie), enumeralo     lupriamcnli. le arnia. ,1,1.1. i il. .il...;i i.n.,^ I.: ,li;.ro5.aiiu e.-li a;:ee al saintetin ; olir min riìal K lii,i.   1 1. glie ulllme co»*; a  i no nuli i i   li.- i lio S||..':IJ ni mi-l,:IIii ; 1: linai al.: luasaaii  la oliiareiia. se in-a-i.oi'aine i preeelli. clia  l'Uro 'ij; Lari'. 1,1 l.i.-lilii: |i,|riiia.lic .pillilo ;i a     ilolilicraniiiiii, le iipniirtiniilà il.-' lucili, allia.lic  nau 01 si ["-ssa a^iiiirri' 11 ili., il l.-iii| 11 a s.l,il.i   Illudo non ora cyaMTiiiali.'.n cllWnf.i..^o. ii C .iini.«irn'ieilij     -l-'n; t il Ci l- f -ti . |iff. hi il ,1 r^c f j i mcrj  tenti pctieulj». e pud muore nell'udliott ilioi[Hlu ili mriNi.iiiiiif c ili nnili/iD ; tj quii cosi  Ir^l.p f-'ilc al  lis:^ii. I.V-r,m i*iinn' irni'ivi'  m i j  iv mimici i'iiii liri ilià ^ >ev;.i iiniim*-ijiii     ri», .|iii Rullici- liTii|icslalriii naiim irliil>:c[i:]l.  murila \>i-vìm ; curimi ii.nim «liTflr|i]r r-'.i-, >i   r.fi.iMTNMjnfHa sii, imi ri- n-i-riiH in n.vi, Mv   ,'rihi.lirt- : t n i ;i ( L i r r.iii:,.-, [Vrknili liniin     ili-,;iOiiU.I tli.I •lilfn, i liliali UT c.liiiiair di lumaca aM.an Inaino Ij navi-, ilHilurm prr.kiu la n.mC oglil cojn; ( clic, JC la naie vada in aai>u, laulu LA RETTORICA I :h!jiu o n j I- w 111L.. IS lom imi   "Mio it-o, t fin rnnoiiom f rr fi..ì.ir.,.i  LA RKTTORICA DlJtiZ'XI t. Ci LA RETTORICA  iimm  gssssssssasses   wmm    ri'S".' n «"diS.; Lm di  ÌISÌIfÌɧ    sssdfasr'- LA RETTOHICA     ir.rr-l.iri iipmliTC; illuni iirrlt ucr oliassi- Ila ilia;sn ni. mini tjtlii™ni r iio .(> ni a Ir [ir in ni miri ulici*c. DcftBSOf prlaiu ni domomuobil illim lotcprsm, si pnlcrit: ili fi non pnlcril. cniinjgk-t sii  in.nrnilF.nliam, slullilioni , eilol^i'lilioili , vim,   giui «Ira Ilì f piincri turni, timi ilc-bcal abiuri,  n.n itlimicnlrr iinuiizii: liirpili.ilinr i.nr...;i|.]-.ir  .1 infamia, prins iloliil op-rram, ili Msos runinrrs  .liiiipaliii r..c uicul .Ir ÌMinccn'1' : pi ulclur loco  u uni ni uni, minori bus mali unii Sin niliil   horuin fieri polon), ulular .-Uruiiu virltfnjiiitie ;  iiicot, muli ino li bui risa o|iud censore), ied  ut iiiiiii.iil.us ailicr:a iuruui "l'in: iiiikirs Juiirc. nvoro. lo dimostri --e in qtliilr.hc rn.jiln il può, corrompilo» e misleale ; in Don per uno o più litri  villi lui lordo i' .mimo del suo acculalo ; e cunchlndmt, elio non dH far menilnlh, che quello  sic.so uomo, cuc in oiUielro operò tosi male, abliia. ora commisio quell'idra nvsfjilo. Se I oberarlo gt idri nome puro ed Intinti, dirà che bho.  gna li? ncr conio dei foni, n»n del nome; ch'rnli  per lo posino srnrc orcullirc lo sue lurpilutiim;  ini clic ora esso acouijlore (ari aperto che colui  i reo ili ini.f.ilto. IVr quello spella il .lilsniore,  ili ni prillili Illudo vena u.mOilrando, se polra,  che lo vila dell' incolpilo è iena macchio; se ciò     ili.'lo prrsnnsiniir: „.-i lcin.ili scuse .erri ad allonlinaro ila liti il bn.iiiio .l. lk- mitmi .interiori  oll'occiisj, di cui presente meni e si Irolla. Mo se il  iliti'nsari: si Isinerii t.irte imbaulalo dalle lurpi      IV, Collallu cst.quurnacruiiilor id,ip     , oc.ll s'appiglierò iti' Mira  tomo ni coslumi di lui d»i rin.ili ci 3 clic * u" unr-n clic l oiinnc sia alata  ilsgcms.-i ad dire perdine, r> che allrc persimi'  unirò .ihttjnn rinvilii tare ni ili cui f arresalo   un clicnle. Il segno t rjur-llo |ior cui ni Jimtj fari; l'azione. l;-=o r.nni|ir In nei pirli: 11 Ino   lili; quo dici, qua Docili hors  «P'iii'iui II» c unsi li cu li il ii r : -aliw liingum [unii     i", poili che riuso II «UH; pe     ittdiitodnian atcìlìil i-.i m;Tr.inii:i qllml qo l'i lliiinn |ni"ii i[ln[llii= 1.ir|i.'rrl .In i|uulilicl rumoreio proferì' ,[ cul:licu!]l Libuhni ili* iip.ro. \>tu mi rumor i.mmnenu-r pnilni fisi- vi.lcljhur. areumcnlandu farti) s li il ero  ^olecimus abrogure. ! dillkilliina Irai-lalu  ,.-1 concimilo couicrliir.ilii , ci in icris caussis     -.ilal'i ne, i[iiiJ icri|-::irii 11;, ini'!  ictaa dicaul, quid Indiali ssqui  in M .[un.] riihiRrnler pcrscripluni     iilrr.i-nciici'il':, ii^r.uo. ...vlj rimi raim-it. Ili"  In ennupla [nfirelilur, niut- re., quuni uli iola, « addurremo rimici» unto racconto conno  ai insili nrrrrsani, || ,|u,| dir Emo estero rir.elnlu  ila tulli ; 01I anche, allculiercroo uria vu ce vera, di  cui CHI abbiano ld arri» il re, ino li sia 11 'lo perielio   11. i inni |irc'>, m      Mi.luiti, dell' cui  12. dia paliamo a  I Quando ini     1 parli della qnUllon lc-g.   ' inlmiimic ili colui eli     olitole     allo scrina Ili |i "i domanderò,  inlcniinu? di si.ri.cri' nel minio dio n'inlcrpreu  •|iial COKI lo impedì di Krlnre eppunlocusì? Dopi  ciò noi faremo apcrlo qoal s'i il itro senso, e nielleremo in luce la cagione, par cui io ieri Ilare semi  Ippolito c.injo scrisje, e proveremo che quello  senno è ciliari), mutili], mimale, compililo, delerminiiio, E qui n.iì produrremo esempi di giudilll pronuuiiali 1 favore dello aerino, aneguacliS  «li aTversarii aiiiiuccMero utll' aulire di quello 0 mm-m    a-SSSSSsS    SS assaai ,,,,ir, ; ., ì .,.i,»i.,r  Ss  il. -r[ua« [i'|jilii:s ijlifiTtjoJj siinl, dui: niuilii, n li pa«U iucio Ani» i  LA BETTOMCA   nn'tiiii, bi suburra clic no     jc in sbollila iurldiciuli 'm-ìciiIihii li   cioni, non mtno rn i: !i'im?:o ilei fi :iJ itali, chn  furono in livore- a in LÌjimn 1VII1 .twi. !>j!l"c-r|inlj  ipmbti fonde lo ! olla  tir Dille comune; corno: : Clii fia più di  ed è impellila di maialila, può fini   in ^iiuliji.j pur mozzo di procuraloa ili i|o.'S|.i principio può coslllulriì     il incKosiornu i. Stallerà I ioLCrVCEllO Ùi   i di con'emiune, I quali      Liuno ir.     i ilmini nominili veneri!. I.  I:sli rrf hit l .liu.Tn;; iri:ni;'..iiM':ii:j] :i-.'or:i.ii;:iii il"     più mi ni ['tura c |i i -j pnlcsu si i  il I::  in ri  Ji.:= li; Li |  r. : ;  .1  i    1 rruiiiliiljiiuii;. I n |ini;i.>.iji.iin'  iii;.li:Mìii-ii ili ciò l'Nc tnjlLirrm  OH'! ri il |iririr. : [lio, riic iliirmilm  , 1 fui Mulinimi, s.i;ij niij;-,J-.!n  unr.Tin.iildii.ì-lliHEjii.jiirèfiirrl1)11 mcillr n : □ fili . li; linsioai  silos». I.' unni iiiciiln { [udii. Ji  o per aliUcllire ed am.'.-liirc Li     XLV. S.- iciromn n  'in:|ul' pjrli, co l'Olii: li;.i:, r..|:l,i l'in -nrn.?nninne: ir Noi aUiiamn a itn cu ni parare; Hiiuui-ttMI, Fi iure   litui | ral. riinvii inimi i ì:iìjjiì.;.j riiiiiini ulaelii iijii. ' li rei unii - iin-i-"i;i l'i! ili* le^liiiKiniiuu   dal. Urini ri radili perniili liurlitialur, cum inlcrirnere. a ino ii|iplir i iini icnhilur, i'1 condurli] ! ll rr_ i il L-    i\irlisii'iiuin , hl-vnrr li, iiMiiii.:i1inrnin p-'.->i- i|ii-i.!i-.il 1 ininii.i laie..:ln;il.ir:i ei-'l-tililrnii    levo torre iti Ha.-i-.,a:r>. [inp; rei. indo ^'tncl^ll» a'ml   i f.illi'iiù 1. ^..Ti.'JrmTiihimo^   I-re i.kli.n nf, grandi, allora die r.-rri f0 : 10 ,!i   spirili r°rrao!,"m,7 s .ÌX°^",»u deteold»™»!  ' ' arai! l'Irte di-eli iinrnirii n'Iln-.i nei delilli   li'a-- : .'ro [|nail.i_'-io a pr.nn della pin gronda inibiti, rlii ^imera.i^li.rj l |,eeo=lui,li:;,i,rif.. c iaM    ilrm I..,-. mini ni l.ilin :. , ijiil rj i Ij..>Ii.k   lideainui aliirn's l'I era-lai inliif, li e allcii Li  ' : "' I' 1 '"- min m.i-ì a, renalo da un ni 'tre "mi p:'i,lai,Hia a' iremiri. nlLraggiiio, trrilalo.'        mala™ rslionem videi mua, in ilio più rimai ti pei «eie |.r«- sl.ili .-ji.iirlii E grandissimi     I do, l> sogna allora aslener.i .1 ill'eiiiar  I rccopìlolllìono. In orjni arjomenlaii     oifliiizM T.juatllic ti .u-i.:oiii>L-iiMf.' aiKlic qumo, di udii  iMk,™..- atrofia iiiirkM-umal,.. ,|i,aiL», '" '» »"r   apparai,? CI, paura ,1 la in ala; a la auui.lijia  a r 1 , a l.'raa ^Xi"™"q««l•»S" lqU,11^, "'      iz,tr™.",r rm """ 1 "'-'™  l ìi Irti •unii s [mirili.] in a[.|iic ilisi.Miini. Nani Iidln.lioiins r:i>i fal..ae r'.i'iit, «niishicnr-s ijiiiii|uc taluni versi esse conflli'ri'uiur. Ili-m inlirma ralle  ni, quae non nceesaariam caussam aCcrl ciposi I '.i:ui.-]r, ini.iri.iiji e-ie li.i. Li tlii'niio rii. a. pi u lif min ledi, il lungn  iliiv'rll.i ilr-vn ii-*ar,i; Molla, |:cr.Ni- e rrudcl?, hi..Ila, imluliilr- iii-.in.alii, |iit.Iii> nijii.ii .li,liii-uiTE ni' ilii iii.tìIii ni' rln il.'inriilii. A'.Ni lito".li  imi li sono, i i|iiali ncgiiii» e-si'rrl |nt tngjun ili  n-rluna veruni miseria, un Milli- En.E rcg.-erM ibi    a, t.;j i  : r 1 1  luminili j   -f -  cala il il a ben tur. Itera viliusum csl. quum iJ pio  litio - 'lur.  ji=- -ci li.ln  iur.es nuli causi 11 , quin   Clio In, idi, t/luliu.s ttt pulprfiM nulli.' hj«h(i,l   alrjue (nftrSm,  |>rlccin inlersisè cucili, Hit, r-ou/.- rmir .on. or   li: ni Hji jitii snu iure lice i.'i:ui[.|n usuri; 1 j'.'^.'iiiil  Imi Km, in. iuilnrl. ignu-i i.im -tnij crii, riilitnii ani i|ii.i!.i M-fi) alfine urlìi iirruliu ilici iiuV llir. imil lll.illiH III HICIllClll lllilli fi ll lli^rl. tjllili iol| nnm hoc uni hoc [eduen ; "o^raMiiroìiim  mliu Ujgil. Uriti liliosnm est, quinti iil, i|imi1 in   Inr iliTcìi-inne, lice modo:  Smani Ir. pj-iKidttBI omnej, /Icrrmlusiino  l'^norpltyiii; ni.» [iisiTliim oc omnlolis  miii.nii, jìl'j iti.) sol'i ni rolli iiuiii pira. IH Li ti r1i,..l |„||,.. :   È ari roti mr.uo n.atc uni ilif, ; n, clic sin comuni'; pei rsruiiiiiK  Colui jiivri'i por irnrunilia, o  tu r inrspcr.cii iti, tv jilt ciuuc..-ir ,1 uoiui ij M |bui(lprsliT.ì"i" I ' liminoti;!   ..iiifrrriiiiiiiiir il;0ln r.i.'iorp ; in tornii», qir: n.'iiliu, Hill ,1 narrai ieri! Ivj.M r nuli,) [ ni- ,:    l'ori! ili 1 mirili' .i.liiniriii,. :;ll;i narr.uinn,'. |,rr    rlii- li inserirai ^i ii.inr'l.lin Inv.irjm c |irr|nir,l,> ri n-;1. T'n.'j.r. r :i! il min riniri'i Hill -, tnrr:i:i  f'iT In inni ri-n r.vi\rr;:'i l'i.ml-n-nrr' I' rm]ine:.>    ili]in a ili, Mone : ilmn.lr: eriiinc brevi Icr ci |ili  • in lall.T lini-inni', i! i[il,is : rtn :id iiiTi ìni r-, ! r ,iioTivÌ   ;mj imi lini ,1 eli  |i'l>rii r; indirne ni im't, ri r '. NÉÉ  liti «a; noi .l:|,|.|.'Ìi:-:uiiu i il .,!ri ijiuui.'i. c ria  siri l'iri'iiSi, i.ipji, i no. ni . i ii,,,1i k, : i,ì    ri. ,IHikiri,,iil.. nel m-.-Ji^n.u U-Jn|io clja fi 11 [..ni  t.-, etimi t'i .in Rinfili 'nuli; noi ritonl.T,'    :,.'"\ vSSH LA RETTORICA  unno l'Enzo ,1, ,Jn,iii.,I.T.IL,.|i^ rcip.iLI-..,- ::nì,l.c H.k'iiiNi. liGcii. Usa uppollolur pruiiciilia rerum mulurum    po più opportuno, se ni... ;|i r ,:i..-ii t 'rù l'iubm L ciiln^uc. Forliluilo csl return nuoniruin oppeii  imùj 1 : J :hi;ili],! ( li.l,ì.,v.,-.III l r,iLT prendo siisi   grurnli coso, il disprelr.0 delle miglili, e la lolleroma dello lutici in ragiono della loro ulllilb. Li  le,uporon« 6 nell'ani.™ uno r.,r,:-l, innJmlMoe,  r.jii:irni! lo passioni.    SS2SS    a&ssssrass iiim.lr.Tnw. ikm™ r.-liyiw nc^ili: o.-==.?rvarp  .ln  lil.rl |.ro patria, i>jrcnl:lnn. lio-|iiIil>n., nuiim d    '™. s.i iin.-rrn,., r : , •umilila aiiilEkì tinnii   nuoji, dell'irò, ù .. J:,  OpII «n mo. c moniti cosci eomelorumo io «ci  [•;. -i -iti"-..u> : Ji.l.Jf Ji. p. iK'U>'u«n.eln»ic    ,j;.-.o .U . >] f. 'il.. i.. r >J f. r-M Fs lirlÙ 0 1  sono lo sue concilo, le tuo Rlonr. le toc OOJ.tbrif,  ?BEE : .5ss  ced ™:;,r~::i!;.::i:r=      ii(ii|i-r..1ioik'ri] lran=fcrro, |ir. ].[; rei |u..J  irpo  ulqO, n n i:. n,n, rr:|.LT ir-, |,jr'    >rpn ri.i-n Ir.. ].c minriiM:,,,! ,l„wiiiim c.-.cr lirici ; S3SÉ !:*[il£r]]fiir->rni M - l lt:irL'; 1 ;ni;.-ii.,s.i;nli.:]jiifj C ii;, |„, t   SSES&SSS   filiti r., «Hit «i-S;»i. « o.ifioj tvqlrMm M    MMoiMti iwnpoattu o ioMMm;aM alcuni    EEÌéllHEE luco piullo pus dlonnos.    iilllÉ   sssbsmksss   uW.ri-ww:. in. fine del di«w..7^^™^'*». 'e™w nò eh. e,     i.gisiio ni. (.mi r,„] ( i s rj r tl..m-(iir. .ci ..fnruir. r  incidi.,,*; il, in in lo™ ri r,,dir, e ..ll.r.l»    iveislmo datimi a s ii «u n un ii-m ili noltim, cui pr> rumili' il sii llcriiiui ; ili iinli: facili;  e' il .le ilici siniik'? nel!' 'pillilo 'ineiiiiHnca ccl   1,1 iaculi'; pi'M'Iit le iiiimjgirv, siccome le Ii-IIitc,  miri riirruJiitic usn, si rjricolloon; ini i Ir.nglli,  lincine lor.iiolclli'. dclilinnn semine i-immuni,  li aodocehS li jcunta quBTlUll do' luoglii non ot  Piccia cidere in l'irurc. Mirri [imi! fili! ceni rjuirilu  Ini)"!] icnja ciiiilrc.i'vnrilo : p.'r esempli], ss nel  .|niiifri Iiiiim li nillni fiiiiim ima mano d'orn, e.  Dn locìi s=Ii> «limi'" csl: mine ai] inchinimi riliormm nausearmi'. Oumiiom cto.0 veruni   binili) m.J^inc^ n|"'flcl, er lii, i.nliis linb-i silllllililillili's i lince ijcl.cmus, ilu [.lice- siiiiiìiliiJini-s e; se ilclicin. iinas rerum, alleai i diramili. 11.-;iiiti i-irnililnililic-. i'i|iiir.iioii1ur r     lode-li por rapprese ni are le cose, e clip per rifliiaiiiarrijlla in e il mi i,i ie parole si'r K lior ilclil.cinin  .kilt sinii(lijwc roiin -filili; , '-i ilclil'niui ml'incni il 1   II  ss  SII Sigili Di^.ii:o"J !;. Ci  l inni' m. GHItili leiioiinceoinindOBUq LA RETTORICA Èsili   :•==£££= sssssls    =§Ii   .la alimi serrano come ili lullmor il-, «Miri.»    ,.ir>,„.'Ua gnisni situi clic una lalimoniu», è i.imni iv.      a luce ornili! inizigli eiinonei mi.toiefli'i.iui  omna. inori! [maiioic] scribenoi, redi ali In sin    vcrcciui-, no cui salii sii ni e muraria in raiumcni  prnlmml'iu. 'l'i'lil ab en [-une. interini ii. qui et  iuioiilurcs Julius arlilicii liirinnl, i l «instilo iaiu  siili!, omnibus probali silnl.ljnoiìsi. illniulii aititi»   i ii. ìlio,n:,i „li - ili li.. .°.i,.-l. esse iri.i,;nil.,ii.      IL Olire ili cita. l'a'uUHU iltsa degli «illclil  noi) fina din ili un grill valore I La i|iialu ila min  uiiiu;i,ire apurmiiinne al!,, ro-o, ,en/ Google     V. bitumi; itili.r. cui quiini lituo,  j : l-  1 iilicnn  llll H III. .:„: r-p-.-rir« non pOIUCrK. Alla i Sd|.i , ('. ,[[,.,, P„r,ii lliai-n, Allibir, ree   :.b. mulinili pulì..-,; un , uno 1L1 |»>   -alia lubcLil ; omnia, quia orano' Imbuerinl, n!.im ImL-'ic >c tk.ìm' ilillUìcl. Ergo Inutile eil ci   1 jitur nciiic- in lene inciil/rct Cì'ii.i.iik'in, si :L uro    prozio, l'ali™ un si:™, [iiipcrcii'ixlii se t u.li siiacquisii re   il nitrito ili lutti ; nu iìi .-ii> iivri disponuil, In  ponile patii .!i l l'in 1. ti l'iiT.-iliT.ì. pnrcliòa quelle,  ilari coolciilo ; ni suri da meravigliarsene, quintali O.oTunuun .1 redini» esempi lohl da Caloi -, .Li .   :vl ilnjii nnn Cil, 1 Ijn .li: lllml. ijlii'i! .InNiini    I, ni jnl ililni ri- 1 1 1 jniìsil. :ml i  1 1 j I : i ilKli : llinr . MiTiliniinnnliiinis iipsWIaliir re. kciiliv  :j i- ilfiiwi ulin infili lira oralii'iii- riripilur. line,  moil.ir Kl ini mini pTodivas. H cstuiinul quoil appclliilur mcnilirniii; ili'imli' lini: fu ip'.ilur ri-nirlrl  ab illcro: Kl amici™ laf.ifli.i'. Ki iliinbu- mcni-i rripublicac consululsli, nee ;  tersi iiilemllli dliUnguunU qui (pel non mulinili  q II Oli fi miglili opere ca  .Insinuo. bM poclo: Qu :| .||-. lrCr|i;eiHili:i. lIT.TJI «'filli Subii     ssa con frasi conciso e lime unilc.Hc csia pucc  ircccliio pur la sui ropiililà e per la sua hrm  nifi, nd tempo mC'le-iiiio |i ; ulfrr.n ilei finIo prova con editarla clli clic r oratiirc In bini ili [iroiBi-r ; c dj una virili riLfiitisciiilr, fu  ippire min velili clir è iluMiiri. si cti-ella non  ossi t iiifiiì.-.r. . o lo si iwsìl ni:il:n ililSri!   Inppilo, cosi Ila liiroe.no ili jpiniiqisrs! ad un nlIro membro ; per atmfio : . K in gioviti all' brinile"; mimi mia nr.viasiiior-L-.clic si rlimrni mei:]  bro; likii-n clic rm.i.lo membro sii legalo ceni     pinvavi al l'i n imi ivi, cci ;:ri ili rodi mento all'amico,  f uni: jir.i«nJeii a U: sle.,0. s H psrlmrnle: « Ut  olla Repubblica provi ecics'.i, ni apli amici piovasi!,  ni ai nemici rfsi.K-sli. i Si ridami articolo, 0 inciso la divini ione, clic si fa di ciascuna parola por  piusc, Lenendo sospeso la fraso sino air ultimo :  per esempio: i: Culi' impelo, cui la race , coll'a^irlI, li.,.. Ili.-.-. Il, li -li ai/.erssrii. l f. parimene: r. Tu  cull'iiKiilia , Hill' tngiii ~'.ijiii. coli' autorità, colla  peritola hai lolto vii i nemici, i Tri li vecmcnio  ili qiresla fipurn, fi i[uclla .Iella prcci'tlenle ci In  ipifhla .liv.arin. f.'io .|jel]j P.i pa's- piti Unii e |iù  più rapida e più proli"  :o il pe no uà colpi spessi   cale nazioni] di paiole in  il Irarrcmo Brandissimo     limila vL-iinn ri 1 c:i..i, (j.inl iNtiii.j si (.vallile I .:  eli potrà il caso? • nella conclusione; per esempio:  : Se la fortuna puil mutlissiuw su di (| nel 11, clic LIU1I0 IV.     iuj[iu.ili: IJiiiil veiilam, igui sin], nuaro \i«HMilok',su as,L'HiiiHlnlfÌNalL:a  miwii'ra n-y.i multa ditoni.   XXII. Vi ha a Uro |H rari Olii Mio, in cui lo parole  non hanno una roti -Inlln ru-suminlianu, ni» co:iswvauii jiltò tic.j niTtii analoga Ira l.iro. E..voon       DigifizGd by Google     Ijumii le Jrai. it e >- --r-:.tare, a 11 »™ 1 * ™ sorpreso da «in si S™  III   ili ti lì     IV. ril plcriiroqiic alqueodeo micclarisl Commoiclur  lise p'.Tirrc animus audiluns. tles cniai e uni ri in ni  volili alala, liuiluinmn.lo ilicla vìdclur ; [s;1 ca,|  posi iji~ìu3 iirjlnrii carrcciioncni, magii idaoca lit  prona atialiinte. .Nim i-iiiir salini «sci, dicci di  E parimcnlc ; i Dopo clic costoro rimasero linciloh. u ramimi!) viali; pcrcioecliè cani,,  chiamerò, in lillarin quella clic è siali piti fnni-fla,   clif inalale, ias.i ai vin.imn ? «0 invidia,   f:ritrl|iii|iii;i ili-|],l lirlii, clic jier lo pili vii dil'lro ai buoni, o por meglio dire li perseguili  Per  questa Agora 1' animo del]' militi..' rimane ai^ll. >,   principio 11 locatolo migliore e più sccllof  Può  r 'ili! 1 ì er '!',!,- i- ' i . ' "'icn:io!' i ;ml V.'-.m ."-J.V .'ira li] jj .il im,>uI;c f.v.nsn =11  i 1 .-ì -  ni . .p. i  = limili inleinli™: aclioneiii, ipnic (irilargiialiir. Ilisi-jirlii.' ed, '|ii:iiii curimi, 'le |'ii!ii|i difiiii'H, ani  Dir |Ue ani imam i|iioi!-pic cerio conclmlilur   Karl lag incni silslnlil, i^ii-i. ini in il. I laris adiumcnto full; niliil Cormllnii cimlila calliilUni jirjesiilii irli".- nLliLI [- r.-j.i il ani- nicriun ri iernionis sociclos opilulaia ci: irem Koirn.f -.li _r 1 1 - 1  ani umilio, ilillo-e-cil ani \ iUj^:,i1i- iTlinimiliit-,    lue. i Ducila tipnra a mila, se a na«irri iiil-.'reisc  ili lasciar iulaiidare una cosa. 0 che nan È espodicalo ili mainare par mintili], a alle e- lunga a dire, o elio è Ignobili), o die non si può prorare , o  die e fonile 3 caidnlire ; ili maniera clic sia meglio per noi 1' nver follo nascere copi' ri a meo Le un  sojp'.'llo, clic l'jfar pTcsn a sviluppar cesa clic ve.  uir ri [insilino cannila!,'. La ili. gin ai hi ne li: luogo, allorquando o l'una o l'olirà delle uruposinnfi, flie -i e-poiia/irie , mi lineile niisamn ili e.ii  f i concinnile r.o-i un icrlio .-:i.-. :ala. pi-r .;.citipi.i;    que rein cerio verbo cucinili viilcruus. Coiiimn-lin  esl, ijuum inlf [posinone, varili ci super orli ani lindo: 1-ormac liisnilus aul morbo ikHorr-n-I nnne  Cariatine , di, lece Cornila , rovescili r'rescllc.  TViclile Ji Snnanlliii K : «infoila li- (orla ilei corpo;  ni ai r.a'lapiiie-i fu ili iiriifilln sckiir ililare; nien'C ai Corinzi In di presidio la scallrila  pnlilica ; nienle.iì Kregellani recò carnaggio la «i LA RETTOIIC.l  raralim rei ift'iidll plurali.f']i;3i-i;ir. |i|oIiI(DHji? Militale loltao rnlpac si     Digiiized by Google     Liaiio iv.     irrs Islam reni filari! :c villi l' delirimi? [k.iniliimini, i|uns lialmcrilh dcrerrsorr?; SI ni] in torum  udii* ai, le trulli- |irr.|nniiU'; il rimla 1-1ÌI115 omnium  tonai .Ir «le. Timi vouis vcnicE in niciileni. ul vere  iJk-artl, ri t liliali li ;i i.slm «iic i t maii.i inilins ill'j.  ojuncs arile nculu» vulriis Iruciiljìos «, iriiniieoj cornai vralrii suflriipii; in nmulisiim ini Inediti  [ir tu: ni ni. [lem ; .Nani ijukl Inil. indiaci, i|Uare  in .-.! ili ijuilti, rhc avc-sla rinr  iliii nitri ; poriclni dimiiiri rifili urtili [r hollt-i-ìtndilli Imo [ter voi ; c .nn,iil«r;le i[nale tiini|, tristi  indi irrlib.ro inni Allora ti tetri in mcnlò, sa  ero ™fi'.tìiT i affline, rlm voi |nr ricjlipn,;; ,i  ninnalo |.rr lill.ì li lairiHle Irimdrir.' .olii, ali o,   'Ni mslri, a rl.c rn'voiiri ?iilTrn.qi inalM.lc ai jiiii  ilislinlì moiri i nemici Ioni. ) li |ij rimai ile : a Cile   i:nr..irir .mitrimi V n In r.-;; mal v'iildn-,,c Eli ioli na iurta niidimia ri n!i;i!il« » velismo [ni i.ii.n-i-H,! „:;,!, - j mi r r r    fugil, Cmiril... ,: miserino COIMqui M' |>"-l "("ir" 1! Hn-i "l:|-mi il-' IIL' 1-1 ÌIÌ   ìH I..:ii i-n.Iru: lumina MiiUki ic, lin/ -sui ku    I1I111É T-A BEFTORICA     Cur rp;n mine Ulti qunlquam i. linciato ? Si jin.l iis  '1 EÌUb merlo vouicl.al, ci Illa Ini    ^ii.ÌMa,:iiirpi ;i hiij, 0 nimusa.irÌ5sirnu!,rorlunH ISIS ;pn ; ci pracl.'rra rimo, (pana rii cìhui- lanini is osi,  i.le n'usi rn in re Ioni. In i|ue rs ( orciaio frnla, ;  siilus , pillilo posi In ipso unilodcin vox Minia, ipii 1    "1 più proprio ail uri' aioirsiinnc. r r orcasion fa i-uremie, e opportuni-. ìtiu il luomculo dello inIrapreiiilcrc : Oil ot'ìi calcolalo atri a Inno il lemri..     E:: wsm      p«M jttr gli ™id?pcì pircmi.^ por Itili gli JSi.'SSSSS.'ZZ'Si    n ''."T'."u"n ~\ - i'vi'..".'. JXl" ,»>  Minio csi,i|iiuiii Hprtuills  difendili», hoc modo: llu     ; ci! j [iure praii'.-sa, i .in [ali.-, rain lirtvili c   ì clii.ir';i7ii.l.'clfiiiM i: l die liiKriic ilcar.u 1 le re ili aldino, prtscnlsotlo csrli irai li, clic ne 55SSSSS    .0. oh..- e ii dico pMn„ nr oHcdil» die il .110 pi  ^ss    <li«:fnre. Oli ialiti : K.i Jìmi^iIjII.: i-imiMis -hidi.iln uralulii [imi.st in medium Ioli        jr,i™cni a U S ÌMu t ,rr,',ió , m' l0 1 ;o^ Si^h™  Ji f =„l„li,,(MÌi un l,„:l,.IOJ.: . n .li mi» -|n..|K ; i:i  1.1:.'. 'i.i U.Ji.'-L ' .ni' :'i...l.-i .1 i" ni..   no. Cinqui empiii arami »nt lui lo ^uiva     lalign™, non reliquil. l'.-r ™bi 8 uum , q,,um   .1 ili ; in ili: i.u si ilicas , qui mulini liereuluilis.  ni. mi : l'rojiiiM In, qui (ilurimuni «anis. -in., in Il luni |.„i,i„lii ,cHj, |[jqc cior   iialin | -1 li rim |n.,..tel mi ci tonimi.     bj.l, r ruJliir:irttii iIilvkKi. ihlì' <li*Lcnili:   il bracciu, c l Gtri.i.i, clic ''ir dubiln ili ciò i lir   i, e pur non nlibunkiu il preso posto , pianla il i ìiLlTimia Ali MIKKMU. DELLA aoi, INVENZIONE RETTORICA   TRADOTTI   DALL’ AD. TOMMASINI  NAPOLI   Presso MORELLI Editore  Strida S. Sebastiano n. SI. Asserisce Tullio ( De Orai. , sul line) che nei tempi anteriori a lui nessun  buono oratore si era trovato per islagione lunghissima, e solo di tollerabili appena uno per  ugni gran periodo di tempo. Eppure si nella Grecia e si in Roma per insino dalla fondazione di quello repubbliche le concioni e il diritto parlamentare a lutti concesso davano  agio e opportunità agl'ingegni di mettere in azione quanto aveano dalla natura e dallo studio, e di salire con l'esercizio e la pratica all'eccellenza nell'arte del dire. 1 fatti stupendi  e vnrii di cui essi erano attori, le congiunture di malagevole scioglimento nate dagli attriti  della politica, dalle tentazioni dell'orgoglio, dai pericoli delle guerre continue, domandavano dalla parola pubblica i provvedimenti clic ai nostri tempi son la più parte il còmpito  esclusivo della misteriosa burocrazia. Gli uomini che pei grandi talenti politici aveano primaria autorità di parere, nelle concioni volevano necessariamente essere oratori. Era questo un dovere della loro eccellenza, c d’altra parte un bisogno dello Stato. Gli effetti anzi  dimostrano che essi sapevano in qualche modo ottenere i fini oralorii, e che erano stiflìcienti alle circostanze, e a quel grado d'inlciligcnza c di civiltà in cui s'attrovavano gli uditori. Laonde l’osservazione che fa Tullio non viene altro a dire, se non che la natura andò  sempre molto ristretta in formare ingegni di tanta potenza, che fossero capaci di mettere  nel più grande rilievo i dettami o i suggerimenti di lei, c scolpirli, dirò cosi, nella straordinarietà degli effetti prodotti dalla loro parola, tanto che i venuti dappoi avessero modo  di convertire quei dettami e quei suggerimenti della natura in altrettante regole di effetto  indubitato. In una parola, non vuol dir Tullio se non che furono rarissimi gli oratori clic  sapessero mostrare nei loro ragionari una cosi magistrale disposizione di pensieri e di parole da servire di sicura guida a chi avesse poi voluto raggiungere il vero scopo dell'oratoria. Non fu dunque causa di tanta scarsezza di veri oratori là mancanza di precetti elementari, poiché questi si sono compilali a poco a poco, riducendo a norma e canone i modi  di certo effetto seguili dai migliori, i quali modi separali in ispecie, formarono quel corpo  d'insegnamenti che costituisce l'arte di fare un'orazione. Anche dell'oratoria avvenne ciò che  di tulle le altre arti : le regole furono posteriori ; si son nobili gli effetti, e si ridusse a precotto la causa che li produsse: la prima maestra fu sempre la natura, e i mezzi con che essa  porse i suoi insegnamenti furono gl’ingegni modelli ed esemplari ch'cssa ha crealo di tempo  in tempo. Giova qui a maggiore chiarezza c conferma di ciò che ò detlo allegare quel luogo  di Quintiliano che si Irovn nel lib. V. cap. 10, verso il line: « Non è già che dall’essersi  date le regole ne sia venuto che si trovassero gli argomenti; ma si usò anzi ogni maniera  di argomenti prima che se ne desser le regole : dipoi gli scrittori ne fecero le osservazioni,  ic misero insieme, e le pubblicarono. Una prora di ciò che io dico si è, che gii esempii  che recano son ludi presi dagli oratori antichi: essi non ne adducono veruno di nuovo, e  che non fosse adoperalo prima di loro. Laonde gli autori dell'arle sono stati gli oratori.  Dubbimnu però saper grado altresì a quelli che ci hanno diminuita la fatica. Perocché ciò che i primi, mercè il loro ingegno, inventarono a poco a poco, noi non l'abbiamo più a ricercare, essendoci oggimai conosciuto. Questo però non basta ancora, come non basta per  esser atleta l'aver apparala la ginnastica, se il corpo non sari aiutalo daH'cscrcizio, dalla  continenza, da un buon nutrimento, e soprattutto dalla natura ; siccome dall’altro canto  neppur questi vantaggi gioveranno gran fatto senza l’aiuto dell'arto, n   Non si vuol perciò credere clic i soli precetti abbiano la forza di condurre alla debita perfezione un oratore. Ogni arte ha i suoi priucipii elementari, le sue regole da dover seguire, chi vuole in essa acquistar attitudine a .maneggiarla; ma non lutti quelli che ad essa si  applicano vi acquistan lo stesso grado di desterilii. Le regole in un’arto sono come altrettante fila gettate qua e là nelle diverse sue parli ; ma gl'ingegni comuni non arrivano a impadronirsi di tulio il complesso c la collezione di queste fila : so l’arte è di specie un po’rilevala bisognano ingegni superiori ai comuni per venire a quell'inlicro possesso. La ragione adunque perchè, a dello di Tullio, furono rari i veri oratori anche dopo la collezione dei  precetti, si è perchè nel trattarli, nell'applicarli, v'ha di bisogno una capacità riservata unicamente all'ingegno umano, il quale dee saper discernere non solo la forza enlrinseca di  ciascun precetto, ma il modo e la varietà con che ne dee far uso. perchè le circostanze diverse domandano una diversa applicazione del precetto istesso ; e l'effetio non dipende dalla materiale collocazione di una regola, ma dalia opportunità di tale collocazione: anzi farebbe danno al suo ragionare chi non facesse apparire che la propria servilità alle regole,  mentre l'arte ci dee stare nascosta e sfuggire, per cosi esprimere, fin anche all’indagine  dell'uditore. Senza dubbio l’arte è un aiuto, ma l’arte sola non farà mai un oratore. Ci bisogna un’nttiludino naturale, una visiva acuta per vedere le vie che menano al vero effetto,  una ferliliià di espedienti per sopperire ai casi in cui l’arte è monca o inetta, una, sto per  dire, inesauribile sorgente di concetti e d’idee da adoperare all'uopo, una profonda conoscenza dell’indole di ogni circostanza per commisurarvi il ragionamento e rendervelo adatto, e soprattutto una vasta cognizione del cuore umano, di tutti i suoi penetrali e latibuli,  di tutte le fonti delle sue affezioni, e di quegli intrighi ed inganni onde il cuore sfugge sovente al contatto di chi lo tocca e lo lenta.   Certo una voce così vittoriosa che pieghi a sè la renitenza delle opinioni contrarie e lo  assimili alla propria; che tragga irresistibilmente altri alla convinzione di avere stortamente pensato; che svegli idee nuove e troppo più salutari di quelle che s’erano concepite in  generale; clic conduca ad assolvere o a condannare a dispetto delle presunzioni contrarie;  che svegli l’ainmirazione per un individuo stimato fino allora abbietto, o la compassione  per chi ha il dosso curvo dal gran fascio delle sue scelleraggini; che induca un popolo intiero a intraprendere una guerra che domanda lo sue sostanze e la sua vita; che faccia alle  parti aspiranti a una indulgenza o a un privilegio applaudire la parola che toglie loro ogni  speranza, ed opera anzi la loro sconfitta, cosi leggo in Plutarco esser avvenuto, per l'orazione di Tullio, ai tigli dei proscritli; che insomma abbia in suo potere il maraviglioso secreto di dominare gli animi , come la legge domina sullo masse . come il signore padroneggia sullo schiavo; questa voce 6 come un miracolo che non si può sentire se non sommamente di raro. Che se tanto pochi, come accenna Tullio, furono gli oratori nei tempi in  cui si può dire che l'interpretazione delle leggi c le misuro di governo risiedevano nella  parola degli oratori, e ch’essi erano la molla più ordinaria del congegno politico, non è  maraviglia che neppure ai tempi nostri non v’abbia oratori, quando l'uflìcio della parola è  rivolto a ben altri usi. Infatti quell'oratoria che è rimasta in retaggio ai causidici odierni è  inceppata da'molli rilegni impostile dalla nalura e dalla costituzione dei governi assoluti (1),  per cui n’è messa mai sempre in cesso la parte amplissima che riguarda il sindacato degli stessi atti governativi e le immense complicazioni della politica; parte clic negli stati  liberi, come erano le repubbliche antiche colle loro concioni ed assemblee, offeriva infiniti  temi all'arte oratoria, poiché il negozio pubblico era per ciascuno come un negozio di casa,  e per ogni capacità una continua occasiono d'incremento e di maggiore sviluppo. Di più Ut  molliplicilà delle leggi, per cui ogni azione ha, si può dire, un precetto che la previene,  e una sentenza anticipatamente pronunziata, non permettono all’oratore di condurre con  la potenza del proprio ingegno nè uditori nò giudici a cavar dal proprio cuore quelle miserevoli transazioni, quelle indulgenze eccezionali che l'umanità le tante volle facca sostituire alla severità dello leggi : e per verità poleano le leggi meno parlicolarizzale essere L' Autore di questa Prefazione scrive a Venezia, sodo il regime Austriaco.  meno inflessibili. S'arrogc il manco della pubblicità, salvo in argomenti criminali presso alcuni Stati, la quale è il più potente incentivo allo studio e alla diligenza del dicitore che  sa d'avere in ogni ascoltante un giudice che non sentenzia sulla causa, ma sulle sue stesse parole; e in One un esercizio di professione clic aspira a lucro, non ad clogii, non a discorsi ricisi e percntorii, ma a stancheggi c lungherie per tranghiollire più a dilungo le  propine e le strenne dei clienti ; son tutte cose che s'oppongono allo sviluppo, agl'incrementi, alla perfezione deU'ufflcio oratorio.   Ci sono, è vero, dei governi che hanno assemblee parlamentari : ma gli oratori che più  vi splendono son uomini di circostanza, non addetti esclusivamente all'oratoria, lalorn obbligati dal Umore o dalla adulazione a falseggiare per insino i proprii convincimenti, e andare alle seconde del potere o geloso di piaccnleria o troppo sensibile nel sentirsi urlare ; talora scuorati dalla certezza che le loro parole non sono tenute se non per un assaggio di prevenzioni individuali, e non come seniori e parli compendiose della opinione pubblica c dei reclami mossi dai bisogni comuni. Insomma nello stato presente delle società,  nel moto meccanico e puramente macchinale delle aziende govemaUve, nella passività delle forti passioni che non hanno nessun campo in che poter agire, gii oratori, nun dirò i  sommi, ma neppure i mediocri non sono generalmente possibili. Non parlo dell'oratoria  sacra, perchè essa ha delle specialità, che non si vogliono confondere colle forme delle  trattazioni civili, benché sieno le stesso fonU degli argomenti e le partizioni generali in  che vuol esser diviso un discorso; quantunque dai Padri in fuori, se si eccettuano pochi  ingegni brillanti della Francia nell'andato secolo, non ha troppo di che lodarsi questa specie di oratoria nella nostra Italia. Dico bensì, che qualunque ne sia la causa, che già facilmente si trova giustificabile, se il detto di Tullio era una verità rispetto ai suoi tempi c  a quelli che lo precessero, non lo è meno rispetto ai tempi moderni.   Ma per tornare agli antichi, molli, fino dalle età dei Greci, trovando troppo arduo il poter venire perfetti oratori, si gettavano nella via più facile, lasciando l'opera del sentimento e della immaginazione per abbracciar una speculativa più materiale, e si fecero a compilare ed apprendere altrui i precetti c le regole, sfiorate dalle orazioni dei migliori. Questi precetti, per quanto avviso, non furono sin da principio che masse informi di regole,  senza una certa distinzione di quelle che spettano all’oratoria da quelle che si riferiscono  alla trattazione degli argomenti filosofici. E tuttoché Aristotele, con quella sovrana maestria  con che svolse tanta parte dello scibile, sia stato forse il primo che divise e fissò con una  cotale ragionevolezza le leggi dell'oratoria, pure non potè fare che cavasse di ogni pastoia  quel suu sistema, e clic i posteri non mettessero in questione le varie specie dei precetti  spettanti quest'arte, volendo ciascuno, come addiviene in lutto, che la propria maniera di  vedere le cose dovesse divenire il modello al vedere di ogni altro. Tullio per non lasciare  l’Italia sprovvista di questo genere di disciplina, mentre la Grecia ne aveva già abbondanza, e perchè l'azione continua del Foro bisognava di questi sussidii artiflziali, c forse ancora perchè vedesse non ben chiarita dai più antichi di lui si fatta trattazione, pigliò a farne pur esso questo opuscolo ; e certo con più ragione di ogni altro si mise a riprendere  certe distinzioni fatte dagli antichi, come si pare dal primo libro, cap. 6, dove scardassa  bene Ennagoni circa il suo dividere la materia oratoria, dopo di aver già disapprovato la  estensione quasi infinita clic attribuisce Gorgia Lconlino a questa materia.   Nella presente operetta non tanto intende Tullio di svolgere le norme, dietro cui dee  una orazione esser condotta, e di metter quasi sottocchio l'ossatura e il tessuto intrinseco  del lavoro, quanto di facilitare la invenzione degli argomenti necessarii ad ogni genere di  causa. Ei tocca di passo la prima bozza della tela , o macchia , come dicono i pittori , ma  il più che si occupa è dello impasto de’ colori per andar su col pennello allo sgrossato, c  di rilevarne le tinte, e il vaneggiar della pannalura, finché si venga a compimento la dipintura intiera. Avvegnaché però ei si frammetta specialmente delle orazioni spettanti al  Foro, non lascia pur di essere a un tratto maestro d‘ invenzione per ogni genere di diceria  privata ; poiché siccome i fini generali di ogni ragionamento deono essere, persuadere ,  commuovere, dilettare, cosi tutti i ragionamenti cho si riferiscono alfintellello perchè pieghi a convinzione, al cuore perchè metta in attività i suoi affetti, al sentimento perchè riceva sensazioni dilettevoli c soavizzate, polcano fornirsi, mediante le regole di questa invenzione oratoria, di argomenti che avessero identità o che tenessero analogia con quelli  che son qui porli specialmente a materia delle orazioni forensi.   Non si vuol però lasciar ili ammonire clic questi due libri non son un trattalo formate clic  nulla ci lasci a desiderare, mentre anzi è meno perfetta e lucubrala che altre opere di Tnl   iogle lio in quello genere. Egli non fece clic un Commentario nella sua prima gioventù , come  usava fare di alcune sue orazioni e brani di esse, cioè dire un compendio, in cui scrivacchiava le cose che prime gli venivano in mente, senza porvi troppa pulitura , o per usufrultare qualche ora di scioperio, o per avere in serbo ciò che a tempo più opportuno avrebbe disteso e ordinalo pensatamente c con accuratezza. In prova piace recar qui le testimonianze di Quintiliano, il quale per essere un devoto passionalo di Tullio non può dar sospetto di esagerare a carico di esso. Dice questo autore nel lib. ni, cap. S, delle Istituzioni : 6 Cicerone pretende che la lesi non s’appartenga punto all'oratore, e assegna ai filosofi  questa specie di questione. Ma egli mi ha risparmiato il rossore di confutarlo, disapprovando egli stesso i libri ove parla cosi (ciò sono questi due della Invenzione retorica ), e  raccomandandoci nell'Oratore e nella Topica che allontaniamo la disputa dalle particola riti  delle persone c dei tempi ». E nei cap. 6: « M. Tullio non ebbe difficoltà di condannare  egli stesso alcuni suoi libri già pubblicati, come il suo Catulo, il suo Lucullo, e questi stessi libri Retorici... con iscriverne altri dappoi. Infatti sarebbe superfluo affaticarsi tanto negli sludii, se non fosse permesso d'inventar cose migliori delle inventate prima ». Ma ciò  che dà a divedere più lucidamente la vera qualità di questa operetta è ciò che aggiunge lo  stesso autore nel citato cap. fi. « Non ine ignoto che da Cicerone nel primo libro della sua  Itetorica s’interpreta in altra maniera il punto negoziale, trovandovisi scritto cosi : La specie negoziale ò quella che concerne le questioni di diritto che si decidono secondo l'usanza civile e l'equità : al qual impiego presso di noi, come si stima, presiedono i giureconsulti. Ma qual giudicio abbia fatto egli stesso di questo libro l’ho detto di sopra. Perciocché  sono come una specie di Commcnlurii, in cui registrato avea tutto ciò che in sua giovinezza venitegli appreso nelle scuole ; e però se vi ha qualche errore, hassi ad imputare al maestro ; o il movesse a così scrivere il vedere che Erntagora a questo proposito citò in primo  luogo osempii tratti dalle questioni di diritto ; o il vedere che i Greci chiamano grammatici  gl'interpreti della legge. Ma nondimeno Cicerone a questi sostituì i bellissimi libri dell'Oratore ; e però non può essere accusato di avere dati falsi precetti ».   Nelle edizioni questa operetta è comunemente intitolata De Arie Rhetoriea, eccello alcuna che ha queste sole parole, De Invenzione, tenute anche dalla edizione di Venezia. Nò  mancò da chi fosse appellala Ars velus. 11 titolo da noi qui apposto è il più vero, perchò ò  indubitato che qui son porli precetti retorici, ma che in ispeciattà son tocchi quelli che risguardano la Invenzione, cioè dire il trovar il vero aspetto sotto cui vuoisi riguardare ogni  causa, perchè non si pigli errore nel dare o negar importanza ai punti che ne sono o non  ne sono i precipui ; il trovare gli argomenti opportuni dalle fonti che li somministrano ; l’cscogilare i varii arliflzii che si vogliono porre in opera perchè resti più energicamente convalidata la ragione dell’oratore, o sia tratto il torlo islesso ad avere apparenza di ragiono, c  di verità : il trarre dalle circostanze del fallo che si agita la forza necessaria per dipingerne  con adatti colori o l'atrocità, se si accusa, o le mitigazioni clic lo rendano giustificabile, se  mai se ne piglia la difesa; infine ('amplificare i motivi clic possano trarre gli ascoltanti c i  giudici a severa sentenza o a indulgente compassione. Conviene però osservare che in questi due libri non c fatto mai molto nè della collocazione delle parti costituenti l’intiera aringa, nè dell'ordine che debbono tenere le unc rispetto nllu altre, nè della pronunzia, nè di  altre cose che bisognano a una trattazione completa : il che lascia supporre che questi due  libri non sieno propriamente il quanto scrisse Tullio sulla Invenzione retorica, ma solo una  parte di trattazione più estesa. Queste osservazioni stesse indussero i dotti a sospettare che  i libri di quest'opera potessero esser quattro, se si considcran dalle materie trattate quelle  altre che reslerieno da trattare. Fra gli altri difende questo asserto il Yossio (de Nat. lthel.  cap. 13). Nè punto è da dire che sia questa una congettura avventata, poiché Tullio stesso  le somministra in favore un argomento di gran forza. Egli infatti chiude il libro 11 con queste parole: Quare, quoniam et una pars ad exilnm hunc ab superiore libro perducla  est, et liic liber non panini conlinel litterarum, qua e restarli in reliquie dicemus. E  siccome nelle altre opere appartenenti alla oratoria Tullio non traila exprofesso della Invenzione, cosi ciò ch'egli accenna restar da dire sopra la stessa materia, si dee necessariamente credere che esistesse in altri libri susseguenti a questi, ma che il tempo ha lasciali  perire.   Per antico quasi tutti i dotti clic trattarono di queste opere attribuirono costantemente  a Tullio i libri dal loro autore dedicati ad Erennio, i quali trattano la stessa materia. (Hu  oggi per ragioni solidissime si disdice questo possesso a Tullio. Gli antichi furono senza  dubbio traili in errore dal vedere una grande uniformità nei precetti e negli esempii citali dall'uno e dall'altro autore, c ncITnccordarsi elio fanno presso che in ogni cosa, ila non fu  osservato che si Comincio come Cicerone si tennero strettamente ad Erinagom, e che la  comunanza dcU’anlico maestro fece dir all uno ciò che disse anche l’altro. Sarebbe assurdo  attribuire a Tullio un’altra opera dello stesso genere, in cui non avesse fatto atiro clic ripetere quello che avea già dello prima.   Se poi si riguarda quest' opera dal lato della utilità ch’essa può prestare all’oratoria dei  nostri tempi, convien confessare che quanto essa può recarci buon servigio nell’insieme e  nella generaldà delle regole, altrettanto ò poco acconcia a certi casi clic pigliano la loro  qualità dai costumi c dalle leggi dei nostri secoli 11 Crisliane-imo, che con la sua spiritualità, ignota agli antichi, si è l’alto guida invariabile a lutti i sentimenti deU'uomo, ha lasciato trapelare le sue ispirazioni in tutte le leggi, ha impresso nei rapporti sociali principii  inconcussi di sapienza o di verità, lui spiegalo agli uomini il segreto dei loro destini, c lo  scopo verace della lor vita, la quale i gentili credevano gcitala dal caso nel mondo delle  esistenze perchè passasse come quegli allori leatrici che si lascian vedere al pubblico traversare la scena per non più comparire, o perchè risorgesse a una immortalità fantastica,  suggerita dalla non dubbia convenienza ili un'ultra vita. Ha impresso il suo marchio divino nella religione, ncll’oiiorc, nella pietà, in tulle insomma le virtù clic erano sanzionate  dalla convenzione e dalla esperienza dei secoli. Di che è venuto un cssenzial mutamento  in quel giure comune clic istituisce le relazioni più necessarie fra nazione c nazione, come  in quei giure privato che lega fra loro i rapporti che passano tra individuo c individuo. È  dunque incompatibile con le idee dei tempi nostri lo ascrivere Tullio (lib li, cap. 22) la  vendetta, come ascrive la religione c la pietà, fra i diritti naturali, mentre la giurisprudenza presente come per amore del Crisi ancsimo trova meglio dominante nella pietà c nella  religione il diritto divino, che imprime alle azioni una ben diversa gravità da quella clic  imprimeva loro questo diritto medesimo consideralo per naturale, attesoché rispetto alla  religione c alla pietà avevano i gentili idee assai ristrette; troia essa giurisprudenza anche  dominante il diritto fraterno che riprova la vendetta come contraria a quei precetto della  natura, che comanda il fare o il non fare ciò che a noi stessi vorremmo fatto o non fatto,  perchè t’individuo non è un essere solitario o spiccato dalla società, ma un fratello, un  membro, una parte della grande famiglia umana. Nò questo è da dire di ciò solo, ma di  quanto altro ha ricevuto dal Cristianesimo una impronta diversa da quella che gli aveva  stampata l'antichità. È perciò quest' opera uno di que’ monumenti antichi, a cui s’inchinano per riverenza le età clic gli passano innanzi, e da cui ricopiano le singole parti come  bellezze confacenti ancora al loro gusto, ma il cui insieme non risponderebbe appunto al  genio e al costume che le domina. Inoltre l'antico diritto civile mollo diverso dal presente, perchè diversa la costituzione politica degli Stati: la forma del governo libero troppo  lontana dal governo assoluto dei nostri secoli ; le formalità dei tribunali c ilei giudici clic  hanno ricevuto dal tempo essenziali mutazioni, son cose che non rendono in lutto acconcia  alle nostre cause questa Ciceroniana trattazione, quantunque, siccome è dello di qui a dietro, non lasci di presentar un certo utile nelle parli del suo insieme e nella generatila dei  precedi che vi si trovano abbondantemente radunali.   Anche qucslo, come gli altri testi Lalini, andò soggetto a varietà nella lezione : il clic non  dee far maraviglia mentre al tempo di Tullio stesso e viverne lui avvenivano nc' suoi scribi,  non altrimenti clic in quelli degli altri, delle non piccole mutaz oni: di che si lagna Tullio nel terzo delle lettere in una diretta a Quinto suo fratello, che è di quel libro la 5."  Pietro Vittori esaminò attentamente i codici Fiorentini , c riuscì a dar questa operetta  più emendata che non lo fu da due secoli addietro: talché il Grevio parlando ili lui ,  nella Prof. alle Epistole di Tullio, ilice che Cicerone dee più al solo Vittori clic a tulli  gli altri clic si occuparono di emendarlo, poiché gli al ri gli guarirono qualche piaga .  ma il Vittori lo ridonò a buona salute. Paolo Manuzio aiutato da codici , ili Venezia  specialmente, fece anch’ egli qualche prò a questa opcrctla dopo il Vittori, ma non con  plauso eguale, perchè non fu fedele come quello. Ed eziandio che dica il Muralo esser  dubbio se sia più debilorc il Manuzio a Cicerone, o se Cicerone al Manuzio, tuliavin non  mancano parecchie fra gli altri Enrico Stefano, Psc udne. p 59, che lo accusano ili audacia troppo pericolosa l'iù audace è nondimeno Dionisio bambino, il quale stampò Cicerone trentanni dopo il Vittori, aiutato dai copiosissimi lesti delle biblioteche Parigine: ma  ebbe spesso la pecca di preferire il proprio giudici» alla autorità e al consenso di quei testi rinomatissimi. Laonde dice di lui il Muralo, Var. Lcz. xvm, 7, clcrgli non correggeva  già gli errori de' librai, ma correggeva Cicerone stesso, quando gli sembrava che avesse piu'.kazium: ({ualclie uscurilù. Tuttavia aveva il Lambino somma acutezza (l'ingegno, talché scopriva o  subodorava ciò che era sfuggilo agli altri; ina il suo stesso acume lo portava talvolta ad essere audace. Finalmente Ciano Crutcro avule alle mani quante copie di opere Ciceroniane  si trovavano nelle biblioteche Belgiche, e poi oltre a dugcnlo manoscritti della Palatina,  sudando fra lami codici fino all'eccesso, pubblicò le onere Ciceroniane in modo, come attesta egli slcsso nella Prefazione, da contar più di mille luoghi illustrali, corretti, accresciuti. li vero clic questa asserzione perde mollo in bocca del Crutcro, ma non si può negare che ne sia insigne il suo inerito. Corre il dello fra i critici, che mollo maggior bene  saria venuto a Cicerone se il Lambino avesse avuto alle mani alquanti dei codici clic ebbe  il Crulcro, poiché il Lambino sarebbe stato più divolo alle membrane antiche, c Crutcro  lo sarebbe stato queU'uii po’ meno clic gli bisognava, tn quanto alla presente versione io  non mi sono che di raro valuto delle varianti, avendo fallo uso di una edizione di Lipsia,  pubblicala nel 1831 con piena c curala esattezza. Discorre Tullio dello utilità dello eloquenza, del suo principio, progresso, abuso, aladio, e dell' orlo die h.; j suoi precetti proprii.   Quale sio l’unicio della eloquenza, il fine, la materia, le porli.   Della Invenzione che n è la parte più precipua, c quale debba essere In ogni cosliluzionc di causa si congetturale, si  definitiva, si generale.   Dell’esordio, narrazione, partizione, confermazione, confutazione, e delle varie specie di tulle queste partì dell’ orazione, delle parti secondarie, dell’efficacia c dei diletti loro.  Seppe et mulliim liocinccum cogitavi, bolline  i,n inali plus altulcril hominibus el drilalilius copia dicendi ac sumimim cloquenliac sludium. Nani  quum et noslrac rei piiblicuc delrimcnla considero, et nuiiimarum civituium velercs animo calamilales colligo, non minimam video per discrllssimos liomines invecbtm parlcm incommodorunt ;  quum autem res ab nostra memoria propler vcluslalem rcmolas ex lillerarum monumenlis repeterc insilino, rnullas urbes consliluias, plurima bella  rcslincla, (irmissimas socictales, sanclissimas amicilias inlelligo quum animi ralioiic tum facilius eloqucntia comparalas. Ac me quidem diu cogitanIcm su pioti tinnì sinc cloquentia parimi prodessp  civilatibus,eloquenliam vero ainesapienlia nimium  obesse pleriimque, prodesso numquam. Quare si  quis, omissis rcctissimis atquc lioncstissimis sludiis raiionis et ollicii, consumi! omnem operato in  eicrcilalionc dicendi, is inulilis sibi, pcrnicinsns  palrioc civis alilur ; qui vero ila sete armateloquenlia ut non oppugnare conimnda palriae, sed  prò bis propugnare possil, is milii tir et suis et  publicis raliouibus utiussimus atquc amicissimus civis Ture vidclur.Ntc si volumus huius rei,  quac vocalur cloquentia, site arlis, sivc sludii,  sire cicrcilalionis cuiusdam, sivc facultatis ab natura profcclac considerare principitim,repcricmus Spesso edi vantaggio andai meco esaminando  se un saper fare molle parole, c uno studio assai  grande dell - eloquenza recasse più di bene ovvero  di male agli uoiu ni ed alle città. Quando io considero la nostra repubblica venula in peggio, e richiamo al "disierò le ani che miserie di cillà cospicue, io vi troru già inlrndotla non piccola parlo  di pregiudizio c di danno appunto da uomini della  più alla capacitò di ragionare. Che se per conira  io piglio a esaminare i monumenti lellerarii della  amichila, e vi riandò i falli lontani dalla nostra  memoria, io ci ravtiso non solo per disposizione  di animo, ma mollo più col mezzo della eloquenza  fondale molle cillà, cslintc assai guerre, slrelle  società saldissime, c amicizie le più sacre c inviolale. E già mentre io buona pezza me no sio sopra  pensiero, mi (rovo condono dalla ragione stessa a  giudicare clic la sapienza scompagnala da cloquenle linguaggio poco profilta alle cillà, laddove il  linguaggio eloquente scompagnalo dalla sapienza  può nuocer loro le più volle, giovare non mai. Il  perebì quando bene alcuno, lascialo slarc lo studio sommamente buono e onoralo della dirittura  c del dovere, consumasse lulla l'opera sua in esercitarsi a perorare, coslui diverr. hbc un cittadino  siccome inutile a sè slesso, cosi offendetele c funesto alla patria; mentre olii si orma della cloqucn  ili ex honcstissiniis causi: naliim, alque optimi:  ralionibus profcclum. Nani tuli quoddain tempii:, quiim in agris  lioinincs passim bcslmrum more vagabsntur, el  sibi victu toro vilamprnpagabanl.ncc ralionc animi  quidquam, seti pleraque viribus corporis adirimislrabanl ; nominili divinac rcligionis, non Immani  oflicii raiio colebatnr, nomo nuptias viileral leghimas; nouccrlosquisquom inspcieral libcros;non,  ius acquabilc quid utililatis haberct, accepcrat. Ila  proplcr errorem alque inscientiam cacca oc temeraria dorninalris animi cupidità» ad se czplcndam  viribus corporis abulcbatur, perniciosissimis s ite! litibus. Quo tempore quidam, magnus vidclicel  vir et sapiens, cognovit quae matcries et quanta  ad maximas res opportunità: in animi: incsset homimmi, si quis cani posse! elicere et praecipiendo  mcliorem redderc; qui dispersos hominos in agris t in tectis silveslribus abdilos ralione quadarn  compulit unum in locum et congregavi!, el cos in  imam qnamque rem inducens ulilem alque lioncslam, primo propler insolcntiom reclamantcs.deinsa eloquenza ridondano a uno stato di molli beni, purché la si accompagni con la sapienza che  modera ogni rosa; da essa deriva a quelli clic lo  possedono c lode, c onore, c dignità; da essa gli  amici altresì di chi n'ha Tatto acquisto guadagnano giovamento il più certo c il più sicuro. E tuttoché per più versi gli uomini sieno mollo degradali per debolezza c viltà, pure più che per altro  per la dote ch’essi hanno della parola vanno at di  sopra delle bestie. Ondechè mi pare aver fatto un  acquisto assai ragguardevole edui clic per la stessa cosa onde sopra le bestie si vantaggia, per quella si vantaggia sopra gli stessi uomini. Ora, se ciò  non pure si Ta col mezzo della natura e dell'esercitazione, ma eziandio si ottiene con un colale artifizio. non i fuor di proposito che ci mettiamo a  sapere clic uc dicano quelli, i quali di artifizio sifTaito ci hanno lasciati dei precetti. Però innanzi  clic tocchiamo i precetti dell'oratoria, s'ha a dire  della essenza di qucsl’arle, dcll’uflb.io, del fine,  della materia, delle parti. Conosciute queste cose, potrà ognuno più agevolmente c con più speditezza porsi a considerare il magistero e l’andamento dell’arte stessa. V'ha una scienza civile che si compone di  elementi molti e di mollo rilievo, lino ben grande c vasto è l’eloquenza artificiale, che si noma  retorica. Io non mi consento insieme con coloro  clic stimano la scienza civile non aver uopo di eloquenza, ma sono altresì assai lungi dal pensare  come quegli altri che fanno essa scienza consistere tutta nella potenza e nell' artifizio del retore,  lo fo ragione essere la facobà oratoria di tal genere, da doverla dire una parte della scienza c vile, n politica. Quanto è all’ufllcio di essa facol liane, lnter olìlcium el linoni hoc inlercsl, quoti  in oOlcio, quid Iteri, in line, quid ofllcio convcnial, considcralur. Ut medici offlcium dicinius esse  curare ad sanandum apposite, lìnem sanare curalione ; ilein oratori: quid ofltcium et quid linem  esse dicamus, ìnlclligcmus, quum id, quod Tacere  debet, ofltcium esse dicemus ; illud cuius causa  Tacere debel, lìnem apoellabimus. ilaleriam arlis  cam dicitnus, in qua omnis ars et ea Tacultas, quac  conflcitur ex arte, vcrsalur. Ut si medicinac malcriam dicamus morbos ac vulnera, quod in bis omnis medicina versclur; item, quibus in rebus versatur arse! Tacultas oratoria, casres materiam arlis rhetoricacnominamus. Has aulem res alii piures, alii pauciores eiistimarunt.Nam Gorgia: Leonlious, anliquissimus Tcrc rhetor, omnibus de rebus oratorem oplime posse dicerc existimavit. llic  inlìnitam ctimmensam huip artificio materiam subiicerc tidelur. Arislolcles autem, qui Imic arti  plurima adiumenta alque ornamenta subininislravil, tribù: in generibus rcrum versari rhetoris offteium putavil, demonstratito, deliberativo, iudi.  ciati. Itcmouslrativum est, quod Iribuilur in ali*  cuius ceilae personae laudem aut vituperalioncm;  deliberalivum, quod posilum in disceplatione citili habet in se senlenliac diciionem ; iudiciale,  quod posilum in iudicio habet in se acctisalionem  cl dcTensionem, aut pclilionem et recusalionem.  El quemadmodum nostra t|uidem Tori opini», oratori» ars et Tacultas in hac materia tripartita versori existimamla est. Vani Ilcrmagoras quidcui nccquid dica! attendere, noe quid polliceatur inlctligere videlur,  qui oratori: materiam in causani eliti quacstioncni  dividal. Causam esse dicil rem, quac balieat in se  eon! roveri iam indicendo posilamcum personarnm  ccrlarum inlerpositione; quatti nos quoque oratori  dicimus esse altribiitam. Matn tresci parles, quas  ante diximiis, supponimus, iudicialcm, deliberativam, demonstrativam. Quacstioncni autem cani  appellai, quae habeal in se controversiam in dicendo posilam sinc cerlarum personarum inlerpositione , ad butte modum : Ecquid sit bonum  praeter honestalem. Verme sinl scnsus? Quac sit  mundi Torma ? Quac sit solis magnitudo ? Quas  qtiacslione5 pronti ali oratori: olticio remota: Tacile timnos inlelligerc eiisliiuamus. Mani quibus  in rebus stimma ingcnia philosoplioruni plurimo  cum labore consumpla intelligimus, cas sicul alì   lè, queslo a mio avviso consiste nel discorrere in  guisa adalla a persuadere, come it (ine consiste  nel persuadere col mezzo del discorrere. Dall’uT  flcio al fine v'ì queslo divario, clic nell' ufficio si  considera ciò che sia da Tirsi, e nel line ciò che  all'ufficio convenga Tare. A quel tnodu che noi d damo esser ufficio del medico Tar cura di modo  approprialo a risanare, c il fine essere il risanare  col mezzo della cura; allo stesso modo intenderemo che sia l'ufficio c clic il line dell'oratore, quando si dirà 1* ufficio dell' oratore essere il Tare  ciò che dee, c il line essere ciò per che dee Tare,  materia dell' arte io appello quella , intorno a  clic l'arte tutta s’aggira, come ancora la facoltà  che dall'arte si deriva. Diciamo maleria della medicina le malattie e le Tcrilc, però che la medicina  si volge tutta intorno a queste: ebbene, allo slessn  modo diciamo materia dell' arte retorica quelle  lutte cose, intorno a cui si volge l'arte c la faco’tà oratoria. Or queslo cose chi le Ta molte, c citi  le riduce a podio. Gorgia l.contino, clic dei relori  Tu uno de'più antichi, pensava che l’oratore può  ragionar oli imamente di ogni cosa; ond'egli assegna a questo artifizio una materia smisurala e senza termine. Per contra, secondo Aristotele, il quale a qucst'arlc somministri di molti ornamenti ed  approvecci, l'ufficio del retore si avvolge intorno  a tre maniere di trattazione, alla dimostrativa, alla  deliberativa, alla giudiciale. La dimostrativa si  adopera al lodare ^biasimarsi di una determinala  persona; la deliberativa risiede nella deputazione  civile, e consiste nell’ esporre i deliberanti il loto  parere; la giudiciale sia nel Tare il giudicio, c  comprende l’accusa e la difesa, o la petizione e la  replica incontro. Or l'arte e la facoltà dell’oratore, secondo che io penso, si aggira intorno a questa maleria cosi tripartita.   VI. Ermagora dà due parli alla materia dell'oratore, ciò è dire la causa c la quislionc; ma ei  mostra di non avvisar bene quello ch’ci dice, nò  intendere ciò che propone Ei dice causa una trattala clic ammette contrasto di parole coll' intervento di determinale persoue; la qual trattola ho  dello io slcsso esser dovuta all' oratore, pcrchft  gli reputo le tre specie toccate qui addiclro, la  giudiciale, la deliberativa, la dimostrativa. Egli  poi nomina questione quella die ammette il controvertere di parole, ma senza intervento di determinale persone, come sarebbe il cercare, Che altro v'ha di buono oltre l'onestà. Se sieito veraci  i sensi, Quale sia la Torma del mondo, Quale la  grandezza del sole. Le quali quislioni credo che  ognuno agevolmente intenda essere di lunga mano estranee all’ufficio dell' oratore. Attribuire inTalli ali'oralore come cosa di poco momenlo una quas parvas res oratori otlribuere magna amcntia  ridelur. Quotisi magnam in his Hermagoras habuissel facullolem studio cldisciplinacomparatam,  vidcrclur frclus sua scicntia falsimi quiddam constiluissc de oratoria otDcio, et non quid ars, sed  quid ipsc possel, czposuisse. Nunc vero ca vis est  in lioininc, ut ci multo rheloricam cilius quia ademeril, quam philosopliiam concesscril: ncque co,  quod cius ars, quam cdidil, mihi mendosissimo  scripla lidealur ; nam salis in ea videtur ex antiquis arlibus ingcniose et diligcnter eleclas res collocasse, et nonniliil ipse quoque novi protulisse ;  vcrum oratori minimum est de arte loqui, quod  lue fedi ; multo maximum ex arte dicerc, quod  eum minime potuisse omnes videmus. Quare materia quidem nobis rlictoricae videtur ca, quam Aristoteli visam esse diximus; partes outem lise, quas pleriquc dixerunl, inventio,  dispositio, eloculio, memoria, pronuncialio. Invcnlio est excogitalio rerum verarum aul veri similium, quae causam probabilem reddant; disposino est rerum inventarum in ordinem disltibulio;  eloculio csl idoncorum verbotum ad sentenliarum  invenlionem accommodatio ; memoria est firma  animi rerum ac verborum ad invenlionem peree.  ptio; pronuncialio csl ex rerum et verborum dignilalc vocis et corporis moderatio. Nune his rebus breviler eonstitulis, eas raliones, quibus estendere possimus geiius et ofllcium et llncm buius  arlis, aliud in tempus difTcremus. Nam et multorum verborum indigeni, et non tanlopcre ad arlis  descriptionem et praecepla Iradcuda pertinenl.  Eum outem, qui arimi rliclorieam scriba!, de duabus nliquis rebus, de materia arlis ac parlibus  scribere oporlcreexislimamus. Ac ndlii quidem videtur coniunctc agendum de materia ae parlibus.  Quare inventio, quae princeps est omnium partium, potissimum in omni eau-arum genere, qualis debeat esse, considcretur. Umnis res, quae liabct in se positam in  dictionc ac disceplalionc aliquam controvcrsiam,  aut facli, aul nomiuis. ani generis, aut actionis  comincili quacslionem. Eam igitur quaeslionem,  ex qua causa nascitur, constitulionem oppcllamus.     materia, a cui trattare logorarono l'ingegno con  assai di fatica i filosofi, codesto è ben una folle  forscnnalezta. Che se Ermagora avesse pure con  lo studio c le apprese dottrine acquistata una grande perizia di tali cose, ci mostrerebbe d'aver messa in piedi sull' appoggio della scienza sua propria una falsità circa all'ulllcio dell'oratore, e fatto vedere non ciò die l’arte, ma ben ciò eh’ egli  stesso sapesse fare. Egli è poi da natura si condizionato, clic molto più tosto altri gli negherebbe  sufficienza in fallo di retorica, clic non gli concederebbe sufficienza in fallo di filosofia. Nò questo  io dico perclii Ermagora nel trattar che fece l'arte retorica sparnicciassc qui e qua di sbardellati  errori, quando anzi vi Ita posto cose qua e là Irascelte con abbastanza d'ingegno c diligenza dagli antichi trattali di retorica, c parie v'aggiunse  egli stesso un po' di nuovo: ma parlare dell' arte,  come fece Ermagora, per un oratore i cosa da  nulla; il malagevole è ragionare secondo le leggi  dcll'arlc; ciò che ognun vede non aver Ermagora  saputo fare. Il perchè io sono d'avviso la materia della  retorica esser quella che, come io dissi, fu indicala da Aristotele; c le parli di essa, secondo che  molti hanno scritto, l'invenzione, la disposizione,  la locuzione, la memoria, la pronunciazione Invenzione è trovar col pensiero le cose vere o verisimili che rendati la causa probabile; disposizione è distribuire ordinatamente le cose trovale;  locuzione è adattar le parole, rhc sono acconce,  al Irovamenlo dc'concelti; memoria è percezione  fermata nella mrnle delle cose c delle parole che  servono alla invenzione; pronunciazione è reggere la voce c la persona secondo che s’avviene alti  digitila delle cose e dello parole. Dcfinile cosi alla  breve queste parli della rclorica, rimandiamo ad  altro tempo le ragioni con che si possa dimnslrare l’essenza, ruttici» c il fine di essa, poiché domandano esse parli assai di parole, c d'altronde  non hanno uno stretto rapporto col metter in trattalo quest’arte e somministrarne prccclli. Chiunque volesse compilare una Irallaziotie compiuta  dell' arte retorica, dovrebbe scrivere, io penso,  della materia dell’arte divisamente dalle parli di  essa: io però c della materia e delle parti non  debbo trattare clic a un tempo stesso. E poiché  di tulle qucsle parli la invenzione è la più principale, si vuol considerare quale in ogni genere  di cause ella si debba essere.   Vili. Ogni affare clic Involge qualche controversia in genere esornativo o giudichile, conlienc  qucslionc o di fallo, o di nome, o circa il genere  del fatto, o circa le persone a cui compelc agire.  La questione, da cui nasce la causa, io l'appello utino i. Conslilulio c>l prima confliclio catisarum ex dcpulsione intcnlionis profocla, hoc modo : Fecisli.  Non feci, aul: Iure feci. Quum farli conlrovcrsia  est, quoniam coniccluris causa (ìrmalur, cnnsliiulio roniccluralis appcllalur. Quum aulem nomini*,  quia iis vocahuli dclinienda verbis esl, conslilulio  definitiva nominalur. Quum vero, quali» rcs sii,  quacriiur, quia cl de vi et de genere ncgnlii conIroversia est , conslilulio generali» tocalur. Al  quum causa ex co pendei, quod non aul is agere  vidclur, quelli oporlct. cui non cum co, quicum  nporlct, aul non apud quo», quo tempore, qua  lege, quo crimine, qua poemi operici, Iranslaliva  dicilur conslilulio, quod aclio trauslalionis el commulaiionis indigere vidclur. Alque haruin aliquam  in omne causar gcnus incidere necesse esl. Ram  in quam rein non inridrril, in ea niliil esse polcril  controversine; quarc cam ne cansarn quid“in conventi pulari. Ac facli qiiidcm controversia in omnia tempora polesl distribuì. Nam quid factum sii,  polcsl quaeri, hoc modo: Oeciderilnc Aiaccm Uli ics. El quid dal, hoc nonio : llononc animo siili  erga popolimi ilnmauum Fregollani. El quid fuluruin sii, hoc modo : Si Cnrlliugìnem roliquerimus incoiumcin, num quid sii iucnnmiodi ad rem  putdicam perveuturum. Nomiuis est controversia,  quum de farlo conventi, et quacriiur, id quod factum est quo nomine appcllelur. Quo in genere  neccssc est ideo nomini» e. se con!rover.-iam, quod  de re ipsa non convenial ; non quod de facto non  conslcl, seri quod id, quod factum sii, aliud alii  videa tur esse, ri idcirco aliti» alio nomine id appellel. Quare in eiusmodi gcnerihus definicnda  res eril verbi», el brevih r dose ribellila: ut, si quis  sacrum ex privalo surripueril, ulrum fur an sarrilegus s.l iudieamlus. Ram id quum quacriiur, necesse eril dcOnirc ulriimque, quid sii fur, quid  sacriirgus, el sua dcsmplione cisterniere alio no  mine iilam reni, de qua agilur, appellari oporlere,  ulque adversarii dicunl.     IX. Generis esl conlrovcrsia. quum cl, quid factum sii, convelli!, cl, quo id factum nomine ap  pellari oporteal, constai; et (amen, quanlum cl I  cuiusmodi el omiiinn quale sii, quaentur, hoc  modo: Jusluin an iriiusl uni, utile au inutile, et costituzione. La costituzione è la prima contesa  delle cause, derivante dalla replica die si fa conIru l'accusa, come sarebbe: Hai fallo Non Un fallo,  oppure: ilo fallo a buona ragione. Quando è controversia circa un fallo, poiché la causa si fiancheggia di eongdiure, la costituzione si domanda  enng' Ituralc. Quando è circa un nome, siccome  si dee definire a parole l'essenza del vocabolo, la  co-tiluzionc si appella definitiva. Qualora j' investiga di clic qualità sia una cosa, giacché si controverto sull' essenza e sul genere di essa, la costituzione si appella generale. Sia quando la causo dipende da questo, che o non è odore chi dee,  o non è contro chi lo dee essere, o non presso dì  quelli clic si conviene, non in quel tempo, o secondo quella legge, o per quel dcbllo, o per quella pena che il dovrebbe essere, la costituzione  diccsi traviatila, poiché la trattala abbisogna di  eccezione dedicatoria e di permuta. Di lati questioni è inevitabile clic una o un'allra vi abbia in  ogni genere di causa, perocché l'altare che non  ne involgesse alcuna , non può ammollerò controversia ; non può quindi aver natura di causa.  I.a conlrovcrsia di Tallo puossi riferire a tulli i  tempi. Si può inqtiircrc su ciò che fu fallo, di  qiuslo modo: Se Ulisse uccise o no Aiace. E su  ciò clic si fa, a questa maniera: Se quei di Fregellc sieoo o no ben volli verso i Romani. E su  ciò clic è fulcro, come se si chiedesse: Se noi Irsecreto in buon essere Cartagine, ne verri egli alcun detrimento alla repubblica? È conlrovcrsia di  nome, quando essendo ludi d'accordo sul fallo,  si cerca di clic nome il fallo s'abbia a domandare.  Nel qual caso non può non esserci conlrovcrsia  di nome, però clic le persone non sono in accordo sulla materia stessa clic si traila; non perchè  non consti il fallo, ma perché questo fatto a chi  Ira paruta d’essere d'uno qualità, a chi di un'allra;  e però da alcuni è appellalo con un nome, da alcuni con un nome diverso. Laonde in casi di falla  simile si vuol la cosa definire a parole con alquanla poca di descrizione, acciocché se alcuno avesse, a mo’ d' esempio, privalamcnlc rapilo un oggetto sacro, si vegga se e’sia da giudicare per ladro, o per sacrilego. Quando dunque sia tale il  punto della causa, converrà defluire clic si voglia  intender per ladro, e clic per sacrilego, e con una  acconcia sposizionc dar a conoscere come il fallo  che si ag la è da appellar d'un nome diverso da  quell", onde dagli avversari! i appellalo.   IX. b conlrovcrsia circa al genere,' quando le  parli sono belisi d'accordo sul fallo, e sul nome  con che il fallo si convien designare, ma lulljii.i  si cerea di clic gravezza esso sia, di clic specie, di  clic qualità, a questa guisa: Se il fallo è giu. lo o umilia, in quibus, quale sii i'I, quud factum esl,  quaerilur sine ulla nominis controversia Iluic generi Hermagoras parlcs qualuor supposuil, deliberalivam, dcmonslraliram, luridicialcm, negolialem. Quod eius, ut nos putamus, non mediocre  pcccalum reprehendendum vidclur, vcrum lirevi,  ne aul, si laci-i pradericrimus, sino causa non se  culi ctim pulemur ; aul, si diulius in hoc constilerimus, moram alque impi-dimentum reliquia  praeceplis intulissc videamur. Si deliberano el  demoiistralio genera sunl causarunv, non possimi  recle parles alicuius generis causac polari. Eadem  cium res alii gcnus esse, alii pars polesl ; cidem  gcnus esse et pars non polesl. Dclilieralio aulem  ci demonstralio genera sunl causarono. Nani aul  nnllum causae gcnus esl , ani iudiciale solino,  aul cl iudiciale cl demouslralivuin et doliboralivum. .Nu I Inni diccrc causae esse gcnus, quum causas esse mullas ilical, el in ca9 praecepla del, amenlia esl; unum iudiciale aotem solmn esse qui  polesl, quum deliberali» et demonslraliu ncque  ipsae similes inler se sinl, et ali iudiciali genere  plurimum dissidi-ani, cl suum quaeqiie linem liabeanl, quo referri debeanl? Rclinquilur ergo, ili  omnia iria genero sin! causarum. Deliberano imitar el demonstralio non possimi recle parlcs alicuius generis causae pulari. Male igilur cas generai'* conslilulioilis parles esse divii. Quodsi generis causae parles non possimi  recle pulaii, multo minus recle partls causae parics putabunlur. Pars oulcui causac est conslilutio  omnis. Non enim causa ad constilutimiem , sed  constilullo ad causam arcommodalur. Sed demonslralio el dclihcralio generis causac parles non  possimi recle pulari, quod ipsa sunl genera; mullo  igilur minus rccte parlis eius, quod liic dici!, pnrles putabunlur. Dciiidc si conslilutio cl ipsa cl pars  eius quaclibel inlcntionis depulsio est, quae inleulionis depulsio non esl, ea ncc conslilulio ncc pars  conslilulioilis esl. Al si, quae inlentionis depulsio  non esl, ea ncc conslilulio nec pars constilutionis  esl, demonstralio cl deliberali!) neqnc conslilulio  nec pars conslilulionis est. Si igilur conslilulio el  ipsa cl pars eius inlcntionis depulsio esl, deliberali» cl demonslratio ncque conslilutio neque pars  conslilulionis est. Placet autem ipsi consti lutionem  inlcntionis esse depulsioiicm; placcai igilur oportei dcmonslralioncm cl deliberalionein non esse     ingiusto, se proficuo u inutile, c ogni altro simile,  in cui si inquerisce di clic qualità sia il fallo senza veruna controversia circa al nome. Alla controversia circa al genere Ermagnra attribuiva quattro  parli, la delibcraliva, la ditnoslraliva, la giurldiciolc, la negoziale. Non credo di dover cessarmi  dal riprendere questo di lui non mezzano errore,  perchè se io me ne passassi in silenzio non si credesse clic io mi scostassi da questo autore senza  motivo; avvegnaché il farò cosi di passo c alia  brc;ualc ii sostegno della difesa: le quali tulle cose debbono partire dalla costituzione. La questione è quella conlroversia clic  nasce dal conllillo delle rausc, come a dire: Non  facesti a buona equità. Ilo fallo a buona equità. Il  conflitto delle cause è quello in cui consiste la  cos iluzione. I)a questa dunque nasce quella colai controversia clic io appello queslione, come se  si diccsso:llacg!i fallo o no a buona equità? Ragione è quella clic cornicile il motivo: lollo esso, non  resta nella causa punto di conlroversia, come se  si dicesse, per servirmi di un esempio facile e a  (ulti conosciuto: Poslu che sia accusalo Oreste di  aver moria la madre, se egli non si esprimesse cosl:L’lio moria a tulio «tirino, perdio ella mi ho ucciso il padre; ci non avrebbe difesa, c lolla la difesi, è lolla eziandio ogni conlroversia. Laonde la  ragione ovvero motivo ili quesla causa sla in ciò  che la donna aveva ucciso Agammenone. La giudicazione è la conlroversia che nasce dall’ infermar che fa l'accusatore, c dall' avvalorar che fa  l’accusalo la ragione, ossia il motivo. Insidiamo  nella ragione qui sopra esposta. .Mia madre, dica  Orcslc, mi ha ucciso il padre. Ma non era dicevo  I le, risponde l'accusaiore, clic lo uccidessi la ma  i die, lu clic le eri figlio, poiché poteva quel fallo Ei tuie ileducliiinc ralifìnis illa somma mi  scilur controversia, qoam juilicatioiicm appella  mus. Ea esl huiusmodi: Reclutimi: fueril ab Oreale tnalrcm occidi, quum illa Orcslis patron occidissi l. Fiimamcntum est (irmissinta argumcntalio  defensoris, el appoailissima ad itidicalioncni: ul si  volil Orestes dircre cjusmodi aiiimum malris suao  fuisse io palrcni suum, in se ipsuni ac sororca, in  regnimi, in famain generis el rainiliac, ul ab ea  poenas liberi sui polissimuin pelare debucruil. Et  in ceb ria quidenieonsliltilioiiilius ad lume modum  judicalioncs reperieulur ; in conjeelurali auleti)  conslilulione, quia ralin non esl ((aduni cnim nnn  conccdilur), non polesl ci dcduclionc ralinnis nasci judicali». Quare neccssc esl camdem esse  quacslioncni el judiealionem: Facilini esl. Non est  factum . Faelunine sii ? Quol anioni in causa consliluliones ani earum parles eruul, lolidein neccssc erti qnacslioncs, raiiones, judicalioncs, firmauiciila reperir! Ilis omnibus in causa reperlis, luni  denique singulau parles lolius causae considerandac sunl. Nani non ul quidquc eli endum prillili ni,  ita primuni anim i hcrlenduin lulelur; ideo quod  illa, quac prima dicaulur, si u liemenlcr velis rongrtiere el cdiacrcrc cum causa, ex bis ducas operici, quac post direnila sunl. Quare quum judicalio, et ea, quac ad judiealionem oportel argenteal i iineiiiri, diligcnlcr eruul arlificio repcrla, cura  cl cogitalioue pi-rtraclala, Inm denique ordinalidac sunl cctcrac parles oralionis. Eac parles sei  ose umilino nobis videnlur: exordium, narralio,  parlilio, conili malio.repreliensio, conci u-io. Nuiic  qtioniam exordium princeps omnium esse debel, I  uos quoque primum in ralionem cxordicndi praeccpla dabinius. Evnrdiuni esl orali» animum audiloris ido  nec eomparans od reliquam diclioriem: quo I eveilici, si cum benctuluni, altcnlum, duodeni con(eeeril. Quare qui bene exordiri caosam volel,  rum necesse esl genus suao causae diligenler aule cognoscere. Genera cau.-arum qiiinquc sunl :  lioneslnm, admirabilc, Immite, anccps, obscurum.  Henesliim causae genus esl, cui slatini sino oral ione nostra audiloris farei animus; admirabilc, a  quo esl ahvualns animus cerimi, qui autliluri sunl; esser puuilo sema elle lu li gallassi in unascelleragginc. Dal torre all'accusato questa ragione o difesa nc tien la controversia sul gran punto da decidere, che io appello giudicationfi. Essa sla in  questi termini: Se fu giusto che Oreste uccidesse  la madre perchè ella ad Oreste ateva ucciso il padre. Il sostegno della difesa è la più furie argomentatone del di felli ire, c la più propria a determinare i giudici; e sarebbe se Oreste de cise,  tale essere stalo il inai talento di sua madre si conilo il padre, sì contro lui slesso, e le sorelle, c il  regno, e la ripiilaxione della stirpe o della famiglia, che i suoi llgli stessi avrian dovuto chiedere  ch'ella fosse ponila. Cosi in tulle le altre costituzioni si Irorcranno allo slesso modo i punii da giudicare: perù nella cosliluiione congetturale, siccome non v'ha ragione (perchè il fallo non si concede), cosi essendo sottraila la ragione, non può  uscirne il punto da decidere. Il perchè è mestieri   ! he sia la stessa e la queslione e la cosa da decidere, come in questo caso: Fu follo. Non fu fallo.  Quel che s'ha a vedere è, se veramenle fu fallo o  no. Oliatile poi saranno nella causa le costituzioni u le parli loro, allrellaulc dovranno essere le  questioni, i punii di difesa, i capi da decidere, i  sostegni, di clic te parli litigami s'avvalorano. Trovalo tulio questo, allora Cmatmcnle si debbono  ciiusidcrarc le singole parli di luna la causa; perocché non è già clic s'abbia prima a ben avvertire quello che ha da dirsi prima dì tutto, perchè  le cose clic si dicono in prima, se vorrai che si  coufaeciano bene e si leghino con la causa, le dei  derivare da quelle che si vogliono dir poscia,  bionde quando bene col mezzo dell'arte si sarà csattamenle rinvenuto, c poi pensalo e ripensalo  con diligenza qua'e sia il punto decisivo che dee  essere giudicalo, e insieme gli argomenti che sono  il caso, allora dovranuosi disporre per ordine le  albe parli dcll'oraziooe. Queste parli io penso essere al postullo sei: esordio, narrazione, divisione,  confermazione, confutazione, conclusione. E poiché l'esordio dee essere la prima fra le parli deil'orazione, anch'io darò per primi i preeellì che  all'esordio si riferiscono. L’esordio è un discorso che dispone convenevolmente l'animo dcll’ud ture a tulio il rcslo  dell'orazione: Il clic addiverrà -e si faccia di renderlo bcnvoglienle, allento, e disposto a lasciarsi  istruire. Oudcchè chi vorrà ben iniziare la causa  è incinero ch'egli conosca a fondo che specie di  causa c' prende a Irallarc Le cause sono di cinque specie: oncsla, disonorevole, abielta, ambigua, o-cura. Causa onesta è quella, a cui gli udi i tori si mostrano ben volli pur innanzi che noi co  unno i. il liumilc, quoti negligilur ab auditore, et non mag impero altcndcndum videlur; nnceps, in quo aut  judicalio dubia est, aut causa et honcslalisel turpitudini particcps, ut et benevolenti pariat et offensionem: obscurum, In qun aut tardi auditorcs  sunt, aut ditBcilioribus ad cognoscendum negotiis  causa implicala est. Quarc quoniam lam diversa  sunt genera causarum, eiordiri quoque dispari Tallone in uno quoque genere necc3sc est. Igitur  eiordium in duas pnrtcs dividitur, ili principinm  et insinualionem. Principinm est omiìo perspicue  et proiiuus contJciens audilorem benevolum, aut  docilem, aut allentum. Insinualo est oraio qua.lam dissiniulatione et circuilione obscurc subicns  audiloris animino. In admirab li genere eausac, si  non oinnino infesti audilores crunl, principio ticnevoleiilium comparare licebiUSinerunl vetiementer abalienali, confugerc uecesse crii ad itisinuationem. barn ab iralis si perspicue pai et benevolenti petilur, imn modo ea unii invenilur, seri augetur alque infialimi, ilur odium. In Immiti autem  genere causae contcmplionis tollemic cau-a nccesse eril allentum cfllcere audilorem. Anceps genus causae si dubiam judicalionem babebil, ab  ipsajudicalioiiecxordicndum est. Sin antem partem  turpitudiuis, parlcm boneslalis babebit, beneiolenliam captare nport. bil, ut in gcnus li'.nesiitm  causa transita lidealur. Omini autem crii lumeslum causae genus, vel prueleriri principinm poleril, rei, si comniodum lucrit, aul a uarralione  incipicmus, aut a lego, aut ab aliqua (imissima  rationc nostrae diclionis; sin uti principio placebil,  benevolcnliae partibus ulcmlum est, ut id, quod  est, angcalur.     XV). io obscuro causae genere per principimi!  doi-ites audilores clllccre oportcbil. Nunc, quoniam quas res esordio conficerc nporteat dietimi  est, reliquum est, ut oslendalur, quibusquaeque  raliombus res confici possit. Benevolenti quatuor  i l locis comparatur: ab nostra ab adversariorum,  ab iudicuin persona, ab ipsa causa. Ab nostra, si  de noslris factis et nfllciis sinc arroganti diceiiius; si criniina illai et aliquas minus honcslas  suspiciones inieclas ililuemus; si, quac incornino  da acciderint, aul quae instcnt dilliculiatcs, profcreuius; si prece et obsecralionc humili ac supplici utemur. Ab advcrsariorum autem, si cos aut     mincimo di parlare; disonorevole diccsi quella  che è contro l'opinione di coloro clic sono per ascollare; abietta si dice perchè è sprezzata dall'uditore, siccome quella clic ha un oggetto da non  farne conto gran fatto; ambigua 6 quella, in cui  o è dubbio il punto da giudicare, o v'è mescolato  l'onesto e il turpe, da cccilarc a un tempo c bcncvoglienza c sdegno: oscura dicesi quella, cui gli  uditori hanno le fatiche a ben comprendere, o clic  è intralciata di soggetti molto difficili a esser co.  mischili. Per esser dunque cosi diverso le specie  delle cause, vuole essere ciascuna in diversa maniera cominciala a parlare. I.' esordio perciò ha  due parlile, ii principio c l'Insinuazione. Per prin •  cipio s’ intende quel discorso che all’aperta e Gn  dalle prime renile l’uditore ben volto, o attento,  o disposto a lasciarsi istruire. Insinuazione è quel  parlare clic mostrando altro, con certe svolte di  parete impercettibilmente si intromette iiclt'animo  dell' uditore. Nella causa straordinaria se gli uditori non saranno al postutto di animo avverso, si  potrà fare nel principio di renderli benvoglienli.  Ctie se fossero contrarli troppo forte, converrà aver  ricorso all’insinuazione. Perocché se vuoisi rappaciar all'aperta c render benevolo chi è sdegnato, non pure non se oc verrà a capo, ma si aumenterà e si rinfocolerà vie più lo sdegno. Nella causa abietta, a voler rilevarla dallo sprezzo, si conviene rendere attento l'uditore. L'ambigua Ita essa dubbio il punto da giudicare ? si vorrà da questa punto far esordire l'orazione. Clic se sarà mista di turpezza e di onestà, donassi accattar la he •  nevoglietiza parlando di tal maniera clic paia essere la causa diventata in ispecic solamente onesta.  Quando poi sarà davvero di specie onesta la causa, si potrà cessarsi dall'esordio, ovvero, se verrà  in concio, dorassi principio dalla narrazione, o da  discorso sopra la legge, o da qualcuna delle più  sode difese della nostra orazione. Clic se abbonasse all'oratore porci l'esordio, il farà ad acquisto  di benevolenza, acciocché quella che gli è già avuta si possa vie piò accrescere.   XVI. Nella causa oscura converrà con l'esordio  rendergli uditori inscgncvuli. Ora, giacché s'è dello a quali effetti l’esordio dee over la mira, rosta  che si dimostri per quali vie ciascuno di questi effetti si possa raggiungere. La benvogl enza si procaccia per quatlro mezzi, per mezzo di noi, per  mezzo degli avversarti, dei giudici, della causa  stessa. Per mezzo di noi, se parleremo de' i.oslii  fatti c mansioni senza millanteria; se ci purgheremo da colpe che ci sicno imputale, o da altre meno oneste sospieioni; se porremo innanzi le molestie che ne accalcarono, o ic malagevolezze ila  cui siamo premuti; se condiremo i preghi e le sup  ili odium, aul in invidiam, aul in conlcmplionem  adducemus. In odium duccntur, si quod forum  spurcf , superbo, crudcliler, maliliosc faclum proferclur; in invidiati), si vis eorum, polcnlia, divitiac, rognatio, pocuniac profercnlur, alqtic eorum  usus arrogans cl inlulerabilis, ul bis rebus niagis  vidcanturquam rausae suae confidcre; in contcmplioneni addueeulur, si eorum inerba, negligendo, ignavia, desidinsum sludium et huuriosum  otium prufcrclur. Ab audilorum persona benevolentia caplabilur, si res ab bis forlilcr, sapienlcr,  mansuete gestae proferenlur, ut ne qua adsenlalio nimia signiflcclur, ri si de bis, quain bonesla  ciistimatio quantaque coruin indici! et auctorilalis esspeclalio sit, oslcndelur; ab ipsis rebus, si  nosiram cau-am laudando cvlollcmus, advcrsarlorum rausam per conlemptionem deprimeinus. Altenlus aulem Taciemus, si demonstrabimus ca,  quae dicturi crimuv , magna nova , incredibitia  esse , aul ad omnes , aut ad eos, qui audienl,  aul ad aliquos illuslrcs homincs , aul ad deos  immorlales, aul ad summam rem publicam prrlinerc ; et si poUiccbimur nos brevi noslram causam dcmonslraluros , alque eiponemus iudicalionem, aut iudicalioncs, si plures ciunt. Doiilcs  audilorcs faciemus; si aperte et breviler summam  causac eiponeinus, hoc est, in quo consistili con  Iroversia. Nani et quum docilem velis lacere, simili altcntum facias nportet. Piam is est mavirne  dncilis, qui allcntissime est paratus audirc.  filine insinualiones qnemadmodnm baciari conveuiant, deinceps dicendum vidclur. Insiuualione igitur ulendum est, quum admirabile  gcnus causae esl, hoc est, ut anle diximus, quum  animus auditoris infcslus est. Id aulem tribus ex  causis fll maxime; si aut inest in ipsa causa quacdam turpitudo; aut si ab iis, qui ante dixerunt,  iam quiddam auditori persuasum vidclur; aul co  Icmpurc Incus dicendi datur, quum iam illi, quos  audire oporlet, defessi sunl ambendo. Nani ex liac  quoque re non minus, quam ex primis duabus, in  oralore nonnumquam animus audiloiis oflenditur.  Si causac lurpiludo conlrahel oflensìnnem, aul     pliche di riverenza ed iimillà. Per mezzo degli avversari, se li faremo venire in odio altrui, o in inaIcvoglicnza, o in disprezzo. Verranno in odio, se  si spiattellerà qualche lor trailo di turpezza, di superbia, di crudeltà, di malizia: in malevoglienza,  se si darà a conoscere cli’ei son forli, polenti, doviziosi, addanaiali, pieni di parentele, ma clic usano questi mezzi per modi arrogami c incomportabili, da far apparire eh' essi troppo più che nella  propria causa hanno confidanza o si tengono furti  di questi lor mezzi. Verranno in disprezzo, se si  farà nota la inerzia loro, la negghieoza, la oziosaggine, l'amore alla infingardia, lo scioperarsi a lascivire. Si accatterà bcnvuglirnza dagli uditori, se  si pronunzieranno falli di forza, di saviezza, di  mansuetudine da essi operati, cosi perù clic non  vi Iraluca troppo di piaggenleria; se si mostrerà  quanto essi splendano per onorala estimazione, e  quanto si debba fare assegnamento sul loro giudi  ciò ed autorità; In fino si cattiverà henvoglienza per  mezzo della causa stessa, se noi lodandola porremo in sul grande la parie nostra, e faremo n -l tempo stesso di screditare a forza di spregio la parie  degli avversarli. Ridurremo allento l'uditorio, se  renderemo dimostro che sono di grande rilievo,  clic son nuove c maggiori della credenza le cose  clic siamo per esporre, ovvero se faremo conoscere clic esse riguardano o tulli quanti, o quelli  clic ne ascollano, o alcuni uomini insigni, o gli  dei immortali, ovveramenle i negizii più importanti della repubblica ; e se prometteremo clic siamo per dimostrare di rorlo la giustizia della nnsira causa, e porremo in veduta il punto da dover  giudicare, o i punii, so saranno più. Faremo inscgncroli gli uditori se sporremo chiaro c in  brevi parole il sunto della causa , voglio dire in  clic consista la controversia. Pcrocrhè quando  lu voglia far 1' uditore inscgnevole , è mestiere  clic insieme lu lo Taccia atteso , poiché quegli  ò il più disposto a lasciarsi istruire , che è anche disposto ad ascollare con la massima attenzione.   XVII. Ora si vuol dire per Io seguilo come si  convengano ballare In insinuaz : oni. Dcesi usare  insinuazione quando la causa è di specie straordinaria, clic vien a dire, come toccai innanzi, quando 1'udilore i di animo avverso. Questo uso si fa  spccialmcnlc per Ire ragioni; o perchè nella slessa causa s' involge alcun che di lurpe; o perché  pare clic da quelli, i quali hanno ballalo prima,  F uditore siasi lascialo qualche cosa persuadere;  o perchè ì data copia di parlare a un'ora, in cui  quelli che ascollar debbono hanno già tanto ascoltalo ch’ei ne sono lassi e ristucchi. E diretto anche  da questa cosa ultima, non meno clic dalle due prò eo liomine, in quo olTemlilur, alluni liomincm,  qui diiigilur, interponi oporlcl; aut prò re. in qua  offenditur, aliato rem, quac probàlur ; aut prò re  liomincm, aut prò liomine rem, ut ab eo, quod  odit, ad id, quod diligil, auditori» animus traducami", et dissimulare id te defensurum, quod evistimeris defensurus. Di-inde, quum iam mitior factus erit auditor, ingredi pcdelenlim in defensionem, et diecre ca, quac indignenlur adversarii,  libi quoque indigna videri: deinde, quum lenieris  eum, qui audiet, demonslrarc, nilul coroni ad te  pertinere, et negare le quidquam de adversariis  esse diclurum, ncque boc, ncque illud: ut ncque  aperte laedas cos, qui diliguniur, et lanicn id obscurc faciens, quosd possis, alicnes ab eis nuditorum toluntalem ; et aliquorunt iudicium simili  de re aut auctorilalem proferre imilalione dignam;  deinde camdem, aut consmiilem, aut maiorent,  aut minorem agi rem in praescmia demonslrarc.  Sin oratio adversariorum fidi-m videbitur onditoribus fecissc (idque ei, qui intelligel, quibus rebus fides fiat, Tacile erit cognito), uporb-l aul de  eo, quod adversarii sibi firmissimum putariut, et  maxime n, qui audicnl, probarinl, primiiui te diclurum polliceri; aul ab adversarii dirlo esordir!,  et ab co polissimum, quod illc tiiipcrriine divori!;  aul dubilationc uli, quid primum dicas, aul cui  polissimum loco rospo mica- , eum ndmiralionc.  Nani auditor quum eum, quem adversarii pcrlurbatum pula! oralionc, videi animo firnii-simo coti tra diccrc parai urn , pleruinquc se polius temere  adsensissc, quum illuni sine causa confiderò arivitratur. Sin audiloris sludiuni dcTaligalio abalii-navil a causa, le brevius quam paralus fueris, esse  diclurum commodum est polliceri; non iniilaturum arlvcrsarium. Sin rcs daini, non inutile est  ab aliqua re nova aul ridicula incipcrc ; aul ev  tempore quac nata sii, qund getius, strepitìi, ticclamalionc ; aul iam parala, quac sci apnlogum,  vel Tabulant, vel aliquam conlincal irrisionem; aul  si rei dìgnilas adimct iocandi Tarullatem, aliquid  triste, novurn, liorribile statini non incoinmodum.  est iniicerc. Nam, ut cibi saliclas et Taslidium aul  subamura aliqua re relcvalur, aul dulci miligalur,  sic auiinus defessus audicudo aut admiralionc integralur aut risu novatur. prime, rascollonte lai fiala piglia motivo di esser  mal tolto verso l'oratore. Se il turpe che v'ha nella  causa è motivo di malevogl inula nell'uditore, allora  si conviene per la persona elicsi odia iniromeltere  un'altra persona che sia amata; o per la cosa, di cui  l'uditore si otTcnde, un'altra cosa clic sia degna di  approvazione; o per la cosa una persona, o per la  persona una cosa, acciocché l'animo dell'udilore  sia richiamato da ciò elio odia a ciò che. ama; «  conviene ancora clic tu l'infinga di non tolcr difendere ciò clic si crede già clic tu difenderai. Dipoi,  quando l'uditore sarà cosi addolcilo, vorrai cnlrarc a passo a passo alla difesa, e dire clic le cose,  le quali muovono a sdegno gli avversarli paiono  a le pure da doversi avere a schivo: poi, insieme  che avrai mitigalo l'udilorr, verrai dimostrando  che di colali cose niente si aspetta alla tua orazione, c atTermei'ai che intorno agli avversarli non  sci per dir nulla, nè questo, nè quello; affinché  non mostri di offendere apodamente coloro che  so» benvoluti, c nondimeno facendo questo in  maniera palliala, fino a che il possa, allunghi da  loro il buon volere degli uditori; c cilcrai, qual  esemplo degno di servire per regola, il g udirlo  c la testimonianza di taluni sopra affare di fatta  consimile: dipoi mostrerai che al presente si tratta un alTar eguale, o simigliarne, o di piò, c di  meno rilievo. Che se il discorso degli avversarli  panà avci fatto clic gli uditori gli aggiustassero  fede ( c facilmente si conoscerà, chi sa con che  meni ella si aggiusti), ti conviene promettere che  per prima cosa tu parlerai intorno a ciò che gli  avversarli hanno credulo il loro sostegno piò principale, e che gli uditori hanno soprattutto approvalo; o pigliar l’esordio da quanto fu dello dall'avversario, c massime da ciò ch’egli ha dello da  sezzo; o mostrare di esser in penderne circa a  quello da che dei cominciare, o al punto a cui  particolarmente dei rispondere, incUcnda altrui  alquanto di stupore. Poiché l'ascoltante quando  vede esser disposto a replicare ardimentosamente  quello stesso ch'ci crede sconcertalo dal discorso  dell'avversario, fa ragione le piò volte di aver egli  aggiustato fede con poca considerazione, anzi che  quegli si confidi senza motivo. Clic se l' uditore  per islaneliez/a non si inoslra più interessato nella  causa, fi) al fatto che In prometta di essere per spacciarti più di breve che non eri disposto a fare, e di non volere imitar le lungherie dell'avversario. Non sarà anche inutile, se oflrirassono l'occos.one, far principio da qualche cosa nuova o ridevole; owero da qualcuna naia d'improvviso,  come sarebbe qualche strepilo, qualche allo gridore; o da alcuna già preparala, che rnnicnca vi  un apologo, o una favolosità, o alcun rive ili bui Ac scparalim quidcm, quac «te principio  r-l Jc insinuatioiic dicenda vidclianlur, lisce fere  soni. Nane quiddam brevi cominunitcrdc utroque  praciipieiidum tidolur. Erordium scnlcnliariim  cl gravitali* plnrimum delie) liabcrc, cl umilino  omnia, quac pcrlincnt ad dignitalcm, in se continere, proplcrca quod id iqilìmc racicndum c-l,  quod oratorcin auili lori minime commendai: splcndoris cl fcslivilalis cl concinni ttnlinis minimum,  proplcrca quod ex bis susp ciò quacdani lipparalionis alquc arliliciosac diligcnliae nascilur ;  quac maxime nrationi (Idem, oralori odimi) auclorilalcm. V'ilia vero baco sunl ccrlissima cxoriliurum, quac summopcrc vitari oporlebil : rullare, communc, commulabilc, longum, separatimi, Iranslatum, conira pracccpla. Volgare cs!>  quod in plurcs catisas potcst accominodari , ul  convenire videalur. Commune, quod nibilo minus  in hauc, quam io conlrariam parimi causar, poIcsl convenire. Commulabilc, quod ab adversariu  polcsl leviler mutalum ex conlraria parie dici.  Longuni, quod pluribus verbis aul seutcnlHs ullra  quam satis est producilur. Scparalum, quod non  ex ipsa causa duclum est, noe sicul aliquod mcinbrum adnexum oralioni. Translalum est, quod aliud confici), quam causau gcnus postulai ; ul si  qui docilcrn facial audilorem quum benevolcntiam  causa desidero, aul si principio ulalur, quum insinualioiicm rcs postulo. C.onlra pracccpla est, quod nihil corum efiicit, quorum causa de cxordiis pracccpla Iradunlur; hoc usi, quod eum, qui  audii, ncque bcncvolum, ncque alteiilum, ncque  docilem cfiicil, aul, quo ndiil profeclo peius est,  ul conira sii, facil. Ac de esordio qnidem salis dicium est. Narralio csl gcslarum rcrum, aul ul gcslarum csposiliu. Narraliouum genera Iria sunl.  Unum gcnus csl, in quo ipsa causa et omnis ralio  conlrovcrsiac conliiiclur; allcrum, in quo digrcs' 1 aliqna extra cau-am aul criminalionis, aul si   Icvolc; oppure, se la gravili dcH'afiarc non lasccrà tempo allo scherzo, si può far principio con  l’introdurre alla prima qualche cosa di serio, di  nuovo, o che metta orrore. Poiché come la nausea  del cibo e la sazietà si rileva con qualcho amarognolo, o si alleggerisce con un po'di dolce, così  l’animo slanco di ascoltare o si rinforza con la maraviglia, o col riso si rimane in essere.   XVIII. Queste a un di presso son le cose clic  mi parve dover dire del principio e della insinuazione spnrtatamcnlc. Ora si vuole cosi olla breve  dir qualche nonnulla di ambedue insieme. L’esordio dee tener mollo del scntimcnloso e del grave, e comprendere in sé tulio quanto si appartiene alla dignità, poiché si dee raffazzonare il meglio possibile, siccome quello che più di ogni altra cosa raccomandal' oratore all’ udilorio. Non  dee avere però clic appena un menomo di splendore, di piacevolezza e di acconcialura, perchè di  qua si viene a dar sospetto di apparecchio e di  una diligenza consigliala dall’ arto; le quali snn  cose clic troppo lolgono il buon concedo all' orazione, e il credilo all’oratore. I difetti die incontrano il piò snvcnlc negli esordii, e che si vorranno con somma cura schifare, seno questi : esser  volgare, che può servire a prò e contro, mutabile,  lungo, improprio della ca usa, fuori di proposito,  contrario alle regole. È volgare quello che può  accomodarsi ad ogni specie di causa, si che le  paia star bene. Può servire a prò e contro quello  clic conviene alla parte In favore non meno che  alla parte contraria. È imitabile quello che con  alquanta poca di varietà può anzi che da noi esser  recitato dal nostro avversario. È lungo, quando si  disfi ode in assai parole e concedi più che non è  mestieri. É improprio della causa, quando non é  trailo da essa, e non come un membro unito al  resto della orazione. E fuori di proposito, se conchiudc altro da quello che domanda la specie della causa; come sarebbe se tendesse a render insegncvole l'uditore, mentre la causa il ionia benvoglienlc anzi che no, o se adoperasse il principio  quando l'affare esigerebbe anzi la insinuazione.  É contrario alle regole quando non raggiunge  nessuno di quei Din, per cui si danno precetti circa all’ esordio; come a dire, quando non rende  ben volto l'uditore, né allento, né bisognevole, o,  ciò che al postutto è troppo peggio, quando lo  rende affililo mal volto ed avverso. Quanto è all’esordio, abbastanza detto è. La narrazione è un esposto di cose avvenute, o come se avvenute. La narrazione é di tre  specie. La prima è quella, in cui é compresa la  causa stessa e lutto il cardine della controversia:  la seconda é quando si frammette una qualcho tiiìliludinis, aul «Iclcclalionis non alienar ab co  negolio, quo '' e agitar, aut amplificatioiiis causa  interponimi-. Tcrlium genus est remoliim a civilibus causis, quoti tlcleclationis causa non inutili  cum ezetcilalinnc dicilur et scribìlur. Eius parles  suoi duac, quaruin altera in ncgotiis, altera in persona ma lime versatur. Ea quac, in nrgntiorum  cipositionc posila est, trcs habel parles, fabulam,  liistoriain, argumentum. Fabula est, in qua ncc  vera e uec veri similes res continentur, cuiusmodi est :   « Angues ingcnlcs alitcs, iuncti iugo... a  llistoria est gesta res, ab actatis nustrac memoria  remota; quod genus: Appius indisi! Cartliaginiensibtis bellum. Argumentum est lieta res, quac tamen fieri poluit lluiusnmdi apud Terentium; Hoc in genere narralionis multa debet incsse féslivitas, conicela cs rorum varietale, animorum  dissimilitudinc, gravitale, lenitale, spc, mclu, suspicione, desiderio, dissirnulationc, errore, misericordia, forlunac eommutalione, insperato incommodo, subita laetilia. iucundu esitu rerum. Venmi  bacc ex iis, quac postea de clocutionc praecipicntur, ornamenta sumcntur. Nunc de narralionc ca,  quae causae cominci csposilioncm , diccndum  videtur. Oporlcl igilur eam trcs habere res: ut brevis, ut aperta, ut probabili» sit. Brevis crii, ss  unde Decesse est, inde inilium sumetur, et non ab  ultimo repetetur, et si, cuius rei satis crii summam  dixisso, eius parles non diccntur, (nani saepe satis est, quid factum sii, diccrc, non ut cuarrcs, que  madniodum sii faclutu); et si non lougius, qtiam  quod scilo opus est, in narrando proecdetur; et  si tiullain in rem aliam lransibitur ; et si ila dicctur, ut nonnumqtiam ex co, quod dicium sii, id,  quod nuli sit dicium, inleltigalur; et si nuli modo  id, quod obesi, veruni ctiain id, quod lice ubi si  uec adunai, praeteiibilur; et si Semel unum quid     ili   digressione che s'allunghi dalla causa, o di querela, o di similitudine, o di diletto, elio non sia  straniero all'afTare di che si tratta, o che si faccia  a (Ine di amplificazione. La terza specie è estranea  alle cause civili, la quale con cs crc zio non inutile  si scrive e si recita per amore di dar piacere. Ila  due parli la narrazione, di cui la prima versa specialmente sui fatti, l'altra piuttosto sulle persone.  Quella clic consiste licita sposizione dei falli, ha  (reparti, la favola, la storia, l' argomento. Favola è quella clic conlicnc cose nò vere, nè veri simili, come sarebbe :  La narrazione clic versa intorno a personaggi è  fatta di modo clic insieme con i falli si possali conoscere le parole o l'animo dei personaggi stessi.  Tale i la seguente ;   ( Ei viene spesso a me, mille tragedie  Facendomi nel capo : o Milione,   Grida, che fai ? a clic ci perdi il figlio ?   A clic gli amori, e il vino ? a clic di queslo  Gli dai le spese ? tu di troppe gale  Gli lasci far, e troppo esci dei termini.   Troppo egli è austero, oltre l’onesto c il retto •  In questa specie di narrazione bisogna molta piacevolezza, la quale si vuol trarre dalla varietà delle cose, dalla dissomiglianza degli animi, dalla  gravitò delle persone, dalla loro mansuetudine,  dada speranza, dal Umore, dal sospetto, dal desiderio, dalla dissimulazione, dall'errore, dalla misericordia, dalla cambiatila di fortuna, dalla disgrazia improvvisa, dalla subita allegrezza, dalla  lieta riuscita delle cose. Però questi ornali della  narrazione si piglieranno dietro i precetti clic ilano dati quando della locuzione verrà da parlare.  Ora s'ha a dire di quella specie di narrazione clic  comprende la sposizione della causa. E necessario di’ essa sia breve, clic aperta, che probabile. Sarà breve, se piglicrasscnc il  principio da ciò clic preme, c non si comincerù  da qualche punto che sia lontano di troppo, e se  bastando clic si esponga la somma dell' alTare, si  lascerà di divisarne le parli individuale (perocché  spesso è sufficiente che si dica ciò clic fu fatto,  senza clic si racconti come fu fatto); c se nel fare  la racconlazinnc si schiverà di andar più là di quel  clic fa d'uopo perchè si sappia ciò clic imporla sapere; c se si eviteranno i passaggi io altre cose  diverso; e se si |>arlcrà in guisa che qualche volta  da quel clic fu detto s'intenda ciò clic fu taciuto; e que dicelur; cl si non ab co, in quo proiimc desimin crii, deinccps ineipiclur. Ac mulo: imilalio  brcvilatis decipil, ul, quuin se breves pulentc-sc,  longissiml siisi; quuin detti operarli, ul rcs mullas  brevi dicaul, non ut omnino paucas rcs dicant, et  non plures, qnnm necessc sii. Nani plerisquc breviler videtur il cere, qui ila ilicil : Accessi ad aedcs. Pucru.'U evocavi, liespondil. Quacsivi dominuin. Domi negavi! esse. Ilio torneisi lot res brevius non poluil diccrc, lamen, quia salis fui! dixissc : Domi negai it esse, IU rerum mulliludine  longus. Oliare, Ime quoque in genere vitanda est  brevilatis imilalio, et non niinus rcrum non neccssariarum , quam «erborimi mullltudiue supersedenduin esl. Aperta autern narrati» poteri! esse,  si, ut quidquc primum gcslum crii, ita printum  opoueliir, et rerum ac temporum ordo sorvabimr,  ut ila uarrcnlur, ut gcslac rcs erunl, sul ut potuissc gerì vid' buniur. lire crii considerandum,  nc quid perturbale, ne quid contorte dicalur, ne  quam in aliam rem Iransealur, ne ab ultimo repelalur, ne ad cvlrenium prodealur, ne quid, quod  ad rem pertinenti, praelereatur ; et omnia», quae  praccepta de brevilate sunt, hoc quoque in genere sunl conservando. Nani saepe res parum est intellccta longitudine magis, quam obscurilate narralionis Ac verbis quoque drluridis uicndum esl;  quo de genere diccndum est in praeccplis clocu  liullii. Probabilis erit narrilio, si in ea videbuulur inesse ea, quae seleni apparerò in vcritale ; si  personarum digiiilalcs servabunlur ; si causae fadorimi cislabunl ; si fuissc faeullales radunili viilebrintur ; si Irmpus idoncum, si spalli salis, si  bicus opporluuos ad camdetn rem, qua de re narrabitur, fuisse oslendclur; si rcs et ad corum, qui  agoni, uaturam, et ad vulgi morena, et ad eorum,  qui aiidicnt, opinionem accuininodabilur. Ac veri  quidem similis cvliis ralionibus esse polerit. Illusi  aulem praetcrca considerare oporlcbil, nc, aul  quum olisi! narrati», aut quuin nihil prosatameli  intarponatur; aut non luco, aut non, qiicraaduioriunì causa postulai, narrctur. Obest lum, quum  ipsius rei gcslae evpositio magnam eveipit olfcnsiouem, quam argiimciilando et catisam agendo  Icniri oporlcbil. Quoti quum ucciderli, membra- j  tini opurlebil parlcs rei gcslac dispergere ili cau- i  sani, clad imam quaiuque coulestim ralionem ac- j  cotnuicdarc, ul vulneri praeslu mcdicamcnluin sii, |     se si Iralasccrà non pure ciò che nuoce, ma eziandio ciò clic nè nuoce, uè giova; e se ogni cosa si  dirò solo una fiala; c se si causerà di ricominciar  da quello, da cui si sarà finito. Molti allucinano  nel seguire la brevità, sicché quando hanno fantasia di esser brevi, sono per coulra lunghissimi,  perché danno opera a dir molte cose alla breve,  nou ai dirne al postutto poche, e non piò che non  bisogna. E infal li credono molli che saria breve  chi parlasse cosi: Fui alla casa. Chiamai il servo.  Rispose. Chiesi del padrone. Mi disse che era ruori. Costui, eziandio che lame cose non polea dire  piò brevemente di cosi, lunaria, perchè bastava  aver dello; Rispose che era fuori, diventa lungo  per le troppe cose. Laonde anche in questa parie  si vuol evitare d’i.-nitar una falsa brevità, c si dee  astenersi non meno dalle cose non necessarie, che  dalia moltitudine eziandio delle parole. Aperta  potrà essere la narrazione, se sarà esposto prima  ciò clic prima addivenne, e ai manterrà l'ordine  delle cose e dei tempi cosi che le coso sien narrale come cltellivamenlc sono addiv enute, o come  pare che lo potessero essere. E qui s'ha a veder  bene clic uiciilc sia dello alla confusa, niente c»n  istiracchiatura; clic non si sdruccioli in co«c estranee, clic non si ripigli il dello prima, clic non si  vada innanzi fino allo stremo, qualora sia inol io  alla causa; elio non si trapassi nulla di quanto s’atlicue al fullo:in somma ciò che sopra alla brevità si  è prima insegnalo, anche in questa parie si dee ritenere del lutto. Perocché avviene di frequente che  una cosa é poco inlcsa più per la sua lunghezza che  per la oscurità della narrazione. Anche si vorrà far  uso di parole ciliare; ma di questo in' incontrerà  di dire nei precelli clic darò sopra l'elocuzione. Sarà probabile la narrazione, se si troveranno in essa quei seguali che sogiiuno manifestarsi nella verità; se si conserteranno i caratteri  delle persone; se sussisteranno le cause dei falli;  se si parrà cho l'agente avesse copia di agire; se  si mostrerà clic al fallo che si narra il tempo fu  acconcio, lo spazio sufficiente, opportuno il luogo; se la cosa sarà relativa alla natura di quelli  clic vi avranno parie, c al reslanle del volgo, e  aU'opinionc degli uditori. Per queste ragioni potrà il racconto esser anche verisimile. Conterrà  inoltre considerare pur questo, che non s'ha a far  narrazione si quando nuoce, c si quando non giova, o clic non s'ha a farla fuori di luogo, o diversamente da quel che la causa richiede. Nuoce, allorché la dipintura del fallo é esposta a qualche  grate contrarietà, clic argomentando c trillando  la causa sarà necessario di miligarc. Quando avverrà il caso che nuoca la narrazione, si dovrà il  fallo distribuire a parie a parie nell' orazione, e et odium stallar, detonilo miligct. Nihil prodcsl  ilari alio lutti, quum aut ab advcrsariis re cvposita,  nostra nihil interest itcrum, aut alio modo narrare ; ani quum ab iis, qui audìunt, ita tcnctur uegoliuni, ut nostra niliil intersit cos alio paolo do.  cere. Quod quum accideril, ninnino narratione  supcrsedcndum est. Non loco dicitur, quum non  in ca parte orationis collocalur, in qua res postulai ; quo de genere agcmus lum, quum de dispostone diccmns; iijiii hoc ad disposiliimem pcrtinet. Non quemadnindiim caus i postulai, narratur,  quum aut id, quod adversario prodesl, dilucidc et  ornate cvponilur, aut id, quod ipsum adiuvat, oliscure dieilur et ncgligcnter. Quare, ut hoc litium  vitetur, omnia turquenda sunt ad commodum suae  causac, contraria, quae praclcriri poterunt, praclercundo, quac illius eruut, leviter attingendo,  sua diligcnler et cnodalc narrando. Ac de narratone quidem salis dicium ìidclur ; dcìnccps ad  parliiioncin Irauseamus. Rrcle habila in causa parlilio illustrerò  et pcrspicuam totani cllìcil oralioncin. Parlcscius  sunt duae, quarum ulraqoc magno opere ad apericndam caosam, et constitucndam pertinct controversiani. l'na pars est, quae quid cimi ad versa  riis convelli, il, el quid in controversia rclinqualur,  oslendil; et qua certum quiddam deslinalur auditori. in quo animimi dclical bobere oceiipalum.  Altera est, in qua reruni carimi, de quilius crimus  dicltiri, brciilcr eiposiiio poniliir dislribula ; ci  qua connciiur, ut ceri -s animo rcs tcncai auditor, quibus diclis inleliigal roro peroratimi. Nunc  ulroquc genere parlilionis quemadmodum convcnlat uti, brevitcr dicemlum videtur. Quae partilio, quid convenial, ani quid non convcnial ,  oslendil, dace debel itimi, quod convenil, inclinare ad suae causac commodum, hoc modo : Inlerfeclam malrcin esse a lilio convenil mihi cum  advcrsariis. lem conica : iiiierfeclom esse a Olytaenineslra Againemnonem convenil. Nam liic ulerque et id posuil, quod convcniebat, cl laincn suae  causac commodo consuluit. Deinde, quid controvertiae sii, ponendum est in imlicalionis esposilione ; quao quemadmodum invenirelur, ante dicium est. Quae aulcin parlilio rcrum dislribularum conlinet ciposilioncin , haec Iutiere dolici  brevitaicui, absoliitioiiem , paacilalcni. Itrciilas  esl, quum uisi neccSsarium imi lum adsumilur ver   soggiunger loslu a ciascuna parie la sua ragione  giiislilicaliva, acciocché alla ferita sia subito in  pronto In medicina, e ciò che olleude sia miligaIn dalla ragione che tosto lo giuslillca. Non giova  la narrazione, quando essendo csposlo il fallo dagli avversarli, non è di nessun momento il ripeter  noi la slessa cesa, ancora clic in altro modo; o  quando quelli che ascoltano si conoscon dell'alfa,  re co.) bene, che importa nulla che noi lo porgiamo loro a sapere con olire parole. Allorché dunque imballerà questo caso, s> dovrà affittii omettere la narrazione. È essa fuori di luogo quando  si colloca in ultra parie della orazione da quella  che il fatto esige; ma di ciò tratteremo quando si  parlerà della disposizione, a cui questo caso si  riferisce È falla la narrazione diversamente da  quel che richiede la causa, quando o si espone  con chiarezza c adornalo ciò che prolilla all'avversario, o diciamo oscuramente c alla spensierata ciò che dee far prò a noi slcssi. Il perchè, a voler che questo difello non intervenga, si dee pie  gare ogni cosa al vantaggio della noslra causa,  causando delle cose sfavorevoli le più clic si possa, e facendo di attinger alla rieisa ciò che fa all'avversario, e narrare ciò che fa a noi con diligenza e lucidità. Della narrazione mi pare aver dello  abbastanza; ora facciamoci alla partizione. La partizione, quando sia ben falla, dà  lustro e chiarezza a tutta la diceria. Issa ha due  parli, di cui ciasc 1 1.1 conferisce troppo bene a  chiarir la ragione dell i causa c (issare la conlrovcrsia. La prima di qiieslc parli dimostra i punii, in  cui si è in concerto con gli avversari, e i punii che  si lasciano alle parli da dover d-ballcre; nel che  ci si licite come ad assegnare all'uditore la parte  di che la sua attenzione si dee frammettere. L'altra è quella, io cui cun brevi parole si spnngonn  divisalamentc le cose, di cui siamo per ragionare; di che viene, che l’uditore coirà a conoscere quelle date cose, ragionale le quali sa che  l'orazione dee esser finita. Ora, come si convenga  far uso di quesle due parlile, verrò dicendo sotto  brevità. La partizione moslru quello in cui le parli  accordano, e quello in cui no. L'oralorc dee però  acconciare l'accordo al taniaggio della propria  causa; «ciò egli farà, dicendo: Che la madre sia  siala uccisa dal (iglio, io accordo con gli avversari!. E cosi per conira: Accordo io già che Agamennone sia sialo morto ila Clilcnneatra. In questo  dire l'uno c l' altro avversario toccò un pillilo di  comune accordo, c nondimeno provvide al prò  della propria causa. Dipoi, quanto v’è di coulro  verso dee collocarsi là dove si spone il punto da  giudicare; c del controverso come venga a rilevarsi, si è già delio di qui addiclro. La seconda parie, lium. Ilare in hoc genero ideirco est utilis, quod  rebus ipsis cl parlibns causac, non verbis ncque  cilrancis ornamenlis animus auditnris tencndus  est. Absolulio csl, per quain omnia, quac ioeidunl  in causam, genera, de quibus diccudum csl, arapleclimur. In qua parli Mone lidendum csl, ne aut  aliquod gcnus utile rclinqualur, aul sero dira  parlilioncu),id quod viliusissiinum aclurpissiinum  csl, inferalur. Paucilas in partilione scrvalur, si  genera ipsa rerum pnnunlur, ncque periuiilc cum  parlibus implicaniur. Nam genus csl, quod plurcs  partes ampleclitur, ul animai, l’ars est, quac subosl generi, ul cquus. Sed saepe eadem res alii  gcnus, alii pars est. Nam homo animalis pars csl,  Thebani aul Troiani gcnus. liaee ideo diligcntius ìnducilur pracscriplio, ul aperte in'cllecla generali partilione, paucilas gcucrum in partilione scrvari possil. Nam,  qui ila parlilur; Oslendain propler cupidilalcm cl  audaciam et avariliam adveisariorum omnia iocommodu ad rem publicam pervenisse; is non inIcllcxil in parlilione, «posilo genere, parlem se  generis admiscuisse. Nam genus est omnium niinirmn l.bidinuin cupidilas ; eius autein generis  sine dubio pars est avaritia. Hoc igitur vilanduin  csl, ne, cuius genus posucris, eius siculi aliquam  diversam ac dissimilem parlem ponas in eadem  parlilione. Quod si quod in gcnus plurcs incident  partes, id quuin in prima causac parlilione eri!  simplioilcr expositum , dlslribucliir lemporc co  rommodissime, quuin ad ipsum venlum crii oiplieandum in causae diclionc post parlilioncm.  Alquc illud quoque pcrlincl ad paucilalem, ne  aul plura, qoain salis csl, demouslraluros nos diranius, li io modo : Oslendain adversarios, quod  arguimus, et potuissc faeere, el v*duissc, el fccìs*  se; nam fecisse salis csl osleuderc : ani, quum in  causa parlilio nulla sii, et quum simplex quiddam  agalur, tamen ulamur dislribuliouc; id quod perraro polesl aceidere. Ac suoi alia quoque pracccpia parlilionum, quae ad hunc usum oralorium  non laido opere perlincant, quae vcrsanlur in pliilosophia, ex qmbus liacc ipsa Iranslulimus, qiuc  convenire videbanlur, ipioruin niliil in ceteris arlibns invciiicbamus Alquc bis de parlilione praeceplis, in omni diclionc meminisse oporlebil, ul  cl prima qiiaequc pars, ul espusila esl in parlinone, sic ordine iran-igatur; cl omnibus esplicali*  peroratimi s i hoc modo , ul ne quid posteriu» cioè dire quella che conlicno la sposiiione delle  cose divisale, dee esser breve, intiera, parca. È.  breve, quando non si pongano parole olire le necessarie. Questa qualità della partizione è utile  per ciò, clic l'addizione deU'uditore bassi a fermare per mezzo delle cose stesse c delle parli della rausa, non per mezzo delle parole nè di ornali  estranei. È iutiera quando abbracciamo tulli i  punii che cadono nella causa, e de'quali bassi a  ragionare. In questa dote della partizione deesi  aver l'occhio che o non si ommetta qualche punto  vantaggioso, o non si introduca troppo lardi fuori  della partizione, il elio è difello molto vizioso e da  vergognarsene. È parca la partizione, se vi si toccano I soli generi delle cose senza impigliargli e  intrigare delle loro specie. È genere quello che  conlicno in sè più specie, come animale. È specie  quella che è soggetta al genere , come cavallo.  Ma sovente la stessa cosa da dii è adoperala per  genere, da chi per ispecie. E infatti uomo è specie di animale, è genero di Tcbano o Troiano. Questa regola si vuole perciò inculcar  bene, perchè inlesa clic siasi chiaramente la partizione generale, si potrà serbare in essa la parsimonia delle parli. Poiché chi facesse la parlilione  cosi: Mostrerò clic, colpa la cupidigia, l'audacia c  l’avarizia degli avversarli, vennero addosso alla repubblica tulli i malanni: costui non si avviserebbe  che dopo esposto il genere ei mescolò nella partizione una specie di esso genere. Perocché la cupidigia è un geuere che abbraccia tutti i desideri i  sfrenali, c l'avarizia è senza dubbio una specie di  qucslo genere. Si dee dunque guardarsi che quando è posto il genero non si ponga nella slessa partizione la sua specie, come se fosse una cosa diversa, che non avesse alcuna somiglianza col genere. Clic se nel genere cadranno molte specie;  poi clic si sarà esposto il solo genere nella prima  partizione della causa, si potrà a ludo agio scompartirlo nelle sue spcc c allora che si verrà a (rattare di esso nel corpo della causa dopo la partizione. Inoltro si spella anello questo alla parsimonia, voglio dire, che non promettiamo di dimostrare più di quello clic basta, coinè sarebbe: Mostrerò che gli avversarii e poterono fare, o vollero,  c fecero quello, di elio io li accuso; poiché il mostrare elio fecero è quanto fu: ovvero che qualvolta  la causa non patisce partizione, e si traila un alTur  semplice, non dobbiamo divisarlo in partile; ma  queslo caso non può occorrere che assai di rado.  Ci sono altri precetti circa la partizione, uia che  non si roiifamio gran fallo con questo uso oratorio, porcili spellano alle cose di filosofia, lo uè ho  qui recali quelli che mi parte fossero il raso, e  clic noli (rovai in nessun altro trattalo di retorica. praclcr conclusionem inferatur. l’artilur apud Tercnlium brevi ter et commode scnci in Andria,  qua e cognoscere libertum veli! :t Eo paolo et gnati vilam, et consilium meum Cognosces, et quid Tacere in hac re te velim. a   Itaquc quemadmodum in parlionc proposuit, ita  narrai, priimim guati vitam :  a Nam is pnslquam exccssil ci cpbcb ; s, Sosia... a  Delude simin ennsilium : Dipoi ciò eli’ egli pensa :  o E di presente a questo io penso In line ciò ch’ei vuol fatto da Sosia, il che dice da  ultimo perchè l’espose in ultimo nella partizione:   « Or egli è ufficio tuo   Come dunque esso vecchio trattò per prima in  parie che pose prima nella partizione, e finito di  ragionarle tutte, fece line, cosi sta bene a noi pigliar per mano secondo ordine i membri della  partizione, e solo dopo svoltili lutti, farsi a conchiudcrc. Ora è da venire ai precetti circa la confermazione, secondo clic richiede l'ordine finora  tenuto. La confermazione è quella, per la quale la orazione col mezzo dcH’argomcnlarc aggiunge fede e autorità c fermezza alla nostra causa.  Iti questa parte della orazione v'ha alcune regole  determinalo, le quali saranno sparlile c applicate  alle singole specie di causa, quando se ne Irallcià.  Nuli di manco non torna qui inopportuno mettere  innanzi una certa selva, ro'dirc un ammasso sfolgoralo di tulle le forme ili argomentazione, clic  finora non erano altro clic un miscuglio, clic un  disordine, e poscia insegnare come sia da farsi la  confermazione in ogni maniera di causa con tutte  quelle formo di argomentare clic fra queste si saranno pigliale. Ogni asserto si conferma con le  argomentazioni clic si traggono o dalie circostanze clic si riferiscono alle persone, o da quelle cheai falli. Alle persone si riferisce il nome, la ualura, il vivere, la condizione, la dispostezza, l'affczi iuic, gli sludii, i disegni o intenzioni, i falli, gli  accidenli, il discorso. Il nome è quella appellazione clic si dà ad ogni uomo, pen ile sia chiamalo con proprio c dclcrminalo vocabolo- La naluia  è cosa forte a definire: più facile è annoverare  quelle patii di essa ilio a porgere questi nostri  prerclli soli di bisogno. Parli siffatte son proprie,  alcune della specie divina, alcune della specie nius ; cognatione, quibus malori bus, quibus consanguineis: actate, pucr an adolesccns, nalu grandior an sene*. Praelerca commoda et incommoda  considerantur ab natura dala animo aul torpori,  hoc modo: valens an imbccillus; longus an brevis; fon ’osus an deformisi telox an lardus sii; aculus an licbctior ; memor au oblis io^us ; comis, oIRciosus, pudens, paliens, an conlra. Et  omnino, qnao a natura danlur animo et corpori,  considerabunlur in natura. Nam quac industria  comparantur, ad habitum perllncnt, de quo poslcrius est dicendum. In vielu considerare oporlel, apud quos,  et quo more, et cuius arbitrali! sit cducalus, quos  habuerit arliuni liberalium magislros, quos livcndi pracceptores, quibus amicis ulalur, quo in ticgolio, quacslu, artifìcio sii oecupatus, quo modo  rem familiarem adminislret, qua consuetudine domestica sit. In fortuna quaeritur, scrvus sii an liber, pecuniosusan Icnuis, privalus an cum polestalc : si cum poleslaie, iure in  iniuria; Mix, eiarus, an conlra ; qualcs libcros liabcal. Ac si de  non vivo quaerctur, cliarn quali morte sit adfcclus. crii considcrandum. Habitum autem appellamus animi aul corporis constanlem el absolutam  aliqua in re pcrfcclioncm, ut virlulis aut arlis ali cuius pcrci ptionem, aut quamvis scicntiam , et  item corporis aliquam eominodilalem non natura  dalam, sed studio el industria parlarli. Adfcclio est  animi aul corporis l-i tempore aliqua de causa  commutal o, ut taclilia, cupidilas, rnctus, molestia, morbus, debililas, et alia, quac genere in codem rcpcriunlur. Studium est aulem animi adsidua el vcliemcns ad aliquam rem applicata magna  cum lolunlale occupatili, ut philosopliiac, poèlicao, geometriae, littcrarum. Consilium est aliquid  facicudi, non faciendivc escogitala ratio. Farla alilem et casus et orationes iribus e* temporibus  considerabunlur : quid fcccril, aut quid ipsi acci'  derit, aut quid diserit ; et quid facial, quid ipsi  acridi!, aut quid faelurus sit; quid ipsi casurum  sii, qua sit usurus oralionc. Ac personis quidem  bore vidcnlur esse attribula.     umana. Quelle della specie umana, altre si coniano nell'uomo, altre nelle bestie. Quelle clic nclFuorno, sono il sesso, o virile o muliebre, la nazione, la patria , la parentela, l'età: la nazione, se è  greco o barbaro; la pairia, se Ateniese o Sparlano;  la parentela, cioè dire quali ha antenati , quali  consanguinei; la clà, se è fanciullo o adolescente,  se adulto o vecchio. Si riguardano oltracciò i comodi o le incomodità che son date, dalla natura  all' animo o al corpo, quali sono l'csscr l'uomo  possente 0 debole; lungo o orlo; bello o brullo;  veloce o lardo; acuto o ottuso; memore o smemorato; dolce, obbligante, verecondo, pazicnlc, o  all'opposto. In somma quelle qualità che son date dalla natura all' animo o al corpo si vorranno  considerare per palli di essa natura: giacché le  qualità che si acquistano coll'Industria sospettano  alla vlisposlezza, di cui s'ita da dire dappoi poco. Nel vivere ò uopo osservare presso cui  l'uomo fu educato, a quali coslumi, ad arbdrio di  chi, quali maestri abbia avuti delle arti liberali,  quali precettori della maniera di vivere, con quali amici egli usi, di quali faccende, di quali guadagliene, di quale prie si frammetta, come amministri il patrimonio domestico, quali usanze c modi ci tenga in casa. Quanto è alla condizione, s'ha  a vedere se l'uomo è servo o se libero, se bene  o se male accivilo di danaro, se privalo o in uIHcio pubblico; e dato clic in ulllcio, se vi fu eletto,   0 se vi s'intruse; se felice, se nominato, n all'opposto, se i suoi Agli sono di buona o di malvagia  qualità. E se si parlasse di un trapassato, si dovrà  vedere di qual morto c’iiniva. Dispostezza o abito  si appella una cosiamo e assoluta perfezione dcll'aiiimo o del corpo in una cosa, come sarebbe la  conoscenza pratica di una virtù o di un'arte, ovvero una scienza qualunque, e similmente una  qualche dote del corpo, non impartita dalla natura, ma acquisita con lo studio e l'industria. Affezione è ogni mnlanza che succede improvviso o  nell'animo o nel corpo, originala da qualche causa, come allegrezza, desiderio, paura, moleslia,  malattia, debolezza, 0 altrettale. Studio è un'assidua e forte occupazione dcll'ouinio intorno a  qualche cosa, accompagnata con grande inclinazione di volontà, come sarebbe intorno a filosofia,  a poesia, a geometria, a erudizione. Disegno n  inb-nzioiic diccsi un avviso pensato di fare o non  fare alcuna cosa. I fatti la ultimo, gli accidenti,   1 parlari vogliono considerarsi relativamente ai Ire  tempi, cioè attendere clic cosa altri abbia già fatto, che gli sia intervenuto, che abbia detto; che  cosa faccia, che gl'inlcrvenga, che dica; clic sarà  per fare, che per avvenirgli, che discorso sarà per  lenere. Tutto questo si riferisce alle persone. Negotiis aulem quae sunl atlributa, partim sunl contincnlia rum ipso ncgolio, pari irn in  gestione negotii consideranlur , parlim adiuncia  negolio sunl, parlim gcstuni ncgotiiim consequunlur. Conlinenlia cum ipso negolio sunl ea, quae  semper adlìxa esse vidcnlur ad rem, neque ab ea  possunl separari. Ei bis prima est brevi compieaio totius negolii, quae summam cominci facli,  hoc modo: Pareniis occisio, palriae prodiiio; dein  de causa cius summae, per quam el quam ob rem  et cuius rei causa factum sii quaerilur; deinde  ante geslam rem quae farla sinl, conlinenlcr usque ad ipsum negolium; deinde, in ipso gerendo  ncgolio quid aclum sii ; deinde, quid pò- le a factum sii. In gestione autem negolii, qui locus sccundus eral de iis, quae negnliis atlributa sunl,  quacrctur locus, lempus, occasio, modus, facullalcs Locus considcralur, in quo res gesta sii, et  opporluuifalc , quam videatur liabuissc ad negolium adminislrandum. Ea autem opporluuilas  quaerilur ei magnitudine, immollo, longinquilalc, propinquilale, solitudine, cclcbrilale, natura  ipsius loci el «icinilate lotius regionis ; ex bis etiam allribulionibus : sacer an profanus, publicus  an privalus, alicnus an ipsius, de quo agilur, locus sii aut fueril. Tcmpus est autem id, quo Dune  ulinaur ( uam ipsum quidem generallter defluire  difllcile est ), pars quaedam aelernilalis cum ulicuius annui, mensurni, diurni, noclurnirc spalii  certa signiflcatione. In hoc et quae praclcrierinl  consideranlur; el eorum ipsorum, quae propter  velustalem obsolcterinl, ut incredibilia tidcanlur,  et iam in fabularum numerum reponanlur;cl quae  iam diu gesla et a memoria nostra remota, lamen  faciant (idem «ere tradita esse, quod eorum monumenla certa in lilteris exslent ; et quae nupcr  gesla sint, quae scire plerique possinl ; el ilem  quae instenl in praesentia, et quae quum maxime  flant, et quae consequanlur. In quibus polest considerari, quid ocius et quid serius fulurum sii.  El ilem communiler in tempore perspicicndo longinquilas cius est considerando. Nam saepe oportel commctiri cum tempore negolium, el «Mere,  potueritne aut magnitudo negolii aut mullitudo  rerum in co transigi tempore. Considcralur aulem  lempus et anni et mensìs el dici et noclis et vigiline el borac et in aliqua parie alicuius borimi. Quanto poi alle circostanze che si riferiscono ai falli, parte di esse son congiunte col fallo stesso, parie si riconoscono nella gestione del  fallo, olire sono come una aggiunta, altre vengono in conseguenza del fallo. Congiunte con esso  sono quelle che se nc stanno costantemente appiccale al fallo, senza che le si possano da esso  dispiccare. Fra queste la prima i il breve sunto  che contiene la somma del fallo, per esempio: La  uccisione del padre, il tradimento contro la patria: la seconda è la causa di quella somma, per  la quale si cerca quale sia il movente, e quale lo  scopo del fallo: la terza è il cercare quali sicno  gli antecedenti che avvennero sino all' istante del  fallo: la quarla £ il vedere clic si fucessc nell'ano  stesso di trascinar quell’azione; in One il cercare  che si facesse dappoi. Circa alla gestione del fallo, clic è la seconda tra le specie di circostanze  che si riferiscono alle cose, si cercherà quale ne  fosse il luogo, il tempo, la occasione, il modo, la  attitudine di citi lo trascinò. Per luogo s' intende  il dove fu operalo, rclalivamenlc alla opportunità  che offerse di poterlo maneggiare. Questa opportunità si cerea di trovarla nell' ampiezza del silo,  neU'intervallo, nella lunghezza, nella prossimità,  nella solitudine, nel bazzicarvi la genie, nella natura del luogo slesso, nel suo vicinare col rcslo  della contrada. Ccrcherassi l'opportunità eziandio  in questi altri caratteri del luogo; ac esso £ ovvero fu sacro o profano, se pubblico o privato, se  d’altrui o di quello stesso, di clic si traila. Il tempo  quale £ quello che noi usiamo oggi (poiché il definirlo in generale £ malagevole), £ una parie deli’clernilà, che porla seco la speciale significazione dello spazio annuo, del mensile, del diurno o  notturno. Quanto al tempo si dovrà considerare  le cose passale; e fra queste si daranno a credere  per false c da ripor Ira le favole quelle clic per  vecchiezza sono andate In disuso; e quelle altresì  che furono operate pezza fa, c che son venule a  quasi non si sapere; le quali però si mostrerà che  son vere, e che la tradizione che le rapporta è  giustificala da monumcnli non dubliii che restano  tuttavia nelle storie; e quelle inoltre che furono  fatte di fresco, e che possano per ciò essere a molti  sconosciiilc; e similmente quelle che addivengono  in presente, c quelle che il più spesso, c quelle  che poscia seguiranno. Tra queste ultime si può  far attenzione quali più tosto, e quali saranno più  tardi per accadere. Arrogo, clic quando bassi ad  argomentare dal tempo, convien d' ordinario por  mente alla lunghezza di esso; poiché incontra sovente che si debba coinmisu rar con esso la cosa,  e vedere se in un dato andare di esso polessc essere dalo spaccio a un affar di rilevanza o a molte Occasio aulcm est pars lemporis Imbens  in se alicuius rei idoneam faciendi aul non faciendi opporlunilaiem. Quarc cum tempore hoc differì : nam genere quidem ulrumque idem esse  iiitelligitur ; vcrum in lemporc spalium (|uodam  modo deelaralur, quod in anni», aul in anno, aul  iu aliqua anni parie spcrlalur , in occasione ad  spalium lemporis faciendi quacdain opporlunilas  inlelligilur adiuncla. Quare quum genere idem  sii, fit aliud, quod parie quadam cl specie, ul dixiinus, ditterai. Haec disi ributtar in Iria genera,  publicum, communo, singolare. Puhlicum esl,  quod clritas universa aliqua de musa frequentai,  ul ludi, dies feslus, belluin. ('.orninone, quod accidil omnibus codcm fere lemporc, ul messis, sindemia, calor, frigus. Singolare aulcm est, quod  aliqua de causa privatilo alicui solcl accidere, ul  uupllac, sacrillcium, funus, convivium, somnus.  Modus aulcm est, iu quo quemadmodnm cl quo  animo factum sii, quaerilur. Kius parics sunl prudenlia cl imprudenlia. Prudenliae aulcm ratio  quaerilur ex iis, quae ciani, palam, vi, persuasione feceril. Imprudenlia aulcm in purgationem  ronferlur, cuius parics sunl Inseienlia, casus, neeessilas, cl in adfeelionem animi. Ime esl, tnulcstiam, iracundiam, amorem, cl celerà, quae' in simili genere vcrsanlur. Facullalcs sunl, aul quibus  facilius fit, aul siile quibus aliquid ronfici non  potosl. Adiunclum negolio aulem jd inlelligilur, quod majus, el quod iniiius, el quod sìmile,  eril ei negolio, quo ile agitur, el quod aeque inagnum, el quod contrarimi), cl quod disparalum,  el genus et pars cl ciculus. Majus el minus el acque magnum ex vi el ex numero et ex figura ncgolii, sicul ex sialura corporis, consideratur. Simile aulem ex specie comparabili : comparabile  aulem ex conferenda aique adsimilanda natura judicolur. Conlrarium esl, quod positum in genere  diverso, ab codcm cui conlrarium esse dicilur,  plurimutn disiai, ul frigus calori, vilae mors. Disparatuni nnlcm evi id, quod ah aliqua re per oppatilioncm negalionis separalur, hoc modo: sapere, el non sapere. Genus esl, qund parles ali quasampleclilur, ul cupidilas. Para osi, quae subesl generi, ul amor, ovaritia. Kvenlus esl exilus cose insieme. Si fa aitarsi allenzionc al tempo ri  spello all'anno, al mese, al giorno, alla notle, allo  vigilia militare, all'ora, e ai ritagli di ciascuno di  questi periodi. Occasione è una parlila di tempo clic  contiene in sè l'opportunità o l'adatta congiuntura di fare o non fare alcuna cosa. Quindi da occasione a tempo v’ha questo divario, clic sebbeoe  c questo e quella son compresi nello slesso genere, puro nel tempo si vieti a significare solo un  qualche spazio che si trova o in più anni, o in uno,  o in qualche parie di esso; laddove nell'occasione  s'intende allo spazio dei letnpo aggi mila una colale opporlunllà di fare. Epperò, tuttoché eguali  nel genere, diventano pure due cose differenti;  perchè, come dello è, si differenziano in una parie, ossia nella specie, che è l'opportunilà. L'occasione si divide in tre, cd è o pubblica, o comune,  o particolare. E pubblica quella che si presenta  bene spesso alla città intiera per qualche ragione,  come sono i giuochi, i giorni festivi, la guerra. È  comune quella che dà a tulli quasi nel tempo medesimo, come è la messe, la vendemmia, il calore, il freddo. É particolare quando si presenta privatamente ad alcuno per qualche causa, come sono le nozze, il sacrifizio, il funerale, il convito, il  sonno. Modo è quello, nel quale si cerca come e  con che intendimento è falla una cosa. Ila esso  due parli, prudenza c imprudenza. S'indaga inumilo alla prima badando a ciò che altri fece di nascosta, in palese, con la forza, con la persuasione.  La imprudenza si risguarda come ragione giustiflconlc. e si divide in ignoranza, caso, necessità; o  si risguarda come affezione dell'animo, e si dipari le in moleslia, iracondia, amore, e negli altri inoli  interni dello slesso genere. Attitudine è quella facoltà, per cui si fa con molta agevolezza alcun che,  o senza coi niente si può fare. È circostanza aggiunta al fallo ciò che  è di maggior importare o di minore, o simile al  caso di clic si Iratta, e ciò che £ egualmente grande, e ciò che conlrario, c ciò che disparata, e il  genere del fallo, e la specie, e l'avvenimento di  esso; cose tulio che per avere attinenza col fallo  oifrono materia di argomentazione. Come dalla sta tura si deduce la grandezza di un corpo, così dal  nerbo, dai punii, dalla forma dui fallo si conosce  la circostanza clic gli è maggiore, o che da meno,  o che lo pareggia. Il simile si rileva da specie che  possono ira loro paragonarsi; e si può paragonare  ciò clic Ita natura suscettiva di confronto e di essere rassomigliata. Conlrario è ciò che balle in  genere diverso, e clic va mollo di lungUla quello  a cui si dire conlrario, come il freddo va lungi dal  calore, la morie dalla vita. Disparate dieonsi dite LI litio I. alicujus negotii, in quo quocri solfi, quii) pi quoque re cveneril, evenirli, cvrnlurum sii. Quarc hoc  jn genere, ut commodius,quid eventurum sii, aule  animo colligi possi!, quid quaque ei re solcai evenire, considerandum est, hoc modo: Ex adroganlia  odium ex insoleoiia adrogaqlia. Quarta aulem pars  esl ei iis, quas negotiis dicchamus esse allrihutns,  consentilo. In Irne rae rcs quaerunlur, quae gcslum negotium conscquuntur: primum, quod factum esl, quo id nomine appellar! coni miai; delude ejus facti qui sin! prtneipes et invenlores, qui  denique aucluriialis ejus cl invcnlionis comprohalorcs alqoe aemuli; deinde ccquae de ea re aul  cjnsrci sii lev, consuclmlo, urlio, judicitim, scintila, arliOcium; deinde natura cius evenire vulgo  solcai au insolcntcr cl raro; poslea lioinines id sua  auclorilalc cnmproharc, an offendi re in iis consueriol; et celerà, quae fariuin aliquod simililer  confeslim, aul ex intervallo solent Consequi. Deinde proscenio allendcudum esl, cium quae res ci  iis rebus, quae positae sunl in parlihus honcslalìs aul ulililalis, consequanlur; de quibus in delheralivo genere causae distinclius crii diccndum.  Ac ncgoliis quidem fere res cae, quas commemoravimus, sunl altribulac. Oninis auleta arguii» ulali", quae ex iis  locis, quos commetnoraviinus, sttnielur, aul probahilis, aul necessaria debt-bii esse. Elcnini, ut  breviler describamus, argumenlalio vidclur esse  Intenlum aliquo ex genere, rem aliquam aul pròbabiliter oslcndens, aut necessarie demonstrans.  Necessarie dcmnnslranlur ea, quae aliler ac dicunlur noe fieri ncc probari possuul, hoo modo :  Si pepcril, cum viro concubuit. line gcnus argumentandi, quod in necessaria dcmonslralioncvcrsatur, maxime Iraclal tir in dicendo atti per compleiionem, aul per enumerahoneni. aul per simplicem eonclusionem. Coitiplcxiu esl, iti qua, uIrunt concesseris, rcprchendilur.ad liunc modum:  Si intprobus esl, c.ur uteri» ? si probus, cur accusas ? Enumcralio esl, in qua pluribus rebus exposilis et ccleris inlirmatis, una rcliqua necessario  conlirntalur, hoc pacto: Neces.sc esl aui iniiiiicitiarum cuu-a ab Itoc esse occialini, aul inclus, aut o più cose die si separano l'ulta dall'altra per nte-:   10 di negativa, come sarebbe: sapere, e non sapere. È genere ciò che abbraccia alcune specie,  come cupidigia. È specie quella clic è soggetta  al genere, come amore, avarizia. Avvenimento del  fallo significa la sua riuscita, nella quale si cerca  ciò che sia avvenuto, ciò che avvenga, ciò che sia  per avvenire da una cosa qualsiasi. Epperfi, quanto a questo, perchè si possa prima agevolmente  comprendere dò che sia per avvenire, o die soglia avvenire da una cosa qualsiasi, bassi a far deduzione a questo modo: Dall' arroganza nasce l’odio, dalla superbia l'arroganza. Delle circostanze  che, cotn'i dello, s'appropriano ai falli, la quarla  parte comprendo quelle clic al fallo tengono dietro. Qui dunque si ccica lituo clic seguila poi clic   11 fallo è venuto a compimento; c prima, di clic  nome il fallo sia da appellasi; di poi chi simo gii  autori di esso c gli agenti precipui, e in fine quali  sieno quelli che approvarono e seguirouu l’ordinamento del fatto: poscia si ceri Iterò qual sia la  legge, sotto cui cade il fallo, quale la usanza clic  gli si oppone, quale l'azione giudiciaria, fi giudiciò, la scienza, l'arte; poi se per sua natura ci suole accascare comunemente, o per islraordinario c  di raro; indi se le persone Itati costume di auloriz.  zarlo con l’approvazione loro, ovvero se esse di  cose di lai falla si olTmviono; e cosi si cercano vki  via le altre cose che a modo simile sogliono seguire o immantinente, o dopo qualche intervallo. In  fine decsi badare se consegnano di quelle cose che   t si riferiscono all" onesto c all’ ulile; ma di qucsle  verrà di discorrere più dislinlamcnlc, quando si  tratterà della causa deliberativa. Or queste clic si  sun delle sono a un di presso le circostanze proprie dei falli. Ogni argomculaziunc che piglierassi dalle fottìi di qui addietro ricordale dovrà essere o  necessaria, o probabile. Perocché l'argomentazione è, per dirlo in breve, un trovalo di qualche  sorte, che dimostra con ragioni probabili o con  necessarie una qualche cosa. Si dimostra con ra gioni necessarie ciò che non può nè essere nè provarsi divcrsamcnle da quello elle si dice, come sarebbe: Se partorì, dunque giacque con un uomo.  Questo modo di argomentare die versa nella dimoslrazionc necessaria , si licite specialmente  quando si parla o per dilemma, o per enumerazione, o per sola conclusione. Dilemma è quello, in  cui si ribalte o l'un pittilo o labro che lu conceda; per esempio: S'egli è un malvagio, perchè li  vali di lui? se uomo probo, perchè lo accusi? Kniimerazione è quella, in cui esposte più cuse, se  uc conferma necessariamente una, dopo aver mandale a nulla tulle le altre; ionie sarebbe : h no spei, 3ut alicujus amici grafia; aul, si tiorum nihil esl, ab hoc non esse orcisum; nani sine causa  malelicium susceplum non polest esse. Sed ncque inimici) ac ruerunt, ncc melus ullus, nccspcs  ex morie illius alicujus commodi, ncque ad amirum liuius aliqucm mors illius perlinrbal. Rolinquilur igitur, u) ab boc non sii occisus. Simplex  auiem conclusio ex neerssoria conscculione confi cilur, hoc modo: Si vos me islud co tempore ferisse dicilis , ego aulem eo ipso tempore trans  mare fui, relinquitur, ut id, quod diritis, non modo non fecerim, sed ne polucrim quidem Tacere.  Alque hoc diligonlcr oporlebil xidere, nc quo pa.  cto genus hoc refelli possi!, ut ne conlirmalio modum in se argumentaliouis solum habeat et quamdam simililudinem neccssariae conclusionis, rerum ipsa argumenlalio ex necessaria ralionc consista). Probabile aulem est id, quod fere sole! (ieri, aul quod iu opinione posilum est, aul quod  habcl in se ad lisce qtiamdam simililudinem, site  id falsum est, sivc veruni. In co genere, quod fere (ieri solel, probabile buiusmodi est: Si mater  esl, diligi! fllium: si avorus est, negligi! ius iurandum. In co autem, quod in opinione posilum esl,  buiusmodi sunl probabili: Impiis apud inferos  pocuas esse paratas; eos, qui philosopbiae doni  operali!, non arbitrari dcos esse.     XXX. Similitudo aulem iu coulrariiset paribus  et ni iis rebus, quae sub camdrm rationem cadimi, maxime speclatur. In conlrariis, hoc modo:  Nani si iis , qui imprudciites laeserunl, ignosci  ronvenil, iis, qui necessario profucriml, liaberi  gratiam non oportcl. Ex pari sir: Nani ut locus  in mari sine porlu naxibus esse non potrsl tulus.  sic animus sine fide stabills aniicis non polest esse. In iis rebus, quae sub eanulem rationem caduul, boc modo probabile considcralur: Nani si  Ilodiis turpe non esl porlorium locare, nc llcrmarrconli quidem turpe est ronducere. llaec Ioni  vera sunl, hoc pacto: Quoniam cicalrix esl, fuit  vulnus; tum veri similia boc modo: Si mullus ei al iu calceis pulvis, ex ilinrre cum venire oporlebal. Omnc autem ( ut certas qtiasdant in partes  disiribuamus) probabile, quod sumilur ad argumentalionem, aul signum esl, aut credibile, aut  indicatimi, aul comparabile. Signum esl, quod  sub scusimi aliqucm cadil et quiddam significai,  quod ex ipso profectum tidclor, quod aul aule. ,  Inerii, aut in ipso nrg u tio, aut posi sii eonsecu- ;  lum, et lame» iudigrt lestimouii et gravioris ron   ressario ch’ei sia sialo morto da costui o per motivo di nimicizia, o per motivo di timore, o di sperarne, o per far piacere a un amico; o se non fu  nessuno di questi motivi, non fu dunque morto da  costui; da che senza motivo non può esser commesso un misfatto. Ma non vi fu nimicizia, non timore alcuno, non isperanza chea quella morte rispondesse vantaggio, nò profittava essa a nessun  amico dell' uccisore. Resta dunque che e' non fu  ucciso da costui. La conclusione schietta si forma  dalla conseguenza necessaria, a questo modo: Se  voi dito che io feci questo in quel tempo, e io in  quel tempo era oltremare, resta clic questo clic  voi dite, non solo io noi feci, ma neppur il poteva  fare. Vorrassi altresì ben attendere che una tatù  conclusione sia fatta in modo clic per nessun verso non possa essere ributtala, affinchè la confermazione non solamente abbia forma di argomentazione, c come una scmbiauza di conclusione necessaria, ma si faccia in effetto per ragioni clic necessariamente concludano. Probabile è ciò che le  più volle suol essere, o ciò che si opina che sia, o  ciò che lia in se qualche somiglianza col vero che  determina la nostra opinione, sia esso vero effettivamente, o sia falso. Quanto a ciò che suol essere, ecco un esempio del probabile: se ella è madre, ella ama il figlio: se costui è avaro, non si  cura del giuramento. Quanto a ciò clic si opina  die sia , il probabile è questo : Agli empi nt-1l' inferno sta preparala la pena ; coloro clic metlon opera alla filosofia non pensano che ci siano  gli dei. La similitudine si ravvisa specialmente  licite coso contrarie, c nelle pari, e in quelle clic  cadono sotto una stessa qualità. Nele cose contrarie, a questo modo : Se a quelli che offcscro  senza avvertire , si conviene dar perdonatila, a  quelli che giovarono perchè non poterono a meno, non è necessario aver obbligazione. Nelle pari, di questa maniera: Come nel mare un silo che  manchi di porlo non può prestar sicurezza alle  navi, cosi un cuore clic mauclii di fede non può  esser costante in amar le persone. Nelle cose clic  cadono sotto una stessa qualità il probabile si deduce cosi: Se i Rodiani non commettono disonestà a dar in affitto il pedaggio, neppure Ermacreuntc noti commette disonestà a prenderlo in  affilio. Il probabile poi passa a verità quando si  enuncia a questo modo: Poiché rimane cicatrice, c'ci fu ferita: o a verisìmile, quan to si enuncia cosi : Se te scarpe tencano di molla polvere, essa volea esser lolla sii nel viaggio. Ogni  I probabile ( per volerlo dividere in alcune parti  determinate ) , clic si adopera per argoineiila; rione, o consiste in un segno , o in una cosa firmaliouis,  ut cruor, Tuga, pallor, pulvis, et quae  li js sunt similia. Credibile est, quod sine ullu leste auditoris opinione firmalur, hoc modo: Memo  est, qui non liberos suos ìncolumes et beatos esse  cupial. Judicalum est resadsensione, aut aucloritalc, aut iudicio alicuius, aut aliquorum comprobala. Id trìbus in generibus spectaiur, religioso,  commu ni, approbato. Heligiosum est, quod turati  legibua iudicarunt. Coinmunc est, quod omnes  vulgo probarunt etsecuti sunt, huiusmodi: ut maioribus natu adsurgalur, utsupplicum miserealur.  Approbatum est, quod homincs, quum dubiurn  essel, quale haberi oporteret, sua constitucrunl  aucloritate: rei ut lloratii factum a popolo approbalum, quod occìdd sororem, quum illa deviclum  Curiatium hostem deflerel; vel ut Gracchi patria  factum, quem populus Romanus ob id faclum,  quod insciente collega in censura nihil egissel,  post censuram consulem feci!. Comparabile autem esl, quod in rebus diversis similem aliquam  rationem contine!. Eius parles sunt Ires: imago,  collatio, eiemplnm. Imago esl oratio demonslrans  corporum aut naturarum simililudinem. Collatio  est oratio rem cum re ex similitudine conrerens.  Esempi um est, quod rem aucloritate, aut casu alicuius hominis, aut negotii confirmai aut infirmai. Ilorum esempla et descriptiones in praeccptis clocutionis cognoscenlur. Ac fonsquidem confirmationis, ut facullas tulit, apertus esl, nec minus di lucide, quam rei natura fercbal, demonstratus est: quemadmodum aulem quaeque conslilulio et pars conslilutionis et omnis controversia,  sire in ralione site in scriplo versabitur, traeteli  debeai, et quae in quamque argumenlationes convenianl, singillalim in secundo libro de uno quoquo genere diccmus. In praesenli lantummodo numcros et modos et parles argumenlandi confuse  et pernii Miro dispersimus; post descriple et electe  in geiius quodque causae, quid cuiquc convenia 1,  ci liac copia digeremus. Alque inveniri quidem  omnis es bis locis argunienlalio poterli: inventaro  ciornari et certas in parles distingui et suavissirnum esl, et suinroe necessarium, et ab artis scriplnribus maiimc negleclum. Quarc et de ea praeceptioue nobis et in hoc loco dieendum visum esl,  sii ad inventionem arguincnli absolulio quoque argumcnlandi adiungerelur. Li magna cum cura et  diligenfia locus file omnis considerando esl, quod  rei non solum magna ulilitas esl, sed praecipiendi quoque summa difllcullas. credibile, o in una giudicala , o iu una paragonabile. É segno ciò che cade soilo qualche senso e significa un che, il quale par derivato da esso segno, c fu prima del fatto, o nella gestione, o  vrnne iu conseguenza di esso, ma che nondimeno  ha uopo di testimonio e di esser meglio confermalo, come è il sangue, la fuga, il pallore, la polvere, e cose altrettali. E cosa credibile quella, cui  l' uditore si rappresela per si falla senza esservi  indotto da alcun testimonio, come sarebbe : Non  *' ha nessuno che non brami sani, salti e felici i  suoi figliuoli. Il giudicalo i una cosa che vien renduta ferma e immutabile o dall' assenso, o dalla  autorità, o dal giudicio di una o più persone. Questa specie di probabile è di tre maniere, religioso, comune, approvato. Religioso ò quello che tiene stabilito da un giudicio fallo secondo le leggi  da persone giurale. Comune è quello che da lutti  è generalmente commendalo e seguila, coma sarebbe: clic si dee levarsi al sopraggiungere di uomo attempalo; clic si dee aver pietà dei supplichevoli. Approvalo i quello che, scndo dubbio se si  dovesse aver in conio di bene o di mal fallo, gli  uomini stessi con la loro autorità hanno stabilito  in che conio si dovesse avere; per esempio: Fu approvato dal popolo il fallo di Orazio che uccise la  sorella, mentre essa andava in pianto perchè era  slato vinto il Curiazio nemica dei Romani; oppure fu approvalo il fallo di Gracco il padre,  tanto , clie il popolo Romano per rimeritarlo di  esso, cioè dire di aver nella censura operala ogni  cosa di ron-erlo col collega, dopo la censura lo  fece entrar consolo. Paragonabile è quello che in  cose diverse pur contiene alcun che di simile. Ila  Ire parli: imagine, confronto, esempio. Imaginc  è un discorso che dimostra la somiglianza dei corpi o delle nature. Confronlo è un parlare che conpara una cosa con un'altra per ragione del loro  assomigliorsi. Esempio è ciò clic conferma o abbaile una rosa con l’autorità, o con l'accidente avvenuto a una persona, o col successo di qualche  altare. Di qucsle specie di paragonabile si vedranno gli esempi e una sposizionc piu distesa là dove  si daranno 1 precetti della elocuzione. Fin qui si  son messi in manifeslo i principii della conferma- •  zinne, secondo che io ho saputo fare, e illustrato  con quella chiarezza elle domandala la natura dell'argomento che trotini. Come poi debba maucg  giarsi ogni costituzione ed ogni parie di esia, e  cosi ancora ogni conlrotcrsia, sia die essa versi  circa la mente dello scrillore, sia che circa le parole stesse dello scrino, e quali argomentazioni  calzino bene a ciascuno di questi articoli, si vorrà  dire sparliiamenlc nel secondo libro. Finora io ho  posto qua e là soltanto in ammasso c alla confusa Omnis igilur argomentalo! aul per induclioneni (racla mia est , aul per raliocinaliouem.  Induclio est oratio. quae rebus non dubiis captai  adseusiones eìus, quicum inslituta est; quibusadsensionibus facil, ut illi dulia quaedain res propter similitudincm carum rerum, quibus adscnsil, probetur; velili apud Socralicum Aeschinem  dcmonslrat Socralcs min Xenopliuntis uxorc cl  cum ipso Xcnnplionte Aspasiam locutam: Die milii, quaesn, Xcnopliomis uxor, si vicina tua melius  habeat aururn. quani tu habes, utrum iltiusnc an  luutu malis? Illius, inquii. Quid, si vestem et cetiTuin oruatum mulicbrcin preti! maioris habeat,  quain tu habes, luumnc an illius, melisi Itespondil: Illius vero. Agcsis, inquii, si virum itla indiorem habeat, quam tu habes, ulrunine luum virum  malis, an illius? Hic inulier erubuit. Aspasia autem sermonom cum ipso Xenophqule instiluil.  Quaeso, inquii, Xcnophon, si vicinus tuus equuin  meliorem habeat, quain tuus est, luumnc equuin  malis, an illius? Illius, iuquil. Quid, si luminili  meliorem luibeal, quam tu habes, utrum tandem  fondimi Iutiere malis? illuni, impili, meliorem  scilircl. Quid, si uxorcin meliorem liabeal, quam  tu habes, iilriim illius malis? Alque Ine Xenoplion  quoque ìp-e lacuil Posi Aspasia : Quoniam ulerque vestrùin, inqud, id nnhi solum non respondil, quod ego sobilli uudire volucram, egomel dicam, quid ulerque cogilel. ,\am el lu, uiulicr, oplimum virum vis balere, cl tu, Xcnophon, uxoretn liaberc loclissimatn maxime vis. Quare, nisi  hoc perrecerilis, ul ncque vir mclior ncque femina liclior in lerris sii, profeo.lo semper id, quod  oplimuin potabili! esse, imillo maxime pcquirelis, ul cl lo marilus sis quam oplimae , el lisce  quain optimi) viro mipla sii. die quum rebus non  dubiis ossei ad*cn : um, factum esl proplcr simi   li numero delle argomentazioni, e i modi di farle,  e le parli di esse: verrò poi da dover (ulta questa  materia disporre con ordine e sceltezza rispetto a  ciascun genere di causa c a ciò che a ciascuna  causa si conviene. Dal dello finora si potrà rinvenir ogni argomentazione clic fa d’ uopo; ornarla  poi che si ì rinvenuta, c distinguerla uclle sue  parli, è cosa assai piacente a fare; senzachè è al  sommo necessaria, eziandio clic dagli scrittori di  retorica affano niente curata. E per questo Ionio  ch'io trovo di dover qui dare alcuni preconi eziandio sopra ciò, perciò dopo la invenzione dell’ argomento si venisse anche a sapere in quali modi  ci si debba pur adoperare. E questa parie vuoisi  svolgere tutta con mollo di attenzione c di esattezza, non pure perciò essa è di grande utilità,  ma ancora perchè è diOicilc assai il darne i precetti relativi. Ogni argomentazione bassi a fare ri per  induzione, o per raziocinio. Induzione 6 un discorso, ii quale alle cose non dubbie accatta l'assenso di colui con cui si parla; c la che per (aie  assenso egli approva una cosa dubbia per la somiglianza die passa tra questa e quelle, a cui altre  volte egli ha già dato il suo assenso. No dà un esempio Socrate presso Eschinc, clic tu della sua  scuola , là dove dice che Aspasia tenne questo ragionamento con la moglie di Senofonte e  con Senofonte istesso: Diurni, di grazia, o moglie di Senofonte, se la tua vicina avesse più bello  fornimento d'oro che tu non hai, ameresti meglio  il tuo, o qucllu di colei? oh! quello di colei, rispose. E se porlasse il vestire c l’altro ornalo muliebre di prezzo più vantaggialo che non porli lu,  vorresti le robe tue, o non più preslo quelle dì  lei? Affò, rispose, quelle di lei. Dimmi ancora,  soggiunse, se ella avesse marito migliore del tuo,  vorresti il tuo, ovvero quello di lei? Qui la donna  arrossì. Aspasia poi rivolse la parola a Senofonte  istesso, e gli disse; Di grazia, Senofonte, se il tuo  vicino possedesse un cavallo più prestante die  non è il tuo, vorresti anzi ii tuo, clic avere quello di lui? Quello di lui, rispose. E se possedesse  un fondo che avesse miglior essere che il tuo non  ha, vorresti piuttosto quello di costui? Si certo,  rispose, qucllu di costui. E se aresse moglie mi;  gliure della tua, quale brameresti delle due ? E  qui lo stesso Senofonte si tacque. Allora Aspasia:  Giacché l'uno e l’altro di voi, disse, ciò solo non  mi rispose clic anzi era il solo elle io voleva udire, dirò io ciò che voi due pensale. Tu, o moglie,  vuoi avere il miglior di lutti i mariti: e tu. Senofonie, la moglie di tutte migliore. Laoude, se voi  non giungerete a fare che non ci sia al mondo nò  un uomo migliore degli altri, nè una donna delle liludinem, ut etiam illud, quoti dubium videbatur, si quis stqiaralim quacrercl, id proptcr rationcm rogandi conccderetur. Hoc modo sermonis  plorimum Socralcs usus est, propterca quod nihil ipsc adrerrc ad perSuadcndum volcbal , sed  ci co, quod sibi ilio dederat, quiciim dispulabat,  aliquid coufìcere malcbal, quod iJlejci co, quod  iam concessissel, necessario approb. ro debercl. Hoc in genere praacipiendum nobis vi  delur primum, ut illud, quod inducemus per simillludinem, ciusmodi sii, ut sit necesse concedi.  Nani ex quo poslulabiimis nobis illud, quod dubiuin sit, concedi, dubium esse ìd ipsum non oportebit. Deinde illud, cuius coniìrmandi causa Gel  induetio, tidendum est, ut simile iis rebus sit,  quas rcs quosi non dubias ante induxerimus (nam  aliquid ante concessum nobis esse nihil proderit,  si ei dissimile crii id, cnius causa illud concedi  primum xoluerimus) ; deinde non inteltigal, quo  sperlcnt illae primac induclionrs, et ad quem sin!  cxiluni porventurae. Nam qui vìdei, si ei rei, quam  primo rogetur,rectc adsensciil, illain quoque rem,  tjuae Sibi displice.it, esse necessario conccdcndam, plerumquc aut non respondendo, aut male  respondendo, longins rogalioncm procedere non  siml. Quare rationc rogationis imprudens ab eo,  quod concessi), ad id, quod non sull concedere,  deduccndus esl. Evlremum autein aut taccalur  oporlcl, aut conccdatur, aut urgetur. Si negabilur, aut ostcndenda similitudo est carum rerum,  quae ante conccssae sunt, ani alia utendum induellane. Si concedctur, concludonda est argumenlatio. Si tuccbilur, aut clicieuda responsio esl,  aut, quoniani lacitumilas imilatur confcssioncm,  prò eo, ac si concessum sit, concludere oporlebit  argunienlationcm. Ha fu hoc gentis argumentandi  Iripertilum: prima pars ex similitudine constai una  pluribusvc; altera ci co, quod concedi volumus,  cuius causa simililudincs adhibilac sunt ; tcrtia  ex conclusione, quae aut conGrmal concessionem,  aut quid ex ca conOciatur oslcndit. altre più egregia, per fermo voi sempre agognerete ciò die slimìatc essere il migliore, voglio dire che tu vorrai esser marilo della più prestante,  e che costei vorrà avere il più prestante per suo  marilo. Qui dunque fu dato assenso a cose non  dubbie, cppcrò per ragione delia somiglianza avvenne che anche quello, die saria partito dubbio  a chi I* avesse cerco separatamente, fu conceduto  per certo per la somiglianza delle interrogazioni.  Usò più volte Socrate questo modo di ragionare, siccome colui che non volea da sè proferir  nulla clic conducesse a persuasione, ma amava  meglio da quello che gli porgeva la persona con  cui dispulaia, trame una illazione tale, che quella persona, appunto per causa di quanto avea concesso, dovesse necessariaoienle approvare. Circa alla induzione, il pruno precetto  che io fo ragione di dover dare.'ù questo; clic li  induzione che si fa per similitudine sia (ale elicsi  debba di necessità concedere. Non dovrà punto  esser dubbia la cosa, merci di cui domanderemo  che sia dato assenso a quella che è dubbia Inoltre c da ba dar bene che quello, in conferma di  clic si farà la induzione, sia simile alle cose clic  avremo innanzi rappresentale per quasi non dubbie ( giacchi non ei gioverà punto che qualche  cosa ne sia stala innanzi concessa, se a questa Ila  dissimile quella, per cui cagione avremo voluto  che ne sia conceduta' la prima ) ; dipoi s’ ha da  provvedere che l'avversario non possa addarsi dove vadano a batter le prime induzioni, c a quale  uscita sieho per venire. Conciossiacbi chi si accorgesse clic se darà assenso olla prima cosa di  elle è interrogato, dovrà necessariamente darlo  altresì a quella che gli ripugna, costui o col non  rispondere, o col risponder male, non lasccràebc  la interrogazione se ne vada molto alla lunga.  Laonde s' ha da teucre una lai guisa d’interrogare, che l'avversario, senza clic vi faccia pensiero,  sia condotto da quello clic concesse a concedere  anche quello che non vorrebbe. Però I' ultimo  punto della interrogazione dee esser taciuto , o  concesso, o negalo. Se lia negalo, allora o deesi  mostrare la similitudine che t’ha tra esso e gli altri punti clic prima furono conceduti, ovveramentc deesi lar uso di nu'allra induzione. Se il punto  ultimo Ga concesso, si dee chiudere l'argomentazione. Se in Gne sarà taciuto, o si dee fare di prò  vocaruc come die sia la risposta, ovvero, siccome il silenzio rassomiglia in ccr o modo alla confessione. si dovrà venire alla chiusa dcll’argomcnlazionc appunto come se l’avversario avesse risposto affermatitainenlo. Cosi questa maniera di argomentare viene ad aver tre parti; la prima con- l.i  di una o più similitudini, la seconda consta di Seti quia non salis alicui videbilttr  dilucitle demonstralum, nisi quid ei chili causarum genere esempli subiccerimus, videlur eiusmodi quoque Sitcndbm t^cVnpió' noti quo' pweceplio dilTeral, aul aiitcr hoc in sermone atque in  dicendo sii ulendum, se'd ut eorum volunlaii aqtis  Dal, qui, quoti allrjuo in loco viderunl, alio in  t ‘ loco, Risi mpnatratum.mequeSnt cognoscerc. Ergo  in hac causa, qaoe aputTGraeeos eaLpgnagala,  quod Epaminondas, Thebanorum imperaler, ei,  qui sibi ci lege praclor successcrat, eiercilum  non Iradidit, cl, quum paucos ipsc dics conira legem oneri inni) lenuisset, Lacedaemonios funditus  vici!, poleril occupato* argumenlatione uli per inly^clioncm, quum scr : ptum legis conira senlenliam defendat, jd hunc modum: Si, iudiccs, id,  quod Epaminondas ail legis scriplorem sensissc,  as ribat ad legem, et addai Itane ezceplionem:  exira guani si quia rei publicae causa exercìlum  non tradideril, paliemini ? Non opinor. Quod ai  vosmel ipsi, quod a vostra religione cl sapienlia  remolissimum est, islius honoris causa liane eamdem eiceplionem iniussu populi ad legem ascribi  iubealis, populus Tliebanus id patieturne Aeri ?  Profcclo non palietur. Qu«t, ergo ascribi ad legem nefas est, id sequi, quasi aseriplum sii, recium vobis videalur ? Novi veslram inlclligenliam;  non polcsl ila voleri, iudices. Quod si lillcris corrigi neque ab ilio neque a tobis scriploris voluntas polest, videle ne multo intlignius ail, id re et  iudicio vestro mulari, quoti ne verbo quidem comrrttibiri polest. ,tc de inductionc quidem salis in  prac^|tia dictuin videlur. Nunc deinceps ratiocìnalionteyim et naluram considercmus. Ratiocinalio est oralio ei ipsa re probabile aliquid eliciens, quod eiposilum el per se  cognilum sua se vi cl ralione conflrmel. Hoc de  genere qui diligenlius cousitlerandum pulaverunl     quello che vogliamo ne sia concesso, e per cui le  similitudini si sono adoperate ; la terza contien la  chiusa, la quale o conferma la concessione o mostra che conseguenza se ne può trarre. Ma poichi poiria sembrare a taluno  che tulio questo non fosse dimostralo con chiaroaza, ai ^ansassi dall' apparvi qualche poco  ‘•d'csernjift trailo dalle cause di qualità civile, io  vorrò pur addurle un esempio adatto alla matc> ria, non perchè belle cause, sia diversa la regola,  di farej' induzione o nel linguaggio oratorio sia  da farne altro uso da quello che si fa nel filosofico, ma per àStjàr a' versi di quelli che ciò che  hanno veduto in un luogo non sanno ravvisar in  un altro, se loro non sia dimostro e fatto conoscere. Or bene, togliamo l'esempio da quella causa che presso i Greti caper le bocche. Epaminonda comandante de* Tebani non volle consegnar l'esercito, come era di legge, al pretore che  veiùvqgli "àufrogalo, e tenutolo cosi illegalmente  alquanti giorni, in questo mezzo ruppe di santa  •ragione i Lacedemoni. Qui potrà l'arcusalorc argomentar per induzione , difendendo quanto è  scritto nella legge ad onta del senso che vi si volesse sottintendere. Procederà dunque cosi : Se  Epaminonda, o giudici, aggiungesse alia legge  ciò eh' egli dice aver avuto in intenzione il legislatore , e vi affibbiasse questa eccezione, che  non è espressa: salvo il caso che tui capitano trovasse esser d' utilità alla repubblica il non consegnare l'esercito a chi si spella, ve lo comportereste voi? No, mi do a credere. Che se voi stessi ( il clic troppo si dilungherebbe dalla vostra co  scienza e saviezza) comandaste che per onorare  Epaminonda si dovesse aggiungere alla legge la  eccezione stessa, che della è, se ne starebbe forse  contento questo popolo di Tebe? Non se ne starebbe egli per certo. Ciò dunque che non si può  aggiungere alla legge vi par ben fallo che si metta in pratica come se aggiunto già fosse ? So che  voi siete persone d'intelligenza, e per questo io  credo che ben fatto, o giudici, codesto non vi debba parere. Che se Epaminonda nè voi altri non  potete per veruno scritto correggere la volontà  del legislatore, badale che saria cosa troppo più  indegna che voi con l'opera e giudicio vostro veniste a mutare quella volontà che neppure con lo  scritto non si può ni anehe correggere. Ma della  induzione mi pare aver detto abbastanza per ora.  Entriamo a far parola stilla forza e sulla natura  del raziocinio. Raziocinio è un discorso che dalla  cosa probabile trae fuori qualche nuota proposizione, la quale esposta che sia, siccome è nota per  si, è confermata dalla slessa sua forza e carattere,     Digitized by Google      unno i.     quum idem usu direnili scquerenlur, paullulum  in praccipicndi ralione disscnscrunt. Nani par litri  quinque cjus partes erse dixerunt, panini non  plus quam in Ircs parici posse distribuì putaverunt. Eorum conlrovcrsiam non incommodum vidclur cum ulrorumque ralione ciponere. ft'ain cl  brevis est, cl non ejusmodì, ut alteri prorsus nihil diccre pulcntur, et locus hic n -bis in dicendo minime negligendo videtur. Qui pulanl in  quinque distribuì parles opurlcrc, nj uni primum  convenire cxponcrc summam argumcntalionis.ad  liunc modum : Melina accuranlur, quae consilio  gcrunlur, quam ipjae siile consilio adininistranlur. liane primam parlcm numeranl ; cain dedico ps ralionibus variis cl quam copiosissimi! verbis approbari pulant oporlcre, boc modo : Humus  ca, quae ralione regilur, omnibus est inslructior  rebus et apparalior, quam ea, quae temere et  nullo consilio administralur. Esercitila is , cui  praepositus est sapiens cl callido impcrntor, omnibus partibns commodius regilur , quam is ,  qui slullilia et Icmcrilalc alicujus adminislralur.  Eadem navigli rollo est. Nam navis oplimc cursum  coniìcil ea, quae scientissimo gubcrnatorc ulilur.  Quum proposilio sii boc paclo approbala, et dnac  parles Iransierinl raliocinationis, Icrlia in parie  ajunl, quod oslenderc velis, id ex vi proposilio*  nis oporlcre adsumcrc, hoc paclo : Niliil aulem  omoium rerum melius, quam omnis mundus, ad*  minislraiur. Ilujus adsumplionis quarto in loco  aliam porro inducunl approbationem, hoc modo :  Nam cl signorum ortus cl obilus delinitum quemdara ordinem serrani, cl annuac commulalioncs  non modo quadam ex necessiludinc semprr eodem modo Qunl, veruni ad ulililalcs quoque rerum omnium sunt accomodarne, et diurnao nocturnaeque vicissiludines nulla in re umquam mutalae quidquam nocuerunl; quae sigilo sunl omnia non mediocri qundam consilio naluram mundi adminislrari. Quinto inducunl loco complcxionem cam, quae aul id inferi solimi, quod ex omnibus partibns cogitur, boc modo : Consilio igilur  mundus adminislralur: aul unum in locum quum  conduxeril breviler propositionem el adsumplio*  nem, adjungil, quid ex bis conlìcialur, ad lume  modum: Quodsi melius gcrunlur ca, quae consilio, quam quae sine consilio adminislranlur, nitrii aulem omnium rcrum melius adminislralur,  quam omnis mundus ; consilio igilur mundus adminislraiur. Quinquopertilam igilur Ime paclo pulsiti esse argumentationem. Quelli clic hanno posto più di csaltczza nel trattare su questa specie di argomentazione, benché  si attenessero nel discorso alla sostanza slessa, si  allungarono perù alquanto gli uni dagli altri nel  sottoporla a regolo. Alcuni dissero avere il raz n  cinio cinque parli, altri non gliene diedero più  clic tre. i\on è dunque fuori di proposito clic io  venga discorrendo la costoro conlrovcrsia c le  ragioni di clic e gli uni e gli altri si avralorano,  tanto più ch’cssa è breve, e uon di lai sorla, clic  non vi si trovi della cosa di qualche mollicelo;  e d'allro lato è una argomeutazionc elio ncll'arringarc non si vuol mcllorc in cesso. Quelli clic  stimano doversi il raziocinio dividere in cinque  parli, dicono che si conviene per primo pronunziare la somma dell'argomentazione, come sarebbe: Meglio si procurano le cose elio si fanno dietro considerazione, di quelle clic si fanno senza di  essa. Que-un mi Mono in conto di prima parte, e  credono clic la si debba ili mano in innno comprovare tra con ragioni varie c incisi assai abbondanti  di parole. Foniamone questi esempli : l.a casa clic  ù diretta giudiziosamente è mollo più fornita ili  bisogni o di apparalurc clic non è quella , la  quale è diretta a capriccio e senza fior di buon  senno. L'esercito che ha per capo un uomo savio e sagace è regolalo per ogni verso più con  vcncvolmcntc che quello non è, il quale ha per  sopracciò un midollonaccio temerario. Dicasi lo  stesso della nave; poiché la nave fa ottimamente  il suo corso, se 6 guidata da un pilota clic si cono  sca bene dell'ano sua. Comprovala clic sia ili que  sio modo la proposizione, e toccale cosi due parli del raziocinio, dicono clic nella terza parte si  dee pigliare dal forte ridia proposizione ciò che  lu vorrai dimostrare, come sarebbe: Ma di tulle  cose nessuna è meglio governala elio il mondo  universo. Di qucsla nuova proposizione aggiungono pure la sua prova, a questo modo. Foicliè il  nascere c il tramontare, degli astri serba un ordine inalterato, e le stagioni dell'anno noe solo succedono sempre allo stesso modo per quella certa  necessitò che loro ha imposta la natura, ma son  altresì accomodale all'ulile andamento di tulle cose, c le vicissitudini diurne e nolturnc in nessuna  parie mai minale non recarono mai di nocumrn 10 nè un menomo che; le quali cose danno sicurtà  che il mondo è governalo da provvidenza non  lieve. Danno il quinto luogo alla chiuso dcll'argoincnto, la quale o ciò solo concliiude, che da tulle  le parli si viene a conchiuderc, siccome sarebbe :   11 mondo è dunque governalo con provvidenza:  ovvero allora quando e la prima e la secooda proposizione saranno brevemente condoltc n far capo  c conchiuderc, aggiunge la illazione che da queliti Qui aulem Iripcrlilam esse dicunt , li  non aliler Iraclari puljiit oporlere argumenlationcin, srd parlitionem borimi rcprchendimt. Ncganl cnim ncque a proposiliouc ncque ab adsumplionc approbaiioncs caruin separar! oporlere,  neque propnsilioncm absolulam , ncque adsumplionem sibi pcrfcctam vldcri, quac approbalionc  coufirniala ncn sii. Quare quas illi duas partes  numcreDt, prnposilioncm cl apprubalioncm, sibi  unam partem vidcri, proposi lionem ; quae si apprettala non sii, proposìlio non sii arguincutalionis. Item. quae ab illis adsuinptio el adsumptionis approbalio diralur, eamdcin sibi adsumptionem solam vidori. Ila (ir, ni cadeni raliouo argumentatio Iraelala aliis Iriperlila, aliis qoinqiicpcr  lila tidealur. Quare evcnit, ul res non lam ad  Usiim diccndi pei lineai, quain ad ralionem praeceplionis. .Nobis aulein cormnodior illa parlilio vidclur esse, quae in quinque parlcs dislribula est,  quain omnes ab Aristotele el Tlieopbraslo profecli  ma lime seculi suiti. Nani queinadinuduni illud  superius gcnus argumcntandi, quoti per inducilonem sumilur, inastine Socralcs cl Socratici Iraclamnl, sic hoc, quoti per raliocinalionem espolitur,  stiniute est ali Arislolelc alque a l’cripalclicis el  Tlieopbraslo frequenlalum, deinde a rlieloribus  iii, qui cleganlissinii alqun arliliciosissimi pulali  sunl. Quare aulem nobis dia ruagis parlilio probetur, dicendum vidclur, nc Icmere seculi pulemur; cl bretiler dicendum, nc in liujusmodi rebus diulius , quain ralio praecipiendi postulai,  emumoremur. Si quadam in argumcnlutione salis esl  uli proposiljonc, el non nporlet adjungcre apprabalionem propositioni, quadam aulem in argumcnlaiinne infirma esl proposito, nisi adjuncla sii npprobalio, separnlum esl quiddam a proposiliono  approbalio. Quod enim el adjungi et separali ab  aliquo potasi, id non polcst idem esse, quod esl  id, ad quod adjungilur cl a quo separalur; est  aulem qunedam argumenlalio, in qua proposìlio  non indigel approbationis, et quaedam , in qua     le si Irac, siccome sarebbe: Che se meglio vanno  le cose che son governale da provvidenza di quelle  clic noi sono, e se di lune la meglio governala è  il mondo universo; il mondo adunque si governa  per provvidenza. Per queste ragioni erodono che  il raziocinio sia divisalo in cinque parli. Quegli altri poi che dicono esser il raziocinio di Ire parli, non credono già che s'abbia  da variare l'argomentazione: disapprovano le cinque parli solo perchè non credono clic si debba  dalle due proposizioni sceverare le due prove, e  trovano nè intiera la proposizione prima, nè ben  compiuta la seconda, so E una c l'altra non porla  seco la prova clic la conferma. Laonde mentre i  faulori delle cinque parli fan due parli distinte la  proposizione e la prova, i faulori delle Ire riducono queste due a ima sola, c la dicono ricisamente  proposizione ; la quale se non ha unita la sua prava, non è punto la proposta dell’argomentazione.  Similmente la seconda e la prova di essa , clic i  primi dicono esser due parli, i secondi ristringono a una parie sola. Da ciò deriva che un’argo  lucidazione per raziocinio, comechè (rullata nello  slesso modo, da altri è tenuta perdi tre, da altri  per di cinque parti ; il che non lanlo risgu8rda  I' uso clic ne dee far l'oratore, quanto riguarda la  maniera di stabilire i precelli circa a questa malerio. Se ho a dir ciò clic io senio, io trovo esser più  acconcia la dislribuzione del raziocinili in cinque  parli, la quale fu seguila da quanti vennero dopo  Aristotele c Teofraslo. E elio quesli nomi perchè  come l'argomcnlar che si fa per induzione, di rhe  è dello, fu seguilo da Soerate c da quelli della  sua sella, cosi questo argomentar clic si fa per  raziocinio fu mollo di frequente usalo da Arislolelc c dai Peripatetici c da Teofraslo, 0 poscia da  quei relori che furono de’ piò nominali per eleganza ed artifizio. Quale sia poi l'itnpcrcliè, onde   10 approvo la partizione in cinque, fo ragione di  doverlo dire, a causi che non si credesse che io  m’avventassi in questa opinione senza pensarci  sopra. Il farò uundimeno alla breve, per non di  morar in queste cose troppo piò che non richieda   11 mio assillilo di sporre i precelli dell' arie che  ho per mano. Se v' ha di quelle argomentazioni in  cui basta la proposizione sola, c non v’ è mestieri  soggiungerne la prova, c se per conira v’ ha di  quelle che ini Illudono una proposizione clic vacilla, c non regge, ove non le sia aggiunta la sua  prova, nc segue che la prova è un che di separalo dalla proposizione. Perocché una cosa clic s'aggiungo a un' ultra, o che si separa da essa, non  può esser la slessa con quella a cui si aggiunge,  o da cui si separa. Ma c vi sono argomentazioni , mini valel sino approbalioue, ul oslcndemus. Separala igilurcsla proposilione approbalio Ostendctur autem iti, quod pollicili surcus, hoc modo:  Quae proposilio in se quiddam conlinct perspicuum, el quod slarc inler onmes nccessc est, liane  velie approbarc el Ormare nihil allinei. Ka est hujusmodi : Si, quo die isla cacdcs ltouiac racla est,  ego Allienis eo die fui, iu cacdc interesse non po  lui. Hoc quia perspicue veruni est , nihil allinei  opprobari. Quarc adsunii slatim oportcl, hoc modo: Fui auleni Allienis eo die. lloc si non constai, indiget approbalionis ; qua iuduela, complctio coDsequeltir. Esl igilur quaedam proposilio,  quae non indiget approbalioue. Sani esse quideiu  quumdaui, quae indigeni, quid allinei oslendcrc,  quod cuivis facile perspicuum est? Quod si ita  est, ex hoc, el ex co, quod proposueranms, hoc  coiiflcitur, separatum esse quiddam a propostone approbalionem. Sin autem ila esl, falsum esl  non esse plus quam Iripcrlilain argumcnlalionem.  Simili modo liquet allcram quoque approbalio  nem separalam esse ab adsumplionc. Si quadani  io argumenlalione salis esl uti adsumplionc, el  non oporlct adjungcrc approbalionem adsumptioni; quadam autem in argumenlalione infirma esl  adsumptio, nisi adjuncla sii approbalio: scpnralum quiddam exira adsumptiooem est approbalio.  Est autem argumculalio quaedam, in qua adsumplio non indiget approbalionis; quaedam autem,  in qua nihil vaici sino approbalionc, ul ostendemus. Separala igilur est ib adsumplionc approbalio. Oslendcmus autem, quod pollicili sumus,  hoc modo : Quae perspicuam omnibus vcriialem  cominci adsumptio, nihil indiget approbalionis.  Ea est hujusmodi : Si oporlct velie sapere, dare  operaci philosophiae convenil. Hacc proposilio  iudigel approbalionis ; non rnim perspicua esl,  neque constai inler omnes, proplerea quod multi  nihil produsse philosophiani, plcrique ctiam ohesse arbilranlur. Adsumptio perspicua osi; est  cnim baco: Oporlct aulem vello sapere. Hoc quia  ipsum ex se perspicilur, el vergai esse inlcliigilur, nihil allinei approbari. Quare slatim concludenda est argumculalio. Est ergo adsumptio quaedam, quae approbalionis non indiget ; nain quamdam indigere perspicuum esl. Separala est igilur  ab adsumplionc approbalio. Falsuin ergo est non  esse plus quam Iripcrlitam argumcnlalionem. in cui la proposilione non ha necessaria la prova,  e v’ ha di quelle, in cui la proposizione senza la  prova non ha nessun valore, come si dimostrerà.  È dunque la prova una cosa separala dalla proposizione. Or io dico, secondo clic ho qui promesso  di dimostrare, che una proposizione , la quale  contiene iu se qualche verità evidente, c che non  può clic non sia da tulli tenuta per ferma, non ha  necessità di esser provata e ribadita. Jio sia questo un esempio : Se io era in Alene il giorno in  cui fu fallo a Roma questo gran taglio di gente, è  cerio che iu non mi vi poteva trovare iu mezzo.  Quella proposizione che è evidente, non ha bisogno di prova. So dee perciò porre in mezzo la seconda proposizione, cioè : Ma in quel giorno io  fui in Alene. Se questo non consta, se ne dee dar  la prova, e datala ne seguirà la conclusione. V’ha  dunque una specie di proposizioni che non hanno  uopo di prova : esservene poi di quelle clic ne  hanno uopo, non imporla dimoslrarlo, perché non  c’è chi non se lo sappia. Che se cosi è, si per questo e sì per quello che ho dimostralo, ne consegue che la prova è un che di separalo dalla proposizione. E se questo é vero, dunque è falso che  rargomcnlazione per raziocinio non abbia piò che  Ire parli. Per cgual modo ì chiaro clic anche la  seconda prova è separata dalla seconda proposizione. Se in qualche argomentazione basta toccar  la proposizione seconda di per sè, c non è mesliero di aggiungervi la prova ; c in qualche altra  la proposizione seconda è debole, se la prova non  le sia aggiunta, ne segue che la prova seconda è  audio essa un clic di separalo dalla seconda proposizione. Mn v'ha argomentazioni iu cui la della  proposizione non abbisogna di prova, c ve »’ ha  altre, in cui essa proposizione non tal punto, se  non sia provala, come si dimostrerà. È dunque la  seconda prova separala dalla seconda proposizione. Or io dico, per dimostrare ciò clic qui ho  promesso, che la seconda proposizione che contenesse una verità a tulli evidente, non abbisogna  di prova. Eccone un esempio: Se preme di voler  venire in sapere, e' si dee metter opera alla filosofia. Questa proposizione ha bisogno di prova,  perchè non è evidente, nè tenuta da lutti per vera, essendo che molli sou di credere che la filosofia non giova, c molli piò che anzi ella nuoce.  Bensì è evidente la seconda proposizione , cioè :  Ma dee premere il voler venire in sapere. E questa, perchè è una verità per sè patente e da lutti  ritenuta per tale, non abbisogna di essere comprovata. Si vuol quindi venir subito alla chiusa  dell' argomentazione. V ha dunque una specie di  proposizioni, parlando delle seconde , che non  hanno mestieri di prova, c ve n’ ha dì quelle che si »ede chiaro »eme mestieri. Dunque la proposizione seconda è cosa separala dalla sua prora.  Epperò è falso non potersi l’ argomentazione per  raziocinio dividere in più che tre parti. Alque ex his iltud jam pcrspicuum Da tutto questo si par chiaro che si  est, esse qnamdam argumcnlationem, in qua nc- dà una specie di argomentaiione, nella quale ni  i|uc propositio ncque adsumptio imligcat appro- 13 prima ni la seconda proposizione ha bisogno  hationis, hujusmodi, ut crrtum quiddam et breve jj prora. Ne reco qui un esempio, brere, e che  esempli causa ponamus: Si summo opere sapien- sta garante di quanto io dico : Se si dee cercare  lia pe tenda est: summo opere stultitia vitanda di gran maniera la sapienza, si dee di gran mais! : Summo aulem opere sapicntia pctcnda est : uiera guardarsi dalla stoltezza : ma la sapienza si   tummo igitur opere stultitia vitanda est. tlic et dee cercare di gran maniera; si dee dunque guar udsumptio et propositio perspicua est ; quare darsi di gran maniera dalla stoltezza. Qui si la   neutra quoque indiget approbatinne. Ex bisce prima che la seconda proposizione £ una verità ,  omnibus illusi pcrspicuum est , approbationem non abbisogna dunque di prora nè l'una nè l'altra,  min adjungi, lom non adjungi. Ex quo cogno. Di qua apparisce a chi che siasi che la prora ora  scilur ncque iu propositionc neque in adsum- si aggiunge, ed ora no; onde è chiaro altresì quepliono contineri approbationem , sed utramque sto, che nè nello proposizione maggiore, nè nella  suo beo poiitam vim suoni tamquam certam et minore non si contiene la prova lor propria, ma  propriam oblinerc. Quod siila est, eommodc che ciascuna di esse proposizioni posta a suo luopartili sunt illi, qui in quinque partes distribuc- go ha una forza sua, che ì come una determinata  runt argumcnlationem. Quinque suoi igitur par- proprietà. Clic s'ella è cosi, ben fecero coloro che  Ics ejus argumcnlationis, quac per raliocinatio- hanno divisa in cinque parli siffatto argomcntaiieui tractatur; propositio, per quam locus is bre-_.zioue. Cinque son dunque le parli della argoviter eiponitur, ex quo vis omnis oporlct cmanel mcnlazionc che si conduce per via di raziocinio,  ratiocinalionis: proposilionis approbatio, per quam voglio dire: la proposizione maggiore, per la   id, quod breviter exposilum est, rationìbus adlir- quale si spone brevemente il punto che contiene  matum, probabilius et apertius IH ; adsumptio, tutto il forte del raziocinio : la prova di questa  per quam id, quod ex propositionc ad ostenden- propositionc, per la quale ciò che brevemente è  dum perline!, adsumilur; adsumptionis approba- cspo-lo, e ribadito con le ragioni , si rendo più  tio, per quam id, quod adsumptum est, rationi- probabile c più manifesto : la proposizione minobus firinalur; corapiciio, per quam id, quod con- re, per la quale si pronunzia ciò che dietro la  fiuitur ex ornili argumcntalione, breviter esponi- maggiore bassi a dimostrare: la prova di questa  tur. Quac plurima» habcl argumcntalio partes, ea minore, per cui si conferma con ragioni ciò che  constai ex his quinque parlibus ; secunda est qua- fu pronunziato : la conclusione, con cho di corlu  dripcrlita; lerlia Diportila ; deiu bipartita; quod si espone ciò che risulta dall’ argomentazione inni controversia est. De una quoque parte potcst fiera. Ogni argomentazione ha più parti : la più  ulicui vidcri posse consistere. numerosa conta le cinque prelato ; altre ne hanno   quattro, altre solo tre, c ve n' ha che non ne conta più clic due, ma quest'ullima è in controversia.  V ha chi crede che anche ci siano argomentazioni  di una parte sola Eorum igitur, quac Constant, esempla Pertanto parlando dello parli del raponemus lioruin, quac dubia sunt, ralioncs adfe- ziocinio da tulli adollalo, io ne verrò adduccndo  remus. Quinqucpcrtila argumcntalio est buiusmo- gli esempli; c di quelle che son coiilroversc ne  di : Omncs leges, iudices, ad commodum rei pu- porrò in campo le ragioni. Il raziocinio di cinque  blicac referre oporlct, et eas ex militate communi, parli ò qui: Tullcquante le leggi, 0 giudici, si vonon ex scriplionc, quac iu littcris est, inlerprclari. gliono riferire al bene della repubblica, e intorba chini tirtulc et sapicntia maiorcs nostri lue- pretore secondo il vantaggio comune, non seconrunt, ut in legibus scribcndis niliil sibi aliud, ubi do che suonati le parole presentate dallo scritto,  salulem alque utililatcm reipublicac.proponcrcnl. Erano i nostri anhpassati di tale sapienza c virtù,  Neque eoim ipsi, quod ohcsscl, scribcre volcbant; che nello scriver le leggi non si proponcano altro  et, si scripsisscnt, quum ossei intcllectum, repu- clic la salvezza cd il vantaggio della repubblica,  dialum iri legein iiilclligcbanl. Nomo enim leges Nuli vulcano scriver cosa elio avesse potuto nuoIcgum causa salvas esse vull, sed rei publicac. cere; esc pure l'avessero scrilla, conosccano come quod et lcgibus omnes rem publicam oplime puiant administrari. Quam ob rem igitur Icges servar! oporlal, ad eam causam scripta omnia inter prctari convenit: boc est, quoniam rei publicac  servimus, e* rei publicae commodo atqoe utiiilate  interpretemur. Narri ut ci medicina nihii oportet  putire proflcisci, disi quod ad corporis utilitatcm  spectet, quoniam cius causa est insliluta, sic a legibus niliil convcnil arbitrari, Disi quod rei publicae conducat, proflcisci , quoniam eius causa  suol comparane. Ergo in hoc quoque iudicio desinile litteras legis perscrutari, et legem, ut aequum est, ei utililate rei publicae considerate.  Quid magis utile fuil Thebanis quam Lacedaemonios opprimi r Cui rei magia Epaminondam The  banorum imperalorcm, quam vicloriae Thebanorum consulere dccuit? Quid hunc tanta Tbebanorum gloria, taro darò atque cromato tropaeo carius atque antiquius habere convenit? Scripto videlicel legis omisso, scriptoris sentenliam consi  dorare debebat. At hoc quidem salis consideralum  est, nullam esse legem nisi rei publicae causa  scriptam. Summam igitur amentiam esse eiistimabat, quod scriptum esscl rei publicae salutis  causa, id non ei rei publicae salute interpretari.  Quod si leges omnes ad utilitatcm rei publicae  referri convenit, bicautem saluti rei publicae profuit, prorecto non potest codcm faclo et comuiunibus fortunis consuluissc, et lcgibus non oblemperasse. Qualuor auletn parlibus constai argumentatio, qtitint aut proponimus, aut adsumimus  sino approbatioue. M Tacere oportet, quum aut  propositio ex se inlelligitur, aut adsumplio perspicua est, et nullius approbatiunis indiget. l’ropositionis approbatioue praetcrìta, qualuor ci partibus argumcntalio tractatur, ad liunc tnodutn :  ludiccs, qui ex lege turati iudicalis, obtemperare  legibus dibetis. Oblemporare aulem lcgibus non  potestis, nisi id, quod scriptum est in lege, acquattimi. Quodenini ccrtius legis scriptor teslltnonium  volunlatis suae relinqucrc poluit, quatti quod i|»»c insieme clic ciò si Tosse inteso, la legge sarebbe  siala abolita. Nessuno inTalli vuole conservalo le  leggi perchè son leggi, ma perchè conferiscono al  bene dello Sialo, giacché luti! sono d'avviso ebe  per governare il meglio la repubblica fan di bisogno le leggi. Quale adunque £ il One per cui le  leggi si deono mantenere, tale dee esser il One a  cui si vogliono interpretare tutti gli scrìtti che son  di regola allo Stato: voglio dire, che siccome noi  ci adoperiamo in servigio della repubblica, cosi  dobbiam vedere d' inlerprelar le leggi secondo il  vantaggio e rutilili di essa. A quella guisa ette  si dee credere non altro venire dalla medicina,  se non ciò che aspetta al ben essere del corpo,  perchè essa è per ciò appunto islituita; alla guisa  slessa si vuol credere che altro servigio non ne  venga dalle leggi, se non quello che concorre a  mellcr In buon essere io Stalo, perchè per ciò appunto osse furono stabilite. Laonde anche in quoslo giudicio lasciate, o giudici, di ragguardar pel  sonile le parole della legge; e voi Tjrctc cosa più  giusta e dicevole, se voi applicherete la legge secondo che profitta alla repubblica. Qual piè vantaggio pei Tcbani, che quello di stremar la potenza dei Lacedemoni? Quale altra cosa s’addiceva  meglio a Epaminonda comandante dei Tcbani,  clic di arrabattarsi per la vittoria de'suoi? Che altro potea quest’ uomo aver tanto caro ed accetto,  quanto si sfolgorala gloria dei Tcbani, e si cospicuo trofeo e si magnifico ? Certo a ciò ottenere  ei non polca che lasciare dall' un de’ (ali il testo  della legge, e por meole all’ inlcozione del legislatore. E per vero ei facea ragione ebo non v’ Ita  legge che non sia scrìtta per lo vantaggio della  repubblica. Slimava dunque essere un* avventata  pazzia che quello scritto medesimo, Il quale era  fallo a vantaggio dello Sialo, s’ interpretasse a diservigio di esso. Che se tulle le leggi si vogliono  riferire al vantaggio della repubblica, e se quest' uomo alla salute della repubblica bene contribuì, cerio non è da inpulargli che ei disobbedissc  alle leggi con quel fallo stesso con cui provvido  al ben essere dello Sialo intiero. Ha quattro parli il raziocinio, quando  è senza prova la proposizione maggiore, o la minore, il che addivieneo come la maggiore s'intende di per sé, o come la minore è si evidente  che non ha necessaria alcuna prova. Quando dunque la maggiore fa senza di prova, il raziocinio Ita  quadro parli, e si svolge in questo modo : Voi altri, o giudici, clic giuraste di giudicare secondo  la legge, dovete fare la felicità c il comandamento di essa. Ma farlo voi non potete, se voi liuti se  guitc ciò clic nella legge è già scrino; poiché qual  testimonio piè certo della sua volontà potea la magna curii cura alquc diligcntia scripsit ? Quod  si liucrai» non ezstarent, magno opere eas requireremtis, ut ex iis scriptoris rolunlas cognoscerctur ; nee tamcn Epaminondae pernii tleremus, ne  si extra itnlieintn quidem esset, ut is notiis sentenliam legis inlerprelaretur, netlum nune istum  patiamur, quuiii praeslo lex sii, non ex eo, quod  apertissime scriptum est, sed ci co, quod suae  causar convenit, scriptoris roluntalem intcrprelari. Quod si vos, ìudiccs, legibus olilemperare debelis, et id fanere non potcslis, nisi id, quod scriptum est in lego, scquamìni, quid causaci est, quin  islum cuntra legnili fecisse iudicelis ? Adsumptionis aulenti npprobalionc praeterita, quadripertila  sic (ini argunicnlalio : Qui saepcnuincro nos per  Qilem f-fei I ir un t , eoruni uraliani ruleni liabere  non debemus. Si quid enim perfidia illorum detrimenti accepcrinius, ricino erit praetcr nosmet  ipsos, quem iure accusare possimus. Ac primo  quidem decipi incommodum esl; ilerunr, stullum;  terlio, turpe. Cartbaginenses aulem persaepe iam  nos fcrellcrunt. Somma igitur amentia est in eorum fide spem liabere, quorum pciQdia lotiens  deceptus sis. (Jtraquc approbatione praeterita, Iripertita (il, hoc parto: Aut mcluamus Carlbaginienses oportet, si incolumcs cos reliquerimus; aut  corum urbem diruamus. Ac meluere quidem non  oportet. Ueslat igdur, ut urbem diruamus. Suiil onte in qui putant uounumquam posse  complexione et oportere supersederi, quum, id  perspicuum sii, quod conficialur ex ratiocinatione;  quod si fiat, biperlilam quoque bari argumenlalionem, Irne modo : Si pcperil, virgo non est: pcpcrit autom. Ilic salis esse dicunt proponere et  adsumerc, quoniam perspicuum sii, quod confici, itur ex ratiocinalione ; quod si fiat, compleiionis rem non indigere. Nobis aulem vidclur et omnis ratioeinatio concludenda esse, et illud vilium  quod illis displiccl, magno opere vilandum, ne,  quod perspicuum sit, id in complciiunem inferamus. Hoc autem fieri poteri!, si comptexionum  genera inteliigenlur. Nani aut ita complccteuiur,  ut in unum conducamus propositionem et ndsumptionem, huc modo: Quod si leges omnea ad ufilitalem rei publicac referri convenil, hic autem     sciare il legislatore, se non quello di aver egli  scritta la legge con tutta la diligenza e la cura?  Che se il lesto della legge non si avesse alle mani, noi faremmo ogni potere di trovarlo, per conoscere indi qual fosse la volontà del legislatore.  E se noi non pcrmclleremmo od Epaminonda che,  ni eziandio nel caso che questo giudizio non gli  riguardasse, prclendcsse di voler inlerpretare il  sentimento della legge; mollo meno dobbiam permettere nel caso presente, in cui la leggo è qui  in pronto, eh' ei ci venga interpretando la volontà del legislatore non già secondo quello che manifestamente è scritto, ma secondo quello che risponde meglio alla sua causa. Che se voi, o giudici, dovete Tare il comandamento delle leggi, e  tuttavia noi potete, se voi non vi atteneste a ciò  clic nella legge è scrino, con quale appoggio voi  giudicherete che quest’ uomo non fece contro la  legge? Quando poi la proposizione minore fa senza  di prova, il raziocinio è di quattro parli, e si fa a  questa maniera: Coloro che ne hanno piò volle  rotta fede non son degni che noi delle loro parole facciamo a fidanza con essi; poiché se dalia  perfidia loro noi abbiamo rilevalo alcun che di  danneggioso, non nè potremo giustamente corre  cagione ad altri che a noi stessi. Lasciarsi garabullarc una volta £ cosa incomoda; lasciarsi un’altra,  è sciocchezza; una terza, £ vergogna. Ma i Cartaginesi ne hanno gabbato delle volle assai, e non  tenutisi alla fedeltà. K dunque una matlezza avventala Tare a sicurtà con quella fede loro, clic  tenie volte nc ha perfidamente IrufTati. Qualvolta  si lascia i'una prova e l'altra, il raziocinio £ di tre  parli, come sarebbe: 0 cl conviene slar in timore  dei Cartaginesi, se concederemo loro incolumità,  o ci conviene dar a terra la città loro. Ma star in  timore e' non ci conviene. Resta dunque che ci  convieuc darne a terra la città.   XL. Ci son tali, che stimano potersi talora, ed  anzi dover fare a meno della conclusione, quando  sia di per sé evidente quale del raziocinio debba  esser la uscita : e in questo caso dicono di due  parli il razionioio, che si enuncia cosi: Se infantò,  essa non è vergine: ma infantò già. Qui dicono esser baslevoli le due proposizioni, perchè è chiaro  a che devenga il raziocinio ; e in questo caso non  y’esser uopo di concludere. Quanto è a me, io son  di credere che qualsisbi raziocinio debba avere la  sua conclusione; con questa avvertenza però, che  s'abbia attentamente da evitare il difetto che dispiace pur a que’ tali, di introdurre nella chiusa  ciò che £ evidente per s£. Si potrà evitare questo  difetto, se si conosceranno bene le varie specie di  conclusione. Perocché ovvero si conchiuderà in  modo da abbracciar nella chiusa sì Cuna che l' al saluti rei pubbeae profuil, profecto non polesl cotieni paclo et saluti communi consuluisse, et lcgibus non oblempcrasse : aut ila, ut ci contrario  couliciatur senlcnlia, hoc modo : Summa igilur  amentio est corutn in fide spem liabere, quorum  perfidia toliens deceplus sis: aut ila, ut id solimi,  quoti conficitur, infcratur, ad liunc niodum : Urbem igilur diruamus : aut, ut id, quod cam rem,  quac conficitur, sequalur necesse est. Id est Ini  immolli : Si pcperit, cuni tiro concubini : pcpcril  aulem. Conficitur hoc: Concubuil igitur cum viro.  Hoc si nolis inferro, et inferas id, quod sequilur:  Kecil igitur incestimi ; et concluseris argumenlationem et perspicuam fugeris complexiuncm. Quare in longis argumentalionibus aut et conduclionibus, aut ex contrario, complecli oporlel: in bretibus id soluin, quod coniicitur, exponcre, in iis,  in quibus exitus perspicuus est, consecutinnc uti.  Si qui aulem ex una quoque parte putabuul constare argumunlationcm, potermi! dicere saepe sali» esso hoc modo argumcntationcm Tacere : Quoniatn peperit, rum tiro concubuil: nam hoc nullius iici|iic approbationis ncque contplexionis indigere. Sed nobis ambignilale nominis videnlur  errare. Nam argumentatio nomine uno res duas  significai, ideo quod et iiiventum aliquam in rem  probabile aut nccessarioni argumentalio tocalur,  eteius inventi artificiosa cxpolitio. Quando igitur  proferent aliquid huiusmodi: Quoniam pcpcril,  cum tiro concubuil, invcnlum proferent, non cipolitionem ; nos aulem de expolilionis parlibus  loquimur.     xt.l. piiliil igilur ad liane rem ratio illa pcrtineliit; otque hac distinclionc alta quoque, quac vi»  debuntur olilcere buie partitioni, propuUabimus,  si qui aut adsumplonem aliquandn tolti posse  pulci, ani proposilinnem. Quac si quid habd probabile aulnecessarium, quoquo modo eommoveat  audiiorcm necesse est. Quoti si soluni spcctarrinr,  ac nihil, quo pacto Iraclorclur id, quoti cs«ct excogitatum, referret nequaquani lanlum inlcr summos oratore» et mcdiocrcs interesse oxislimaretur.  Variare autem oralionem magno opere oporlebil ;  nam omnibus in rebus similitudo est salietalis ma   fia proposizione, come in questo esempio: Che se  sia bene diesi riferiscano le leggi tutte al ben essere della repubblica, e costui alla salute della  repubblica ita giovalo, certo ci non polca per la  stessa guisa e provvedere alla saiote comune, e  farsi disobbcdienle alle leggi: ovvero si conchiuderà in modo da trarne la chiusa dai contrario,  come in quest' altro esempio: fi dunque una maltcxza avventata porre speranza di fedeltà in coloro,  dalla cui perfìdia tante volle fosti raggirato : oppure in modo da pronunciare ciò solo che si vien  a concludere, come: convicn dunque clic no diamo a terra la città: o in maniera da enunciare ciò  che segue necessariamente a ciò clic s'ò concluso;  corno ili questo esempio: Se quella tal donna partorì, certo ella giacque con un uomo : ma partorì  già. La conclusione i : Dunque giacque con un  uomo. Cile se non vuoi dir questa conclusione, e  vuoi piuttosto enunciare ciò che ad essa consegue,  dirai: Commise dunque un incesto ; e così avrai  bensì concliiuso il raziocìnio, ma avrai schifalo la  chiusa già evidente da sè. Per lo clic nei raziocini! lunghi la chiusa si dee trarre o dall'aggregato  delle due proposizioni, ovvero dai contrario: nelle  brevi s'ha ad esporre solo ciò clic si conchiude ; e  in quelle, in cui la conclusione ì evidente, si dee  pronunciare ciò che dal raziocin io ne consegue.  Se v’ Ita poi di quelli, che credano esservi raziocino anche di sola una parte, costoro potranno dire  clic basta sovente fare II raziocinio a questa maniera : Ella ha partorito; questo è segno che giacque con un uomo; poiché qui non v'ha bisogno  nè di prova, nè di chiusa. Ma io fo pensiero elle  costoro sien tratti in errore dall'ambiguiià del nome, poiché raziocinio è un nome solo, ma significa due cose. E infatti appellasi raziocinio e il trovato probabile, o necessario, a favore o contro uu  che, c f artificioso raffazzonamento e pulitura di  esso trovato. Quando dunque enuncieranno a questo moiio: Poiché ella partorì, certo conobbe qual»  che uomo ; essi spolmono il trovalo, ma non la  pulitura di esso: in invece parlo delle parli della  pulitura medesima. Non pcrliene dunque ni tema eh’ io svolgo  quella loro opinione ; anzi se mai ci sarà ehi ctede-se potersi talora omettere la proposizione minore, o la maggiore, io farò di confutarlo con la  distinzione testé annunziala, e dissipare ogni altro  argomento che si combattesse con la partizione  che ho seguila. Dico intanto che se il raziocinio  lidio sue proposizioni contiene uu probabile o un  necessario, ileo per uno o per altro modo commuovere inevitabilmente l'uditore. Nondimeno, se  si mirasse al solo necessario o ai probabile, t non  si facesse alcun caso del come si tratlassc la ma Icr. Id Iteri palerii, ti non similiter scmper Ingrediainur in argumcnlaiioncm. Nam primum oraninni gcneribus ipsis distinguere convcnit oralioncm, hoc est, tura indnclioric uti, tura raliocinalionc. Deinde in ipsa arguraenlatiunc nuli scraper  a proposilione inciperc, ncc scraper quinquc parlibus abuti, ncque cadcm ratione parliliones cxpolirc ; scd tura ah adsumptiunc inciperc licci,  lum ab approbationc alterutra, Iran utraquc, tura  hnc, lum ilio genere complexionis uli. Id ut perspicialur, aut seribamus, ani in quolibct «empio  de iis, quac propesila sunl, hoc idem cicrceamus;  ut quam Tacile facili sii Ac de partibus quidem  argunicnlalionis salis nubis dirlura videtur. Illud  aulcm volumus inlclligi , nos probe tenere aliis  quoque rationibus Iraclari argumentalioncs in pliipisnphia mullis el ubscuris, de quibus ccrtum est  arlilicmni conslitulura. Veruni illa nobis abhorrcrc  ab usu oratorio visa sunt. Quao pertincre aulem  ad diccndum pillarmi*, ca nos coniraodius, quam  celeros, allendissc non adlìrmamus ; perquisilius  et diligcnlius conscripsisso pulliccmur. Nane, ut  iiistiluimus, prollcisci ordine ad rcliqua pergemus. Ucprchensio csl, per quam argumenlando  adversariorum coullrmatio diluilur, aut infirmatur,  aut cteiolur. Ilare Tonte invcnlionis codcm utelur,  quo utitur confìrmatio, proplerea quod, quibus  ex locis aliqua res confirmari potcst, iisdem polcsl  ex locis infirmari. Nibil cnim considerandum est  in bis omnibus invenlionibus, nisi id, quod personis aut negotiis attributura est. Quare invenlioucm  et argumentalionum expolitioncm ex itlis, quac  snlc praecepta sunt, liane quoque in parlem orationis IransTcrri oportebil. Verumtamen, ut quacdaui praeccplio detur liuius quoque partii, cipouenius modos reprehensionis ; quos qui obscnabuut, facilius ca, quac conira dicenlur, dilucre aut  infirmare potcrunl. Omnis argunienlatio repreliendilur, si aut ex iis, quac sinopia sunt, non concedilur aliquod unum plurale, aut, his concessi!,  complexio ci iis conGci ncgalur, aut si gcnus ip  s uni argumcnlatiunis «itiosum oslendilur, aut si  contro firmam argumcnlaliunem alia aeque firma     tcria che s' ha in mento, non si crederebbe che  passasse quella si grande distanza che pur passa  dai sommi ai mediocri oratori. È poi di troppa  necessità variare il discorso, poiché in tulle cosa  la somiglianza d madre di stucchevolezza. Detrassi variare, se entreremo nell’ argomentazione ora  d' uno, ora di un altro modo : perchè innanzi a  lutto conviene aver l' occhio di ornare il discorso  con la varietà delle argomentazioni, voglio dire,  Tar uso ora della induzione, ora del raziocinio.  Inoltre nella argomentazione istessa non va bene  cominciar sempre dalla proposizione, nè sempre  Tare, sto per dir abuso, delle cinque parti, nè rafTazzonar alla stessa guisa i membri deU’argomcnlaxiunc ; ma ora giova cominciar dalla proposizione minore, ora dalla prova dell' una, o da ambe  le prove delle due proposizioni, ora da questa, ora  da quella specie di chiosa. Perchè questo si possa  ben ullncìare e scorgere, Tacciamone prima una  bozza di scrittura, cd esercitiamoci in qualche csempio relativo alla materia che dobbiamo trattare : Tatto questo, la varianza nel discorso ne verrà  più agevole a introdurre. Mi pare di aver detto a  bastanza sopra le parti dell'argomentazione. Voglio  però che s’ intenda come io so bene che in filosofia le argomentazioni si maneggiano per altri modi, che paiono oscuri, intorno ai quali v’ha un sistema proprio di trattazione. Ma io credo che quei  modi non si conTacciano punto con gli usi oralorii.  I modi che si debbono seguire nelle orazioni io  non dirò d'avcrli avvertiti meglio degli altri ; ben  Tu Tede d'avcrli cerchi con più diligenza, e scritti  con più precisione. Ora, come ho proposto, passerò alle altre cose che sono ordinatamente da  dire. ConTulazionc è quella parie del discorso,  per la quale col mezzo degli argomenti si ribalte,  o s'indebolisce, o si scema la contermazionc degli  avversarii. La cunTutazione dee attingere allo stesso Tonte d'iiivcnlive, a cui attingono le prove, poiché per gli stessi modi onde una cosa comprovasi, la si può altresì confidare. I’erò in queste inventile si dee aver mira di non far uso se non di  quello che può esser appropriato alle persone o  aile cose. Ond’è die anche in questa parte dell'orazione si dee ripetere quanto s’è insegnalo prima  circa al trovare le argomentazioni e all’ a frazionarle come conviene. Nondimeno perchè anche  questa parte abbia in proprio qualcosa di regole,  metterò innanzi i modi onde si può fare la confutazione: i quali daranno all' oratore di polcrc più  leggermente ribattere e indebolire le obbiezioni  che gli fossero poste in mezzo. Si confula ogni  specie di argomentazione col ricusar di concedere uno o più puuli di quelli diedra pigliati per aut flrmior ponilur. Ex iis, quae sumuntur, ali.  quid non concedilur, quum aut id, quod credibile dicunt, ncgatur esse oiusmodi, aul, quod  comparabile putanl, dissimile ostenditur, aul iudicalum aliam in partcm traducilur, aut omnino  iudicitim improbnlur, aul, quod signum esse adversarii dixerunl, id eiusmodi ncgatur esse, aut si  complexio aut una, aul ulraque ex parte reprehendilur, aut si enumeratio falsa ostenditur, aut si  simplex conclusio falsi aliquid conlinere ilemooslratur. Nani omne, quod sumitur ad argumenlandum site prò probabili sire prò necessario, neccsse est sumaturex bis locis,ulante ostendimus. Quod prò credibili sumplum crii, id inflrmabilur, si aut perspicue falsum eril, hoc modo:  Remo est, quin pecuniam, quam sapirnliam mali! ; aut ex contrario quoque credibile aliquid habebil, hoc modo: Quis est, qui noti oflicii cupidior,  quam pecuniacsil? aut erit omnino incredibile,  ut si aliquis, quem consto! esse avarum, dica! alieni)» mediocris oflicii causa se maximani pecuniam neglexisse;aut si, quod in quibusdam rebus  ant hominibus accidit, id omnibus dicitur usu venire, hoc paclo: Qui pauperes surit, iis anliquior  officio pecunia est. Qui locus desertus est, in eo  cacdctn factam esse oporlet. In loco celebri homo  occidi qui poluit ? aut si id, quod raro flt, Aeri  omnino negatur, ut Curio prò Fulvio: > Nemo  potest uno aspectu ncque praetericns in amorem  incidere. > Quod autem prò signo sumetur, id ex  iisdem locis, quibus eoofirmatnr , inlirmabilur.  Nam in signo primum verum esse oslcndi oporlet;  deinde esse eius rei signum proprium, qua de agitar, ut cruorem caedis ; deinde factum esse quod  non oportuerit, aut non factum quod oportuerit;  postremo scisse eum, de quo quaerilur eius rei  iegcm et consuetudinem. Nam eae res sunt signo  altributae ; quas diligenlius aperiemus, quum separatim de ipsaconieclurali constilulione dicemus.  Ergo liorum unum quidquc in reprehensione, aul  non esse signo, aut parum magno esse, aut a se  potius.qusm ab adversariis stare, aut omnino falso  dici, aut in aliam quoque suspicionem duci posse  demonstrabilur. mano, o col negare, quando pur si concedano,  che si possa Irar da essi la pretesa illazione, o  col far apparire viziosa quella tale argomentazione dell’avversario, o se ad una argomentazione  forte se ne contrapponga un'altra egualmente forte, o più forte di quella. Dei detti punti si ricu-a  di concederne uno o più, quando si oppone non  esser credibile ciò che ci vien dato per tale, o si  mostra essere di specie diverse le cose che ci si  vorricno dare per paragonabili, o si devia il giudichi da un punto per fermarlo sopra un punto  secondario, o il giudicio stesso si riprova in lutto;  o se si nega essere indizio o segno quello che dagli avversarii si caratterizza per tale, o se si ribatte la conclusione del raziocinio come non corrispondente ad una o ad ambedue le premesse, o  si mostra falsa la enumerazione, o si dimostra  che almeno la chiusa contiene alcun che di falso.  Poiché ogni punto che si adopera per fare l'argomentazione, sia rispetto al probabile e sia al necessario, non può che non sia preso di qui, siccome addietro io dimostrai.   XUII. Ciò che ci sarà dato per credibile, si abballerà, o clic evidentemente sia falso, come sarebbe il dire : Nessuno è che non ami meglio il  danaro che la sapienza; o che abbia qualcosa di  credibile in confronto del contrario, come se si dicesse: Chi v’ha che non abbia più voglia di una  carica,che di danaro? o che sia affatto incredibile,  come sarebbe se alcuno, clic si sa essere un gretto, una pillacchera, dicesse d’avere un ufficio mediocre anteposto a una cospicua somma di danaro:  o se ciò che abbatte solo a certi uomini o cose si  dicesse esser solilo abbattere a lutti, come sarebbe  il dire: Chi è povero ha più a caro il soldo che non  un ufficio pubblico. In luogo solitario dee certo  essersi commessa l’uccisione. In luogo frequentalo  come potè un uomo essere tolto di vita? o se quello che accasca di raro si dicesse che non accasca mai, come disse Curio in quella a prò di Fulvio: a Nessuno può lasciarsi andare in amore al  veder di passaggio e a prima giunta una persona. » Quando qualche incidente verrà preso per  indicio e segno, esso si abbatterà con quegli stessi argomenti, con che si avvalora. Perocché, la prima cosa.deo mostrarsi ch’esso è segno vero; dipoi  che i un segno proprio della cosa di che si (ratta,  come il sangue è segno di uccisione; inoltre, che  fu fallo ciò che punto non si doveva, o non fatto  ciò che pur dovevasi; da ultimo, che l’ accusato  sapea troppo bene a che legge quel tal fatto e a  die consuetudine si opponeva. Queste son le cose  che si riferiscono al segno, delle quali darò più  distinta spiegazione quando mi verrà da parlare  separatamente delle cause congetturali. Or dico Quum autcm prò comparabili nliquld in  ducetur, quoniam iti per simililudincm maxime  Iraclalur, in rcprehendcndo convellici simile id  negare esse, quod conferelur, ei, qnicum confcrelur. Id Ceri poteri!, si demonstrabilur diversum  esso genere, natura, vi, magnitudine, tempore,  loco, persona, opinione ; ac si, quo in numero illud, quod per simililudincm adfcrelur, et quo in  loco hoc, cuius causa adferetur, haberi conveniat,  ostcndclur. Deinde, quid res cum re ditterai, demonstrabimus: ex quo doccbimusaliudde co, quod  eoniparabilur,et de eo,quicum comparab itur, exislimari oporlere. liuius facullalis maxime indigemtis, qtium ea ipsa argumcnlatio, quac per indùclionem Iraclalur, eril reprehendenda. Sin iudicalum aliquod inferelur, quoniam id ex bis locis  maxime firmalur: laude corum, qui iudicaruut;  similitudine eius rei, qua de agiiur, ad cam rem,  qua de iudicatum est; et commemorando non modo non esse reprebensum iudicium, sed ab omnibus approbalum ; et dcmonslrando difilcilius et  maius fuissc id iudicatum quod adleralur, quam  id, quod inslet : contrari» locis, si res aut vera,  aut veri similis permittet, inCrmari oporlebil. Alque crii observandum diligentcr, ne niliil ad id,  quo de agalur, perlincal id, quod iudicatum sii ;  et videndum, ne ea res proferalur, in qua sii offensum, ut de ipso, qui iudicaril, iudicium (ieri  videatur. Oportet aulem animadverlere, ne, quum  aliler sint multa iudicata, solitarium aliquod aut  ramni iudicatum adleralur. Nani bis rebus auctorilas ìudicali maxime potesl inCrmari. Alque ea  quidem, quae quasi probabilia sumentur, ad Iiudc  modum tentari oporlebil. Quae vero siculi necessaria induccnlur,  ca si Forte imilabuntur modo necessariam argumenlationem, neque crunt eiusmodi, sic reprehendentur. Primum complexio, quae, ulrum con   adunque che nella conFutatione s’ha a dimostrare  qualcuno di questi punti, ciò sono, o quel tale  non esser segno del Fallo, o esserlo troppo lieve,  o star a vantaggio dell' oratore più che degli avversarli, o esser dolio segno Falsamente, o poter  esso dar sospetto che l atrare sia ben d' altra maniera.   XLIV. Allorché vten posto in campo alcun che  siccome paragonabile, essendo che questo sì tratta per mezzo della similitudine il più delle volte,  converrà nella confutazione asserire clic il paragonalo manca di somiglianza con quello a cui si  paragona. Il che si potrà fare, dimostrando che  Fra l'uno e l'altro v’ha diversità nel genere, nella  natura, nella Forza, nella grandezza, nel tempo,  nel luogo, nella persona, nell' opinione; o dimostrando in qual conio c pregio s'Im da tenere il  punto che si reca per istituire la somiglianza, in  quale quello con die esso si vuol ragguagliare.  Dipoi si dimoslrcrà in che risieda la diOcrcnza da  cosa a cosa; e di qui si verrà significando altra  essere l'idea che s'ha da avere di ciò che paragonasi, altra l’idea di ciò con che quello si paragona. I)i questa qualità d’argomentazione abbiam  mestieri massime allora che saran da confutare gli  stesa! argomenti della induzione. Se verrà esposto  qualche punto già passala in giudicio, siccome  esso si rafTerma c consolida o con la lode di quelli  clic giudicarono, o col mostrare la somigliania  che v'ha Ira la cosa giudicala c quella che trattasi  attualmente, o col rammentare che il giudicio non  pure non ebbe biasimo, ma che anzi tulli se no  sono lodali, o col mettere a vedere che il punto  giudicalo era più rilevante c più difficile del paolo che non ancora ha subito il giudicio; se verri  esposto, dico, questo tal punto, converrà confutarlo col mezzo de’ luoghi contrarli, secondo che  il fallo o vero o vcrisimile lo permetterà. Sarà altresì da attendere con diligenza che ciò che trattasi abbia relazione a ciò die Fu giudicato, ma vedere che non si ripeta cosa in die il giudice abbia  posto il piede in Fallo e incespicalo, a causa che  non paia che si voglia Fare il giudicio delio stesso  giudicatore. Conviene anche osservare clic se molli punti furono diversamente giudicati, non si alleghi qualche punta isolalo c non troppo solilo n  venire in giudicio; poiché per questa via si può  addcbolirc l'autorità dd giudicio che Tu fatto. A  questo modo adunque converrà che sien maneggiati gli argomenti che si allegheranno siccome  probabili.   XLV. Quelli poi che si allegassero siccome necessarli, se per avventura imiteranno l’argomentazione necessaria, senza però esser necessari), si  confuleranno di qucsla maniera. Innanzi a tutto cesserò, Betel lollerc, si «era esl, numquam reprchendelur ; sin falsa, duobus moilis, ani conversione, aul alterius parlis inflrroalione. Conversione, hoc modo:   «Nani si vcri'lur,quid cum accuies, qui est probus?  Sin inverecundum animi ingenium possidet,   Quid eum accuscs, qui id parvi audilu acslimd?»  llic, sive vereri diieris, conccdcndum hoc pillai,  ul neges esse accusandum. Quod conversione sic  reprehendetur : linmo vero accusandus esl. Nam  si vcrclur, accuses ; non cnim parvi audilu acslimabit. Si inverecundum animi ingenium possidet,  la me n accuscs; non cnim probus esl. Allcrius autem parlis infirmaliono hoc modo rcprcheiidclur:  Verum si vcrclur, accusalionc lua corrcclus ab  erralo recedei. Enumcralio vinosa intelligilur, si  aul praeterilum quiddam dicemus, quod velimus  concedere, aut infirmimi aliquid adnumcralum  quod aul conira dici possi!, aul causa non sii quarc non honeslc possimus concedere. Praclcrilur  quiddam in ciusmodi cnumeralionibus : Quoniam  habes islum equum, aul cnicris oporlct, oul hcreditale possidcas, aul muncre accepcris, aul domi  libi ualus sii, aul, si horum nihil est, surripueris  neccssc est : sed neque enusli, neque hcrcdilale  venil, ncque doualus est, neque domi nalus esl ;  Decesse esl ergo surripueris. Hoc commode reprehendilur, si dici possil ex hoslibus equus esse  captus, cuiua predac seclio non venierii ; quo iliato, infirmelur enumcralio ; quoniam id sii induelum, quod praeterilum sii in enumeralione. Altero autem modo rcprchendilur, si aul  conira aliquid dicelur, hoc est , si esempli causa  ut in eodem versemur, poteri! oslendi hcrcdilale  venisse; aul si illud estremimi non crii turpe concedere, ut si qui, quum diserint adversarii : Aut  insidias faccre voluisli, sul amico morem gessisi!,  aut cupfdilale clalus cs, amico se morem gessisse  faleaiur. Simplex aulem conclusio reprehenditur,  si hoc, quod sequilur, non videalur necessario  cnm eo, quod anleccssit, cohacrere. Nani hoc quidem ; Si spirilum ducil, vivil : Si dics esl, lucei !  ciusmodi esl, ut cum priore necessario posterius  cohacrere videalur. Hoc aulem: si maler est, diligi! : Si aliquando peccavi!, numquam corrigelur !  tic convellici reprehendi, ul demonslrolur non ne   non si confuterà mai il dilemma, il quale da sè  dee togliere o l'uno o l'altro dei punii conceduti,  se è dilemma vero; o se falso, si confuterà in due  modi, o invertendo, o abbattendo l'ima o l'altra  proposizione. Si inverle cosi:   a S’cgli sente rossor, perchè l’accusi,   Mentre è da por fra i buoni ?   Se affolli inverecondi in seno ha chiusi,  Perchè ne lo incagioni,   Mentre d'aver infamia ei non si cura?!   Qui, sia che lu dica esser verecondo costui, sia  che inverecondo, l'avversario le lo concede, affinchè lu dica clic e' non si dee accusare, àia lu  confuterai cosi per inversione: Anzi ei dee pur  accusarsi, giacché se è verecondo, si dee, perchè  non porrà a non calere la infamia; e se nulre affolli inverecondi, si dee dot pari, poiché non è  punto persona proba. Se poi lu vorrai addebolire  l’una delle due proposizioni, dirai cosi: che s'egii  è pur verecondo, venendosi per la tua accusa a  emendare, si cesserà dal suo fallo. La enumerazionc si parrà difettosa, o se riporteremo qualche  punto già omesso, il quale vogliamo concedere,  o se nell’enumerazione si sarà inserita qualche cosa mal fondala, la quale o possa essere contraddetta, o non offra ragione perchè onestamente la  si possa concedere. Un esempio di punto omesso  si ha nella seguente enumerazione: Poiché lu hai  questo cavallo, è inevitabile elio tu o lo abbi compero, o acquistato in eredità, o avuto in dono,o che  li sia nato in casa: che se nessuna è vera di queste  eose.lu lo del cerio aver rubalo. Ma nè l'hai compero, nè acquistalo in eredità, nè avuto in dono, nè  ti è nato in casa; è necessario dunque che lu l'abbi rubato. La confutazione qui viene a taglio, se si  può dire che il cavallo fu (olio ai nemici, ma clic  non era compreso nella parte di preda che fu venduta. Aggiunto che sia questo, la enumerazione  verrà riballula per difettosa, poiché s'é posto in  campo un punto che v’era stalo pretermesso.   XLVI. Si fa la confutazione in secondo modo,  se si contraddirà un qualche punto, voglio dire,  per attenermi all'esempio testé citato, se si potrà  mostrare che colui ebbe quel cavallo per eredità:  ovvero se un tal punto si potrà ultimamente concedere senza vergogno, come se, dicendo gliavversarii: 0 tu hai voluto tender insidie, o fare a fantasia dell'amico, o li se'lasciato vincere alla cupid già, si rispondesse: si, ha fallo a fantasia dell'aulico. Si confuta la conclusione sola, se Cièche segue  non sembra legarsi necessariamente con ciò die  precesse. Queste conclusioni: Se respira, dunque  vive; se è giorno, dunque è chiaro; son tali clic  il detto poi si lega necessariamente col detto prima: laddove queste: Se è madre, dunque ella Cessarlo cum priore posterius cobaerere. Hoc genita cl celerà necessaria, et omnino onmis arguinenlalio, el eius reprcliensio maiorem quamdam  vini cornine!, el lalius palei, quam hic esponilur;  seti eius arlilicii cognilio ciusmodi esl, ni non ad  buius arlis parlem aliquam adiungi possil, sed ipsa separatine longi lemporis et magnae alque arduac cognilionis indigeni. Onore illa nobis alio  tempore alque ad aliud instilulom, si facullas crii,  explicabuntur; nunc bis pracceplionibus rbelorum  ad usum oralorium conlcnlos non esse oporlcbil.  Quum igilur et iis, quac sumunlur, aliquid non  concedilur, sic iulirmabllur. Quum aulem, liis concessis, complciio  ei bis non conOcilur, hacc erunl considerauda :  mi in aliud conficialur, aliud dicalur hoc modo :  Si, quum aliquis dical se profeetum esse ad exerrilum, contro eunt quis tclil bac uli argumcnlalionc: Si venisses ad excrcitum, a tribunis mililaribus visus esses ; non es aulem ab bis visus; non  cs igilur ad exercilum profcclus. llic quum concesseris proposilioncm ut adsumplioncm, coinplexio est inlirmamla. Aliud enim, quam cogebalur,  illulum est. Ac nunc quidem, quo facilius res cognosccrelur, perspicuo el grandi vitio pracdilum  posuiwus ciemplum; sed saepc obscutius posilum  vilium prò vero probalur, quum aul parum meniiucris, quid concesseris, aut ambiguum aliquid  prò certo conccsseris. Ambiguum si concesseris  cs ea parte, quam ipse intcllexeris, eam parlem  si adversarius ad aliam parlem per complciioncm  veli! accommodare, demonslrare oporlcbil non ci  eo, quod ipse concesseris, sed ex eo, quod ilio  sumpseril, confici complexionem, ad liunc mollimi : Si indigelis pecuniac, pccuniam non babetis ; si pccuniam noti habetis, pauperes eslis : indigelis autem pccuniae : mcrcalurae enim, ni ila  cssel, operano non darelis : pauperes igilur eslis.  Hoc si rcpreheqdilur: Quum diccbas : Si indigelis  pccuniae, pccuniam non habetis ; hoc inlclligcbam : Si propler inopiam in egcslatc eslis, pecuniam non habetis ; et idcirco concedebam : quum  aulem hoc sumebas : Indigelis autem pecuniac ;  illusi accipicbam; Vullis aulem pecuniac plus ha bere. Exquibus conccssionibus non coulìcilur hoc:  I auperes igilur eslis ; eonilcerelur aulem, si libi  primo quoque bue conccssissem, qui pccuniam  maioreui velici babere, cum pccuniam non habcrc.     ama: Se una volta ha fallalo, dunque dal suo fallo  non si correggerà più mai ; converrà vengano  confutate in modo che si dimostri il detto poi  non collegarsi col dello innanxi. Queste e le altre  argoinenlaiioni necessarie, ansi al tulio ogni argomentazione con le relative risposte coufulaloric hanno una forza maggiore, e pigliano più del  largo clic qui non è dello; ma il conoscerne l'arlifizio è cosa che non si può trattare in unione  con veruna di queste parti della retorica, perchè  vorrebbe per se sola una trattala assai lunga, cd  esigerebbe di grandi c difficili cognizioni. A tema sifTallo io darò mano, se pure io ne avrò il  potere, quando me ne verrà acconcia altra occupazione: per ora conviene ch'io mi stia contento a porger questi precetti retorici relativamente all'uso che n’ ha da far l'oratore. Cosi  dunque, come detto è, si ribalteranno i punti clic  non si vuol concedere. Qualora poi, concessi che sieno i punii,  non ne vien traila una cnnclusione che quadri, si  dovrà osservare se sia stato conchiuso diversamente da quello che comportano le premesse; come in quesla argomentazione, dalo che un tale  volesse opporre a un lai altro che dicesse d’essersi  mosso in via per l'esercito: Se tu fossi venuto all'esercito, saresti stato veduto da'lribuni militari;  ma non sci stalo da loro veduto: tu dunque non  ti se'mcsso in via per aU'esercilo. Qui tu concederai la maggiore e la minore, ma dovrai confutar  ta illazione. Per dire il vero, a causa che si intendesse meglio quello che io dico, ho qui allegalo  un esempio che ha un difetto grave o facile ad esser conosciuto; ma avviene di sovente che per essere il difetlo poco riconoscibile, si piglia per vero  quello che non lo é ; e ciò avvidi quando o non  avrai bene a memoria quali punii lisi conceduti, o  avrai conceduto per cerio quello che non era che  ambiguo. Se avrai concesso l'ambiguo in quella  premessa che li era noia, conterrà che l'avversario,  se vorrà connettere quella premessa con un' altra  per mezzo d' una conclusione, dimostri che non  dal punto che tu bai conceduto, ma da quello elio  egli ha introdotto si trae la conclusione. Per esempio : Se bisognate di danaro, dunque voi non ne  avete : se non nc avete, dunque siete poveri: ma  di danaro voi bisognale, poiché so ciò non fosse  non vi sareste dati alla mercatura : dunque sicle  poveri. Questa argomentazione si confuta cosi :  Quando dicevi : Se bisognale di danaro, dunque  voi non nc avete, io ci capiva : Se per sostenere  inopia siete in bisogno, dunque non avete danaro;  eper questo io concedeva. Quando poi lu aggiungevi : àia voi bisognate di danaro; io invece trovo  clic dovevi soggiungere : Ha volete venir iu più Saepe autem oblilum pulanl, quid concesseris, et idcirco id, quod non conficitur, qnasi  conficialur, in conclusione infertur, lioc modo: Si  ad illum hercdilas vcniebat, veri simile est ab ilio  necalum. Deinde hoc approbant plurimis terbis.  Tosi adsmnunt: Ad illum autem hcredilas vcniebat. Deinde inrertur: lite igilur occidil; id quod  ex iis, quae sumpserant, non conficitur. Quare  observare diligenlcr oportcl, et quid sumatur, et  quid ex his conficialur. Ipsum autem genus argumentalionis vitiosum his de causis ostendelur, si  aul in ipso viliuni crii, aut si non ad id, quod inslituit, accommodatiilur. Atque in ipso vitium crii,  si omnino totum falsum erit, sì commune, si vulgare, si leve, si remolum, si mala dellnitio, si controversum, si perspicuum, si non concessimi, si  turpe, si offensum, si conlrarium, si inconstans,  si adversum. Falsum est. in quo perspicue mcndacium est, hoc modo: Non polesl esse sapiens,  qui pccuniam negligi!. Socrates autem pecuniam  negligebal: non igilur sapiens crai. Commune est,  quod pillilo magis ab adversariis, quam a nobis  fucil, hoc modo: Idcirco, iudices, quia vcram causam habebam, brevi peroravi. Vulgarc est, quod  in aliam quoque rem non probabilem, si none  concessum sii, transferri possi!, ut hoc: Si causam  vcram non haberet, vobis se, iudices, non eommisissct. Leve est, quod aut post tempus dicilur,  hoc modo: Si in menlem venisset, non commisissetiaut perspicue lurpem rem levi legere vult  defensionc, hoc modo :  a Quurn le expetcbanl omnes, fiorentissimo  Regno rcliqui : nunc dcserlum ab omnibus  Summo pcriclo, solu' ut restituam paro. >     XI Remotum est, quod ultra quam satis est,  petitur, huiusmodi : Quod si non P. Scipio Corneliam filiam Ti. Giaccho collocasset, atque ex ea  duos Gracchos procreasse), tanlae seditiones natae  non essenl ; quare hoc incommodum Scipioni ascribendum videtur. ltuiusmodi est illa quoque  conquestio :   « t'iinam ne in nemore Pelio securibus  a Coesa accidissct abiegna ad terroni Irabcs I copioso danaro. Dalle quali concessioni non s' inferisce già: Voi dunque siete poveri. Inferirebbcsi  bensì, se io t’ avessi prima concedutoianchc questo. che chi vuol venire in più copioso danaro, ei  non ha donaro. Spesse volte credono gli avversarli che  tu li sii smcniicato ciò che bai conceduto, epperò  mcltono nella conclusione come inferito ciò che  non lo fu, per esempio: se toccava o lui l’eredità,  è verisimilc che da lui l’ infelice sia sialo ucciso ;  e a provar questa illaiione si distendono in parole.  Indi vengono alla proposizione minore: Ma l’ erodila toccava a lui. In fine conchiudono: È egli  dunque l’ uccisore : il che dalla delta premessa  non si può inferire. Il perchè si vuole avvisar con  attenzione c ciò che vien aggiunto alla minore, e  ciò che giustamente sia da conchiuderne. Questa  specie di argomenlazionc si mostrerà esser viziosa  o per l'uno o per Patirò de’ seguenti capi, cioè se  il difetto risederà in essa, e se essa non sarà acconcia al punto che si trossina. Risiede il difetto nella  argomenlaxione, se essa è al latto falsa, se comune, se volgare, se leggera, se rimota, se inchiude  una definizione errala, se ì questionevolc, se perspicua, se inopportuna, se turpe, se offensiva, se  rontraria, se inconsunto, se avversa. E falsa quando vi si avvista chiara la menzogna, come sarebbe:  Non può esser sapiente chi fa nessun conto dei  danari: ma Socrale di danari non facea conto veruno: non era dunqne sapiente. Comune è quando  non giova n enie più a noi che agli avversarli, come a dire : Per ciò, giudici, io mi spacciai di corto, perchè avea per le mani una causa giusta. Volgare è quando essa può accomodarsi, se ne venga il concio, anche a un' altra cosa non probabile,  come il dire: Se non avesso dai suo lato la giustizia  della causargli, o giudici, non si sarebbe affidalo a  voi. È leggera, so si diresse dopo il suo tempo, per  esempio: Pur che se ne fosse ricordalo, non avrebbe commesso il lai fallo: o se volesse con lieve difesa  giustificare un'azione aperta mente turpe, come qui:  « Quando avevi amicizie e in fior il regno,  Olii poco io l' essendo, ito ne sono.   Or die perigli, e t' han già tulli a sdegno,  Peno so! io di ritornarti in trono, a E rimota l'argomentazione, quando si  pianta da punti più ionlanichcnon bisogna, come la  seguente : che se P. Scipione non avesse collocala  la figlia Cornelia in matrimonio a Tiberio Gracco, o  non avesse da lei avuti nipoti i due Gracchi, non sarebbero addivenutesi gravi sedizioni: il perchè questo infortunio s'ha da riputare a Scipione. Di fatta  simile ì altresì quel lagno che siiegge in Ennio : iDngius cnim reputila est, quam rcs postulibal.  Mala (leQnilio est, qiium aut communia deseribit,  hoc modo: Scdiliosus cstis, qui inalos atque inulilis est civis (nam hoc non magis seditiosi, quam  anibiliosi, quam calumniatoris, quam alicuins hominia improbi vini deseribit); aut falsum quiddam  dicil, hoc pacto : Sapientia est pecuniae quaerendno inlclligentia ; aut aliquid non grave ncc magnum conlinens, sic: Stullilia est immensa gloriae  cupiditas. Est liaec quidem stullilia, sed ex parte  quadnm, non ex omni genere definita. Controvcrsum est, in quo ad dubium demoustrandum dubia  causa adferlur, hoc. modo : x Elio tu, di, quibus est polestas motus superùm atque inferòm,  l’accm iulcr scse conciliant, confermi! concordino]. a   l’erspicuttm est, de quo non est controversia, ut  si qui, quum Orcstcn accuset, planimi facialab  co malrem esse ocrisam. Non concessum est ,  quum id, quod augetur, in controversia csl, ut si  qui, quum Ulixen accuse!, in hoc maxime commorclur : Indignimi esse ab liomine ignavissimo  virum fortissiinum Aiacem necalum. Turpe est,  quod aut co loco, in quo dir-ilur, aut co Domine,  qui dicil, aut co tempore, quo dicilur, aut iis, qui  audiunt, aut ea re, qua de agitur, indignum propter inhonestam rem videtur. OlTensum csl, quod  corum qui audiunt, voluntatem laedit: ut, si qui  apud cquilcs Homnnos, cupidos iudicandi, Caepionis legem iudiciariam laudcl. Conlrarium est, quod contra dicilur atque li,  qui audiunt, fccerunl: ut si qui apud Alcxandrum  Maccdonem conira aliquem urbis expngnalorem  dicerct uiliil esse crudelius, quam urbes diruerc,  quum ipsc Alexander Tlicbasdiruissel. Inconslans  est, quod ab codem de eadem re diverse uicilur :  ut si qui, quum dixeril, qui lirlutcm Italica!, cum  nultius rei ad bene vivrndum indigere, neget postea sinc bona valetudine posse bene vivi : atti, se  amico adesse proplcr benevolentiam, sperare tamen aliquid commodi ad se pervenlurum. Advcrsum csl, quod ipsi causac aliqua ex parte oIDcil,  ut si qui hoslium vini et copias et felicitatoli au  gcat, quum ad pugtiandum mililcs adhortetur. Si  non ad id, quod insliluilur, accommodubilur aliqua pars argumenlalinnis, borimi aliquo in vitio  reperielun si plura pollicilus pauciora dcmonslra   poiché è ripetuto da più lontano che la circostanxa  non richiedeva. Incltiude definizione errata, quando o spiega cose comuni, a questo modo ; Sedizioso è colui che fa da cattivo c inutile cittadino  (poiché questo spiega il carattere del sedizioso né  più nè meno che del calunniatore, del rollo alla  ambixione, e di altri malvagi); o dice alcun che di  falso, a questo modo: È sapicnxa I’ essere esperto a  cercare danaro; o contiene alcun che di non graie  nè grande, come : È stoltezza un' immensa brama  di gloria. Anche questa, 6 vero, è una specie di  stoltezza, ma non è definita che per parte, e non  nella sua generatili. Qucslionevolc è I' argomentazione, quando per dimostrare una cosa dubbia  si reca un' altra cosa o un esempio dùbbio, come  il seguente;   « Con me far cruccio ? ve’ gli dei contenti  D'csser concordi e consigliarsi a pace:   E sì che a scombuiar ci son possenti Quanto v’ ha in cielo, e quanto in terra giace.  Perspicua è l' argomentazione, quando contendo  sopra un punto chiaro e confessato ; come chi volendo accusare Oreste, dimostrasse ch'egli ha  uccisa sua madre. Inopportuna è quando ciò che  si amplifica è il punto stesso della controversia,  come allora che alcuno, accusando Ulisse, si fermasse specialmente in questo: È cosa indegna cito  il fortissimo Aiace sia stato morto da uu uomo così  vile come se mai alcuno. Turpe, è quando per la  vituperevole cosa eh' essa tratta riesce indegna o  del luogo in che la si dice, o della persona che la  espone, o del tempo in che viene esposta, o di  quelli che l’ascoltano, o della causa stessa che si  trassina. Offensiva è, se si urlano le voglie degli  uditori, come se alcuno alla presenza dei cavalieri  Romani, vogliosi d'esser soli in fare i giudicii, lodasse la legge giudiciaria di Cepionc.   L. Contraria è quando si parla contro a ciò che  fecero quelli clic stanno ad udire, come se alcuno  in presenza di Alessandro Magno, movendo rampognosc parole coui ro alcuno che avesse espugnata una terra, si dicesse non v’ esser fallo più  crudele che il dare a terra una città, mentre lo  stesso Alessandro avea dato a terra la città di Tebe. È incostante se lo stesso oratore, dopo aver  parlalo a un modo di una cosa, ne parli poi a modo diverso; come chi avendo prima asserito che  chi possedè la virtù non difetta di nulla al ben vivere, dicesse poscia che senza prospera salute non  si può viver bene;o se dicesseche ei favoreggia l'amico per sola bonevoglicnza,ma che tuttavia spera  sia per venirgliene qualche buon servigio. Avversa è, quando in qualche parte nuoce alla stessa  causa, come se chi è suii’csortare i soldati a coni bit; aut si, qmim tolum debebit ostcndcrc, de  parte aliqua loquatur, hoc modo: Mulicrum gcnus  avarimi est ; nam Eriphjla auro viri vitam vendidii : aut si non id, quod accusabilur, defcndcl, ut  si qui, quum ambitila accusabilur, manu se forlem  esse defcndcl; ut Ampbion apud Euripidcm (ilem  apud Pacuvium ), qui vituperala musica, sapicntiam laudai ; aut si rcs ex hominis vilio vituperabilur, ut, si qui doctrinam ex aiicuius docli vilio  reprebendat ; aut si qui, quum aliquem volet laudare, de felicitate cius, non de «inule dica! ; aut  si qui rem cum re ita comparabit, ut alleram se  non pulci laudare, nisi alleram vituperanti aut si  alleram ita laude!, ut alterius non faciat mcntiotieni ; aut si, quum de certa re quacrelur, de communi iiisliluctur oralio, ut, si qui, quum aliqui dcliberenl, bellum gerani an non, pacem laude! crollino, non illud bellum inutile esse demonstret ;  aut si ratio aiicuius rei reddetur falsa, hoc modo :  Pecunia bonum est, proplerca quod ea maxime  vitam bealam cflicial ; aut si infirma, ut Plautus :   • Amicura castigare obmerilam noxìam.   Immune est facinus ; veruni in aelatc utile  Et conducibile ; nam ego amicum hodic incum  Coneastigabo prò commerita noxia,   Invitus , ni me id invitcl ut faciam fldes : a   aut eadem hoc modo : Maximum malum est avarino; mullos cnim magnis iucommodis adfccit pecunie cupidilas ; aut parum idonea, hoc modo :  Maximum bonum est amicitia; plurimae enim sunt '  deleclalioncs in amicitia. Quartus modus era! reprehensionis, per  quem conira Ormam irgumcnlationem aeque firma aut firmior poncbalur. Hoc genus in delibcratìonibus maxime versabilur, quum aliquid, quod  conira dicatur, aeqtium esse concedimus, sed id,  quod nos defendimus, neccssarium esse demonstramus ; aut quum id, quod illi defendant, utile     battere, esaltasse la fortezza dei nemici, il numero, la feliciti delie altre lor pugne. Quando alcuna parte dell’ argomentazione non s' acconciasse'  bene con ciò che si venne a proporre, sarà difettosa per una o per un'altra di queste ragioni, cioè  se l'oratore dimostrerò meno punti di quei molti  che aveva promesso; o se, quando avrà a mostrare un lutto, parlerà solo di alcuna parte, come se  dicesse: Le donne sono avaro; poiché Enfila vendette per oro la vita di suo marito; o se nel difendere non adatterà la difesa a ciò che è posto in accusa, come se colui che fosse incagionato di broglio si difendesse con dire di esser forte di mano;  come Allibine appo Euripide (e similmente appo  Pacuvio), Il quale parlando a biasimamenlo della  musica finisce col lodare la sapienxa; oppure se  sviluperassc una cosa per cagione del difetto d'una persona, come se alcuno improverasse una dottrina per aver qualche magagna colui che la possedè; oppure se volendo commendar altrui nc lodasse la felicità, non la virtù; o quando si facesse  paraggio di una cosa con un' altra, e si credesse  di non lodarne questa se non se sriluperando  quella; o quando se ne facesse l' elogio dell' una  senta far motto dell'altra; ovvero se si facesse un  discorso applicabile ad ogni questione, mentre non  si tratta che di una questione determinata, come  sarebbe se altri, essendo in deliberare se abbia a  farsi la guerra, ovveramente no, venisse lodando  la pace, senta dimostrare se quella guerra sia utile, o non sia; o quando d'uria cosa si renderà una  ragione falsa, come sarebbe il dire: Il danaro é un  bene, perocché esso più clic altro fa felice la vita;  o quando se ne renderà una ragione debole, come in quella di Plauto:   a L'amico improverar del suo malfatto   É forte si che ad un amico incrcscc;   Ma se 'I rimproccio in suo momento è fatto,   A laudabile prò pur gli riesce:   Ond' io rabbufieronne oggi l'amico.   Ma dirò per amor quello eli' io dico; a   oppure in quest' altro esempio: Gravissimo male  è l’avarizia, poiché I' agonia di danaro trasse di  molli a gran mal essere: o se si renderà una ragione poco idonea, come a dire: Un sommo bene  è l'amicizia, poiché in essa si trovano piacimenti  pure assai.   LI. S'è detto il quarto modo di confutare esser quello, per cui a un'argomentazione solida se  nc mette incontro una egualmente solida, opiù  solida di quella. Argomentazione si fatta sarà da  usare specialmente nelle deliberazioni , quando  concediamo esser retto c giusto ciò che no vien  replicato, ma dimostriamo come quello che per esse fateamur; quod nos dicamus, honeslum esse  demonslremus. Ac de reprehensione quidem hacc  existimavimus esse diccnda. Deinceps mine de  conclusione ponemus. Ilermagoras digressiotiem  deinde, lum poslremani conelusionum pomi. In  hac auleni digressione illc pulal oportere quatndam inferri oralionem a causa alque a iudicalionc  ipsa remolam, quae ani sui laodem, aut adversarii vitupcralioncm conlineat, aut in aliam causam  deduca l, ex qua confidai aliquid confirmalionis  aut repreliensionis, non argomentando, sed augendo per quamdam amplilìcationem. liane si qui  partimi pularii esse orationis, sequatur Ermagoram liccbil. Nam et augendi et laudandi et vituperandi praccepta a nobis parlim data sunt, partito  suo loco dabuntur. Nobis aulem non placuit batic  parlcm in nutnerum reponi, quod de causa digredì, nisi per locum cominunem, displicet : quo de  genere poslerius est dicendum. Laudes aulem et  vitiiperalioncs non scparalim placet tractari, sed  in ipsis argumcntalionibus esse implicalas. Nunc  de conclusione dicctnus. Conclusio est eiitus et determinano totius  orationis. llaec habel parles tres, cntimeralionem,  indignationem, conqueslionem. Enumeratio est,  per quam res disperse et diffuse diclae unum in  locum cogunlur, et reminiscendi causa unum sub  aspcctum subjieiuntur. llaec si semper eodem modolraclabilur, perspicue ab omnibus artificio quodam tractari intclligetur; sin varie flct, et hanc suspicionem et salictatem sitare poteri!. Quarc lum  oporlcbit ita Tacere, ut plcrique faciunt propter  facildalcm, singillatim unam quamque rem attingere et ita omnes transire breviter argumentationes; tum aulem, id quod diOlcilius est, dicere  quas partes exposucris iu partitone, de quibus te  pollicilus sis diclurum, et reducere in memoriam  quibus rationibus unatn quamque parlcm confirmaris; tum ab iis, qui audiunt, quaerere quid sii,  quod sibi velie debeant demonstrari, hoc modo ud docnimus, illud planum fccimus. Ita simul  et in memoriam redibit auditor, et pntabit nihil  esse praelerea, quod debeat desiderare. Atque in  bis gencribus, ut ante dictum est, tum tuas argumcutaliones transire scparalim, tum, id quod artiliciosius est, cum luis contrarias conjungerc; et  quum tuam dixeris argumenlationem, tuum, con   no! si difende, è necessario; o quando confessiamo esser vantaggioso ciò che gli avtcrsarii sostengono, ma esser onesto ciò che sosteniamo noi.  Questo è quel tanto che della confulaxione ho creduto si dovesse dire. Da qui innanzi tratteremo  della conclusione. Ermagora prima di trattar della  conclusione tratta del digresso. In questo ci fa  fantasia che s'abbia da porre un discorso che sia  spiccalo dalla causa e dal punto che ì a giudicare, e clic in tal discorso debba l’oratore far un elogio a sè stesso o metter in biasimo gli avversarli; ovvero toccar un'altra causa, da ritrarne alcun  che di conferma a suo prò; o di confutazione a  donno degli avversarli, non coll'argomcnlare, ma  coll’anncrvar la difesa per mezzo d'una cotale amplificazione. Chi amasse tener il digrosso per una  parte del discorso oratorio, il tenga pure a suo  grado con psso Ermagora; già dei precetti circa  all' amplificare, al dar lode, al muover biasimo,  parte io ne bo dati, e parte a luogo acconcio ne  porgerò. Che se io non pongo il digrosso nel novero delle altre parli, noi pongo perchè non mi  abbclla che si faccia digressione dalla causa se  non per mezzo di qualche luogo comune, spettante a vizio o virtù; ma di questo ò già a parlare da  poscia. Delle lodi e de' biasimi quel che mi resta  a dire non lo tratterò separalamcnlc, perchè io  considero e questi c quelle come innestate nelle  argomentazioni stesse. Ora veniamo alla perorazione o conclusione. La perorazione, o conclusione, è la uscila  e il termine del discorso intiero. Ila tre parli, enumerazione, indignazione, commiserazione. Enumerazione è quella, per cui si raccozzano in un  luogo solo le cose che si son dette sparsamente  qua c là, e si mettono come in un quadro davanti  agli occhi per potersene rammentare. Se 1' enumerazione si maneggiasse mai sempre di un modo, ognuno verrebbe agevolmente a sospirare esser essa maneggiala per un cotale artifizio; ma se  sia fatta con qualche varianza, potrassi rimuovere da chi ascolta tanto questo sospetto, quanto la  sazievolezza ingenerala dalla uniformità. Laonde  ora converrà farla, come la fanno di molli alla foggia più facile, voglio dire, toccar le cose ad una  ad una, c cosi passar di volo sopra ogni argomentazione; ora invece, il che è più forte a fare, ricordar i punti della partizione di che hai promesso che ti verrebbe da discorrere, e rider alla memoria le ragioni con che ogni parte bai confermata; e talora chiedere agli uditori che altro possono  volere che loro sia dimostrato, come sarebbe il  dire: Che volete di vantaggio 7 questo io ho fatto  vedere, di quest'auro ho già la evidenza rilevala.  Per iti modo e l' uditore potrà risovvenire che ira eam quoti adTcrcbatur, quemndmodum dilueris, oslendcre. Ila per tircvcm comparalioncm audiloria memoria «1 de confirmalionc el de reprchensioue redinlcgrabilur. Atquc liaec aliis aclionis quoque modis variare oporlebit. Nam luin ex  tua persona enumerare possis, ut, quid et quo  quidque loco dixeris, admoncas; tum vero personam aut rem aliqnam inducere, et cnutneraiionem ei totani atlnbuere. Pcrsonam boc modo: Nam si legis scriplor exsislal, et quaerat a vobis,  quid dubitetis; quid possilis dicere, quum vobis  boc el boc sii demonslralum? Alque hic, ilem ut  in nostra persona, licebit alias siugdlalim transire  omnes argumenlationes, alias ad partilioncs singula genera relerre, alias ab auditore, quid desidercl, quaerere, alias haec Tacere per cnmparationetn 9 uarum et conlrariaruin argumenlatioiium.  Res autem inducetur, si alicui rei huiusinodi, legi, loco, urbi, monumento oratio allribueliir per  enumerationem, boc modo: Quid, si leges loqui  possenl ? Nonne baec apud vos quaercri nlur ?  Quidnam amplius desideralis, judices, quum vobis boc et hoc planurn factum sii? In hoc quoque  genere omnibus iisdem modis uti licebit. Commune autem praeceptum boc datur ad cnumeralionem, ut ex una quoque argumentatione, quoniam lotaiterum dici non polesl,id eligalur, quod  eiil gravissimum, et unum quidque quam brevissirne transealur, ut memoria, non oratio rcnovala  videa tur. Indignalio est oratio, per quam conficilur,  ut in aliqurm hominem magnino odium aut in  rem gravis olTensio cnncitcllir. In hoc genere illud primum intelligi volumus, posse omnibus ex  locis iis, qoos In conlirniandi pracceptis posilimus, trattari iiidignalionetn. Nam ci iis rebus,  quac persomi, et quac ncgoliis ullribulac suol,  quaevis ampMficaliones el iiidigualioncs nasci possuiti; sed lamon ea,quac separalim de indignalio  ne praeripi possimi, consideremus l'rinus locus questo o quello fu dello, e insieme si persuaderà  non v'csserc cosa ch'egli debba di vantaggio desiderare. E seguendo a dire dei modi con clic si  può variare la enumerazione, tu dovrai, come ho  dello innanzi, ora toccar di passo e a parte a parte le tue argomentazioni; ora, ciò clic domanda  più arte, metter vicine delle tue le argomentazioni dell' avversario; c poscia che avrai tocche le  tue, mostrare come abbi confutale le repliche di  quello. Cosi per questo breve raffronto l'uditore  potrà farsi ricorrere alla memoria e la conferma  dei punti ricordati e la confutazione clic se ne fece. E queste cose medesime si dovranno esporre  in modi differenziali, secondo clic comporterà la  specie di orazione: poiché ora potrai enumerare  in persona tua, ricordando quali cose bai dette e  a quali propositi; ora introdurre altra pcr-ona o  cosa, e farne far da essa tutta la enumerazione.  S'introduce una persona a questa maniera : Poiché se esistesse lo scrittore stesso della legge, e  vi chiedesse di clic siete dubitasi, che potreste rispondere ora che vi fu dimostro c questo c questo?  E qui similmente, come iu nostra persona, potremo toccare ad una ad una le argomentazioni tulle;  c alle volle scorrer i singoli capi secondo le divisioni che si son fatte; alle volle chiedere all' uditore che altro egli amerebbe, c late altra volle  invitarlo a dire se volesse pur altro dopo avergli  messe le nostre argomentazioni a raffronto con  quelle della parte contraria. Si ottiene la enumerazione mercé una cosa, se si attribuisce il parlare  dc'sunmii capi o a una legge, o a un luogo, a ima  città, a un monumento, eccetera. Per esempio:  Or clic sarebbe, se le leggi potessero parlare?  non si lagnercbber esse appo voi di cose s) falle?  Che volete di vantaggio, o giudici, mentre vi fu  mostralo a evidenza e questo e questo ? Ne' quali  casi si potrà egualmente far uso de' modi sopra  indiroli. Però il precetto sempre applicabile ad  ogni specie di enumerazione é questo, sfiorato anche sopra, che, siccome non si può ogni argomentazione di bel nuovo ripetere, si dee scegliere da  : ciascuna il punto clic più rileva, e toccarlo alla  succinta, tanto che sia richiamata la memoria del| le cose, non già rifatta la orazione,   LUI. Indignazione é un discorso, per cui si vieti  a capo clic sia colto addossa a qualche persona  un odio acerbo, o a qualche cosa una forte c dura  avversione. E qui innanzi a tutto voglio che si sappia come della indignazione si può trattare con  1’ appoggio di tutti quei lunghi elio ho svolli nel  dar i precetti sopra la confermazione: poiché lutto  quello che s’appropria alle persone c ai Tatti é una  Tonte copiosissima, da cui si può torre quanto bisogna per Tare qualsiasi amplificazione, e per in 121 .'ili   siiniilur ab auclorilalc, i|uum commomoranius ,  quanlac dirne rcs ca Inerii, nc per indignationcin oslendilur, ani ad omnes  ani ad majorem parlem, quod alrorissimum esl,  ao ad superiorcs, qitalcs suoi ii, quorum ex attclorllalc indignano sumitur, quod indignissimunt  esl, an ad pnros animo, fortuna, corpore, quod  iniquissinittm esl, an ad iitleriores, quod superbis  stimmi esl. Terlius Incus esl, per quom quoeri  tnus qiiidtiam sii evcntiiruni, si idem celeri fa  ciani; el simili oslendinius, buie si concessimi sii,  inulliis aemttlos ejusdem audiciac fuluros; ex quo  quid mali sii cvcnluruni, dciuoiislmbiinus. QuarI its locus esl. per qttem dcniuiislramus mullus alacrcs «spedare, quid slalualur, iti ex eo, quod  otti conecssuni sii, sibi quoque (ali de re quid li*  c.eal, inlelligcrc possinl. Quitilus locus esl, per  quem oslentliinus cclcras res perperatn conslilulas, inlellecla fCrilale, conimulalas corrigi posse;  Itane esse rem, quac si sii semel judicala, ncque  alio ronimulari itidicio, ncque ulla poluslale corrigi possil. Sexlus locus esl, per quem eonsullo  ri de industria faclum demonstralur, cl illuci ad  itingilur, toluulario maleficio vcuiam ilari non o  porlere, imprudenliae concedi iionnuniqtiam convenire. Seplimus locus est, per quem iudignamur,  quod lelrum. crudele, nefariurn, Ijraimicuni facilini esse dicanola, per vini, matium, opulenllam,  quac res ab legibus el ab aeqtiabili iure rcmolissiinae siili. Octavus locus est, |>cr quelli demonslratnus non vulgnre ncque faclilalum esse ne ab audacissimi* qiiidem liomnibiis id malelicinm, de  quo agilur; al. pie id a feris quoque liuminibus cl  a barbaris gcntibiis el immanibus bcsliis esse reinolimi. Dace crunl, quac in parcnles, libcros,  conj tgcs, consanguincos, supplice., erudclilcr far   generarci lo sdegno. Ora perù dubbiamo trattar i  preconi clic riguardano la indignazione in particolare. Il primo luogo oratorio, ovvero sorgente,  donde essa si fa derivare, 6 l'autorità, il credilo;  per esempio se ricordiamo quanto la lai cosa fu a  cura degli dei immortali, o di quelle persone, il  cui credilo e l'autorità dee esser avuta perdi gran  peso. E qui se ne caverà argomento o prova dalle  . sorti, dagli oracoli, dai vali, dagli eventi moslruo! si, dai prodigii, dai responsi, e da cose altrettali;   ; c per islesso modo dai nostri maggiori, dai re,  dalle ciilà, dalle genti, dagli'uomini più satii, dal  senato, dal popolo, dai legislatori. Il secondo è  i quello, per cui si mostra a quali persone fece dati1 no il lai fallo, eccitando lo sdeguo con quanto si  i può di amplificazione; o se lo fece a tulle, ovvero  alla piò parie, il clic è estrema atrocità; o se a*  superiori, ebe à cosa indegnissima; c qui si farà  nascere Tudiu dalla ragguardevolezza clic in loro  fu offesa; o se danneggiò altri che siano eguali  per qualità di animo, di fortuna, di corpo, il cito  è somma iniquità; o se gl'inferiori, clic è callivez] za piena di superbia. Il Icrzu luogo è quello, per  | cui si cerca che ne avverrebbe, se tulli facessero  ; a quel modo, c insieme si mostra clic se si desse  pus-ala a quel tale, si Accrebbero molli altri an1 dare alla stessa audacia; c qui si mostrerà quanto  gran danno incontrerebbe per ciò. Il quarto 6  quello, per cui diamo a conoscere che molli a orccclii lesi espellano che venga deciso, per sapere  da quanto s'indulge all'accusato quanto essi possano assicurarsi in caso simile. Il quinto luogo è,  quando mostriamo che si può bene ogni altra decisione, appoggiala a cadivi dati, mutar e correggere, insieme elio se no conosca la verità ; ma il  I fallo presente essere di lai sorla, che giudicalo  i una volta, ili si può mutare per altro giudicio, ni per veruna podestà se ne può alterare la decisione. Il sosto tende a dimostrare clic il fallo fu commesso da seuuo e a bella posta ; e qui si aggiungerà altresì clic a un misfallu lolouiario non si coui viene perdono: convenirsi solo alcuna volta indulgere alla inconsideratezza. Il settimo i quello, per  cui facciamo cruccio per essere il fallo orrendo,  crudele, nefando, tirannico, condodo con la vioi lenza, di mano del tale, con lo spreco di contanti,  le quali cose sono di troppo aborrenti dalle leggi  C d >lla nin i. -razione. L'ollavo luogo, o sorgente d'indignazione,   I ì quello per cui mezzo dimostriamo che il delitto  di clic si traila non è nò proprio del volgo, uè praticalo eziandio dagli uomini più audaci; anzi esser  nuovo agli stessi barbari, ai selvaggi, alle fiere piò  immani. Tali sono le sevizie con le quali diremo  essersi albi incrudito coirli o i genitori, i figli. la diccntur, cl doinceps si qua prolcranlur in majores ualu, ili liospilcs, in vicino*, in amicos, in  eos, quitiuscum vitaio lineria, in cos, apud quos  educai us sis, in eos, a quibus erudilus, in morluos, in miscros el misericordia dignos, in liomine-s claros, nobile* el lionore usos, in eos, qui ncque laedere alium noe se defendcrc poluerint, ut  in pucros, scncs, inulieres ; quibus et omnibus  acrilcr cucitala indignatio suiumuin in cum, qui  violarii horum aiiquid, odiuni comnioverc polcrit. Nonus locus est, per quem cumaliispeccalis,  quac Constant esse peccata, hoc, quo de quaestio  est, comparatur, et ita per conlcnlioneni, quanto  atrocius et indignius sit iilud, de quo ogitur,  ostenditur. Dccinius locus est, per quem omnia,  quae in negotio gerendo acta aulii, quaeque post  uegolium consecula sunl, cum uniuscujusqucindignalione et criminalionc colligiinus, cl rem verbis quam maxime ante oculos ejus, apud quem  dicilur, ponimus, ut id, quod iudignum est, pcrinde illi videalur iudignum, ac si ipse inlerfucril  et praesens videril. Undccimuslocus est, per quem  ostendimus ab eo factum, a quo minime oporluerit, et a quo, si alius Tacerei, proliiberi convenire!. Duodccimus locus est, per quem indignamur,  quod nobis hoc primis accideril, ncque alicui  umquam usu venerit. Tcrtius dccinius locus est.  si cum injuria contumelia juncla dcmonsiralur,  per quem iocum in superbiam el adrogantiam  odium concilatur. Quarlus dccinius locus est, per  quem pelimus ab iis, qui audiuut, ut ad suas res  noslras iujurias referant: si ad pueros perliiicbil,  de libcris suis coglioni; si ad muliercs, do uxori.  bus;si ad scncs, de patribusaut pareulibus. Quinlus dccinius locus est, per quem dicimus, inimicis quoque et lioslibus ea, quac nobis accideriul  indigna vidcri solere. El indignatio quidem bis  fere de locis gravissime sunielur. Conqucstionis anioni liujtismodi de rebus  parles pelcrc oporlcbil. Coi uj in sti o est oratio audiloruni miscricordiam caplaus. In liac. priuium  animum audiloris milem cl misericoidein conli'  cere o porle!, quo facilius cnnqueslione commoveri possi!, ld locis communibus eflicere nporlebiti  per quos fortunae vis io omnes, el lioniinum inGrmilas ostenditur; qua oratiune ballila graviler el  scnlenliose, maxime dimiilitur animus liomiuum,  el ad miscricordiam comparalur, quum in alieno  malo sua in infirmila toni consideralo! . Delude priuius locus est miscricordiae, per quem quibus in ài   il inarilo, la moglie, i parenti, i domandami mercè;  c cosi via via, i debili cunlru i maggiori di elà, gli  ospiti, i vicini, gli amici, quelli con elle vivesti .   0 presso cui fosti educalo, o da cui istruito, i morii, i miseri e degni di piulft, gli uomini illustri, i  nobili, c quelli clic liaiuiu sostenute onoranze pubbliche, quelli clic non poterono né offendere altrui, uè difender sè slessi, come sono i fanciulli,   1 vecchi, le femmine. Per (ulti questi molivi eccitandosi forte la indignazione, potrà fare che ognuno venga in grossezza e ira con chi avesse adontala   0 luna o l'ultra di queste persone. i*el nono luogo  si mene a riscontro la colpa, onde si controverte,  di altre colpe da tulli confessale per tali, c si dimostra argomentando esser di tulle quelle più atruce c più infame questa, di che si traila. Cui decimo razzoliamo tulle le circostanze chcaccunr  [lagnarono il fallo e le conseguenze che ne soli  poi venule con isdeguo c querela d’ognuno, c nielliamo il fallo davanti agli ocelli dell' uditore per  Tarma che ne ravvisi la indegnità come s'egli stesso ci fosse staio in mezzo e avesselo di presenza  veduto. Coll' undecimo meniamo a vedere essersi  fornito il fallo da chi meno il dovea, da ehi anzi  avria dovuto far rimanere qualunque altro l'avesse  Imlaio. Il duodecimo è quello, per cui ci scorrubliiamo della mala ventura di aver dovuto esser   1 primi a trattar un fallo, clic mai a nessun altro  avvenne di dover Irailare. Il licdicesimo è, se si dimostra all' offesa esser anche aggiunto lo scherno e la villania ; e in questo caso I' odio se la piglierà ancora con la superbia c l' alterigia degli  offensori. Il quarlodecimo luogo è quello, per cui  preghiamo gli uditori che vogliano immaginare di  aver ricevuto essi I' offesa che abbiamo ingozzalo  noi ; e se essa sarà caduta sopra fanciulli, ripensino essi ai Agli proprii ; se sopra femmine, pensino alle lor mogli ; se sopra vecchi, ai genitori o  parenti loro. Il quindccimo è quello, per cui diciamo clic quanto occorse a noi è cosa clic si tiene per indegna pur dai nemici c dalle persane più  ostili. Ua tulli questi luoghi e sorgenti si farà nascer gravissima la indignazione.   l.Y. Converrà ora vedere cumc dal fin qui dello  si traggano i mezzi e le fonti della commiscraziuue. È questa un discorso clic accada la compassione degli uditori, l'or accanarla prima cosa è  render inde e benigno l'animo di chi ascolla, colalcliè possa dalle querimonie esser ageminicele  commosso. Questo sì potrà conseguile per mezzo  dei luoghi e fonti comuni, pei quali si dj a vedere  la forza che esercita su tulli la fortuna, e la fralezza che fa declinar l’uomo ai male; c con questo  discorso fallo con parole gravi e senlcnziosc, si  viene ad ammollir furie il cuore degli uomini fi8 bonis fuerint, et nunc qnibus in malis sinl, ostcnditur. Sccundus, qui in tempora Irìbuilur, per  quelli, quibus in malis fucrint, et bini, et futuri  sinl, demoustralur.Tertius, per i|uem unum quodque deploralur incoromodum, ut in morte Dlii pueriiiae dcleclatio, amor, spes, solatium, cducalio,  et, si qua simili in genere quolibcldc incommodo  per conqueslioncm dici poterunl. Quartus, per  quem res turpes et bumiles et illiberalcs profercntur et indignac aelatc, genere, fortuna, pristino  honore, bcncficiis; quae passi perpessurive sinl  Quinlus, per quem omnia ante oculos singillatim  incommoda ponunlur, ut vidcatur is, qui audit,  siilere, et re quoque ipsa, quasi adsit, non terbis  solurn ad miscricordiam ducalur. Seilus, per  quem practcr spem in miseriis dcmonslralur esse,  et, qumn aliquid eispeclarel, non modo id non  adeplum esse, sed in summas miserias incidisse.  Seplimus, per quem ad ipsos, qui audiunt, similem casum converlimus, et petinrus, utdesuis libcris aul parentibus aut aliquo, qui illis carus debeat esse, nos quum videanl, rccordentur. Oclar us, por quem aliquid dicilur esse factum, quod  non oporlueril, aut non factum, quod oportueril,  hoc modo: Non adfui, non ridi, non posircmam  vorem ejus nudivi, non estremum spirilum ejus  eicepi. Itcm: Inimicorum in manibus mortuus  est, lioslili in terra lurpiler jacuit insepultus, a feria diu vcialus, eommuni quoque lionorc in morie  caruit. Nonus, per quem oralio ad mutas et crpertes animi res refcrclur, ut, si ad equum, dutnum , tcslem , sermnnem alicujus accomodes ,  quibus animus corum, qui audiunt et aliquem dicierunl, vehementer commovclur. Decimus, per  quem inopia, iulirmi tas, soliludo dcmonslralur.  Endccimus, per quem aut liherorum, aul parentimi , aut sui corporis sepeliendi , aut alicujus  ejusmodi rei commendano lìl. Duodeeimus, per  quem disjunctio deploralur ab aliquo, quoti) diducaris ab eo, quicum libenllssime vlzeris, ul a  parente, (ìlio, fratre, familiari. Terlius decimus,  per quem cum indignationc conqucrimur, quod  ab iis, a quibus minime convcnial, male traclc mur, propinquis, amicis, quibus benigne feceri mus, qnos adjulores furo pularimus, aut a quibus  indignum sii, ut servis, liberili, ebentibus, supplicibus. disporlo a esser misericordcrole, siccome quello  che nel fallo altrui riconosce la propria debolciza.  La prima fonte di compassione è il mostrare di  quali beni si borano forniti, e da che mali si trovano essi sbattuti gl'infelici. La seconda si diride  per tempi, c viene a descrivere le calamità dreni  ban sostenute, che sostengono in presente, e che  sono per sostenere appresso. La lena lagna di  qualsiasi crepacuore: cosi nella morie di un figlio  compiangesi la gioia che ne recava la sua puerizia,  l’amore, la speranza, il conforto, l'educazione, c  quanl' altro di simile potrà esser motivo di commiserazione. La quarta è quella, per cui si fa vedere che turpezze, che umiliazioni, che incivilii  ha dovuto e dovrà trangugiar l' infelice, indegne  della sua età, della sua slirpc, della sua condizione, dell' antico splendore, dei bencllzii da lui imparlili. La quinta è quella, per cui si schierano dinanzi agli occhi dell'uditore ad una ad una le disavventure deli’ infelice , affinchè ascoltando le  possa quasi clic vedere, e siane condotto a compassiono non pur dalle parole dell' oratore, ma  dal figurarsi d’essere quasi presente ai fatti stestiLa sesta è quando si dimostra esser un tale irretito nelle disgrazie senza speranza di poterne uscire.e mentre se u’atlcndcva qualche allcviazione,  non solo non esserne venuto a capo, ma precipitato anzi nelle miserie più dure. La settima ì quando imaginìamo in quelli che neascollano un infortunio simile al nostro, e ii preghiamo che nel veder  noi rammentino i loro figli, i genitori, o qualche  altro che lor debba esser caro. L’ ottava, quando  si dice essersi fatto ciò die non bisognava, o lasciato di fare ciò che si dovea, come a dire : Non  fui presente, non vidi, non ho udite le ultime di  lui parole, non ne ho raccolto il respiro eslrcroo;  oppure : E morto in potere dei nemici, giacque  indcccnlcmcnle insepolto in terra ostile, mislratlato a lungo dalle fiere, senza avere nè in morie  i comuni onori. La nona è quella, per cui s'appropria il discorso ad esseri muti e privi di ragione,  come se lu facessi parlare per altri un cavallo, lina casa, una veste; c questo è caso in cui quelli  die ascoltano e che hanno portato amore a qualcuno, restano vivamenlc commossi. La decima è  quando si dimostra l'altrui miscrlà, la debolezza,  l'abbandono di tulli. La undecima è quella, con  che si raccomanda che non manchino di sepoltura i figli, i genitori, il proprio corpo, o clic sia foritila qualche altra cosa consimile. La duodecima  deplora la separazione che dei sostenere da qualche tuo amorevole, con cui menasti vita della migliore tua voglia, come sarebbe dal padre, dal figliuolo, dal fratello, dall'amico. La tcrzadccima  è quella, per cui alle querele accoppiamo altresì (joartus decimus, qui per obsecralionem  sumilur; in quo oraninr modo illi, qui audiunl,  humili el supplici oralionc, ut miscreanlur. Quintus decimus, per quem non nostras, scd corum,  qui cari nobis dcbcnl esse, forlunas conqueri nos  demonstramus. Sextus decimus, per quem animum nostrum in olios misericordem esse ostendimus, et tamen amplum et escelsum et patienlem  incommodorum esse, et futurum esse, si quid acciderit, demonstramus. Nam sacpe virlus et magniCcenlia, in quo gravilas et auctoritas est, plus  proOcit ad misericordiam commorendam quam  liumililas el obsccralio. Commotis aulcin animis,  dlutius in conqucslione morarì non oportebit.  Qucmadmodum enim dilli rbctor Apolionius, lacrima nihil citius aroscil. Sed quoniem et satis,  ut (idemur, dcomnibuspartibusoralionis diiimus,  el hujus «nluminis magnitudo longius processil,  quac scquuntur dciriceps, in sccundo libro diccmus.  SS)   10 sdegno di esser duramente tribolati da chi noi  dovca, come a dire dai parenti, dagli amici, da  quelli che hanno da noi ricevuto del bene, i quali  ci snidavamo dovessero esserci aiutatori , o da  quelli che non ci potevano mislratlare se non con  la più nera indegnità, come sono i servi, i liberti,  i clienti, e quelli che altre volte sono ricorsi a noi  supplichevoli. Il quartodecimo luogo o fonte di compassione £ la preghiera, con clic facciamo forza al  cuore di quelli che ascoltano, per discorso reumiliato c che va alla mercede loro, perchè ne facciano misericordia. Col decimoquinto mostriamo  di compiangere non le nostre disavventure, ma  quelle di coloro che ne debbono esser amati e cari. Col seslodccimo dimostriamo che il nostro  cuore è pietoso verso altrui, ma che tuttavia nelle  presenti disgrazie è magnanimo, elevalo o sofferente, quale altresì sarebbe, se altro gli fosse per  incontrare. Ed è un fatto, che sovente la virtù e   11 portamento di grand'animo in uomo autorevole  e grave fa più al muover la compassione che non  farebbe rumiliamcnlo e la preghiera. Commossi  gli animi, non si vuole esser lungo nella querimonia, poiché, a detto del retore Apollonio, niente  si asciuga più presto che le lagrime. Or, poiché  ho dello a bastanza, per mio avviso, circa le parti  tutte dell'orazione, e questo libro m’è anche venuto un po' troppo allungalo, dirò a mano a mano nel secondo libro le cose che mi restano da cs porre. Tullio culla eoo una elegante narrativa, e poi passa a trattare del genere gludic iato, e della costituitone congetturale,  e deferiti a che per agitare si fatte cause dee ricorrere e ruttore c l'accusato.   Della costituitone definitiva,' indi della traslativa.   Della costituitone generate, di cui spiega Tullio le due parti in che essa ai divide, eiósonolinegotialcelagioridiciilc.  Delle controversie circa lo scritto.   Del genere deliberativo, e delToncslo e deU'utile.   In Due, del genere dimostrativo. Crolortialac quondam, quum llorcrent omnibus copiis, et in Italia cum primis beati numcrarcnlur, lemplum Junonis, quod religiosissime colebaul, egregiis picturis locupletare toluerunl.  Ilaque ileracleolem Zeuxiu, qui lum longe ccteris ciceilere pirloribus csislimabalur, magno prelio conductum adhibucrunl. Is et cclcras contplurrs fabulas pinxil, quarum nonnulla pars usque  ad nostrani memoriam propter funi religloncm retnansil, el, ut exccllcnlem muliebris formac pulcritudinein muta in scse imago contiueret, Ilelenac pingcrc se simulammo velie diiil; quod Crotonialac, qui eum muliebri in corporc pingendo  plurimum aliis pracstarc saepe acccpisscnt, libcnler audicrunl. rulavcrunt enim, si, quo in genere  plurimum posscl, in co magno opere elaborasscl,  egregium sibi opus ilio in fatto rcliclurum. Ncque  tum cos ilia opinio fefeliil. Nani Zeuiis illico quacsivil ab cis, quasnain virgines forntosas liabcrcnt.  Illi aulem statini hominem dcduicrunt in palestram, atquc ci pucros ostcndcrunt multos, magna  praedilos dignilalc. Elenim quodam tempore Crolonialac mullum omnibus corportim viribus et dignitalibus anlcstclcrunt, alquo lioncslissitnas ci  g vinilico ce riamine viclurias domum cum laude  maxima rclulcrunt. Quum pucrorum igiiur formas Croloniesi, allorché erano in florido e di  ogni bene rinfusi, c in Italia coniali Ira i popoli  più felici, fecero su pensiero di voler arricchire  di dipinli i più squisili il (empio di Giunone elio  veneravano a grande rispello ed onore. A ciò insilarono Zelisi di Eraclea, che di quei tempi avea  nome di eccellente in pittura sopra ogni altro, c  a gran contante patlovirono con esso il lavoro. Costui vi condusse parecchie dipinture, delle quali  alquanto poca parte si conservò lino ad oggi per  la venerazione in che il tempio fu sempre avuto;  c per comporre una imaginc clic nella sua mutezza esprimesse quanto può avervi di sfolgorala belili in fattezze muliebri, si profferse di voler fare il  ritratto di Elena. 1 Croloniesi udirono questo del  miglior grado, siccome quelli ebe spesso arcano  udito come in dipinger sembianze di donna ci lasciavasi in dietro ogni altro di lunga mano. Faceano ragiona che se egli, il quale in dipinger  donne era al postutto vaiente. Tosse stato attorno  a quel lavoro con proposito di farne ogni suo potere, avrebbe lasciato nel tempio un’opera di somma eccellenza, Mési apposero in fallo. Zcusi chiese tosto quali avessero donzelle di più bellezza.  Esssi lo condussero inconluuculc nella palestra,  e gli fecero vedere molli garzoni di maestosa av CI et corpora magno liic opero mlrarelur: llorum,  inquilini illi, sorores suol apuli nos virgines Oliare, qua siili illac ilignilalc, polcs ex his suspicari.  Pracbetc igilur milii, quaeso, inquit, ex istis virginibus formosissimas, dum pingo id, quod pollicilus suiti vobis, ul mutui» in simulacrum ex animali esemplo vcrilas Iransferatur. Tum Crotoniatae publico de concilio virgincs unum in locum  coiiduxcrunl, cl pictori quam velici eligendi potèslatcm dedcrunl.Ille aulein quiuquedelcgit; quarum nomina multi poiitac mcmoriac prodiderunt,  quod ejus csscnt judicio probalac, qui pulcriludinis habere verissimum judicium dcbuissel, Ncque cnini putavil omnia, quac quaercret ad i cuti  slalom, uno se in rorporc reperire posse, ideo  quod niliil siuiplici in genere omnibus cv partibus  perfeclum naluru expolivit. Ilaquc, tamquam ccleris non sii habilura quod largialur, si uni cuncla  enncesseril, alimi olii commodi aliquo adjuucto  iurommodo muneralur. Quod quoniam nobis quoque toluulatis acridi!, ut urlcui diccildi pcrscribcremus, non unum  aliquod proposuimuscxeinplum,cujusonines parics, quoenmqnc esscnl io genere, exprNneodac  nobis necessario viderenlur; sed, omnibus unum  iu locum coaclis scriploribus, quod quisque commodissime pracripere videbalur, cxcerpsimus, et  ex variis ingcniis excelleulissima quaeque libaviinus. Ex iis Chini, qui nomine et memoria digiti  sunl, ncc mini optiine, nec omnia pracclarissimc  quisquam diccre nobis videbalor. Quaproplcr stultitia visa csl aul a bene inventis ulicujus recedere,  si quo in vitto cjusoITemJerctnur, aul ad vilia quoque cjus accedere, cujus aliquo bene pracccplo  duccremur. Quodsi in ccteris quoque sludiis a  umili, cligere boni ncsconnnodissimuin quodque,  quam sesc uni slicui eerto/cllcnl addiccrc, minus  in adrogantiam oOenderent; non tanto opere in  viliis perseverami! ; aliquanto levius ex inscienlia  laborarcnl. .Ve si par in uobis liujus arlis atquc in  ilio picluruc scienlia fuisscl, fonasse magis Ime in  suo genere opus nuslruin, quam ilio in sua pictura nobilis enilercl. Ex majore cium copia uobis  quam iili fuil eiempiorum eligendi poleslas. lite  una ci urbe et cv co numero virginum, quac tum  eranl, cligere poluìl: nobis omnium, quicumque  fueruut ab ultimo principio liuj-is pracceplionis     veneroleixa. E infatti una volta I Crotonicsl andavano innanxi a ogni altro popolo per corpi fatticci  e di nobile appariscenza, c negli agoni ginnastici  vernano riportando con ispantc lor lodi vittorie  onoratissime. Or mentre Zcusi si dava attorno ad  ammirare i corpi c le fattezze di quei garzoni; Son  qui fra noi, dissero i Croloulesi, le vergini sorelle  di colesloro, le quali quanto sieno di bellezza vantaggiale, da questi loro fratelli ne puoi far saggio. Ed egli: di grazia, me ne date le meglio leggiadre finché io travagli il dipinto clic vi ho profferito, c annesti nella mula effigie la verità dell'animato esemplare. Altura i Crotonicsi di comune conserto ragimarono insieme le loro donzelle,  c fecero copia al dipintore di scerre delle tante  quella ch'egli volca. Egli ne fece eletta di cinque,  i cui nomi dappoi per molli poeti furono messi in  celebrità per esser esse in conto di belle nel giudichi di quell'imo, clic della bellezza dovea essere giustissimo estimatore. Ne volle cinque, perchè non andava capace di trovar in solo un corpo  quanto ei cercava di venustà, però clic non v' ha  individuo di veruna specie, in cui la natura alftzzunassc e rendesse perfetta ogni sua parte; tanto che essa, come se non avesse più die dare agli  altri se concedesse lutto ad uno, alle doli clic dispensa a questo o a quello mette sempre allato  una qualche imperfezione.   II. Or poiché avvenne pur a me ch'io fossi d’animo di scrivere sopra l' arte di parlare, non mi  proposi io già mi qualche modello speciale, da  dover di necessitò ritrarre in tutte le sue parli, di  qualunque ragione esse si fossero; ma mi raccolsi innanzi quanti di tale materia hanno già scritto,  e ne presi da ciascuno i precetti clic uh parvero  il caso, sdorando dai v arii ingegni quanto di più  eccellente ti Iruvai. Perocché di lutti gii autori  die son degni di esser nominali c tenutane memoria io m'avvisai die ognuno dice belisi quatdie  cosa di gran rilievo c peso, ma clic noti ogni sua  cosa è della stessa qualità. Oud' è dio io repulai  non essere da buon senno clic io rifiutassi ciò die  alcuno ha ritrovalo di buono, solo perchè io mi  fussi imbattuto ili quulelic suo difetto, che mi spiacesse, ovvero che io ne andassi dietro fin anche  alle pecche, se di qualche suo buon precetto avessi preso piacere. Che se anche negli altri studii  amassero gli uomini scerre da molli il lior delie  cose più presto clic attenersi agl'insegnamenti di  uno svio, saiieno meno presontuosi, itoti islarcbbero nei difetti cotanto alla dura, ed anche s' uvrebbero d’ignoranza alquanto meno, E se io dell'arlc retorica avessi una scienza clic stesse iu ragguaglio con quella clic avea Zeusi della pittura,  forse clic quest'opera risponderebbe nei suo gc li usquo od hoc tempus, eiposills copiis, quodcum  quc placerct, eligendi poteslas fuil. Ac vcleres qui  dem scriplorcs artis usque a principe ilio alque  inventore Tisia rcpelilos unum in Incum condoli!  Aristolelcs, et nominalint cujusquc praccepla magna conquisila cura perspicue conscripsil, alque  enodala diligentcr ciposuil; ac tantum invenlorilius ipsis suavilale et bretitale diccndi praestitil,  ut nemo illorum praccepla ex ipsorum libris cognoscat, sed omnes, qui quod illi praecipiant vclint intelligcre, od liunc quasi ad qucmdam multo  commodiorcm eiplicalorcin revertanlur. Atquc hie  quidem ipse et so ipsum nobìs, et ens, qui ante se  fucrant, in medio posuit, ut celeros et se ipsum  per se eognosccrrmus : ab hoc aulem qui profccli  stilli, quamquam in maximis philosophiac partibus  operae plurimum consumpserunt, S'cul et ipse,  cuius instiluta sequebanlur, beerai, tamen permulla nohis praccepla dicendi reliquerunt. Alque  alii quoque alio ex fonte praeceplores dicendi  emanavcrunl, qui ilem permullum ad dicendum.  si quid ars prolicit, opilulati sunt. Nani fuit tempore endem. quo Aristutcles, magnilo et nobili*  rhclor isocrales; cuius ipsius quam conslet esse  arimi, non invenimus. Discipulorum aulem, ali|ue  eorum, qui prolinus ab hac suoi disciplina prufccli, multa de arte praccepla repcrimus. Ex bis duabus diversi* siculi ramiliis, quartini allora quum vcrsarelur in philosophia, nonnullam rhcloricae quoque arlis sibi curam adsumebal, altera vero omnis in dicendi crai studio el  pracceptione occupala, unum quoddam est connatum genus a poslerioribus, qui ab ulrisque ea,  quae commode dici vidcbanlur, in suas arles conlulerunl, quos ipsos simul alque illos supcriores  nos nobis omnes, quoad facullas lulit, proposuimus, et ex nostro quoque noniiibil in commune  coiiluliinus. Quud si ea, quao in bis libris expotiuiilur, laido opere eligenda fuerunl, quanto studio ciccia suut, prorecto ncque nos ncque alios  iuduslriae noslrac poenitebit. Sin autem temere  aliquid alicuius praclcriisse, aul non salis degan   nere più che nella pittura ci non fece; poiché io  a potere far scella ho maggior abbondanza di modelli ch’ei non ebbe polulo avere. Egli raccolse il  meglio in 3ola una cillà e fra quel numero di donzelle che vi Bveano allora: io per contra ebbi innanzi agli occhi tulio il gran capitale che hanno  ammassalo quanti furono lino da quando si cominciò di ridur quest' arte a precedi, e vi potei  scegliere ciò che meglio mi abbellava e piaceva.  Quanti v'ebbero scrittori di retorica per insino da  Tisia che ne fu l' inventore, e primo ne scrisse,  tutti gli raccolse insieme Aristotele, e i precedi  che con molla cura rauuò da questo e da quello,  citandone anche il nome, pose con tutta chiarezza in iscritto, e sviluppò e svolse con precisione;  e tanto seppe eccellere gli stessi primi inventori  per piacevolezza e brevità di dedalo, che nessuno  sa conoscere esser quei loro precetti tolti dai libri loro, ma conviene che qualunque, il quale voglia sapere che si dicessero con quei loro precedi  gli antichi, ricorra a lui come ad esplicalorc molto  più frullcvolc e più giudizioso di ogni altro. Anche più, che questo autore ne pose innanzi sé steso oltre quelli che erano stali prima di lui, acciocché per mezzo suo conoscessimo e gli altri e lui  medesimo. Quelli poi che lo secondarono oppresso, eziandio che mollo spendessero ili fatica piai disio nella trattazione delle parli cssenzialPdclla  filosofia, come avea fallo quell'esso, di cui seguivano le dottrine, tuttavia ne lasciarono un buon  dato di precetti pur sopra l'arte del dire. Prece dori di quest' arte nc uscirono fuori anche da altro  fonte, i quali similmenle recarono assai soccorsi  al dire, se pur l' arie si lascia alcuna cosa soccorrere. E infatti a’ tempi stessi di Aristotele fu un  grande ed eccellente retore, Isocra'e voglio dire ;  ma quali leggi ci seguisse dell' arte sua, non ho  trovalo chi il sappia. Bensì i suoi discepoli, e quegli altri che vennero da questa sella troviamo aver  lascialo ben molti precetti di retorica.   HI. Da queste due dirò cosi diverse famiglie,  l’uno, avvegnaché di professione trattasse filosofia,  pur facea qualche sludio anche dell’orle relorica,  e quella d’ Isocrate era tutta iu faccende solo nel  far l'esame e dar leregple del ragionare. Or queste due famiglie furono ridotte a una sola dai posteriori, i quali introdussero nell' arte che insegnavano quaulo han trovato di buono c di meglio  negli uni e negli altri ; c son questi medesimi e  quelli più antichi che io mi proposi di seguire  quanto lio potuto, e coi quali ho messo in comune  pur qualche poco di mio. thè selccosc che ho esposto in questi miei libri io le ho Irascelte con quella  colatila cura che una scella cosi rilevante pur domandava, corto della mia industria né io posso, né ler scemi viilcbimur, dodi ab aliquo Tacile cl libenler commutabimur sen'cnliam. Non enim panini cognossc, sed in parum cngnilo stililo et din  perseverasse turpe est, proplerea quoti nllcruni  eommutii linminum iuflrmitali, allcrum singolari  unius cuiusque litio est atliihulum. Quarc nos  quidem sinc ulta adfirmalione simut quacrcntes  dubilanter unum quidquc dicemus, ne, riunì parvulum Ime eonsequinmr, ut salis linee rommnde  perscripsisse videamur, i limi amitlamus, quod  maximum est, ut ne cui rei temere alque adroganter adscnserimus. Verum Ime quidem nos cl in hoc  tempore et in onini vita studiose, qnoad Tacullas  lerci, consequeniur. None autem. ne longius oralio progresso ndcalur, de reliquia, quae praeeipicnda videntur esse, dicemus. Igilur primus liber,  ciposito genere liuiusarlis el olllein, et (Ine, et  materia, et partibus , genera controversiarum et  inventiones el eonslitutiones et iudieationes eontinebal, deinde parles oralionis et in eas omnes  omnia praecepla Quarc quum in co ccloris de rebus dislinctius dicium sii, disperse autem de con  llrmalione el do reprchensione, nunc cerlos confirniandi cl repreliendendi in singula caiisarum  genera locos tradendos arbiiramur. El quia, quo  pacto traclari convenirci argumentaliones, in libro primo non indiligcnlcr espositum est, hic tantum ipsa inventa unam quantque in rem exponentur simplieiler sinc ulta eiornalionc, ut ex hoc  inventa ipsa, ex superiore autem eipoldio invenlorum pelalur. Quarc liacc, quac mine prnccipicntur, ad confirmationis et reprchensionis parles rcferre oporlcbil. Omnis cl demonstraliva cl deliberativa cl  iudicialis causa necesse est in aliqno carimi, quac  ante exposila sunl, eonstilulionls genere, uno piu  ribusve, verselur. Hoc quamquam ila est, lumen  quum communilrr quaedam de omnibus praeripi  possi»!, separatilo quoque aliac sunl cuiusque  generis diversac pracccptiones. Alimi enim laus  ani vituperano, aliud sente.nlian dictio, alimi accusatili aut rccusalio conflecrc debet. In iudiriis,  può andare scontento chi che sia. Se poi dì qualche autore io avessi senxa avvisarmene prelermesso alcun che, o trascrillo con meno di pulitezza !e  cose clic mi pareano da dover adottare, quando io  ne sia fallo accorto da qualcheduno, io son presto  a far di leggieri c della miglior voglia le necessarie  mulaiioni. Non è vergogna aver delle cose una  conoscenza rislrellu, ma bene è do vergognare a  dii durasse scioccamente c alta lungo in cono  scema si fatta : poiché la primo è propria della  pochezza umana, c l’altra non è chorgrossn difetto  di colui elle se ne accontentasse. Laonde io laserrù nel loro dubbio le ricerche die sono per fare,  c delle cose clic dirò mi vorrò cessare da ogni affermazione, acciocché mentre io vengo a capo ili  scrivere questa materia sufficientemente bene, die  pur t cosa menoma, io non perda ciò che più rileva, voglio dire il merito di non aver acconsenlilo  a cosa veruna da arrogante c inavveduto- Il che mi  servirà di regola, per quanto potrò, si nella circostanza presente, e si ancora in ogni altra occasione  della mia vita. Ma perché il mio discorso non si  distenda troppo in parole, vengo agli altri precetti  die restano da insegnare. Or il primo libro, dopo di aver detto che specie di orte sia la relntica,  c quale sìa il suo ufficio, il (ine, la materia, In  parli, lia ragionalo de'tarii generi di controversia,  dc'modi di trovare gli argomenti, delle costituzioni delle cause, dei punti da giudicare, dipoi delle  porli dell’ orazione, e di lutti i precedi clic a lune  codeste parli si riferiscono. Il perchè , siccome  delle altre cose si è parlalo in quello alquanto distintamente, ma della confermazione C della confutazione non altrimenti clic a spizzico, io Iroro  da dover ora insegnare i luoghi ovvero le fonti acconce a fare la confermai ione c la confutazione In  ciascuna specie di causa. E giacché nel primo libro lio dimostro non senza esali- zza come sian ila  svolgere c maneggiare le argomentazioni , qui si  esporranno nudamente c senza alcuna politura le  invenzioni acconce per ogni bisogno, affinchè da  questo I bro si allindano solo le argomentazioni  trovale, mentre dal primo se nc attinge anche l'ornamento e la politura. I precetti adunque che vengo ora a porgere si vogliono riferire olla confermazione c alla conlu lozione.   IV. Ogni causa, sia duno-lrativa, sia deliberativa, sia gìudiciale, dee necessariamente aggirarsi  in uno o in un altro genere di cosliluzione, sia  uno, o sic o più, dei tanti clic sonosi per addietro  dimostrati. Tuttoché non possa essere altramente,  pure siccome V ha precetti applicabili in comune  a tulli i generi di cause, cosi ve n‘ ha altri diversi  che di ciascun genere sono propri! e speciali. Perocché altro dee avere per Isropo la lode o la dif tn quello, aitine di far apparire  quanto gli sia possibile che P accusalo fu indotto  a misfarc da una ragiono che Iroppo gli cattava  bene. Se questa ragione era la gloria, ciduvrò far  vedere quanto di gloria colui imaginava gliene  sarebbe seguilo; e cosi se la ragione, se lo scopo  era o dominio, o danaro, o incontrar amicixia, o  romper nimisiò , insomma qualunque ragione colui avesse di far ciò clic fece, egli dovrò aniptiQcarla quanto piò sappia. Anche dovrò attesamente  speculare, non pure se fosse ragion vera che  mosse l'accusato, ma eziandio, c mollo piò, quale  fosse la opinione clic esso n'avea: poiché nulla  molila clic non ci fosse o elle non ei sia nella ragione del fallo un vantaggio o un dissutile, se può  provarsi che l’ accusalo tenevo realmente che  questo o quello ci fosse. L'opinione fa allucinare  gli uomini per due modi, o quando una cosa è  d’altra maniera ch'essi non credono, o quando un  successo riesce diversamente da quello ch'essi hanno pensato- La cosa è d'altra maniera quando essi  credono un male ciò che è un bene, o per centra  un bene ciò che ò un male, ovvero credono male  o bene ciò che non è bene nè male, ovvero credono nè male nè bene ciò che è bene o male, inteso questo, se l'accusalo dirò non v' esser somma di danaro che gli sia più accetta c più cara  clic la vita del fratello o dell'amico, o ancora del  proprio dovere, non dovrò l'accusatore negargliene; poiché ci si trarrebbe addosso una pecca, un  odio acerbo, negando una asserzione clic può esser vera nel tempo stesso che è pia. Solo potrò  dire l'accusatore che colui non pare essere di questo avviso, e darò rincalzo al suo dello con gli  argomenti elio si traggono dalie persone , dei  quali fla dello più sotto.   VII. Il successo inganna quando esso riesce  allramenlc da quello che gli accusati o altri qualunque si promettevano; come se si dicesse clic un  tale ha moria altra persona da quella che avria  voluto, perchè trailo in errore o dalla somiglianza, o dal sospclto, o da una appariscenxa  fallace; n che l’ha uccisa perchè fu di credere  ch’essa nel testamento lo avesse nominalo suo  crede, mentre secondo il testamento l'crcdilò non  era legala a lui. Non si dee desumere la intenzio tasti utalur, ad rem pcrlincre. In hoc attieni loco  caput illud erit accusatori, si dcmonslrarc polerit  alti neniini causam fuisse faciendi; secundarium,  si tanlam aul tam idoneam nomini. Sin fuisse aliis  quoque causa faciendi xidebitur, aut poteslas defunse aliis demoiislranda est, aut farullas, aul voluntas. Polestas, si aul nescissc, aut non adfuissc,  aul enndeere aliqtt'd non poluisse dicelur. Eacultas, si ratio, adiutore», aditi menta celcraquc, quae  ad rem pertinebunl, deruisse alicui deni'tusirabun  tur. Voluntas, si animus a talibus faclis vacilli» et  integre esse dicelur. Pnslrcmo, quas ad defensionem rationes reo dab mos, iis accusalor ad alins  ex culpa eximendos abutelur. Veruni M breii faciendtim est, et in unum multa sunlconducenda,  ut ne alterius defendendi causa huuc accusare,  sed huius accusandi causa defcndcrc altcrura videalur. Atque accusatori quidem hacc fere sunt in  causa faciendi consideranda. Defensor autem ci  contrario primum impul9Ìonem aut nullam fuisse  dicet, aut, si fuisse concedei, exlenuabit, et porvultm quamdam fuisse demonstrabil, aut non ei  ea solere huiusmodi facta nasci docebit. Quo erit  in loco demonstrandum, quae vis et natura sii eius  adfcclionis, qua impulsusaliquid rcus commisissc  dicclur; in quo et exempla et similitudincs crunl  profercndae, et ipsa diliirenler natura eiusadfeclionis quam lenissime quielissimam ad parlcni eiplicanda, ut et res ipsa a facto crudeli et lurbulcnlo  ad quiddam mitius et tranquillius traducalur, et  oratio Inmcn ad animum eius, qui audicl, et ad  animi qucmdam inlitnum sensum accommodetur.  Ratiocinationis autem suspicione.» infirmabil, si aut  commodum nnllum fuisse, aut parvuin, aut aliis  magis fuisse, aut niliilo sibi magis, quam aliis, aut  incommodum sibi maius, quam commodum dicci;  ut nequaquam fticril illius. cominodi, qund expelilum dicalur, magnitudo aut rum co incommodo,  quod accidcrit, aut cttm ilio periculo, qund subcatur, comporti tela: qui omnes loci simdiler in iucommodi quoque vitatione traclabunlur. Sin accusalor dixerit cum id esso scculum, quod ei usi m  sii commodum, aut id fugisse, quod putarit esse     ne dal successo, ma bensì badare quale Tu proprio  l'intensione c la speranza con che l'animo si è  accinto a malfare: perocché quel clic fa al caso  si è il vedere la intenzione con la quale altri fa  un fallo, non la uscita a che il fatto stesso è venuto. E qui il punto primario per l'accusatore  sta in questo, che possa dimostrare come verun  altro, dall'accusato in Tuori, non ebbe la ragione  ch’ebbe egli di venir a quel fatto: il punto secondario è prmarc che nessun altro polca avere  unti ragione di si gran peso ed opportunità. Che  se potrà pur essere clic altri avesse la stessa ragione di fare, si dimostrerà che nondimeno gliene mancava o il potere, o il destro, o la volontà; il potere, se dirassi ch’egli non se ne  seppe, n che non fu presente, o clic non ebbe  i mezzi per fare; il destro, se si rnoslrerà clic  non ebbe nè modo, nè nppnggialori, nè aiuti, nè  quant'allro saria stalo di bisogno; la volontà, se  dirassi che egli ha un animo scevro c intatto da  opere dì si falla maniera. Da ultimo, le ragioni  che daremo all’accusato per la propria difesa son  le stesse che tirerò al suo vantaggio I’ accusatore  per purgare da colpa qualunque altro che invece  di quello fosse accusato. Questo però si vuol  fare alla breve, ammassicciando in uno piò cose,  tanto clic si paia non clic s’accusi questo per  difender quello, ma che si difende l'uno per anzi  accusar l'altro.   Vili. Tali sono le considerazioni clic dee far  l'accusatore rispetto alla ragione che mosse l'accusato a far quel clic fece. Il difensore in quel  cambio dee tenere diversa via. l a prima cosa c!  dirà clic quel fallo non venne da impulso d'animo, o se concederà elle un impulso ci sia pure  stato, farà di stremarlo e mostrare che fu assai  lieve, ovvero farà vedere clic falli di quella maniera per l'ordinario non procedono da impulso  interno. E qui ci verrà dispiegando la forza c la  natura di quella affezione, da cui si dice essere  stato impulso l’accusato a commetter I’ azione  imputatagli: porgerà a difesa esempii e similitudini, c svolgerà accuratamente quel molo dell’animo dal suo lato più calmo e più tranquillo;  talché il fatto stesso, che è cagione di accusa,  di crudele e turbolento pas-i ad aver sembianza  di mite e pacato, e il discorso sia nondimeno acconcio a svegliar nell'animo di chi ascolta un sentire accostante alta sembianza elle si vuol dare al  fallo. Il difensore anche addebotirà i sospetti appoggiali a raziocinio, se dirà che dal fallo non  venne vantaggio di sorta, o che ne venne pochissimo, o che esso profittò agli altri mollo piò, o che  niente piò all'accusato che agli altri rftin fece, o  anzi gli tornò più a danno che a utile; di forma ti incommodum, quamquam in falsa fucril opinione,  dcmonslrandum crii ilcfcnsori ncniinem Ionia esse  slullilia, qui tali in re possil verilatem ignorare.  Quod si id conccdnlur, illud min ronccssum ili,  ne dubitasse quiilem lume, quid u-rius ossei, sed  id. quod falsimi Inerii, sino olla duliilalione prò  vero protrasse. Quod si duliiliirit, smuntile Inisse  amctilioedtibias|ie inipulsiiin eerlurn in periculiini  se conunillere. Qiieniadniodum anioni areu-alnry  quum ab aliis culpam deiuovebil, defensoris Ineis  ulclur, sic iis locis, qui a-cusatori doli soni, utelur rem, quum in ilios ab se crimcn vote! Iran  s Terre.  Et persona uulem eonicclura capielur, si  rac res, rpiae personis atlriliulae soni, diligenler  eonsidcrabuntur, qnas omnes in primo libro ovposuimus. N.un el tic nomine nonmunqunin aliquid  suspiciouis nascilur. Nomen ameni 1 poco scaltra, che possano essere ribattuti evoltali a utile della parte contraria;  della qual fatta sono i Ire clic ultimamente ho toccati. Quanto (• alta querela gravissima, con che si  dimostra che seguirebbe scompiglio in tutliquonli  i giudicii, ove l' accusatore avesse licenza d' infligger la pena a chi non fu condannalo, l'accusatore addebolirà essa querela primamente se farà  vedere esser il fatto una ingiustizia cosi acerba,  ila non poterla portare un uomo dabbene, e molto  ancho meno un uomo libero; dipoi se farà conoscere esser essa cosi evidente, ria non poterla  mettere in dubbio neppure colui medesimo elio  la commise; poscia esser di tanta gravità, che  colui clic n’ha fatto punizione l’ha senza altro unno n. communis accusatori in cum, qn>, quum id.qnnd  argnilur, negare non possi!, lamen al quii! sibi  spai compn et ex iudlciorum pcrln» boli, no ,\ ! quc  hic ulilitalis iudiciorum ocmonslrnliu et de co  conquesti» , qui supplicium dederil indi miinlus ;  in eius autem, qui sumpseril, audacia!» pi crudrlilalcm indignali». Ah defensorp. In eius , quem  ullus sii, audacia!» sui conquesti» : rrm non ex  nomine ipsius negolii, sed ex consilio eius, qui fe  ccril, et causa et tempore consideraci nporlerc ;  quid mali fulurom sii ani ex iniuria aut ex seriore alicuius, nisi tanta et Ioni perspicua audac a ab  eo, ad cuius famam, aut ad parentes, aut ad li  beros perlinuerit, ani ad aliquam rem, quani caram esse omnibus aut ncccssc est, aut oportel esse, fueril «indicata. Remolio criminis est, quum eius inleidio  f ieli, quod ab adversario inferinr, in atium aut in  aliud dem >velur. Id IH bipcrlito ; nam tum causa,  lum res ipsa removetur. Causae remotionis hoc  nobis esemplo sit: Rhodii quosd.im legarunl Ailienas. Legatis quacstorcs sumplum, quem oporlcbal  dari, non dcderunl. Legali profedi non stud Accusantur. Intenti» est : Profieisci oportuit, Dipoi  sio est: Non oportuit. Quaestio est: Opertucrilnc?  Ratio est: Sumptus enim, qui de publico dari sole!, is ab quacstore non est datus. Inflrmalio est:  Vos tamen id, quod publice vobis erat negotii datum, conflccrc oporlcbal ludicatio est: Quum iis,  qui legali eranl, sumptus, qui debebatur de publico, non daretur, oporlueritnc eos conlieere nihilo minus legalioncm ? Hoc in genere primum,  sicut in coieria, si quid aut ex conieclurali aut ex  alia constilulionc sumi possi! , viderì oporlcbil.  Deinde pleraquc et ex comparatione et ex rclaiione criminis in liane quoque causam convenire  poterunt. Accusalor autem illum, cuius culpa id  factum reus dice!, primum dcfendel, si polcrii ;     dovuta fare di necessario; di modo clic se Tu  cn-a giu-la, se fu onesta clic quella ingiustizia  veni.se portata in giudici», motto più fu onesta  e giusta rosa die si punisse a quel modo c da  quello, ila cui fu cosi punita; indi esser essa cosi  manifesta, da non esser mestieri die neppure se  uè tenesse giudici». E qui con ragioni e circoslanrc simili si dee dimostrare come si danno di molte  altre cose egualmente atroci ed egualmente chiare, le quali non solo non è necessario, ma ni  eziandio utile aspettar di punire quando ne sarà  fallo il giudicio. A questo punto toma acconcio  un lungo comune: a carico dell'accusatore, mostrando la parte arveisa clic non potendo egli  negare il fallo, movente c causa del fatto cli'cssa  difende, va tuttavia a mendicare nello scompiglio  dei giudici qualche speranza di buona uscita. E  qui s' ha a dimostrare l'utilità dei giudicii, e menar doglianza sull'Infelice che doveltc soggiacere  a pena senza previa condanna, e far cruccio contro l'audacia e la crudclvzza di colui che impose  la pena. A carico del difensore, dolendosi l’accu  sante dell'arroganza di colui ch'egli ha punii».  Dirò, doversi riguardare il delitto non dal nome  dell' a ITa re totale, ma dalla intenzione di colui  clic il fece, dal motivo, dalle circostanze del tempo; c badar bene al male che ridonderebbe dalle  ingiustizie c dalle scellcranzc dei malvagi, se cosi  grande e cosi Dolente audacia non fosse punita  dall'uomo clic se ne vede mistratiala la fama, o  i genitori, o i figli, o qualche atiro oggetto che  necessità o convenienza domanda clic da ognuno  sia avuto a caro. È retnoziune del distillo allora che un Iole riversa sopra un'allra persona o un'altra cosa il  fallo che l'avversario imputa contro a lui. Ciù si fa  per due modi, poiché ora si riversa sopra altrui la  causa del fallo, ora il fatto stesso. Quanto alla causa, abbiamone il seguente esempio: I Rodiani vollero mandare certi loro ambasciadori in Alene, àia  siccome i questori non diedero loro le spese, come era dovere, gli ambasciadori per ciù non partirono. Sono accusati. Dice l’attore: Si doveva partire. Replica colui che difende: Non si doveva. La  questione è: Sì doveva o no? La ragione, ovvero  difesa: Poiché ii questore non forni il danaro del  comune, che si fornisce per consueto agli ambasciadori. La confutazione è: Voi non di meno dovevate spedir la bisogna che a nome del pubblico  vi era commessa. Il punto da decidere si i : Non  essendo date agli ambasciadori le spese di quello del comune, come pur bisognava, dovevano essi non ostante ciò andare in ambasceria? In quesia causa, come in lolle le altre, é da vedere se si  possa (or qualche punto che profili! o dalla con si minus poteri!, ncgabil ad hoc iudicium illius,  scd liuius, qucm ipsc accuse!, culpam pei linere.  Poslca dicci suo quemquc officio consolerò oportcre ; ncc, si illc peccasse!, hunc oporluisse peccare : deinde, si ille deliquerit, separabili illum  sicut hunc accusari oporlere,ct non cum huius dcfensioneilliusaccusalionem. Defensoraulom quum  celerà, si qua ex aliis incidenl conslilulionibus,  pertractaril, de ipsa rcmolionc sic argumenlabilur.  Primum , cuius acciderit culpa , demonstrabil ;  deinde, quum id aliena culpa accidisscl, ostcndel  se aut non poluisse aut non debuissc id tacere,  quod accusator dica! oportuisse. Quod non polueril, ex ulililalis partibus, in quibus csl necessiludinis vis implicata, demonstrabitur; quod non dcbuerit, ex honeslate considerabilur. De ulroque  distinctius in deliberativo genere dicelur. Deinde  omnia racla esse ab reo, quac in ipsius Tuonili potestalc; quod minus, quatn convencrit, faclum sii,  culpa id allerius accidisse. Deinde in allcrius culpa cxponcnda dcmonslrandum esl, quanlum volunlatis elstudii fuori! in ipso; et id signis confirmandum huiusmodi ; ex celerà diligenlia, ex ante  factis aut diclis; alque hoc ipsi utile fuissc Tacere,  inutile autem non facere, et cum celerà vita fuisse  hoc magia conscntaneum, quain quod proplcr alterius culpam non feceril. Si autem non in hominem certum, sed in  rem aliquam causa demovebilur, ut in hac eadem  re, si quaestor mortuus esse!, et idcirco legalis  pecunia data non essel accusatone allcrius el culpae depulsione dempta, ccleris similitcr uli locis  oporlebit, et ex conccssionis partibus, quae convenienl, adsumere ; de quibus post nobis diccndum erit. Loci autem communes idem ulrisque  fere, qui superioribus adsumplivis, incidenl ; hi  tamen certissime : accusaloris , facli indignato,  defensoris, quum in alio culpa sii, aut in ipso non  sii, supplicio se adOci non oporterc. Ipsius autem gcllurjle, o da qualche altra costituzione. Dipoi  potranno anche in questa causa risponder bene  molti capi della comparazione c del lrasfc, a cui era interdetto sacrificar vitelli. Giunti i naviganti a terra, c ignorando la legge, sacrificarono il vitello votato. Il padrone della  nave £ tradotto al tribunale. L'accusa che gli si  dà £ questa: Hai sacrificato un vitello a quella divinità, a cui non si poteva La replica non fa che  eoncedcrc. Il motivo, o difesa, si £: lo non sapeva clic non si potesse. La confutazione 6: Però,  quando fu fallo ciò clic non era permesso, sci  merilevolc del casligo voluto dalla legge. Il punto  da dover giudicare sarà così: Poichò coslui ha fallo  ciò clic non era permesso, ma ignorava clic permesso non fosse, £ egli merilevolc o no di casligo? Il caso si rapporterà alla concessione allorch£  mosirerassi che qualche ostacolo e impiglio fortuito ovviasse che l'uomo non facesse a sua volontà, come in questo fatto: Era legge in Fsparta  che colui, il quale aveva l'appalto di somministrare le vidimo, fosso punito di morte se non  le avesse apprestate per un dato sacrifizio. Cominciò adunque si fallo appaltatore di condurre  dalla campagna le villimc alla volta della città, praeslo non lucrimi. Dcpulsio esl: Concessio. Ratio: Fluraen cnim subito accrcvil, et ra re traduci  non poluerunl. Inlìrmalio est : Tamcn, quoniam,  quod lei iubct, factum non est, supplicio digitus  es. Iudicalio est : Quum in ea re contro Irgern redemptor ali.quid fecerit, qua in re studio eius subita flutninis obstitcrit magnitudo, supplicio dignusne sit ? Necessitudo autcm infcrlur, quum li  quadam reus LI, quod feccrit, fruisse defeudilur,  hoc modo : Lei est apud Rhodios, ut, si qua rostrata in porlu navis deprrhensa sit poblicetur.  Quum magna in alto tcmpestas esse), vis vcntoruin  invilis nautis in Khodiorum portum navem cocgil.  Quaestor navem populi vocat. Navis dominus negai oportrre publicari. Intenlio est: Rostrata navis  in porlu dcprchensa est. Dcpulsio est: Concessio.  Ratio: Vi ol necessario sunius in portum c acti.  Inlirmatio est : Navem ex lego tamcn populi esse  operici. Judicalio est: Quum roslralam navem in  poi tu deprehensam L-s publicaril, quumque liacc  navis invilis nautis vi lempcstatis in pollimi conicela sit, oporleatne cam publicari? Ilorum tiium  gencrum idcirco in unum locum contuliuius esempla, quod siniilis in ra praeccptia orgumeiibrum  traditur. Nani in bis omnibus primum, si quid res  ipsa dabit fdculiatis, cnniecluram induci ab accusatore oporlcbit, ut id, quod volunlulc factum oc  gabilur, consulto faclum suspicione aliqua demonslrelur ; deinde iuducere dclinitionem nccessitudinis, sul casus, aut imprudenliae, et esempla ad  eam dclinitionem adiungere, in quibus iinprudcnlia foisse vidcalur, aut casus, aut necessitudo, et  ab bis id, quod reus infoiai, separare, id esl, estendere dissimile, quod levius, facilius, non ignorabile, non forinitum, non neccssarium fueril. rosica dcmonslrare poluissc vilari ; et hac radono  provideri poluissc; si Ime aut illud fecissct, aut, perchè avvicinava già il gioruo del sacriGxio. Avvenne però caso che essendosi messa una fiera  procella, il (lume Eurola che scorre rasente a  Sparla ingrossò di tanto c prese un andare si  impetuoso, che per nessun modo vi si poterono  far passare le vittime. L' appaltatore per dar a  conoscere com'egli era d’animo di voler far il  dovere, appostò tutte le vittime sulla spiaggia per  amore che le potessero vedere quelli eh’ erano  dall' altra parte del fiume, Avvegnaché tutti sapessero die al desiderio di passare gii avea fatto  ostacolo la si tosta piena del fiume, nondimeno  ci fu chi gl' intentò lite in fatto capitale. Ecco  l'accusa: Non furono in pronto lo vittime che tu  dovevi somministrare pel sacrifizio. La replica i:  Vi si concede La ragione giustificante : Giacché  il Guuie fatto grosso d' improvviso mi vietò dal  tragittare le vittime alla città. La confutazione:  Tuttavia, siccome non hai fallo ciò clic comanda la  legge, sei degno che le ne sia inflitta la pena. Il  punto che vuol esser giudicato è tale : Poiché  ('appallatole non apprestando le vittime ha mancato alla legge, ma non le apprestò perchè gliene  pose ostacolo la subita piena del fiume, è egli  meritevole o no di supplicio? La ncccssilà Ira luogo nella concessione  quando I' accusato deduce che a far ciò che egli  fece fu spinto da una cotale prepotenza delle circostanze. Per esempio: Vi ha legge presso i Rodiani che in evento che sia sorpresa nel porlo loro  una nave rostrata di qualsiasi forestiere, essa diventa proprietà del comune. Or essendosi gettato  il mare a burrasca fierissima, avvenne che la furia  dei venti, nondimeno che i naviganti volesseio tener l'alto, spinse la nave loro malgrado, nel porlu  dei Rodiani. Il questore vanta per la legge clic la  nave è proprietà del comune. Il padrone sostenta  che non dee al postutto essere. Si viene alla petizione: Fu presa una nave rostrata dentro dal porto. La rcplicu è la concessione del fatto. Il motivo  di difesa : Fu la forza dei venti cito necessarianiente u' ha avventalo addentro il porlo. La confutazione : Tuttavia la nave a richiesta dc!la legge  dee cadere in proprietà del comune. Il punto da  decidere: Essendo la riave rostrata, che fu presa  nel porto, fatta dalla legge di ragion del comune,  ed essendo questa nave avventata nel porto dulia  furia delta procella a malissimo grado dei naviganti, si dee essa o non si dee aggiudicar al comune coinè sua proprietà? Ilo unito di seguilo gli  esempli di queste tre parli della scusa, perché son  simili i precetti che si danno circa agli argomenti  proprii di tutte o tre. Difatti in tulle c tre converrà  primamente che l'accusatore, se il fallo stesso gliene olTrirà qualche appiglio, ricorra alio parti della 9i ni sic ferisscl, praccaveri ; el dcfinilionihns ostendere non tianc imprmlentiam, aut casum, aul  ncccssitudiricm, sed inertiam, ncgligonliam, faluilalem noininari oporlere. Ac si qua nccessiludo  lurpitodinem videbilur liabcre, oportebit per locorum communium implicationem redargucnlcm  dcmonstrarc quidvis perpeti, mori denique salius  fuisse.quam ciusmodi nccessitudini obtemperare.  Alquc lum ei iis locìs, de quibus in negoliali parie dictom esl, iuris et aequilalis naluram oportobit quaererc, el, quasi in obsoleta iuridiciali,  per se, hoc ipsutn ab rebus omnibus separatim  considerare. Atque hoc in loco, si facullas crii,  riempii* liti oportebit, quibus in s'mili eicu«alione non sii ignotum, et contenlione, mauis il Iis  ignosrendiim fuissc , el delibcralionis parlibus  turpe ani inutile esse concedi eam rem, quac oh  aihcrsario commis»a sit ; permagnuin esse, cl  magno fulurum detrimenln, si ea res ab iis, qui  pntest ilern habenl viodieandi, neglecla sii. ltiTensor aulein conversi! omnibus bis  parlibus poterit oli. Hhivime aulein ili vidimiate  defeiidenda commnridiilur. el in ea re adaugenda,  quae vnluntati fiieril impedimento; el se plus,  qnam feeerit. tacere non poluisse ; el in omnibus  rebus «oliintalem speelari oporlere; el se convinci non posse, quod alis i a culpa: et et suo nomine eomtnunem Immillimi inlirntilalem posse doni  nari. Deinde n ini esse indignius, qoam cuni, qui  culpa careni, supplicio non rarere. Loci aulein  commuiies accussaioris, in contcssionem, el quanta pntestas peccandi rclinqualur, si semel iuslilu     questione congetturale, per potere quando l’accusalo dicesse aver tatto contro sua voglia ciò che  egli fece, dimostrare col melterc in rilievo qualche  sospetto eh' egli anzi ha tallo a sciente c a bello  studio ; dipoi si dovrò porgere la definizione della  necessità, o del ca-o, o della ignoranza, e aggiustar a quella definizione esempii si falli che dimostrino etTetlivomente o ignoranza, o caso, o necessità, c separare da questi il fatto presente, voglio  dire farlo conoscere ben diverso da quelli, asseverando che qui il fallo era di meno importanza ,  più agevole, non ignoto, non forlunevole, non necessario. Dipoi si vorrà dimostrare che l’accusalo  poteva schivarsene, e darsi attorno facendo questo  o quello, perchè nulla avvenisse, o almeno prevedere dò che sarebbe seguilo se nè questo nè quello avesse fallo; e col mezzo delle definizioni mettere in chiaro che il fallo presente non dee nominarsi o tratto d'ignoranza, o caso, o necessità, ma  più presto dipendere da inerzia, negligenza, stolidezza. Che se nella necessilà fosse impigliala  qualche azione ignominiosa, converrà all'accusatore col mezzo ili varii luoghi comuni mostrare che  saria sialo meglio patire qualunque stremo, e fin  anche la morte, che obbedire a necessità di quella  fatta. Inoltre converrà ilielio la guida di quei luoghi, di che si è dello parlando dello stato negoziale, cercare quale sia la natura ilei giure e dell'equità. c. come si Tu nella causa assoluta di genere  giuridici.de, considerar ciò medesimo di per sè,  separatamente da ogni altra rosa. E qui, se pure  se n'avrà in pronto, dovrassi addurre esempii di  falli, che quantunque giustificali per mezzo di  scusa simile, pure non hanno ottenuto perdono,  c mostrare por via di confronto che quelli allato  a questo erano perdonabili mollo più di vantaggio, ed entrando a ragionare dietro le regole  dello s'ato deliberativo, far vedere essereosa turpe o inutile clic del suo delillo il reo se la passi  liscia: esser cosa di troppo momento, c elio ridonderà a gran male, tc di lai delitto si volessero  trascuratamente passare coloro che hanno l'autorità di esigerne la pena.   XXXIII II difensore all'opposto potrà valersi  di tulli questi argomenti, ma in verso contrario.  Egli però si fermerà il più a difendere il buon  volere (l' Il'aecu-ato, e ad esagerare ciò che gli  intervenne inciampo e di ostacolo: sosterrà ch'egli non ha potuto fare più di quello che fece; e clic  in ogni azione deesi aver in mira l'intendimento,  e la volon'à: e che egli non può esser convinto  perchè da colpa è ben lontano; e che se si condannasse per questa sua causa, si potrebbe egualmente condannare la debolezza comune a lutti gli  uomini. Dirà poscia, non v'esser cosa più crudele lum sii, ut non de facto, sed de facti causa quaeratur : defcnsoris conquestio est calamilatis cins,  quae non culpa, sed si malore quadam accideril,  et de forlunac polestalc, et hominum iulirmitalc,  et, uti suiim animum, non cvrntum considerent.  In quibus omnibus conquestioncm suarum acrumnarum, et crudelilalis adversariorum indignalionem inesse oportebit. Ac neminem mirari convcniet, si aut in his aut in aliis exemplis scripti quoque conlroversiam adiunctam videbit. Quo de genere posteritnobisscparalim dicendum, propterca  quod quaedam genera causarum simpliciter ex  sua vi considerantur, quaedam aulem sibi aliud  quoque aliquod controvcrsiac gcnus adsumunt.  Quarc omnibus cognilis, non erit difficile in unam  quamque causam transferre, quod ex eo quoque  genere convenict; ut in bis exemplis conccssionis  inest omnibus scripli controversia ea , quae ex  scripto et sentenlia nominatur ; sed, quia de concessione loquebamur, in eam praecepla dedimus.  Rune in alleram concessioni; partem consideralionem intcndemus. Deprecatio est, in qua non defensio faeli, sed ignoscendi postulatio continetur. Hoc Bonus vix in iudicio probari polest, ideo quod concesso peccato difficile est ab co, qui peccalorum  rindex esse debet, ut ignnscat, impetrare. Quarc  parte eius generis, quum causam non in eo constitueris, uti licebit. Uti si prò aliquo claro aut  forti viro, cuius in rem publicam multa suoi beneficia, dixeris, possis, quum videaris non uli deprecalionc, uti tamen, ad hunc modum : Quodsi.  iudices, hic prò suis bencflciis, prò suo studio,  quod in vos semper habuit, tali suo tempore multorum suorum recte factorum causa uni deliclo ut  ignosceretis postulare!, tamen dignum veslra mansuetudine, dignum virtute huius csscl, iudices, a  vobis hanc rem hoc postulante impctrari. Deinde  angere beneficia licebit , et iudices per Iocum  communem ad ignoscendi volunlatem deducerc.  Quaro hoc genus. quamquam in iudiciis non ver di quella, che soggiaccia a pena quell'esso, che  di male fallo non è punto reo. I luoghi comuni  che gli tornano a prò li piglierà l’accusatore, l’uno  da ciò che confessa il reo di aver fatto, l’altro dal  far osservare che si lasccrohbe a tulli un pieno  arbitrio di venire a nequizie, se una volta si autorizzasse l'abuso di far il processo non del fatto,  ma della causa del fatto. I luoghi a prò del difensore sono: il deplorare quella disavventura che  occorse non per colpa dell'accusato, ma per una  forza maggiore, cui egli non fu poderoso a ribattere; il lamentare sopra la gran possanza della fortuna e la debolezza degli uomini, c clic si voglia  alle intenzioni di lui attribuire una pravità, anzi  che cercar la cattiveria del fatto nelle circostanze  che lo accompagnarono. In tutti questi punti dovrà  il difensore mostrar doglianza delle disgrazie del  suo protetto, c sdegno della crudeltà degli avtcr  sarii. Nè dee prender maraviglia chi che sia, se in  questi esempi, come in ogni altro, vedesse involta  controversia altresì di scritto. Di questo però ho  da parlare distintamente più sotto, poiché alcuni  generi di causa si riguardano puramente in sè  e nel solo punto controverso in cui s'aggirano,  ed alcuni altri associano alla propria qualche altra  I specie di controversia. Quando adunque sieno ben  conosciuti i capi precipui di ogni causa, non sarà  malagevole introdurre in ciascuna quel tanto della  controversia di scritto che l'è occoncio o che vi  calza: ed anzi in questi medesimi esempi della  concessione è inchiusa la controversia clic si domanda di scritto e di senso; ma siccome si parlava della concessione sola, non ho dato altro clic  i precetti che erano relativi ad essa. Dello scritto  e del senso parlerò altrove. Ora passiamo a considerare la seconda parte della concessione. Preghiera è quel discorso, in cui consiste non la difesa del fallo, ma la istanza che gli  sia dato perdono. La preghiera di questa specie è  troppo difficile che in giudirio possa essere poderosa, perchè quando il delitto è confessalo, appena può darsi che lo perdoni colui che ne dee anzi  essere il punitore. Laonde, qualvolta la tua causa  non sia così spallala, che tu non le possa dar altro  per appoggio che la preghiera, dovrai usarne con  parsimonia solo qualche parte. Per esempio se Iti  arringassi a prò di un personaggio di gran levatura o valore, il quale avesse recali di molli benefizii alla repubblica, potrai, facendo partila di non  dar punto in preghiere, darvi non di meno a questa guisa: che se quest'uomo, o giudici, clic sa di  aver fatti imporlanti bcnclìzii, e preso per voi tulli  molto impegno e premuraci facesse istanza che in  si grave sua disgrazia voi altri a riguardo di latito  buone e belle sue azioni gli aveste a perdonare il satur, nisi quadam ex parie, lamen, quia el pars '  haec ipsa ìnducenda nonnumquam osi, el iq se- nalu, aut in consilio saepe omrii in generp, tractanda, in id quoque praceepla pnnemus. Nani in  senalu el in consilio de Syphacc diu deliberatimi |  esl ; el de Q. Numilorio Pullo apud L. Opimium |  et eius consilium diu diclum est. Et magia in Ime  quidem ignoscendi quam cognoscendi poslulatio  Tatui!. Nani semper animo liono se in popolimi  Romanum fuisse non lam Tacile probabili, quurn  coniccturali conslitutionc uleretur, quam ut propterpostcrius bcneDcium sibi ignoseerclur, quum  deprecationis partes adiungerct. Oporlebit igitur eum, qui sibi ut ignoscatur , postulabit , commemorare , si qua sua  poteri! beneficia, et si polcrit ostendere ea malora esse, quam haec, quae deliquerit, ut plus  ab eo boni quam mali proTcclum esse videatur ;  deinde maiorum suorum beneficia, si qua cxstabuoi, proTcrre; deinde ostendere non odio ncque crudclilate fecisse , quod fecerit , sed aut  atuUilia, aut impulsu alicuius, aut aliqua boneala, aul probabili causa ; poslea polimeri el confirmarc se et hoc peccalo doclum, el beneficio  eorum, qui sibi ignoverint, confirmalum , ornili  tempore a lati radono afuturum ; dcinilc spem  ostendere aliquo se in loco magno iis, qui sibi  concessemi, usui fulurum. Poslea, si facullas  eril, se aul consanguincum, aul iam a maioribus in primis amicum esse demonstrahit, el ampliludinem suac voluntalis , nobili latem generis  eorum, qui scsalvum velini, el dignilalem estendere, el celerà ea, quae personis ad honestalem et  amplitudinem sunt allribula, cum couqueslionc,  aìne adrogantia, in se esse demonstrahit, ut bonere polius aliquo, quam ulto supplicio digiius esse  videatur ; deinde celeros proTerrc, quibus moiora     solo delitto ch’egli ha commesso, sarebbe pure un  tratto degno della clemenza vostra, o giudici, e  degno della virtù di tanto uomo clic voi scendeste  a indulgenza si fatta per essere si Tallo il personaggio clic la vi ehiede. Dipoi si potrò mettere in  sul grande i delti lienefizii, e col maneggio del  luogo comune clic è calzante ed alto a ciò, piegare il cuore dei gindici a volere pur perdonare. Il perchè, sebbene dilla preghiera non si dee  far uso ne’ giudicii se non che per qualche poco,  lunaria perchè quesla porle medesima si dee pur  qualche rolla interporre, ed ami incontra sovcnle  che o in senato o in consulta si debba trattar la  preghiera per ogni sua parte, così verrò qui dando i precetti che a questo capo si riferiscono. Certo è clic sull’ aliare di Si Tace cosi in senato come  in consulta si deliberò molto a dilungo se gli si  dovesso perdonare, ed altresì sopra Q. Numilorio  Pullo fu parlato lunga pezza davanti L. Opimio e  ga sua consulta; c massime nella causa di Numitorio Tu senz'altro piò valevole il fare istanza clic gli  fosse perdonalo, elio non l'insistere perchè ne seguisse il processo. Non era infatti troppo facile per  lui, essendo la sua causa basala sul congellurale,  far vedere manifestamente ed in prova ch’egli fosse stato sempre di buone intenzioni e voleri verso  il popolo Romano; ben per contrario gli fu facile  ottenere che gli fosse perdonato, Ira in vista del  beneficio che da ultimo avea fallo, c mollo piò  per avere al suo ragionamenlo aggiunta la fona  dello preghiere.   XXXV. Converrà dunque che colui il quale facesse istanza perchè gli fosse perdonalo, vada ricordando i benefizii che potesse aver fallo, e mostrando, se il caso gliene pcrtnclterà.ch’cssi in confronto sono mollo piò rilevanti clic non le mancanze ch'egli lia commesse, tanto che si paia che  ha fallo del bene troppo più che del mole; dipoi  dovrà recare in mezzo, se polrà vantarne, i benefizii dei suoi maggiori; indi dar a divedere come  a ciò che egli fece non fu indolto nè da odio nè  da crudelezza, ma o dalla scioccaggine o dalle  istigazioni di alcuno, ogipure perch'egli n'ebbe una  causa onesta o lodevole; dappoi dar parola e far ad  ogni modo fede eh’ egli ammaestrato dalla esperienza presa nella prcscnlc sua colpa, e reso raffermo e savio dal beneficio di quelli che di quel  fallo gli perdonarono, non vorrà piò in nessun tempo adoperarsi mai di quella maniera; inoltre mostrare anche speranza che in qualche occasione ei  polii pur fare avvantaggio mnlloe servigio a quelli  die avranno indulto con lui. Dipoi, se avrà ragioni da polerlo fare, dimostrerà aver egli parentezza  con quelli a che rivolge le suo preghiere, oppure  coltivala sempre l' amicizia che verso loro gli fu concessa dclicta sinl. Ac mullum profìcicl, si se  miscricordem, in polestalc propcnsum ad ignosccndum fuissc oslendcl. Alque ipsuin illnd peccalum crii cxtcnuandum, ut quam minimum obfuisse videatur, etani turpe aul inutile demonstrandum tali de liominc supplicium sumere. Deindc loda communibus miscrieoMiam captare oportebit ex iis praeceptis, quae in primo libro sunt  eiposila. Advcrsarius aulem malefacta augcbil:  nibil imprudentcr, sed omnia ci crudelitale et  malitia fa da dicet; ipsum misericordcm, superbum fuissc, et, si poteri!, ostendet semper immicum fuisse et amicum fieri nullo modo posse. Si  beneficia proferel, autaliqua decausa facla, non  proplcr bcncvolenliam dcmonstrabil, aut poslea  odium esse acre susccplum, aul illa omnia maleficiis esse deleta, aut levìora beneficia quam maleficia, aut, quum bencficiis bonos habitus sii, prò  maleficio pocnam sumi oportere. Deinde turpe  esse aut inutile ignosci. Deinde, de quo ut polestas esse! saopé optarint, in eum polestate non uti  summamesse stulliliam; cogitare oportere, quem  animum in cum et quale odium habuerint. Locus  aulem communis erit, indignano maleficii.et alter,  eorum misereri oportere, qui proplcr fortunam,  non proplcr maliliam in miseriis sinl. Quoniam  ergo in generali conslilutione lamdiu proplereius  parlium mulliludinem commoramur, ne forte varietale et dissimililudine rerum diduclus alicuius  animus in qucmdam errorem deferatur, quid etiam nobis ex eo genere resici, et quare resici, admonendum videtur. Iuridicialcm causam esse dicebamus, in qua acqui et iniqui natura et praemii  aul pocnae ratio quaererelur. Eas causas, in quibus de acquo et iniquo quaerilur, exposuimus. trasmessa dai maggiori, c farà conoscere il grande suo buon volere, come altresì la nobiltà della  stirpe e la grandetta degli ufllcii tenuti da quanti il  bramano salvo o risparmialo: dimostrerà avere in  sé, pure clic il faccia con parole dimesse e in tuono presso ette lamentevole, tulli quei caratteri che  son proprii delle persone clic per grandetta c onestà ranno dagli altri distinte, sicché faccia in certo modo apparire esser egli meritevole piullosto  di qualche onore ebe di un castigo: inoltre nominerà tulli gli altri, quanti ne sappia, a cui furono  perdonati delitti vie più gravi del suo. Mollo anche  gioverà alla sua causa, se mostri com'egli fu sem.  pre compassionevole, e come sempre che ebbe csercitio di autorità fu inchino ad usar perdonanti  ed indulto. Anche dovrà il difensore appicciolir la  colpa dell' accusalo, e mostrare che il danno indi  venutone é da nulla, ed esser o cosa vana o da far  disonore il soggettare a castigo una persona tale.  Dipoi si vorrà con l'uso de' luoghi comuni accattargli compassione secondo i precetti che nel primo libro se ne son dati. L'avversario per contro amplificherà il  delitto: dirà che niente vi fu fallo per ioconsiderama, ma lutto ami per malizia e crudelezia: che  egli fu superbo e senza pietà; c dove il possa, farà vedere ch’egli fu sempre porlalo alle nimicizie,  e che amicarlo mai per nessun modo è possibile.  Se toccherà i benefizii da lui fatti, dimostrerà che  essi ebbero origioe da qualche ragione di suo vantaggio, non da animo proclive a ben volere, oppure eh’ egli poi ti attossicò con l' odio acerbo in  che colse i beneficali, o che i benefizi! furono distrutti da altrettanti diservigii e male cose, o che  il ben eh’ egli fece fu da meno che il tanto male,  ovvero che deesi oggimai, poiché hanno avuto la  debita mercede i suoi benefizii, volere il castigo  delle sue malvagità. Poscia verrà dicendo che il  perdonare sarebbe una inutilità, o un tratto vituperevole: essere un troppo scioccheggiare il non  volere punto far uso i giudici sopra costui di quella autorità che sopra di esso hanno tante volte ambito di avere: dover essi riandar seco quanto mal  animo e qual odio a quel tristo hanno già portato.  E qui il luogo comune che fa al proposito è in  prima lo andar in parole piene di sdegno contro il  delitto dell'accusato, secondamente mostrare che  si dee aver pietà s) bene, ma solo di quelli che  sono flagellali dalla fortuna, non di quelli che  sono nelle miserie per loro propria malvagità. Ma  posciachè io mi trattengo cosi alla lunga circa la  costituzione generalo per la moltitudine delle  parti eh’ essa comprende, voglio ammonire che  altro mi resti ancora di questa trattazione, e perchè mi resti; e il vo' fare perchè qualcuno per ar Restai nunc, ul de praemio, et de poena explieemus. Sun! cnim mullae causae, quae ex  pracmii alicuius pctilione Constant. Nametapud  itidices de praemio saepe accusalorum quaerilur,  et a senaiu aul a Consilio aliquod pracmium saepe  pelilur. Ae neminem conxeniet arbitrari nos, quum  aliquod exemptum ponainus, quod in senatu agatur, ab iudiciali genere exemplornm recedere.  Quidquid cnim de homine probando aut improbando dicitur, quum ad cam diciioncm scntentiarum quoque ratio accommodetur, id non, si per  senleiiliae diciioncm agilur, dcliberativum est; sed  quia de homine staluitur, iudicialc est habendum.  Omnino autem qui diligcnter omnium causarum  vim et naturam cognoverit, genere et prima conformationc eas inlelliget dissidere. Ccleris autem  partibus aptas inter se omnes et aliam in alia implicatalo videbit. Nunc de pracmiis consideremus.  L. Licinius Crassus consul quosdam in citeriore  Gallia nullo illustri neque certo duce, ncque eo  nomine, ncque numero praeditos, ut digni cssent,  qui hoslcs pnpuli Romani esse dicerentur, qui  lune cxcursionibus et latrociniis infestam provinciam reddercrit, consectatus est et confecit. Romani rcilil : triumphum ab senatu postulai, llic,  ut et in deprccatione, niliil ad nos allinei rationibus et inflrmationibus rationum supponendis ad  iudicationem pervenire, propterea quod, nisi alia  quoque incidcl conslitutio, aul pars constilulionis,  simplex erit iudicalio, et in quacslione ipsa contincbitur. In deprccatione, huiusmodi : Oporteatne  pocna adfici? In hac, huiusmodi: Oporteatne dari  pracmium ? Nunc ad praemii quacstionein appositos locos exponemus. Ratio igilur praemii qoatuor est in  partes distributa : in bcnelicia, in hominem, in  praemii gcnus, in facultates. Beneficia ex sua ri. ventura non pigliasse le cose a rovescio, tratto in  errore dalla varietà e dissomiglianza di esse, lo  già diceva, quella essere causa giuridiciale, in cui  si cerca la natura del giusto e dell' ingiusto, e la  ragione del premio e della pena; ed anche ho csposlo le cause, nelle quali del giusto e dell'ingiusto si la la debita investigazione. Resta dunque adesso che si venga a  parlare del premio e delia pena. Ci sono di molle  cause, le quali consistono nella domanda di qualche premio. E infatti si controverte spesso davanti  ai giudici del premio da dover dare agli accusatori  c cosi ancora molle delle volte si domanda premio dalla consulta o dal senato. Nessun però creda che quando io reco alcun esempio di causa che  si agili in senato, io mi diparta dagli esempii di  genere giudiciale; conciossiachè ciò che si dice o  a lode o a biasimo di una persona, quantunque  eziandio a questo genere di dicitura vada spesso  unita la pronunzia della sentenza, non si vuole però per la ragione della sentenza ascriver al genere  deliberativo la causa di lode o di biasimo: nondimeno, siccome si tratta di persona da prosciogliere  o da condannare, la causa è per questo da agitarsi  con le forme del genere giudiciale. Del resto, chi  conoscerà a fondo la forza e la natura di ciascuna  causa, intenderà che tutte hanno bensì una differenza si nel genere primario e si ancora nella forma, ma  che però nelle rimanenti lor parti son tutte collegate fra loro, c come a dire l' una impigliata nell' altra. Ora dunque entriamo a far parola circa 1  premii. Il console L. Licinio Crasso nella Gallia  citeriore s' avvenne in una banda di armali che  avea per capo una persona oscura, o a meglio dire  non avea nessun capo stabile, e ni pel nome con  che veniva designata, ni per lo numero dei combattenti, non meritava esser della al popolo Romano nemica ; e solo con i ladroneggi e l'andare in corso molestava la provincia. Il console non  di meno le diede addosso, e la pose in rolla e sgominio. Tornato a Roma, chiede che ii senato gli  decreti il trionfo. Qui, come anche nella causa che  si fonda sulla preghiera, non ci i mestieri di metter innanzi nè le ragioni giustiDcanti, nè le repliche incontro, per venire al punto da giudicare,  poiché se non interviene un' altra costituzione, o  una sua parte, il punto da giudicarsi è uno solo,  quello che si contien nella questione. Nello stato  di preghiera questo punto è, Se si debba o no  infligger la pena: nel presente, Se si debba o no  dare il premio richiesto. Ora sporremo i luoghi  acconci alla questione di premio. La ragione del premio è di quattro  maniere, secondo che si riguardano o i benefizi!,  o la persona che li fa, o la qualità del premio, o ex tempore. Gì animo eius, qui feci!, ex casu consideranlur. Ex sua vi quaercntur lioc modo : magna an parva, facilia an dilBcilia, singnlaria sinl  an vulgaria, vera, an falsa, quanam cxornalione  honeslcnlur. Ex tempore aulem, si lum, quum indigcremus ; quum celeri non possent aul nollcnt  opitulari ; si lum, quum spes deseruissct. Ex animo, si non sui commodi causa, si co consilio fccil  omnia, ut hoc conlicere posso! ; ex casu, si non  fortuna, sed industria faclum videbitur, aul si induslriae fortuna obslitisse. In hominem aulem,  quibus raliunibus viieril, quid sumplus in eam  rem aul laboris insumpserit ; cequid aliquando  tale fcceril ; num alieni laboris aut deorum bonitatis praemium sibi postulel ; num aliquando ipse  lalem ob causam aliquem praemio adOci negarli  oportere; aut num iam salis prò co, quod feccril,  honos habitus sii; aul num necesso fueril ei tacere  id, quod feceril ; aul num ciusmodi sii faclum,  ul, nisi fecisset, supplicio dignus esse!, non, quia  fecerit, praemio ; aul num ante tempus praemium  petat, et spem incertam certo vendilet predo: aut  num, quod supplicium aliquod vile), eo praemium  postulet, uti de se praciudicium factum esse videalur. In praemii autem genere , quid et  quantum et quamobrcm postuletur, el quo et  quanto quaeque rcs praemio digna sii, considerabitur; deinde apud maiores quibus hominibus et  quibus de causis lalis honos habitus sii, quaeretur ; deinde, ne is bonos nimium pervagclur. Alque bic eius, qui conira aliquem praemium postulameli) dicet, locus eril communis: praemia virtulis et oRìcii sancta et casta esse oporlere, ncque  ea aut cum improbis communicari, aul in mediocribus hominibus pervulgari ; el alter : Minus homines virlutis cupidos forc, virtulis praemio pervulgato; quae enim rara et ardua sinl, ea ex praemio pulcra et iucunda hominibus v ideri; et tertius: le sostante dal benemerente possedute. I bcnelìiii  si vogliono considerare in quanto al peso che hanno in sì, in quanto al tempo, nH'inleniione di chi  li fa.all'accidcnte da cui forse dipendono. Rispetto  il peso che hanno in sì, si cercherà se siano grandi  o piccoli, se fatti con travaglio o senta, se siano  slraordinarii o comuni, se veri o se falsi, c da quali  speciose parole siano onestali. Rispetto il tempo,  si cercherà se ci furono falli quando ci andavano  a bisogno; se quando gli altri non potevano o non  ri voleano aiutare ; se quando ogni speranza ne  facevamo già andata. Rispetto alla intenzione, se  altri fece il benefizio senza nessun disegno di proprio interesse, se operò tutto con l’ intento di poter elTeiluare quel bene : rispetto all'accidente,  se il beneficio ha vista di esser fallo non a fortuna,  ma piuttosto a belio studio, ovvero se fu il caso  che oppose ostacolo alla premura e al buon volere. Si vogliono considerare i benefizii relativamente alla persona che li fa, badando quali furono i  modi del trarre costui la vita, quali spese abbia  sostenute o quali fatiche per acquistarsi quel merito : se altre volle abbia fallo azioni altrettali : se  domandi un premio dovuto alle altrui fatiche, o  che non è largito che dalla sola bontà degli dei ;  se abbia mai detto che per una tale ragione quel  premio non dee esser dato a nessuno ; o se per  quello che ha fatto n'abbia già avuto una sufficiente mercede ; o se egli fece niente altro che quello  che non poteva a meno di fare ; o se l' azione fosse di tale necessità, che se non l’avesse fatta saria  stato degno di supplizio, piuttosto clic esser degno  di premio per averla falla ; o se voglia esser premialo quando il tempo non ì da ciò, non si sapendo ancora I* appunto del suo merito , e vender per un prezzo certo una cosa ancora incerta e  dubbia ; o se chieda un rimerito con la mira  astuta di cessarsi da qualche punizione, facendo quasi apparire che si fosse già fatta un’ ordinanza a suo favore prima che l'alTare n’andasse al  giudicio. Quanto è alia qualità del premio, bassi  a vedere quale e quanto grande sia la cosa eh’ è  domandata, e per qual motivo, e poi di quale e di  quanto premio ciascuna azione sia degna : indi si  verrà esaminando a quali persone fra gli antichi e  per quali cause siasi conceduta una tale mercede;  dipoi si baderà che mercede si fatta non abbia a  divenire troppo comunale. E qui ecco il luogo comune da dover usare chi arringherà contro il postulante: i premii dovuti alla virtù c a qualche rilevante mansione volersi avere in luogo di cosa  santa e di pura, nè doversene far partecipe la gente  malvagia, o farsi tener a vile col lasciarsi andare  alle mani di uomini mediocri e volgari; ed ecco un Si exsislanl, qui apud maiores noslros ob oprepiani virliilem lati lionorc (tignali smit, nonne de  sua gloria, quum pari praemio loles liomines alitici vulcani, dilibari pulenl ? cl coruin enuineralio  Ct rum eis, quns conira ilicas, comparano. Eius  autem. qui pracmiiim pelei, tarli sui amplificano,  eorum, qui praemio adfccli sunl. cum suis taclis  conlenlio Deindc celeros a virlulis studio rcpulsum iri, si ipse praemio non sii adfeclus. Facullales aulem considcranlur, quum aliquod pecuniarum pracmium poslulalur ; in quo, ulrum co  piane sii agri vectigalium, pccuniae, an penuria,  consideralur. Loci communes: Ka rullo Ics augerc,  non minuerc oporlere.cl : Impudcntcm e<se, qui  prò beneficio non graliam, verum merredem postulo! ; conira aulem de pecunia raliocinari sordidum esse, quum de gralia reterenda dclibcrclur ;  el, se prclium non prò tarlo, sed honorem ila, uli  faclilatum sii, prò beneficio postulare. Ac dcronstilulionibus quidem salis dicium esl : nunc de  iis conlroversiis, quac in scriplo rersanlur, dicendum videlur. In scriplo vcrsalnr controversia, quum cv  scriplionis ralione aliquid dubii nascilur. Id lì l ex  ambiguo, ex scriplo cl scnlenlia, ex conlrariis Icgibus, ex raliocinationc, ex definilionc. Ex ambiguo autem nascilur conlruvcrsia, quum, quid setiscrii scriplor, obsrurum esl, quod scriptum duas  plurcsvc res significai, ad huno modum : Palerfamilias, quum lilium hcredem tacerei, vasorum argenleorum contimi pondo uxori suae sic legavi! :  lleres meut uxori mene iiasorum argenieorum  pondo cenlum, quae rotei, dato. Posi mortem eius  vasa magnifica ct pretiose cadala pelil a (Ilio maicr. lite se. quae ipse velici, debere dici!. Primum,  si fieri poteri!, demonstrandum est non esse ambigue scriptum, proplcrca quod omnes in consucludine scrmonis sic uti solenl eo verbo uno pluribusve io eam seatealiam, in quam is, qui dice!. altro : Rendersi chi che sia meno bramoso della  virtù, se vedesse il premio ad essa dovuto divenire  quasi che una trivialità ; rhè le cose rare c mala,  geroli a conseguire sono appunto quelle che gli  uomini, ore le ottengano in premio, hanno in conto  di gioconde c di belle; e tenamente : Se v' ha tra  i nostri antichi di quelli ebe per la sfolgorata loro  virtù furono giudicati di tal premio meritevoli, non  crederebbero essi forse che la gloria loro se ne  andrebbe scemala, se vedessero un premio eguale  cader nelle mani a persone che non ne son degne?  c qui viene in concio che tu venga noverando quei  tali amichi, e li metta a confronto con quelli, contro ai quali tu arringhi. Quanto a colui che chieda  il premio, ei maneggerà il seguente luogo comune;  darà Importanza al fallo ch'egli operò, e farà comparazione di quanto operarono quelli che furono  premiali con quanto ha operato egli stesso. Dipoi  farà vedere elicsi obbligherebbe ogni altro a rompersi dall’ amore alla virtù, dove egli del suo ben  fare non fosse rimeritato. Alle sostanze si dee aver  riguardo allorché é domandato qualche premio in  danaro ; e rispetto a questo caso si esamina se il  petente è bene avvantaggialo di campagne, di entrate, di dauaro, o se per contrario ne patisce difetto. I luoghi comuni sono questi : Le sostante si  deono accrescere, non mica scemare, c : Voler avcre una fronte invetriata colui che per un benefizio chiede una paga, anzi clic un alto di riconoscenza ; per contra si dirà essere una grettezza  che mentre si consultano consigli intorno a grazie  da riferire, sì faccia computi sul danaro da dover  numerare ; c, chieder egli non già il prezzo della  sua azione, ma un premio del suo beneficio in  quel modo o misura clic altre assai volle fu praticato. Or questo tanto potrà bastare ad essersi detto  delle costituzioni: adesso è da dire di quelle controversie che si aggirano sopra lo scritto.   XL. È controversia circa allo scritto, allorché  dal modo con che lo scritto fu espresso ne viene  qualche dubbielà. Nasce essa controversia dalla  espressione ambigua , dallo scritto e dal senso,  dalle leggi che si fan contro, dal raziocinio, dalla  definizione. Nasce controversia dalla espressione  ambigua quando é oscuro c non si può compren*  dere che volesse dir lo scrittore, però che la sua  espressione significa due o più cose. Per esempio;  Dii padre nell' istiluiro suo erede il figlio legò alla  moglie de' vasi d'argenlo per lo peso di cento libbre, e acrisse cosi: Il mio erede dia a mia moglie,  per lo peso di cento libbre, de’ vasi di argento  quelli che vorrà. Poi che il marito si mori, la madre domanda dal figlio de’ vasi magnifici, che aveano gran lautezza d' intagliature. Costui risponde che le dovea quelli eh' egli volesse. Or la pri aecipiendum esse demonstrabit. Deinde ex superiore el et inferiore scriptum docciulum iti, quoti  quaeralur, (Ieri perspicuum. Quare si ipsa srparatim ei se verba considcrenlur, omnia aul plcraque  ambigua visiim iti ; quac auleni ex omni considerata scriptum perspicua Kant, baec ambigua non  oporlcre eiislimari. Deinde, qua in sentenlia scriplor fueril, ci celerà eius scriplis et ex faclis, dittila, animo alque fila eius stimi oporlebil, el cam  ipsam scriplurnm, in qua inerii illud antbiguum,  de quo quaerctur, totani omnibus ex partibus pericolare, si quid aul ad id appositum sii, quod nos  interprclcmur, aut ei, quoti adversarius inlelligat,  Qdvcrsetur. Nani facile, quid verosimile sii eum  voluisac, qui scripsit, ex orniti scriptum , et ex  persona scriploris, alque iis rebus, quae personis  attributac sunt, considerabilur. Deinde erit dcmonstrandum, si quid ex re ipsa dabilur factillalis, id, quod adversarius inlelligat, multo minus  commode Aeri posse, quam id, quod nos accipimus, quod illius rei ncque adminislratio neque  exitus ulius ciste! ; nos quod dicamus, facile et  commodc iransigi posse. Ut in hac lege (nibil enim  prohibel (iclam «empii loco ponere, quo facilius  res Intelligalur) : «eretrix coronarti ne habclo; si  habueril , pubitea erto, conira eum, qui merctricem pubi icari dical ex lege oportere, possi! dici  neque adminislralionem esse ullam publicac meretricis, neque exilum legis in meretrice publicanda; at in auro publicando et adminislralionem et  exilum facilem esse, cUncommodi nibil incsse. Ac diligentcr illud quoque allenderc oportebit, anni, ilio probato, quod adversarius inlelligat, res utilior, aul honcstior, aul magis necessaria a scriptorc ncglecta videalur. Id fìct, si id,  quod nos demonslrabimus, bonestum, aul utile,  aut necessariitm demonslrabimus ; et si id, quod  ab adversariis dicclur, minime eiusmodi esse dicemus. Deinde, si in lege erit ex ambiguo conlroversia, dare operam oporlebil, ut de co, quod adversarius inlelligat, alia in lego caulum esse do   ma cosa, in evento cito si possa, decsi dimoslrare  non essere punto ambigua la scrittura, conciossiacbè tutti nell’ uso comune del parlare cosi sogliono adoperar quell' una o ptù voci per esprimere  quel senso, nel quale citi parla dimostra esse voci  dover essere intese. Dipoi è da ammonire clic ciò  clic si cerca è già reso evidente dal contesto che  precede c da quello che segue. Se si volesse attenersi a questa o a quella parola presa separalamente c di per sé, tulle le parole, o almeno la più  parte, potranno aver aspetto di esser ambigue; ma  non si dcono tenere per tali quelle che son già  messe in evidenza dall'esame del contesto e complesso dello scritto. Dipoi, a voler conoscere qua;  fosse la mente dello scrittore, si vorrà roviglior e  razzolare tutti gli altri di lui scrini, i falli, i detti,  il modo di pensare, il modo di vivere, e scrutar In  ogni sua parte tutto lo scritto che porla la della  ambiguità, per conoscere se alla espressione ambigua che interpretiamo ne sia soggiunta qualche  altra che ne la chiarisca, o che stia contro a quel  senso che l' avversario crede di dover inferire: perocché sarà anzi facile trovare ciò che verisimilmente abbia voluto lo scrittore, quando si voglia  por mente a lutto lo scrino, e alla persona che  scrisse, e a quelle altre cose clic alle persone si  riferiscono. Dipoi sarà da dimostrare, se la cosa  slessa ne porgesse qualche appicco, che ciò che  intende l'avversario si può fare molto meno utilmenlc che ciò clic intendiamo noi, poiché quello  non è conduccnlc a vcrun vantaggio, a vcrun successo ; mentre ciò clic diciamo noi può leggermente c con vantaggio comporre ogni cosa. Citiamo per esempio questa legge ( che niente vieta il  pigliar ad esempio una legge immaginaria, purché  s' intenda la cosa più di facile) : Nessuna meretrice porterà corona : se una la portasse, sarà incamerata. Contro colui che dicesse doversi iti for  za della legge por nel fisco la meretrice, si potrà  rispondere non avere il comune alcun provcnlo da  una donna pubblica, nè v' essere nel recarla al fisco alcuno scopo della legge : bensì »' essere e  provcnlo al comune e scopa della legge incamerando l’oro di che è composta la corona, senza  che ne emerga un menomo clic di svantaggio. Si vorrà eziandio ben attendere, se nel caso  che fosse adottato il seoso voluto dall’ avversario,  possa parere che lo scrittore abbia trascurala qualche cosa piò utile, o più onesta, o più necessaria.  E questo si farà, se porremo a vedere che ciò cito  adontatilo noi è onesto, od utile, o necessario ; e  che ciò che dicono gli avversarli non porta nessuna di queste qualità. Dipoi, se la controversia sarà  circa I' ambiguo che si trovasse in una legge, si  vorrà meller opera a dimoslrare che all' inconve ccalur. Pcrmullum aulem prodcict illud demonslrare, qucmadmodum scripsisset, si id, quod advcrsarius accipial, Acri aut inlclligi voluissct : ut  In hoc causa, in qua do vasis argenteis quaerìtur,  possi! mulier dicere, nihii allinuisse ascribi, quae  volef, si heredis collimati permitleret. Eo enim  non adscriplo niliil esse dubilalionis, quin hcres,  quae ipse vcllet, daret. Amenliam igitur fuissc,  quum hercdi velici caverò, id adscribere, quo non  adscriplo nihilominus hcredi cavcrctur. Quare hoc  genere magno opere talibits in causis uti oporlcbit : si hoc modo scripsisset, Isto verbo usus non  csset, non isto loco verbum istud collocasse!. Nani  ex bis scnlcntia srriploris maxime pcrspicitur.  Deinde quo tempore scriptum sii, quacrendum  est, ut, quid cum voluisse in ciusmodi tempore  veri simile sit, intelligatur. Post ex deliberationis  parlibus : quid ulilius, et quid honeslius et illi ad  scribendum, et bis ad comprobandum sii, demonstrandum ; et ex his, si quid amplificationis (labitur, communibus utriuque locis uti oportebit. Ex scriplo et sententia controversia consistil. quum alter verbis ipsis, quae scripla sunt,  utilur, allcrad id, quod scriplorem scnsisse dicci,  omnem adiungit diclionem. Scriploris autem sentcntia ab eo, qui sententia se dcfendel, lum scmper ad idem spoetare et idem ielle demonslrabitur ; lum ex farlo ani ex evento aliquo ad Icmpus  id, quod insliiuil, accommodatur. Semper ad idem  spedare hoc modo: Palerfamilias quum liberorum Imberci niliil, uxorem aulem haberel, in testamento ita srripsit : Si mihi filivs genitur unni  pluresve, is mi hi heres calo. Deinde quae ad-oicnt. Poslea : Si Mita ante morilur, quam in tutela m sumn venerii, lum inibì lite sccundus heres eslo. Fillus natus non est. Ambigunt agnati  cum eo, qui est hcrcs, si fllius ante quam in suam  tutelam venia!, morluus sit. In hoc genere non  potest hoc dici, ad tempus et ad eventum aliquem  scnlenliam scriploris oporlere accommodari, pròpterea quod ea sola esse demonslratur, qua fretus  ilio, qui conira scriptum dicit, suam esse heredi   nienza messa in campo dall'avversario fu gii provveduto con altra legge. Gioverà poi gran fatto il  mostrare come si saria espresso io scrittore, ove  avesse voluto che si facesse o s'intendesse ciò che  l'avversario crede d'aver inteso. Per esempio,  nella causa, in cui s' ioquerisce sopra le vasa di  argento, potrebbe dire la donna, che se il testatore  avesse voluto lasciar l' arbitrio all' erede, non era  di bisogno che aggiungesse quelle vasa che vorrà.  E infatti, se non ci fosse quella giunta, non ci sarebbe neppure dubbio che l'erede non avesse date  alla madre le vasa eh' egli avesse creduto. Essere  dunque stata una mattezza che lo scrittore, volendo lasciar si fatto arbitrio all’erede, facesse una  giunta di tal sorta, che se anche non ci fosse, lo  lascerebbe niente di meno nell'arbilrio stesso.   Eppcrò in cause di questa fatta sarà mollo importante far uso dell'argomento che segue: se lo  scrittore avesse avuto un tale intendimento nello  scrivere, ei non avrebbe adoperata quella tal voce,  non avrebbe allogato quella parola in questo tal  silo; conciossiachò son questi, più che ogni altro,  gl’indizii da cui si viene a riconoscere la mente  dello scrittore. Dipoi si dee esaminare in qual  tempo fu messo giù lo scritto, per mettersi a sapere ciò che vcrisimilmente in quelle tali circostanze lo scrittore volesse. Poi si dimostrerà, dietro le parti del genere deliberativo, quale delle  due cose dibattute sia la più utile c la più onesta  che l'autore dovesse scrivere, e che gli avversari!  debbano voler sostenere ; a dote alcuno di questi  punti sia da trattare col mezzo della amplificazione, dovrà l'una parte e l'altra valersi de' luoghi  comuni che sono da ciò. Sorge controversia di scritto c di senso  allora che l'uno de' litiganti s'attiene alle parole  stesse che sono scritte, c l'altro converte c piega  tutto lo scritto al senso ch'ei crede avere avulo in  mente lo scrittore. Quegli che sostiene il senso,  mostrerà come con quel tale concetto Io scrittore  mira sempremai al senso stesso e ad esprimere la  stessa coso ; oppure che esso concetto è acconciato in tal senso a questa tale circostanza per amore di qualche avvenimento, di qualche fatto, e via  via. Dcll'avcr sempre un concetto il senso medesimo ecco un esempio è qui: Gn padre che non  avea figliuoli, sì bene avea moglie, nel suo testamento lasciò scritto cosi: Se mi nascesse un figlio,  uno o più, voglio che sia mio erede. E qui segue il testo secondo che è uso. Indi dice: Se il figlio morisse innanzi che fosse giunto alla pubertà, allora quello che è secondo sarà l'erede. Non  nacque nessun figlio. I consanguinei del padre  entrano in litigio sul diritto di eredità con quello  che pretende clic il padre lo istituisse crede in talcm dcfendit. Allerum autem genus est eorum  qui senlenliam inducunt ; in quo non simplex volunlas scriptoris ostemJilur, quae in omne tempus,  et in omne factum idem valeat ; sed ex quodam  facto aut erenlu ad tempus interprctanda dicitur.  Ea parlibus iuridicialis adsumplivac maxime suslinetur. Nana tum inducitur comparatio, ut in eo,  qui, quum lex aperiri portas noctu «darei, aperuit  quodam in bello, et auxilia quaedam in oppidum  recepii, ne ab hostibus opprimercnlur, si foris essent, quod propc muros bostcs castra habercnl ;  tum relatio criminis, ut iu eo milile, qui quum  communis lei omnium hominem occidcre velare!,  tribunum suum, qui «im sibi adferre conarctur,  occidit; tum remolio criminis, ut in eo, qui quum  lex, quibus diebus in legationem proflcisceretur,  praeslitueral, quia sumptum quaeslor non dedit,  profeclus non est; tum conccssio per purgatiouem  et per imprudenliam, ut in viluli immolalionc, et  per vim, ut in nave rostrata, et per casum, ul in  Eurotae magnitudine. Quarc aut ila sentcntia inducelur, ut unum quiddam voluisse scriptor demonstretur; aut sic, ul io ciusmodi ra, et tempore  boc voluisse doceatur. Ergo is, qui scriptum defendet, bis locis  plerumquc omnibus, maiore aulem parte semper  poteri! uli : primum scriptoris collaudatone et  loco communi nihil eos, qui ìudiccnl, nisi id, quod  scriptum sit, spedare oporlere; et boc eo magia,  si legitimum scriptum proferelur, id est, aut lex  ipsa, aut aliquìd ex lege. Postea, quod vehemenlissimum est, facli aut intenlionis adversariorum  cum ipso scripto contenlione, quid scriptum sii,  quid factum, quid iuratus index ; quem locum  mullis modis variare oportebit, lum ipsum secum  admirantem, quidnam centra dici possi!, tum ad  iudicis ofOcium reverlentem et ab eo quaereotem, evento die il figlio morisse innanzi alla pubertà.  In questa causa non si può dire che debbasi accomodare il dello dallo scrittore al tempo c ad un  avvenimento di qualche sorla , poiché si dimostra  senza contrasto essere quel detto non altro che il  senso, di che si fa forte il litigante che parla contro lo scritto per difendere che è sua l'eredità. La  seconda specied'interpretazione ammessa da quelli che s'attengono al senso, si ò il dimostrare non  essere la volontà dello scrittore così semplice e  condizionala, da avere in ogni tempo e per ogni  caso l'intento medesimo, ma doversi interpretare  secondo la circostanza, secondo che richiede quel  tale avvenimento o quel tal fatto. Questa specie di  trattata appartiene specialmente a quella costituzione giuridiciate che si domanda assunliva. E infatti egli avviene che ora si dee istituire la comparazione, come rispetto a colui clic, vietando la  legge dall’aprire lo porle sempre clic dura la not•e, le aperse in tempo di guerra, e mise dentro in  città uno sforzo di aiuti, perchè stando fuori non  fossero oppressali dai nemici clic stavano a campo  soltesso le mura ; ora si dee riversare la colpa sopra un altro, come farebbe quel soldato che, interdicendo la legge a tutti comune di levarla vita  a chi che sia, la levò al suo tribuno clic si lasciava andare a fargli le forze addosso ; ora si dee venire alla remozionc della colpa, come farebbe colui che, avendo la legge posti i giorni in cui si dovesse partire in ambasceria, non parti altrimenti  però che il questore non gli diede le spese ; talora  si dee venire alla concessione coll’addurreo la scusa o la ignoranza della legge, come nel sacrifizio  del vitello; o la forza maggiore, come nel fatto  della navcroslrata ; ol'accidente, come nella escrescenza detl’Eurota. Laonde il senso di uno scritto  si dee difendere per due modi, o mostrando che  lo scrittore con quel tale concetto ha sempre voluto esprimere una cosa stessa, o facendo vedere  che in questo tal fallo e in questo tal tempo ha voluto esprimere nel suo scritto questa tale sua volontà. Il litigante per contro che difenderà lo  scritto quale esso è, potrà far uso le più volte anche di tutti i seguenti luoghi, ma sempre perù della più parte: primamente si loderà dello scrittore,  ed uscirà in questo luogo comune: dover quelli  che hanno in mano il giudicio por mente solo a  ciò che è scritto; il che egli affermerà di più forza , se si trattasse di uno scritto legittimo , corno  sarebbe o la stessa legge, o qualche cosa che dalla legge fosse cavata. Poi verrà al punto che ingagliardisce della maggiore veemenza , voglio dire  al far agguaglio dallo scritto al fatto o all' accusa  degli avversarli, mostrando ciò che fu scritto, ciò iOi quid praetcrca audire aul exspcctare debeai; tum  jpsum adversarium, quasi intentanti loco producendo, hoc est, interrogando, utrum scriptum ncgel esse co modo, an ab se conira ractum esse,  aut contra contendi neget; utrum negare ausus sit  se dicere desilurum. Si neulrum neget, et contra  tamen dical nihil esse, quod hominem impudentiorem quisquam se visurum arbilrctur. In hoc  ita commorari conveniet, quasi nihil praeterea di- j  ccndum sit, et quasi contra dici nihil possi!, saepe  Id, quod scriptum est, recitando saepe cum scripto factum adversarii confluendo, atquc inlerdum  acritcr ad iudicem ipsum reverteudo. Quo in loco  iudici demonstrandum est, quid iuratus sit, quid  sequi debeat : duabus de causis iudicem dubitare  oportere, si aut scriptum sii obscure, aul neget aliquid adversarius. Quum et scriptum aperte sit, et adversarius omnia conflteBtur, tnm iudicem legi parere,  non intcrprelari Icgem oportere. Hoc loco conflrmato, tum diluere ea, quae contra dici poterunl,  oportebit. Contra autem dicetur, si aut prorsus aliud scnsisse scriplor et scripsisse aliud drmonslabitur: ut in illa de testamento, quam posuimus,  controversia; aut causa adsumptiva inferetur, quamobrem scripto non potuerit aut non oporluoril  obtemperari. Si aliud seusisse scriplor, aliud seripsisse dicetur, is qui scriplo utclur, haec dice! :  non oportere de cius voluntate nos argomentavi,  qui, ne id lacere possemus, indicium nobis reliquerit suae voluntalis ; multa incomrnoda consequi, si instiluatur, ut ab scriplo rccedatur. Nato  et cos, qui aliquid scribant, non eiistimaluros id,  quod scripserint, rallini futurum; et cos, qui iudicenl, cerlurn, quod sequantur, nihil habituros, si  semel ab scripto recedere consueverinl. Quod si  voluntas scriptoris conscrvanda sit, se, non adversarios, a voluntate cius stare. Nam multo propius  accedere ad scriptoris voluutatem cum, qui ci ipsius cam lilteris Inlcrprclctur, quam illum, qui  sententiam scriptoris non ci ipsius scripto special,  quod illae suae voluntalis quasi imaginem reliquerit, sed domcsticis suspicionibus pcrscrutclur. Sin che fatto, ciò che sia di dovere al giudice che ha  giurato di osservare la legge; e questo luogo dovrà il litigante variare per molti modi , ora mostrandosi ammirato che si trovi cosa da voler opporre; ora tornando sopra alfuDlcio del giudice,  c chiedendogli clic altro di vantaggio ei possa  ascollar cd attendere; ora con cerl'aria come di  minaccia appellandosi all'avversario, inlerroganI dolo cioè se mai po«sa dire o che lo scritto non  sia alTallo a quel modo, o ch'egli non faccia con| irò allo scritto c contenda Dior di dovere; e soggiungendo che ove abbia il coraggio di dire o l'uno  o l’altro, ci si rimarrà dal più avanti discorrere.  Se non dicesse nè questo nè quello, e non di meno durasse a dir contro, aggiungerà il difensore  dello scritto, nessuno dover credere di poter mai  vedere un uomo più impudente di quello. In questo proposito si dovrà dimorare un po’ a lungo ,  come se più altro non restasse da dire, c come se  non potesse colui aver più che rispondere incontro : si reciterà più volle lo scritto, si combatterà  spesso con lo scritto lo adoperarsi dcll’atvcrsario,  e qualche fiata con parole ardite si farà appello  allo stesso giudice. E qui si vorrà al giudice anche dimostrare che s’intenda per giurato, e quale  sia il partito eh' ci dee seguire , c come per due  capi è necessario che il giudice sia in dubbio, vale a dire, se lo scritto Tosse oscuro, o se l'avversario negasse qualche punto dello scritto. Qualvolta lo scrino è chiaro, c l'avversario stesso nc confessa di ogni punto la chiarezza,  devsi ammonire il giudice che suo dovere è obbedire alla legge, non già farsene il turcimanno e lo  sposilorc. Raffermato questo asserto con le prove  addotte, converrà ribattere ogni obbietlo elicvi  potesse esser mosso. Sarà obbietlo, se il nostro  avversario dimostrerà che lo scrittore intese esprimere ben altra cosa da quella che porla lo scritto,  siccome nella controversia circa il testamento, cho  qui sopra Ito toccala; ovvero se avrà ricorso a costituzione di genere assuntilo per mostrar la causa onde non si potè o non si dovette obbedire allo  scritto. Se il nostro avversario dicesse aver lo scrittore inteso d'esprimere ben altra cosa da quella  clic dimoslra, risponderà quegli clic allo scritto  si attiene: non esser mestieri che noi discutiamo  circa alla intenzione dello scrittore, il quale appunto perchè non ci fosse di che discutere ne ha  lasciato della sua intenzione un indicio non dubbio; venirne in conseguenza molli mali cQctli, se  i *’ introducesse l'abuso di allontanarsi dallo scril< lo: imperocché quelli che scrivono faranno ragione  j che non si starà punto allo scritto loro ; e quelli  che deono giudicare non avranno nessun dato cer| to c sicuro da dover seguire, ove avessero una causam adfcret is, qui a scntcnlia stobil, primum  crii conira dicendum ; quam absurdum non negare conira legem ferisse, seri quarc fcccril, causam aliquam Rivenire ; di-inde, conversa esse omnia ; ante solilos esse accusatorcs iudicibus persuadere, adlìnem esse alicnius culpac eum, qui  accusarclur; causaui prorerre, quae curii ad pcccandum impulisscl: mine ipsuin rcum causam adferro, quare deliqucril. Deinde liane inducere parlilionem, cuius in singulas parles mullac comeuieul argumentalionrs : primum, nulla in lege ullam causam «mira scriptum accipi convenire ;  deinde, si in celeris logilnis «invernai, liane esse  eiusmodi legem, ut in ca non oporleal; postremo,  si in hac quoque lege oporleal, liane quidem causato accipi minime oporlcre. Prima pars bis fere locis conBrmabilur:  scriplori ncque ingcnium, ncque operam, ncque  ullam facullatem defuisse, quo minus aperte posse! perscribere Id, quod cogitarci ; non fuisse ci  grave nec difficile cani causam excipcrc, quam  adversarii proferant , si quidquam cvcipicndum  putassct ; consuesse eos, qui leges scribanl, ciccplionibus uli. Deinde opor'.et recilare leges cum  ciccptionibus scriplas, et maxime ridere, ccquae  in ca ipsa lege, qua de agalur, sii «copilo aliquo  in capile, aut apud eumdem legis scriptorem, quo  magis probclur cum fuisse exceplurum, si quid  evcipicndum putarel ; et ostendcrc causam accipere niliil aliud esse itisi legem tollere; ideo quod,  quum semel causa considerclur, nihil allineai cain  ex lege considerare, quippc quae in lege scripta  non sii. Quod si sii institulum, omnibus dari causam et polcstalcm pcccandi, quum intcllexcrinl  vosex ingcnio cius, qui conira legem fcccril, non  ex lego, in quam iurali silis, rem iudicare; deinde  et ipsis iudicibus iudicamli et cctcris civibus vivendi ralioncs pcrlurbolum iri, si semel ab legibus  recessum sii ; nam cl iudices ncque quid sequan   volla piglialo l' uso di non si allenerò allo'scrillo.  Dirà inoltre clic se s’ba da conservare la intenzinne dello scrittore, è anzi egli, c non mica gli  avversarli, clic Iroppo meglio la conserva; perocché a questa intenzione avvicinasi assai più colui  clic la desume dalla scriltura slessa, clic non qucll' altro clic indaga il sentimento avuto in animo  dallo scrittore diclro i suoi calcoli e congetture  private , anzi clic volerlo riconoscere per mezzo  dello scrino stesso, clic 1' autore lasciò come un  ritrailo visibile della sua intenzione. Se poi quegli clic s'attiene al senso a Idurrà il motivo perché  si debba allonlanarsi dallo scrino, so gli dovrà in  prima così rispondere: esser assurdo, non negare  egli di aver fallo contro la legge, e nondimeno volere trovar un qualche motivo perché cosi facesse;  dipoi dirassi clic oggi si conduce il giudicio ludo  a riverso; per prima erano gli accusatori che meticano a vedere ai giudici come l’accusalo era reo  di qualche colpa, e poncan loro innanzi la causa  che in quella colpa lo fece cadere : ora è il reo  stesso che manifesta la causa della sua reità. Indi si dovrà discorrere queste Ire parli, ciascuna  delle quali olfrirà parecchie argomentazioni , voglio dire: primamente non doversi per veruna leggo ammettere alcun molivo che si oppooga allo  scrino; in secondo luogo, se anche tulle le altre  leggi comporlassero tale ammessione , la legge  presente essere di tale natura che aliano non la  comporla; in line, se anche la legge presente ammetlcssc un molivo, non essere però tale il molivo addotto, che ommellere punto si possa. La prima di qucsle parli comprovasi a un  di presso cosi; lo scrittore non mancava né di industria, nè di mezzi, nè di parole c facilità per esprimcrc chiaro ciò eh’ egli pensasse; nè incontrava difficoltà o pena a fare una eccezione in favore  del molivo che meltono in campo gli avversarli, so  avesse credulo esserci cosa da dover eccelluare;  anco più che quelli che scrivono le leggi ne scrivono eziandio lo necessarie eccezioni. Dipoi si dee  citare il lesto delle leggi che recano le loro eccettuazioni scritte, c soprattutto osservare se v’ ha e  quale v’ ha eccezione in qoalche articolo della  legge questionala, o in altre dello stesso scrittore  perché si possa comprovar con più evidenza che  egli, ove una eccezione fosse siala necessaria, l'avrebbe s-'iiz' altro opposta alla legge, di che si  traila; e insieme deesi mostrare clic ammettere la  eccettuativa non posla dallo scrittore è nienle meno che distrugger la legge, perù clic una volta che  si abbia riguardo ad essa, non è più bisogno di  considerarla relativamente alla legge , siccome  quella che nella legge non è punto inserita. Che  se si cominciasse di avere un Iole riguardo, ognu tur babiluros, si ab co, quoti scriptum sii, recodatti ; ncque, quo paolo alios improbare possinl,  quod conira legem iudicarinl ; cl cclcros civcs,  quid agalli, iguoraluros, si ei suo quisque cotisilio e! ex ca rationc, quac in mcnleoi aul in libidinetti vencril, non ex communi pracscriplo civilalis  unam quamque rem adminislrarit. Rosica quacrerc ab iudicibus ipsis, quarc in alienis dclineanlur  negoliis ; cur rei publicae munere iinpedianlur,  quo seriis suis rebus et commodis servire possinl;  cur in cena verba iurent ; cur certo tempore conveniant, cerio discedanl, nibil quisquam adferat  causac, quo minus frequenter operam rei publicae  det, nisi quae causa in lege cxccpla sii; an se legibus obslriclos in lanlis molesliis esse acquutn  censeanl, adversarios nostros leges negligere concedati); deinde ilem quaerere ab iudicibus, si eius  rei, propler quam screus conira legem fecisse dica!, cxceplionem ipse in lege ascribal, passurinc  aint;poslca boc, quod facial, indigniusel impudcnlius esse, quam si ascribal; ago porro, quidsi ipsi velico! iudices ascribcrc, passurusnc sii populus? alqttc hoc esse indignius, quam rem verbo  et litlcris mulare non possinl, eam re ipsa et iudicio maxime commutare. Deinde indignimi esse de  lege aliquid dcrogari, aul legem abrugari, aul aliqua ex parie commutari, quum populo cognoscendi et probandi aut improbandi poleslas nulla fiat;  hoc ipsis iudicibus invidiosissimum fulurum; non  hunc locura esse, ncque hoc tempus legum corrigendarum ; apud populum haec el per popolimi  agi convenire : quod si nunc id agant, velie se  scirc, qui lalor sii, qui sin! accepturi; se captioncs  videro, el dissuadere velie : quod si bacc quum  summe inutilia lum mullo turpissima sint; legem,  cuicuimodi sii, in praesenlia conservai ab iudiribus, post, si displiceal, a populo corrigi convenire ; deinde, si scriptum non extarct, magno opere  quaereremus; ncque isti, nc si extra pcriculum  quidem ossei, crelercmus. Nunc quum scriplum  sii, amcnliam esse eius, qui peccarli, polius quam  legis ipsius verba cognoscerc. llis et huiusmodi  ralionibus ostenditur causam exira scriplum accipi non oporlere.     no avrà licenza e buona presa di fallire, perchè si  avviserà che voi giudicale dcll'alTare secondo che  lalenta a colui che contravvenne alla legge, non  secondo la legge stessa, a cui avete giuralo di altenervi nel giudicare: dipoi mostrerà che gli stes! si giudici avranno tutta in iscompiglio la condotta  del giudicio, c gli altri cittadini lutto in disordine  l’andamento delia vita, se si piglierà una volta ad  andar a ritroso della legge; conciossiacbè nè i  giudici avranno una regola da seguire, se si divertissero da ciò che è scritto, ni potranno convincere i contravventori di aver fallilo, quando  essi medesimi abbiano giudicato ad onta della  legge c gli altri cittadini non sapranno che far si  debbano, se ognuno si governerà in ogni caso non  dietro i generali statuti della città, ma a talento  proprio, c dietro quella ragione che gli passerà  per la metile, o che andrà a seconda delle sue  voglie. Poscia ci verrà inlerrogando gli stessi giudici, perchè si frammettano di altari alimi, che  loro non si perlengono; perchè dall'ulllcio cltesostengon nella repubblica si lascino impedire di  attender alle gravi loro faccende e provvedere ai  propri! interessi; perchè giurino dietro una formola prescritta; perchè a un posto tempo si raccolgano insieme, c ad una data ora se ne vadano, senza che alcuno molla innanzi altra ragione che lo  autorizzi a prestarsi meno di spesso al servigio  deila repubblica, eccetto quella che è indicala  nella legge: che? slimeranno giusto e ben fatto tenersi essi obbligati alle leggi in mezzo a si gravi  lor cure, o comportare clic i nostri avversarli si  gellino quello leggi medesime dopo le spalle? Dipoi verrà similmente chiedendo ai giudici, se mai  essi patirebbero che I’ accusalo aggiungesse egli  stesso nella legge la eccezione in favore del molivo, da cui si dichiara indotlo a far contro alla  legge, c aggiungerà, ciò che fa l’avversario esser  una sfrontatezza più indegna che se apponesse alla legge quella eccezione : di più, dato anche il  caso che i giudici stessi la volessero apporre in  proprio, forse che il popolo se la porterebbe in  pace? eppcrò esser cosa ben troppo riprovevole  che una legge eh' essi nè per parole nè per iscriltura non possono mutare, vogliano invece mutarla più che più col giudicio e sentenza loro. Di.  rà appresso, essere uno scoocio indegno o detrarre alquanto alla legge, o abrogarla a pieno, o cambiarne qualche parte, senza che siane data copia  al popolo di giudicarne i moliti, c di approvarli o  riprovare: questo non poter che riuscire di odio  acerbo contro gli stessi giudici; non esser questo  nè luogo nè tempo da farsi a corregger le leggi;  questo esser un aliare da trascinarsi col popolo e  per mezzo del popolo: che se ora volessero Ira unno li. Seconda pars est, in qua est oslendendum, si in celeris legibus oporleat, in hac non oporlcrc. Hoc dcmonslrabilur, si lei aulad res maximas, ulilissimas, honeslissimas, religiosissimas  ridebilur pcrlinere ; aut inutile , aut turpe, aut  nefas esse tali in re non diligentissime legi obtcrnperare ; aut ila lev dlligenler pcrscripta dcmonslrabilur, ila cautum una quoque de re, ila.quod  oporluerit, eiceplum, ut minime convcniat quidquam in tam diligenti scriptum praelerilum arbitrari. Tcrlius est Incus ci, qui prò scriplo dicci,  maxime necessarius, per quem oporlet ostcndal,  si convcniat causam contro scriptum accipi, cam  lamen minime oportere, quae ab adiersariis adferatur. Qui locus idcirco est buie necessarius, quod  semper is, qui conira scriptum dicet, aequitalis  aiiquid odierai oporlet. Nani summa impudentia  sii cum, qui conira quam scriptum sii, aiiquid  probare rclil, non aequilatis pracsidio id Tacere  conari. Si quid igitur et hac ipsa quippiam accusator deroget, omnibus partibus iustius et probabillus accusare videatur. Nani superior oralio hoc  omnisfaciebat, uti iudices cliamsi noi leni, necessc  esse! ; baco aulern, eliamsi ncccsse non esset, ut  yellent conira iudicare. Id aulem (iet, si, quibus  ex locis culpa dcmonslrabilur esse in eo, qui comparationc, aut remolione, aut relatione criminis,  aut concessionis partibus se duTcndil ( de quibus  ante, ut poluimus, diligenter perscripsimus ), si  de iis locis, quae res poslulabit, ad causam adversariorum itnprobandam IransTeremus, aut causac  et raliones adferentur, quare et r|uo consilio ita  sit in lego, aut in testamento scriptum, ut sentenza quoque et voluulalc scriploris, non ipsa solum  scriptura causa con&rmata esse, videatur: aut aliis  quoque constitutionibus factum coarguetur.     stillarlo essi, or chi n* è il proponente, e citi son  quelli clic approveranno? sé non vederci che calappi e trullerie, c volere lor giù altrui dal lasciarsi cogliere: che se ogni disegno di mutazione olire  clic al lutto è inutile, ancora £ cosa sommamente  sconcia, dcono per ora i giudici mantenere intatta  la legge, di qualunque sorte ella sia; ove non piaccia, si vorrà più tardi emendare dal popolo. Dirà  inoltre; se lo scritto non ci Tosse qui presente, noi  faremmo ogni potere per averlo a rinvenire, n£  porremmo fede iu costui neppure s' ei trattasse  con noi sicuro da ogni pericolo. Ma siccome è qui  presente Io scritto, è dare iu pazzia senza più, voler essere inTormali delle parole di uno clic falli,  anzi che di quelle della legge medesima. Per questi adunque e per simili altri argomenti si dimostra cotue una eccezione, che non è nello scritto,  non si dee per nulla ammettere. La seconda parte £ quella, nella quale  deesi dimostrare che se anche tutte le altre leggi  dovessero ammettere una eccezione, la legge presente non la dee per veruna guisa. Questo si proverà, mostrando clic la legge rfsguarda cose di  grande rilevanza, di sommo vantaggio, onoratissime e della maggiore santità; ed essere o vana, o  turpe, o illecita azione non obbedire puntatamente alla legge in circostanza si fatta: ovvero si porrà a vedere essere scrina la legge con tale esattezza, si ben provveduto a ogni cosa, cosi eccelle  le circostanze che volcauo eccettuazione da non  si dover credere che in una scrittura cosi condot  la fosse intralascialo n£ un menomo clic. Il terzo  luogo £ di tutta necessità per lo contendente che  sostiene lo scritto. Ei dee mostrare che se anche  la legge ammettesse un motivo eccezionabile, non  £ però di tale qualità il motivo addotto dagli avversarti, che si debba per esso seguire un senso  non indicato dallo scritto. Dissi esser necessario  questo luogo, perch£ siccome chi ragiona contro  lo scritto dee sempre mettere innanzi qualche punto che risguarda l'equità, c saria grave sfacciatezza, chi volesse provar qualche punto che è in pugna con lo scritto, non far quanto potesse per aiutarsi di quella; così l'accusatore, se farà di detrarre e mostrar qualche parte non consentanea alla  equità, sarà in casa di far credere la sua accusa  da lutti i laii più giusta e più probabile. E infatti  le regole esposte più sopra circa al non doversi  ammettere ragione contraria allo scrino riuscivano tulle a fare clic i giudici dovessero di necessità, ancora che non volessero, portar giudicio contro al motivo ccccziouabile: le regole presenti per  conira parano a fare che i giudici vogliano dar  giudiciu conira quello slesso motivo, eziandio se  loro non fosse necessario di cosi fare. Or ciò si Conira scriptum autcm qui dicol, primum induco! cum lorum, perquom aoquilas causae demonstrclur ; aut oslcndel, quo animo, quo  consilio, qua de causa fccoril ; cl, quamcumque  causani adsumcl, adsumplionis parli bus se defcndel, de quilius anlc dicium esl. Alquc in hoc loco  quum diulius commoratus sui Cacti ralionem cl  equitatem cansac cxornavcril, lum ex liis locis foro  conira adversarios dicci oporlcrc causas accipi.  Dcmonslrabil nullam esse leeoni, quae aliquam  rem inuldcm aut iniquam Acri «clil; omnia sttpplicia, <1 ime ab lcgibus profìciscanlur, cuipae ac  malitiac «indicandac causa conslilula esse ; scriplorcin ipsum, si cvsislat, factum hoc prohalurum,  cl idem ipsum, si ei lalis res accidissel, faclurum  fuisse ; ca re legis scriplorcm certo et ordine iudices certa aelate prandi tos consliluisse, ut essont,  nun qui scriptum suoni rccilarcnl, quod quivis  pucr Tacere posse!, sed qui cogilalionc adsequi  posscnl cl volunlatcm interpretar! ; deinde illum  scriptorem, si scripla sua slultis liominihus et barbaris iudicibus coinmilleret, omnia somma ddigentia pcrscriplurom fuisse ; nun - vero, quod inlelligeret, quales viri res iudicaturi essenl, idcirco  cum, quae perspicua videro! esse, non ascripsissc;  ncque cnim vos scripli sni recitatore], sed volutilatis interprcles foro putavil. Poslea quaerere ab  adversariis : Quid, si hoc fccisscm ? Quid, si hoc  accidissel ? Eorum aliquid, in quibus aut causa sii  honcstissima, aut neccssitudo certissima, tumnc  accusarclis ? Atqui hoc lei nusquam excepil; non  ergo omnia scriplis, sed quaedam, quae perspicua  sint, lacilis cxccpliouihus cascri ; deinde nullam  rem ncque legibus ncque scriptura ulta, denique  ne in sermone quidem quotidiano atque impcriis  domeslicis recto posse administrari, si unus quisque vclit verba spedare, et non ad voluolalcm  eius, qui ea verba habuerit, accedere.     otterrà, se di que - luoghi, con che rooslrerassi esserci colpa in colui che si accolla difesa o dalla  comparatone, o dalla remozi one del delitto, o dal  rivcr.-arlo in allra cosa v persona, o dalle parli  della concessione (di che per addietro ho trattato  con quella diligenza migliore che ho sapulo), se  di que' luoghi, dico, si farà uso secondo il bisogno dell'aHare, per ribattere la eccezione ammessa dalla parie contraria, o se si pareranno dinanzi  le cause e le ragioni comprovanti e perchè e con  quale disegno sia stato cosi scritto in quella tal  legge o in quel testamento; con che si verrà a capa di ralTorzarc la causa non pure col solo mezzo  della scrittura, ma eziandio col mostrar in nostro  vantaggio il sentimento e la volontà dello scrittore', oppure si aumenterà l'accusa contro il fatto  facendo uso altresì di altre costituzioni. Quegli che parlerà contro Io scritto, primamente si varrà di quel luogo con che si dimostra la giustizia della causa, oppure farà vedere con  che mente, con che disegno, per qual motivo ha fatto  cosi piuttosto che no; e qualunque sia il motivo con  che si parerà, dee pigliare a sua difesa le parli  dell'assunzione che furono di qui addietro vedute. E qui, appresso ch'egli abbia un po’ alla difesa raffazzonalo di belle esortazioni i molivi di ciò  ch'egli ha fallo e la giustizia della causa; sosterrà  contro gii avversarli doversi animaliere quei suoi  molivi a un bel circa con gli orgomcnli che seguono. Dimostrerà non v' esser legge al mondo che  comandi cosa inutile ovvero iniqua; tulli i castighi che sono inflitti dalle leggi essere stabiliii per  punire la colpa c la malignità: lo scrittore medesimo, se esistesse, approverebbe il fallo, anzi egli  stesso sarebbesi adoperalo di eguale maniera, se  si fosse abbattuto in tale affare: per questo lo scrittore della legge aver designato a giudici persone  appartenenti a una data classe, e giunti a un' età  prestabilita, volendo che tenessero i giudicii persone che sapessero non già recitare il testo della  legge, che da lauto è un fanciullo qualsiasi, ma  raggiungere col raziocinio e inlerpelrarc la sua  volontà. Dipoi, se quello scrittore avesse fatto ragione che il suo lesto saria venuto alle mani di  gente sciocca e di giudici selvaggi da ogni civiltà,  avrebbe esposto ogni cosa Alo per Alo e con la  maggiore accuratezza; ma siccome ei s' avvedeva  troppo bene quali personaggi avrebbero avuto il  maneggio dei giudicii, non inserì nella legge ceni  punti che vedeva essere da sì di facile intelligenza: non vi tenne egli dunque per recitatori del suo  scritto, ma per interpetri della sua volontà. Poscia  dovrà chiedere agli avversari: Or che sarebbe, se  io avessi fallo questo f che, so quest' altro fosse  mai acca scalo? V' Ita cose prodotte da un motivo MURO Doindcei ulilitatis cthonestatis partibus  ostenderc, quam inutile aut quam lurpe sit id,  quod adversarii dicant fieri oporluisse aut oportere; et id quod nos feccrimus aut postulemus,  quam utile aut quam honestum sii; deinde leges  nobis caras esse non proptcr lilteras, quac tcnues  etobscurae nolae sint voluntatis, sed propler carum rerum, quibus de scriptum est, utililalcin, et  corum, qui scripscrint, sapicntiam et diligentiam,  postea, quid sii lei, describerc, ut ea tidealur in  scnlentiis, non in vcrbis consistere; et iudci is vi*  dealur iegi obtcmperare, qui scntentiam eius, non  qui scripluram sequatur; deinde, quam indignum  sit, eodem adfici supplicio eum, qui proptcr aliquod scelus et audaciam contra leges fccerit, et  eum, qui honcsta aut necessaria de causa non ab  scntcntia, sed ab litteris legis reccsserit ; atquc  bis et buiusmodi rationibus et accipi causam, et  in hac lege accipi, et cam causam, quam ipse odierai, oporlerc accipi demonstrabit. Et qucmadmodum ei diccbamus, qui ab scripto dicerei, hoc  Tore utilissimum, si quid de acquitele ea, quac  cum advcrsario starei, derogasse!, sic huic, qui  contra scriptum dicci, plurimum proderii, ci ipsa  scriplura aliquid ad suam causam converlere, aut  ambigue aliquid scriptum oslendere ; deinde ei  ilio ambiguo cam partem, quae sibi prosit, defendere, aut verbi definilionem inducerc, et illius  verbi vim, quo urgeri videatur, ad suae causae  commodum traducerc ; aut ex scripto non scriptum aliquod inducerc per ratiocinalioncm, de qua  post dicemus. Quacumquc autcm in re, quamvis  levitar probabili, scriplo ipso se dcfendcrit, etiam  quum acquitalc causa abundabil, necessario multimi proDciet, ideo quod, si id, quo nililur adrersariorum causa, subduxeril, omncm eius illain  vim et acri moniam lenierit ac dilucrit. Loci autcm  communes celeris ci adsumptionis partibus in  utramque partem convcnient. Praetcrea eius, qui  a scripto dicci: leges es se, non ex eius, qui contra commiscri!, ulilìlutc spcclari oportere, et In   tanto onesto quanto nessun altro mai, o da una  necessità indeclinabile: or di queste cose ne accusereste voi alcuna? Ma questa cotale non è dalla  legge in nessuno de' suoi articoli eccettualo: dunque non a tulle cose si provvede con Io scritto, ma  solo si provvedo con tacile eccezioni ad alcune,  clic sono lucide c appariscenti a chi clic sia: dipoi, nessun affare si potrebbe reggere con dirittura nè per magistero di leggi, nè di scritto qualsiasi, anzi nè eziandio nel discorso della giornata  e nei comandi domestici, se volesse ognuno starsi  affitto alle parole, c non piuttosto adocchiar bene  la volontà di colui che quelle (ali parole Ita cspresse. Dipoi aiutandosi con le parti dell' utile  e dell’onesto, dimostrerà quanto saria danneggioso o quanto lurpe ciò che gli avversarli dicono essersi dovulo o doversi fare; e a riverso quanto sia  utile o quanto onesto ciò che noi abbiamo fatto, o  ciò che veniamo chiedendo; poscia, esserci a grato le leggi non per le parole, che son segni inconcludenti ed oscuri dell'altrui volontà, ma per lo  profitto che ne viene a lutti dai provvedimenti  delle leggi , e per la sapienza c sceltezza dei  precetti che vi hanno posto quelli che le scrissero ; indi si dovrà definire clic sia legge per  modo tale clic si paia manifestamente consister  essa nei concetti, e non nelle parole, c far vedere che solo quel giudice mostra di obbedire  alla legge, il quale si attiene al sentimento di  essa, non alla materiale scrittura ; dipoi quanto  sia cosa danncvolc e da riprovare che sia mollato  della stessa pena colui che con sua scellcrmiza c  lemeritè si fece ribelle alla legge, c si quegli che  per una ragione onesta o necessaria si è dilungalo non dal sentimento della legge, ma dalle parole di essa; e con questi e altrettali argomenti dimostrerà ed esser ammissibile il motivo clic induce eccezione, ed esserlo in questa legge stessa  ed esso motivo esser tale che affatto si debba ammettere. E come io diceva esser di giovamento  assai a quello che sostenta lo scritto, se avesse  spizzicato e detrattone alquanto delle ragioni di  equità che avvantaggiano I’ avversario, così a costui clic discorre contro lo scritto profitterà a gran  misura il convertire in suo prò qualche punto dello scritto medesimo, ovvero dimostrarne di qualche tratto il doppio senso e 1' ambiguità: di vantaggio, difendere de' due sensi quello che gli torna utile, o recar la definizione della parola ambigua, c guadagnar un argomento in favore della  sua causa dal significato di quella parola stessa,  che pareva gli dovesse tornar al contrario; oppure per mezzo di sillogismo, di che mi verrà da dire più sotto, ricavar c dedurre dallo scritto qualHO wm gibus anliquius haberi niliil oporterc. Conira scriplum: logos in consilio scriploris et ulilllalc communi, non in verbi* consistere ; quasi indignimi  sii, aoquitatom litleris urgori, quac volunlalc eius  qui scripscril defendatur. Ex con Ira ri is aulem logibus conlrovcrsia nasedur, qiium inlor se Jii.'ys vidcnlur logos  aul pluros discrepare lioc modo: Lcx: Qui (yrunnum (inciderti, Olympionicarum proemia capilo,  ni quatti cole! libi rem a muqisltolu doposcì lo,  cl magislralus ci concedilo. El altera lei: T gratino occiso, quinque ejul jiroximos coqtiuliotie inayislratus ficcato. Alexandrum, qui apud Pheraeos  in Tliessalia lyrannldcm occuperai, uxor sua, cui  Thcbc nomen fiiil, nocl’u, quum simul cubarei  uccidi!. Ilare (ilium suum, quom ex lyranno habebal, sibi in praemii loco doposcil. Sunl, qui ci  lego occidi pucruin dicant oporlere. Rcs in iudicio  osi. In hoc genere utramque in parlcm lidcm loci  alque cadem praecepla comcnicnt, ideo quod uterque suam legein conlirinare, contrariam infirmare debcbil. Primum igilur leges oportet contendere considerando, ulra lcx ad maiorcs, hoc  est, ad uliliores, ad honcsliorcs ac magis nocessarias res perlincal; ex quo conlìcilur, ut, si leges  duac, aul si plures erunl, aul quolquot erunt, conservaci non possint, quia discrepeut inter se, ca  maxime conservando pulclur, quac ad maximas  rcs pcrlinere vìdoatur; deinde, ulra lcx poslcrius  lata sii; nani postrema quaeque gravissima est ;  deinde, utra lei iubeal aliquid, ulra permillal;  nam id , quod imperatur , nccessarium , illud,  quod pcrmiltilur , volunlarium est ; deinde , in  ulra lege, si non obtcmpcratum sii, pocna odliciatur, aut in ulra raaior poena slalualur ; nam  maxime conscrvanda est ea, quae diligentissime che corollario che non vi è espresso. Qualunque  sia il punto, tuttoché tampoco verisimile, in cui  questi potrà piegare u propria difesa lo scritto  medesimo, anche quando la causa si fiancheggiasse di molle ragioni di equità, ei sarà condotto senza manco nessuno a giovar di molto la causa propria, perocché se giunga ad abbattere e tor di  mezzo le ragioni che sono di appoggio agli avversarli, egli avrà bella e distrutta, non che addoglila, tutta la forza e veemenza della causa loro.  Quanto è ai luoghi comuni che si traggono dalle  altre parli dello stalo assunlivo, questi cadranno  bene in taglio all’ uno e all'altro avversario. Di  più, quegli che s'altienc allo scrìtto avrà dalla sai  questo argomento: le leggi doversi riguardare in  sé, non mica secondo il vantaggio clic dal violarle  uomo ne trac, e doversi esse aver a cuore e a capitale più clic ogni altra cosa. Quegli clicslà contro lo scritto si gioverà di quest’ altro: avere le  leggi il loro fondamento e sostegno non nelle parole, ma nella intenzione dello scrittore; esser cosa indegna far forza con le parole contro quella  equità, che ha in sua difesa il volere e l'intendimento dello stesso legislatore.  Nasce controversia per leggi contrarie  allora che due o più leggi non vanno di piena concordia fra loro, come in questo esempio : Dice  l'una : Chi darà morie a un tiranno si abbia il  premio che si dà ai vincitori di Olimpia, e chieda al magistrato ciò che meglio gli aggrada,  chè il magistrato gliene dovrà concedere. Dice  un’altra legge: Insieme che sia ucciso il tiranno,  dovrà il magistrato menar a morie cinque altri  che siano a quello legali di parcnlaggio. Tebe,  moglie di quell'Alessandro che s’era fallo tiranno  Ira i Ferei nella Tessaglia, nottetempo, essendo  ella nello stesso letto con lui, lo pose a morte. Per  premio chiede costei la vita del lì glio di' essa dal  tiranno aveva avuto. Insorge altri a dire dover il  fanciullo per legge esser ucciso. L' aliare é messo  in giudicio. Or in causa si falla all'uno c all'altro  avversario verranno a taglio I luoghi stessi, gli  stessi precetti, perchè dovranno lutti e due tener  ferma la legge che lor giova, e battere molto di  vena la contraria. La prima cosa adunque, si dee  far il pareggio e confronto delle due leggi, esaminando bene quale delle duo vada a battere a mag.  glori cose, voglio dire quale provveda a cose più  utili, a più oneste, a più necessarie ; e di qua conchiudere che se due leggi, o se saranno più, o  quante potranno essere, non si possono ritenere  per essere disconsenzienti Ira loro, abbiadi tutte a  ritenersi quella che provvede alla maggiore utilità  delle cose ; poscia è da vedere quale delle due fu  fatta poi giacché l'ultima ha più forza ed autorità; IH sancta est; deinde, utra lei iubcat,utra vetel; nam  saepeea, quae velai, quasi exceptione quadam  corrìgere videlur illam, quae iubel; deinde, utra  lei de genere omni, utra de parie quadam; utra  communiler in plurcs, utra in aiiquam cerlam rem  scripla vidcalur; nam quae in partem aiiquam el  quae in cerlam quamdam rem scripta est, propius  ad causam accedere videlur, et ad iudicium magia perlinerc; deinde, ci lege ulrum statini fieri  nccesse sii; ulrum habeal aiiquam moram et suslentationem; nam id, qund stalim faciendum sii,  parlici prius oportel; deinde operam dare, ut sua  lei ipso scriplo vidcalur niti, contraria anioni aul  per ambiguum, aul per raliocinalionem, sul per  detinilionem induci, uli sanclius el firmius id videalur esse, quod apcrtius scriptum sii ; deinde  suac legis ad scriptum ipsam senlentiam quoque  adiungere, contrariam legein ilem ad aliam senIcntiam Iransducere, ut, si fieri poteri!, ne discrepare quidem videantur inter se; postremo Tacere,  si causa Tacultalem dabil, ut nostra ralione utraque lei conservar! vidcalur, adversariorum ralione altera sii necessario ncgligenda. Locos autem  communcs, et, quos ipsa causa del, ridere oportcbil, el ex utilità tis et ex honcslalis amplissimi  partibus sumere demonstrantem per ampliGcalionem, ad utram potius legem accedere oporteal. Ex raliocinatione nascitur controversia, qunm  ex eo, quod uspiam est, ad id, quod nusquam  scriptum est, venilur; hoc paclo: Lei: Si furiosus  ejcif, agnalum genliliumqve in eo pecuniaquc cius potestà! etto. Et lei: Palerfamilias uli super  [umilia pecuniaquc sua legassi t, ila ius esto. Et indi quale mena obbligo intorno a un che, quale  non lo metta, conciossiachè il Tare, quando ci ha  obbligo è atto di necessità, quando non ci ha, è  atto volontario senza più; inoltre, qual legge soggetti a pena chi non le obbedisce, o quale soggetti  a pena più grave che non le altre, poiché deesi in  paragone ritener quella che guarentisce meglio la  propria inviolabilità col multare di più gravi ammende quello che ad essa contrarrà; poscia, quale  di esse leggi prescriva una azione, quale invece la  interdica, poiché spesso quella che la interdice dà  vista di correggere quasi che per mezzo di eccezione quella che la prescrive : quindi , quale delle  leggi si riferisca a lutto un genere, quale a sola  una qualche specie ; quale sia scritta in comune  per molti oggetti, quale lo sia per un solo oggetto  determinalo^ poiché quella che si riferisce a una  specie, come anche quella che é scritta per un  oggetto solo, si applica meglio ai bisogni della  causa e meglio serve a determinarne il giudicio :  oltracciò, se la legge imponga la necessità che si  Taccia di presente ciò che é da Tare, o se conceda  qualche soprastanza e indugio, poiché ciò che di  presente è da Tare si c^invien compiere per primo  e innanzi a lutto; dipoi metter opera che la legge,  a che noi ci atteniamo, mostri di aver la sua Tona  nelle sue stesse parole : e per conira quella dello  avversario si farà veder che non tiene, o citandone  l'ambiguità, 0 deducendo per sillogismo o per  definizione qualche corollario che le tolga la forza  c il valore, in maniera che si venga a conchiuder  di netto, come ciò che é scritto con più chiarezza  é appunto cièche si dee tenere vie più per Termo  e giustamente ordinato. In seguito, alla legge da  noi difesa applicheremo il senso che ne pare, e  vedremo per lo simile di accomodar alla legge  contraria un senso cosi fatto, che lasci apparire  a misura del possibile, non esser poi le due leggi  cosi discordanti Tra loro come si crede: in ultimo,  dovremo travagliarci, se la causa ne darà il poterlo, di dar a divedere che il nostro ragionamento  concilia e ritiene ambe le leggi, laddove per lo ragionar degli avversarli o l'una o l'altra ne dee necessariamente essere rigettata. Converrà altresì  vedere quali luoghi comuni la causa offra da sé,  e pigliarne anche dalle molle e varie parti deli' utilc e dell' onesto per dimostrare col mezzo della  amplificazione a quale delle due leggi sia più presto da attenersi.   L. Nasce controversia dal raziocinio, quando da  ciò che è scritto in una legge si viene a trattare  ciò che in nessuna è scritto, per esempio: V'è una  legge che dice: Se alcuno vien pazzo furioso, gli  agnati e gli offri della stessa famiglia acquisteranno padronanza sopra di lui c sopra if sito Ics.- Si palcrfamitias intestalo maritar, familia  pccuniaque eit a agnatumgentiliumijne està. Quidam iudicatus est parcnlem occidisse. Ei slatini,  quoti cffngicndi potcslas non fuit, ligneac soleac  in pedes induclac suol; os anioni obtolulum osi  folliculo el pracligatum; deinde osi in carcerem  deduciti*, ul ibi ossei tarilisper, dum coleus, in  ijuein coniceli!* in proflucnlem doferrelur, compararelur. lnlcrea quidam ojus familiares in carccrem labulas adrerunl cl loslcs adducimi; beredes, quos ipsis libel, seribunt; labulao obsignanlur. De ilio posi snpplicium sumilur. Inler eos,  qui herodes in labulis scripli sunl, el inler agnalos de licrcdilale conlrovorsia esl. Ilio corta lei,  quac testamenti faciemli iis, qui in co loco siot,  adimal polcslalem, nulla prorerlur. Ex ccleris Icgibus, el quae liunc ipsum supplicò)' liuiusmodi  adliciunt, el quac ad testamenti lacicndi potestàlem pertinenl, per raliocinationcm vcnicndum est  ad eiusmodi rationem, ut quacralur, habucritne  testamenti faciendi poleslntem. Locos aulem communcs in Irne genere argumenlandi lios et liuidsinodi quosdam esse arbilramur; primum cius seripii, quod proli-ras, laudalioncm cl coniirmalionem; deinde cius rei, qua de quacralur cum co,  de quo constcl, collationem eiusmodi, ut iti, de  quo quacritur, rei, de qua constcl, simile esse videatur; postea admiratioocm perconlationc, qui  fieri possit, ut, qui hoc acquum esse conccdal, illud ncgel, quod aul aequius aul eodem sii in genere; deinde idcirco de hac re niliil esse scriptum  quod, quum de illa cssel scriptum, de hac is, qui  scribebat, dubitalurum nomi noni arbitratila sit;  postea mullis in legibus multo practenla esse,  quac idcirco practenla nemo arbitrclur, quod ci  ccleris, de quibus scriptum sit, inlelligi possint ;  deinde acquitas rei dcmonslranda est, ul in iuridiciali absolula. Contro autem qui dicet, simililudinem infirmare dcbcbil: quod facicl, si demonslrabit illud, quod conlcralur, ab co, cui confcralur, divcrsuni esse genere, natura, vi, magnitudine, tempore, loco, persona, opinione; si quo in  numero illud, quod per similitudincm adfertur, el  quo in loco illud, cuius causa adfertur, liaberi  conrcnial, ostendetur; deinde, quid res cum re  ditterai, dcmonslrabitur, ut non idem videalur de  utraque exislimari oporterc. Ac, si ipse quoque  polerit raliocinalionibus uli iisdem rationibus,  quibus ante dicium esl, utclur; si non poteri!, negabit oporterc quidquam, itisi quod scriptum sii,  considerare; pcriclitari omnia iura, si similitudincs accipiantur; niliil esse pacnc quod non alteri  simile esse videatur: mnllas de similibus rebus et  in unam quamque rem tantum singulas esse leges  omnia posse inler se rei similla tei dissimilia do   danaro. Un’ altra dico : Se un padre testamento  rapporto a' suoi schiavi c ai suo danaro, sieno  ferme e rate le sue disposizioni. Dice una teria :  Se un padre se ne muore intestato, i suoi schiavi  e il suo danaro divengono proprietà degli agnati  e degli altri della siesta famiglia. Un tale fu giu: dirato reo d’ aver ucciso suo padre. Siccome non  potò trovar modo di prender la fuga, gli furono  I calzale le piante di piedi che di legno a nifi di scar' pc, c imbavagliato il volto in un baccuceo stretto alla gola ; poi fu dato alla carcere perché vi  I stesse prigione tanto solamente che fosse ammannala la saccaia di cuoio, io clic si dovea chiù1 dere c gettare in fiume. In quel mezzo tempo al| cuni suoi amici recan nella carcere uno stromenlo  testamentario c insieme alcuni testimoni; nomano  eredi di esso quelli che lor pare c piace, c mettono allo slromcnlo il suggello dovuto. Poscia si  prendo il supplizio del delinquente. Nasco litigio  circa l' eredità fra gli agnati c quelli che sou nomali eredi nello scritto. Qui non si rena in mezzo  nessuna leggo positiva che tolga il dirillo di far  1 testamento a quello che ha poco andare ad esser  morlo. Si dee dunque dalle altre leggi, si da quel| le clic a lai delinquente infliggono un tale supplì! ciò, si da quelle clic si riferiscono al dirillo di far  1 testamento, venire per la via del raziocinio a una  trattazione clic versi sulla ricerca, se quel parricida  | avesse o no diritto di testare. I luoghi comuni clic  | son proprii a questo modo di argomentare sono i  seguenti senza clic ve n'ha certi altri di falla simile ; primamente dello scritto clic metterai innanzi  I dei fare la lode, c raffermarne l'autenticità: dipoi  ! deesi fare della cosa che si cerca con quella che è  manifesta un confronto di tal maniera, che appari  j sca esser simile alla manifesta la cosa che cercasi;   poscia eccitar la maraviglia coll'intcrrogarc, come  1 possa mai darsi che olii concede esser questa casa  : ben giusta, dica non lo essere quella, che giosta  è molto più, o almeno in eguale misura ; indi, se  della cosa che cercasi non »’ è nulla di espresso  nello scritto, nop v'èa motivo che P autore, allora che scriveva, lacca ragione che nessuno ne moi «crebbe già dubbio; io altre leggi esser trasandate  ; di molte cose, le quali nessuno crederà mal che  - P autore le Irasandassc perchè non le volesse ,  ma solo perchè le non iscritte si possono raccogliere da ben altre, che scritte già sono; di vantaggio, deesi dimostrare la equità della cosa, come  nella costituzione giuridicialo di specie assoluta.  Quegli che terrà il contrario dovrà lor forza alla  somiglianza mostrata dalla parte avversa; c il farà  dando a vedere esser la cosa messa a paragone di  genere diverso da quella con che s' è messa, cd  altresì esser di diversa natura, fona, grandezza, Limtu il. inonslrari. Loci communes: a raliocinalionc, oporIcre conieclura ci co, quoti scriptum sii, ad iti,  quod non sii scriptum, pervenire; et neminern  posse omnes rcs per scripturam amplccli.sed eunt  commodissimc scribcre, qui curel, ut qoacdam ex  quibusdam inlclligantur. ('.mitra ratiocinalioncm,  huiusmodi : coniccluram divinalionem esse , et  stulli scriptum esse non posse omnibus de rebus  caverò, quibus velil. Dcllnilio est, quum in scripto verbum aliquod est positum, cuius de vi quaerilur, hoc modo; Lei: Qui in aduna tempestale nocem reliquerinl, omnia amiilunto; forum nauta et onera  sunto qui innave remanserint.Duo quidam, quum  iam in allo navigarcnl, et quum eorum allerius  navis, allerius onus esset, nautragum qucmdnm  nalaolcm et manus ad se tcndcnlcm animum advcrlerunt; misericordia commuti navem ad rum :  applicarunl, hominem ad se suslulcrunt. Postea  aliquanlo ipsos quoque tempesta» vehcmenliiis  lodare coepit, u*que adeo, ut dominus navis,  quum idem gubernator esset, in scapliam confugcrel, et inde funicolo, qui a poppi religalus scapham adneiam Irahobat, navi, quoad possel, nioderarclur; ilio aulem, cuius merces crani, in gladiuin ignave ibidem incumbcrct. Ilic ille naufragus ad gubernaculum accessit, et navi, quoad po  luil, est opiluluios. Sedatis aulem lluctibus, et  tempestale iam commutata, navis in portum pcrvchilur. Ilio aulem, qui in gladium incumbucral,  leviter saucius facile ei vulncre est rccrealus. Navem cuni onere liorum (riunì suam quisque esse tempo, luogo, personaggio, opinione ; il farà ancora, mostrando in qual conto c prozio s’ abbia a  tenere la deduzione traila dalla pretesa somiglianza, in quale il motivo perchè si è tratta: in line si  dimostrerà in che balla la differenza dall' una alla  altra cosa, acciocché si paia clic dell'ima e dell’altra non densi avere la stessa idea. E se egli stesso  avesse opportunità di valersi di raziocinii, se ne  dovrà valere in quelle stesse guise clic si snn dette  poco avanti ; se di opportunità direnasse, dovrà  sostenere clic non si dee allcudere ad altro che a  ciò die è scritto; andar a ripcnlaglio tulli i diritli,  se si ammettessero somiglianze sì folte, imperocché  non v'Iia quasi cosa alcuna clic non tenga del simile con qualche altra ; esservi molle leggi che  Irailano nggelti somiglianti tra loro, ma l' una essere separala dall'altra, e ciascuna trattar solamente il suo oggetto speciale ; in tutte le cose potersi scorgere somiglianza o dissomiglianza delle  unc con le altre. I luoghi comuni clic qui tornano  a capello sono i seguenti : quegli clic ragiona per  mezzo di raziocinio dee da ciò clic è scritto raggiungere per congettura eiò clic non è scritto, c  difendere clic nessuno autore può racchiudere  ugni cosa nella sua scrittura, c che meglio scrive  e a meglio riesce chi prucura che da alcune cose  alcune altre se nc venga ad intendere. Quegli che  ragiona conlro il raziocinio, dovrà sostenere clic  darsi alla congettura è un farsi a indovinare, cd  essere un balordo e uno sciocco quello scrittore  clic non sa ben esprimere c provvedere tutto quello eh' ci vuole. fi definizione, quando cercasi qual sia il vero  signilicato d' una qualche parola che ai ritrova  nello scritto, come in questo esempio : Dice la  legge : Chi abbandona la nave in tempo di burrasca, si diierla e perde ogni cosa: la nave c le  mercalanzie cadono in proprietà di quelli che  nella nave si rimasero. Due persone viaggiavano  per mare, I" uno padrone della nave, I' altro della  merce di che essa era carica. Videro nell' acqua  un tale clic stava perduto c che tuttora nuotava  tendendo verso essi le mani ; presi da pietà, drizzarono la nave alla volta di quello, o lo raccolsero  dal mare. Alquanto dappoi cominciarono essi medesimi di esser forte travagliati dalla burrasca che  vi si mise, di modo che il padrone della nave, che  n' era eziandio il pilota, riparò per salvezza nel  palischermo, c di quivi, a misura del possibile,  reggeva la navo con la funicella clic raccomandala  alla poppa traeva il palischermo dietro a sé. L'altro clic era il padrone della mercalanzia, sul ponte  della nave lasciossi radere da codardo sulla punta  di un pugnale per morirsene. Intanto il naufrago  di’ era slato raccolto dal mare si fece al limone, e in blil dici!. Die orones scriplo ad causato acceduti!, el  et nominis tì nascilur controversia. Natn et rclinquere nateti), et remancrc in navi.deniquc natia  ipsa quid sii, definilionibus quaerelur. tisdem autem et locis omnibus, quibus definitiva conslilulio, traclabilur. Nunc, exposilis iis argumcntationibus, quac in iudiciale causarutn gettus accomodanlur, deinceps in deliberativum gcnus et dcmonslratitum argumenlaudi loco: et praecepla  tlabimus; non quo non in aliqua conslitulione omnia semper causa veraetur, sed quia proprii tantum liarum causarum quidam loci sunt, non a constilutione separati, sed ad (Ines liorum generum  accomodali. Nam placet in iutliriali genere flnem  esse aequilatrm, Itoc est, partem quamdam Itonestalis. In deliberativo aulcm Aristoteli placet utililatcm, nobis et honcslatcm et ulilitalem. In dentonstralivo , lionestatem. Quarc in hoc quoque  genere causae quaedam argumcntalioncscommuniter ac simililcr Iraclabunlur; quaedam separatius ad liucm, quo referri onincm ralioncm oporlet, adiungcntur. Alque uniuscuiusque constilolionis escmplum supponcrc non gravaremur, itisi  {liuti viderentus, qucmadntodum ros obscurac dicendo fioretti aperliores, sic rcs apcrtas obscuriorcs fieri orationc. Nunc ad dclibcralionis praecepla  pergamus, LI I . Rerum cipelendarum Iria genera sunl; par  autcni numerus tilandarum et contraria parte.  Nam est quiddam, quod sua vi nos adliciat ad ecse non emolumento captans aliquo, sed Irahens  sua dignilale; quod gcnus, tirlus, scienlia, veritas est. Est aliud autem non propter smini vini et  naturam, sed propter fruclum alque ulilitalem peIcndum; quod genus, pecunia est. Est porto quiddam ci liorum parlibus iunctum, quod el sua vi  et dignilale nos iuduclos ducit, el prue se quamdam gerii utilitatem, quo magis eipetatur, ut amicitia, bona cxislimalio. Alque ex is liorum conira   per quanto seppe porse aiuto alla nave. Calmatisi  i fluiti, e volta la burrasca in bonaccia, la nave fu  fatta entrare nel porlo. Colui clic s'era gettato sulla  punta del pugnale non avea rilevala che una assai  lieve ferita, ondechè tosto e di facile si rimise in  meglio. Ciascuno di questi tre vanta per sua la  nave con la merce denlrovi. Perciò intentano causa tutti e tre, pretendendo ciascuno avere la legge  dal lato proprio. Si rimesta controversia di nome,  cioè dire di significato; poiché deesi realmente  cercare con altrettante definizioni che significhi  abbandonar la nave, che rimanersi in quella, e infine che sia la nave stessa. Or questa causa si trattori precisamente con tutti quei luoghi, con che  trattasi la coslituiione definitiva. Esposte cosi le  argomentazioni che si adattano alle cause di genere giudiciale, verrò a mano a mano dando i precetti e indicando i luoghi che sono il caso per le  argomentazioni proprie dei due generi, deliberativo e dimostrativo; non perchè ogni causa non  s’ aggiri sempre sopra qualche stato di questione  oratoria, ma perche ci sono dei luoghi solamente  proprii di questi due generi di cause, non già disgiunti e divisi dallo stalo delta loro questione, ma  adatti c relativi ai (ini, a cui para ciascuno di questi due generi. E infatti si tiene dai relori rito il  genere giudiciale abbia per line la equità, ciò è  dire tuta parte dell' onesto ; c da Aristotele clic il  fine del deliberativo sia l' ulilc : io però tengo  clic sia l'utile cd anche l'onesto. Si tiene da ultimo che l’ onesto sia il line del genere dimostrativo. Laonde, eziandio riguardo a questi dne  generi di cause insegnerò in comune e per lo simile alquante argomt-nlazioni, aggiungendone ancora certe altro speciali che si riferiscono strettamente al fine che è proprio di ogni causa , c  a cui si dee rapportare tutta la orazione. Noti mi  graverebbe di apporre il proprio esempio a ciascuna costituzione clic io toccherò, se non osservassi che siccome le cose oscure si fanno più ciliare col ragionarvi sopra, cosi le ciliare si fanno,  ragionandole, alquanto oscure. Ma veniamo ai  precetti circa il genere deliberativo.   Lll. Tre sono le specie delle cose appetibili, c  tre le loro opposte, da cui l'uomo si dee guardare.  Vita certi oggetti che per lo slesso loro valore ne  allettano ad abbracciarli: non ne tirano già a sè  colla lusinga di qualche profitto, ma coll'innamorarne della nobiltà e pareggio loro, quali sono la  virtù, la scieuia, la verità. Te n’ha altri che sono  a desiderarsi non per lo valore c natura loro, ma  perchè conferiscono uo qualche profiliti ed utilità,  siccome è il danaro. Ve n' Ita invece che sono un  misto di questi e di quelli, i quali olire che ne adeseano a seguirli pel loro valore e nobilezza, an ria facile, tacenlibus nobis, intelligenlur. Seti ul  expedilius ralio trndalur, ea, quae posuimus, brevi nominabuntur. Narri in primo genere quae sunl,  honesla appellabunlur; quae aulem in secondo,  ulilia. Haec autem Icrlia, quia partimi honeslalis  comincili, et quia mnior esl vis honeslalis, iuneta  esse omnino ci duplici genere intelligenlur; sed  in nteliorem partimi vocabuli coiiferanlur, cl honesta nominentur. Gì bis itimi conlicitur, ul appclendarum rcrum partes sint borie. las et utililas,  vitandarum turpiludo et inulililas. ilis igitur duabus rebus res duac grandes sunt atlribiitae, nccessiludo cl adfectio; quarum altera ei vi, altera  ci re cl personis consideratili. De ulraque post  aprrlius perscribemns; nunc honeslalis ralioncs  primum eiplieemus. Quod ani tolum aul aliqua ex parte propter se pelilur, honestum nominabimus. Quare  quum eius duac partes sint, quarum altera simplex, altera iuneta sii, simpllcem prius consideremus. Kst igitur in co genere omnes res una «i  alquc uno nomine amplexa virlus. Nam virtus est  animi habitus, naturae modo, atque rationi conscnlaneus. Quamobrem omnibus eius partibus cognitis, loia vis erit simplicis honeslalis considerata. Ilabet igitur partes quatuor: prudentiam, iuslitiam, foriiludinem, lempcrantiam. Prudenlia est  rerum bonarum et malarum neutrarumque scienlia. Partes eius: memoria; intei iigentia, provienila. Memoria est, per quam animus repctil illa,  quae fuerunt; intei Iigentia , per quam ea perspicit;  quae sunt; providentia, per quam futurum aliquid  vidclur ante quam factum sit. lustitia est habitus  animi, communi utililate conservala, suam cuique  tribuens dignilatcm. Eius inilium est ab natura  profectum ; deinde quaedam in consucludincm  ex ulililatis ratione venerunt; postea res et ab natura profeelas et ab consuetudine probalas legum  melus et religio sanxil. Natura ius esl, quod non  opinio genuil, sed quaedam innata vis inscruit, ul  religicncm, pielatem, gratiam, vindicationcm, obscrvantiam, verilatem. Religio esl, quae supcrioris  cuiusdam naturae, quam divlnam vocant, curam  ceremoniamque adferl ; pietas per quam sanguinoconiunclis palriacqne benevulis oflicium cl ditigens Iribuilur cullus; gralia in qua anticiiiarum cl  olliciorutn allcrius memoria et remuncrandi vo   cile ne mostrano una cotale utilità, perchè ad appetirli siamo vie piè invogliati, come à l'amicizia,  la buona stima, e via via. Gli oggetti che sono opposti ai prcfali, ancora clic io li ponga in silenzio,  di leggiere si potranno intendere. Ma perchè sieno  più chiari i precetti che vengo a porgere, ricordo  cosi di passo di che nomi sieno da appellare gli  oggetti che ho qui sopra accennali. I primi si ap  polleranno onesti, i secondi si diranno utili. I terzi, perchè sono contempcrati con l'onesto, e perchè in essi la forza dell' onesto è maggiore clic la  propria, si capisce di lieve che sono appetibili per  due ragioni unite insieme ; ma s’ abbiano pure il  nome dalla ragione migliore, e si appellino onesti  anch' essi Da lutto ciò si deriva, che gli oggetti  da dover appetire sono di due specie, onesti ed  utili, c gli opposti da doversene chi che sia guardare, sono i turpi ed i dannosi. A queste due specie  si riferiscono due cose di assai rilievo, la necessità  e la circostanza; delle quali la prima si risguarda  in sè e nella forza sua propria, la seconda relativamente ai fatti ed allo persone. Dell' una e dell’ altra scriverò poi con sudlcicnle chiarezza : qui  intanto mi farò a trattare cièche risguarda l'onesto.   LUI. lo appello onesto ciò che in tutto o per  amore di alcuna sua parte è appetibile per sè. Siccome però son due le parli dell'onesto, una semplice, una mista, ci occuperemo in prima della  parte semplice. Or quella che per la sua propria  potenza, c sono il solo suo nomeoomprendequanto v’ha nella specie dell'onesto semplice, èsen z’alIro la virtù. È infuni la virtù un abito interno,  basalo sulle regole naturali, e consentaneo alla  ragione. Per la qual cosa, conosciute che siano  tulle le parli di essa, si può dire di aver conosciula  tutlaquanta la forza dell'onesto semplice. Ha essa  virtù ben quadro parti, prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Prudenza è la facoltà di conoscere ciò che è bene e ciò che è male, e ciò che  non è nè l'uno nè l'altro. Le sue parti sono, memoria, intendimento, antiveggenza. Memoria è  quella dote, per cui l'anima si risovviene dello  cose clic furono; inlendimenlo è quello, per cui  l'anima acquista la conoscenza delle cose clic sono; antiveggenza è quella che dà a conoscere innanzi che avvenga qualche cosa che dovrà avvenire. Giustizia è quell' abitudine interna, per cui  l'uomo, senza alterar l'utile generale, dà a ciascuno quello di che esso è degno. I suoi principii  son venuti dalla natura: poscia certe azioni, per  amor dell' utile che danno, sono passale in consuetudine; in fine si i principii venuti dalla natura, e si le azioni che furono approvate dalla consuetudine, vennero sancite dal timor delle leggi  c dalla religione. Natura è una legge che non fu lunlas contiiictur ; vindicatio , per quaro vis aut  iniuria et ninnino amile, quod obfuluruin csl, de*  rendendo ani ulcisccndo propulsala; observanlia,  per quam lioniines aliqua dignilalc anlceedcnles  cultu quodam et honorc dignantur ; vcrilas, per  quam immillala ea, quac snnt, aut aule fuerunl,  aut futura suut, dicunlur. Consuetudine ius csl, quod aut levitar, a  natura tracium aluit et maius lecit usua, ut rcligionetn; aut si quid coruin, quac ante diximtis,  ab natura proreelum maius Lictum propler consuctudiuem viilemus, aut quod in morem vetustas luigi approbaliuue perduti!, quod genus pactum est,  par, iudicatum. Pactum csl, quod inler aliquos  convenit ; par , quod in omnes aequabile est ;  iudicatum, de quo alicuius aut aliquorum iam  scntenlìis constitulum csl. Lego ius est, quod  in co scripto , quod popolo ciposilutn est , ut  obscrvct , conlinctur. Fortiludo est considerala  periculorum susceptio , et laboruin perpessio.  Eius parles, magnificcnlia , Odeutia , patinili, i,  perseverantia. Magniflcentia est rcruin magnaruin  et cicelsarum cum animi ampia quadam et splendida proposilionc agilatio alque administralio ; lidentia csl, per quam magnis et bonestis in rebus  multum ipsc aniinus in se fiduciae cerio cum spe  collocavi! ; palicntia csl bonestnlis aut utililatis  causa rerum ardnaruni ac dillo ilium vnlunlaria ac  diuturna perpessio ; perseverantia csl in ralionc j  bene considerala stabilis et perpetua parmansio. i  Temperantij est ralionis in libidinem alque in alios  non rcclos impelus animi firma et moderala domi- :  nalio. Eius parles, coiiliociilìa, clemenlia, mode- |  stia. Conlinemia est, per quam cupidiias cnnsilii  gubcriialionc regilur ; clemenlia, per quam animi  temere in odium alicuius iticeli roncilaliquc comitale rctincnlur ; modestia, per quam pudor honcsti curam cl slabilcm comparai auctorilatcm. Atque lince omnia propter se solum, ut nihil adiungalur emolumenti, pctcnda suoi. Quod ut demonstrclur, ncque ad hoc nostrum instilutum pcrtinct,  et a brcvilate praccipiciidi remulum csl. l’roplcr  se aulem vitanda suut non ca mudo, quae bis con   prodotta dalla opinioue umana , ma è per una  certa l'orza che le è ingenita, quale è la religione,  la pielà, la grazia, la vcndclla, la osservanza, la  verità. Religione è procurare le cerimonie e il  culto di una natura più prestante della nostra,  la quale si domanda divina; pielà £ quella virtù, per cui l'uomo presla ossequio c rispetto a  quelli che gli sono attinenti di sangue, ed agli  amatori della patria ; la grazia comprende la  memoria dell'altrui amicizia e (ratti officiosi, e la  volontà di muncrargliene; vendetta è quella, per  cui, difendendo o ricattandoci, ributtiamo la violenza c il sopruso, anzi tutto affatto ciò clic ne  potrebbe essere nocitivo; osservanza £ quella disposizione dell'animo, per cui teniamo degni di  certa venerazione ed onore gli uomini di paraggio che son posli in dignità. É verità quella virtù,  per cui, senza punlo alterarle, diciamo le cose  quali furono, o quali sono, o quali sono a venire. Consuetudine è una norma o legge, che  tratta a poco a poco dai principii naturali, fu afforzata e resa maggiore dall’ uso, come è la religione; e forza di norma o legge ha qualunque delle cose provenienli dalla natura, clic ho toccalo  poco fa, le quali vediamo più che più aver preso  piede mediante la consuetudine; ovvero qualsiasi  delle cose, che tenute dal popolo inaino ab antico  per buone c per vero son passale in costume fino  a noi, emne è il patto, la parità, il giudicalo. È  patto ciò, in cui più persone convengono e fanno  accordo tra loro; é parità ciò che guarda verso  tutti la deb la uguaglianza; è giudicalo ciù, sopra  cui fu giù da uno o più pronunziata sentenza. Legge è una regola esposta in quello scritto che si  presenta al popolo perché In debba osservare.  Fortezza, è sofferenza delle fatiche, è un esulo c  approvveduto incontro dei pericoli. Le sue parti  sono, magnificenza, sicurezza, pazienza, perseveranza. I’cr magnificenza s’ intende un esercizio e  un maneggio di coso eccelse e rilevate, congiunto  con una larga e splendida dimostrazione dell'animo; sicurezza è quella virtù, per cui l'uomo nelle  imprese grandi cil onorale ripone in sé stesso  molto di fiducia, in modo da avere la sua speranza per riuscibilc; pazienza è un volontario c lungo  sofferimento delle cose ardue e malagevoli, eoi  . disegno di giunger a fatti di onore o di utilità;  perseveranza é una ferma c perpetua permanenza  in un partito che siasi preso dietro consiglio e  ponderazione. Temperanza é un signoreggiamento  della ragione, forte, ma moderalo, sopra la libidine c sopra gli altri non rclli trasporti del cuore.  Le sue parti sono contenutezza, clemenza, modestia. Contenutezza 6 quella rirlù, per cui viene  clic i desideri! affienali si lasciano reggere dal con Iraria sunl, ut fortitudini ignavia et iusliliac iniustitia veruni etiam illa, quac propinqua vidcnlur et  Unilima esse, absunt autem longissime ; quod gènus fidenliae conlrarium est dillìdenlia, et ca re  vilium est; audacia non conlrarium, sed apposilum  esl ac propinquum, cl lanieri vilium osi. Sic unicuiquc virluti fmilimum vilium rcpericlur , aul  cerio iam nomine appellalum, ul audacia, quac fidenliac, pertinacia, quac perscverauliac finitima  csl, supcrstilio, quae religioni propinqua esl ; aut  sine ullo cerio nomine. Quae omnia ilem, uli contraria rerum bonarum , in rebus vitandis reponcntur. Ac de eo quidem genere honcstalis, quod  et omni parte propter se pctilur, salis dicium csl. bone de eo, in quo ulilitas quoque adiungilur, quod famen honeslum vocamus, dicendoci  vidclur. Sunl igilur multa, quae nos quum dignilale lum fruclu quoque suo ducunl; quo in genere  csl gloria, dignilas, ampliludo, amicilia. Gloria csl  frequens de aliquo fama cum laude; dignilas, alicuius bonasia, et cultu et honore cl vcrccundia digita auctoritas; ampliludo, polcntiac, aut maiestatis, aul aliquarum copiaruoi magna abundanlia ;  amicilia, volunlas erga aliquem rerum bonarum illius ipsius causa, quem diligi), cum eius pari voluntate. Ilio quia de civilibus causis loquimur, fruclus ad amicitiam adiungimus, ut eorum quoque  causa pelenda vidcalur ; ne forte quis nos de om  ni amicilia diccre ciistimans reprclicnderc incipial.  Quamquam sunl, qui propter ulililatem modo pclendam pulanl amicitiam ; soni qui propler se solum ; sunt qui propler se et ulililalcra. Quorum  quid verissime conslitualur, alius locus crii considcraudus- Nunc hoc sic ad usuui oralorium rclln.  qualur, utrami|uc propler rem amicitiam esse cipclciidam. Amiciliarum aulem ralio, quoniain parlim sunl religionibus iunclac, parlili) non suul, cl siglio e dal senno; clemenza £ quella, che, quando l’uomo è allenalo e spinto all’odio contro alcuno, ne lo aflrena con dolcezza c benignità; modestia è quella virtù, per cui l'uomo mercè il suo  pudore ha cura dell'onestà, c acquista una slabile  riputazione. Tulle queste virtù sono appetibili da  per sè sole, posloehè non sicno accompagnale di  nessun approvacelo ed utilità; cosa clic non mi  fermo qui a dimostrare, Ira perchè non si perbene nll’assunlo clic ho per mano, e perchè non si  consente con la solila brevità di questi mici precetti. Vogliono però esser evitali di per sè non  solo i vizii che a tali virtù sono contrarii, come la  codardigia clic è contraria alla fortezza, la ingiustizia clic alla giustizia; ma quelli altresì che paiono esser loro propinqui c vicini, ma in quel  cambio non sono a mille miglia tali; per esempio,  la diffidenza è contraria alla fidanza, e per questo  è vizio; l'audacia invece non è di essa fidanza il  contrario, ben anzi l'é confine c le va appresso,  c niente di meno è vizio. Similmente ciascuna  virtù si vedrà essere confinata dal suo vizio contrario, il quale o si domanda con un nome suo  proprio, come l'audacia che confina con la fidanza, la pertinacia che ha con la perseveranza molta approssimità , la superstizione che alla religione vicn seconda ; o non ha nessun nome determinato. Or tutti questi vizii, come conlrarii  delle virtù, si riporranno nel novero delle cose  da dover evitare. Parlai della specie di onesto,  che da ogni parte è appetibile di per sè: or il  Un qui basta ad aver dello. Al presente è da parlare di quell'aura specie di onesto che porta con sè ragioni di utilità,  ma che io appello onesto niente di meno. Sonci  dunque molte cose che ne invogliano a sè non solamente per riguardo alla nobiltà loro, ma eziandio per l'approvcccio e vantaggio che no arrecano: di questa ragione sono la gloria, la dignità,  la grandezza, l'amicizia. Gloria è la fama celebre  che gode alcuno, accompagnala di lode; dignità  è una maggiorla onesta ed autorevole, degna di  onoranza, di stima e di riverenza; grandezza è un  essere di grandissima lunga poderoso di possanza, o di macslevoli esteriorità, o di qualche specie di ricchezze; amicizia £ voler bene c vantaggio  ad altrui per riguardo della stessa persona clic si  ama, e trovare in esso un'eguale disposizione di  volontà. Siccome perù io parlo qui delle causo  civili, attribuisco all'amicizia anche una ragione  di utilità, perchè ancora per tal verso essa comparisca appetibile; c fo questa avvertenza, per  causa clic alcuno noti mi volesse per avventura  riprendere, credendo che io qui metta a fascio  ogni sorta di amicizia. Mondimene v’ita dii opina quia parUm telerei sunt, parlim novae, panini ab  illoruni, parlim ab noslro beneficio profcclac, parlim uliliores, parlim minus uliles, ex causarum dignilatibus, ex temporum opporlunUalibus, ci ofliciis, ex rcligionibus, ex veluslalibus habebiiur. Uliiilas aulem aut in corporc posila est, aul  in cxirariis rebus ; quBrum (amen rerum multo  maxima pars ad corporis commodum revertilur, ut  in re publica quacdani sunt, quae, ut sic dicam,  ad corpus perlincnt civitalis, ut agri, portus, pecunia, classi», naulac, mìliles, sodi, quibus rebus  'ncolumilatem ac liberlatem re linoni civilates: aiiae  vero, quae iam quiddam magis amplum et minn s  necessarium conflciunl, ut urbis egregia exornatio  alque ampldudo, ut quaedam cxcelicns pccuniae  magnitudo, amicitiarum ac sociclalum mulliludo.  Quibus rebus non illud solum conOcilur, ut salvac  et incolumes, terum rliam ul amplae alque polentes sint ciiitales. Oliar e utililalis duae partes videnlur esse, ìncolumilas el polenba, incolumiias  est salulis tuia alque integra conscrtalio; polenlia  est ad sua conservanda cl allerius oblinenda idonearum rerum facullas. Alque in iis omnibus, quae  ante dieta sunt, quid fieri, cl quid Tacile (ieri possii, oporlet considerare. Facile id dicimus, quod  sinc magno aul sino ulto labore, sumptu, molestia  qtiain brevissimo tempore conlici potcsl ; posse  autem (Ieri, quod quamquam iaboris, sumplus,  molestine, longinquitalis indigel, alque aul omnes  aut plurimas, aul maximas causas liabet dilficultalis, lamen, bis suscepfis diilicullalibus, compleri  atque ad exilum perdimi potesl. Quoniam ergo de  honestale el de ulililale dixiinus, none restai, ut  de iis rebus, quas bis allributas esse dicebamus,  nccessitudine cl adTeclione pcrscribamus. Pulo igitur esse liane, necessiludinem, cui esser l'amicixia appetibile solo per l'utilità cb'essa  produce, e chi dice esser appetibile solamente di  per sè, c chi esserlo e per sè e per l'utile che da  essa deriva. Quale però sia f appunto e il Termo  da stabilire intorno a questa maleria, verrò esponendo in altro luogo. Intanto per l'uso oratoriosi  ritenga questo, esser appelibile l' amicizia c per  sè c per l'utile cb'essa apporta. Essendo poi che  delle amicizie alice si sono unite coll’ essersi intermessa la religione, altre sema intervento di lei,  e parte sono antiche, parte recenti, e quali son  nate da un beneficio Tattoci, parte da un beneficio  che Tacemmo noi slessi, ed altre sono piò utili,  ed altre meno; cosi nel trattarne si dovrà avere  considerazione alla nobilezza delle cause, alle opportunità dei tempi, alle relazioni di esse amicizie, agli alti religiosi che le hanno ratificale, c alla  lontananza della loro origine. L'ulitilà ridonda nel corpo, o nelle cose  elio gli son fuori; ma anche queste per la massima parie si convertono a vantaggio del corpo stesso. Se nc vegga I* esempio nella repubblica. Cl  son cose, clic, per cosi dire, appartengono al corpo della popolazione, come le campagne, i porli,  il danaro, la (lolla, i naviganti, i militi, gli alleati, ron le quali cose c persone conservano le popolazioni la propria salvezza o libertà: altre ce ne  sono, che conferiscono a un vantaggio più appariscente. ma meno necessario, come a dire un cospicuo ornato cd ampiezza della cillà, uno straordinario stollo di pecunia, una moltitudine di  amicizie c di società. Da queste cose deriva che  le. popolazioni non pure si manlengonsalro ed incolumi, ina eziandio vanno distinte per potenza  e dignità. Ondecbì io To ragione esser due le parti  dell' utile, ve' dire potenza c incolumità. Questa  suona tanto come conservar sicura e intatta la  propria salvezza; quella esprime il possesso dei  mezzi appropriati per mantener il proprio, e venir  all' acquisto dell’ altrui. In tulio questo elio ho  dello fin qua si vuole dislinguerc ciò che Tar si  possa da ciò che sia Tacile a Tare. Diciamo Tacile  a Tarsi ogni cosa clic si può Tornire con brevità,  senza grande, o senza alcuna Talica, spesa, Tastidio: diciamo che una cosa si può Tare, quando essa, avvegnaché domandi Talica, spesa, raslidio,  lunghezza di tempo, ed involga o tulle, o la piò  parte, o le piò gravi cause di difficoltà, non però  niente di meno anche affrontando queste dillkollà  medesime, può esser Tornila c condona al suo  pieno cffcllo. Ora dunque che s' è trattato dell'onesto c dell'utile, resta da trattare delle due cose  che, come ho dello, si rapportano a loro, ciò sono, la necessità e la circostanza. Credo esser necessità quella senz'altro. unno ii. li»  nulla vi resisti polost, quo ca sccius id, quod lacere polcst, perflcial, quac ncque mulari, ncque  leniri polca!. Atque, ul apertili? hoc sii, cicniplo  licci vim rei, qunlis et quanta sit, cognoscamus.  Cri posse (lamma ligneam motcriam noccsse est.  Corpus mortale aliquo tempore inlcrire ncccsse  est; atque ita nccessc, ul vis postulai ea, quam  modo dcscribcbamus, ncccssiludinis. Iluiusmodi  neccssitudines quum in diccndi raliones inciderli,  rcclc neccssitudines appcllabunlur. Sin aliquae res  accidcnl difflciles, in illa supcriore, possilne fieri,  quaestlone considerabimus. Atque oliam hoc milii  vidcor viderc, esse quasdam cum adiunctione nccessitudiucs, quasdam simpliccs et absolutas. .Nani  alitcr dicere solemus: Ncccsse est Casilincnscs  se dedere llannibali ,*alilcr autcìn : Nccessc est  Casilinum venire in llannibalis polcslalcm. Illic,  in supcriore , adiunclio est liacc: Nisi si malunl  fame perire ; si cnim id malunl non est nccessc. Hoc inlcrius non ilem , proplcrca quod ,  sivc velini Casilincnscs se dedere, sive famein  perpcli atque ita perire, neccssc est Casilinum  venire in llannibalis potcstatem. Quid igitur bare  per licere potest ncccssiludinis dislribuiio ? Propc dicatn , plurimum , quum Incus necessiludinis videbilur incurrere. Nam quum simplex crii  neccssiludo, niliil crii quod inulta dicamus, quum  eam nulla rationc lenire possiraus ; quum aulem  ila ncccsse crii, si aiiquid cffugcrc aul adipisci vclimus, tum adiunclio illa quid liabcat utililalis au|  quid honcstalis, crii considcrandum. Nam si vclis  attendere, ita tamen, ul ìd quacras, quod come,  nial ad usum civilalis, reperias nullam esse rem,  quam lacere ncccsse sii, nisi propler aliquam causaci, quam adiunctioncm unminamus; praeler linee  auledi esse mullas res ncccssilaiis, ad quas simili*  adiunclio non accudii; quod geuus, ut homines  morlales necessc est inlcrire, sine adiunctione: ul  cibo ulantur, non necessc est, nisi cum illa eiceplionc: Evira quam, si nolinl fame perire. Ergo,  ut dico, illud, quod adiungilur, sempcr, cuiusmodi sii, erit considerandum. Nam omni tempore id  pcrlinebil, ul aul ad boncslalcm hoc modo exponcnda neccssiludo sii : Necesse est, si boncslc volumus vivere; aul ad incolumilalcm, hoc modo :  Nccessc est, si incolumcs volumus esse; aul ad  commodiialcnt, hoc modo : Ncccsse csl , si sine  incommodo volumus vivere. alla quale per veruna forza non si può impedire  clic faccia nò più nè meno ciò eli' essa può fare,  poiché non si può nè miliare, nè restringere. Ma  perchè questa definizione torni più chiara, sarà  bene conoscere per qualche esempio quale e  quanta sia la forza della necessità. Che le legna  sicno bruciale dal fuoco, è questo un necessario.  Clic un corpo mortale in uno o in altro tempo venga a perire, anche questo è un necessario; c necessario così come è richiesto dalla forza della  slessa necessità clic leslè ho descritta. SI falli necessarli quando imballeranno fra gli argomenti  che si trattano, si appelleranno a buon diritto necessità. Che se involgessero fatti o circostanze ma'  (agevoli, si esamineranno a termine della questione tocca qui sopra, clic è, quando uno cosa si  può fare, o può avvenire. Oltracciò osservo pur  questo, esservi alcune necessità clic s' accompagnano di una qualche condizione, alcune altre  esser affatto semplici cd assolute. E infatti nell’uso del parlare noi diciamo in un modo: È necessario che quelli di Casilino si dicno in mano ad  Annibale; c in un altro: E necessario clic Casilino  venga ad Annibale in podestà. Al modo primo  va accompagnala questa condizione: Se non vogliono pericolar di morire di fame; perocché se  amano meglio codesto, la resa non è lor necessaria. Ma non è altrettanto del secondo modo, perocché, o sia che quelli di Casiliuo vogliano venire alla mercè c alla misericordia di Annibaie, o  sia che amino piuttosto patirsi la rame c così disertarsi c perire, è necessario ad ogni modo che  venga Casilino in potere di Annibali'. Ora, c clic  dunque se ne ricava, si dirà, da questa distinzione del necessario ? Se ne ricava, sto per dire, di  molto, ognora clic intervenga qualche luogo spellante alla necessità: conciossiacliè quando essa  necessità fosse non più che semplice, non c’è bisogno di andare in lungherie di parole, essendo  che essa non si può già per veruna guisa mutare;  e quando per conlra la necessità avesse questa  condizione, ciò è necessario, se vogliamo scansare ovvero ottener qualche cosa, allora bassi a porre ben mente che cosa arrechi essa di utile, oppure di onesto. E infatti se tu vorrai considerare di  ciò, tuttavia solo nel caso che tu abbia qucsliorc  su quello che risguarda gli usi civili, riconoscerai  non v' esser azione clic s'abbia necessariamente a  lare, se non per qualche motivo, che io appello  condizione; e inoltre esservi molle specie di necessità, alle quali simile condizione non va punto  accompagnala; per esempio: gli uomini mortali  debbono di necessità venir a mancare, questo è  un necessario senza condizione: ma il dire, i forza che piglino Ucl cibo, questo non è un neccs Ac summa quidcm ncccssiludo videlur  esse honeslatis: liuic proxima, incolumilatis: ter  lia ac Icvissima, commodilatis;quac cum liis numi|tiam poteril duabus contendere. Ilasccaulem itile r se saepe Decesse est comparari, ut quamquam  prarstet boneslas incolumitali, (amen utri polissiinum consulendum sii, delibcrelur. Cuius rei certuni quoddam praescriplum videlur in pcrpeluum  ilari posse. Nani, qua in re iteri poteril, ut, quum  incolumitali consu!ucrimns,qund sii in pracsenlin  tic honeslatc delibatimi, virtute aliquando et industria recuperetur, incolumilatis ratio vidcbilurbabenda; quum autem id non poluerit, honcslalis.  Ila in huiusmodi quoque re, quum incolumitali  lidebimur consulerc, vere poterimus diccre nos  lionestalis rationem liabcre, quoniam sino incolumilatc cam nullo tempore possumus ndipisci.  Qua in re tei concedere alteri, voi ad conditioncm  allerius descendere, vel in pracscnlia quiescere  atquc alimi Icmpus cxspeclarc uportcbil. In commodilalis vero ratinile modo illud altcmlatur, dignane causa videalur ea, quac ad ulilitalem pertincbil, quarc de niagiiiliccnlia aul de bonestate  quidam dcrogetur. Alque ili hoc loco milii caput  illud videlur esse, ut quaeramus, quid sii illud,  quod si adipisci aut ctTugerc velimus, aliqua res  nubis sit necessaria. Ime est, quac sii adiunclio,  ut proinde, uti quaeque res eril, laboremus, et  gravissimom quamquecaiisam vebemcnlissimenecessai iati! iudicemus. A il feci io est quaedam ex  tempore aul ex negotiorum eventu , aut adminislratione.aul homiimni studiocommulalio rcrum,  ut non lales, quales ante babilac siili, sul plcruinque liabcri solenni habondac videantur esse ; ut,  ad hostcs transire turpe videlur esse; ut non ilio  animo, quo Ulyxes transiit ; et pccuniam in mare  deiicere inutile; al non eo consilio, quoArislipptts  fecit. Sunt igilur r s quaedam ex tempore et ex  consilio, non ex sua natura considerandac; quibus  in omnibus, quid tempora pctanl,aut quid personis  dignum sit, considcrandumesl, et nonquid, sed quo  quidquc animo, quicum, quo tempore, quamdiu  fìat, altcndenduin est. Ilis ex parlibus ad senlcttliam dicemtam loeos stimi oporlere arbitramur. sario, se non con la condizione : eccetto se non  vogliono perir di Tante. Laonde, come dico, è sempre da esaminare quale della condizione sia il modo c la qualità; poiché in ogni tempo è da badar  bene clic la necessità, se si riferisce all'onesto, si  esponga in questo modo: è necessario, se togliamo vivere onestamente; o se si riTeriscc alla incolumità, si esponga in questo: È necessario, se vogliamo mantenerci inrolumi; o se ai nostri agi,  si esponga cosi; È necessario, se vogliamo vivere  bene agiati. La necessitò di tulle maggiore è di Tare oncslamcnlc: a questa s’avvicina quella della  nostra incolumità; la terza, da meno di tulle, è  quella di essere agiati, la quale non potrà mai  competere con le altre due. Queste necessità ì  mestieri di paragonarle spesso Tra loro, ai line  che possa esser risolto c stabilito, sebbene l’onesto si vantaggia molto sopra la incolumità, a quale  de’ due debbasi piuttosto provvedere. Intorno a  ciò si può Dssare un precetto, che volga per sempre. Quando noi battiamo sopra Talli d’incolumità, c vediamo die nel provvedere ad essa ne va  per al presente diminuito e leso l'onesto in qualche parte, che nondimeno si può quando clic sia  risarcire e rimettere con l’ industria e la virtù,  dovrassi alla ricisa aver riguardo alla incolumità:  ma quando si prevedesse elle lo scapilo dell’onesto non si poiria più rifare, deesl provvedere al1’ onesto anzi che alla incolumità. Cosi anche in  questo caso mostrando di provvedere alla incolumità, potremo dir daddovero che noi abbiamo ri-  guardo all' onesto, poiché senza la incolumità in  verun tempo non è possibile asseguire l'onesto c  mantenerne il possesso. Or su questo punto si do-  vrà o cedere altrui, o venire nel partilo di un al-  tro, o non far altro per ora, e stare in aspetto di  tempo più opportuno. Quanto poi spelta agli agi,  decsi considerare di questo, se la causa che si  riTeriscc all'utile debba richiedere elicsi detragga  alcun clic dalla magnificenza o dall' onestà. E ri-  spetto a questo io trovo esser un punto capitate  lo investigare di qual sorta sia la rosa, a cui otte-  nere o scansare ben un’altra cosa ci è necessaria,  voglio dire, quale ne sia la condizione, acciocché  ci possiamo arrahatlare ed aiutare secondocliè  lo esige la qualità della cosa, c conoscere che la  causa, Tosse pur la più Torte e malagevole, è nondimeno per ogni verso una causa necessaria. Cir-  costanza è una rotai mutazione delle cose, clic  dipende dal tempo, o dalla riuscita degli affari, o  dal maneggio loro, o dalle propensioni degli uo-  mini, c fa elio non si debbau le cose per tali ave-  re, quali si son credute per lo avanti, o quali tut-  te le più volte si credono. Per esempio: il passare Laudes autem cl vilupcraliones ei iis locis aumentar, qui loci pcrsonis sunt attribuii, ile  quibus ante diclum esl. Sin dislributius baciare  ijuis videi, partialur in aiiimum.cl corpus, et extra-  rias res licebil. Animi esl virtus, cuius de parli-  bus paullo ante dicium esl; corporis, valeludo, di-  gnitas, tire*, velocitasi estrariae, lionos, pecunia,  adfinilas,genus, amici, pairio, potenlia cl celerà,  quae simili esse in genere inteliigciitur. Alque in  bis id, quod il) omnia valet, valere oportebit: contraria quoque, quac et quaba einl, inlelligcnlur.  Videro autem in laudando et in vituperando opor-  lebil non tam quae in corpore aul in estrania re-  bus liabuerit is, de quo agetur, qunm quo paclo  bis rebus usus sii. Anni fortunali! quidem et lau-  dare slultilia, et vituperare superbia est; animi  autem et laus honesta, cl viluperatio veliemens  esl. Rune quoniain oninc in causac gcnus argu-  incnlandi ratio tradita est, de invcnliono. prima ac  inavima parte rlieloricac, salis diclum vidclur. Quare, quoniam et una pars ad ctituin boc ac su-  periore libro perducla esl, et Ilio libcr non parum  coiitiiiet litlerarum, quae restaul, in rcliquis di-  ccmus. ai nemici £ cosa turpe ; ma non £ tale, se si faccia con la intenzione, con clic lilissc: gettar il da-  naro in mare £ cosa dannevolc; ma non lo £, se  si faccia con l'intendimento, conche Arislippo. Ci  son dunque delle cose, clic si vogliono riguardare non in sè c nella natura loro, ma relativamente  al tempo e al disegno di cbi le fa; c in tube que-  ste decsi aver l'occhio a discernerc quale sia I' c-  sigenza dei tempi, c ciò clic sia competente e degno delle persone, ed osservare non ciò che venga  fatto, ma con clic animo altri il faccia, con quali  compagni, iti qual (empii, e quanto a lungo vi duri,  ba parti si fatte io trovo clic si debbano ritrarre  i luoghi acconci a provocare la sentenza dovuta. La lode c il biasimo si trarranno da quel-  le fonti di argomenti, elle si sono indicate quando  si £ discorso sopra ciò clic si riferisce alle perso-  ne. Se alcuno volesse attenersi a una divisione  bene accurata, la farà riguardo all'animo, al corpo, c alle cose esteriori, bell’ animo £ propria la  virtù, delle cui parli s’£ trattato poco più addietro;  del corpo £ propria la buona o mala salute, la di-  gnità, le forze, Tesser veloce. Per cose esteriori  si intendono l'onore, il danaro, i parerli aggi, la  stirpe, gli amici, la patria, la possanza, c quanto  vi ha di genere altrettale. E per queste cose avran-  no valore gli argomenti clic hanno valore per tut-  te le altre; e cosi ancora si potrà conoscere quali  si slcno le toro contrarie. Bensì rispetto ai far  uso della lode c del biasimo si dovrà osservare  non tanto quali vantaggi o scapili avesse quel ta-  le, di quelli clic si riferiscono al corpo e alle cose  esteriori, quanto in qual foggia e maniera siasi  comportalo rispetto ad essi: puicliè lodare la fortuna £ ima stoltezza, e svitupcrarla £ un’arrogan-  za; mentre la lode clic si dà all'animo £ cosa clic  lo onora, come il biasimo che se gli dà è cosa clic  lo punge c trafigge. Esposte cosi le fonti c le for-  me di argomentare per ogni genere di causa. Irò-  vo d’aver detto quanto basta circa la invenzione,  clic £ la prima c la più principale tra le parli del  la retorica. Epperó, giacché una metà del mio te-  ma tra in questo c nel precedente libro fu condot-  ta ad uscita, c questo secondo m' £ venuto lungo  non poco, dirò negli altri libri le cose die Bucina  mi restano.  GRICE E CICERONE  Notes on Buckner – alla Grice     J. L. Speranza, for The Grice Club     In Existence and illusion: a semantic account of perception (Bloomsbury, London), D. E. Buckner, of Bristol, etc. expands on some fascinating stuff.  Bristol brings echoes of Grice. His — Grice’s — father not doing well in business – as Buckner well knows – it was Mabel Mary Felton Grice, Grice’s mother, who felt like opening a miniature school on the main street of their home in ‘affluential’ Harborne – then Warwickshire, originally Staffordshire – and kept Grice as a pupil until he was sent to … Clifton – a stone’s throwaway from Bristol.  Anyway, perception perceptively fascinated Grice. But what fascinates ME about Buckner’s ‘semantic account of perception’ is the Aristotelian-cum-scholastic twist to it — coupled with the big features of both EXISTENTIA, as Cicero would have it, and illusion!  Grice only managed to get to Oxford through a classics scholarship. He still had no idea about what philosophy was. Oxford did not offer a degree in philosophy, not that Grice would have cared about that. But he later recalled having been pretty fortunate in getting Hardie as his adjudicated tutor (Grandy/Warner – the title of Grice’s memoir was meant to be titled, “Prejudices and predilections; which become, The life and opinions of H. P. Grice”, by H. P. Grice, of course!  Philosophy was then offered only upon completion of five terms into your programme — B. A. Lit. Hum. — and it was. For only ONE term, Grice was adjudicated a different tutor, who complained to Hardie about Grice’s obstinacy to the point of perversity. During the pre-war years – where Grice passed from pupil (still a member of the university, you know) of Corpus, to scholar at Merton, to fellow at St. John’s – his philosophizing did include a bit of ‘perceptual stuff.’ All the material is now deposited in The H. P. Grice Papers. One is a typescript on ‘Negation’ where he considers two example sentences: “This is not red” and “Someone is not hearing a noise”. The second is influenced by his having read Ian Gallie, “Is the self a substance?” where Gallie refers to the philosophical ‘introspective’ use of ‘I’ in sentences like ‘I am hearing a noise’ — but I may be aurally hallucinating, you know!  It was after the War that Ordinary-Language Philosophy was taking its course. And when it comes to perception, it was all about Grice’s getting on well with G. J. Warnock, quite his junior. The Oxford syllabus would offer joint seminars by these two on Perception. What is an Oxford seminar? It needs a title: H. P. Grice and G. J. Warnock, “The Philosophy of Perception.” It needs to be structured in lectures – or ‘classes’. Grice had been appointed a University Lecturer – sponsored by St. John’s – which meant his ‘lectures’ — usually joint ones — were open to any member of the university.  Warnock had been active in his interactions with Austin and would eventually publish Austin’s lectures on ‘Sense and Sensibilia.’ But what matters at this point is that Austin himself being so engrossed with perception for his own weekly classes, he would NOT care discuss the topic in those circumstances which he chose to ‘socialize.’ These ‘circumstances’ were what Grice calls the Play Group. As a matter of fact, Hampshire has made it clear the thing. There were in history TWO Play Groups – the terms are Hampshire’s --. The ‘old’ Play Group, and the ‘new’ Play Group. “Grice never attended the old Play Group.’ Grice gives the reason: he had been born on the wrong side of the tracks, and therefore did not interact with the Thursday evenings at All Souls that had Ayer, Austin, Berlin, Hampshire, Woozley, and a few others, and which Berlin claims, pompously, that it was the true origin of ordinary-language philosophy!   At the ‘new’ Play Group (Hampshire’s words), Grice would socialize with both Austin and Warnock. The credentials were simple: you had to be a ‘whole-time,’ as Warnock puts it, tutorial fellow in philosophy, younger than Austin, and get on well with him.   But perception was then not discussed – since Austin had to deal with that WEEKLY for ‘any member of the university’ that would care to attend.   Part of Warnock’s interest — a very IRISH Warnock’s interest — in publishing the notes posthumously was that Austin spent some time with Warnock’s book on Bisop Berkeley on esse = percipi. Austin had quite an attitude towards books – or published stuff in general --. And it is not sensible to expect that Austin cared to know of Warnock’s OTHER views other than those ‘in Warnock’s book’ on Berkeley!  At any rate, ‘philosophy of perception’ was something that no Oxonian pupil in philosophy could dodge. So Grice and Warnock offered their views. The material remains unpublished. There is a reference to ‘H. P. Grice’ in a paper on ‘Seeing’ by Warnock in The Aristotelian Society, though.  When Warnock became the editor of the influential Readers in Philosophy published by the Oxford University Press, he managed to get a volume on The Philosophy of Perception. And knowing Grice well, and to avoid any stress on him, rather than saying, ‘Hey – if you excuse me the Americanism – why don’t you give me some of your stuff on ‘seeing’ we’ve been working on?’, Warnock opted for a safer route. And keeping in mind this attitude Warnock seemed to share with Austin about published stuff, what Warnock did was to INCLUDE Grice’s old presentation for the Aristotelian Society – a symposium with White held at Cambridge, and chaired by Braithwaite – on ‘The Causal Theory of Perception.’ Warnock adds the introductory editorial: ‘an ingenious and resourceful contribution.’  I doubt Grice would have cared about the philosophy of perception HAD IT NOT BEEN for this friendly interaction with Warnock. “How clever language is!” Warnock quotes — in his ‘Saturday mornings’ — Grice as exclaiming, after they had been through what they called ‘the syntax of illusion’ – the topic of Buckner’s essay. ‘For it [language] made’ for them ‘distinctions but also assimilations’ just for them. The topic involves ‘seeing’ since it was their source of wonder what ‘visum’ is hardly used in English in sentences like ‘I see the visum of a cow’.   Grice would later philosophise on TACT and VISION. Tact, like Aristotle would agree, is BASIC. You hardly doubt what you touch. VISION comes second. VISION carries a METIER or function – for survival. So we perceive ‘objects’ – Grice – not having read Kant in Kant’s vernacular – is pretty free about the use of ‘object’ to mean ‘thing.’   Unlike Buckner, Grice never did the Scholastics in Latin (de re, res, realia) and Aristotle’s idiom for ‘thing’ is too pragmatic to be taken seriously: pragma.  So the idea is that if a pirot – as Grice calls, after Carnap, any human being in some state of evolution – or any other living creature in a previous state, if not one in a post-ceding state (an angel, or God) – interacts with another pirot, he is bound to say ‘That apple is red.’ Colour words are a trick. But the idea here would be ‘That apple is EDIBLE,’ not rotten. Perception then is a guide for joint survival. ‘Feel free to eat the apple.’  In the hey day of ordinary-language philosophy, Grice and Warnock were not really ‘allowed’ to go big – Grice just does by quoting Price on Perception – ‘The Causal Theory of Perception’ is a chapter in Price’s book — the only reference Grice gives in his own ‘The Causal Theory of Perception’ essay.   What Grice and Warnock, as fashions went, *were* ALLOWED to do is ‘linguistic botany’ and going through the dictionary.  It it at this point that Grice and Warnock become obsessed with the EXPRESSION of reports of perception. Warnock has one essay on ‘What is seen.’  Philosophers at this time gathered by generation, so it is a bit of surprise to find a footnote in Grice’s OTHER essay on perception, “Some remarks about the senses,” crediting O. P. Wood for a point, or two. Wood was associated with Ryle’s group, not Austin’s. But Wood states that he always enjoyed interacting with Grice! The point may refer to The Molyneaux Problem!  When it comes to the ‘vocabulary’ of the philosophy of perception then, Grice hardly goes to Aristotle. There is really no need, since English seemed rich enough for him.   Just considering ‘see,’ Grice was not just happy with his idea of the conversational implicature attached to it – besides the Mooreian entailment associated with its factiveness — but he even coined the idea of a conversational DIS-implicature for cases of … illusion.   Thus, he would say that – if we know we’ve just been to a Shakespeare play, Grice can very well say to Warnock that Hamlet saw that his [Hamlet’s, not Grice’s or Warnock’s] father was looking for trouble – ‘even if Hamlet’s father was nowhere to be seen’. Mutatis mutandis for Macbeth and Banquo – the example in Studies in the Way of Words.  Buckner is into well other issues, but I thought I’d ring the Griceian bell!  References  Austin, J. L. (1960). Philosophical papers, ed. by J. O. Urmson and G. J. Warnock. Oxford University Press.  Austin, J. L. (1962). Sense and sensibilia, reconstructed from the manuscript notes by G. J. Warnock. Oxford: Oxford University Press.  Berlin, I. Essays on Austin. Oxford: Blackwell.  Cox, J. R. Seeing, in Sibley.  Grice, H. P. (1938). Negation and privation. The H. P. Grice Papers.  Grice, H. P. (1941). Personal identity, Mind. Repr. in J. R. Perry, Personal identity, University of California Press, Berekely.  Grice, H. P. (1950). Vision. The H. P. Grice Papers.  Grice, H. P. (1961). The Causal Theory of Perception – symposium with A. R. White. The Aristotelian Society, chaired by R. B. Braithwaite. The Proceedings of the Aristotelian Society.  Grice, H. P. (1962). Some remarks about the senses, in R. J. Butler, Analytic Philosophy, repr. in Grice, WoW  Grice, H. P. (1987). A retrospective on Grice-Warnock on perception, The H. P. Grice Papers.  Grice, H. P. (1989). Studies in the way of words. Cambridge, Mass. and London: Harvard University Press.  Grice, H. P. and G. J. Warnock (1950). Seminar on the philosophy of perception, University of Oxford.  Hampshire, S. N. (1946). The New Play Group and the Old. The S. N. Hampshire Papers.  Orton, Joe (1973). What the butler saw.  Price, H. H. Perception. Oxford.  Sibley, Perception.  Warnock, G. J. (1955). Seeing. The Aristotelian Society.  Warnock, G. J. (1969). The philosophy of perception. Oxford Readings in Philosophy.  Warnock, G. J. (1983). Language and Morality. Oxford: Blackwell.Marco Tullio Cicerone. Cicerone. Keywords: Marc’Antonio, untranslatable, signans/signatum, signans, signatum. Cicerone, Cicero = Tully. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cicerone” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Ciliberto: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del principe -- il suo principato– scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese. filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I like Cilberto; he philosophised on Machiavelli – in an interesting way: confronting his ‘reason’ with the ‘irrational’; myself, I have not explored the irrational, too much – but I suppose Strawson might implicate that everything I say ON reason is an implicature on the irrational – Ciliberto uses the vernacular for the ‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi esperti del pensiero di BRUNO (si veda). Si laurea a Firenze sotto GARIN (si veda) con “MACHIAVELLO (si veda)”. “Lessico Intellettuale Europeo”. Insegna a Trieste, Pisa. Istituto di Studi sul Rinascimento, Firenze. Presidente di I. R. I. S. A. Associazione di Biblioteche Storico-Artistiche e Umanistiche di Firenze. Lince. Al centro della sua filosofia sono tre problemi: il rinascimento con speciale attenzione a Bruno e Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica, no-continntale, ma la ‘tradizione italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile, Cantimori, Garin); e la filosofia politica e in maniera specifica la crisi della democrazia rappresentativa.  Altre opere: “Il rinascimento. Storia di un dibattito” (Firenze, La Nuova Italia); “Intellettuali e fascismo” (Bari, De Donato); “Lessico di Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo et Bizzarri); “Come lavora Gramsci. Varianti vichiane, Livorno); “Filosofia e politica nel Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato); “La ruota del tempo. Interpretazione di Bruno, Roma, Editori Riuniti); Bruno, Roma-Bari, Laterza); Bruno, Roma-Bari, Laterza); “Umbra profunda” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Implicatura in chiaroscuro” Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il dialogo recitato” “Preliminari a una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze, Olschki); “La morte di Atteone”(Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “I contrari”; “Disincanto e utopia nel Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); Il teatro della vita (Milano, Mondadori); Il laico Il libero dell'Italia moderna, Roma-Bari, Laterza); Democrazia dispotica – etimologia di dispotismo – (Roma-Bari, Laterza); Intellettuale nel Novecento, Roma-Bari, Laterza), Parola, immagine, concetto (Edizioni della Normale, Pisa); Croce e Gentile La cultura italiana e l'Europa, (direzione) Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani,. Rinascimento, Pisa, Edizioni della Normale; Il nuovo Umanesimo, neo-classicismo, neo-umanesimo, classicism, neo-classicismo come ironia (Roma-Bari, Laterza); Pazzia e ragione (Roma-Bari, Laterza); Il sapiente furore (Collana gli Adelphi, Milano, Adelphi) C., Lessico di BRUNO (si veda).  Preludio a MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda)  Mre a dh e im h ol Un TT ‘i 0 annunciato da Imola  dalle legioni   chiavelli ‘Tri T n J | d0n ° d ‘- Una Spada COn inciso U motto di Ma ’  1 Cum parole non si mantengono li Stati. Ciò troncò gli   ndugi e determino senz altro la scelta del tema che oggi sottopongo ? 0tre !, chi 7 an ?f l0 Commento dell’anno 1924 Il  Principe di MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda), al libro che io vorrei cHamare Vade   ZldlZtfìl U °™° dt g0 u m0 * Debbo inoltre ' P er debito di °nestà  Slfia ’ a . 8glU f? e ? e cbe ? uesto mio Wo ha una scarsa biblio-  ftreTdJI VCdra 3 r 8UÌt0 f H ° rilett ° attentame nte il Principe   loe7olnf Z P ? e dd 8rande S, e8r f tari °’ ma mi è mancat0 tem -   po e voionta per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel  Ma chiavelli.Ho voluto mettere il minor numero possi-  velh ^ mt0rmedlari vecchl e nn °vi, italiani e stranieri, tra il Machia-  dottrin, e’l^ non.8 uastare la di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di   n0mmi, e f° Se ’ 3 SU f C k mia pratica di governo. Quella che mi  )t0,\ le Z 8e ™ no « f quindi una fredda dissertazione scolastica  irta di citaziom altrui, è piuttosto un dramma, se può considerarsi  come io credo, m un certo senso drammatico il tentativo di gettare   NorL d te^fo: abisso deUe genera2ioni ° ^ cveuti   La domanda si pone: a quattro secoli di distanza che cosa c’è an-  cora di vivo nel Prmcipe? I consigli di MACHIAVELLI potrebbero ave-   * Da Gerarchia,  I,i. •>\fruzione del regime  i. iniit t|ualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? II  tl.iic del sistema politico del Principe è circoscritto all’epoca in   > 111 1 11 scritto il saggio, quindi necessariamente limitato e in parte   > I.luco, o non è invece universale e attuale? Specialmente attuale? I i inin tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina  • li MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda) è viva oggi piu di quattro secoli fa, poiché se gli  nnpctti esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non si  h i(io vcrificate profonde varia^ioni nello spirito degli individui e dei  itopoli. ln politica è l’arte di governare gli uomini, cioè di orientare, uti-  li znre, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in  < nin di scopi d’ordine generale che trascendono quasi sempre la  i'iin individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è la poli-  lioi, non v’è dubbio che l’elemento fondamentale di essa arte, è  l’iiomo. Di qui bisogna partire. Che cosa sono gli uomini nel siste-  inn politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uominl? E egli ottimista o pessimista? E dicendo uomini dobbiamo  Inlcrpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli  Ilnliani che Machiavelli conosceva e pesava come suoi contempora-  nci o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o  pcr dirla in gergo acquisito sotto la specie della eternità? Mi pare  ilic prima di procedere a un piu analitico esame del sistema di po-  lllica machiavellica, così come ci appare condensato nel Principe,  oecorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare. Orbene,  t|iicl che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del  Vrincipe, è l’acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della  nntura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di  continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli è uno  Kpregiatore degli uomini e ama presentarceli, come verrò fra poco  documentando, nei loro aspetti piu negativi e mortificanti.   (,li uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, piu affezionati alle cose  chc al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni. Nel Principe, Machiavelli così si esprime: perrché delli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili.imulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno e mentre fai loro bene,  ->uno tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi,.piando el bisogno è discosto, ma quando ti si appressa, e’ si rivoltano... E quel  l>rincipe che si è tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre prepa-  rn/ioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia  mnnre, che uno che si faccia temere, perché l’Amore è tenuto da uno vincolo di  obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità  (• rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie  quanto segue. Gli uomini si dolgono piu di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o  padre che fosse loro morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba  mai. La ragione ò pronta; perche ognuno sa che per la mutazione di uno stato,  uno fratello non può risuscitare, ma e’ può bene riavere il suo podere.  E al capitolo terzo dei Discorsi. Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e come ne è prenia  di esempii ogni storia, è necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi  in quella, presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che li abbiano sempre a  usare la malignità dell’animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione. Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà  abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusione  e di disordine. Le citazioni potrebbero continuare, ma non è necessario. I brani  riportati sono sufficienti per dimostrare cbe il giudizio negativo su-  gli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale bisogna  tener conto, per seguire tutti i successivi sviluppi dei pensiero di  Machiavelli. È anche evidente che il Machiavelli, giudicando come  giudicava gl’uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini ma agl’uomini senza limitazione di spazio e di tempi tempo ne e passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei  simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il  giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non  si illude e non illude il Principe. L’antitesi fra Principe e POPOLO,  fra STATO e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico  scaturisce logicamente da questa posizione iniziale. La parola principe deve intendersi come STATO. Nel concetto di Machiavelli il principe è lo stato. Mentre gl’individui tendono, sospinti dai loro  egoismi, all’atonismo sociale, LO STATO rappresenta una organizzazione e una limitazione. L’individuo tende a evadere continuamente.  Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare  la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi [nelle parole di Urmson – H. P. Grice] — che sacrificano il  proprio io sull’altare dello STATO. Tutti gl’altri sono in istato di rivolta potenziale contro LO STATO. Le rivoluzioni hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di  ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come   hii.i enianazione della libera volontà del POPOLO. C’è una finzione.• tma illusione di piu. Prima di tutto IL POPOLO non è mai definito.   I una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa  iltivc cominci esattamente, né dove finisca. L’aggettivo di sovrano  applicato a popolo è una tragica burla. II POPOLO tutto al piu, DELEGA, ma non può certo ESERCITARE SOVRANITÀ alcuna. I sistemi rapprenntativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche  nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e  secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda piu nulla al POPOLO, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappnno le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi normali — e gli si ordina senz’altro o di accettare una rivoluzione o  una pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. Al POPOLO non  resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che  la sovranità elargita graziosamente al POPOLO gli viene sottratta nei  momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria  ainministrazione. Vi immaginate voi una guerra proclamata per referendum? II referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio. Ma quando gl’interessi supremi di un POPOLO sono in giuoco, anche i governi ultra-democratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del  POPOLO stesso. V’è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dall’Enciclopedia — che pecca, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo — il dissidio fra  forza organizzata dello STATO e il frammentarismo dei singoli e dei  gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti,  non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del mio  oramai famoso articolo Forza e consenso, Machiavelli scrive nel  Principe. Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro una  cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione.  E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono piu si possa far credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, ROMOLO non avrebbero potuto  fare osservare lungamente le loro costituzioni, se fussino stati disarmati.  IL SINGOLARE SAGGIO SU MACHIAVELLI  DI MUSSOLINI. PRELUDIO DI MUSSOLINI POI FORZA E CONSENSO + NOTA DE SANCTIS  POI UN ARTICOLO SU MACHIAVELLI DI FUSARO CON UN ARTICOLO – Pellegrino. Mangieri ED INFINE ANCHE IL TESTO INTEGRALE DE IL PRINCIPE  PREMESSA: Nell'Europa dei secc. XVI e XVII è strettamente connessa con alcuni nodi centrali della storia del pensiero politico. A parte una serie di revisioni critiche dei giudizi tradizionali fatti da dotti fiorentini nel periodo del granduca Leopoldo, un grosso contributo del movimento riformatore e una rivalutazione del grande fiorentino, lo si deve a G.M. Galanti, autore di un Elogio di MACHIAVELLI. Galanti fa propria quell'interpretazione repubblicana di Machiavelli che già era stata consacrata nell'articolo machiavelisme dell'Encyclopededie (scritto attribuito a Diderot) e nel Contratto sociale di Rousseau (Fingendo di dare lezioni ai re, egli ne ha date di importanti ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il libro dei repubblicani). Nè fu da meno il Foscolo con i suoi famosi versi in Dei sepolcri.  Contro questa interpretazione Vincenzo Cuoco, con trasparente riferimento alle condizioni dell'Italia napoleonica, mise in luce il realismo politico di Machiavelli, che aveva indicato in una monarchia o Stato forte, l'unica prospettiva di superamento delle lotte tra i partiti.  Fuori dall'Italia, Fichte e Hegel interpretavano le tesi machiavelliche come risposta a una particolare situazione storica e, al tempo stesso, vedevano nell'autore del Principe un precursore dello stato etico che doveva godere di lunga fortuna nello storicismo tedesco.  In Italia nell'età risorgimentale l'interpretazione continuò a oscillare tra la condanna dell'immoralità di Machiavelli e la sua esaltazione come profeta della riscossa nazionale.  Il superamento di tali posizioni si possono considerare le pagine appassionate di Sanctis (saggio che fra breve riporteremo qui integralmente - e che come diremo più avanti fu poi molto (pretestuosamente) utile a Mussolini - leggendolo capiremo perchè).  A De Sanctis, Machiavelli appariva non solo come il profeta dell'idea di nazione ma come fondatore dei tempi moderni, come interprete lucido e impietoso della crisi degli istituti e delle concezioni medievali, e autore di una rivoluzione copernicana nelle considerazioni dell'uomo, che ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi. Poi anche per Benedetto Croce scrisse che l'autore del Principe è lo scopritore della politica come attività autonoma dello spirito.   Entrammo poi nel Ventennio fascista e qui una facile strumentalizzazione di Machiavelli e del suo mito fu fatta da Mussolini che prima un suo articolo lo scrive su Gerarchia, poi cura a prefazione (che chiama PRELUDIO) di una edizione del Principe, adornandola opportunisticamente con il saggio - citato sopra – di Sanctis).  In queste pagine su MACHIAVELLI, è piuttosto singolare che per fornire una comprensione al machiavellismo, andiamo a scomodare MUSSOLINI. Ma singolare non lo è affatto, perchè riusciremo a capire meglio l'opera di Machiavelli ma anche lo stesso Mussolini e il suo Fascismo. In queste tre paginette del preludio, c'è tutto il Mussolini, e c'è anche tutta l'essenza del suo fascismo. Ovvero l'idea di una educazione del POPOLO a un nuovo fascismo !! (prima ve ne sono molti di fasci, creati dai socialisti violenti, che incitano a ribellarsi con i vari scioperi i lavoratori e i contadini). Il curioso, raro e singolare libretto che possediamo lo riportiamo integralmente, perchè all'interno Mussolini fa alcune singolari affermazioni (tutte fascistiche) sulla dubbia validità del potere esercitato dalla sovranità POPOLARE, e sulla stessa utopica democrazia POPOLARE.  Per Mussolini il Principe del suo tempo è LO STATO. E LO STATO è il Principe, cioè - nei tempi moderni - che dopo aver preso il potere doveva essere Lui e solo Lui. (Siamo lontani da quando prima come anarchico poi come socialista - lui esalta il proletariato come futura classe dominante, e fa l'apologia della rivoluzione violenta indicata dalla dottrina di Hegel che presenta nella sua teoria la morte dello Stato. E nell'organizzare gli scioperi, lui è un vero e proprio fascista socialista violento, così chiamano fin dai primi fasci i socialisti violenti. ( ampie note di quei tempi sono QUI in Togliatti E nel farli gli scioperi Mussolini, prima della 1ma G.M. anche lui era un violento socialista, e anda più volte anche in galera come sovversivo. Poi improvvisamente lui diventa inter-ventista nei confronti dei suoi ex socialisti che come ANTI-inter-ventisti si opponeno a quella guerra che diceno voluta dalla più becera borghesia con nessun vataggio per IL POPOLO ANALFABETO chiamato SOLO A DARE IL SUO SANGUE. Segue la famosa rottura di Mussolini con i suoi ex socialisti, uscendo dal giornale Avanti che dirige – ed è poi perfino cacciato dal partito socialista.  Poi durante e dopo la guerra - soprattutto per come finisce il conflitto per l'Italia - lui va a fondare i suoi fasci, cercando di riunire tutti gli scontenti, gli ex soldati, i lavoratori e anche una certa nuova borghesia, che ora guardano a lui che mira a un socialismo sociale e non a quell' eterno conflitto sviluppatisi fra operai e industriali -- soprattutto nelle sciagurate Settimane Rosse. Dove o per i loro scioperi, o per le serrate degli industriali, a pagare sono gl’operai sempre più a spasso, ovviamente senza stipendi e a fare la fame.  La sovranità, al popolo - afferma Mussolini - gli viene lasciata tutto al più solo quando è innocua -- es. quando deve scegliere il luogo dove collocare la fontana del villaggio. Mentre quando gl’interessi supremi sono in gioco, anche i governi ultra-democratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo. La sovranità applicata al popolo é una loro tragica burla. Il popolo tutto al più delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. Mussolini inizia a guardare proprio alla forza, che prima è usata dagl’inconcludenti socialisti, proseguita poi in peggio anche dai nuovi comunisti. Ci vediamo in questo suo preludio su Machivelli un opportunistico utilizzo di Mussolini del principe; e come detto sopra, appoggiandosi pure al saggio Sanctis.  Abbiamo detto utilizzo, perchè Machiavelli è stato l'uomo che ha intuito una nuova forma di filosofia umana che supera la concezione dell'individuo per inserirlo nella collettività, nello STATO, il quale così diventa uno Stato etico. È evidente quindi che in tal modo lo Stato non può che far appello alla rinuncia del singolo individuo al proprio utile per l'utile generale dello stato, concezione questa che viene a giustificare tutti i mezzi utili allo Stato stesso -- es. usare la forza --  dando origine a quel mito del machiavellismo che è stato via via da alcuni esaltato, mentre da altri ritenuto infamante appunto per questo suo voler annullare la personalità del singolo uomo. Insomma Mussolini fa del Principe il suo vademecum. Sbagliando però. La sua storia è poi infatti molto diversa. Lui stesso - nel fidarsi troppo di quella gente che lo circonda - finì molto male e sbaglia proprio sul POPOLO, che alcune volte nella storia con la sua vituperata irrazionalità fa quello che vuole. E suona dunque privo d’effetto quel volerci ricordare Mussolini una massima di Machiavelli. Quando non credono più, bisogna ricorrere alla forza. È questo sì l'espediente del suo Fascismo, forse fin dalla sua nascita, ma poi è perdente. Perchè la sua forza inizia a farla con i suoi imbelli gerarchi e a dire lui solo tante parole, parole, parole, seguite da riti, proclami, dottrine, vangeli -- oltre...le pagliacciate di STARACES. Lui - in questo Preludio - cita due frasi di Machiavelli, ma non ne sa coglierne l'essenza. Cum parole non si mantengono li Stati. Quel Principe che si é tutto fondato sulle parole, trovandosi nudo, rovina --- che profezia!!! E Mussolini nudo si ritrova prima in quel famoso 25 luglio. Lui si aspetta una reazione al suo arresto. Ma fu una realtà molto amara. Ma come, dice preoccupato, mi hanno abbandonato anche i 150.000 arditi, di assoluta provata fede? Si, eccellenza, tutti uccel di bosco - anzi i loro comandanti hanno telefonato a Badoglio mettendosi e mettendoli a sua disposizione. Lo aveva abbandonato perfino suo genero: CIANO. Ma poi - perso per strada anche gli altri amici, andò ancora peggio il 27 aprile del '45, quando il popolo (o una parte di esso, irrazionalmente) nel fare quello che voleva lo appese a un distributore a Piazzale Loreto.  Non sono affatto abnormi e inutili tutti i comportamenti umani che non hanno una razionalità.. E per fortuna che ogni tanto nella grande storia dell'umanità ci sono anche queste contraddizioni. E sono del resto queste che ci distinguono dagli animali e soprattutto dal capo branco che - illudendosi - li vorrebbe guidare come belanti pecore. I meccanismi politico-sociali ed economici realistici degli Uomini, non sono uguali a quelli delle formiche, perchè altrimenti si vaneggia, e non si conoscono bene nè le formiche nè gli uomini.  L'individuo umano ha sempre rappresentato un costoso investimento di studio e di cultura, ma giacchè è possibile al potente di turno disfarsi dell'enorme vantaggio dell'istruzione e servirsi di altro materiale per organizzare lo Stato delle formiche, questo dio che si crede onnipotente, si rende responsabile di una degradazione della natura stessa dell'uomo e che se un essere umano è condannato a svolgere le funzioni limitate della formica, non soltanto cesserà di essere un uomo ma non sara' neppure una buona formica. E ancora (non sempre nell'asservimento (l'azione), la retroazione è controllabile). Questo non è il ragionamento di un filosofo, ma del Padre della Cibernetica moderna (Teorie dell'informazione): Norbert Wiener - Mussolini usa tante parole. Ma quale fortuna (Mussolini) se alle virtù oratorie avesse accompagnato la civile prudenza machiavellica !!!. Ma non dimentichiamo anche il grande Napoleone: qual fortuna per lui se alle virtù militari avesse accompagnata la civil prudenza machiavellica  Paradossalmente proprio su Napoleone, Mussolini aveva dato un impietoso giudizio: lui fallì miseramente perchè aveva creduto troppo negli uomini.  Solo lui credeva di aver capito gli uomini, credendolo suo il popolo: devono solo Credere, Obbedire, Combattere. e Quando mancasse il consenso, c'è la forza...Per tutti i provvedimenti anche i più duri che il Governo prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o accettarli per alto spirito di patriottismo o subirli. (Disc. Risposta al Ministero delle Finanze - S. e D.,  E pensare che un Mussolini più razionale aveva scritto un giorno Io grande? Io forte? Io potente? basta un titolo su un giornale e ti ritrovi nella polvere. A Piazzale Loreto andò peggio! Fu un cattivo profeta di se stesso.   * ecco qui sotto il preludio di Mussolini * subito dopo il saggio di F. De Sanctis (datato ma ancora molto attuale) * seguono alcune note sulla vita, le opere e il contesto storico di Machiavelli. Mussolini:  Accadde che un giorno mi fu annunciato da Imola - dalle legioni nere di Imola - il dono di una spada con inciso il motto di Machiavelli Cum parole non si mantengono li Stati. Ciò troncò gli indugi e determinò senz'altro la scelta del tema che oggi sottopongo ai vostri suffragi. Potrei chiamarlo un Commento dell'anno 1924, al Principe di Machiavelli, al libro che io vorrei chiamare: Vademecum per l'uomo di governo. Debbo inoltre, per debito di onestà intellettuale, aggiungere che questo mio lavoro ha una scarsa bibliografia, come si vedrà in seguito. Ho riletto attentamente il Principe e il resto delle opere del grande Segretario, ma mi è mancato tempo e volontà per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel mondo su Machiavelli. Ho voluto mettere il minor numero possibile di intermediari vecchi o nuovi, italiani e stranieri, tra il Machiavelli e me, per non guastare la presa di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di uomini e cose, fra la sua e la mia pratica di governo.   Quella che mi onoro di leggervi non é quindi una fredda dissertazione scolastica, irta di citazioni altrui, é piuttosto un dramma, se può considerarsi, come io credo, in un certo senso drammatico il tentativo di gettare il ponte dello spirito sull'abisso delle generazioni e degli eventi. Non dirò nulla di nuovo.  La domanda si pone: A quattro secoli di distanza che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I consigli del Machiavelli potrebbero avere una qualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? Il valore del sistema politico del Principe é circoscritto all'epoca in cui fu scritto il volume, quindi necessariamente limitato e in parte caduco, o non é invece universale e attuale? Specialmente attuale? La mia tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina di Machiavelli é viva oggi più di quattro secoli fa, poiché se gli aspetti esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non si sono verificate profonde le variazioni nello spirito degli individui e dei popoli.  Se la politica é l'arte di governare gli uomini, cioè di orientare, utilizzare, educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi d'ordine generale che trascendono quasi sempre la vita individuale perché si proiettano nel futuro, se questa è la politica, non v'è dubbio che l'elemento fondamentale di essa arte, é l'uomo. Di qui bisogna partire.  Che cosa sono gli uomini nel sistema politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli degli uomini? È egli ottimista o pessimista? E dicendo uomini  dobbiamo interpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli italiani che Machiavelli conosceva e pensava come suoi contemporanei o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello spazio o per dirla in gergo acquisito sotto la specie della eternità ?  Mi pare che prima di procedere a un più analitico esame del sistema di politica machiavellica, così come ci appare condensato nel Principe, occorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare.   Orbene, quel che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del Principe, é l'acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della natura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli é uno spregiatore degli uomini e ama presentarceli - come verrò fra poco documentando - nei loro aspetti più negativi e mortificanti.  Gli uomini, secondo Machiavelli, sono tristi, più affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così si esprime: Perchè delli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno e mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi quando el bisogno é discosto, ma quando ti si appressa, e' (essi) si rivoltano... E quel principe che si é tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia temere, perché l'Amore é tenuto da un vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità é rotto, ma il timore é tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Per quanto concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue: Gli uomini si dolgono più di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione é pronta, perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello non può risuscitare, ma e' (egli) può bene riavere il suo podere.   E al Capitolo III dei Discorsi: Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e come ne é prenia di esempi ogni storia, é necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini essere cattivi e che li abbino sempre a usare la malignità dell'animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini non operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusioni e di disordine. Le citazioni potrebbero continuare, ma !ion é necessario. I brani riportati sono sufficienti per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire tutti i successivi sviluppi del pensiero di Machiavelli.  E' anche evidente che il Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di tempo. Di tempo ne é passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di Machiavelli.   Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo é nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione iniziale.   La parola Principe deve intendersi come Stato. Nel concetto di Machiavelli il Principe é lo Stato. Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi, all'atonismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione e una limitazione. L'individuo tende a evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra.   Pochi sono coloro -eroi o santi - che sacrificano il proprio io sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta potenziale contro lo Stato. Le Rivoluzioni dei secoli XVII eXVIII hanno tentato di risolvere questo dissidio che é alla base di ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del popolo.  C'é una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo non fu mai definito. E' una entità meramente astratta, come entità politica. Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano applicato al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna.   I sistemi rappresentativi appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacce delle sovranità - buone per i tempi normali - e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l'ignoto di una guerra.   Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o é reputata tale, cioè nei momenti diordinaria amministrazione.   Vi immaginate voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in gioco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso. V'è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dalla Enciclopedia - che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo - il dissidio fra forza organizzata dello Stato e frammentarismo dei singoli e dei gruppi.  Regimi esclusivamente consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai.   Ben prima del mio ormai famoso articolo Forza e consenso (vedi subito sotto) Machiavelli scriveva nel Principe, pagina 32: Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché la natura dei popoli é varia ed é facile persuadere loro una cosa, ma é difficile fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che quando non credono più, si possa far credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare lungamente le loro costituzioni, se lussino (fossero) stati disarmati.  POCHI MESI PRIMA DI QUESTO ARTICOLO SU MACHIAVELLI E SEMPRE SU GERARCHIA MUSSOLINI NEL '23 L'ARTICOLO FORZA E CONSENSO E MERITA DI LEGGERE ANCHE QUESTO ACCENNO CHE LUI FA SU MACHIAVELLI   Mussolini, da Gerarchia. Forza e consenso. Certo liberalismo italiano, che si ritiene unico depositario degli autentici, immortali principi, rassomiglia straordinariamente al socialismo mezzo defunto, poiché anche esso, come quest'ultimo, crede di possedere scientificamente una verità indiscutibile, buona per tutti i tempi, luoghi e situazioni. Qui é l'assurdo. Il liberalismo non é l'ultima parola, non rappresenta la definitiva formula, in tema di arte di governo. Non c'è in quest'arte difficile e delicata, che lavora la piú refrattaria delle materie e in stato di movimento, poiché lavora sui vivi e non sui morti; non c'è nell'arte politica l'unità aristotelica del tempo, del luogo, dell'azione.   Gli uomini sono stati piú o meno fortunatamente governati, in mille modi diversi. Il liberalismo é il portato e il metodo del XIX secolo, che non é stupido, come opina Daudet, poiché non ci sono secoli stupidi o secoli intelligenti, ma ci sono intelligenza e stupidità alternata, in maggiori o minori proporzioni, in ogni secolo.  Non é detto che il liberalismo, metodo di governo, buono per il secolo XIX, per un secolo, cioè, dominato da due fenomeni essenziali come lo sviluppo del capitalismo e l'affermarsi del sentimento di nazionalità, debba necessariamente essere adatto al secolo XX, che si annuncia già con caratteri assai diversi da quelli che individuarono il secolo precedente. Il fatto vale piú del libro; l'esperienza piú della dottrina.  Ora le piú grandi esperienze del dopoguerra, quelle che sono in stato di movimento sotto i nostri occhi, segnano la sconfitta del liberalismo. In Russia e in Italia si é dimostrato che si può governare al di fuori, al disopra e contro tutta la ideologia liberale.  Il comunismo e il fascismo sono al di fuori del liberalismo.  Ma insomma, in che cosa consiste questo liberalismo per il quale piú o meno obliquamente si infiammano oggi tutti i nemici del fascismo? Significa il Liberalismo suffragio universale e generi affini? Significa tenere aperta in permanenza la Camera, perché offra l'indecente spettacolo che aveva sollevato la nausea generale? Significa in nome della libertà lasciare ai pochi la libertà di uccidere la libertà di tutti?  Significa fare largo a coloro che dichiarano la loro ostilità allo Stato e lavorano attivamente per demolirlo?  E' questo il liberalismo?  Ebbene, se questo è il liberalismo, esso é una teoria e una pratica di abiezione e di rovina. La libertà non é un fine; è un mezzo. Come mezzo deve essere controllato e dominato.   Qui cade il discorso della forza. I signori liberali sono pregati di dirmi se mai nella storia vi fu governo che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e rinunciasse a qualsiasi impiego della forza. Un governo siffatto non c'è mai stato, non ci sarà mai. Il consenso é mutevole come le formazioni della sabbia in riva al mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale. Nessun governo é mai esistito che abbia reso felici tutti i suoi governati. Qualunque soluzione vi accada di dare a qualsiasi problema, voi - e foste anche partecipi della saggezza divina! - creerete inevitabilmente una categoria di malcontenti. Se finora non c'è arrivata la geometria, la politica meno ancora é riuscita a quadrare il circolo.   Posto come assiomatico che qualsiasi provvedimento di governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo malcontento dilaghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo eviterete colla forza. Coll'impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza - e si intende forza fisica, forza armata - e lasciategli soltanto i suoi immortali principi, e quel Governo sarà alla mercé del primo gruppo organizzato e deciso ad abbatterlo.  Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali. Quando un gruppo o un partito é al potere, esso ha l'obbligo di fortificarvisi e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque non li abbia bendati dal dogmatismo, é che gli uomini sono forse stanchi di libertà.  Ne hanno fatto un'orgia. La libertà non é oggi piú la vergine casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia, disciplina.   Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e battagliando per una piú grande libertà, è singolarmente in ritardo. È completamente al di fuori di ogni comprensione e possibilità. Si parla di semi che ritroveranno la primavera. Facezie! Certi semi muoiono sotto la coltre invernale.   Il fascismo, che non ha temuto di chiamarsi reazionario quando molti dei liberali odierni erano proni davanti alla bestia trionfante, non ha oggi ritegno alcuno di dichiararsi illiberale e antiliberale. Il fascismo non cade vittima di certi trucchi dozzinali.  Si sappia dunque, una volta per tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul corpo piú o meno decomposto della Dea Libertà.  Benito Mussolini, da Gerarchia. SAGGIO DI DESANCTIS  CHE MUSSOLINI VOLLE INCLUDERE scrivendo la nuova edizione de IL PRINCIPE Testo integrale originale (che è comunque un ottimo saggio, proprio utile per capire il ns. passato)  DE SANCTIS: Dicesi che Machiavelli fosse in Roma quando, il 1515, uscì in luce l'Orlando furioso. Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere dimenticato dall'Ariosto nella lunga lista, ch'egli stese nell'ultimo canto, dei poeti italiani. Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il secolo nella sua doppia faccia, ancorchè contemporanei e conoscenti, sembrano ignoti l'uno all'altro. Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una fisionomia essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de' Medici. Era un piacevolone, che se la spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello spirito arguto e beffardo che vede nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulce e in Lorenzo e nel Berni.   Poco agiato nei beni della fortuna, nel corso ordinario delle cose sarebbe riuscito un letterato fra i tanti stipendiati a Roma o a Firenze, e dello stesso stampo. Ma, caduti i Medici, restaurata la repubblica e nominato segretario, ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende, esercitò molte legazioni in Italia e fuori, acquistando esperienza degli uomini e delle cose, e si affezionò alla repubblica, per la quale non gli parve molto il sostenere le torture, poiché tornarono i Medici.  In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò le sue tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche faccende, nel suo ozio di San Casciano meditò sui fati dell'antica Roma e sulle sorti di Firenze, anzi d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non potesse mentenere le sue indipendenza se non fosse unita, tutta o gran parte, sotto un solo principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze, volesse pigliare l'imprese. Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi e trarlo di ozio e di miserie.  All'ultimo, poco e male adoperato dei Medici, finì la vita tristemente, lasciando non altra eredità ai figliuoli che il nome. Di lui fu scritto: Tanto nomini nullum par elogium.  I suoi Decennali, arida cronaca delle  fatiche d'Italia di dieci anni, scritte in quindici dì; i suoi otto capitoli dell'Asino d'oro, sotto nome di bestie satira dei degeneri fiorentini; gli altri suoi capitoli dell'Occasione, delle Fortuna, dell'Ingratitudine, dell'Ambizione; i suoi canti carnascialeschi, alcune sue stanze, o serenate, o sonetti, o canzoni, sono lavori letterari sui quali è impressa le fisionomia di quel tempo: alcuni tra il licenzioso e il beffardo, altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi. Il verso rasenta le prose; il colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni sono le immagini. Ma in questo fondo comune e sgraziato appaiono le vestigie di un nuovo essere, una profondità insolita di giudizio e di osservazione. Manca l'immaginativa: sovrabbonda lo spirito. C è il critico: non c è il poeta, non c è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e fantastica, come era Ludovico Ariosto. C è l'uomo che si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue e dell'universo con tranquillità filosofica: il suo poetare è un discorrere: Io spero, e lo sperar cresce il tormento; io piango, e il pianger ciba il lasso core;  io rido, e il rider mio non passa drento; io ardo, e l'arsion non par di fuore;  io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io sento;  ogni cosa mi dà nuovo dolore:  così sperando piango, rido e ardo,  e paura ho di ciò ch'i' odo o guardo. Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose mondane nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso, come nei Decennali: la voce d'un Cappon tra cento Galli,.....e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto De' diavoli o de' romiti. Il suo capolavoro è il capitolo dell'Occasione, massime la chiusa, che ti colpisce d'improvviso e ti fa pensoso. Nel poeta si sente la scrittore del Principe e dei Discorsi. Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano in quella età. Talora si mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche alle confraternite, nella descrizione della peste e ne' discorsi che mette in bocca ai suoi personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa al tempo della peste, dove abbondano i lenocini della retorica e gli artifici dello stile; ciò che si chiamava eleganza. Ma nel Principe, nei Discorsi, nelle lettere, nelle Relazioni, nei Dialoghi sulla milizia, nelle Storie, Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso alle parole e ai' periodi. Dove non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla trovò la prosa italiana.  E' visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana in quel tempo. E aver pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra i principi, e che troviamo generalmente negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a Napoli, quando viveva Ferdinando d'Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il moro, e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti presso le quali dimoravano. C' era l'arte: mancava la scienza. Lorenzo era l'artista: Machiavelli doveva essere il critico. Firenze era ancora il cuore d'Italia: lì c' erano ancora i lineamenti di un popolo, c' era l'immagine della patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea ghibellina e guelfa era spenta, ma c' era invece l'idea repubblicana alla romana, effetto della coltura classica, che, fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle memorie gloriose del passato, resisteva ai Medici. L'uso della libertà e le lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo, e rendevano possibile Savonarola, Capponi, Michelangelo, Ferruccio e l'immortale resistenza agli eserciti papali-imperiali. L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore della libertà erano forze morali, tra quella corruzione medicea rese ancora più acute e vivaci dal contrasto. Machiavelli, per la sua coltura letteraria, per la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna religione, e perciò le accetta tutte, e, magnificando la morale in astratto, vi passa sopra nella pratica della vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e solitari. E la sua coscienza non è vuota. C è lì dentro la libertà e l'indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti del possibile. E quando vide perduta la libertà, pensò all'indipendenza e cercò negli stessi Medici lo strumento della salvezza. Certo, anche questa era un'utopia o una illusione, un'ultima tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio; ma un'utopia che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità della sua fede.   Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più esatto sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua coscienza era già vuota e petrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta ai posteri simpatica e circondata di una aureola poetica per la forte tempra e la sincerità del patriottismo e l'elevatezza del linguaggio, e per quella sua aria di virilità e di dignità fra tanta folla di letterati venderecci. La sua influenza non fu pari al suo merito. Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe oggi, più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà, la vita scorretta, le abitudini plebee e fuori della regola, come gli rimproverava il correttissimo Guicciardini, non gli aumentavano reputazione. Consapevole della sua grandezza, disprezzava quelle esteriorità delle forme e quei mezzi artificiali di farsi via nel mondo, che sono sì familiari e sì facili ai mediocri. Ma la sua influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua fama si è ita sempre ingrandendo tra gli odii degli uni e le glorificazioni degli altri. Il suo nome è rimasto la bandiera intorno alla quale hanno battagliato le nuove generazioni, nel loro contraddittorio movimento ora indietro ora innanzi. C è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gettato nell'ombra le altre sue opere. L'autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machiavellismo questa dottrina.  Molte difese si sono fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito.  Questa critica non è che una pedanteria. Ed è anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica, oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e cercarvi i fondamenti della sua grandezza. Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che, nella sua spontaneità, dal Petrarca e dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del Cinquecento. In lui comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la riflessione della vita. Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi piglia parte, ne ha le passioni e le tendenze. Ma, passato il momento dell'azione, ridotto in solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di staccarsi dalla sua società e interrogarla: - Cosa sei? dove vai? -  L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava l'Europa con l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le Alpi. Il suo modello era il mondo greco e romano, che si studiava di assimilarsi. Sovrastava per coltura, per industrie, per ricchezze, per opere d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato intellettivo in Europa.   Grave fu lo sgomento negl'italiani quando ebbero gli stranieri in casa; ma vi si abituarono e trescarono con quelli, confidando di cacciarli via tutti con la superiorità dell'ingegno. Spettacolo pieno di ammaestramento è vedere, tra lanzi, svizzeri, tedeschi e francesi e spagnoli, l'alto e spensierato riso di letterati, artisti, latinisti, novellieri e buffoni nelle eleganti corti italiane. Fin nei campi i sonettisti assediavano i principi: Giovanni de' Medici cadeva tra i lazzi di Pietro Aretino.  Gli stranieri guardavano attoniti le meraviglie di Firenze, di Venezia, di Roma e tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi regalavano e corteggiavano i letterati, che con la stessa indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo quinto. L'Italia era inchinata e studiata dai suoi devastatori, come la Grecia fu dai romani.  Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la malattia dove altri vedevano la più prospera salute. Quello che oggi diciamo  decadenza  egli disse  corruttela, e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto: la corruttela della razza italiana, anzi latina, e la sanità della germanica. La forma più grossolana di questa corruttela era la licenza de' costumi e del linguaggio, massime nel clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di Caterina, ed ora messa in mostra nei dipinti e negli scritti, penetrata in tutte le classi della società e in tutte le forme della letteratura, divenuta come una salsa piccante che dava sapore alla vita.  La licenza, accompagnata con l'empietà e l'incredulità, aveva a suo principal centro la corte romana, protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla separazione Lutero e i suoi concittadini.  Nondimeno il clero per abito tradizionale tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il pensiero non era più la parola, e la parola non era più l'azione; non c'era armonia nella vita. In questa disarmonia era il principale motivo comico del Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli. Nessun italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, ai cui allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E nessuno poteva, non desiderare una riforma de' costumi, una restaurazione della coscienza. Sentimenti e desideri vani, affogati nel rumore di quei baccanali. Non c' era il tempo di piegarsi in sé, di considerare la vita seriamente. Pure erano sentimenti e desideri che più tardi fruttificarono e agevolarono l'opera del concilio di Trento e la reazione cattolica.  Rifare il medioevo e ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una ristaurazione religiosa e morale, era stato il concetto di Geronimo Savonarola, ripreso poi e purgato nel concilio di Trento. Era il concetto più accessibile alle moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a' loro mali nel passato. Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto. Essa era non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella coscienza, vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che pensasse di ricondurre indietro l'Italia e di restaurare. il medio evo, concorse alla sua demolizione.  L'altro mondo, la cavalleria, l'amore platonico sono i tre concetti fondamentali, intorno ai quali si aggira la letteratura nel medio evo, de' quali la nuova letteratura è la parodia più o meno consapevole.  Anche nella faccia del Machiavelli sorprendi un momento ironico quando parla del medio evo, sopratutto allora che affetta maggior serietà. La misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua opera demolitiva è visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il suo Belfegor è della stessa razza dalla quale era uscito Astarotte. Ma la sua negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza vuota. In quella negazione c'è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente. Papato e impero, guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni sono demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto un nuovo edificio sociale e politico.  Le idee che generarono quelle istituzioni sono morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza, rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana. Questo popolo non si può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a questo che attende Machiavelli. Con una mano distrugge, con l'altra edifica. Da lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la ricostruzione.  Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare. Basti qui accennare la idea fondamentale. Il medio evo riposa sopra questa base: che il peccato è attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, e la virtù è negazione della vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa vita non è la realtà o la verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non quello che è, ma quello che deve essere, e perciò il suo vero contenuto è l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio, il paradiso, il mondo conforme alla verità e alla giustizia. Da questo concetto della vita, teologico-etico, uscì la Divina commedia e tutta la letteratura del Duecento e del Trecento.  Il simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La realtà terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo, l'amore è un simbolo. E l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o nelle universali, forze estramondane, che sono la maggiore del sillogismo, l'universale da cui esce il particolare. Tutto questo, forma e concetto, era già dal Boccaccio in qua negato, caricato, parodiato, materia di sollazzo e di passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e licenziosa, che aveva a base la glorificazione della carne o del peccato, la voluttà, l'epicureismo, reazione all'ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e poeti, tutti visionari: conclusione geniale della Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo della luna ariostesco. In teoria c' era una piena indifferenza, e in pratica una piena licenza. Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa licenza nella vita e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di erudizione. Di speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di enunciazioni scolastiche e teologiche. E, a ogni modo, non se ne cura. Il suo spirito è tutto nella vita pratica.  Nelle scienze naturali non sembra sia molto avanti, quando vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle stelle. Battista Alberti avea certo una coltura più vasta e più compiuta. Niccolò non è filosofo della natura: è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno oltrepassa l'argomento e prepara Galileo. L'uomo, come Machiavelli lo concepisce, non ha la faccia estatica e contemplativa del medio evo e non ha la faccia tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo che opera e lavora intorno ad uno scopo. Ciascun uomo ha la sua missione su questa terra, secondo le sue attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione e non è contemplazione. Non è teologia e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi.   Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo, rifare la coscienza, ricreare le forze interiori, restituire l'uomo nella sua serietà e nella sua attività : questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli. E' negazione del medio evo, e insieme negazione del Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa così poco come la contemplazione artistica. La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non tali però che debbano e possano costituire lo scopo della vita.  Combatte l'immaginazione come il nemico più pericoloso, e quel veder le cose in immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la malattia che si ha da curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicar le cose come sono e non come debbono essere.  Quel dover essere, a cui tende il contenuto nel medio evo e la forma nel Risorgimento, deve far luogo all'  essere  o, com'egli dice, alla verità  effettuale. Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e come arte, al mondo reale, quale ci è posto dall'esperienza e dall'osservazione: questa è la base del Machiavelli. Risecati tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali, pone a fondamento della vita la patria. La missione dell'uomo su questa terra, il suo primo dovere è il patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertà della patria. Nel medio evo non c' era il concetto di patria: c' era il concetto di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore, rappresentanti di Dio: l'uno era lo spirito, l'altro il corpo della società. Intorno a questi due  Soli  stavano gli astri minori: re, principi, duchi, baroni, a cui stavano di contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era privilegio papale e imperiale, e i comuni esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e perciò del papa o dell'imperatore, e spesso imploravano legati apostolici o imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò re di Firenze Gesù Cristo, ben inteso lasciando a sè il diritto di rappresentarlo e interpretarlo. E' un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo.  C'era ancora il papa e c'era l'imperatore; ma l'opinione, sulla quale si fondava la loro potenza, non c'era più nelle classi colte d'Italia. Il papa stesso e l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio: il papa ingrandito di territorio, diminuito di autorità; l'imperatore, debole e impacciato a casa. Di papato e d'impero, di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per riderne, a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di quel mondo rimanevano avanzi, in Italia, il papa, i gentiluomini e gli avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un sistema di governo assurdo e ignobile, ma il principale pericolo dell'Italia. Combatte il concetto di un governo stretto, e tratta assai aspramente i gentiluomini, reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o avventurieri la prima cagione della debolezza italiana incontro allo straniero, e propone e svolge largamente il concetto di una milizia nazionale. Nel papato temporale, nei gentiluomini, negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo. La patria del Machiavelli è naturalmente il Comune libero, libero per sua virtù e non per grazia del papa e dell'imperatore, governo di tutti nell'interesse di tutti. Ma, osservatore sagace, non gli può sfuggire il fenomeno storico de' grandi Stati che si erano formati in Europa, e come il Comune era destinato anch'esso a sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo Comune gli par cosa troppo piccola e non possibile a durare davanti a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano Stati o Nazioni.  Già Lorenzo, mosso dallo stesso pensiero, avea tentato una grande lega italica, che assicurasse l'  equilibrio  tra i vari Stati e la mutua difesa, e che pure non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo ottavo.  Niccolò propone addirittura la costituzione di un grande Stato italiano, che sia baluardo d'Italia contro lo straniero. Il concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca è il giardino dell'impero; nell'utopia del Machiavelli è la  patria, nazione autonoma e indipendente.  La  patria  del Machiavelli è una divinità, superiore anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata sono delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. Ragion di Stato e salute pubblica erano le formule volgari, nelle quali si esprimeva questo diritto della patria, superiore ad ogni diritto. La divinità era scesa di cielo in terra e si chiamava la  patria, ed era non meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era suprema lex. Era sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi la servitù.  Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della libertà. L'uomo non era un essere autonomo e di fine a se stesso: era lo strumento della patria o, ciò che è peggio, dello Stato: parola generica, sotto la quale si comprendeva ogni specie di governo, anche il dispotico, fondato sull'arbitrio di uno solo.   PATRIA era dove tutti concorrevano più o meno al governo e, se tutti ubbidivano, tutti comandavano: ciò dicevasi repubblica. E dicevasi principato dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma, repubblica o principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo assorbito nella società o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato.  Queste idee sono enunciate dal Machiavelli non come da lui trovate e analizzate, ma come già per lunga tradizione ammesse e fortificate dalla coltura classica. C è lì dentro lo spirito dell'antica Roma, che con la sua immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non solo nell'arte e nella letteratura, ma ancora nello Stato. La patria assorbe anche una religione. Uno Stato non può vivere senza una religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana, non è solo perchè a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri, ma ancora perché coi suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel popolo l'autorità della religione.   Ma egli vuole una religione di Stato, che sia in mano del principe un mezzo di governo. Della religione si era perduto il senso, ed era arte presso i letterati e istrumento politico negli statisti. Anche la moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza, l'osservanza della fede, la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non come istrumenti ma come ostacoli, li spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre virtù de' buoni principi; ma c è un po' odore di rettorica, che spicca più in quel fondo ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi contemporanei un sentimento religioso e morale schietto e semplice. Noi, che vediamo le cose di lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla teocrazia e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta era ancor viva, e 'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le esagerazioni, ciò che esce dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile, che ha la sua legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non c è alcun vestigio di diritto divino. Il fondamento delle repubbliche è vox populi, il consenso di tutti. E il fondamento de' principati è la forza, o la conquista legittima assicurata dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa c'entra pure, ma come forze atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi. Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che hanno  disarmato il cielo ed effeminato il mondo  e che rendono l'uomo più atto a  sopportare le ingiurie che a vendicarle.  Agere et pati fortia romanum est.  Il cattolicesimo, male interpretato, rende l'uomo più atto a patire che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza della patria.  La virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa  forza,  energia, che renda gli uomini atti ai grandi sacrifici e alle grandi imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne' singolari incontri riescono spesso vittoriosì: manca l'educazione o la disciplina o, come egli dice,  i buoni ordini e le buone armi, che fanno gagliardi e liberi i popoli. Alla virtù premio è la gloria. Patria,  virtù,  gloria, sono le tre parole sacre, la triplice base di questo mondo. Come gl'individui hanno la loro missione in terra, così anche le nazioni. Gl'individui senza patria, senza virtù, senza gloria sono atomi perduti, numerus fruges consumere nati. E parimente ci sono nazioni oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè nel mondo. Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio nell'umanità o, come dicevasi allora, nel  genere umano, come Assiria, Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la tempra, gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza morale. Ma, come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando le idee che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si fiacca. E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e' passa ad altre nazioni. Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano, che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non è la provvidenza e non è la fortuna, ma la  forza delle cose, determinata dalle leggi dello spirito e della na tura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed immortale nella sua produzione. Perciò la storia non è accozzamento di fatti fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di effetti, il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e dagl'interessi degli uomini. La politica o l'arte del governare ha per suo campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini.  La grandezza e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le muovono. E quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono. E a governare, quelli che stanno solo a fare i leoni, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe o la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che muovono gli Stati. Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro, diritti e doveri. E come c è un diritto privato, così c è un diritto pubblico o diritto delle genti, o, come dicesi oggi, diritto internazionale. Anche la guerra ha le sue leggi. Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai. Eternamente giovane; passa da una nazione a un'altra, e continua secondo le sue leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale o logica, determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò che poi fu detto  filosofia della storia. Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non c è nel Machiavelli che la semplice base scientifica, un punto di partenza segnato con chiarezza e indicato a' suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e la storia.  Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i poetici, suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel grande movimento, sotto forme classiche realista, ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici, e la conoscenza e il possesso di se stesso. E ai contemporanei non parvero nuovi nè audaci, vedendo ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago. L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo: anche in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesare; e qui è Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della repubblica  miracoli della provvidenza, come preparazione all'impero: dove per il Machiavelli non ci sono miracoli, o i miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà principalmente alla virtù. Di lui è questo motto profondo:  I buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. Il classicismo dunque era la semplice scorza, sotto alla quale le due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di Dante c'è il misticismo, il ghibellinismo: la corteccia è c lassica, il nocciolo è medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli c' è lo spirito moderno che ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quando biasima i suoi tempi, dove  non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia vituperio, e non vi è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono maculati di ogni ragione bruttura.   Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi, e in molte proposte e in molte sentenze senti le vestigia di quell'antica sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio, in quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del Risorgimento, con quel suo risolino equivoco.  Savonarola è una reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale tra uguali, che ti parla alla buona e al naturale. E' in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de' tempi moderni.  Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi: religiosa, morale, politica, intellettuale. E non è solo negazione vuota. E' affermazione, è il verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un' affermazione. Non è la caduta del mondo: è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e l'indipendenza dello Stato. Tra l'impero e la città o il feudo, le due unità politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la nazione, alla quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi; la razza, la lingua, la storia, i confini.   Tra le repubbliche e i principati spunta già una specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli altri e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità: governo che è un presentimento dei nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in Firenze. E' tutto un nuovo mondo politico che appare. Si veda, fra l'altro, dove il Machiavelli parla della formazione de' grandi Stati, e sopratutto della Francia. Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla religione ogni temporalità e, come Dante, combatte la confusione de' due reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la profondità dell'ironia.   La religione, ricondotta nella sua sfera spirituale, è da lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione, come strumento di grandezza nazionale. E' in fondo l'idea di una Chiesa nazionale, dipendente dallo Stato e accomodata ai fini e agli interessi della nazione. Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia : non è la vita contemplativa, ma la vita attiva.  E perciò la virtù è per lui la vita attiva, vita di azione e in servizio della patria. I suoi santi sono più simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O, per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota. E si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli non combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e, quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. E' il famoso cogito, nel quale s'inizia la scienza moderna.   E' l'uomo emancipato dal mondo soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la sua indipendenza e prende possesso del mondo. E si rinnova il metodo. Il Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi astratti, e non riconosce autorità di nessuno come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di etica fa stima uguale: mondi d'immaginazione, fuori della realtà. La verità è la cosa effettuale; e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti.  Tutto il formolario scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte dell'intelletto, incardinate nella pretesa esistenza degli universali, sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni generali, le  maggiori  del sillogismo, sono capovolte, e compaiono in ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo del sillogismo hai la serie, cioè a dire concatenazione di fatti, che sono insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio: Avendo la città di Firenze... perduta parte di terre del suo imperio, come Pisa e altre terre, fu necessitata a fare guerra a coloro che le occupavano, e perché chi le occupava era potente, ne seguiva che si spendeva molto nella guerra senza alcun risultato: dallo spendere molto ne risultava molte imposte, imposte infinite, insofferenze del popolo; e poichè questa guerra era amministrata da una magistratura di dieci cittadini... la moltitudine cominciò ad arrabbiarsi con loro come se fossero cagione e della guerra e delle spese di essa. Qui i fatti sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo intelligente; l'altra semplicissima, che ti dà la causa apparente e superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte l'universale, con una serietà ed una sicurezza che rende profondamente ironica la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella natura e nell'uomo : non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha il suo ufficio in tutta la catena: il fatto non è solo fatto o accidente, ma è ragione, considerazione: sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anche essi fatti intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra nulla.  Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di tutti, com'è quel  ritirare le cose ai loro princìpi, o quell'ironia de'  profeti disarmati, o  gli uomini si stuccano del bene, e del male si affliggono, o  gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli.  Di queste sentenze o pensieri ce ne sono molte raccolte. E sono un intero arsenale, dove hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie.   Come esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e peregrina, ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi. Con la forma scolastica rovina la forma letteraria, fondata sul periodo. Ne' lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua maggiore e dalle sue idee medie: ciò che dicevasi dimostrazione, se la materia era intellettuale, o  descrizione, se la materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà semplici proposizioni, ripudiato ogni corteggio: non descrive e non dimostra; narra o enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa come forma; e fa questo nel secolo della forma, la sola divinità riconosciuta.   Appunto perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è tutto e la forma è nulla. O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole o morale o bella, ma che la sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è inutile cercare se possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e perciò del sapere, è il  Nosce te ipsum, la conoscenza del mondo nella sua realtà.  Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare sono frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo motto è:  Nil admirari. Non si meraviglia e non si appassiona, perchè comprende; come non dimostra e non descrive, perchè vede e tocca. Investe la cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni, le argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi e gli ornamenti, come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via più breve, e perciò la diritta: non si distrae e non distrae.   Ti dà una serie stretta e rapida di proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti e tutti gli episodi. Ha l'aria del pretore, che non curat de minimis, di un uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo nè voglia di guardarsi attorno. Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un artificio, come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati; ma è naturale chiarezza di visione, che gli rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di cose, che non gli fa sentire necessità di riempiere gli spazi vuoti con belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli oziosi.  La sua semplicità talora è negligenza, la sua sobrietà talora è magrezza: difetti delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel nell'uovo, e gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze.  La prosa del Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna coesione vi abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto. Nella prosa del Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura, la cui espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel lusso di congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori. Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò retorica: l'animo vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno: salvo che qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel tempo, come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi.   Anche l'intelletto, in quella sua virilità oziosa, poneva la principale importanza della composizione ne' costumi e ne' modi ovvero nell'abito. Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale, un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo. I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche; i poeti petrarcheggiavano; i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e retorico, con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di tutta l'anima. C' era lo scrittore, non c' era l'uomo. E fin d'allora fu considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che dicevasi  forma letteraria, nella piena indifferenza dell'animo: divorzio compiuto tra l'uomo e lo scrittore.   Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche, comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna. Qui l'uomo è tutto, e non c è lo scrittore, o c è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova e ci riesce maestro; ed è, quando vuol fare il letterato, anche lui. L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive è - una produzione immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro: cose e impressioni, spesso condensate in una parola. Perché è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata d'ironia, di malinconia, di indignazione, di dignità, ma principalmente lei nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo, ma un marmo qua è là venato. E' la grande maniera di Dante che vive là dentro.   Parlando dei mutamenti introdotti dal medio evo nei nomi delle cose e degli uomini, finisce così: Gli uomini ancora, di Cesari e Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventarono. Qui non c è che il marmo, la cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte da quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei Cesari e Pompei il disprezzo per quei Pieri e Mattei, lo sdegno di quel mutamento; e lo vedi alla scelta caratteristica dei nomi, al loro collocamento in contrasto come nemici, e a quell'ultimo ed energico diventarono, che accenna a mutamenti non solo di nomi ma di animi.  Questa prosa, asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto già adulto, emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno. Questo è in effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli lo concepisce. Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello che è: un attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che dicesi fato, non è altro che la logica, il risultato necessario di queste forze, appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse e regolate da una forza superiore, lo spirito umano, il pensiero, l'intelletto. Il Dio di Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza e la regola delle forze mondane: il risultato è scienza. - Bisogna amare - dice Dante. - Bisogna intendere - dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il cuore, l'anima del mondo machiavellico è il cervello.  Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico: questo è essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo significato: non è sentimento morale, ma è semplicemente forzao energia, la tempra dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso perchè avea la forza di operare secondo logica, cioè di accettare i mezzi quando aveva accettato lo scopo. Se l'anima del mondo è il cervello, hai una prosa che è tutta e sola cervello.  Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni. La storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino scrive col cuore commosso, con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo, tutto offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico, come in Dante, nel Mussato, in tutti i trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli è la spiegazione de' fatti nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e meditativo, a modo di filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I personaggi non sono còlti nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non è una storia drammatica.  L'autore non è sulla scena nè dietro la scena, ma è nella sua camera, e, mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e tutto raccolto in questo lavoro intellettivo, non distratto da emozioni e impressioni. E' l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda con compassione a' moti convulsi e nervosi delle passioni.  Ne' Discorsi ci è maggior vita intellettuale. L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna per attingervi lena e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve, come chi ricordi quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne. Ma, appena finito il racconto, comincia il discorso. L'intelletto, come rinvigorito a quella fonte, se ne spicca tutto pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e contento insieme. Senti lì il piacere di quell'esercizio intellettuale e di quella originalità, di quel dir cose che a' volgari sembrano paradossi.  Quei pensieri sono come una schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di fuori a turbarvi l'ordine. Non è una mente agitata nel calore della produzione, tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione, come avviene talora anche ai più grandi pensatori. E' l'intelletto pieno di gioventù e di freschezza, tranquillo nella sua forza e in sospetto di tutto ciò che non è lui. Digressioni, immagini, effetti, paragoni, giri viziosi, perplessità di posizioni: tutto è bandito in queste serie disciplinate d'idee, mobili e generative, venute fuori da un vigor d'analisi insolito e legate da una logica inflessibile.  Tutto è profondo, ed è così chiaro e semplice che ti pare superficiale.  Il fondamento dei' Discorsi è questo: che gli uomini  non sanno essere nè in tutto buoni nè in tutto tristi, e perciò non hanno tempra logica, non hanno virtù. Hanno velleità, non hanno volontà. Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono loro la risolutezza. Perciò  stanno  volentieri in sull'ambiguo, e scelgono le vie di mezzo, e seguono le apparenze. C è nello spirito umano uno stimolo o appetito insaziabile, che lo tiene in continua opera e produce il progresso storico. Ond'è che gli uomini non sono tranquilli e salgono di un'ambizione a un'altra, e prima si difendono e poi offendono, e più uno ha, più desidera. Sicchè negli scopi gli uomini sono infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e incerti. Quello che degli individui, si può dire anche dell'uomo collettivo, come famiglia o classe. Nella società non c' è in fondo che due sole classi: degli  abbienti  e de' non abbienti, de' ricchi e de' poveri. E la storia non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha.   Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi quando hanno a fondamento l'  equalità. Perciò libertà non può essere dove sono  gentiluomini  o classi privilegiate. E' chiaro che una scienza o arte politica non è possibile quando non abbia per base la conoscenza della materia su che si ha a esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come classe. Perciò una gran parte di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi, degli ottimati o gentiluomini, de' principi, de' francesi, de' tedeschi, degli spagnoli, d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il  carattere, cioè quelle forze che muovono individui e popoli o classi ad operare così o così. Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata, e perciò freschissime e vive anche oggi.  Poiché il carattere umano ha questa base comune, che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed esitante è la virtù di conseguirli, hai sproporzione tra lo scopo e i mezzi; onde nascono le oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza politica o l'arte di condurre e governare gli uomini ha per base la precisione dello scopo e la virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia intellettuale, che fa grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il mondo. Questo punto di vista logico, preponderante nella storia, comunica all'esposizione una calma intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di uomo che sa e vuole. Il cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa e più osa. Quando la tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro. L'uomo allora non sa quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e dalle sue passioni, com'è proprio del volgo. Un'applicazione di questa implacabile logica è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per frode o per forza tolgono la libertà ai popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria, ma la conservazione del principe: se non che il principe provvede a se stesso, provvedendo allo Stato. L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non può dare, ma può dare buone leggi che assicurino l'onore, la vita, là sostanza de' cittadini. Deve mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo, tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli: non ingannato da loro, ma ingannando loro. Come stanno alle apparenze, il principe deve darsi tutte le buone apparenze, e, non volendo essere, parere almeno religioso, buono, clemente, protettore delle arti e degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto; perchè gli uomini sono naturalmente semplici e creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il principe miri a farsi temere più che amare. Sopratutto eviti di rendersi odioso o spregevole. Chi legge il trattato De regimine principum di Egidio Colonna, vi troverà un magnifico mondo etico, senza alcun riscontro con la vita reale. Chi legge questo Principe del Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico, fondato sullo studio dell'uomo e della vita. L'uomo vi è, come natura, sottoposto nella sua azione a leggi immutabili, non secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che gli si deve domandare non è se quello che egli fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole o logico, se ci sia coerenza tra i mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza, ma dalla forza come intelligenza.  L'Italia non ti poteva dare più un mondo divino ed etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in lei ancora intatto era l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo dell'intelletto, purgato dalle passioni e dalle immaginazioni. Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei.  La chiarezza dell'intelletto, non intorbidito da elementi soprannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale.  E il suo eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che comprende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere umano.Vedasi il capitolo decimo, una delle proteste più eloquenti che siano uscite da un gran cuore, Ma, posto lo scopo, la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole. L'odioso è il male fatto per libidine o per passione o per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che pur bisogna andare.   Quando Machiavelli scriveva queste cose, l'Italia si trastullava nei romanzi e nelle novelle, con lo straniero in casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta. Tutti volevano cacciare lo straniero, a tutti puzzava il barbaro dominio; ma erano solo velleità.  E si comprende come il Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra, attaccando il male nella sua radice. Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli glorifica la tempra anche del male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia, intelletto chiaro e animo fermo, ancorachè destituito d'ogni senso morale, che il buon Pier Soderini, cima di galantuomo, ma. anima sciocca, che per la sua incapacità e la sua fiacchezza perdette la repubblica.  Ma, se in Italia la tempra era infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli poneva a base della vita l'essere  uomo, iniziando letà virile della forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza incoerente, cioè a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco, com'era concepito in Italia, era ridicolo per questo: che si presentava all'immaginazione come un esercizio incomposto di una forza gigantesca, senza serietà di scopo e di mezzi, la forza come forza, e tutta la forza nei fini più seri e più frivoli: ciò che rende così comici Morgane, Mandricardo, Fracassa. C' erano certo i fini cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa degli oppressi; ma che parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici non altrimenti che quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire, di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano, quello che Doralice dicea a Mandricardo, quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello che aveva fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse:  fu naturale ferità di core. -  Lo spirito italiano dunque da una parte metteva in caricatura il medio evo come un giuoco disordinato di forze, e dall'altra gettava la base di una nuova età su questo principio virile: che la forza è intelligenza, serietà di scopo e di mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò che creava, rivelava una potenza intellettuale, che precorreva l'Europa di un secolo.  Ma in Italia c'era l'intelligenza e non c'era la forza. E si credeva con la superiorità intellettuale di potere cacciar gli stranieri. Era una intelligenza adulta, svegliatissima ma astratta, una logica formale nella piena indifferenza dello scopo. Era la scienza per la scienza, come l'arte per l'arte. Nella coscienza non c'era più uno scopo nè un contenuto. E quando la coscienza è vuota, il cuore è freddo, e la tempra è fiacca, anche nella maggiore virilità dell'intelletto. Il movimento dello spirito era stato assolutamente negativo e comico. Agl'italiani era più facile ridere delle forze indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro superiorità intellettuale e della loro decadenza morale. Mancava non la forza fisica e non il coraggio che ne è la conseguenza, ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una idea e risoluti a vivere e a morire per quella.  Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di questa decadenza o, com'egli diceva, corruttela: Qui - scrive - è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse nei capi. Specchiatevi nei duelli e nei congressi de' pochi, quanto gl'italiani siano superiori con le forze, con la destrezza, con l'ingegno. Pure l'Italia era corrotta, perchè difettava di forze morali, e perciò di un degno scopo che riempisse di sè la coscienza nazionale. Di lui è questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono i danari nè le fortezze nè i soldati, ma le forze morali o, com'egli dice, il patriottismo e la disciplina. Di quella corruzione italiana la principal causa era il pervertimento religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole, di cui Lutero era il comento: La... religione, se nei principi della repubblica cristiana si fusse mantenuta secondo che dal datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli Stati e le repubbliche più unite e più felici assai ch'elle non sono. Nè si può fare altra maggiore congettura della declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno religione. E chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo senza dubbio o la rovina o il flagello. Certo, non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio paese, ma è un dovere di cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza: Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi suoi.  Per lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo. Il suo sguardo abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria, in Media, in Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de' franchi, il regno de' turchi, quello del soldano, e le geste della  setta saracina, e le virtù  de' popoli della Magna al tempo suo. Lo spirito umano, immutabile e immortale, passa di gente in gente e vi mostra la sua virtù. E quando getta l'occhio sull'Italia, il paragone lo strazia. Le sue più belle pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova, di Venezia, di altre città italiane, in tanto fiorire degli Stati europei. Non adulare il suo paese, ma dirgli il vero, fargli sentire la propria decadenza, perchè ne abbia vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare i rimedi, gli pare ufficio di uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà alle sue parole una grande elevatezza morale: Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna non fussero più chiari che il sole, andrei col parlare più rattenuto. Ma, essendo la cosa così manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocchè gli animi de' giovani, che questi miei scritti leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli... Perchè gli è ufficio d'uomo buono quel bene, che per la malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, insegnarlo ad altri, acciocchè, essendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo. Queste parole sono un monumento. Ci si sente dentro lo spirito di Dante. Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con severità uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è più indulgente verso i principi: Questi nostri principi, che erano stati molti anni nel principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna, ma l'ignavia loro; perchè, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possano mutarsi... quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a difendersi. Degli avventurieri De Sanctis scrive:  Il fine della loro virtù è stato che (Italia) è stata corsa da Carlo, predata da Luigi, forzata da Ferrando e vituperata dai svizzeri;... tanto che essi hanno condotta Italia schiava e vituperata. Ne è meno severo verso i gentiluomini, avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura  Gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono dei proventi delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna cura o di coltivare o di alcun'altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni repubblica ed in ogni provincia : ma più perniciosi sono quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai stata alcuna repubblica nè alcuno vivere politico, perchè tali generazioni d'uomini sono nemici di ogni civiltà. Degna di nota è qui l'idea, tutta moderna, che il fine dell'uomo è il lavoro e che il maggior nemico della civiltà è l'ozio: principio che ha gettato giù i conventi ed ha rovinato dalla radice non solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il sistema feudale, fondato su questo fatto: che l'ozio dei pochi viveva del lavoro dei molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte le cause della decadenza italiana, poteva ben dire, accennando a Savonarola: Ond'è che a Carlo, re di Francia, fu lecito pigliare Italia col gesso; e chi diceva come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati. Gli oziosi sono fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna o la sfortuna. Anche allora dei mali d'Italia accusavano la mala sorte. Machiavelli scrive: La fortuna... dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi rivolge i suoi impeti dove sa che sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi considererete l'Italia, che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo.  Essendo l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca un redentore, un principe italiano, che, come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l'opera di uno solo, a governarlo l'opera di tutti. Ne' grandi pericoli i romani nominavano un dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non vede altro scampo che nella dittatura: Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come Cesare, ma per riordinarla, come Romolo. Di Cesare -scrive un giudizio originale rimasto celebre: Nè sia alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare, sentendo le massime celebrate dagli scrittori; perchè questi che lo laudano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell'imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbero, veda quello che dicono di Catilina. E tanto è più detestabile Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha fatto che quello che ha voluto fare un male. Vedasi pure con quante laudi celebrano Bruto; talchè, non potendo biasimare quello per la sua potenza, essi celebrano il nemico suo... E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia e il mondo abbia con Cesare. Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con la forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo: Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro proposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte lì rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di sè una sempiterna infamia. Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo, che sani l'Italia dalle sue ferite, e ponga fine... a' sacchi di Lombardia, alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite  E' l'idea tradizionale del redentore o del messia. Anche Dante invocava un messia politico, il veltro.  Se non che, il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di Lussemburgo, perchè la sua Italia era il giardino dell'impero: dove il salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano, perchè la sua Italia era nazione autonoma, e tutto ciò che era fuori di essa era straniero, barbaro, oltramontano. Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano da Dante a Machiavelli, paragoni la mistica e scolastica Monarchia dell'uno col Principe dell'altro, così moderno ne' concetti e nella forma.  L'idea del Machiavelli riuscì un'utopia, non meno che l'idea di Dante. Ed oggi è facile assegnarne le ragioni. Patria,  libertà,  Italia,  buoni ordini,  buone armi, erano parole per le moltitudini, dove non era penetrato alcun raggio d'istruzione e di educazione.  Le classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita privata, tra ozi idillici e letterari, erano cosmopolite, animate dagli interessi generali dell'arte e della scienza, che non hanno patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza, e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la spaventarono con la ferocia degli atti e dei modi; poi la vinsero con le moine, inchinandola e celebrando la sua sapienza.  E per lungo tempo gl'italiani, perduta libertà e indipendenza, continuarono a vantarsi, per bocca dei' loro poeti, signori del mondo e a ricordare le avite glorie.  Odio contro gli stranieri ce n' era, ed anche buona volontà di liberarsene. Ma c'era così poca fibra, che di una redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio, per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un linguaggio rettorico e poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le aspirazioni di un nobile cuore che la calma persuasione di un uomo politico. Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' di traverso dai suoi desidèri. Il suo onore, come cittadino, è di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la verità del futuro. Non è meraviglia che il Machiavelli, con tanta esperienza del mondo, con tanta sagacia d'osservazione, abbia avuto illusioni, perchè nella sua natura c'è entrato molto del poetico. Vedilo nell'osteria giocare con l'oste, con un mugnaio, con due fornaciari a  picca  e a  trie trac : E... nascono mille contese e mille dispetti di parole ingiuriose, e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti nondimanco gridare da San Casciano.  Questo non è che plebeo, ma diviene profondamente poetico nel comento appostovi: Rinvolto in quella viltà, traggo il cervello di muffa e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne vergognasse. Vedilo tutto solo per il bosco, con un Petrarca o con un Dante,  libertineggiare  con lo spirito, fantasticare, abbandonalo alle onde dell'immaginazione: Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; ed in sull'uscio mi spoglio quella vesta contadina piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito decentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro azioni, ed essi per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, e dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi trasferisco in loro. Quel  trasferirsi in loro, quel  libertineggiare  sono frasi energiche di uno spirito contemplativo, estatico, entusiastico. C'è una parentela tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito del Boccaccio, che si beffa della  divina commedia  e cerca la commedia in questo mondo. Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e divinatrice. Ecco il principe leva la bandiera, grida : - Fuori i barbari! --- a modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua immaginazione: Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio? E finisce co' versi del Petrarca  Virtù contro al Furore prenderà l'arme, e fia il combatter corto : chè l'antico valore negl'italici cuor non è ancor morto. Ma furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la bella immagine di un mondo morale e civile e di un popolo virtuoso e disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo disforme alla realtà, ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo, troppo simile per molte parti ai suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera musa non è l'entusiasmo: è l'ironia. La sua aria beffarda, congiunta con la sagacia dell'osservazione, lo chiariscono uomo del Risorgimento. De' principi ecclesiastici scrive:  Costoro soli hanno Stati e non li difendono, hanno sudditi e non li governano, e gli Stati per essere indifesi non sono loro tolti, e i sudditi per non essere governati non se ne curano, nè pensano nè possono alienarsi da loro... Essendo quelli retti da cagione superiore, alla quale la mente umana non aggiugne, lascerò il parlarne; perchè, essendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d'uomo presuntuoso e temerario il discorrerne. In tanta riverenza di parole, non è difficile sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi nei contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per l'originalità e vivacità dell' osservazione. Dei francesi e spagnuoli scrive: Il francese ruberia con lo alito, per mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi lo ha rubato. Natura contraria alla spagnuola, che di quello che ti ruba mai ne vedi niente. Da questo profondo ed originale talento di osservazione, da questo spirito ironico uscì la Mandragola: l'alto riso nel quale finirono le sue illusioni e i suoi disinganni.  Dopo i primi tentativi idillici, la commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio. L'Ariosto scriveva per la corte di Ferrara; il Cardinale di Bibbiena scriveva per le corti di Urbino e di Roma. Vi si rappresentavano anche con molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora gli attori erano fanciulli. Fu pur troppo nuova cosa - scrive il Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un palmo servare quella gravità, quelli gesti così severi, [simular] parassiti e ciò che fece mai Menandro. Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o intromesse erano le moresche, balli mimici. Le decorazioni magnifiche. Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi un tempio... tanto ben finito - dice il Castiglione, - che... non saria possibile a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con istorie bellissime: finte le finestre d'alabastro: tutti gli architravi e le cornici d'oro fino e azzurro oltramarino...: figure intorno tonde finte di marmo...: colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era finta di marmo, ma era pittura, la istoria delli tre Orazi, bellissima... In cima dell'arco era una figura equestre bellissima, tutta tonda, armata, con un bello atto, che feria con un'asta un nudo che gli era a' piedi.  L'Italia si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti: architettura, scultura, pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro intromesse, una moresca di Iasòn o Giasone, un carro di Venere, un carro di Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal Castiglione: La prima fu una moresca di Iasòn, il quale comparse nella scena da un capo ballando, armato all'antica, bello, con la spada e una targa bellissima; dall'altro furon visti in un tratto due tori, tanto simili al vero che alcuni pensaron che fosser veri, che gittavano fuoco dalla bocca, ecc. A questi s'accostò il buon Iasòn, e feceli arare, posto loro il giogo e l'aratro; e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco, del palco, uomini armati all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono una fiera moresca, per ammazzar Iasòn; e poi, quando furono all'entrare, s'ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando eccellentissimamente. E questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa. Finita la commedia nacque sul palco all'improvvisto un amorino, che dichiarò con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi s'udì una musica nascosa di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore; e così fu finita la festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide;.....dice sempre il Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte ad ordinarla. Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un facsimile di Calandrino, il marito sciocco: motivo comico del Decamerone, rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e una sorella similissimi di figura, che, vestiti or da uomo or da donna, generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco c' è anche il furbo, e il furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e Fessenio: il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia.  Come si vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è antica, lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di Lorenzo de’MEDICI (si veda). E' uno sguardo allegro e superficiale gettato sul mondo. I caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo, più simili a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire, e che tutta la loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta nelle gole dei cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie dette  d'intreccio, sullo stesso stampo delle novelle. A prima vista, ti pare qualcosa di simile la Mandragola. Anche qui vi è grande varietà d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani. Ma niente è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia come ha concepito la storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna di qualità proprie, che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato. L'interesse è perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il solito marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo istruito e che sa di latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor dottrina dì lui ma più pratica del mondo. C è già qui un concetto assai più profondo che non in Calandro: si sente il grande pensatore. L'obbiettivo dell'azione comica è la moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera Lucrezia. E si tratta di vincerla non con la forza, ma con l'astuzia. Gli antecedenti sono simili a quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto, sente vantar la sua bellezza, e lascia Parigi e torna a Firenze sua patria, risoluto di farla sua. La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina. Il mondo è mutato e rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia. Come Machiavelli ha potuto esercitare il suo ingegno a scriver commedie?  Scusatelo con questo: che s'ingegna  con questi van pensieri  fare il suo tristo tempo più soave,  perchè altrove non ave  dove voltare il viso;  chè gli è stato interciso mostrar con altre imprese altre virtue,  non sendo premio alle fatiche sue. Cattivi versi, ma strazianti. Il suo riso è frutto di malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero de' Medici e Federigo d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore; il cardinale da Bibbiena,  assassinato di amore, e il Bembo esalavano in lettere i loro sospiri, e l'uno scrivea gli Asolanie l'altro la Calandria; e Machiavelli parlava al deserto, ammonendo, consigliando; e non udito e non curato, fece come gli altri: scrisse commedie, ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali. Callimaco, l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa Ligurio, un parassito che usava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia: il furbo è Ligurio, l'amico di casa, come si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano, e fa muovere tutti gli attori a suo gusto, perchè conosce il loro carattere, ciò che li muove. Ligurio è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon boccone tradirebbe Cristo. Non ha bisogno di essere Jago, perchè Nicia non è Otello. E' un volgare mariuolo, che con un po' più di spirito farebbe ridere. Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo di uomo che abbia nel Principe concepito Machiavelli. Fessenio è più allegro e più spiritoso, perciò più tollerabile. Ciò che muove Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e questa figura ti riesce volgare e fredda. Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro. Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato. Ode tutto, vede tutto, capisce tutto; ed ha aria di non udire, non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo ai' suoni. Ma questo lato comico è poco sviluppato, e ti riesce anche lui freddo: ciò che non guasta nulla, essendo una parte secondaria. Colui, che è dietro la scena e fa ballare i suoi figurini, è Ligurio. E sembra che l'ambizione di questo furfante sia di nascondere sè e mettere in vista tutto il suo mondo. Poco interessante per se stesso, lo ammiri nella sua opera e perdi lui di vista. Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false. La parte odiosa è riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i deliri. Non è amore petrarchesco e non è cinica volgarità: è vero amor naturale coi colori suoi, rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende comico... Mi fo di buon cuore, ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte mi assalta tanto desio d'essere una volta con costei, che io mi sento dalle piante dei piè al capo tutto alterare : le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si sbarba del petto, le braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il cervello mi gira. Ma queste sono figure secondarie. L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, sì sciocco che diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui stesso al letto nuziale. L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie, concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi più acconci a metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con tanta presunzione di saviezza e con tanta sicurezza di condotta, che l'effetto comico se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene sempre la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle ultime scene c' è una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel teatro antico e moderno. Il difficile non era gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia. L'azione, così comica per rispetto a Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e ti rivela inesplorate profondità. Gli strumenti adoperati a vincer Lucrezia sono il confessore e la madre, la venalità dell'uno, l'ignoranza superstiziosa dell'altra.  E Machiavelli, non che voglia palliare, qui è terribilmente ignudo: scopre senza pietà quel putridume. Sostrata, la madre, in poche pennellate è ammirabilmente dipinta. E' una brava donna, ma di poco criterio, e avvezza a pensare col cervello del suo confessore.   Alle ragioni della figliuola risponde: -  Io non ti so dir tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà, e farai quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol bene. - E non si parte mai di là: è la sua idea fissa, la sua sola idea: -  Io t'ho detto e ridicoti che, se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi. - Il confessore sa perfettamente che madre è questa. -... E'... una bestia - dice - e mi sarà un grande aiuto a condurla (Lucrezia) alle mie voglie.    Il carattere più interessante è fra Timoteo, precursore di Tartufo: meno artificiale, anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa, della Madonna, del purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più, e la bottega redde poco. E lui aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati, che non sanno mantenere la reputazione all'immagine miracolosa della Madonna: Io dissi il matutino, lessi una Vita de' santi padri, andai in chiesa, ed accesi una lampada ch'era spenta, mutai il velo ad una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati che la tengano pulita? E si meravigliano poi se la devozione manca... Oh quanto poco cervello è in questi miei frati! Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato: colto sul fatto in un dialogo con una sua penitente: pittura di costumi profonda della sua semplicità. Sta spesso in chiesa, perché in chiesa vale più la sua mercanzia. E' di mediocre levatura, buono a uccellar donne:...Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà, e tutte le donne hanno poco cervello; e come n'è una che sappia dire due parole, e' se de predica; perché in terra di ciechi chi ha un occhio è signore. Conosce bene i suoi polli: Le più caritative persone che ci siano son le donne, e le più fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene, ha l'utile e i fastidi insieme. Ed è il vero che non c è il miele senza le mosche. Biascica paternostri e avemarie, e usa i modi e il linguaggio del mestiere con la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine. A Ligurio, che, promettendo larga lemosina, gli richiede che procuri un aborto, risponde: -  Sia col nome di Dio, si faccia ciò che volete, e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa... Datemi... cotesti denari, da poter cominciare a far qualche bene.  - Parla spesso solo, e sì fa il suo esame, e si dà l'assoluzione, sempre che gliene venga utile:  Messer Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che sia segreta, perchè l'importa così a loro dirla come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento. Se mostra inquietudine, è per paura che si sappia Dio sa ch'io non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio officio, intratteneva i miei devoti. Mi capitò innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi fece intíngere il dito in un errore, donde io vi ho messo il braccio e tutta la persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi conforto che, quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura. Questo è l'uomo a cui la madre conduce la figliuola. Il frate impiega tutta la sua industria a persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa del Vangelo e della storia sacra: Io son contenta - conclude Lucrezia; - ma non credo mai esser viva domattina. E il frate risponde: Non dubitare, figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiol Raffaello, che t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo misterio, chè si fa sera. Rimanete in pace, padre - dice la madre; e la povera Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira Dio m'aiuti e la Nostra Donna ch'io non càpiti male. Quel fatto il frate lo chiama un  misterio, e il mezzano è l' angiol Raffaello  ! Queste cose movevano indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In Italia faceva invece ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male diviene così sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena e non vi è rimedio. Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel riso del Machiavelli c'è alcunchè di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura e nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con Timoteo, non lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne sta lontano, quasi abbia ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida, senz'immaginazione e senza spirito: non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici. Lo stile, nudo e naturale, ha aria più di discorso che di dialogo. Senti meno il poeta che il critico, il grande osservatore e ritrattista.  Appunto perciò la Mandragola è una commedia che ha fatto il suo tempo. E' troppo incorporata in quella società, in ciò ch'ella ha di più reale e particolare. Quei sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono, non li trovi oggi più. La depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue non possiamo farne una commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia, qui perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assomiglia piuttosto un anatomico che snuda le carni e mostra i nervi e i tendini.  Nella sua immaginazione non c'è il riso e non c'è l'indignazione al cospetto di Timoteo: c'è quella spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe o l'avventuriero o il gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso osservatore, egli analizza e descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle emozioni e alle impressioni.  La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. E' un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso dell'azione viene da forze spirituali, inevitabili come il fato. Basta conoscere i personaggi per indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle, colui vince. Il soprannaturale, il meraviglioso, il caso sono detronizzati. Succede il carattere. Quello, che Machiavelli è nella storia e nella politica, è ancora nell'arte. Si distinsero due specie di commedie : d'intrecci e di caratter. Commedia d'intrecci fu detta dove l'interesse nasce dagli sviluppi dell'azione, come erano tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche tragedie. Si cercava l'effetto nella stranezza e nella complicazione degli accidenti.  Commedia di carattere  fu detta dove l'azione è mezzo a mettere in mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da una parte commedie sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra commedie scarne per troppa povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due qualità. La sua commedia è una vera e propria azione, vivacissima di movimenti e di situazioni, animata da forze interiori, che ci stanno come forze o istrumenti e non come fini o risultati. Il carattere è messo in vista vivo, come forza operante, non come qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le forme più allegre e più corpulente, fino della più volgare e cinica buffoneria, come è il  don Cuccù, e la  palla di aloè. C'è lì tutto Machiavelli, l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio.  Di ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte è morta: quella per la quale è venuto a triste celebrità. E' la sua parte più grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua vitale, così vitale che è stata detta il machiavellismo.  Anche oggi, quando uno straniero vuol dire un complimento all'Italia, la chiama patria di Dante e di Savonarola, e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo chiamarci figli di Machiavelli. Tra il grande uomo e noi c'è il machiavellismo.  E' una parola, ma una parola consacrata dal tempo, che parla all'immaginazione e ti spaventa come fosse l'orco. Del Machiavelli è avvenuto quello che del Petrarca. Si è chiamato petrarchismo  quello che in lui è un incidente ed è il tutto ne' suoi imitatori. E si è chiamato machiavellismo  quello che nella sua dottrina è accessorio e relativo, e si è dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente. Così è nato un Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e dal meno interessante. E' tempo di rintegrare l'immagine.  C'è nel Machiavelli una logica formale e c'è un contenuto.  La sua logica ha per base la serietà dello scopo, ciò ch'egli chiama  virtù : Proporti uno scopo quando non puoi o non vuoi conseguirlo, è da femmina. Essere uomo significa marciare allo scopo. Ma nella loro marcia gli uomini errano spesso, perchè hanno l'intelletto e la volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli quelli che stimano le cose come le paiono e non come le sono, a quel modo che fa la plebe.  Cacciar via dunque tutte le vane apparenze e andare allo scopo con lucidità di mente e fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver la stoffa d'uomo. Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o un tristo. Ciò è fuori dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò che riguarda Machiavelli è di vedere se è un uomo: ciò che mira è rifare le radici alla pianta  uomo, in declinazione. In questa sua logica la virtù è il carattere o la tempra, e il vizio è l'incoerenza, la paura, l'oscillazione. Si comprende che in questa generalità c'è lezioni per tutti, per ibuoni e per i birbanti, e che lo stesso libro sembra agli uni il codice dei tiranni e agli altri il codice degli uomini liberi.  Ciò che vi s'impara è di essere un uomo, come base di tutto il resto. Vi s'impara che la storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla concordanza dello scopo e de' mezzi; e che l'uomo, come essere collettivo o individuo, non è degno di questo nome se non sia anche esso una forza intelligente, coerenza di scopo e di mezzi. Da questa base esce l'età virile del mondo, sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione e delle passioni, con uno scopo chiaro e serio e con mezzi precisi. Questo è il concetto fondamentale, l'obbiettivo del Machiavelli. Ma non è principio astratto e ozioso: c'è un contenuto, che abbiamo già delineato ne' tratti essenziali.  La serietà della vita terrestre col suo strumento, il lavoro; col suo obbiettivo, la patria; col suo principio, l'eguaglianza e la libertà; col suo vincolo morale, la nazione; col suo fattore, lo spirito o il pensiero umano, immutabile ed immortale; col suo organismo, lo Stato, autonomo e indipendente; con la disciplina delle forze; con l'equilibrio degl'interessi: ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli, a cui è di corona la gloria, cioè l'approvazione del genere umano, ed è di base la virtù o il carattere:  altere et pati fortia. Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te la porge l'esperienza e l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento, l'astrazione sono così perniciosi nella scienza come nella vita. Muore la scolastica : nasce la scienza. Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi giovane ancora. E' il programma del mondo moderno, sviluppato, corretto, ampliato, più o meno realizzato. E sono grandi le nazioni che più vi si avvicinano. Siano dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui quando crolla alcuna parte dell'antico edificio, e gloria a lui quando si fabbrica alcuna parte del nuovo ! In questo momento che scrivo (1870), le campane suonano a distesa e annunziano l'entrata degl'italiani a Roma. Il potere temporale crolla, e si grida il viva  all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli ! Scrittore non solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle sue transazioni politiche discerni sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale, antifeudale, civile, moderno. E quando, stretto dal suo scopo, propone certi mezzi, non di rado s'interrompe, protesta, ha quasi aria di chiederti scusa e di dirti: - Guarda che siamo in tempi corrotti; e se i mezzi son questi e il mondo è fatto così, la colpa non è mia.  Ciò che è morto del Machiavelli non e il sistema, è la sua esagerazione. La sua patria mi rassomiglia troppo l'antica divinità, e assorbe in sè religione, moralità, individualità. Il suo  Stato  non è contento di essere esso autonomo, ma toglie l'autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i dritti dello Stato: mancano i dritti dell'uomo. La  ragione di Stato  ebbe le sue forche, come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e la salute pubblica le sue mannaie.   Fu Stato di guerra, e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe la sua culla sanguinosa il mondo moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle lotte uscì la libertà di coscienza, l'indipendenza del potere civile e più tardi la libertà e la nazionalità. E se chiamate machiavellismo quei mezzi, vogliate chiamare machiavellismo quei fini. Ma i mezzi sono relativi e si trasformano, sono la parte che muore: i fini rimangono eterni.  Gloria del Machiavelli è il suo programma; e non è sua colpa che l'intelletto gli abbia indicati de' mezzi, i quali la storia posteriore dimostrò conformi alla logica del mondo. Fu più facile il biasimarli che sceglierne altri. Dura lex, sed ita lex. Certo, oggi il mondo è migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non sarebbero più tollerati e produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva Machiavelli: allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico, il tradimento, la frode, le sètte, le congiure sono mezzi che tendono a scomparire. Presentiamo già tempi più umani e civili, dove non sono più possibili la guerra, il duello, le rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato e la salute pubblica. Sarà l'età dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e non ci sarà altra gara che d'industrie, di commerci e di studi. E' un bel programma. E quantunque sembri un'utopia, non dispero. Ciò che lo spirito concepisce, presto o tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso e nell'avvenire. Ma siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche dai nostri tempi. E non è con i criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che possiamo giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: - Crudele è la logica della storia; ma quella è.  Nel machiavellismo c'è una parte variabile nella qualità e nella quantità, relativa al tempo, al luogo, allo stato della coltura, alle condizioni morali de' popoli. Questa parte, che riguarda i mezzi, è molto mutata, e muterà in tutto, quando la società sarà radicalmente rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è assoluta ed eterna, perchè fondata sulle qualità immutabili della natura umana. Il principio, dal quale si sviluppa quella teoria, è questo: che i mezzi debbono avere per base l'intelligenza e il calcolo delle forze che muovono gli uomini. E' chiaro che in queste forze c'è l'assoluto e il relativo; e il torto del Machiavelli, comunissimo a tutti i grandi pensatori, è di avere espresso in modo assoluto tutto, anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile.  Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di sostanziale, è l'uomo considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso, che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo, della sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società. Su questa base sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze sociali. Gli inizi della scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura classica unisca esperienza grande e un intelletto chiaro e libero. Questo è il machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo sui rottami del medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i vacillamenti dell'uomo politico: un mondo fondato sulla patria, sulla nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità e serietà dell'uomo. In letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è la storia e la politica emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali, e condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli studi positivi dell'uomo e della natura, messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il linguaggio purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico, e ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. E' l'ultimo e più maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima Francesco Guicciardini, con tutti gli scrittori politici della scuola fiorentina e veneta; poi GALILEI (si veda), con la sua illustre coorte di naturalisti. GUICCIARDINI (si veda), di pochi anni più giovane di Machiavelli e di BUONARROTI (si eda), già non sembra della stessa generazione. Senti in lui il precursore di una generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli ha scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l'Italia unita. Vuole anche la libertà, concepita a modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si avvicina ai presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desidèri, e non metterebbe un dito a realizzarli.  Tre cose - scrive - desidero vedere innanzi alla mia morte; ma dubito che io viva molto, da non vederne alcuna: uno vivere in una repubblica bene ordinata nella città nostra; l'Italia liberata da tutti i barbari; e liberato il mondo della tirannide di questi scellerati preti. Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e l'autonomia delle nazioni, l'affrancamento del laicato: ecco il programma del Machiavelli, divenuto il testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la bandiera di tutta la parte civile europea. Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi colte. Ma erano amori platonici, senza influsso nella pratica della vita. Il ritratto di quella società è il Guicciardini, che scrive:  Conoscere non è mettere in atto. Altro è desiderare, altro è fare. La teoria non è la pratica. Pensa come vuoi, ma fai come ti torna. La regola della vita è  l'interesse proprio, il tuo particulare. Il Guicciardini biasima  l'ambizione, l'avarizia e la mollezza de' preti  e il dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre  questa caterva di scellerati ai tempi debiti, a restare o senza vizi o senza autorità  ; ma per il suo particulare  è necessitato amare la grandezza de' pontefici e servire ai preti e al dominio temporale.  Vuole emendata la religione in molte parti; ma non ci si mescola, lui,  non combatte con la religione nè con le cose che pare che dipendono da Dio, perchè questo ha troppa forza nella mente delli sciocchi. Ama la gloria e desidera di fare cose grandi ed eccelse, ma a patto che non sia con suo danno o incomodità. Ama la patria, e, se perisce, gliene duole, non per lei, perchè  così ha a essere, ma per sè,  nato in tempi di tanta infelicità. E' zelante del ben pubblico, ma  non s'ingolfa tanto nello Stato  da mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole la libertà, ma, quando la sia perduta, non è bene fare mutazioni, perchè  mutano i visi delle persone, non le cose, e non puoi fare fondamento sul popolo, e, quando la vada male, ti tocca  la vita spregiata del fuoruscito. Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che  governano non ti abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra' malcontenti. Quelli che altrimenti fanno sono uomini  leggeri. Molti, è vero, gridano  libertà, ma  in quasi tutti prepondera il rispetto dell'interesse suo. Essendo il mondo fatto così, devi pigliare il mondo com'è, e far in modo che non te ne venga danno, anzi la maggiore comodità possibile. Così fanno gli uomini  savi.  La corruttela italiana era appunto in questo: che la coscienza era vuota e mancava ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo al cammino della vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non c'è più il cielo per lui, ma c'è ancora la terra.  Il Guicciardini ammette anche lui questi fini, come cose belle e buone e desiderabili; ma li ammette sub conditione, a patto che sieno conciliabili col tuo  particulare, come dice, cioè col tuo interesse personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo, al sacrificio, al disinteresse. Ne' più prepondera l'interesse proprio, e mette sè francamente tra questi più, che sono i savi ; gli altri li chiama  pazzi, come furono i fiorentini, che  vollero contro ogni ragione opporsi, quando  i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta, e intende dell'assedio di Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra' quali erano Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela italiana e non dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia con la loro caduta. Nel Guicciardini compare una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perché non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure e ne fa la sua saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana codificata e innalzata a regola della vita. Il Dio del Guicciardini è il suo particolare. Ed è un Dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici o lo Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali scompaiono. Ogni vincolo religioso, morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che l'individuo. Ciascuno per sè, verso e contro tutti. Questo non è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina predicata e inculcata, è l'arte della vita. Il Guicciardini si crede più savio del Machiavelli, perché non ha le sue illusioni. Quel venir fuori sempre con l'antica Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto sanguinoso: Quanto si ingannano coloro che ad ogni parola allegano e' romani! Bisognerebbe avere una città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esemplo: il quale a chi ha le qualità disproporzionali è tanto disproporzionato, quanto sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo.  In questo concetto della vita il Guicciardini è di così buona fede, che non sente rimorso e non mostra la minima esitazione, e guarda con un'aria di superiorità sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non per virtù o altezza d'animo, ma  per debolezza di cervello, avendo offuscato lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui giunge lo spirito italiano, già adulto e progredito, che caccia via l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è tutto e solo cervello o, come dice il Guicciardini,  ingegno positivo. Perché l'ingegno sia positivo si richiede la  prudenza naturale, la  dottrina  che dà le regole, l'  esperienza  che dà gli esempli, e il  naturale buono, tale cioè che stia al reale e non abbia illusioni. E non basta.   Si richiede anche la  discrezione  o il discernimento, perché è  grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola, perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione, e queste distinzioni e eccezioni non si trovano scritte in su' libri, ma bisogna le insegni la discrezione. Il vero libro della vita è dunque  il libro della discrezione, a leggere il quale si richiede da natura  buono e perspicace occhio. La dottrina sola non basta, e non è bene  stare al giudicio di quelli che scrivono, e in ogni cosa volere vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a mettere in speculare, si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di corpo, in modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di dotti.  L'uomo positivo vede il mondo diverso da quello che  ai volgari  pare. Non crede agli astrologi, ai teologi, ai filosofi e a tutti quelli che scrivono le cose sopra natura o che non si vedono  e dicono mille pazzie  : perchè in effetti gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagine ha servito e serve più a esercitare gli ingegni che a trovare la verità. Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli: l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo  speculare  o l'osservare. Nè altro è il sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega, e in forma anche più recisa; e ammette quello che il Machiavelli ammette. Ma è più logico e più conseguente. Poichè la base è il mondo com'è, crede un illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe di cavallo quando esso le ha di asino; e lo piglia com'è, e vi si acconcia, e ne fa la sua regola e il suo istrumento. Conoscere non è mettere in atto. Ciò che è nella tua mente e nella tua coscienza non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti, perchè  gli uomini si riscontrano. Stai con chi vince, perchè  te ne viene parte di lode e di premio. Abbi appetito della roba, perchè la ti dà reputazione, e la povertà è spregiata. Sii schietto, perchè, quando sia il caso di simulare, più facilmente acquisti fede. Sii stretto nello spendere, perchè  più onore ti fa uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne hai spesi. Studia di  parer buono, perchè  il buon nome vale più che molte ricchezze. Non meritarti nome di sospettoso; ma, perchè più sono i cattivi che i buoni,  credi poco e fidati poco. Questo è il succo dell'arte della vita seguita da' più, ancorchè con qualche ipocrisia, come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un codice, fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza e sull'interesse individuale. E' il codice di quella borghesia italiana, tranquilla, scettica, intelligente, e positiva, succeduto ai codici d'amore e alle regole della cavalleria. Ma il Guicciardini, con tutta la sua saggezza, trovò un altro più saggio di lui, e, volendo usare Cosimo a benefizio suo, avvenne che fu lui istrumento di Cosimo. Così finì la vita, come il Machiavelli, nella solitudine e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni e i suoi disinganni, meno nobili, meno degni della posterità, perchè si riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua villa d'Arcetri, il Guicciardini usò gli ozi a scrivere la Storia d'Italia.  Se guardiamo alla potenza intellettuale, è il lavoro più importante che sia uscito da da mente italiana. Ciò che lo interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica, sulla quale facevano i loro esercizi rettorici il Giovio, il Varchi, il Giambullari e gli altri storici. I fatti più meravigliosi o commoventi sono da lui raccontati con una certa sprezzatura, come di uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e non si commuove più di nulla. Non ha simpatie o antipatie, non ha tenerezze e indignazioni, e neppure ha programmi o preconcetti intorno ai risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo svii. E' l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo notate e che in lui sono egregie: la prudenza naturale, la dottrina, l'esperienza, il naturale buono e la discrezione.   Meravigliosa è soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere principi nè regole assolute, e giudicare caso per caso, guardando in ciascun fatto la sua individualità, quel complesso di circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un altro; dov'è la vera distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno. Con queste disposizioni, è naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena, dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace. Ha comune col Machiavelli il disprezzo della superficie, di ciò che si vede e si dice il parere; e lo studio dell'essere, di ciò che è al di sotto e che non si vede. Hai innanzi non la sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione: li vedi nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con la stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa non è il carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione sui fatti. Il motivo determinante è l'interesse, ed è sagacissimo nell'indagine non meno degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di re e di corti.  Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono sotto il manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la libertà, l'indipendenza: fini che escono in mezzo quando si vuol cattivare i popoli o gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni, una specie di rettorica ad usum delphini, voglio dire ad uso dei volgari, che non guardano nel fondo e si lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno come strumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li muovono con la violenza e con l'astuzia, e li usano ai fini loro.  Lo storico avea intenzioni letterarie. La sua prosa, massime nei Ricordi, ha la precisione lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e perfetta evidenza che l'avvicina agli esempli più finiti della prosa francese, senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la lingua in questi due scrittori giunge per vigore intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato più raggiunto. Ma GUICCIARDINI (si veda), di un giudizio così sano nell'andamento de' fatti umani, aveva de' preconcetti in letteratura: opinioni ammesse senza esame, solo perchè ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo, la tradizione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue prove.  Molti uomini mediocri, quali il Casa e il Castiglione e il Salviati e lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà, come disciplinati ed educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua franchezza spinta sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e rettorici. E sono rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore d'immaginazione e di sentimento, una certa solennità di tuono. Al di sotto di questi splendori artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un perfetto organismo, freddo come la logica ed esatto come la meccanica, e che non è forse in fondo se non un corso di forze e d'interessi seguiti nei loro più intimi recessi da un intelletto superiore. La Storia d'Italia comincia con la calata di Carlo ottavo: finisce con la caduta di Firenze. Appare in ultimo, come un funebre annunzio di tempi peggiori, Paolo terzo, il papa della Inquisizione e del concilio di Trento. Questo periodo storico si può chiamare la  tragedia italiana, perchè in questo spazio di tempo l'Italia dopo un vano dibattersi passa in potestà dello straniero.   Ma lo storico non ha pur sentore dell'unità e del significato di questa tragedia; e il protagonista non è l'Italia e non è il popolo italiano. La tragedia c'è, e sono le grandi calamità che colpiscono gl'individui: le arcioni, le prede, gli stupri, tutti i mali della guerra. Avvolto fra tanti  atrocissimi accidenti, sagacissimo a indagarne i più riposti motivi nel carattere degli attori e nelle loro forze, l'insieme gli fugge.  La Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo quinto e Francesco primo, la trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e l'Italia bilanciata di Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e soggetta: questi fatti generali preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più oscuri pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista, che studi e classifichi erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura interna e la loro fisiologia, che li fa essere così o così.  L'uomo vi appare come un essere naturale, che operi così fatalmente come un animale, determinato all'azione da passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o carattere, con la stessa necessità che l'animale è determinato da' suoi istinti e qualunque essere vivente dalle sue leggi costitutive.   Considerando l'uomo a questo modo, lo storico conserva quella calma dell'intelletto, quell'apatia e indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione de' fenomeni naturali. Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è più interessante, perchè la sua azione è meno spiegabile e attira più la sua attenzione intellettuale. Di che si stacca questo concetto della storia: che l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni libero, è determinato da motivi interni o dal suo carattere, e si può calcolare quello che farà e come riuscirà, quasi con quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò chi perde ha sempre torto, dovendo recarne la causa a se stesso, che ha mal calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica storica non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui come una specie di macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla plebe: a noi poco interessanti, perchè sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli, e tutto il nostro interesse è concentrato nello studio dell'ingegno.  Il Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di fisica sociale, come si direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo gli individui, ma la società e il genere umano. Perciò patria, libertà, nazione, umanità, classi sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni, gli interessi, le opinioni, le forze che muovono gl'individui. E se vogliamo trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo da imparare nelle sue opere.  Indi è che, come carattere morale, il segretario fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati, che sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine; e, come forza intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù sintetica, una larghezza di vedute, che manca in quello. E' un punto di partenza nella storia, destinato a svilupparsi. Francesco De Sanctis. Nel 1512 quando ormai aveva più di quarant'anni (era nato a Firenze il 3 maggio 1469, da antica e nobile famiglia) Niccolò Machiavelli veniva privato del suo ufficio e veniva inviato al confino per un anno. Il provvedimento era abbastanza logico perchè tutta l'attività diplomatica e politica di Machiavelli si era svolta al servizio del regime repubblicano di Firenze e la sua continuazione non poteva riuscire gradita ai Medici che rientravano nella loro città al seguito delle vittoriose truppe spagnole. Machiavelli, dopo una giovinezza ( tra i grandi scrittori italiani dedicata in parte agli studi e in parte agli svaghi, aveva iniziato la sua attività pubblica nel maggio del 1498 (quando si era conclusa col rogo l'avventura savonaroliana), ottenendo l'incarico di segretario della seconda Cancelleria. Tale attività non aveva mai avuto un grande rilievo sul piano della politica pratica, ma aveva permesso al segretario fiorentino di acquistare esperienza diretta degli avvenimenti e dei rivolgimenti politici di quegli anni tumultuosi che videro il crollo del sistema di stati italiani e della nostra indipendenza e lo scontro, sul nostro territorio, delle due nuove potenze europee, la Francia e la Spagna. E in Francia Machiavelli si recò numerose volte, tanto da conoscere molto bene la struttura di questo stato e da poter analizzare con precisione le ragioni della forza e del prestigio dei Francesi e, insieme, le cause dei loro insuccessi. Ma non meno importanti furono le esperienze che egli potè fare presso Cesare Borgia, l'inquieto spregiudicato e ambizioso figlio naturale del papa Alessandro VI, che aspirava alla creazione di un forte stato nell'Italia centrale e minacciava direttamente e indirettamente Firenze. Presso il Valentino (così era chiamato il Borgia) Machiavelli si recò due volte nel giugno e nell'ottobre del 1502 in occasione della ribellione della Valle di Chiana contro il dominio fiorentino ( ribellione fomentata dal Valentino stesso ) e da tali legazioni potè trarre argomento di ammirazione per l'energia, l'audacia, le capacità diplomatiche di questo signore molto splendido e magnifico che diverrà poi quasi l'incarnazione del suo principe. D'altra parte egli non fu solo testimone della fortuna del Valentino, ma anche del crollo di tutte le sue ambizioni, perchè, dopo l'improvvisa morte di Alessandro VI e il brevissimo pontificato di Pio III, fu inviato dal governo fiorentino a Roma per seguire il conclave e potè assistere all'elezione di Giulio II, nemico di Cesare Borgia e sua  ultima ruina. In quella occasione, e in una successiva legazione nel 1506, il Machiavelli potè anche rendersi conto del temperamento del nuovo papa, dell'energia e del  furore  che lo misero al centro degli avvenimenti politici di quegli anni. Se si aggiunge che il 1507 il nostro segretario si recò in Germania presso la corte imperiale ( rimanendovi per oltre sei mesi ), che nel 1509 assistette alla resa di Pisa e soprattutto, alla disfatta della maggiore potenza italiana, Venezia, e che, dal 1506 in poi, negli intervalli fra una legazione e l'altra, fu incaricato di arruolare e istruire un corpo di truppa cittadina, si vedrà quanto varia e complessa fosse l'esperienza di Machiavelli.  I problemi di fondo della politica europea gli si erano così progressivamente chiariti: la necessità di uno stato unitario moderno, la necessità di truppe non mercenarie, il dramma della divisione italiana e della inettitudine della nostra classe dirigente. Questi problemi egli era già venuto elaborando in una serie di scritti minori : Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini; Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati; Parole da dire sopra la provvisione del denaio fatto in loco di pèroemio e di scusa; Discorso dell'ordinare lo stato di Firenze in armi; Discorso sopra l'ordinanza e la milizia fiorentina; Ritratto delle cose della Magna; Ritratto delle cose di Francia; il Decennale primo e il Decennale secondo. E' del tutto comprensibile il cruccio del Machiavelli vedendosi mettere da parte proprio nel momento in cui era giunto alla sua completa maturità e poteva guardare le cose dall' alto di una ricchissima esperienza. Ma i Medici furono inflessibili : in un primo tempo addirittura lo imprigionarono ( e lo torturarono pure ), sospettando che avesse partecipato alla congiura del Boscoli, poi lo tennero inoperoso per quasi otto anni, sino al 1520, e infine gli assegnarono qualche incarico minore : di esprimere un parere a riguardo della costituzione fiorentina ( e lui scrisse il Discorso sopra il riformare lo stato di Firenze ), di narrare la storia della città ( di qui le Istorie fiorentine ), di andare come ambasciatore presso la  repubblica degli Zoccoli, cioè presso il capitolo dei Frati minori di Carpi.   Solo nel 1526 gli venne affidato un incarico importante : quello di cancelliere dei Procuratori delle mura, preposti alla difesa di Firenze. Ma i Medici vennero di nuovo scacciati e Machiavelli, sospettato anche dal regime repubblicano, fu lasciato da parte. Durante gli anni del suo ozio forzato, Machiavelli si ritira in una villa presso San Casciano. Qui egli passava la giornata a caccia di uccelli, o nella lettura dei poeti latini, o imbestialendosi nel giocare a tric-trac con l'oste, il mugnaio, il beccaio, o infine standosene sulla porta dell'osteria e scambiando impressioni e notizie coi passanti. Ma la sera si ritirava nel suo studio e leggeva le antiche storie e interrogava gli antichi scrittori: e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro. E' dalle meditazioni che ispira questa frequentazione con i vivi e con i morti, coi passanti e i loro vari gusti e diverse fantasie e coi grandi uomini dell'antichità, che nascono quasi d'un sol getto le grandi opere machiavelliane: il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di LIVIO (si veda), i dialoghi Dell'arte della guerra, la Vita di Castracani, La Mandragola.  Frequentazione con i vivi e con i morti, abbiamo detto. Ed è questo che fa grande il Machiavelli, che gli permette di essere la coscienza più alta del Rinascimento e di rappresentarlo nei suoi elementi dinamici, nel suo dramma profondo, e non soltanto - come accadeva al Castiglione e al Bembo - nei suoi elementi grandiosi ma statici. Il fatto, cioè, che egli sa stabilire, nello stesso tempo, un contatto diretto col mondo classico e con le persone che lo circondano. Per lui, rivolgersi all'antico non significa evadere dal presente. Anzi. I problemi che affronta Machiavelli non sono mai problemi astratti (anche quando sembra che lo siano ), non sono mai problemi che si pongono sul piano delle categorie universali (moralità, utilità, politicità, e così via), ma sono problemi collegati alla valutazione e alla soluzione di una situazione storico-politica concreta, quella dell'Italia nei primi decenni del sec. XVI Per questo non è la scoperta della categoria dell'utile diversa e distinta dalla categoria della morale l'elemento caratterizzante del pensiero machiavelliano: Non già che il problema dell'autonomia della politica, rispetto alla morale, non sia stato effettivamente da lui posto. Basterebbe pensare al capitolo del principe dedicato a coloro che per scelleranza sono venuti al Principato con gli esempi di Agatocle e di Oliverotto da Fermo, all'esaltazione del Valentino - ammirato nella sua abilità politica indipendentemente dai suoi delitti - o al capitolo XVIII della stessa opera dove si pone il problema se i principi debbano mantenere gli impegni presi. E se parlando di Agatocle il Machiavelli sembrava ancora oscillare non sentendosela di identificare la virtù - sia pure nella particolare accezione in cui egli usava questo termine di energia e capacità - con le scelleratezze di Agatocle e di altri, qui egli non manifesta più dubbi.   La politica ha alcune leggi che non coincidono sempre con con quella della morale: essere buono può sovente procurare la ruina di un principe, al contrario, mancare di parola, ingannare, assassinare spesso può salvare uno stato. Di qui l'accusa di immoralità che gli venne presto rivolta, e la formula del fine che giustifica i mezzi che gli viene attribuita. In realtà Machiavelli si limita a costatare scientificamente le due sfere diverse in cui agiscono politica e morale. Si rende conto con chiarezza dell'autonomia di una rispetto all'altra, non ne individua il punto di congiunzione. Ma il secondo problema non lo interessava: la realtà effettuale italiana non suggeriva certo un discorso sulla morale. Per questo l'interesse del Principe si accentra tutto, invece, sulla figura del principe nuovo come la sola che possa sciogliere positivamente la complessa trama della crisi italiana: anzi fra l' elogio del Valentino e la condanna di Cesare. Contraddizioni inesistenti se si considera che Il principe poneva soprattutto il problema della creazione di uno stato nuovo nella situazione italiana di quel periodo e i Discorsi pongono soprattutto il problema del mantenimento dello stato, dei suoi ordinamenti migliori. Per la stessa ragione nei Discorsi al popolo si dà un posto che non ha mai nel Principe, fino all'affermazione che il popolo é  più prudente, più stabile e di migliore giudizio che un principe  e che  se i principi sono superiori a' popoli nello ordinare le leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed ordini nuovi, i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate. Così Machiavelli può arrivare a una stupefacente scoperta che sembra preludere alle concezioni politiche moderne : che cioè le lotte fra patrizi e plebei non indebolirono Roma, ma le permisero di raggiungere ordinamenti sempre più perfetti. Insomma nei Discorsi l' argomentazione é più distesa e distaccata e può, quindi, abbracciare un campo più vasto anche se meno omogeneo. Così Machiavelli può riprendere il discorso sulla religione non tanto considerandola uno strumento del potere costituito, quanto un costume morale che regola i rapporti civili fra i cittadini come individui privati e, di conseguenza, rende più ordinati e stabiliti i rapporti fra il cittadino e lo stato. Può riprendere anche il discorso sulle milizie e sulla necessità di uno stato di ampliarsi, ripudiando in questo modo definitivamente il concetto di città - stato e sostenendo la necessità di uno stato con una larga base territoriale. Tale collegamento alle cose e il carattere di ricerca della sua speculazione si rivelano pienamente  nella prosa e nello stile stesso del segretario fiorentino, in questo tipo nuovo e liberale di prosa  in cui la sintassi  é già consapevole della sua libertà ed individualità  e il  ragionamento a piramide degli scolastici  cede il posto al  ragionamento a catena  della prosa scientifica moderna. Il lettore ha costantemente l' impressione di assistere e di essere chiamato a partecipare a un laborioso processo di ricerca, irto di dubbi e di contraddizioni. La prosa del Machiavelli non assomiglia mai a quella del maestro che squaderna agli occhi del proprio allievo una verità della quale egli solo era in possesso ; essa piuttosto sollecita a provoca il lettore, cui si rivolge, di frequente, con un  tu  perentorio e aggressivo, a farsi compagno e sodale del suo autore, lo immedesima nei dubbi e nelle incertezze di questo. In tal senso la prosa di MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda) é eminentemente moderna. E quando d' improvviso il periodare serrato e incalzante del segretario fiorentino s' impenna e si apre in una di quelle rappresentazioni o formule condensate e chiarissime che sono tipiche della sua opera, il lettore ha la sensazione di assistere al germinare di un' intuizione nuova preparata e resa possibile da un lungo e penoso lavoro intellettuale, si sente partecipe della gioia della scoperta e, al tempo stesso, stupito della semplicità rivoluzionario della medesima. Insomma Machiavelli ha di fronte a sè una realtà mortificante, la  ruina d' Italia, nelle sue istituzioni comunali o signorili, nei costumi dei suoi principi, nell' avvilimento del popolo. Di qui il pessimismo della sua intelligenza, quel contemplare distaccato e disgustare un mondo sordido e canagliesco, impastato di bassi appetiti, di astuzie meschine, di stupidità e di ingordigia che sta al fondo della Mandragola, il capolavoro del teatro del '500. Egli, però, ha compreso l' importanza delle grandi formazioni di stati unitari verificatisi in Europa, sa che in questa direzione si muove la storia e il progresso ed é consapevole che il grande patrimonio della civiltà italiana potrebbe esprimere il principe capace di imprimere un suggello su quella materia informe e corrotta. Machiavelli non è un puro teorico, inteso a costruire freddamente una teoria politica per così dire  in laboratorio : le sue concezioni scaturiscono dal rapporto diretto con la realtà storica, in cui egli é impegnato in prima persona grazie agli incarichi che ricopre nella Repubblica fiorentina, e mirano a loro volta ad incidere in quella realtà, modificandola secondo determinate prospettive. Il suo pensiero si presenta così come una stretta fusione di teoria e prassi : la teoria nasce dalla prassi e tende a risolversi in essa. Alla base di tutta la riflessione di Machiavelli vi é la coscienza lucida e sofferta della crisi che l' Italia contemporanea sta attraversando : una crisi politica, in quanto l' Italia non presenta quei solidi organismi statali unitari che caratterizzano le maggiori potenze europee e appare frammentata in una serie di Stati regionali e cittadini deboli e instabili ; crisi militare, in quanto si fonda ancora su milizie mercenarie e compagnie di ventura, anzichè su eserciti  cittadini, che soli possono garantire la fedeltà, l' ubbidienza, la serietà di impegno ; ma anche crisi morale, perchè sono scomparsi, o comunque si sono molto affievoliti, tutti quei valori che danno fondamento saldo ad un vivere civile, e che per Machiavelli sono rappresentati esemplarmente dall' antica Roma, l' amore per la patria, il senso civico, lo spirito di sacrificio e lo slancio eroico, l' orgoglio e il senso dell' onore, e sono stati sostituiti da un atteggiamento scettico e rinunciatario, che induce ad abbandonarsi fatalisticamente al capriccio mutevole della fortuna, senza reagire e senza lottare.  Perciò, come hanno dimostrato le guerre che si sono succedute dopo la calata dei Francesi, gli Stati italiani sono prossimi a perdere la loro indipendenza politica e a divenire satelliti delle potenze europee che si stanno disputando il territorio della penisola. Per Machiavelli l' unica via d' uscita da una così straordinaria  gravità de' tempi  é un principe dalla straordinaria virtù capace di organizzare le energie che potenzialmente ancora sussistono nelle genti italiane e di costruire una compagine statale abbastanza forte da contrastare le mire espansionistiche degli Stati vicini. A questo obiettivo storicamente concreto é indirizzata tutta le teorizzazione politica di Machiavelli, la quale perciò si riempie del calore passionale e dello slancio di chi partecipa con fervore ad un momento decisivo della storia del proprio paese. Ignorare queste radici pratiche immediate del pensiero machiavelliano porterebbe a travisarne completamente il senso. Tuttavia quel pensiero non resta limitato a quel campo così contingente, poichè altrimenti non avrebbe la forza di sollecitare ancora tanto interesse : partendo da quella situazione particolare, cercando di dare una risposta immediata ed efficace a quei problemi di traumatica urgenza, Machiavelli elabora una teoria che aspira ad avere una portata universale, a fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e tutti i luoghi. Le radici pratiche immediate danno al suo pensiero quel calore, quella passione che lo rendono affascinante e che conferiscono alle sue opere uno straordinario valore letterario, ma poi la sua speculazione assume anche la fisionomia di una vera teoria scientifica. Concordemente Machiavelli é stato definito come il fondatore della moderna scienza politica: innanzitutto egli determina nettamente il campo di questa scienza, distinguendolo da quello di altre discipline che si occupano ugualmente dell' agire dell' uomo, come l' etica. Machiavelli, poi, rivendica vigorosamente l' autonomia del campo dell' azione politica : essa possiede delle proprie leggi specifiche, e l' agire degli uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi : occorre cioè, nell' analisi dell' operato di un principe, valutare esclusivamente se esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere propri della politica, rafforzare e mantenere lo Stato, garantire il bene dei cittadini. Ogni altro criterio, se il sovrano sia stato giusto e mite o violento e crudele, se sia stato fedele o abbia mancato alla parola data, non é pertinente alla valutazione politica del suo operato. E' una teoria di sconvolgente novità, veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura occidentale.  Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che avviene realmente nella politica, non di delineare degli Stati ideali  che non si sono mai visti essere in vero. Proclama infatti di voler andar dietro alla verità effettuale della cosa anzichè all'immaginazione di essa, proprio perchè non gli interessa mettere insieme una bella costruzione teorica, ma scrivere un' opera  utile a chi la intenda, fornire uno strumento concettuale di immediata applicabilità alla politica reale e di sicura efficacia. Oltre al campo autonomo su cui applica la nuova scienza, Machiavelli ne delinea chiaramente il metodo. Esso ha il suo principio fondamentale nell' aderenza alla  verità effettuale: proprio perchè vuole agire sulla realtà ne deve tener conto e quindi per ogni sua costruzione teorica parte sempre dall' indagine sulla realtà concreta, empiricamente verificabile, mai da assiomi universali e astratti. Solo mettendo insieme tutte le varie esperienze si può poi giungere a costruire principi generali. L' esperienza per Machiavelli può essere di due tipi : quella diretta, ricavata dalla partecipazione personale alle vicende presenti, e quella ricavata dalla lettura degli autori antichi.  Machiavelli le definisce ( nella dedica del Principe ) rispettivamente  esperienza delle cose moderne  e  lezione delle antique. In realtà si tratta solo apparentemente di due forme diverse perchè studiare il comportamento di un politico contemporaneo o di uno vissuto cento anni fa é la stessa cosa, cambia solo il veicolo della trasmissione dei dati, dell' informazione su cui lavorare, ma il contenuto é lo stesso. Alla base di questo modo di accostarsi alla storia vi é una concezione tipicamente naturalistica : Machiavelli é convinto che l' uomo sia un fenomeno naturale al pari di altri e che quindi i suoi comportamenti non variino nel tempo, come non variano il corso del sole e delle stelle. Per questo ha fiducia nel fatto che, studiando il comportamento umano attraverso le fonti storiche o l' esperienza diretta, si possa arrivare a formulare delle vere e proprie leggi di validità universale. Proprio per questo la sua storia é costellata di esempi tratti dalla storia antica : essi sono la prova che il comportamento umano non varia e che quindi l' agire degli antichi può essere di modello. Per lui gl’uomini  camminano sempre per vie battute da altri, perciò propone il principio tipicamente rinascimentale dell' imitazione : Machiavelli nota che ai suoi tempi l' imitazione degli antichi é pratica costante nelle arti figurative, nella medicina, nel diritto e depreca quindi che lo stesso non avvenga nella politica. Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di Machiavelli in una teoria razionale dell' agire politico, che sappia individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono necessariamente e quindi sappia suggerire le sicure linee di condotta statistica. Il punto di partenza per la formulazione di tali leggi é una visione crudamente pessimistica dell' uomo come essere morale : l' uomo agli occhi di Machiavelli é malvagio : non ne teorizza filosoficamente le cause, non indaga se lo sia per natura o in conseguenza ad una colpa originariamente commessa, ma si limita a constatare empiricamente gli effetti della sua malvagità sulla realtà. Gli uomini sono  ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno  e dimenticano più facilmente l' uccisione del padre che la perdita del patrimonio : la molla che li spinge é l' interesse materiale e non sono i valori sentimentali disinteressati e nobili. Tra tanti uomini malvagi il principe non deve nè può  fare in tutte le parti la professione di buono  perchè andrebbe incontro alla rovina : deve anche sapere essere  non buono  laddove lo richiedano le necessità dello Stato. Il vero politico agli occhi di Machiavelli deve essere un centauro, ossia un essere metà uomo e metà animale, deve cioè essere umano o feroce come una bestia a seconda delle situazioni.   Tuttavia Machiavelli sa bene come il venir meno alla parola data o l' uccidere spietatamente i nemici per un principe siano cose ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente é malvagio in politica diventa buono, perchè uccide per difendere lo Stato e le sue istituzioni ; allo stesso modo i buoni moralmente sarebbero cattivi  politicamente perchè non uccidendo e non compiendo azioni malvagie lascerebbe perire lo Stato. Machiavelli quindi non é il fondatore di una nuova morale, anzi, moralmente parlando é un tradizionalista e considera cattivo chi uccide o non mantiene la parola data ; egli semplicemente individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su altri criteri, non il bene o il male, ma l' utile o il danno politico. E' interessante notare che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe é chi usa metodi riprovevoli a fin di bene, in favore dello Stato ; tiranno, invece, é chi li usa senza che ci sia necessità. E' solo lo Stato che può costituire un rimedio alla malvagità dell' uomo, al suo egoismo che disgregherebbe ogni comunità in un caos di spinte individualiste contrapposte le une alle altre.  Per quel che riguarda il rapporto con la religione, a Machiavelli non interessa nella sua prospettiva concettuale, come contenuto di verità, nè tanto meno nella sua dimensione spirituale, come garanzia di salvezza, ma solo ed esclusivamente come  instrumentum regni, ossia come strumento di governo. La religione, in quanto fede in certi principi comuni, obbliga i cittadini a rispettarsi reciprocamente e a mantenere la parola data : questa era la funzione che la religione rivestiva già ai tempi degli antichi Romani, secondo Machiavelli. Tuttavia nei Discorsi Machiavelli muove anche un biasimo alla religione, accusandola di essere spesso stata colpevole di rendere gli uomini miti e rassegnati, di far sì che essi svalutassero le cose terrene per guardare solo al cielo. La forma di governo che meglio compendia in sè l' idea di Stato per Machiavelli é quella repubblicana, che argina e disciplina le forze anarchiche dell' uomo. Il principato é per Machiavelli una forma d' eccezione e transitoria, indispensabile solo in certi momenti, come quello che l' Italia sta vivendo ai suoi tempi, per costruire uno Stato sufficientemente saldo. La forma repubblicana é la migliore perchè non si fonda su un solo uomo, ma ha istituzioni stabili e durature. Dall' esilio dell' Albergaccio, Machiavelli annunciava all' amico Vettori di aver composto un  opuscolo de principatibus, in cui si trattava  che cosa é principato, di quale spetie sono, come e' si mantengono, perchè e' si perdono. L' indicazione fissa il momento in cui l' opera può dirsi compiuta, ma lascia aperti altri problemi di datazione : in quale periodo sia stata composta, se sia stata scritta unitariamente o in fasi diverse e soprattutto quali siano i rapporti che legano ai Discorsi sopra la prima deca di LIVIO (si veda). Oggi gli studiosi tendono a collocare la composizione in una stesura di getto, mentre si ritiene che posteriormente sia stata scritta la dedica a Lorenzo de' MEDICI (si veda) e probabilmente anche il capitolo finale che, nel suo carattere di appassionata esortazione a liberare l' Italia dai  barbari, sembra staccarsi dal tono lucidamente argomentativo del resto del trattato. Per quanto riguarda i rapporti con I Discorsi si é pensato che la stesura di tale opera sia iniziata precedentemente e sia stata interrotta nel luglio per far posto alla composizione del trattatello, che rispondeva a bisogni di maggiore urgenza, agganciandosi direttamente ai problemi attuali della situazione italiana. Il principe é un' operetta molto breve, scritta in forma concisa e incalzante, ma densissima di pensiero. Si articola in 26 capitoli, di lunghezza variabile, che recano dei titoli in latino come è usanza dell' epoca. La materia é divisa in diverse sezioni. Esamina i vari tipi di principato e mirano a individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e di mantenerlo, conferendogli forza e stabilità. Machiavelli distingue tra principati ereditari ( a cui é dedicato il capitolo II ) e nuovi ; questi ultimi a loro volta possono essere misti, aggiunti come membri allo Stato ereditario di un principe o del tutto nuovi; a loro volta questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie, oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui ( capitolo VII, in cui si propone come esempio il duca Valentino ). Tratta di coloro che giungono al principato attraverso scelleratezze, e qui Machiavelli distingue tra la crudeltà  bene e male usata  : la prima é quella impiegata solo per stati di assoluta necessità e che si converte nella maggiore utilità possibile per i sudditi ; male usata invece é quella che cresce con il tempo anzichè cessare ed é compiuta per l' esclusivo vantaggio del tiranno.  Machiavelli affronta il principato  civile, in cui cioè il principe riceve potere dai cittadini stessi ; nel X si esamina come si debbano misurare le forze dei principati e nell' XI si tratta dei principati ecclesiastici, in cui il potere é detenuto dall' autorità religiosa, come nel caso dello Stato della Chiesa. I capitoli XII - XIV sono dedicati al problema delle milizie : Machiavelli giudica negativamente l' uso degli eserciti mercenari ( cosa che per altro aveva fatto già Petrarca ), abituale nell' Italia del tempo, perchè essi combattendo solo per denaro sono infidi e pertanto costituiscono una delle cause principali della debolezza degli Stati italiani e delle pesanti sconfitte subite nelle recenti guerre ; di conseguenza, per lui, la forza di uno Stato consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie, su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi, che combattano per difendere i loro averi e la loro vita stessa. Machiavelli tratta dei modi di comportarsi del principe con i sudditi e con gli amici. E' questa la parte in cui il rovesciamento degli schemi della trattatistica precedente é più radicale e polemico, in cui Machiavelli, anzichè esibire il catalogo delle virtù morali che sarebbero auspicabili in un principe va dietro alla  verità effettuale della cosa  : poichè gli uomini sono malvagi, avidi, mancatori della fede e violenti, il principe che é costretto ad agire tra loro non può seguire in tutto le leggi morali, ma deve imparare anche ad essere  non buono, dove le circostanze lo esigano ; deve guardare al fine, che é vincere e mantenere lo Stato: i mezzi se vincerà saranno sempre considerati onorevoli. Sono questi i capitoli che hanno immediatamente suscitato più scalpore, ed hanno attirato per secoli su Machiavelli l' esecrazione e la condanna. Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi italiani, nella crisi (il crollo della libertà italiana ) hanno perso i loro Stati. La causa per lo scrittore é essenzialmente l'  ignavia  dei principi, che nei tempi quieti non hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava ( solo Savonarola aveva avuto l' intuizione ) e porvi i necessari ripari. Di qui scaturisce naturalmente l' argomento, il rapporto tra virtù e fortuna, cioè la capacità, che deve essere propria del politico, di porre argini alle variazioni della fortuna, paragonata a un fiume in piena che quando straripa allaga le campagne e devasta i raccolti e gli abitati. L' ultimo capitolo é, come accennato, un' appassionata esortazione ad un principe nuovo, accorto ed energico, che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l' Italia dai barbari. (il testo sopra è di F. - visitate il suo sito di filosofia ).filosofico. Pellegrino. Mangieri  IL PENSIERO POLITICO DI MACHIAVELLI OPPURE SE L'AVETE GIA LETTA  ANDIAMO ALLORA DIRETTAMENTE ALL'OPERA INTEGRALE   IL PRINCIPE. STORIOLOGIA. Grice: When I created Deutero-Esperanto, I felt like the principato senza il principe! --. Michele Ciliberto. Keywords: il principe, intelletuale fascista, lessico, lessico di Bruno, lessico di grice, lessico filosofico europeo, umbra profunda, implicatura in chiaroscuro, i contrari, il laico, il libero, despotismo, immagine e concetto, parola, immagine, e concetto, il pazzo, il ragionato, istituto su studi sul rinascimento, la tradizione italiana, la tradizione filosofica italiana, democrazia rappresentativa, concetto di rappresentazione, Grice e Ciliberto sulla rappresentazione. Il primo ministro britannico ripresenta suoi costituenti. Il barone della camera alta del parlamento, parlamento ed implicamento, il team di cricket rippresenta Inghilterra: fa per Inghilterra quello che Inghilterra non puo fare: gioccare cricket. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ciliberto” – The Swimming-Pool Library. Ciliberto.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cilone: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). According to Giamblico. C. seeks to join the circle of Pythagoras. He is rejected because Pythagoras sees in him a tendency to violence and tyranny. In response, C. leads the people of Crotone in a campaign against the sect -- as a result of which Pythagoras has to decamp to Metaponto. “At least he left with his judgment vindicated – Pythagoras did.” Archita said. Cilone.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cimatti: l’implicatura conversazinale del pooh-pooh and other products -- il non-naturale -- fondamenti naturali della comunicazione – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Cimatti – for one, he develops a biological semiotics, and he takes seriously the issue that man IS an animal -- -- and has thus philosophised on animality!” Si laureato sotto Mauro con “La communicazion animale” -- Insegna ad Arcavacata di Rende. Altre opere: “Linguaggio ed esperienza visive” (Rende, Centro Editoriale e Librario); “La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell'animale umano” (Bollati Boringhieri); “Nel segno del cerchio. L'ontologia semiotica di Giorgio Prodi, Manifestolibri La mente silenziosa. Come pensano gli animali non umani” (Editori Riuniti); “Mente e linguaggio negli animali. Introduzione alla zoosemiotica cognitiva” (Carocci); Il senso della mente. Per una critica del cognitivismo” (Bollati Boringhieri); “Mente, segno e vita. Elementi di filosofia per Scienze della comunicazione,Carocci); “Il volto e la parola. Per una psicologia dell'apparenza, Quodlibet,  Il possibile ed il reale. Il sacro dopo la morte di Dio” (Codice Edizioni); Bollettino Filosofico. Linguaggio ed emozioni” (Aracne); Lingue, corpo, pensiero: le ricerche contemporanee” (Carocci); Naturalmente comunisti. Politica, linguaggio ed economia” (Bruno Mondadori); “La vita che verrà. Biopolitica per Homo sapiens,, ombre corte, Filosofia della psicoanalisi. Un'introduzione in ventuno passi” (Quodlibet); Filosofia dell'animalità (Laterza); “Corpo, linguaggio e psicoanalisi” (Quodlibet); “A come Animale: voci per un bestiario dei sentimenti” (Bompiani); “Il taglio” “Linguaggio e pulsione di morte, Quodlibet);  Filosofia del linguaggio: storia, autore, concetto” (Carocci); “Psicoanimot, La psicoanalisi e l'animalità” (Graphe); “Lo sguardi animale” (Mimesis); “Per una filosofia del reale” (Bollati Boringhieri); “La vita estrinseca”; “Dopo il linguaggio” (Orthotes, Salerno); “Abbecedario del reale” (Quodlibet, Macerata); “La fabbrica del ricordo (Il Mulino). Il linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet­ te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali, questi ultimi essendo, per altro, ugualmente vocali e interpretabili. Già la nozione di "voce" (phone) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono può essere definito una "voce" quando è emesso da un es­sere animato ed è dotato di significato -- se­mantikos. Ora, un suono emesso da un ani­male non umano, per quanto definito psophos (''rumore" – cf. gemito, riso, pianto), ha tutta­ via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalla voce emessa da un uomo sono due fattori: non è “convenzionale” -- e di conseguenza non può essere né simbolo né nome -- ma è "per na­ tura" (De int.); ed è “a-grammatos”, cioè "inarticolabile" o "non combinabile" (Pot.). La nozione di combinabilità, del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue, è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici -- adiafretoi, "invisibili" -- possono articolarsi in uni­tà più grandi dotate di significato. L’animale non umano, invece, emette solo un suono indivisibile, ma non combinabili (Pot). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del lin­guaggio umano in contrapposizione al suono emesso dall’animale non umano, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elementi indivisibili combinabili e elementi divisibili - lettere - elementi dotati di significato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura - elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi. Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità del suono emesso dall’animale non umano è espresse dal verbo dlofìsi (''rivela­no", De int.), fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del suono da un animale, torna di nuovo in pri­mo piano il carattere SEMIOTICO – SEMANTICO d'una espressione. Il suono dell’animale è SINTOMO che rivela la loro causa. IDel resto, l'opposizione convenzionale/naturale permet­te di distinguere anche tra il linguaggio umano e il suono (vox, Grice’s ‘sound’, ‘groan’) emesso dall’animale, questo ultimo essendo, per altro, ugualmente vocale (vox, vocatum, ‘sound’ – the characterization of a product, groan) e interpretabile. Già la nozione di "voce" (phone, vox – cf. Grice’s ‘sound’ ‘characterisation of a product’, groan) presenta alcune interessanti particolarità. Nel “De anima” si dice che un suono – cf. il ‘sound’ di Grice – ‘I shall use utterance to include the characterization of a product (e.g. a sound)] può essere definito una "voce" [phone, vox] quando: (i) sia emesso da un es­sere animato (II); (ii) sia dotato di significato (semantikos) (Il, 420 b, 29-33). Ora, un suono emesso da un ani­male, per quanto definito psophos (''rumore"), ha tutta­via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalls voce emesse dagli uomini sono due fattori: (i) il suono no e convenzionale (e di conseguenza non puo essere né simbolo né nome), ma è "per na­tura" phusei (De int., 16 a, 26-30); (ii) e ‘a-grammatos,’ cioè "in-articolabili" o "non combinabili" (Poet.). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (33 e sgg.), è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, il cui suono (‘sound’) semplice (“a-diafretos”, ‘in-divisibile’) puo articolarsi in uni­tà più grandi dotate di significato. L’animale, invece, emette solo un suono (Grice’s ‘sound’) in-divisibili, ma non combinabili (Poet.). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri di una lingua come il inglese lin­guaggio umano in contrapposizione al repertorio di suoni emessi da un animali, attraverso uno schema. Lnguaggio umano, e. g. Deutero-Esperanto: I. per convenzione, or decisione. II. Formato di questo o quello elemento in-divisibile ma combinabile e questo o quello elemento divisibili – fonema, lettere (cfr. Grice: utterer’s meaning, sentence-meaning, word-meaning – below the word – meaning), di questo o quello elemento dotato di significato - simbolo – nome. Questo o quello suono di questo o quello animale: I. per natura. II. Elemento in-divisibili MA non combinabili - non lettere – elemento che rivela o manifesta (deloflsl) qualcosa - non simbolo - non nome. Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità di un suono emessi da un animali è espressa dal verbo delofìsi (''rivela­re", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione o la decisione razionale (Deutero-Esperanto), come nel caso del repertorio comunicativo di un animale, torna di nuovo in pri­mo piano il carattere semiotico d'una espressione. Il suono (voce, rumore) di un animale e un sintomo o effeto che rivela naturalmente la sua causa – una affettazione dell’anima. The Bow-Wow Theory. According to the bow-bow theory theory, language began when our ancestors started imitating the natural sounds around them. The first speech was onomatopoeic—marked by echoic words such as moo, meow, splash, cuckoo, and bang.   What's wrong with this theory?  Relatively few words are onomatopoeic, and these words vary from one language to another. For instance, a dog's bark is heard as au au in Brazil, ham ham in Albania, and wang, wang in China. In addition, many onomatopoeic words are of recent origin, and not all are derived from natural sounds.   The Ding-Dong Theory  The ding-dong theory, favoured by Plato and Pythagoras, maintains that speech arose in response to the essential qualities of objects in the environment. The original sounds people made were supposedly in harmony with the world around them.  What's wrong with this theory?  Apart from some rare instances of sound symbolism, there is no persuasive evidence, in any language, of an innate connection between sound and meaning.  The La-La Theory  The Danish linguist Jespersen put forward the la-la theory. He suggests that language may have developed from sounds associated with love, play, and (especially) song.  What's wrong with this theory?  As Crystal notes in "How Language Works" (Penguin, 2005), this theory still fails to account for the gap between the emotional and the rational aspects of speech expression.  The pooh-pooh theory holds that speech begins with an interjection – a spontaneous cry or GROAN of (naturally meaning) pain ("Ouch!"), surprise ("Oh!"), and other emotions ("Yabba dabba do!").  What's wrong with this theory?  No language contains very many interjections, and, Crystal points out, "the clicks, intakes of breath, and other noises which are used in this way bear little relationship to the vowels and consonants found in phonology."  The Yo-He-Ho Theory  According to the yo-he-ho theory, language evolves from the grunt, the groan, and a snort evoked by heavy physical labour.  What's wrong with this theory?  Though this notion may account for some of the rhythmic features of the language, it doesn't go very far in explaining where words come from.  Wikipedia Ricerca Origine del linguaggio umano come, dove, quando e perché è nato il linguaggio Lingua Segui Modifica L'origine del linguaggio umano è un argomento che ha attratto una considerevole attenzione nel corso della storia dell'uomo. L'uso della lingua è uno dei tratti più cospicui che distingue l'Homo sapiens da altre specie. A differenza della scrittura, l'oralità non lascia tracce evidenti della sua natura o della sua stessa esistenza, perciò, i linguisti devono ricorrere a metodi indiretti per decifrare le sue origini.   Secondo la Genesi, la grande varietà di lingue umane si originò dalla Torre di Babele con la confusione delle lingue (immagine dalla Bibbia illustrata di Gustave Doré). I linguisti si trovano d'accordo che non ci sono lingue primitive esistenti, e che tutte le popolazioni umane moderne usano lingue di simile complessità[senza fonte]. Mentre le lingue esistenti si differenziano nei termini della grandezza e dei temi del proprio lessico, tutte possiedono la grammatica e la sintassi necessarie, e possono inventare, tradurre e prendere in prestito il vocabolario necessario per esprimere l'intera gamma dei concetti che i parlanti vogliono esprimere. Tutti gli esseri umani possiedono abilità linguistiche simili e relative strutture biologiche preposte innate, ma nessun bambino nasce con una predisposizione biologica ad imparare una data lingua invece di un'altra[3].   Le lingue umane potrebbero essere emerse con la transizione al comportamento umano moderno circa 164 000 anni fa (Paleolitico superiore). Una supposizione comune è che il comportamento umano moderno e l'emergere della lingua siano coincisi e fossero dipendenti l'uno dall'altro, mentre altri spostano indietro nel tempo lo sviluppo della lingua a circa 200 000 anni fa, al momento in cui apparvero le prime forme di Homo sapiens arcaico (Paleolitico medio), o addirittura al Paleolitico inferiore, a circa 500 000 anni fa. Tale questione dipende dal punto di vista sulle abilità comunicative dell'Homo neanderthalensis. In tutti i casi, è necessario presumere un lungo stadio di pre-lingua, tra le forme di comunicazione dei primati superiori e la lingua umana completamente sviluppata.  L’origine del linguaggio negli studi di Schelling e GrimmModifica Il problema dell’origine del linguaggio fu una tematica fondamentale del Romanticismo. Schelling (filosofo dell’idealismo) e J. Grimm (glottologo, grammatico e autore di fiabe insieme al fratello) sono due autori che hanno due posizioni differenti sull’origine del linguaggio. Schelling, nel suo testo, parla di tre ipotesi fondamentali:  Ipotesi teologica, secondo la quale il linguaggio ha origine divina e viene tramandato di generazione in generazione. Ipotesi istinto-naturalistica, secondo la quale il linguaggio ha avuto origine grazie all’istinto, che è una qualità innata dell’uomo. Ipotesi secondo la quale l’uomo ha imparato a parlare progressivamente: partendo, cioè, dall’urlo e dai gesti, l’uomo è andato a mano a mano costruendo il linguaggio. Il testo di Schelling rimane però indefinito, non arriva cioè ad una conclusione. Il testo di Grimm[5] è stato scritto in contrapposizione al testo di Schelling: egli parte nell’analizzare l’ipotesi teologica, suddividendola in due sottoipotesi, una secondo cui il linguaggio è stato creato insieme alla creazione dell’uomo ed una quella secondo la quale il linguaggio è successivo alla creazione dell’uomo. Entrambe fanno comunque giungere alla conclusione che la lingua appartiene solo alla specie umana e che il linguaggio sia una conquista dell’uomo. La lingua è una conseguenza del pensiero ed inizia nei bambini insieme ad esso[6]. Inoltre, Grimm analizza il linguaggio nella sua evoluzione, suddividendolo in tre stadi: il primo stadio è quello delle prime produzioni vocali, formate da una sillaba. Nel secondo stadio vi è il passaggio dai monosillabi a parole composte da più sillabe e la composizione del linguaggio non è più causale, ma ha un ordine sintattico, si è in grado di esprimere pensieri ordinati e ben connessi. Il linguaggio, nel terzo stadio, migliora sempre di più e si possono esprimere liberamente i propri pensieri[7]. Grimm conclude affermando la grande complessità del tema riguardo all’origine del linguaggio e riconosce che il linguaggio è una proprietà fondamentale dell’uomo strettamente connessa con il pensiero.  Parola e linguaModifica I linguisti fanno distinzione tra il parlare, il discorso e la lingua. Il parlare comporta la produzione di suoni dall'apparato fonatorio. I volatili parlanti, come alcuni pappagalli, sono capaci di imitare parole umane. Ad ogni modo, quest'abilità di imitare i suoni umani è molto diversa dall'acquisizione di una sintassi. D'altro canto, i sordi generalmente non usano il discorso parlato, ma sono in grado di comunicare usando la lingua dei segni, che viene considerata una lingua moderna, complessa e pienamente sviluppata. Ciò implica che l'evoluzione delle lingue umane moderne richiede sia lo sviluppo dell'apparato anatomico per produrre foni sia specifici mutamenti neurologici necessari a sostenere la lingua stessa.  Comunicazione animaleModifica Sebbene tutti gli animali usino una qualche forma di comunicazione, i ricercatori generalmente non classificano questa comunicazione come una lingua. Ad ogni modo, il sistema di comunicazione di alcune specie animali condivide alcune caratteristiche con le lingue umane. I delfini, ad esempio, sono in grado di comunicare come gli esseri umani, chiamandosi per nome. Linguaggi dei primatiModifica Non si sa molto a proposito della comunicazione tra i primati superiori nell'ambiente naturale. La struttura anatomica della loro laringe non permette alle scimmie, come ai bambini, di produrre la maggior parte dei suoni di cui sono capaci gli esseri umani. In cattività è stata insegnata alle scimmie una rudimentale lingua dei segni e l'uso dei lessigrammi — cioè simboli astratti corrispondenti a una parola del vocabolario - e l'uso delle tastiere. Alcune scimmie, come Kanzi, sono riuscite ad imparare ed usare correttamente centinaia di lessigrammi.  Le aree di Broca e di Wernicke nel cervello dei primati sono responsabili del controllo dei muscoli della faccia, della lingua, della bocca e della laringe, così come di riconoscere i suoni. I primati sono noti per le loro "grida vocali", che vengono generate dai circuiti neurali presenti nella corteccia cerebrale e nel sistema limbico.  Nell'ambiente naturale, la comunicazione tra le scimmie Chlorocebus è stata la più studiata[9]. Esse sono note per la produzione di dieci differenti vocalizzazioni. Molte di queste vengono utilizzate per avvertire gli altri membri del gruppo di predatori in avvicinamento ed includono un "grido del leopardo", un "grido del serpente" ed un "grido dell'aquila". Ogni allarme mette in moto una diversa strategia difensiva. Gli scienziati sono stati in grado di ottenere risposte prevedibili dalle scimmie usando altoparlanti e suoni pre-registrati. Le altre vocalizzazioni vengono probabilmente usate per l'identificazione. Se un cucciolo di scimmia grida, la madre si gira verso di lui, ma le altre scimmie si girano verso la madre per osservare quel che essa fa[10].  Antichi ominidiModifica C'è una speculazione considerevole sulle capacità linguistiche degli antichi ominidi. Alcuni studiosi ritengono che l'avvento della postura eretta, circa 3,5 milioni di anni fa, abbia apportato importanti cambiamenti al cranio umano, formando un tratto vocale più a forma di L. La forma di tale tratto ed una laringe relativamente bassa nel collo sono requisiti necessari per produrre molti dei suoni che si producono nelle lingue umane, soprattutto le vocali. Altri studiosi invece credono che, basandosi sulla posizione della laringe, neanche i neanderthaliani avessero l'anatomia necessaria a produrre l'intera gamma di suoni delle lingue dell'Homo sapiens. Un altro punto di vista considera invece irrilevante l'abbassamento della laringe per lo sviluppo della parola. Una proto-lingua assoluta, così come definita dal linguista Derek Bickerton, è una forma di comunicazione primitiva, a cui manca:  una sintassi pienamente sviluppata; tempo, aspetto, verbi ausiliari, ecc.; un vocabolario chiuso (cioè non lessicale). In breve, si tratterebbe di uno stadio nell'evoluzione del linguaggio intermedio tra il linguaggio dei primati superiori e le lingue umane moderne pienamente sviluppate.  Le caratteristiche anatomiche come il tratto vocale a forma di L erano in continua evoluzione, piuttosto che apparire improvvisamente[13]. Anche se i primi ominidi utilizzavano una rozza tecnologia basata sulla pietra, era già più avanzata di quella degli scimpanzé e dei gorilla. Da ciò si deduce che probabilmente gli esseri umani possedessero già una forma di comunicazione più sviluppata degli altri primati. Neanderthaliani La scoperta nel 2007 di un osso ioide di un neanderthaliano ha suggerito l'idea che i neanderthaliani potessero essere anatomicamente capaci di produrre suoni simili a quelli moderni umani e altri studi indicano che 400 000 anni fa il canale ipoglosso degli ominidi aveva raggiunto la dimensione di quello degli umani moderni. Il canale ipoglosso trasmette i segnali nervosi al cervello e si ritiene che la sua dimensione rifletta la capacità di parlare. Gli ominidi che vivevano prima di 300 000 anni fa avevano canali ipoglossi simili più a quelli di uno scimpanzé che a quelli umani. Comunque, anche se i neanderthaliani fossero stati in grado di parlare, Richard G. Klein nel 2004 espresse il dubbio che potessero possedere una lingua complessa come le nostre. Lo studioso basò il suo dubbio sui resti fossili di esseri umani ed i loro attrezzi di pietra. Per 2 milioni di anni dopo la comparsa dell'Homo habilis, la tecnologia degli attrezzi in pietra cambiò molto poco. Klein, che ha lavorato intensamente sugli antichi attrezzi in pietra, descrive l'attrezzatura degli antichi esseri umani come impossibile da separare in categorie basate sulla loro funzione ed afferma che i neanderthaliani sembravano avere uno scarso interesse per la forma finale dei propri attrezzi. Klein sostiene che il cervello dei neanderthaliani probabilmente non aveva raggiunto la complessità necessaria per una lingua articolata, anche se l'apparato fisico per la produzione dei fonemi era già ben sviluppato. La questione sul livello di sofisticatezza culturale e tecnologica dei neanderthaliani rimane tutt'oggi controversa.  Homo sapiens. I primi esseri umani anatomicamente di tipo moderno apparvero per la prima volta nei reperti fossili di 195 000 anni fa in Etiopia. Nonostante fossero anatomicamente di stampo moderno, però, i ritrovamenti archeologici disponibili non indicano che si comportassero diversamente dagli ominidi che li avevano preceduti. Essi utilizzavano gli stessi attrezzi in pietra grezza e cacciavano meno efficientemente degli esseri umani che li avrebbero seguiti[20]. Ad ogni modo, all'incirca da 164 000 anni fa nell'Africa meridionale, ci sono prove di un comportamento più sofisticato e, da quel momento, si ritiene si sia sviluppato il comportamento moderno[20]. A quel punto, una vita di tipo costiero e lo sviluppo dell'attrezzatura associata rimanda evidentemente ad un consumo di molluschi. Questo stile di vita può essere dovuto a pressioni climatiche, conseguenti a condizioni di glaciazione. Gli attrezzi in pietra del periodo mostrano caratteristiche regolari che furono riprodotte o duplicate con più precisione. In seguito, apparvero anche attrezzi fatti di materiale osseo e corna. Questi artefatti possono essere facilmente suddivisi in base alla funzione, come punte per scalfire, attrezzi di incisione, coltelli e attrezzi per trapanare e forare[18]. Insegnare alla prole o ad altri membri del proprio gruppo come produrre tali strumenti dettagliati sarebbe stato difficile senza l'aiuto della lingua.  Il passo più grande nell'evoluzione del linguaggio fu probabilmente il passaggio da una comunicazione primitiva di tipo pidgin ad un linguaggio di tipo creolo, con la grammatica e la sintassi di una lingua moderna[9]. Molti studiosi ritengono che questo passaggio può essere stato compiuto solamente insieme ad alcuni cambiamenti biologici nel cervello, come una mutazione. È stato ipotizzato che un gene come il FOXP2 potrebbe aver subito una mutazione che permise agli esseri umani di comunicare. Le prove suggeriscono che questo cambiamento ebbe luogo in un punto imprecisato dell'Africa orientale, all'incirca dai 100 000 ai 50 000 anni fa, cosa che apportò cambiamenti significativi nei resti fossili[9]. Non è ancora chiaro se le lingue si svilupparono gradualmente in migliaia di anni o apparvero relativamente all'improvviso.  Le aree di Broca e di Wernicke apparvero anche nel cervello umano, la prima coinvolta in scopi cognitivi e percettivi, la seconda collegata alle abilità linguistiche. Gli stessi percorsi neurali ed il sistema limbico degli altri primati controllano i suoni non verbali anche negli esseri umani (risata, pianto, ecc.), cosa che suggerisce che il centro del linguaggio umano sia una modifica dei percorsi neurali comune a "tutti" i primati. Questa modifica e le abilità per la comunicazione linguistica sembrano essere uniche degli esseri umani e ciò implica che l'insieme degli organi per il linguaggio parlato si sia sviluppato dopo che il ramo evolutivo umano si è separato da quello degli altri primati. In tal modo, il linguaggio parlato è una modificazione della laringe unica degli esseri umani.  Secondo la teoria dell'origine "Out of Africa" ("Uscendo dall'Africa" o "Dall'Africa verso il mondo"), circa 50 000 anni fa[22] un gruppo di esseri umani lasciò l'Africa e procedette nella colonizzazione del resto del mondo, inclusa l'Australia e le Americhe, che non erano mai state popolate dagli ominidi che le avevano precedute. Alcuni scienziati[23] ritengono che l'Homo sapiens non abbandonò l'Africa prima di allora, perché non aveva ancora acquisito le cognizioni moderne ed il linguaggio parlato e, perciò, non aveva le abilità, nonché il numero di persone sufficienti a migrare. Ad ogni modo, dato il fatto che l'Homo erectus riuscì a lasciare il continente molto prima (senza un utilizzo diffuso delle lingua, attrezzi sofisticati né un'anatomia moderna), le ragioni per cui gli esseri umani anatomicamente moderni rimasero in Africa probabilmente ebbe maggiormente a che fare con le condizioni climatiche.  MonogenesiModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua primigenia. La teoria dell'origine monogenetica è l'ipotesi per cui ci sarebbe stata una singola protolingua (la "lingua primigenia" o protolingua mondiale) dalla quale si sarebbero poi distinte tutte le lingue parlate dagli esseri umani. Tutta la popolazione umana, dagli aborigeni australiani ai fuegini, possiede delle lingue. Questo include popoli, come gli aborigeni tasmaniani o gli andamanesi, che sono rimasti isolati dagli altri popoli per anche 40 000 anni. Così, l'ipotesi dell'origine poligenetica comporterebbe che le lingue moderne si siano evolute indipendentemente su tutti i continenti, un'ipotesi considerata non plausibile dai sostenitori della monogenesi.  Tutti gli esseri umani odierni discendono da una Eva mitocondriale, una donna che si ritiene vivesse in Africa circa 150 000 anni fa. Ciò ha sollevato la possibilità che la lingua primigenia possa essere datata approssimativamente a quel periodo[26]. Ci sono anche teorie su un effetto a collo di bottiglia sulla popolazione umana, soprattutto la teoria della catastrofe di Toba, la quale ipotizza che la popolazione umana ad un certo punto, circa 70 000 anni fa, si sia ridotta a 15 000 o 2 000 individui[27]. Se ciò avvenne realmente, un tale effetto a collo di bottiglia sarebbe un eccellente candidato per il momento della protolingua mondiale, anche se ciò non implica che sia anche il momento in cui sia emerso il linguaggio parlato come capacità.  Alcuni sostenitori di tale ipotesi, come Merritt Ruhlen, hanno tentato di ricostruire la lingua primigenia. Ad ogni modo, la maggior parte dei linguisti rifiutano questi tentativi ed i metodi utilizzati (come la comparazione lessicale di massa) per varie ragioni.  Scenari dell'evoluzione della linguaModifica Teoria dei gestiModifica La teoria dei gesti afferma che il linguaggio umano parlato si sia sviluppato dai gesti che venivano usati per la semplice comunicazione.  Due tipi di prove sostengono questa teoria.  Il linguaggio dei gesti e quello vocale dipendono da sistemi neurali simili. Le regioni della corteccia cerebrale che sono responsabili dei movimenti della bocca e di quelli delle mani si trovano a stretto contatto. I primati usano gesti o simboli per una forma primitiva di comunicazione, ed alcuni di questi gesti assomigliano a quelli umani, come la "posizione di richiesta", con le mani allungate in fuori, che gli esseri umani hanno in comune con gli scimpanzé.[30] La ricerca ha trovato un considerevole supporto per l'idea che il linguaggio verbale e quello dei segni dipendano da strutture neurali simili. Pazienti che usano la lingua dei segni e che hanno sofferto di una lesione all'emisfero cerebrale sinistro, hanno dimostrato gli stessi disordini linguistici nella lingua dei segni dei pazienti capaci di parlare.[31] Altri ricercatori hanno rilevato che la stessa regione sinistra del cervello è attiva sia durante la produzione di una lingua dei segni, sia durante l'uso di un linguaggio vocale o scritto. La questione più importante per la teoria dei gesti è per quale motivo ci fu un passaggio allo strumento vocale. Ci sono tre possibili spiegazioni:  I primi esseri umani cominciarono ad utilizzare sempre più strumenti, che tenevano loro le mani occupate, senza poterle usare per gesticolare. La gesticolazione richiede che gli individui si debbano vedere tra di loro. Ci sono molte situazioni in cui gli individui hanno bisogno di comunicare senza contatto visivo, ad esempio quando un predatore si avvicina a qualcuno che è su un albero a raccogliere frutta. Il bisogno di cooperare effettivamente con gli altri per sopravvivere. Un comando dato da un leader di una tribù di 'trovare' 'pietre' per 'respingere' 'lupi' avrebbe creato un gruppo di lavoro e una risposta più potente e coordinata. Gli esseri umani utilizzano ancora i gesti manuali e facciali quando parlano, specialmente quando le persone che comunicano non usano la stessa lingua.[33] I sordomuti usano lingue composte interamente da segni e gesti.  Pidgin e creoliModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua creola e Pidgin. Un pidgin è una lingua semplificata che si sviluppa come mezzo di comunicazione tra due o più gruppi che non parlano la medesima lingua, in situazioni come il commercio, il cui vocabolario è generalmente derivato dalle lingue dei vari gruppi. Il modo in cui i pidgin si sviluppano è d'interesse per comprendere le origini del linguaggio verbale umano. I pidgin sono lingue significativamente semplificate, con una grammatica rudimentale ed un vocabolario ristretto. Nei primi stadi del loro sviluppo i pidgin consistono soprattutto di nomi, verbi ed aggettivi, senza articoli e verbi ausiliari e con pochissime preposizioni e congiunzioni. La grammatica consiste di parole senza ordine fisso e senza desinenze di declinazione. Se questi contatti tra i gruppi si mantengono saldi per lunghi periodi di tempo, i pidgin possono diventare pian piano sempre più complessi attraverso le generazioni. Se i bambini di una generazione adottano il pidgin come lingua madre, questa diventa una lingua creola, che si fissa e acquisisce una grammatica più complessa, con una fonetica fissa, una sintassi, una morfologia. La sintassi e la morfologia di tali lingue presentano a volte delle innovazioni locali che non derivano dalle lingue da cui sono nate.  Gli studi sulle lingue creole del mondo hanno dimostrato che possiedono somiglianze evidenti nella grammatica e si sono sviluppate uniformemente dai pidgin in una singola generazione. Queste somiglianze sono evidenti quando le lingue creole non condividono alcuna lingua originale. Inoltre le lingue creole hanno delle somiglianze anche se si sono sviluppate isolatamente rispetto alle altre. Le somiglianze sintattiche includono l'ordine delle parole Soggetto Verbo Oggetto. Anche se una lingua creola nasce da lingue con ordini delle parole differenti, sviluppa spesso un ordine SVO. Le lingue creole tendono ad avere modelli di uso simili per gli articoli determinativi ed indeterminativi e regole di movimento simili per le strutture frasali anche quando le lingue-genitori non le hanno.[9]  Grammatica universaleModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Grammatica universale. Dato che i bambini sono largamente responsabili della creolizzazione di un pidgin, studiosi come Derek Bickerton e Noam Chomsky hanno concluso che gli esseri umani nascono con una grammatica universalegià inclusa nei loro cervelli. Questa grammatica universale consiste di un'ampia gamma di modelli grammaticali che includono tutti i sistemi grammaticali di tutte le lingue del mondo. Le impostazioni di base di questa grammatica universale sono rappresentate dalle somiglianze evidenti nelle lingue creole. Queste impostazioni di base vengono annullate dai bambini durante il processo di acquisizione della lingua per adattarsi alla lingua locale. Quando i bambini imparano una lingua, dapprima apprendono le caratteristiche più simile a quelle creole, e poi quelle che entrano in conflitto con la grammatica creola.[9]  Un'altra questione che viene spesso citata come supporto per la grammatica universale è il recente sviluppo della lingua dei segni nicaraguense. Il governo del Nicaragua dette inizio al primo sforzo diffuso del paese per educare i bambini sordomuti. Prima di ciò non esisteva una comunità sordomuta nel paese. Un centro d'educazione speciale stabilì un programma inizialmente seguito da 50 bambini sordomuti. Questo centro non aveva accesso alle strutture di insegnamento di una delle lingue dei segni usate nel mondo; perciò non veniva insegnato ai bambini nessun linguaggio. Il programma linguistico invece enfatizzava lo spagnolo parlato e la lettura delle labbra, nonché l'uso di segni da parte dell'insegnante che assomigliassero alle parole dell'alfabeto. Il programma ebbe uno scarso successo e la maggior parte degli studenti non riuscirono a comprendere il concetto delle parole spagnole.  I primi bambini arrivarono al centro con pochissimi gesti sviluppati in precedenza all'interno delle proprie famiglie. Ad ogni modo, quando i bambini vennero messi insieme per la prima volta cominciarono a costruire una forma di comunicazione usando i vari segni di ogni bambino. Più bambini si aggiungevano più la lingua diventava complessa. Gli insegnanti dei bambini, che avevano avuto uno scarso successo nel comunicare con i propri studenti, guardavano meravigliati i bambini che riuscivano a comunicare tra di loro.  In seguito il governo nicaraguense sollecitò l'aiuto di Judy Kegl, un'esperta della lingua dei segni alla Northeastern University. Quando Kegl ed altri ricercatori cominciarono ad analizzare la lingua, notarono che i bambini più giovani avevano preso le forme pidgin dai bambini più vecchi e le avevano portate ad un alto livello di complessità, con un accordo verbale e altre convenzione della grammatica. Approccio sinergico La Azerbaijan Linguistic School ritiene che il meccanismo per la nascita del linguaggio umano moderno, sofisticato e complicato, sia identico al meccanismo evolutivo della scrittura.  Lo sviluppo della scrittura ha vissuto differenti fasi:  Fase I: Grafema = frase (scrittura pittografica) Fase II: Grafema = parola o sintagma (scrittura ideografica) Fase III: Grafema = sillabario (scrittura sillabica) Fase IV: Grafema = suono (scrittura fonetica) Allo stesso modo una lingua avrebbe passato stadi simili:  Fase I: Fonema = frase (linguaggio pittografico) Fase II: Fonema = parola o sintagma (linguaggio ideografico) Fase III: fonema = sillabario (linguaggio sillabico) Fase IV: fonema = suono (linguaggio fonetico) Vale a shout, qualche grido, all'inizio sostituiva l'intera frase, quindi soltanto una parte della frase, e poi la parte della parola. Storia La ricerca delle origini della lingua ha una lunga storia, come testimonia anche la mitologia classica.  Storia della ricercaModifica Verso la fine del XVIII secolo od agli inizi del XIX gli studiosi europei ritenevano che le lingue del mondo riflettessero i vari stadi dello sviluppo da una lingua primitiva a quelle più avanzate, culminando nella famiglia indoeuropea, ritenuta la più avanzata. La linguistica moderna non nacque prima del tardo XVIII secolo e le tesi romantiche di Johann Gottfried Herdere di Johann Christoph Adelung rimasero molto influenti. La questione delle origini della lingua si dimostrò inaccessibile agli approcci metodici, e nel 1866 la Società Linguistica di Parigi vietò clamorosamente le discussioni sull'origine della lingua, ritenendola un problema irrisolvibile. Un approccio sistematico alla linguistica storica divenne possibile solamente con l'approccio neogrammaticale di Karl Brugmann ed altri a partire dal 1890, ma l'interesse degli studiosi per la questione riprese gradualmente piede a partire dal 1950, con idee come la grammatica universale, la comparazione lessicale di massa e la glottocronologia. L'"origine della lingua" come materia a sé stante emerse dagli studi di neurolinguistica, psicolinguistica e di evoluzione umana in generale. La bibliografia linguistica introdusse l'"origine della lingua" come un capitolo separato nel 1988, come un argomento minore dalla psicolinguistica, mentre istituti di ricerca di evoluzione linguistica emersero solo negli anni novanta.  Esperimenti storiciModifica La storia ha un vario numero di aneddoti su persone che tentarono di scoprire le origini della lingua per esperimento. Il primo tentativo viene riportato da Erodoto, che racconta che il faraone Psammetichus (probabilmente Psametek) fece crescere due bambini da pastori sordomuti, volendo vedere alla fine quale lingua avrebbero parlato senza influenze. Quando i bambini furono portati di fronte a lui, uno di essi disse qualcosa che al faraone suonò come bekos, la parola frigia per pane. Perciò Psammetichus concluse che il frigio fosse la prima lingua. Si racconta che anche il re Giacomo V di Scozia tentò un esperimento simile, e questi bambini avrebbero infine parlato ebraico. Anche il monarca medievale Federico II ed Akbar, un imperatore indiano del XVI secolo, tentarono un esperimento simile ma i bambini utilizzati alla fine non parlarono e morirono. Nella religione e nella mitologiaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Lingua sapienziale. Le religioni ed i miti etnici spesso danno delle spiegazioni per le origini e lo sviluppo del linguaggio verbale. La maggior parte delle mitologie non ritengono l'uomo inventore della lingua, ma credono in una lingua divina, antecedente a quelle umane. Lingue mistico-magiche usate per comunicare con gli animalio gli spiriti, come la lingua degli uccelli, sono pure state analogamente ricercate, ed erano di particolare interesse durante il Rinascimento, per la loro capacità di penetrare l'essenza della realtà tramite un'apprensione immediata di natura intuitiva anziché discorsiva.  Uno dei migliori esempi nella cultura occidentale è il passaggio della Genesi nella Bibbia riguardo alla Torre di Babele. Questo passaggio, comune a tutte le fedi abramiche, racconta di come Dio punì gli uomini per aver costruito la torre, confondendo la loro lingua e creandone di nuove (Genesi).  Un gruppo di persone dell'isola di Hao, in Polinesiaracconta una storia molto simile a quella della torre di Babele, parlando di un dio che, "in preda alla rabbia scacciò via i costruttori, distrusse l'edificio e cambiò la loro lingua, così che parlassero differenti lingue". Primitive languages, su Language Miniatures. Pinker, The Language Instinct: How the Mind Creates Language, New York, Harper Perennial Modern Classics, The Handbook of Linguistics, eds. Aronoff et JRees-Miller. Oxford: Blackwell. Vorbemerkungen zu der Frage über den Ursprung der Sprache (Premesse alla questione sull'origine del linguaggio), in: Schelling, Werke (a cura di. M. Schröter), 4. Ergänzungsband (volume supplementare), Monaco; Über den ursprung der Sprache", ristampato in: J. Grimm, Kleinere Schriften, Vol. 1, Berlino; Grimm, F.W.J. Schelling, Sull'origine del linguaggio, Milano, Marinotti, Grimm, F.W.J. Schelling, Sull'origine del linguaggio, Milano, Marinotti, Dolphins 'Have Their Own Names', su BBC News;Diamond, The Third Chimpanzee: The Evolution and Future of the Human Animal, New York, Harper Perennial, Wade, Nicholas, Nigerian Monkeys Drop Hints on Language Origin, su nytimes.com, The New York Times, Fitch, W. Tecumseh, The Evolution of Speech: A Comparative Review isrl.uiuc.edu;Ohala, The irrelevance of the lowered larynx in modern man for the development of speech Archiviato il 29 giugno 2011 in Internet Archive.. In Evolution of Language - Paris conference, Internet Archive. Olson, Mapping Human History, Houghton Mifflin Books, 2Ogni adattamento prodotto dall'evoluzione è utile solo nel presente, e non in futuro indefinito. Così l'anatomica vocale ed i circuiti neurali necessari per la produzione dei suoni delle lingue non possono essersi evoluti per qualcosa che ancora non esisteva ^ Merritt Ruhlen, Origin of Language, Earlier human ancestors, such as Homo habilis and Homo erectus, would likely have possessed less developed forms of language, forms intermediate between the rudimentary communicative systems of, say, chimpanzees and modern human languages ^ Jungers, William L. et. al., Hypoglossal Canal Size in Living Hominoids and the Evolution of Human Speech, in Human Biology, DeGusta, David et. al., Hypoglossal Canal Size and Hominid Speech, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, Hypoglossal canal size has previously been used to date the origin of human-like speech capabilities to at least 400,000 years ago and to assign modern human vocal abilities to Neandertals. These conclusions are based on the hypothesis that the size of the hypoglossal canal is indicative of speech capabilities. ^ Johansson, Sverker, Constraining the Time When Language Evolved ( PDF ), in Evolution of Language: Sixth International Conference, Rome, Hyoid bones are very rare as fossils, as they are not attached to the rest of the skeleton, but one Neanderthal hyoid has been found (Arensburg), very similar to the hyoid of modern Homo sapiens, leading to the conclusion that Neanderthals had a vocal tract similar to ours (Houghton; Bo¨e, Maeda, et Heim, Klarreich, Erica, Biography of Richard G. Klein, in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, Klein, Richard G., Three Distinct Human Populations, su Biological and Behavioral Origins of Modern Humans, Access Excellence @ The National Health Museum; Schwarz, J. uwnews.org uwnews Risorse e informazione; Internet Archive. ^ Lewis Wolpert, Six impossible things before breakfast, The evolutionary origins of belief; Minkel, J. R., Skulls Add to "Out of Africa" Theory of Human Origins: Pattern of skull variation bolsters the case that humans took over from earlier species, su sciam.com, Scientific American; Klein, Richard, Three Distinct Populations, su accessexcellence. You've had modern humans or people who look pretty modern in Africa by 100,000 to 130,000 years ago and that's the fossil evidence behind the recent "Out of Africa" hypothesis, but that they only spread from Africa about 50,000 years ago. What took so long? Why that long lag, 80,000 years? ^ Wade, Nicholas, Early Voices: The Leap to Language, The New York Times, Sverker, Johansson, Origins of Language - Constraints on Hypotheses su arthist.lu. Ruhlen, Merritt, Language Origins, su findarticles.com, National Forum; Whitehouse, David, When Humans Faced Extinction, su news.bbc.co.uk, BBC News; Rosenfelder, Mark, Deriving Proto-World with Tools You Probably Have at Home, su Zompist; Salmons, 'Global Etymology' as Pre-Copernican Linguistics, in California IPA: lɪŋ gwɪs tɪk Notes, Program in Linguistics, California State University, Premack, David et Premack, Ann James. The Mind of an Ape, Kimura, Doreen, Neuromotor Mechanisms in Human Communication, Oxford, Newman, A. J., et al., A Critical Period for Right Hemisphere Recruitment in American Sign Language Processing, in Nature Neuroscience; Kolb, Bryan, and Ian Q. Whishaw, Fundamentals of Human Neuropsychology, 5th edition, Worth; A Linguistic Big Bang ^ Mammadov J.M.: Origine della lingua. p.160-172 ^ Azerbaijan Linguistic School: The origin of language ^ Maryanne Wolf,Proust e il calamaro.Storia e scienza del cervello che legge, trad. di Stefano Galli, Vita e Pensiero, 2009, Milano, Re: Did hitler experiment with babies ^ Linguistics 201: First Language Acquisition, su pandora.Allott, Robin, The motor theory of language origin, Sussex, England, Book Guild, Cangelosi, A., Greco, A. et Harnad, Symbol Grounding and the Symbolic Theft Hypothesis. In: Cangelosi, A. et Parisi, D. (Eds.) Simulating the Evolution of Language. London, Springer. Crystal, David, The Cambridge encyclopedia of language, Cambridge, UK, Cambridge Deacon, Terrence William, The symbolic species: the co-evolution of language and the brain, New York, W.W. Norton; Dunbar, R. I. M., Grooming, gossip and the evolution of language, Londra, Faber; Givón, The evolution of language out of pre-language, Typological studies in language, vol. 53, Amsterdam: John Benjamins Harnad, SR, Lancaster, JB; Steklis, HD, Origins and evolution of language and speech, New York, N.Y., New York Academy of Sciences, Hauser, M.D., Chomsky, N.; Fitch, W., The Faculty of Language: What Is It, Who Has It, and How Did It Evolve?, in Science, Hurford, Nativist and functional explanations in language acquisition; in Roca, I.M., Logical issues in language acquisition, Foris, 1990, ISBN. Komarova, N.L., Language and Mathematics: An evolutionary model of grammatical communication. In: History et Mathematics. Ed. by Leonid Grinin, Victor C. de Munck, and Andrey Korotayev. Moscow, KomKniga/URSS, Vajda, The Origin of Language, su pandora. FBM de Waal, Pollick AS, Ape gestures and language evolution, in Proceedings of the National Academy of Sciences; popular summary in L Williams, Human language born from ape gestures, Cosmos, Wong, Yan; Dawkins, Richard, The ancestor's tale: a pilgrimage to the dawn of life, Londra, Weidenfeld et Nicolson, Grimm, F.W.J. Schelling, Sull'origine del linguaggio, Milano, Marinotti, Lingua (linguistica) Linguaggio Oralità Tradizione orale Teoria bau-bau Language and Social Organization, su evolution-of-man.info. PAGINE CORRELATE Grammatica universale Teoria linguistica che postula che i principi della grammatica siano condivisi da tutte le lingue, e siano innati per tutti gli esseri umani.  Rilessificazione Origine africana dell'Homo sapiens Wikipedia Il Grice: “I share a lot with Cimatti; we both believe that there’s a semiotic continuity, and more important that it’s psi-transmission that matters: a pirot perceives that the a is b, and communicates that the a is b to another pirot, who perceives the communicatum, ‘the a is b’ and comes to think that the other pirot thinks that the a is b – I use ‘think’ as dummy. ‘accept’ may do, to cover willing, since it’s willing that’s basic, though! Felice Cimatti. Keywords: fondamenti naturali della comunicazione, homo sapiens, storia innaturale, non-naturale, unnatural – non-natural, naturalization, animale, bestia, linguaggio, segno, vita, zoo-semiotica, prodi, corpo, codice, mente, cognitivismo, comunicazione, animale, soglia semiotica, mentalismo, storia innaturale, comunicazione giovenile, fundamenti naturali della comunicazione, percezione e comunicazione, comunicazione come percezione trasferita, psi-transfer. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cimatti” – The Swimming-Pool Library. Cimatti.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cincio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Firenze). A philosopher of the Porch.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cinna: il portico a Roma  -- il tutore del principe – filosofia italiana (Roma). A member of the Porch and tutor to Antonino. The emperor claims to have learned from C. the value of friendship, children, and praise. Cina Catulo. Cinna.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cione: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del corporazionismo -- Dedalo ed Icaro – l’idea corporativa come interpretazione della storia – scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano. Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I love Cione; my favourite is “The age of Daedalus – which reminds me of Gilbert’s statuette and the Italian model who posed for him – the story of a failure!” Grice: “But Cione philosophised on various other subjects as well, such as Leibniz, and of course, Croce – in his case, first-hand knowledge! – and mysticism, and Mussolini, and the rest of them – He thinks there is a Neapolitan dialectic, and really is in love with his environs – his study of ‘romantic Naples’ reminds me of my rules of conversational etiquette! – especially the illustrations involving gentleman-lady interaction!” Di tendenze socialiste, e in un primo momento anti-fasciste, studia sotto Croce. Perseguitato della prima ora dal fascismo, viene rinchiuso nel campo di Colfiorito di Foligno e poi mandato al confino a Montemurro. Attratto dal nuovo indirizzo espresso dal Manifesto di Verona, aderisce alla Repubblica Sociale Italiana. Chiede e ottiene il consenso di Mussolini (il quale si rende esplicitamente concorde) per la costituzione di una formazione politica indipendente dal Partito Fascista Repubblicano, denominata in un primo momento Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista e, in seguito, Partito Repubblicano Socialista Italiano. A tale formazione politica, su suggerimento dello stesso Mussolini, sarà concessa anche la pubblicazione di un quotidiano L'Italia del Popolo. Il Duce però non aveva nessuna fiducia né nell'uomo né nell'impresa, tanto che durante una conversazione con l'ambasciatore Rudolf Rahn preoccupato per una possibile apertura "a sinistra" del capo del fascismo ebbe a dichiarare:  Per ingannare i nostri avversari ho lasciato, non appena ho pensato che il nuovo fascismo in Italia fosse abbastanza forte, che alcune contro-correnti dicessero la loro, tra l’altro ho permesso che si formasse un gruppo di opposizione sotto la guida di C. Non ha una gran testa, e non avrà successo. Ma la gente che ora sta cercando di crearsi un alibi si raccoglierà intorno a lui e quindi sarà perduta per il comitato di liberazione che è molto più pericoloso. Salvatosi dalle epurazioni partigiane nel dopoguerra, si costruirà una carriera politica nell’Italia repubblicana. Milita nel Fronte dell'Uomo Qualunque. Successivamente, quando il partito di Giannini si sciolse, entra nel Movimento Sociale Italiano e venne eletto consigliere e poi assessore della giunta di Achille Lauro. Si candida al Senato con la lista della fiamma nel colleggio di Afragola ma non fu eletto. Deluso dai missini, adiere alla democrazia cristiana, senza però svolgere una militanza attiva nel partito. Negli ultimi anni di vita cercò di conciliare il messaggio di papa Giovanni XXIII con le aperture di Nikita Kruscev oltre la cortina di ferro. Altre opere: “Valdés: la sua vita e il suo pensiero religioso con una completa  della sua opere e degli scritti intorno a lui” (Laterza editore); “Sanctis, Ed. Giuseppe Principato); “L'opera filosofica, coautore Franco Laterza, Laterza editore); “Napoli romantica” (Gruppo Editoriale Domus); “L'estetica di Sanctis” (Pennetti Casoni Editore); “Da Sanctis al Novecento” (Garzanti); “Nazionalismo sociale” “l'idea corporativa come interpretazione della storia” (Achille Celli Editore); “Napoli e Malaparte” (Editore Pellerano-Del Gaudio); “Storia della repubblica sociale italiana” (Ed. Latinità); “Croce, coll. "I Marmi", Longanesi); “Crociana” (Fratelli Bocca); “Sanctis” (Montanino); “Questa Europa” (M. Mele); “Fascino del mondo arabo: dal Marocco alla Persia, Cappelli Editore); “Croce” (Loganesi); “Fede e ragione nella storia: filosofia della religione e storia degli ideali religiosi dell'Occidente” (Cappelli Editore); “La Cina d'oggi, Filippine, Formosa, Giappone” (Ceschina); “Leibniz” (Libreria scientifica editrice); “Narrativa del Novecento, Istituto editoriale del Mezzogiorno); “L’eta di Dedalo”; “Un viaggio elettorale, Bompiani). Dizionario Biografico degli Italiani. Un ex allievo di Croce negli ultimi mesi di Salò crea un "partito contro" su suggerimento del ministro dell'Educazione Biggini di Silvio Bertoldi.  Per ultimi ma non meno importante ricordiamo anche l’esperienza della rivista La Verità diretta da Nicolò Bombacci, tra i fondatori del partito comunista e in seguito avvicinatosi al Fascismo, pur con posizioni indipendenti tendenti al socialismo nazionale, e dove ne sarà portavoce anche nella successiva esperienza di Salò assieme ad altre personalità come Giuseppe Solaro ed Edmondo Cione, e la magistrale figura del poeta americano Ezra Pound, il quale giudicò positivamente il modello politico ed economico dello stesso Fascismo.  Home  Cultura Cultura (di G.Parlato). Perché leggere “Storia della Rsi” di C. By Redazione   4 anni Ago Il sigillo della Repubblica Sociale ItalianaIl sigillo della Repubblica Sociale Italiana Sarà forse una caratteristica tipicamente italiana, ma da noi persino le guerre civili lasciano molto, moltissimo spazio alle mediazioni e ai tentativi di compromesso. Vi furono diversi tentativi, tutti falliti, di dare alla guerra fratricida un altro esito, meno sanguinoso, più indirizzato verso un passaggio “indolore” dei poteri dalla Rsi al movimento partigiano e, infine, al Regno.  Si trattò di operazioni sotterranee molto complesse, spesso contraddittorie, che si fondavano su un equivoco: la possibilità che una parte del movimento partigiano (i socialisti, e neppure tutti) potessero staccarsi dalla opprimente pressione delle Brigate Garibaldi gestite dal Pci e realizzare una soluzione pacifica di passaggio dei poteri nel Nord Italia in nome di un socialismo  che avrebbe dovuto riunire tutti, da Mussolini a Nenni.  Protagonisti di questo tentativo, un po’ nobile, un po’ ingenuo, un po’ velleitario furono diversi personaggi di ambo le parti: da parte fascista, i ministri della Rsi Carlo Alberto Biggini e Piero Pisenti, i sindacalisti Manunta e Dinale, il capo della polizia di Salò Renzo Montagna, il capo della Decima Junio Valerio Borghese, più altri minori; da parte socialista, Bonfantini,Vigorelli, Silvestri, Zocchi e soprattutto Andreoni, autore di un confuso ed equivoco tentativo di “collaborazione militare ma non politica” (!!) tra fascisti di Salò e socialisti di sinistra contrari alla egemonia comunista nel Cln.  Punto di raccordo di molti di questi fiumi sotterranei è C., filosofo, collaboratore di Croce, antifascista liberale, confinato politico, il quale alla vigilia della guerra civile decide di puntare sulla riconciliazione degl’italiani.  Un progetto ambizioso, non sempre sorretto da una vera lucidità politica, che comunque portò a tre risultati importanti, nel crepuscolo della Rsi: in primo luogo, C. riuscì a catalizzare attorno a sé un gruppo di fascisti e di antifascisti che opera per il passaggio indolore dei poteri. In secondo luogo, riusce ad avere la fiducia di Mussolini che gli finanzia un quotidiano, “L’Italia del Popolo”. Infine riusce a costituire un movimento politico di opposizione in Repubblica Sociale, il Raggruppamento Nazionale Repubblicano Socialista che doveva essere il primo segnale verso la liberalizzazione dei partiti in Rsi.  Naturalmente ciò avvenne con l’approvazione dei fascisti “moderati”, come  Borsani, Agazio e Pettinato, e con la violenta opposizione degli intransigenti, come Pavolini, Mezzasoma ed Almirante.  La dettagliata storia di queste più o meno sottili trame, di questi tentativi è il filo conduttore del volume di C., STORIA DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA (Altergraf). Si tratta di una storia che, tra le prime, ricostruisce le vicende della Rsi e il suo valore è soprattutto questo.  Il mondo variegato e talvolta contraddittorio di quelli che cercarono di costruire  dei ponti tra fascismo e antifascismo è complesso ma, in genere, comprendefascisti di sinistra -- più moderati e aperti al pluralismo -- e socialisti -- insofferenti al peso del Pci. Che qui ci si trovi al cospetto di un liberale è senza dubbio un elemento di novità. Perché un liberale e, pur con tutti i distinguo, crociano accetta di sostenere i punti di Verona, la socializzazione, l’ultimo fascismo mussoliniano, rivoluzionario, socialista e anticapitalista? Si tratta effettivamente di un problema non da poco che può essere spiegato solo con il costante richiamo alla  CONCORDIA nazionale.  Una concordia che non è però soltanto un moto dell’animo, ma che si sostanzia di un elemento a nostro avviso centrale: la necessità del superamento dell’antitesi fascismo – antifascismo, considerando C. il fascismo un elemento essenziale nella storia italiana, del quale è indispensabile tenere conto -- non per esaltarlo ma piuttosto per proseguire nel cammino della comunità nazionale senza parentesi e senza demonizzazioni. L’errore dell’antifascismo, per C., è quello di ritenere di potere cancellare il periodo fascista dalla storia italiana e soprattutto di potere non considerare  con attenzione le soluzioni che il fascismo, pur in un quadro autoritario, individua allo scopo di contribuire a fare ritrovare unità e concordia nella società italiana. In questo senso l’esperienza corporativa, che C. intese sempre in senso produttivistico piuttosto che in termini rivoluzionari, può essere interessante da recuperare in una chiave pluralistica.  Più complessa la risoluzione dell’altro problema che lo assilla e che, in qualche modo, è correlato con la ricerca della concordia: il persistere, nella dinamica politica italiana, della categoria del nemico assoluto da abbattere. Essendo più FILOSOFO che storico, C. non si rende conto che l’Italia dopo la prima guerra mondiale non è più quella precedente. Il pretendere che le contrapposizioni, giunte fino alla guerra civile, si componessero con un semplice richiamo alla concordia, dimostra quello che acutamente aveva colto Artieri, e che cioè C. pensava e scriveva come se vivesse nell’Italia di Giolitti e di Scarfoglio.  In questa sua incapacità di leggere fino in fondo la lezione della storia si trova la inattualità politica del saggio di C. sulla Rsi,  ma anche il fascino dell’impolitico, di chi cioè preferisce manifestare le proprie convinzioni anche se esse non sono più in grado di produrre effetti politici.  La sua originalità risiede anche in un ultimo aspetto. Se è vero  che in Italia il filosofo  tende a correre verso il carro del vincitore, la storia di C. è quella di un filosofo che pur provenendo dalla parte dei futuri vincitori, volle stare dalla parte dei perdenti per cercare, senza riuscirci, di rendere meno dura la vendetta finale.  C. compiuti i suoi studi prima presso il consolato germanico, poi presso il Liceo-ginnasio Vittorio Emanuele II, si iscrive al collegio militare della Nunziatella. C., sottoposto a una severa educazione familiare e a una altrettanto severa disciplina scolastica, manifesta idealmente i primi segni di ribellione rivolgendo precocemente il suo interesse verso la filosofia e allontanandosi dall'ambiente autoritario della Nunziatella. Grazie a Secolo comincia a frequentare la casa di Croce, del quale divenne allievo, accettandone in pieno le idee e gli insegnamenti.  Un saggio suo, pubblicato a Napoli e intitolata "Il dramma religioso dello spirito moderno e la Rinascenza", in cui prende posizione contro Gentile, gli procura violente critiche da parte dei fascisti. La frequentazione di casa Croce non gli impedì tuttavia, di collaborare con alcuni giornali e periodici del regime. Consegue la laurea e concorsa a un posto di ordinatore di biblioteche e ne ottenne l'incarico presso la Biblioteca di Venezia, poi trasferito presso la Biblioteca di Firenze. A questi anni risalgono i suoi rapporti epistolari con alcuni esponenti dell'opposizione liberale come Sforza, Vinciguerra, Casati ed altri. A causa dell'intercettazione di una sua lettera, il cui contenuto era stato male interpretato, C. è arrestato dalla polizia e internato nel campo di concentramento di Colfiorito presso Foligno, e in seguito confinato a Montemurro Lucano. Revisa le sue idee antifasciste e decide di abbandonare le posizioni liberali. Eento non meno significativo nella vita di C. è la rottura dei suoi rapporti con Croce, a causa della revoca da parte di Croce della compilazione di un volume celebrativo, che C. aveva preparato sull'opera e sul filosofo.  Il volume è poi pubblicato dalla casa editrice Laterza di Bari con il titolo "Croce".  Dopo l'internamento e il confino, ritornato in libertà, C. è in servizio come bibliotecario presso la Biblioteca Braidense di Milano. Collabora alla rivista diretta da Chabod "Popoli", dell'Istituto per gli studi di politica. Ottenne la libera docenza di storia della filosofia. Tra i suoi saggi, il volume edito a Milano e intitolato "Croce", la cui polemica prefazione era stata pubblicata anticipatamente sul Corriere della Sera, procura a C. numerosi consensi anche da parte di MUSSOLINI, che C. incontra personalmente grazie alla mediazione dell'allora Ministro della Cultura Biggini. Cione fonda, col consenso di Mussolini, il "Raggruppamento nazionale repubblicano socialista" e il giornale "L'Italia del Popolo" che, sollevando l'ostilità dell'ala fascista più estrema, dopo soli 12 numeri è sospeso a causa di una polemica con l'Associazione dei mutilati. Soggetto all'epurazione alla fine della seconda guerra mondiale, C. è reintegrato nel suo posto di professore di filosofia a Napoli. Entra nel Movimento Sociale Italiano e fonda la rivista "Nazionalismo popolare". Eletto consigliere e poi assessore allo Stato civile della Giunta di Napoli, che ha alla sua testa Lauro. Dopo essersi candidato al Senato come esponente del M.S.I. senza riuscire eletto, entra nelle file della Democrazia Cristiana. Collabora con numerose riviste filosofiche e con diverse testate giornalistiche, quali il "Roma" di Napoli, il "Tempo" di Roma, la "Gazzetta del Mezzogiorno" di Bari. Tra le opere a stampa ricordiamo la "Bibliografia Crociana" -- nella quale sono riportate sistematicamente e cronologicamente le opere DI Croce e le opere SU Croce --; "Sanctis e i suoi tempi” -- vincitrice del Premio Napoli --, e due volumi di resoconti di viaggi, "Quest'Europa" e "Fascino del mondo arabo", pubblicate la prima a Napoli e la seconda a Bologna. In esse l'autore sembra esprimere il senso finale che, personalmente attribuiva all'esistenza umana. Muore a Napoli. Fra le sue ultime volontà vi fu quella di donare all'Archivio di Stato di Napoli il suo archivio personale, affinché esso non andasse disperso e perché fosse messo a disposizione degli studiosi. documentazione collegata. C.  fonti Incarnato, in Dizionario biografico degli italiani. Klinkhammer, L'occupazione tedesca in Italia, Torino, Bollati Boringhieri.  C., Incarnato - Dizionario Biografico degli Italiani’ Condividi Pubblicità C. Nato a Napoli da Stefano, avvocato di origine pugliese inurbatosi di recente e artefice della sua fortuna, comincia a studiare presso il consolato germanico, poi al liceo ginnasio "Vittorio Emanuele II", per iscriversi infine alla Scuola militare della Nunziatella. L'accurata istruzione integrò la severa educazione familiare tesa a salvaguardare una dignità ed un decoro con fatica raggiunti e difficili da mantenere in una città come Napoli in permanente e gravissima crisi economica.  Alla Nunziatella si tende a sviluppare l'attitudine al comando ponendo l'accento sull'educazione fisica intesa come coercizione e disciplina. Le aspirazioni di C. ne sono frustrate accentuandone le tendenze al ribellismo, tipiche di tanti meridionali e l'indirizzo precoce agli STUDI FILOSOFICI nella ricerca di un'identità ristretta al piano culturale, dati gl’ostacoli frapposti dall'ambiente circostante ad altre vie di sviluppo più organiche e meno unilaterali. Le stesse riserve verso l'autoritarismo ed il culto delle gerarchie che provocano la rottura con l'ambiente della Nunziatella, da cui uscirà, lo allontanarono da un'adesione piena al fascismo. Introdotto in casa CROCE (si veda) da Secolo, ne accetta pienamente le idee, attirandosi col suo saggio, “Il dramma religioso dello spirito moderno e la Rinascenza,” Napoli, di cui già manda una parte a CROCE (si veda), in cui prese posizione contro GENTILE (si veda), gli attacchi violenti dei coetanei fascisti. Lo difende Marzio che gl’apre le porte del Meridiano di Roma ne gl’evita guai peggiori. Sono gli anni del consenso al regime. La pregiudiziale antifascista e la frequenza di casa CROCE (si veda) non impedirono a C., come ad altri, la collaborazione a giornali o periodici del regime, ormai tanto forte da poter controllare e tollerare la fronda liberale. L'assidua presenza in casa Croce lo gratifica e sembra soddisfarlo pienamente.  I numerosi saggi su SANCTIS (si veda), culminati nella biografia, la continuazione dei lavori sulla Rinascenza e la Riforma sfociati nel lavoro su Valdés e infine le ricerche sulla vita culturale di Napoli rivelano tutti l'impronta di CROCE (si veda). Tuttavia si può cogliere una costante della filosofia del C., la tendenza alla mediazione, non tanto espressione di debole sincretismo, quanto costante rifiuto di ogni estremismo, che gli fa preferire il sereno misticismo di Valdés ai rigori di Calvino ed il tentativo di mediazione della cultura umanistica col vecchio mondo della Chiesa e della cultura medioevale alla rottura drammatica della Riforma. 16 un equilibrio raggiunto a fatica, non scevro di contraddizioni, presenti soprattutto negli studi su Napoli. La ricerca appassionata e puntuale sulla vita napoletana (Napoli romantica, Milano) non puo non approdare alla constatazione del suo carattere provinciale. Le masse vi appaiono coine comparse di secondo piano, quasi bozzetti a completamento di un disegno il cui protagonista è lo sviluppo culturale. Scarsi i riferimenti al ciclo economico europeo, non propriamente favorevole a Napoli, il malessere napoletano interpretato come un'incapacità tutta locale di liberarsi dai languori e dalle malinconie romantiche di origine più spirituale che socioeconomica. La mediazione, eterno mito del C., riemerge con l'esortazione all'unione dei giusti per la salvezza e lo sviluppo. Tale gli è già apparso il messaggio dell'ultimo De Sanctis, di cui, a conclusione di numerosi saggi e la pubblicazione (Milano) del famoso Viaggioelettorale, traccia una biogr. C. si laurea in FILOSOFIA. Le fortune familiari registrano un tracollo che lo spinse a concorrere ad un posto di ordinatore nelle biblioteche, un ruolo subalterno per il quale non vienne ancora richiesta l'iscrizione al partito fascista. Ètrasferito alla Nazionale di Firenze, sempre mantenendo ed ampliando i contatti con l'opposizione liberale al fascismo; corrisponde con SFORZA (si veda) ed aveva rapporti di amicizia e scambi epistolari con Vinciguerra, Rosselli, Casati, Ramat, Russo ed altri, anche se spesso si aveva la sensazione che fosse frequentato più perché allievo ed intimo di casa Croce che per i suoi meriti intrinseci. L’adesione al sistema crociano è del resto indiscussa. Malgrado una tendenza all'accentuazione dei valori individuali emergente dagli studi su Berdjaev (di cui lo colpe durevolmente la critica al marxismo), su Valdès e dal taglio stesso degli studi su SANCTIS (si veda), l'emancipazione non è così consapevole come tenta ad affermare in seguito. L’intercettazione di una lettera da parte della polizia, che ne interpreta malamente il contenuto, provoca il suo internamento nel campo di concentramento di Colfiorito di Foligno, i cui rigori sono mitigati dal confino a Montemurro Lucano. Qui matura la sua crisi politica e la rottura col CROCE (si veda). La convivenza con oppositori socialisti, anarchici e comunisti ha su di lui un effetto contraddittorio. Il contatto con uomini che, non solo si opponeno al fascismo sino alle ultime conseguenze, ma che non disdegnano nei loro programmi di far uso degli stessi mezzi coercitivi del fascismo, sia pure per fini ad esso antitetici, lo induce alla revisione e all'abbandono, dell'anti-fascismo.  La compilazione di un volume celebrativo di CROCE (si veda), una laboriosa ricerca degli studi sul filosofo dallo stesso prima affidatagli e poi toltagli, sancì la rottura definitiva con questo, anche se un compromesso rende possibile la pubblicazione, L'OPERA FILOSOFICA, storica e letteraria di CROCE (si veda), Bari, dopo strascichi giudiziari. Risolto il dissidio col fascismo, torna nelle biblioteche, stavolta alla Braidense di Milano. Collabora alla rivista Popoli dell'Istituto per gli studi di politica, diretta da Chabod. Consegue la libera docenza in storia della filosofia; è professore di ruolo di storia e filosofia nei licei, ed ottenne, sia pure non a pieni voti, un giudizio di maturità in un concorso, poi annullato, a professore di storia della filosofia a Napoli. Consegue la libera docenza in storia moderna.  L'armistizio lo colge a Roma in contatto col movimento "L'unione nazionale" di Martini, anti-fascista di tendenze moderate e conciliatrici. Il movimento venne poi stroncato in seguito all'arresto dello stesso Martini, il quale finisce trucidato alle Fosse Ardeatine. C. ritorna a Milano con un giudizio negativo sull'anti-fascismo del quale coglie solo gli atteggiamenti scomposti di una fazione politica che per spirito di parte sembra gioire dalla disfatta. A Milano stampa il suo CROCE (si veda). Il momento ed il luogo della pubblicazione, cui venne data ampia risonanza con l'anticipata apparizione della polemica prefazione di C. sulle colonne del Corriere della sera, nella Milano della ormai condannata Repubblica di Salò, gli offrirono la soddisfazione di una momentanea popolarità.  Mussolini mostra d'apprezzarne l'opera e, con la mediazione di Biggini, ministro della Cultura, s'incontra con C., libero docente all'università di Milano, proprio in virtù dei suoi precedenti di antifascista. In una lettera a Biggini C. Scrive. Il Duce ha scelto il momento buono per parlare il linguaggio della conciliazione sconfessando così quello della minaccia e dell'intimidazione usate da molti gerarchi e gerarchetti. Gl’anti-fascisti hanno dubbi perché temono di avere a che fare con un movimento di copertura a sinistra del fascismo. Il Duce si deve liberare del passato e puntare sulla vecchia fama di socialista. La gente odia la Muti ed ha fatto buona impressione l'eliminaziene della banda Koch, una polizia costituita da masnadieri" (Archivio di Stato di Napoli, Carte Cione, 73). Sembra che Mussolini mirasse a servirsi del C. per attenuare e confondere i rancori degli antifascisti.  Il C., sfruttando le tendenze "liberali" favorite da MUSSOLINI (si veda) dopo il discorso alla brigata Resega, fondò, col suo consenso, il Raggruppamento nazionale repubblicano socialista, col motto "Repubblica e socializzazione" ed un organo di stampa dalla testata mazziniana L'Italiadel popolo. Al movimento non erano estranee connivenze e strumentalizzazioúi come il rilascio di alcuni dirigenti democristiani, operato a fini puramente propagandistici. Si attirò così l'ostilità violenta dell'ala estremista del fascismo ormai troppo compromessa. Spinelli, direttore dell'Ente italiano audizioni radiofoniche gli nega la pubblicità per il giornale, considerando il suo un tentativo di conciliazione sul piano dell'antifascismo. Una polemica con l'Associazione dei mutilati provocò l'assalto all'Italiadel popolo e la sua chiusura dopo appena dodici fascicoli, che riprese, ancora per un numero, le pubblicazioni il 24 aprile, un giorno prima della Liberazione.  Il C. dovette sottostare ai rigori dell'epurazione, rivelatisi per sua stessa ammissione meno duri del previsto. Venne reintegrato al posto di professore e riammesso nel servizio universitario a Napoli. I numerosi attacchi ne stimolarono il temperamento di polemista che si esercitava con virulenza a vari livelli. I sarcasmi sul Merlo giallo di A. Giannini, e nei giornali locali ("6 e 22" e il Monsignor Perelli)offrono un quadro comico ed esasperato di troppi disinvolti opportunismi. Sulle colonne del Brancaleone e del Meridiano v'è un'appassionata difesa della sua azione al tempo della Repubblica sociale che lo spingeva a scriverne la storia (Storia della Repubblica sociale italiana, Caserta).  C. pubblicato a Roma La filosofia della personalità ove la polemica anti-crociana si stemperava in una graduale adesione a valori tradizionali e nel recupero del cattolicesimo cui approderà, salutato con soddisfazione, ma non con convinzione, dagli organi ecclesiastici. Del resto non rinunciava alle premesse storiciste e restava a mezza via tra l'adesione mistica al cristianesimo ed un'accettazione piena del neotomismo. I numerosi lavori filosofici sono le tappe di questo processo (Dall'idealismo al cristianesimo, Napoli 1960, Fede e ragione nella storia, Bologna 1963, ristampa dell'opera sul Valdés, Napoli 1963, e Leibniz, ibid. 1964).  Collaborò alla rivista di C. Ottaviano Sophia, aRassegna ea Palaestra, tenne corsi di filosofia all'università di Napoli; abbandonato l'insegnamento nei licei, prestò servizio presso la Direzione generale dell'istruzione media non statale. Aderì alle illusioni provocate in tanti dalla protesta dell'"Uomo qualunque" ma ne uscì per contrasti con G. Giannini. Entrò nel Movimento sociale italiano con una posizione personale espressa con la sua rivista Nazionalismo popolare fondata nel'1951; precedentemente aveva collaborato agli organi ufficiali del partito con articoli su Rivolta ideale epoi sul Secolo d'Italia.  Rimproverava al gruppo dirigente l'esasperazione del nazionalismo e della gerarchia e l'abbandono delle tendenze socializzatrici dell'ultimo Mussolini. Sospetto ai superstiti uommi di Salò, malgrado i suoi sforzi, non entrò mai nella direzione nazionale dei partito.  Sull'onda dello spostamento a destra, espressione soprattutto dei disagio del Sud, venne eletto prima consigliere e poi assessore allo Stato civile della giunta di Napoli capeggiata da A. Lauro. Nel 1953 si presentò candidato al Senato, senza essere eletto. Ormai deluso dei Movimento sociale aderì alla Democrazia cristiana, ove però non svolse una milizia attiva, pur collaborando nel 1960 a Europa sociale di S. Riccio.  Nel 1953aveva iniziato la collaborazione al Roma (Napoli) di Lauro, cui si, aggiunge quella più sporadica al Tempo (Roma)di Angiolillo e alla Gazzetta del Mezzogiorno (Bari). Si accese di speranza per il contenuto sociale del messaggio di Giovanni XXIII e per le speranze suscitate dal mito di Chruščëv, di cui guardava con simpatia l'esperimento (Aldi là della cortina, Napoli 1962).  Intanto portò a termine la Bibliografia crociana (Roma-Milano 1956) e riprese gli studi su F. De Sanctis e i suoi tempi (Napoli) per cui ottenne il premio Napoli nel 1961.Ancora una miscellanea di saggi sul concetto di estetica (L'età di Dedalo, ibid. 1960)affianca la rievocazione di personaggi e momenti della vita meridionale del Paradiso dei diavoli, Milano 1949, Il suoconcetto finale dell'esistenza si può cogliere in due volumi di impressioni di viaggi, Quest'Europa (Napoli [1958])e Fascino del mondo arabo (Bologna 1962).  Il C. morì a Napoli. Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Napoli, Carte C. (finora sono stati parzialmente riordinati 102, fasci); F. Penati, Metodo storicoe ricostruz. storicistica..., in Cronache della FACOLTÀ DI FILOSOFIA dell'Istituto magistero di Napoli; A. Manno, Dall'idealismo al cristianesimo, in Studi francescani; F. W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Torino Battaglia, Storia della Resist. ital., Torino Capanna, Di una polemica Croce-C., in Il Ponte; E. Santarelli, Storia del movimento e del regime fascista, Roma Bocca, Storia dell'Italia partigiana. Settembre 1943-Maggio 1945, Bari La Repubblica di Mussolini, Bari Sulla bibliografia Fascista  Molti sarebbero i lavori di carattere descrittivo meritevoli di essere ricordati i quali espongono e commentano l’azione del fascismo in tutti i campi.   Ottima la Bibliografia del Fascismo, pubblicata a  cura della Confederazione Nazionale Professionisti ed  Artisti, Poma Qui ricordiamo le pubblicazioni  riassuntive e quelle in Occasione del decennale: La civiltà fascista, con introduzione di B. Mussolini, a cura  di G. L. Pomba, Torino 1928 (complesso di 35 studi  dei vari aspetti ed attività del Fascismo, con saggio bibliografia fascista a cura di Màdaro); Il Libro (Vitaha; nel decennale della Vittoria, Milano; Mussolini e il suo Fascismo, cur. Gutkind, con introduzione di Mussolini, Heidelberg; Firenze.  Studi vari : Opere e leggi del Regime Fascista, Roma; Mussolini e il Fascismo, Roma; Dottrina e Politica Fascista, Venezia, 1930  (scritti vari). Lo Stato Mussoliniano e le realizzazioni  del Fascismo nella Nazione, pubblicato a cura della   Rassegna Italiana Politica Letteraria », Roma. Il Bilancio dello Stato e la Finanza Fascista a tutto Vanno Vili.  A cura del Ministero delle Finanze, Roma, Polig. dello Stato, 1931. Questo studio è aggiornato a tutto l’esercizio con la seguente pubblicazione annuale a cura  dello stesso Ministero: Il Bilancio e il Conto Generale  del Patrimonio dello Stato per l’esercizio finanziario  19... ecc. Per la storia finanziaria fascista si vegga : De  Stefani A. La Restaurazione finanziaria. Bologna, Zanichelli; Volpi di Misurata: Finanza  Fascista, Roma, Libreria del Littorio; Gangemi: La politica economica e finanziaria del Governo fascista nel periodo dei pieni poteri, Bologna, Zanichelli Gangemi La politica finanziaria del Governo Fascista, Palermo, Sandron, 1929; Gangemi L.:  Le Società Anonime miste, Firenze,  La Nuova Italia ». Opere Pubbliche (pubblicazione a cura del  Ministero dei Lavori Pubblici). Roma, 1934. La Nuova Italia (F Oltremare (pubblicazione a cura del Ministero delle Colonie, con prefazione di Mussolini).  Mondadori, Milano. Nei riguardi della difficile  questione meridionale, si vegga l’esauriente volume di  Zincali G. : Liberalismo e Fascismo nel mezzogiorno  d’Italia, Milano, Treves, 1933.   Fra le pubblicazioni straniere quelle tedesche sono  le più ricche e meglio informate.   Le opere e gli scritti dei seguenti autori sono più conosciuti in Italia come quelli che meglio compresero il  Fascismo e la sua organizzazione economica, e cioè:  Andreae W.; Beckerath (von) E.; Bernhard L.; Eberlein G.; Ermarth F.; Eschmann E. W.; Heinrich W.;  Heller H.; Leibholz G.; Leinert M.; Mannhardt J.  W.; Mehlis €.; Reupke H.; Vochting F.; (per i particolari bibliografici si vegga: Bibliografia del Fascismo,  Voi. 1., a cura della C. N. P. A., Roma). Si vegga  inoltre: Beckerath (von) E.: Wirtschaftsverfassung des  Faschismus; Singer (von) K. : Die geistesgeschichtliche  Bedeutung des italienischen Faschismus, entrambi pubblicati in  Festgabe fùr Werner Sombart », lierauegegeben von Arthur Spiethoff, Munchen; ed anche:  Die fascistische JCirtschaft - Problema und Tatsachen,  herausgegeben von G. Dobbert, Berlin, Hobbing,(è una raccolta di studi dovuti ad italiani, tedeschi e  svizzeri). Bibliografia essenziale sulle interpretazioni  dell’azione economica corporativa   Per una rassegna delle interpretazioni dell’azione  economica corporativa si veggano i nostri : Lineamenti  di politica economica corporativa. Catania, Studio Editoriale Moderno Sono ivi ricordati i contributi più notevoli, teorici e  descrittivi, nel campo dell’azione economica corporativa. Si vegga pure il nostro studio :  Homo Oeconomicus » e Stato Corporativo in : Giornale degli Economisti Riportiamo qui la bibliografia essenziale dei contributi italiani allo studio dell’economia  corporativa, tralasciando di segnalare gli studi, numerosi, di carattere polemico e giornalistico, ma privi di  consapevolezza scientifica e, spesso, deformatori della  stessa realtà politica corporativa : Alberti L’ Homo Oeconomicus di H. P. Grice e l’esperienza fascista in Giornale degli economisti; Arias G. : L’Economia Nazionale corporativa, Roma, Libreria del Littorio, 1929, idem. idem. Economia Corporativa, Firenze,  Poligrafica Universitaria, 1932; Amoroso L. e De’ Stefani A. : Scritti cit. ; Arena C. : Scritti, cit. ; Benini R. ;  Scritti cit. : Breglia A. : Cenni di teoria della politica  economica, in  Giornale degli Economisti ». Febbraio  1934 (Classifica le varie politiche economiche. Carattere  di quella corporativa: autogoverni economici particolari, con il compito di emanare misure rispondenti, nei  rami particolari, alla politica economica generale emanante dal governo economico centrale. Le corporazioni  sarebbero gli autogoverni economici particolari). Bruguier G. : A proposito di interventi statali, in Archivio di studi corporativi, Pisa; Borgatta G. : Prefazione al nostro volume av. cit. : Lineamenti di politica economica corporativa; Carli F. : Teoria generale della economia politica nazionale, Milano, Hoepli; e dello stesso: Le  crisi economiche delV ordinamento corporativo della  produzione, in  Atti del II Convegno di studi sindacali corporativi», Ferrara; Chessa: Caratteri e  forme delT attività economica, in Rivista di Politica  economica. (Secondo questo autore  J economia corporativa non è altro che un’ economia di  complessi economici, che dev’ essere studiata nella sua  realta concreta, prescindendo da erronee identificazioni  dell individuo con la società e di questa con lo Stato).  Dello stesso autore: Vecchio e nuovo corporativismo economico in Saggi di Storia e Teoria economica, in  onore di Prato, Torino. In questo studio l’autore conclude che il corporativismo italiano pur traendo alcuni suoi elementi dalle teorie enunciate dal Genovesi, dal Bastiat e dal List si differenzia da queste  in quanto che inquadra le sue idee in una concezione  piu larga, che non tiene solo conto degli interessi  dei singoli, ma anche di tutta la collettività nazionale,  che per essere sempre più aderente ai bisogni ed agli  interessi della Nazione, viene organizzata gerarchicamente dallo Stato); Degli Espinosa A.: La forma e  la sostanza della economia corporativa, Firenze Poligrafica Universitaria; Del Vecchio G.: Teoremi  economici deW ordinamento corporativo. Comunicazione  alla XIX riunione della Società pel Progresso della  Scienza», riassunta in  Lo Stato; Einaudi L. : Trincee economiche e corporativismo in  La Riforma Sociale;  e dello stesso: Corporazione aperta in La Riforma Sociale ». Fanno M. scritto cit.; Fasiani  M.: Contributo alla teoria delVuomo corporativo, in   Studi sassaresi; Ferri C. E.: L’ordinamento corporativo dal punto di vista  economico, Padova, CEDAM,; Fovel M.: Economia  e corporativismo, Ferrara, S.A.T.E. e dello stesso:  La rendita e il Regime Fascista, Milano, Ediz. dei  Problemi del Lavoro; Politica economica ed economia corporativa, Ediz. Diritto del lavoro; Camera corporativa e redditi di gruppo, S.A.T.E. Ferrara; Fossati A.: Premesse per lo studio di ima economia e di una pplitica economica corporativa, in :  Rivista di Politica Economica. Ritiene  questo A. che tanto la politica economica corporativa,  quanto l’attività corporativa come condotta ipotetica degli individui dei gruppi animati di una coscienza corporativa sono teorizzabili: il secondo per definizione, e in  tanti modi quanti significati vogliano attribuirsi alla coscienza corporativa (all’autore parendo il più adatto  perchè conforme alle direttive del Regime quello che  ha a base 1 interesse della Nazione, ossia il massimo be¬nessere individuale compatibile col benessere della Nazione); ed il primo, quando le norme abbiano sufficiente chiarezza (univocità) e costanza da consentire  una costruzione logica di conseguenze possibili. Purché non si mescolino precetti e teoremi, e peggio, non  si confondano gli uni con gli altri, è perfettamente  legittimo fare della economia corporativa una  economia » astratta, trovare il nocciolo razionale del concreto empirico). Gobbi U. : Il procedimento sperimentale della economia corporativa,  Giornale degli economisti; Galli Corso di economìa  politica, Firenze, Poligrafico Universitario, e dello  stesso: Corso sulle imprese industriali, Firenze, Poligrafico Universitario; Jannaccone P.: La scienza  economica e Vinteresse nazionale (Discorso tenuto all’inaugurazione dell’anno accademico della R. Università di Torino), e dello stesso : Scienza,  critica e realtà economica, in  La Riforma Sociale »; Lanzillo A.: Studi di economia applicata, Padova, Cedam, e dello stesso  A.: Il contenuto dell’ economia corporativa, in Rivista Bancaria », novembre 1928, ed Economia corporativa e politica economica, in  Giornale degli Economisti »; Lo Stato come fattore di produzione, in  Rivista Bancaria » (Lo Stato  come inserzione di volontà nell’ attività economical.  Anche Ettore Lolini, a parte la sua antipatia per la  scienza economica tradizionale e la notevole incomprensione degli economisti ortodossi i quali riescono interessanti a seguire non come simpatizzanti delle idee lierali o di altre tendenze, ma come scienziati dell’economia, riconosce che per dare un carattere di  socialità, che concili l’interesse privato con quello  sociale o nazionale, alla economia privata, non è necessario giungere alla totale abolizione dell’economia  privata ed alla identificazione dell’ economia pubblica,  come ha fatto Spirito, il quale col porre erroneamente  al centro dell attività economica umana la produzione  e non lo scambio non ha visto che nello scambio si  ha la sintesi dell’ interesse individuale e dell’interesse  sociale, perchè nello scambio, mentre l’interesse è individuale, il risultato è sociale. Per eliminare del tutto,  come vorrebbe Spirito, il carattere individualistico dei  valori economici ed il movente egoistico dei fatti economici e identificare F iniziativa economica privata  coll’ iniziativa economica pubblica o statale, bisognerebbe trasformare la psicologia umana, abolire la personalità economica umana e con essa tutte le diff erenze  di bisogni, di desideri e di gusti che esistono ed esisteranno sempre fra gli uomini, differenze che costituiscono  la base dello scambio e la molla del progresso economico  e che nessun sistema di economia socialista è mai riuscito a sopprimere.   Il porre a fondamento dell’economia corporativa la  produzione e quindi l’organizzazione e la gestione economica della produzione invece dello scambio, inteso  nel senso della ripartizione del prodotto di ogni grande  ciclo produttivo fra tutti i fattori della produzione  mediante l’accordo contrattuale dei prezzi del lavoro,  del capitale, della direzione tecnica e dell’opera degli  intermediari, porta a delle conseguenze pratiche fondamentali per la definizione dei fini e delle funzioni  della Corporazione. Nel primo caso, infatti, si dovrebbe  giungere alla Corporazione organo di gestione economica col passaggio di tutta l’iniziativa economica privata alla Corporazione e con la conseguente trasformazione di tutta l’economia privata in economia pubblica. Nel secondo caso, invece, la Corporazione non assumerà la direzione della gestione economica della produzione, ma avrà la funzione economico-sociale di eliminare il classismo o particolarismo economico, di impedire che uno o più fattori della produzione si facciano la parte del leone nei confronti con gli altri  fattori e di adeguare l’andamento dei prezzi al produttore con quello dei prezzi al consumatore. Cfr. di  questo A.: Il problema fondamentale dell’economia  corporativa, CRITICA FASCISTA;  Masci F.: scritti cit. e: Saggi critici di teoria e metodologia economica, Catania (Sono raccolti con lievi  modificazioni gli scritti citati ed altri saggi); Paoni C.:  A proposito di un tentativo di teoria pura del corporativismo, in FIAMMA ITALA  e  dello stesso: Strumenti teorici di corporativismo, in  Giornale degli economisti», (in questi  scritti il Pagni critica a fondo la costruzione teorica corporativa di Fovel. Contro questi si schiera anche Bruguier nel saggio sopra citato ed anche noi nei nostri  scritti av. cit. Contra anche Arias ed altri); Sensini G.:  L’equazione dell’equilibrio economico nei regimi corporativisti, Lo Stato;  Serpieri A.: Lo Stato e Veconomia, in Educazione Fascista », e, dello stesso: Economia corporativa e agricoltura, in  Atti del II Convegno di studi  sindacali e corporativi», Ferrara; SPIRITO (si veda), La  critica dell’economia liberale, Milano, Treves, dello  stesso: I fondamenti dell’ economia corporativa, Milano,  Treves, e Capitalismo e corporativismo, Firenze,  Sansoni. L’interesse suscitato degli scritti filosofici di questo  A. sono dovuti a ragioni di carattere esclusivamente  polemico. Nulla di nuovo ha espresso il giovane filosofo.  Nella critica all’economia liberale, infatti non fa che  ripetere, con sintesi brillante, quanto è stato detto dai  seguaci della scuola storica tedesca e dagli istituzionalisti americani contro la economia liberale. È confusa  la scienza economica con la praxis dei governi liberali  e demoliberali. Nella critica al capitalismo non fa che  ripetere, in linea essenziale, quanto il Sombart ha  espresso nella sua opera monumentale sul capitalismo  e quanto altri economisti contemporanei hanno scritto  contro il sistema capitalistico, e che l’A. si guarda bene  dal ricordare. Nè è fatta alcuna discriminazione, fra  capitalismo e capitalismo, senza, per es., ricordare che m Italla 11 capitalismo è, appena, al suo inizio. Nei  tentativi di costruzione teorica del corporativismo fascista tiene conto, in particolare delle dichiarazioni della  << Carta del Lavoro» che rincalzano la propria tesi per  Ja quale vede la soluzione corporativa n clini entità  assoluta tra Stato ed individuo che riecheggia Hegel e Marx. Nulla di nuovo nemmeno nella costruzione teorica la  quale e apparsa a sfondo social-comunista per l’ammissione della corporazione come proprietaria. Propugna,  inoltre, 1 A. il partecipazionismo operaio, altro espediente vecchio e già discusso ampiamente nei tempi  passati. Ma, con buona volontà, si può Scorgere nel  sistema di Spinto anche un liberalismo assoluto per  cui dopo aver letto gli scritti di questo A. del corporativismo si riuscirà a capire meno di prima. E non  m tenrnamo quii su altri grossolani errori espressi  dall A. nel campo delle realizzazioni pratiche corporative, come per es. su quelle in cui consiglia per il  nostro Paese una industrializzazione ad oltranza, la  emissione di prestiti esteri, una politica commerciale  che sara forse realizzata nell’anno 2000, ecc (Tutte  queste idee sono espresse nel voi.: Capitalismo e Corporativismo, Sansoni, Firenze. Contra a Spirito, si vegga: Arias, cit., Jannaccone,  cit., Lanzillo, cit., Moretti, appresso cit.. Vinci, appresso citato, ed i seguenti scritti: Croce B.: L’economia filosofata e attualizzata, in Critica; Galli R. : SulF identità delV individuo  con lo Stato in La Vita Italiana;  (jANGEMI L. : Individuo e Stato nella concezione corporatina, m Atti del Secondo Convegno di Studi Sindacali e Corporativi, Ferrara; Brucculeri A.: L economia corporativa, in La Civiltà Cattolica», e Crisi e capitalismo, nella stessa rivista, etc.   Cesarini-Sforza in un lucido scritto: Individuo e  Stato nelle Corporazioni ( Archivio di Studi Corpora .V'iV-’i) mostra come la formula  dell identità è chiarissima nel pensiero dei socialisti e  dei liberali. L’individualismo moltiplicando le sue forze non rinuncia ad essere sè stesso. Il grande significato  del Corporativismo è la disciplina economica nazionale.  Con il Corporativismo si passa dal soggettivismo all’oggettivismo. Alla organizzazione professionale è affidata,  sopratutto la oggettivazione delle scelte economiche.  Il nuovo modello della realtà economica non potrà non  essere anch’eseo, naturalistico e deterministico: non c’è  scienza senza determinismo. Caratteristica delle concezioni dello Spirito è l’ottimismo. (Per es. nello Stato  Corporativo non vi saranno più disoccupati!). La nostra divergenza ideale con l’economia degl idealisti non va assolutamente confusa con le invettive di quei messeri interessati ad un intervento che oggi  chiedono e ieri respingevano, nè con le interpretazioni  di coloro che hanno gli occhi sulla nuca! Ricordiamo ancora: Moretti V.: I principii della  Scienza Economica e l’economia corporativa (Rivista  di Politica Economica», marzo-aprile 1934). Il M. rifiuta 1 identificazione fra Stato e Individuo. Integrando  ® correggendo le opinioni di Arias e Fovel considera  l’economia corporativa come una economia non euclidea. Papi U. : Un principio teorico deW economia corporativa, in  Giornale degli Economisti, e  più diffusamente in Lezioni di Economia Generale e  Corporativa», Gedam, Padova. (Il P.  ritiene che il sistema corporativo si possa considerare  come lo strumento capace di assicurare le imprese contro i (risdhi extra-economici (guerre, crisi, scioperi, etc.).   Rossi L. : Economia e Finanza, cit. (Chiarifica il  concetto di concorrenza e mostra i caratteri della teoria dell’equilibrio economico generale. L’ordinamento  corporativo traduce nel diritto positivo un complesso  di norme di diritto naturale, che presiedono al fenomeno sociale della ricchezza. Ne risulta un diritto corporativo, definizione giuridica della libertà economica  c e sottopone 1 arbitrio del singolo alla regola; e la  figura dell’uomo corporativo si risolve nell’uomo economico libero. L’economia corporativa importa la penetrazione nell’organismo produttivo di un sistema organico, razionale di politica economica. L’economia corporativa risolve il contrasto fra l’essere e il dover  essere della vita economica. Dover essere: razionalità  (teoria economica pura), eticità (politica economica).  Le forze direttrici corporative devono fornire al dinamismo economico il volano regolatore).   Vinci F. : Il corporativismo e la scienza economica  (Rivista Italiana di Statistica» etc..  Questo A., conscio delle interdipendenze fra i vari fattori di produzione e fra le varie imprese e delle condizioni di concorrenza mondiale, ha dimostrato che  la  disciplina unitaria e l’autodecisione, ove conducesse  fino ala determinazione delle produzioni e dei consumi, esorbiterebbe largamente dalle attribuzioni dell’uria o dell’altra Corporazione investirebbe i rapporti  reciproci, non solo fra due o tre, ma fra tutte le Corporazioni, imponendo al Consiglio Nazionale delle Corporazioni un continuo, pericoloso compito di revisione  e di conciliazione in base a valutazioni complicatissime, a criteri di difficile determinazione oggettiva ». Sulla Finanza Corporativa.   Si espressero anni addietro a favore del contingente :  Griziotti, Finanza di guerra e riforma tributaria, in  La Riforma Sociale. Contro il  contingente: Einaudi, Principii di Scienza delle Finanze, Torino. Ed oggi, a favore del  contingente (citiamo gli scritti più seri): Benini, loco  cit. ; Montemurri G. : Per una finanza corporativa, in   Echi e Commenti, e dello stesso : Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in  Atti  del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara; Bonanno: L’extra-individualismo  nelle entrate del bilancio dello Stato, Dir. e prat.  trib., e dello stesso: Lo Stato corporativo e la  sua finanza, in Diritto del Lavoro; Uckmar : Ordinamento Corporativo e ordinamento tributario,  Relazione al I Convegno nazionale di Studi  Corporativi», Roma, 1930, e dello stesso: Verso una  revisione corporativa della pubblica finanza, in  Diritto  del Lavoro », Roma; Riforme tributarie e Stato  corporativo, in « Diritto del Lavoro», Roma; Finanza corporativa, in Diritto e Pratica Tributaria.  Roma, ed infine, sempre dello stesso: Ordinamento corporativo e ordinamento tributario, in « Atti  del II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi, Ferrara. I ra questi autori la corrente radicale  trova favorevoli Benini, Bonanno e Montemurri.  Uckmar ritiene che la finanza sia individualista e perciò la vorrebbe riformata in un senso meno individualista, ma nei suoi studi esprime delle proposte che  trova consenziente tutti coloro, fra i quali lo scrivente,  che riconoscono doversi inserire nell’ordinamento corporativo anche la finanza allo scopo di raggiungere quei  fini che gli conferiscono caratteri fascisti.   Sono contro D’Alessio, in un suo articolo: Evasione fiscale e riforma tributaria («Augustea»), e Genco («Comunicazione al II Convegno di Studi Sindacali e Corporativi », Ferrara) i quali vorrebbero arrivare all’abolizione o per  lo meno alla riduzione degli organi finanziari statali  ed alla loro sostituzione con le Corporazioni! Uckmar,  contingentista moderato, riconosce che il potere imposizionale tributario spetta allo Stato. Quest’autore quindi può inscriversi fra i fautori di una finanza coordinata all’ordinamento corporativo, ma è lontano dalle  Improvvisate e rivoluzionarie trasformazioni. La finanza  oltre a presentare un contenuto politico, riveste un contenuto tecnico con il quale male si accorda la improvvisazione degli innovatori. Ai quali rimarrà la soddistazione di essere considerati rivoluzionari al cento per  cento, mentre agli altri rimarrà la soddisfazione di non  avere incoraggiato i salti nel buio che in materia finanziaria si scontano amaramente dalla Nazione, e perciò  si ritengono solleciti dell’interesse nazionale e cioè non  meno rivoluzionari dei loro colleghi che manifestano  i ce piu radicali. Il tempo sarà giudice sereno fra tanto contendere. Ricordiamo i seguenti scritti fra i tanti che  accolgono, con moderazione, una riforma tributaria in  ™° m A a C °p 1 ^gamzzazione corporativa: Garino CaProblemi di Finanza, Torino, Giappichelli; Scandali: E.: Imposizione tributaria e Stato Corporativo in « Echi e Commenti, e dello   TTr- A r-,ane r e   in «Giustizia tributaria», giugno 1929; Gangemi L rinanza Corporativa, in « Rivista di Politica Economi Stato C e dell ° stesso: La finanza nello  Stato Corporativo, in « Commercio », Roma, e   S“,°  £ r” cernii in   «Rivista di Politica Economica (e una carica a fondo contro la funzione graduale,  ransitona e limitata del contingente come è propugnata da Montemurri e dal Cardelli il quale ultimo  ha espresso la sua tesi nella Rivista «Il Commercio»  f, 7 iarzo \ a f, rlIe)i Toselli Colonna: Teoria e  problemi della- economia finanziaria corporativa, Alessandria Colombani (è questa una diligente rassegna dei problemi corporativi della finanza). Infine,  si segnala 1 eccellente studio del Borgatta: Le funzioni WaC “ f ’ in Lo Stato e   CEDAM L Tfmi {XeZ ' W ' t SCÌCnZa delle fi nanze ’ Padova, CEDAM) non sembra opportuno affidare all’Associazione Sindacale la ripartizione degli oneri tributari  a gin associati. Le associazioni sindacali, probabilmente « non sarebbero neppure molto disposte ad assumersi  tali compiti, ohe spesso non sarebbero neppure in grado  di svolgere efficientemente data la limitatezza e l’inadeguatezza dei mezzi che hanno a propria disposizione,  anche a prescindere dal giusto timore dei dirigenti di  potersi creare m tal modo animosità lesive di quella  compattezza dell’Associazione Fascista, che costituisce  uno dei suoi requisiti più essenziali in relazione ai fini  propostisi dal nostro legislatore». Un chiarimento sulla tesi riformista del Benini. La  ritorma propugnata da questo autore (studio cit.), per  quanto riguarda l’imposizione diretta, è vasta e coraggiosa: due tipi di imposte dirette, proporzionali, l’una sul reddito totale di famiglia, l’altra sul patrimonio-.   Senza dubbio, la scienza finanziaria ed il procèsso  evolutivo della legislazione fiscale degli Stati moderni  pongono in evidenza i tributi globali e personali come  il fondamento di un corretto sistema di imposizione diretta in luogo delle imposte reali imperfette e causa di  sperequazioni gravi ed inevitabili. Il nostro sistema attuale è fondato appunto sui tributi reali, integrati da  una imposta personale, la complementare, che con i  procedimenti fatti approvare dal Ministro Jung presenta una struttura che le consente di assolvere agli importanti suoi compiti. Ma, appunto perchè la riforma proposta dal Benini  muterebbe radicalmente, ab imis, il nostro sistema d’imposizione diretta, sono necessari, per giungere ad essa,  lunghi e ponderati studi sulla entità, sulla composizione,  sulla distribuzione e sul raggruppamento dei redditi,  sulla organizzazione tecnica della nuova amministrazione; sopra tutto occorre, per concepire ed attuare una  riforma così vasta e complessa che le condizioni del1 economia nazionale e della pubblica finanza entrino  in un periodo di sufficiente tranquillità e stabilità. Tutte  cose queste di cui il Benini è consapevole.   Un posto a parte tiene il Griziotti il quale fra le  due opposte opinioni che esiste una finanza corporativa oppure il contrario che questa non esiste sostiene  una terza e differente che trova riscontro nei seguenti  scritti: La trasformazione delle finanze pubbliche nello  Stato Corporativo fascista, in « Il Diritto del Lavoro »); Idee generali sulla trasformazione  del nostro sistema tributario, esposte al Primo Convegno  di Studi Corporativi a Roma, in « Bollettino del Consi.  glio Prov. dell’Economia di Pavia; Le  finanze pubbliche e l’ordinamento corporativo, in « Economia. Il Griziotti, se non erriamo,  desidera un sistema di imposte congegnate in modo da  rispettare le esigenze della produzione. Vuole un sistema tecnico e razionale che sodisfi anche i criteri della  giustizia nella ripartizione dei carichi pubblici. Rico Gangemi, Dottrina Fasciata ed economia. nosce che l’opera del primo periodo della finanza fascista ha tenuto conto delle esigenze della produzione.  Queste idee evidentemente indicano nel Grìzìotti un  fautore della finanza corporativa. Dove il nostro non  ci trova consenzienti è nei dettagli (ammortamento delle imposte, tassazione esclusiva delle rendite e dei sopraredditi, ecc.). Ma su questo sarebbe lungo il discorso.   Secondo un distinto allievo del Griziotti, il Pugliese  (La Finanza e i suoi compiti extra-fiscali negli Stati  Moderni, Padova, GEDAM) « Nello  Stato Corporativo l’economia continua a basarsi fondamentalmente sulla iniziativa privata dei capitalisti, nè  alcuno dei principi che reggono l’economia capitalista  viene apriosticamente ripudiato: ma vi si aggiunge un  elemento che è quello del controllo sociale che, sulla  iniziativa privata e sul suo svolgersi, viene attuato dallo  Stato. Nello Stato corporativo anche la politica finanziaria deve necessariamente seguire le direttive, che non  coincidono nè con quelle del sistema liberale-capitalista  (benché ad esse siano assai più vicine) nè con quelle  del sistema collettivista.   Essendo l’imposta uno dei principali strumenti di  cui lo Stato  qualora rispetti il principio della proprietà privata si può valere, per intervenire nel campo dell’economia, individuale, è logico che ad essa faccia più largo ricorso uno Stato, che ha per principio  l’intervento, ogni qualvolta l’interesse nazionale lo richieda.   E essenziale rilevare che nel sistema corporativo,  mutano fondamentalmente i modi dell’azione statale:  mentre nel sistema liberale-capitalista lo Stato si propone fini di benessere e prosperità, che vengono attuati  mediante la protezione di tutte quelle forze individuali  che si dimostrano utili a tale intento, lo Stato corporativo, oltre a proseguire per tale via i propri fini, si fa  esso stesso agente diretto e primario per l’attuazione degli scopi suddetti, non solo proteggendo e favorendo le forze utili' ai propri fini, ma facendosi iniziatore dei  provvedimenti atti ai dirigere le forze individuali all’obbiettivo prefisso. Non possiamo chiudere questa nota senza ricordare  il contributo che, anche in questo campo ha dato Pantaleoni col suo scritto: Finanza fascista, in  « Politica, scritto che i nuovatori sistematici ed i creatori di schemi astratti farebbero bene a leggere ed a meditare se veramente sono,  come si ritengono, difensori dell’interesse nazionale. Capitoli della storia: “Mussolini ed il fascismo” p. 1; “La respnsabilita della guerra ed il “tradimento militare”; “La preparazione del colpo di Stato”, “L’antifascismo del Governo Badoglio e la capitolazione”; “La liberazione di Mussolini”; “La proclamazione della Repubblica Sociale”, “Il Manifesto di Verona”, “In lotta per la difesa dell’onore italiano”, “La lotta per la difesa del patrimonio nazionale italiano”, “La politica di conciliazione nazionale;” “Conati di revision in senso liberale della tendenza autoritaria e per la instaurazione della legalita”; “Il processo di Verona e quello degli Ammiragli”; “La politica sociale, dindacale ed economica”; “Il regno d’Italia”, “I comitati di liberazione”, “La guerra partigiana”, “Il Ragrgruppamento Nazionale Repubblicano Socialista”, “La catastrophe militare”; “L’instruzione dei ‘sanguinari’.” – Tra Croce e Mussolini, contributo a ”Gentile” – “Nazionalismo Sociale” – contribute alla rivista La Verita (fascista). “Nazionalismo Sociale”: L’idea corporative come INTERPRETAZIONE della storia – con una conclusion politica di Augusto de Marsanich, Achille Celli Editore. Domenico Edmondo Cione. Keywords: ICARO, l’idea corporativa, corporativismo, storia del nazionalismo sociale, icaro, la caduta d’icaro, icaro caduto, dedalo e la civilta greco-romana, corporativa, principio corporativo, principio cooperativo, corpotivismo, corporatismo, corporativismo, ideale corporativo, conservativo come corporativo, ugo spirito, “pocca testa”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cione” – The Swimming-Pool Library.Cione

 

Luigi Speranza -- Grice e Citrone: il cinargo a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). A member of the Cinargo and a friend of Giuliano. Chytron

 

Luigi Speranza -- Grice e Civitella: la ragione conversazionale e ’implicatura conversazionale – scuola di Teramo – filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Montorio al Vomano). Filosofo abruzzese. Filosofo italiano. Montorio al Vomano, Teramo, Abruzzo. Delfico-de-Civitella (under Ser Marco). (Montorio al Vomano). Filosofo. Grice: “I love Delfico – while he wrote on Roman jurisprudence – Hart’s favourite summer read! – mine is his (Delfico’s, not Hart’s) little thing on the beautiful – we must remember that back in them days of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a diminutive of ‘bonus,,’ as in ‘bonello’ – the point is important for for Platonists, love (that makes the world go round) is desire for the ‘bello’ including the MORAL bello – so it is the key concept in philosophy – and not as Sibley and Scruton narrowly conceive it!” C. è giustamente ritenuto il Nestore della filosofia napoletana. Questo illustre filosofo, autore di molte opere di storia e di una varietà di soggetti interessanti, unisce ad una vasta istruzione una accuratissima e profondissima conoscenza di ogni aspetto che interessa la sua terra; e possede l'ancor più raro merito di saper comunicare le preziose esperienze acquisite con una amenità di maniere, una facilità e semplicità di espressione che le rendono più apprezzate a quelli che le ricevono. Figlio di Berardo C. nasce nella villa di Leognano, in provincia di Teramo. Le origini della sua famiglia risalivano almeno a quando Pir (o Pyr) Giovanni di Ser Marco, generalmente riconosciuto come il capostipite della famiglia, cambia il proprio cognome in “Delfico” e adotta il motto “eat in posteros Delphica Laurus”. Secondo alcuni, e tra questi Savorini, il cognome è “de C.”. All'interno della sua famiglia va individuato come Melchiorre III. Rimasto ben presto orfano di madre, fu dapprima affidato ad ecclesiastici ed in seguito inviato a Napoli,  per il completamento degli studi. Nella capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi per le materie filosofiche per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno per il diritto e Mazzocchi per l'archeologia.  Nella città partenopea si laureò in utroque iure sotto la direzione di Filangieri e redasse subito diverse memorie per il governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se ne spogliò subito per motivi di salute.  Nella prima parte della vita si dedica in particolare allo studio della giurisprudenza e dell'economia politica, scrivendo numerosi trattati che esercitarono un grande influsso nel miglioramento e l'abolizione di molti abusi.  Con il ritorno in patria si inizia un periodo fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di Napoli. Intorno a loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le premesse per un profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del territorio in cui agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi, Quartapelle, Tulli, Nolli, Orazio C., il figlio di Giamberardino, che fu allievo di Volta e Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto noto in tutto l'Abruzzo. Si appassiona al collezionismo, in particolare di libri antichi e monete di epoca romana e pre-romana. Nominato presidente del Consiglio Supremo di Pescara e poco dopo membro del governo provvisorio della Repubblica Partenopea.  Caduta la Repubblica Partenopea anda in esilio per sette anni nella Repubblica di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza. Scrisse il saggio “Memorie storiche della Repubblica di San Marino”, prima storia organica dell'antica repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una serie di 12 francobolli e ha coniato una moneta d'argento dal valore nominale di 5 euro per commemorare il filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio territorio.  Bonaparte, nominato re di Napoli, entra a far parte del Consiglio di Stato, ricoprendo varie cariche ministeriali.  Restaurato il governo borbonico, fu nominato presidente della commissione degli archivi e successivamente Presidente della Reale Accademia delle Scienze. Venne eletto deputato al Parlamento napoletano e fu chiamato alla presidenza della Giunta provvisoria di governo. Si stabilì definitivamente a Teramo. La famiglia di C. si estingue con Marina, sposata al conte Gregorio De Filippis di Longano, dando origine all'attuale famiglia dei conti De Filippis marchesi Delfico. La filosofia di C. si forge nel fermento culturale del Secolo dei Lumi e del diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche furono compiutamente esposte da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in quella di Rousseau, nelle quali i principi del diritto naturale erano rappresentati dalle idee di libertà e di eguaglianza di tutti gli uomini. I fermenti culturali del periodo assunsero una valenza rivoluzionaria e contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale logora ed invecchiata, che si reggeva ancora ai capricci bizantini dell'autorità invadente.  Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli strumenti a cui si richiamò l'opera del C., permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma, dalla compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto dall'abbattimento del monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del regime. Ciò che caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione dello Stato, non più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole della morale corrente.  Come politico e come giurista, e eminentemente pratico, così da poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori del suo tempo.  Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto nazionale, il Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede nel Palazzo Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a filosofo. Altre a Teramo  e alla frazione di San Nicolò (nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla Vibrata, Penna Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo; Montesilvano, Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche intestate a Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato massone.  Questo interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non esisteva una risposta documentale. Esistono invece molte prove indiziarie relative alla sua appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo all'appendice del volume di Eugeni, Forti, allievo di Fergola. I principali indizi si possono così riassumere:  I maestri ed amici di C., come Genovesi, Pagano, Filangeri, furono tutti noti massoni;  In un diario del curato Crocetti di Mosciano appaiono notizie di una Loggia massonica esistente a Teramo. Assieme a Quartapelle, subisce due processi per miscredenza. Promuove un movimento culturale detto '’La Rinascenza'’ di chiaro stampo illuminista. Nella rinascenza militano tutti i filosofi del tempo: i Tulli, i Quartapelle, Comi, Pradowski ed altri; La poesia di Pradowski sembra proprio la descrizione di una Loggia. Manda il nipote Orazio C., futuro Gran Maestro della Carboneria teramana, a studiare a Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni, tre noti massoni del tempo.  Perrone pubblica un saggio basato sulla corrispondenza di Münter con noti massoni napoletani lo dà come sicuramente massone, anche se "il suo nome non s'incontra nelle logge razionaliste". Altre saggi: “Saggio filosofico sul matrimonio” (s.n.tip. ma Teramo, Consorti e Felcini); Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del regno” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Riflessioni su la vendita de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria e su l'incertezza ed inutilità della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali Roveri); “Nuove ricerche sul bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della antica numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche” (Teramo, Angeletti).  Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   Il Palazzo Dèlfico, Edigrafita  Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni, Sulla vita e sugli scritti del commendatore C., in Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti,  Raffaele Liberatore, Melchiorre C.. Necrologia, in Annali civili del Regno delle Due Sicilie, Ristampato come C. in: De Tipaldo Biografia degli Italiani illustri, Venezia, Ferdinando Mozzetti, Degli studii, delle opere e delle virtù di C., Teramo, Angeletti, Gregorio De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere, Teramo, Angeletti, Aurini, C., in: Dizionario bibliografico della gente d'Abruzzo, Teramo, Ars et Labor, ora in Nuova edizione, Colledara (Teramo), Andromeda editrice, Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, l'attività presso il Consiglio delle finanze, Roma, Edizioni di storia e letteratura, Clemente, Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Donatella Striglioni ne' Tori, L'inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, Teramo, Centro abruzzese di ricerche storiche, Carletti, C.. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, Pisa, Edizioni ETS,  Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo, Sellerio. Treccani. Il DRITTO ROMANO è sempre incerto ed arbitrario. Tale il suo carattere, poichè, sebbene non gli mancassero ancora degli altri nei, pure quelle sole qualità -- incertezza e arbitrarietà -- sono bastanti per renderlo mostruoso e deforme. E di esse specialmente imprendo a trattare, come quelle che portarono a luce LA VANTATA GIURISPRUDENZA ROMANA. Ed accio questo ordinatamente si vegga, fiaci opportuno il seguir la storia che della nascita e de felici progressi di essa ci somministra i lumi i più importanti. Fra gl’innumerevoli doccumenti tal oggetto riguardanti, prescelgo quello di cui tutti I FILOSOFI si servirono, quasi di testo alle loro ricerche e commenti. Già si vede che io parlo delle opera del giureconsulto SESTO POMPONIO, della quale si avvalsero i compilatori del dritto giustinianeo, rapportando nel titolo dell’origine del dritto, tutto cid che il nomato giureconsulto raccolgeo su tal oggetto nel suo manuale. E poichè POMPONIO incomincia la storia del dritto da ROMOLO e dagl’altri seire di Roma, dello stesso momento conviene seguirlo. In questa prima epoca, abbastanza oscura, non vi sarà pero materia di dispute, poichè SESTO POMPONIO parlando conformemente alla ragione ed alla storia dice che Roma da principio visse con incerte leggi e con dritto incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè si deve intendere per quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia – GL’OTTIMAT -- nella qual forma Roma ha il suo incominciamento. Quindi POMPONIO si espresse nelle precise parole. POPVLVS SINE LEGE CERTA SINE IVRE CERTO PRIMVM AGERE INSITVIT. N’altrimenti dove avvenire, poichè quella prima associazione essendosi formata di gente malatta al vivere socievole, e non avendo ancora positiva forma di società, dove essere piuttosto REGOLATA DALLA FORZA DEL COMMANDO che da un stabilimento positivo. Ciascuno sa che ROMOLO, per accrescere il numero de primi suoi compagni, prese l’espediente d’APRIRE UN ASILO da era retto ve s9  da che si puo comprendere quali fossero i primi fondatori di Roma. I di lui favoriti furono i più valorosi briganti, e questi divenneno i padri della patria, i forti, i primi quiriti, e formano il SENATO. Dopo questi primi tratti caratteristici relativi alla legge, POMPONIO segue a raccontare tradizione, che essendo cresciuta in qualche modo la città, ROMOLO divide il popolo in tante parti chiamate “LE CURIE” e col voto di esse prende. LA CURA DELLA PUBBLICA COSA e in seguito FA LA LEGGE CHE CHIAMA “LEGGE CURIATA” -come ne fanno ancora i sei re successivi. TUTTA LA LEGGE CURIATA è raccolta da SESTO PAPIRIOS, il quale viv al tempo di TARQUINIO il superbo – e, dal nome dell'autore, quella raccolta è chiamata il “DRITTO PAPIRIANO”. Non m'impegno nelle dispute storiche e critiche delle quali si occuparono gl'interpreti di POMPONIO, ma osservo che, sebbene da principio, parla dello stato informe di Roma e dell’autorità regia non modificata dalle legge, fa dindi vedere come è data una forma, non una costituzione, alla città, e come dai re è promulgata la legge curiata. Per quanto durano i regii signori, Roma non ha dunque che QUESTA O QUELLA legge occasionale, e LA SOCIETÀ È MANTENUTA PIÙ COL GOVERNO CHE COLLA LEGGE. Prima intanto di passar oltre, e per la migliore intelligenza de’ tempi seguenti, non è inutile il presentare lo stato politico del popolo romano sotto l’epoca dei re, e quale è l’indole della legislazione per tutto quel tempo. E poichè di cose che non hanno autori contemporanei o vicini, non è possibile il ragionare con precisione ed esattezza; percio scortato dalla natura delle circostanze e dalle tradizioni pervenutaci, m’ingegnero di esporle nell’aspetto il più ragionevole. Fra l’oscurità delle origini romane possiamo rilevare che quella società incomincia da un ADUNAMENTO DI PERSONE APPARTENENTI A VARI POPOLI -- non solo ITALICI, ma greci e celtici ancora. Codesta tumultuaria associazione, avendo ROMOLO per capo vive, da principio, di prede e di rapine, gusto che fa il perpetuo carattere della nazione, trasformato poi in quello di conquiste, come gli avoltoi comparsi a ROMOLO nel prendere gli’auguri sono poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose, da principio NON VI È BISOGNO DI LEGGE, poichè non vi era proprietà, essendochè Roma è fondata come LIVIO si esprime in fondo alieno, e le piccole private dispute sono decise dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari, e nelle società de’ briganti è sempre avvenuto. Avviene similmente che, nel formarsi tali associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia – GL’OTTIMATI -- e così avvenne di Roma. Il palagio di ROMOLO è una succida capanna. Il di lui TRONO quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il SENATO è la scelta de’ commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che poterono vantare certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto il resto è vile plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale dell’aristocrazie nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ sono nomi di versi appartenenti alle stesse persone secondo i va apporti ne' quali sono considerati, o di Senato consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata sulle divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia non ha alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagl’antichi autori, parlando dell’origine del CLIENTE, si esprime in termini rappresentativi della verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo. PATROCINIA APPELARI CAPRA SVNT CVM PLEBS DISTRIBVIA EST INTER PARES. Ne si devono contare per un ordine intermedio di cittadini quegli equiri o celeri o i fossuli nominati fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato politico ma al stato militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi di quella società nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a consolidare in quella forma nella quale da principio è stata abbozzata. Sotto il re NUMA vediamo i primi passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento della proprietà territoriale: la prima legge relativa alla religione ed al delitto, lo stabilimento dei ministri e degl’interpreti della divinità. In somma, il principio di un GOVERNO TEOCRATICO, pel quale pare che sieno passate tutte le nazioni prima di portare sulle cose civili le considerazioni proprie della ragione. Ma quello che specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel re teosofo hanno i primi principi le scienze ancora della legge e del politico governo. Non si dee durar gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in tutti gl’atti umani e farli nascere ancora in UN POPOLO QUANTO IGNORANTE TANTO SUPERSTIZIOSO. Così par che fa Numa o per idea propria o per imitare i stabilimenti della sua nazione o pel natural corso del sociale andamento. Cosi gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia sommamente poderosa poichè combina nello stesso corpo gl’interessi del sacerdozio e dell’impero, o le due aristocrazie, politica e sacerdotale: GL’OTTIMATI. Su questo piano Roma cresce successivament sotto i re. L’aristocrazia è sempre salda contro le regie intraprese, e la storia ci mostra con quali mezzi crudeli e sacri sa sostenersi. MASSACRARONO ROMOLO E NE FECERO UN DIO. Tale idea pero del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta. Il primo per quanto io so a darne l’idea è VICO, il quale, riunendo alla multiplicità delle filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle origini sociali, fra le tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le ricordanze degl’antichi costumi sa scoprire come un principio naturale politico, che nel comune corso delle nazioni la società primitiva comincia sempre dall’aristocrazia, la quale nasce dalla qualità delle circostanze, dall’ignoranza de’ dritti, e della compagna superstizione. Le luminose tracce di VICO sono poi seguite da DUNI, e fermatosi particolarmente a considerare il governo romano, dimostra che Roma nasce aristocratica – Gl’otimati --, che il RE non è che il capo dell’aristocrazia, che i soli patrizi – gl’ottimati – hanno la quarta di cittadini che sono in perfetto stato di combinazione l’aristocrazia POLITICA e l’aristocrazia sacerdotale, e che il nome di ‘POPOLO’ ne’ primi tempi ai soli patrizi (ottimati) appartenne, come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza – CIVES, POLIS -- i quali poi sono gradatamente dalla PLEBE acquistati. DUNI concilia luminosamente la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto POMPONIO e fa vedere che il re NON HA CHE UNA *PARTE* del governo o dell’amministrazione, ma che LA SOMMA DELL’AUTORITÀ, LA VERA SOVRANITÀ,  il potere legislativo, il dritto della pace e della guerra risedeno nel corpo de’ patrizi – L’OTTIMATI -- come anche il dritto di eliggersi il loro re o principe. Sono essi i depositari delle leggi e delle medesime i (DUNI, Orig. del Citted. Romano) ministri ed interpreti. E, siccome per un’eterna verità, l’aristocrazia – GL’OTTIMATI -non si sostiene che sull’appoggio della SUPERSTIZIONE POLITICA. Cosi, dal corpo aristocratico – Gl’OTTIMATI -- si sceglievano i vari sacerdozi, e fra essi il corpo de’ pontefici è specialmente destinato a dar i giudici alle cose umane. Quindi la CONOSCENZA della legge e l’amministrazione delle medesima è un dritto esclusivo e divenne una dottrina arcana, conservata con tutta la gelosia del mistero, dispensata solo a modo d’oracoli e strettamente CUSTODITA NELL’ORDINE de’ patrizi – GL’OTTIMATI. Codesta emanazione della prima ‘teocratica’ idea non solo si conserva per quanto ha di durata il governo del re ma per quanto vive la Roma. Una repubblica, colla sola differenza pero che come crescheno le cognizioni ed i necessari riflessi della ragione, e da essi RIFLESSI DELLA RAGIONE POLITCA nasceno i sentimenti di libertà e d’eguaglianza, così quelle idee si andano a poco a poco estenuando, finchè non ne rimasero che i soli simboli commemorativi, o il nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna effettiva influenza. È necessaria questa breve esposizione, per cogoscere quale fosse lo stato della legge, dell' amministrazione giudiziaria e della giurisprudenza ne’ primi tempi di Roma. Senza impegnarci nella particolari legge sotto il re emanata dal senato regnante, possiamo con sicurezza affermare che la legge è minima, eventuale ed incerta -- e che l’interpretazione delle medesine essendo stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni individui, possiamo dire ancora che la giurisprudenza è incerta, irregolare, arbitraria, e quale AD UNA NAZIONE IGNORANTE E SUPERSTIZIOSA può solo convenire, e per conseguenza esser stato pur vero ciocchè POMPONIO scrivee, che sotto i re sine lege Gerta – SINE IVRE CERTO -- ine jure certo viveno i romani. Lascio agl’ambiziosi di glorie filologiche legali l’andar raggruzzolando i pochi superstiti frammenti della legge regia, poichè i stessi antichi giure-consulti ne fanno poco conto e le lasciano perire. Chi vuole però riconoscerle, trova in esse la conferma di quell’idea superstiziosa caratteristiche della prima aristocratiche associazione. Espulso il re col ratto di LUCREZIA, si crede comunemente che il governo di Roma cangia d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gl’eroi della libertà. Ma chi  giudica senza prevenzione non vi trova che gl’eroi dell’aristocrazia. Anche quessti parlano di libertà; della propria libertà però non della libertà pubblica -- per servirmi delle parole di Dionisio, della libertà propria e del dominio sugl’altri. Quindi, Roma non vide alero cangiamento che di due re invece di uno e la legge e l’amministrazione politica e civile rimaneno nella stessa condizione. L'incertezza è seguita dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio. Ciocchè ci dà manifestamente ad intendere POMPONIO dicendo: EXACTIS DEINDE REGIBVS AE ITERVMQUE CÆPIS POPVLVS ROMANVS INCERTO MAGIS IVRE ET CONSVETVDINE ALIQVAM PER LATAM LEGEM IDQVE PROPE SEXAGINTA ANNIS PASSVS EST. L’aristocrazia è stata alquanto abbassata dall’ultimo re, per cui ha fine il suo governo. Ma dopo la sua espulsione ritorna presto nel primiero vigore. Quindi gl’effetti doveno essere conseguenti, e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infattim si sa che DALL’ANNO FATALE AI TARQUINI FINO AL TEMPO DELLA LEGGE DECEMVIRALE, il potere legislativo ed il potere giudiziario sono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo è ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale sono tenuti, tentano de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano oppressi. Ottenuto il TRIBUNATO si avvidero ben presto che esso è troppo debole ostacolo contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente è annidata dentro la stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo che fieramente la difende. L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può escogitare un popolo schiavo ancora dell'opinione, sono più volte ripetute. Ma le loro domande sono incerte, le loro querele generali, ed i loro desideri si riduceno ad essere considerari come uomini e come cittadini: Ut hominum ut civium numero simus. In questo stato compassionevole compresero finalmente che niun mezzo vi può essere migliore per ottenere l’intento che quello di formarsi una legislazione generale, poichè la sola legge puo stabilire la libertà e l’uguaglianza civile, potevano esser riguardati come uomini cittadini. Strano ed ARROGANTE sembra al patrizio il desiderio della plebe, e strano pare sempre al possessore del potere arbitrario il desiderio del ristabilimento della legge e della giustizia. Quindi il patrizio non lascia mezzo intentato per frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione e persuaderli che i patri costumi sono sufficienti e che di nuova legge non vi è bisogno – MORES PATRIOS OBSERVANDOS LEGES FERRE NON OPORTERE. Sono intanto inutili le persuasioni, e lo stato infelice nel quale il plebeo si trova detta suo questo solo espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul modo di sedare le civiche discordie rispose loro. Fatevi la legge; i Romani plebei senteno l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je gemevano. Vollero quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche sono messe in uso per ingannare quel popolo che spesso riposa colla più buona fede sopra i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i quali doveno mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia a raccorre la legge per la nascente regina del mondo, si occultano in qualche luogo d'Italia, e la legge poi è tirata dall’arche pontificali  e perchè nulla manca di condimento aristocratico, si fanno poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle XII tavole se è trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe, è un articolo sommamente istruttivo. Ma questa ricerca veramente politica è stata molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si dove servire e che non dove aver più in luogo di una legge il capriccio o la privata autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il patrizio risponde che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastano l’usanza, no la legge. Il popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la religione, e questa spesso parla per bocca de buoi e d’altri animali, del linguaggio de quali si fa un merito d'essere interprete. I plebei vuoleno che la legge si fa dal popolo legitimamente e liberamente congregato. Il patrizi sostiene che non vi è altra legge che quelle ch'essi stesse fanno: darurum legem neminem, nisi ex parribus ajebant. Il popolo vuole una legge d’uguaglianza. Il patrizio le promette in parole; sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente, dopo tante vicende le X tavole furono pubblicate – E SUCCESSIVAMENTE L’ALTRE DUE -- come ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il popolo la esamina e la approva solennemente. Ma la storia stessa ci dice che quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno che sconvolsero tuttol'ordine pubblico e secondo LIVIO nihil juris in civitate reliquerant, che PER QUELLE LEGGE OGNI CONSUETUDINE ARISTOCRATICA È CONSERVATA, che la vantata uguaglianza resia in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconosce d' essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata pienamente scoverta da molti autori e specialmente da VICO, da Bonamy e da DUNIi: la favola d;essere state leggi d’uguaglianza e di giustizia, la può scoprire facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia gl’avanzi di quelle leggi. La scovri ancora il  [VICO, Scienza nuova; Bonamy, Memoir. de litterar. de l' Accad. de Paris; Duni: Dėl Cittad. Rom.] popolo, quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato può tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse la gente come uomini e come cittadini, non trova che UNA LEGGE CIVILE, una legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco l'interessano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi bisognano UNA LEGGE COSTITUZIONALE che avessero ragguagliati i dritti, che li avesse egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai suffragi. Niente di tutto questo. E la plebe resta delusa della sua troppo malfondata speranza. Ma sa rinnovare le giuste sue pretenzioni; ed in tanto senza voler fare l'analisi di que’miseri frammenti delle leggi decein virali, è pur giusto portarvi uno sguardo generale per vedere almeno, se meritano tutti gl’elogi de' quali sono state ciecamente onorate dagl’antichi é da moderni; ed osservare in seguito, se ne provenissero quegl’effetti felici, ai quali produrre sono destinate. CICERONE in più luoghi esaltandole sopra tutte le leggi conosciute, non è poi molto felice nel darne le pruove. Così condanna Solone, per non aver imposto pera al parricidio, supponendolo impossibile, o volendolo supporre talo tale per onore dell'umana natura; ed eleva la seviezza della Romana legislazione per aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola, sem sapientiam! esclama CICERONE dopo aver lungamente ragionato con logica forense. Tale è la saviezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi; poichè se si riguardano per la parte criminale esse sono aristocratiche, ingiuste, severe, é crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale poch’indizi ci sono restati, andano alla conservazione dell’aristocrazia: se per quella della Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi concepimenti del tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, doveno esser analoghe alle leggi ed all'usanze: se per la parte testamentaria, è facile il vedere, ch' esse conteneno la massima ingiustizia politica, per conservare in forza gl’aristocratici dritti. Della stessa indole sono le indegne leggi relative alla patria potestà ed alle altre relazioni domestiche nelle quali sempre campeggia lo spirito di famiglia. In quanto al CONTRATTO, la legge è pur sempli ci, come dove essere in un popolo barbaro con pochi rapporti civili. Ma l’usure d'ogni specie sono terribili. Chiunque vuole esaminar quelle leggi in buona fede, e misurarle secondo i vem ri rapporti che le leggi dove avere colla natura e collo stato civile, trova senza fallo ingiusti ed irragionevoli gl’encomj alle medesime attribuiti. Ma forse neppur in Roma si pensa tanto favorevolmente di esse, poichè col tempo par che sono del tutte neglette e dimenticate. CICERONE stesso riferisce che, al suo tempo neppure erano ben intese, e sebbene egli nell'infanzia le avesse apprese a memoria, era poi passato di moda tal costume -- discebamus enim pueri XII. ut carmen necessarium, quas jam nemo discit. Ed in seguito al riferir di Gellio sono cadute. in tale disprezzo ed obbllo, che sono derise come fossero le leggi dei Fauni e degl’aborigeni. Si può trovar intanto qualche motivo, pel quale si possono difendere gl’antichi panegiristi delle leggi decemvirali. Poichè per quanto fossero selvatiche quelle leggi, godevam no pur dei dritti che danno l'opinione e l' antichità; e paragonata la giurisprudenz'antica a quel la degl’ultimi tempi della Repubblica, il paragone risulta in favore della prima. Ma che i giure-consulti moderni, e quelli specialmente della setta degl’eruditi riguardino ancora lo studio dei mi peri frammenti superstiti come il più interessante per la conoscenza del giusto, e rincariscano sugl’elogj degl;antichi, cið non può essere che l'effetto d'un letterario fanatismo Se LIVIO chiama le leggi delle XII tavole fonté ogni equità è troppo credulo all’espressioni ed alle promesse degl’iniqui decemviri. Qual nie è infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed ingiusta costituzione non è cangiata, e da quella vantata uguaglianza la plebe neppure ottenne di acquistar la condizione desiderata. Per quel principio teocratico, di sopra accennato, ciò che distingue in tutti gl;effetti civili tanto pubblici che privati, il patrizio dal plebeo, è il dritto degl’auspicj. È questo dritto che da la vera qualità di cittadino negl’affari civili; ed incominciando dal primo vincolo sociale, cioè dalle nozze ', con i soli auspicj si produce il connubio o nozze solenni, dalle qua li deriva il carattere di padre di famiglia, la patria potestà, e la facoltà di testare; e questa specie di nozze è de' soli patrizi, poichè gl’altri ridotti al matrimonio civile o naturale senza prevj auspicj non potevano godere delle stesse prerogative. Gli auspicj e propriamente gl’auspicj maggiori poi sono i soli mezzi per aver drito alle Magistrature, e far parte dell'ordine regnante dello stato. Or niun cangiamento è fatto da quelle vantate leggi su di un articolo tanto importante in quella costituzione nella quale tutto è sacro; e la Storia c'insegna, quanto poi costasse di tranquillità alla Repubblica, il voler introdurre in qual che modo l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria e la giurisprudenza de' tempi più antichi di Roma, pure si può asserire ch ' esse non hanno propriamente la loro origine che dopo la pubblicazione delle XII tavole. Si crede intanto che quel prezioso codice avendo acquistata due qualità principali, cioè d'eso ser PUBBLICO  e generale, avesse resa certa e stabile la legislazione. Autorizzato dal popolo, fisso nel foro e delle curie, ciascuno dove trovarvi la certezza de' giudizj, la sicurezza de'suoi dritti la legittimità de' suoi dominj. Ma su questa conseguenza ci fanno nascer gran dubbj gl’antichi autori e molti fatti conosciuti. Convien sempre ricordare che il principal caractere delle prische aristocrazie è la misteriosa custodia delle leggi o consuetudini, e della religione, ciocchè forma il privilegio esclusivo, o la privatiya di quella sola sapienza che gode del bujo et del [(Det ZE =]; pro ice e della pubblica ignoranza. Ma codasta sapienza romana è fondata parte sull’ingiustizia, parte su l'errore. Su questo, perchè la loro scienza sacra ed arcana non consiste nel celare al volgo i misteri della natura, l'origine della cose, l'energia della forza motrice, la fecondazione dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani presso le altre nazioni: la loro scienza arcana si raggira sul cantare o cibarsi dei polli, sul volo degl’uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori delle viscere, e simili cose, alle quali non può appartener mai il nobile titolo di scienza o sapienza, ma quello solo di vane osservanze. L'errore poi lo fanno servire all'ingiustizia, poichè con tali mezzi si manteneno nell'assoluta disposizione delle leggi, facendole servire alla conservazione del preteso dritto del più forte, cioè alla sovversion ne di tutte le idee del giusto. Or poichè quelle leggi qualunque sono pur pubblicate, una parte della scienza arcana e dell' aristocratico potere anda a svanire, se non si trova un modo col quale si ripara una perdita si grave. Quessto si effetrul col conservare il potere giudiziario Dell'ordine de' patrizj, e col rendere inutili le lege es za 7 bid SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi (78 )* gi; se non sono avvalorate dalla doro recondita sapienza. Essi doveno spiegarne il senso; essi conoscere qual dritto nasce da una tal legge; qual era l'azione che ne provenne, quale il modo o la formola di proporla, quale l'eccezione che può impedirla; e finanche si arrogarono come un mistero sapere i giorni ne' quali si può amministrar la giustizia senza offendere i numi. Ecco insomma la giurisprudenza, ossia il mezzo di rendere inutile anzi dannoso alla società il beneficio d'una legislazione. Essa vanta un origine aristocratica, un origine che si confonde coll' errore, colla malizia, e colla prepotenza. Sebbene dunque la giurisprudenza è nata subito che vi sono leggi incerte ed arbitrarie; pu e non si conferma, estese e stabilì nelle forme, che dopo la pubblicazione delle XII. tavole; dopo questo prezioso compendio dei dritti degl’uomini. POMPONIO conferma le mie parole. Dopo pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente avvenir suole, s'incomincia a desiderare per l'interpretazione delle medesime l'autorità de' giurisprudenti, e le necessarie dispute del foro. Tali dispute e tal dritto non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79 ) 9 ji però un nome proprio come le altri parti del dritto, ma con vocabolo comune è chiamato DRITTO CIVILE. Quasi nel tempo medesimo da quelle stesse leggi si fanno nascere le azioni, colle quali si dove discettare a litigare: ed saccia non è in libertà di ciascuno il farne uso, si pensa a farle essere certe e solenni; e questa parte del dritto è denominata azioni della legge, o sia azioni legittime. E cosi quasi ad un tempo nasceno queste tre specie di dritto cioè leggi delle XII. tavole; dritta çivile derivato da esse; ed azioni della legge, composte sui s dritti antecedenti, La scienza poi tanto delle leggi quanta dell'interpretazione, e delle azioni %, stesse è riservata al collegio de Pontefici, quali in ogni anno destinano persona che presedesse ai privati affari o litigi; e con questa, consuetudine vive il popolo per cento anni in circa. Quale orribile contradizione! Appena pubblicata una legislazione tanto vantata per la sua perfezione, è trovata cosi insufficiente che ha immediato bisogno di sostegni e di interpretazioni. E codesto è il codice superiore a tutte le biblioteche de’ filosofi? Ogni parola di POMPONIO contiene una contradizione alle idee di leggi e legislazione che somministra il buon senso il più comune. Il dritto civile tanto encomiato non è altro dunque che il risultato dell’interpretazioni de'Giurisprudenti e delle dispute forensi? E qual razza di prudenti sono mai quelli! Ciascuno sa che quella è l’epoca della più crassa ignoranza; la spada, la zappa, i polli e le usure sono le sole idee che fiorisceno in quelle teste leggislatrici. Ma poichè col progresso del tempo, e colla frequenza de' giudizi qualunque è stato quel dritto consuetudinario può pur ridursi in massime o in principj di giustizia, e cosi divenire di comune intelligenza e di un uso generale. Si pensa il modo onde questo non avvenisse, e si mantenne sempre le leggi nel bujo e nell'incertezza. Ne cið è sicuramente per una vanità dottorale, ma per conservare un potere ed una leggislazione arbitraria, qual è il grande scopo dell'ordine aristocratico. L'unico mezzo che essi viddero il più opportuno è quello d'inventare le azioni, cioè delle formole colle quali non solo si dove agire o eccepire in giudizio, ma secondo le quali si dove regolare i contratti e gl’altri atti civili, accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non basta loro di aver la privativa de' giudizj; poichè colla legge certa difficilmente si può abusarne: bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso e della nuova pratica una nuova legislazione da surrogare all'antica scienza mistica delle leggi, per tenerle sempre in quella severá custodia, colla quale prima delle XII. tavole tenne le antiche consuetudini. E perchè non si manca di venerazione a tale straordinario stabilimento, i pontefici ne sono fatti depositarj egualmente e disponitori. Chi' può trovare in questa specie di legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diretta non a dispensar giustizia, ma a conservare ľaristocratico dispotismo, da segno, di non aver mai idea di ciocchè costituisce il carattere delle leggi. Ma non si tratta già di fare la legge, si tratta solo di tener il popolo in schiavitù: perchè se avendo già esso acquistato i dritti di privata cittadinanza può godere anche quello d'ISONOMIAI, cioè dell' eguaglianza delle legge, qual'è il suo intendimento nel promuovere una pubblica leggislazione, ha un gran passo verso quella libertà che tanto F ambe, ma che più sente che conosce. Escla. md esso sovente contro quella specie di occulta o privata legislazione, dicendo, che la sua condizione de ea in questo assai peggiore di quella dei popoli vinti; essendogli negato il poter sapere cioc che riguarda i più comuni affari çivili, e fino i giorni legali e feriali, ciocchè agl’altri non è ignoto: segno sicuro che l'aristocrazia romana e inolto più feroce o severa di quella delle altre città o popoli vicini. Il dottissimo VICO con gran proprietà d' intelligenza pensa che quel notissimo motto di Solone: conasciti, è piuttosto un précetto politico che morale. Pieno l'animo di tutti i sentimenti della vera giustizia Solone ricorda con quel motto all'oppresso popolo di riconoscer se stesso, cioè di riconoscersi per uomini ed uguali ip dritto a colo ro che li opprimevano. Il popolo romano non ha un Solone, che gli da così utili ricordi; ne forse ne ha bisogno, poichè abbastanza si riconosce, ed agl’insulti de'patrizi risponde, che non sono fioalmente essi ne discendenti do’ Dei, nè venu i giù dall' Empireo. Avrebbe però avuto bisogno di un Solone, per aver lidea d'una costituzione, senza la quale arrivo si a distruge gero gere la maggior parte degl’abusi del potere aristocratico, ma non giunse mai a formare una pefetta repubblica, fondata su i veri rapporti sociali e su i dritti primitivi della giustizia naturale e positiva: per cui se Roma corse rapidamente alla grandezza dell'impero e delle ricchezze, cadde anche presto nella voragine del dispotismo. Ma ritornando a quella giurisprudenza che succedè immediatamente alle XII tavole, e che da nascita a quel nuovo dritto così stranamente amministrato, dico che, sebbene da quanto semplicemente espone POMPONIO, se ne possa giustamente fare il carattere; pure ad esuberanza aggiungerd, che l’illustre GRAVINA, tuttochè pieno d' entusiasmo per la romana giurisprudenza, non sa nascondere, quanto fosse infelice quella de' tempi de'quali ragionamo. Antiqua jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum prodiit: aspera quidem illa tenebricosa et tristis non tam in æquitate quan in verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiudizj filologici, vuole mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. F 2 di giudicare giustamente, come riconobbe per tenebrosa l'antica giurisprudenza, avrebbe riconosciute per arbitrarie e maligne le successive giurisprudenze dette media e nuova, ed avrebbe disconfessato gl 'inopportuni encomj, che in generale yolle ad esse tributare. Per quanto però si è finora ragionato, non ho toccato che leggermente la nequizia della giurisprudenza e della giustizia sacerdotale; ma chiun que per poco abbia di buon senso converrà meco, che una delle tristizie maggiori in fatto d'amministrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e conoscenza, e ridurle per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani misteriosi. Nascondere le leggi, è nascondere la luce civile, è precipitar gli uomini ne' vizj e nella corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità d'espressione si chiamano LA RAGIONE CIVILE la, onde il celarle, il corromperle, val lo stesso che privare gl'individui del corpo politico di quella ragione che loro deve servir di guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurisprudenti non lasciano mezzo per tenere il popolo nell'oscurità, poichè non solo coll'inventare le azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le leggi e le guastarono; ma de' nuovi stabili menti anche s'impossessavano per poterne disporre a loro talento. LIVIO n'è amplissimo testimone dicendo: institutum etiam ab iisdem coss. (cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut senatusconsulta in ædem Cereris ad ædiles plebis deferrentur, quia ante atobitrio Consulum supprimebantur vitiabanturque. Non è però sufficiente questa legge, e i giurisperiti seguitarono ad essere veri monopolisti della legge. Dobbiamo credere però che i più virtuosi romani avessero a vile codesto mestiere d'ingan no e di soverchieria; e perciò. la storia ci pre senta sempre con elogj coloro i quali quasi senz’intervallo tornando dai campi di Marte cambiava no coglistrumenti rurali gli arnesi guerrieri, o coronavano l'aratro di allori trionfali. Si sa che Roma allora e per alui secoli non presenta alcuna occupazione che potesse allettare alla vita cittadinesca, la quale dalle belle arti, dalle scienze, e dal prodotto da, esse spirito sociale si rende solo piacevole; perciò chi non ama l'intrigo, nè la vita oziosa soffre, in vece di darsi alla cabalistica (LIVIO) e viziosa giurisprudenza, si ripara nella esercizio dell'agricoltura sempre preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti la storia ci pudo istruire, mostrandoci, che la famiglia la più infesta allo stato, la perpetua persecutrice della libertà popolare e della giustizia pubblica è una famiglia di giurisprudenti. Tale è LA CLAUDIA; e sempre si è veduto che dove dottori e forensi sono, la discordia prende il luogo della pace e della naturale tranquillità. Ma ritorniamo a POMPONIO. Egli ci dice che quella mistica giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo: la storia pero agl’altri autori dicono, che ha una durata eguana le a quella della Repubblica, toltene alcune differenze dalle quali non è alterato il fondo del la cosa. Seguita dindi POMPONIO a raccontare come quelle formole ed azioni, essendo RIDOTTE IN FORMA D’APPIO CLAUDIO, cotal mistico libro gli è involato da GNEO FLAVIO, figlio d'un libertino e scriba dello stesso Claudio: ed aver., dolo pubblicato e fattone un dono al popolo, questo gli è si grato, che lo fa pervenire ad esser tribuno della plebe, senatore, ed edile. Questo libro contenente quelle azioni delle quali si è già parlato, dal nome dell'editore è deno. Si po, mitato DRITTO CIVILE FLAVIANO, benchè egli nulla vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in Roma la popolazione e nel multiplicarsi gl’affari maticando alcune specie di formole, SESTO ELIO non » guari dopo compone nuove azioni e ne pubblico co un libro chiamato DRITTO ELIANO,. trebbe" ragionevolmente pensare, che pubblicate le leggi e resa publica la scienza arcana, il dritto cívile, le azioni, la pratica, e le leggi stesse diven cassero di pubblica ragione; e che il popolo illuminato su i principj legali, sulla condotta degl’affari, sul modo di amministrar la giustizia, sull’ordine giudiziario, non avesse più bisogno della maduduzione de' patriaj per distinguere il giusto, e sapere i mezzi d'ottenerlo. Ma tuu ' altrimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i patrizj – gl’ottimati -- perdere per alcun modo la custodia e la dispensazione di quella scienz'arcana, che forma la base principale del loro ingiusto potere, trovano il'modo, onde far rimaner il popolo defuso. E come nelle sette se si vengono a scopris se i segni mistici destinati al riconoscimento, presstamente si cangiano, e de ' nuovi si surrogano, onde sia salvo it mistero; cost i bravi Giurispe siti eseguirono, cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti dell'ordine, e conservano il grande arcano della giurisprudenza. Le formole e le azioni sono cangiate, e forse in maggiori cifre involute onde potessero rimanere ancora lungo tempo nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo. Ma ascoltiamone, CICERONE, il qua le ce ne dà il più distinto divisamento.ERANT IN INIGNA POTENTIA QVI CONSVLEBANTVR A QVIBVS ETIAM DIES TAMQVAM A CHALDÆIS PETEBANTVR INVENTVS EST SCRIBA QVIDAM GNAIVS FLAVIVS QVI CORNICVM OCVULOS CONFIXERIT ET SINGVLIS DIEBVS EDISCENDOS FASTOS POPVLO PROPOSVERIT ET AB IPSIS CAVRIS IVRISCONSVLTIS CORVIN SAPIENTAM COMPILARIT ITAQVE IRATI ILLI QVOD SVNT VERITI NE DIERVM RATIONE PERVULGATA ET COGNITA SINE SUA OPERA LEGE POSSET AGI NOTAS QVASDAM COMPOSSVERVNT VT OMNIBVS IN REBVS IPSI INIERESSENI (CIC. PRO PUR.) Non è d’alcun utile dunque l'aver trafitti gli occhj a quelle cornacchie poichè in breve tempo seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi prosegue, la storia troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro secoli gli stessi sentimenti, gli stessi principj, la 2 stes cha stessa condotta. La Giurisprudenza è latente, incerta, arbitraria, ignota al popolo, e privativa del solo ordine patrizio sacerdotale, il quale lungi da quella virtù che sola consiste nella beneficenza »da quella sapienza che cerca il vero, per render lo di comune demanio; da quella giustizia trova i principj nella ragione, e gli espansivi sentimenti nel cuore; da quella naturale benevolenza e da quel sentimento di pietà, che distinguono l'uomo civilizzato; da'veri sentimenti di patriotismą che non può essere mai scompagnato dalla giustizia; lungi dico da tutte queste qualità e gl’eroi del Campidoglio non sembra che provassero altri sentimenti che quelli dettati dallo spirito di corpo, sempre contrario, anzi distruttivo de' sentimenti sociali, dal vile interesse personale e pecuniario Fros, duttore di tutti i vizj, e dall'abuso d’un illegitimo potere. E pure questi furono i patriarchi della giurisprudenza! Seguitando quindi POMPONIO ad esporre i fonti del dritto romano ci accenna l'origine de' plebisciti e de' senatusconsulti, specie di leggi dettate dal popolo o dal senato, e delle quali si vedeno gli effetti ee'l'l valore, e soggiunge, che nel tempo stesso anche dai magistrati nasce un' 1 el gobierno un' altra specie di dritto s poichè, tecid saw pessero i cittadini, di qual dritto i magistrati in si sarebbero serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura, e perchè vi andassero premuniti, pubblicarono degl’editri, da quali si costitui IL DRITTO ONORARIO, cost detto perchè proveniya DALL’ONOR del pretore. E dopo aver parlato finalmente dell'altra parte del dritto che nasce delle costituzioni de' principi, cost ri-epiloga tutti i fonti che costituiscono il 'dritto Romano., Nel la nostra Città dunque dice egli ) la legislazione è costituita del dritto o sia legge; da quello che propriamente si chiama DIRTTO CIVILE, che non è scritto, è consiste nella sola interpretazione de' prudenti: dalle azioni della legge  le quali contengono le formole di agire; dai plebisciti che sono fatti senza l'autorità del Senato, dagl’edini de'magistrati, da' quali nasce il dritto onorario; dai Senatusconsulti costituiti dal Senato senza legge particolare; e finalmente, dalle costituzioni de' Principi, Ecco tutta la Storia seguita, che POMPONIO ci ha lasciata del dritto Romano, ed intorno alla quale presso a poco gl’autori tunti convengono. Abbiamo finora voduto quale è il dritto é la giurisprudenza romana prima è dopo dello leggi decemvirali, e quindi come per quattro secoat li e più le leggi e la Giurisprudenza avessero 1 caratteri d'irregolarità, d'incertezza e di arbitrio i é non ostanteche la ragion popolare andasse acquistando qualche dritto su l'aristocrazia, puro questa sostenuta dal sacerdozio, qnantunque per necessità cede in qualche cosa de’dritti pubblici, fa perð ogni sforzo per tener recondita le legge, e sotto le chiavi del mistero tutto quello che riguarda l'anministrazione della giustizia. Conoscheno ben essi che nei stati di qualunque sorte, quel If anno veramente il massimo di potere effettivo cho possono disporre a loro modo delle leggi e della giustizia, e che tanto più diventa tale autorità efficace quanto più la legge e oscura, incerta, ed arbitraria. Ma per vedere come questo continuassets e come la giurisprudenza segue ad esser sempre della stessa indole, prima di venir a ragioniare de' plebisciti e de' senatusconsulti ch' ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel dritto cui si volle dare il titolo di ONORARIO, ma che vedremo' non essere stato degno di alcun onore. Se si vuole parlare del la ridevolezza di quelle vantate formole, che costituivano la Romana Giurisprudenza, ci porterebbe a perdita di tempo, ma se i Romani di buon senso e CICERONE stesso le. derideno e teneno in altissimo disprezzo, credo che dopo due mille anni potremo far noi altrettanto, e chiunque non sia un’ vero divoto, e cieco adoratore della Romana antichità e giurisprudenza. Rifletterà solamente che quando di cose semplicissime si vogliono far misteri, allora dovendo vi aver luogo l'arte d'imporre, le idee semplici si devono involgere in un numero di parole non necessarie, e surrogare impropriamente le immagini e le finzioni alla semplicità e realità delle cose e delle idee: specie di geroglifici che deve ace: compagnar sempre il mistero, e l'impostura Siccome non è mio intendimento però di fare la Storia del governo civile di Roma, mà solo indicare il corso infelice delle legge e della giurisprudenza, cosi non m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la plebe e i patrizi, quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza, e questi per allontanarli, fanno tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi IL FORO ROMANO. Ma accennerò solamente ciocchè importa, per passare all'origine del dritto onorario. La forza dell' opinione non ha più molio. scevano valore contro la forza reale ed effettiva; per cuti essendo riusciti i plebei a partecipare ad alcuni di quegli officj che fin allora sono privativi de patrizi, come è quello della questura e de' TRIBUNI MILITARI, non parve foro di aversi assicuraii i sospirati dritti, se non otteneno la massima delle magistrature, vale a dire il consolato. E poichè già per lunga e dolorosa esperienza cono che sempre col manto della religione i patrizj cercao coprire le loro pretese, o tependone lungi il volgo profano, ailontanarlo da tutte le magistrature che de' sacri auspicj abbisognayano; così i plebei videro che per farsi strada al consolato, si rende necessario l’ardi mento di entrar ne' sacri pene trali, ed andar anche essi a studiare e consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni che fecero cor endo alla fine il quarto secolo di Roma, sono queste cose combinate; cioè che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de Decemviri, e che di questi V patrizj fossero ed altrettanti plebei: e che nella nuova elezione de consoli l'uno fosse del loro ordine, e l'altro patrizio. Invano APPIO CLAUDIO montà in tribuna per fare non arringa ma una predica teologica contro le nuove idee filosofiche sorte negl’animi della plebe Romana: invano ricorse alle idee teocrati che già fatte obsolete; invano minaccia d anate ma quel popolo, che potea far a lui più reali mi nacce: Roma, dice egli, è fondata cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico, di privato, di sacro, di profano, in guerra, in pace, in cae sa e fuori, tutto doversi cogli auspicj trattare: che i soli patrirj in esclusione de' plebei per inveterato costuma godevano del dritto degli auspicj: che niun magistrato plebeo è mai creato cogl’auspicjse che in fine canto è il creare i Consoli dalla plebe, quanto il rovesciare interamente la religione, ed incorrere nell'ultima indignazione degli dei. Non ostantino però tante e si gravi rimostranze LUCIO SESTIO ottenne finalmente il consolato. Se questo colpo è doloroso a sostenere per i patrizi, è facile l'immaginare; ma al male già accaduto non potendo portare alcun riparo efficace, si rivolsero ad escogitare qualche rinfranco, per non perdere intieramente quel privativo potere che dipende dal consolato. Pensano dunque sta (12 ) Lir. lib. YI. cap. 36 mabilire una nuova magistratura che può conservare nell'ordine patrizio l'amministrazione della Giustizia, il potere giudiziario, e tuttociò che riguarda l'esecuzione della legge civile. Quindi col pretesto che i consoli sono quasi sempre fuori di città alla testa degl’eserciti, onde non possono adempire agl’ufficj della giudicatura, proposento di stabilire un nuovo magistrato che adempisse e questa parte dell'amministrazione, ed è ordinato che si traesse dai patrizj e si chiamasse PRETORE. La pretura dunque è stabilita per conservare nell'ordine de' padri tutto il sistema giudiziario o forense del quale hanno facto fin allora uno scempio cosi crudele. La legge e la Giurisprudenza segueno ad essere malversate, ma per poia chi anni dura privativamente nelle mani de' patrizj la Pretura. Eccoci intanto al tempo nel quale si può fissare veramente l' epoca di quella Giurisprudenza che passo di mano in mano fino agli ultimi tempi ne' quali ebbero qualche celebrità il nome Romano e l'Impero. Questa parte del dritto, come testè ci ha insegnato POMPONIO, nasce dagl’editti, che emanano į pretori nell'entrare in esercizio della loro magistratura, ed essa fa il maggior latifondio della scienza forense. L'importanza dunque della medesima ci merte nel dovere di portarvi sopra uno sguardo particolare, seguendola brevemente nel corso della Storia, ve derne in qualche modo l'uso, il carattere; e gl’effetti, Dopo lo stabilimento della pretura e della comunicazione a tat officio delle plebe, e più dopo eseguito il censo di FABIO MASSIMO il governo di Roma perde la forma Aristocratica, benchè non ne perdesse lo spirito; ed io non ardirei dire col cos mune de' dotti, che si trasformasse mai in quella forma costituzionale che si chiama Democrazia: La libertà popolare è molta, e qualche volta eccessiva a segno che degenera in licenza, poichè essa non era limitata dalla legge; ed il dritto de' suffraggj ed il potere legislativo non hanno mai quela regolarità ed uniformità, che può rendere nel tempo stesso un popolo regnante e tranquillo. E non è mai tale il popolo Romano, poichè la forma del suo governo non è costituita su d'un piano antecedentemente ragionato nel quale dalla considerazione de' varj rapporti sociali si fosse rimontato alla necessaria divisione del pubblico potere, e questo ripartito in modo che le varie parti non si potessero nuocere fra loro, e non si po tes. → toa 97 ) tessero riunire; ma per un nesso naturale tutte coordinatamente contribuissero al grande scopo della perpetua conservazione sociale. Non avremo perciò quind' innanzi frequente occasione di parlare dei disordini dell' Aristocrazia patrizia o sacerdotale, poichè gittati i semi del disordine e della corruzione, essi si moltiplicarono dovunque trovarono suolo adattato alla facile germinazione. Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki, non però tutti quelli che sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione. Ma passiamo finalmente a vedere quale fosse stato il fato della Giurisprudenza in questo nuovo ordine di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più accuratamente trattarono degli editti pretorj sono da distinguere il celebre Giureconsulto Eineccio ed Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per trattare il più compitamente che fosse possibile questo importantissimo articolo relativo alla Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non tralasciarono ricerca alcuna conducente al loa G TO Heinec. Hist. Edict. Memor. de l'Accadem. des Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo. Trovarono che in Roma e per l'Impero ancora non solo quelli che propriamente Mangistrati sono detti, ma diverse altre cariche ed officj ancora che non avevano tal carattere, ebbe To pure il dritto o il costume di fare deg’edinti Quante che fossero adunque le divisioni e suddivisioni del potere esecutivo o giudiziario, ed in quanti diversi rapporti fossero esse costituite, prendendo un tal dritto, hanno l'uso e la facoltà di straordinariamente comandare. Cosi, incominciando dai pontefici e dai tribuni della plebe, nè gli uni nè gli altri Magistrati, e passando ai Consoli e Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vollero avere il dritto di far editti, e godere di quel. Ja parte di potere che in tale facoltà o prerogativa è compresa. Fra tanti Magistrati però che hanno o si arrogano cotale autorità, gl’editti di maggiore celebrità, e che contribuirono a creare una nuova Giurisprudenza sono quelli de'Pretori. Dai patrizj è inventata e fatia stabilire questa nuova Magistratura a consolazione ed indennizzamento della perdita che avevano fatta d'un Consolato passato al la plebe; e quindi ottennero, che il pretore dal loro ordine dove essere prescelto Non dura mol, (99 molto intanto questo, privilegio poichè la plebe veggendo di quale importanza fosse la Pretura, non molti anni dopo cioè nel 417. volle anche paratecipare a tal carica, mentre ancora è unica e non divisa nei due Pretori Urbano e Peregrino; ciocchè' avvenne circa un secolo dopo. Coll’andar del tempo si multiplicarono maggiormente, ed oltre dei due mentovati e dei Pretori Provinciali altri ve ne furono nella Città, de' quali alcuni sono addetti a rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo detto del la origine della Pretura, ciocchè ci viene attesta 10 da LIVIO e da altri, cioè che essa è surrogata al potere giudiziario, che i Consoli esercitano, si dovrebbe naturalmente pensare, che se i Pretori cagionarono alterazione nell'antica Giurisprudenza, e ne fecero nascere una puova, çið essere accaduto per effetto delle loro decisioni o decreti o sentenze, le quali avessero per la loro giustizia meritata la conferma della pubblica autorità, e passate quindi in dritto consuetudinario Ma non fu certamente per tal motivo, nè si potrebbe facilmente immaginare, che essi a priori fossero autori di un nuovo dritto e d'una nuova Giurisprudenza. Eppure non fu altrimente: essendo essi semplici giudici o ministri di giustizia, colla facoltà di fare degli editti seppero per tal modo usurpare l'autorità legislativa, che il dritto è cangiato, e gl’editti più che la legge sono osservati, e maggior uso ed autorità hanno nel Foro. Ma se i Pretori non erano altro che Giudici cioè Magistrati di Giustizia, il loro officio è solo di applicare la legge al caso particolare, o sia ve der i rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si disputa. Un Giudice non può creare un dritto colle sue sentenze, poiché esse altro non sono che la dichiarazione del dritto medesimo; cioè che la legge nel caso proposto si verifica per la tale azione o d'eccezione dedotta in giudizio. E se decidendo, cioè esercitando l'attualità della Magistratnra non può crear un dritto, molto meno dee ciò poter fare per la sola qualità di Magistrato o in forza della Magistratura. Gl’editti pretorii dunque per i quali si alterano, si cangiavano le leggi, e se ne stabilivano delle altre temporarie, ci presentano degl’atti d’autorità arbitraria, temporaria, ed incerta che non possono formar mai una parte del dritto, il quale può solo emanare dalla potestà legislativa, e dev'essere certo generale o perpetuo, fino a che non sia abrogato dalla stessa autorità. Quando dunque in una carica siriuniscos no contro tutti i principi della ragion pubblica quelle facoltà, che devono essere divise da limiti insurmontabili, si può dire che tal carica contenga almeno in potenza, come diceno i scolastici, i principj del disporisano, e dispotico si può chia mar il Magistrato che l'esercita. Nel crearsi la Pretura io voglio supporre che non s'intese produrre un mostro di tal fatta, ma come codesta carica è surrogata al potere giudizionario che avevano prima i Consoli, il quale era riunito al potere esecutivo, cosi' e per questo per quel grado d'autorità che prendevano dall’ordine da cui erano tratti, non è difficile il farvi passare di tali abusi. A considerar dunque giustamente la cosa non nasce nella Pretura tale abuso dal semplice potere giudiziario, ma da quello di far gl’editti. In fatti se si va all'origine di questo dritto, ne troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli antichi) quod jubemtis fieri: espressione tanto generale, che potrebbe comprendere l'esecuzione di tutte le potestà non esclusa la legislativa; e perciò fiequentemente le parole di G leggi e di editti sono di uso promiscuo: Ma PAPINIANO  è quello che più nettamente ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che è introdotto a pubblica utilità, per adjuvare supplire, e corriggere il dritto civile. Jus prætorium adjuvandi, vel supplendi, vel corrigendi juris gratia propter publicam utilitatem introducium. Ecco dunque la vera origine del dritto Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gl’editti. Ajutare intanto indica debolezza, supplire, mancanza, correggere, errori. Si dice ch'è nell' ordine naturale delle idee di amministrazione, che quando al caso non si trovi alcun stabilimento di dritto, alcuna legge scritta, la volontà del Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto che il loro piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta, utile o nociva alla Repubblica. Ma che altro è mai il dispotismo, l'odio de' popoli czualmente e de' buoni regnanti: Se la legge manca, bisogna farla, e non solo il Ministro di giustizia, ma niun Magistrato è mai autorizzato non dico a fare alcu > o che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. (103 11 0 7 I na legge, ma nè a soccorrerle cadenti, nè a sup plirle difettose, nè a correggerle erronee, nè ad interpretarle oscure. Lascio le tre prime condizioni o circostanze delle leggi, sopra le quali non può cadere alcun dubbio che il restituirle in qualunque modo non possa spettare ad altri che al Sovrano. Ma in quanto all'interpretarle,. sopra di cui il probabilismo forense pare che abbia stabilita la sua autorità, rifletterò che l'interpetrare o interpatrare da principio è in Roma del soto ordine del patrizi, quando tutti i poteri e specialmente il legislativo sono ristretti nell'ordine aristocratico. Essi dunque che fanno la legge sono i soli che potessero interpretarle, uno e l'altro potere era illegitimamente stabilico ed abusivamente amministrato. Quando una legge è oscura, non vuol dir altro, che il non sapersi precisamente, ciocchè essa comandi o prescriva; lo spiegarlo deve venir dunque dalla stessa autorità, che l'ha emanata, sola interprete legitima di se stessa. Ne i giudici dunque nè i giurisperiti possono arrogarsi un autorità illegittima della quale è tan 10 facile l'abusare; e percid gli ottimi legislatori e GIUSTINIANO stesso ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10. (104 ) no. Le leggi bisognose di sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i loro difetti, de' quali di sopra abbiamo accennato il rimedio, ed il maggior male da esse prodotto è d' aver fatta nascere la Giurisprudenza, ed in seguito la corruzione della giustizia: nel qual fatto osserva l ' Eineccio, che i Romani furono cogli Ebrei sotto lo stesso parallelo. Or l'autorità data ai pretori cogl’editti prova visibilmente due punti: il primo che la legge è così incompleta, come è quella dei popoli barabari; e che i Romani lo furono a tal segno, che non seppero conoscere, quanto il confondere le potestà, ed il lasciar il poter arbitrario ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia ed ai principi di ogni buon governo. Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come scusare quel modello delle Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù, e che connobbe più delle altre la libercà e l'uguaglianza? Non togliamo a Roma gl’onori che merita. Essa è la prima inventrice degli editti, essa è la sola Re. Heinec. De prohib. a Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per quanto si sappia, che li avesse in costume. A vedere quale è il dritto Pretorie lungi dal dover credere i Pretori Magistrati giudiziarj, dovremmo anzi prenderli per riformatori o correttori delle leggi. Tali sono in fatti, ma non per uno stabilimento autorizzato dalla potestà legislativa: lo furono solo per abuso, vergognoso ai costituenti di sì strana Magistratura, e pernicioso sommamente al popolo soggetto. Se Roma avesse conosciuti i difetti delle sue leggi, e l'incongruenza nella quale dovevano essere per la differenza de' tempi, e per i politici cangiamenti; ed avesse voluto imitar veramente le leggi ed i stabilimenti d’Atene, avrebbe trovato più opportuno mezzo  a correggere e modificare la sua barbara legislazione. Ciascuno sa che in Atene vera un Magistrato detto de’ tesmoreti, il quale propone annualmente i cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi, e queste sono poi approvate o riggettate dal potere legislativo. Non deve farci intanto molta meraviglia che la pretura s' introducesse con tali abusi e tant'autorità straordinaria, se rifletteremo che quella. Magistratura è da principio stabilita privativamente per l’ordine patrizio, il quale la conserva in suo potere per anni. Per sapere poi come quell'abusivo potere si esercitasse, devo ricordare, che vi sono IV specie di editti, cioè Repentina: perpetuæ jurisdi fionis caussa: translaticia: nova. E senz' andar esponendo il valore di ciascuno, ciocche fino alla sazietà da molti autori è stato eseguito, mi ristringo ad alquante osservazioni più importanti. E primamente dirò, che quelli editti i quali dovevano contenere il sistema giudiziario attuale del la pretura, sono quelli appunto, da'quali derivarono maggiori abusi, cioè quelli perpetuæ jufts dictionis causa, pei quali il pretore espone nell' albo le formole delle azioni, delle cauzioni, delle eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto giustizia. Or avendo veduto che la Giurisprudenza anzi il dritto civile de' Romani in tali formole è compreso, chi è autore delle formole, lo è in conseguenza del dritto medesimo. Chiunque nell'agire in giudizio manca a quelle formole per qualun que causa, cade dall ' azione, o rimane con inutile eccezione cioè perde la lite anche che intrinsecamente avesse avuta dal canto suo la giustizia e la disposizione delle leggi. Ecco dunque il Magistrato divenuto legislatore, ed arbitrario it sistema di giudicare. Dobbiamo però credere, che tuttociò fosse fatto senza principj, e che non avendo idee certe e generali de' principj del driito, facessero gl’editti ciascuno secondo le proprie cognizioni ed idee: poichè come le ultime derivazioni e ramificazioni delle leggi si possono ritrar tutte della retta ragione e dalle idee di giustizia universale, cosi se i loro editti fossero derivati da tali fonti, non sarebbero stati prescrizioni annuali, ma avrebbero avuta una continuazione o vera perpetuità. NÈ SI FACCIA ILLUSIONE IL NOME DI PERPETVÆ IVRISDICTIONIS, POICHÈ QUELLA PERPETUITÀ ERA RISTRETTA AD UN SOL ANNO. Il Pretore o Pretori che succede alla carica, ha il dritto assoluto di proporre nel nuovo albo un nuovo sistema giudiziario, e cangiare a lor grado la formola ed i principj; e sebbene questo non si fosse fatto sempre nè in tutto, poichè spesso i succes'sori conservano integralmente o parzialmente gl’edirii an tecedenti, ciocchè diede il nome di translatixj agli editti di tal indole, è sempre però in libertà de' nuovi Magistrati di farne di nuovo conio, che perciò portarono il titolo di nova. Se maggiori irregolarità, incertezze; ed arbitrj. si possono portare nell' ordine giudiziario e ne ! dritto, lo lascio giudicare agl’amici della Giu stizia e della ragione. La Giustizia dipende solo dal capriccio pretorio, e gl’attori in giudizio dovevano essere ben intrigati in variar le loro formole, e su di esse disputare ed argumentare, per trarre le disposizioni o le opinioni legali al loro partito. Questo porta col tempo, che fossero molte le azioni per lo stesso giudizio, ciocchè fa un nuovo intrigo, ed accresce l'arbitrio de’ magistrati. Più anche dovette crescere quando i Pretori sono varj, e vi è in Roma quasi una popolazione di Magistrati, poichè ciascuno a suo modo proponendo gl’editri, quel ch'era giusto presso di uno, si trova ingiusto presso un altro. La morale pubblica e quella delle leggi particolaramente è dunque così incerta che non ha per regola che le opinioni o il capriccio, e si dilata o ristringe, allungava o accorciava secondo le sublimi Teorie del probabile, le quali sorgono sempre dall'arbitrio e dalla corruzione. Se il Pretore fosse stato uno solo, se l' Amministrazione giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di Magistratura, non avrebbe potuto 1 diffondersi tanto l'incertezza della Giustizia e la forza dell' arbitrio: ma gl’ammiratori o visionarj della Sapienza Romana, trovano ragioni sufficienti per ogni disordine. Il progressivo accrescimento della Città o della Repubblica porto secondo essi multiplicità e varietà di affari, per cui si doveano coerentemente multiplicare e variare le Magistrature e le Giurisdizioni. Esempio pur croppo funestamente imitato nei vari stati di Europa! Nel progresso delle Società si aumenta è vero la popolazione o il numero degl'individui; ma non per questo crescono i rapporti naturali e necessarj che essi hanno collo stato, col governo, e fra se stessi. Non crescendo i rapporui non devono multiplicarsi e variarsi le leggi, le quali ne sono I espressione; ne devono quindi crescere e diversificarsi in varj generi e classi i Magistrati che ne sono i Ministri o dispensatori. Possono crescere in numero bensi ed in divisioni, ma de vono essere costantemente della stessa specie e con i stessi nomi. Quindi il dividere i giudizj criminali e civili in tante varietà, giurisdizioni, e legislazioni differenti è il produrre volontariamente una confusione, e multiplicare gl’abusi dell'arbitrario potere: ciocchè però non accade quando si vedono nettamente e con precisione i rapporti del cittadino. In questo caso, la legislazione sarà univoca, generale, uniforme; i limiti del potere giudiziario resteranno distintamente marcati; e le giurisdizioni, e le Maggistrature non saranno stabilite e divise sopra rapporti immaginarj e fattizj. Più, non nascerà pelle Magistrature quello spirito di corpo per cui sono in continua contesa o guerra fra loro, e, per conseguenza col governo o collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inversa della grandezza del corpo medesimo, onde più saranno piccoli, più avranno i difetti della picciolezza, più saranno capricciosi, irragionevoli, ed abuseranno della forza e dei momenti favorevoli:. Un gran corpo di Magistratura ben costituito e convenevolmente diviso, senza gelosia e senza interessi contrarj avrà la dignità che deve aver la Magistratura, ma non ne avrà le follie. Per quanto però fosse ampio ed esteso il dritto o potere che i Pretori esercitavano, non sembro loro ad ogni caso sufficiente; e poichè delle cari che non limitate o mal circoscritte dalla legge si. passa facilmente da abusi in abuşi, essi non fu sono contenti dover osservare i loro stessi princi pį idee e sistemi per quella perpetuità annua, ma, pensarono d'abbreviarne il termine a loro piacere Fenomeni di tal natura sono forse del tutto nuo vi nella storia ! Una magistratura costituzional mente arbitraria, si arroga anche il dritto di can. giar quelle norme legali divenute leggi per mezzo della pubblicazione, e farne delle nuove senza pre, vio esame, come, un corpo leggislativo farebbe, ma di propria volontà e piacere come un Despota potrebbe fare. Questo pur si faceva nel foro Ro mano, e spesso durante l'anno della Pretura si vedeva quasi magicamente scomparir l'albo espo sto, ed un altro a quello sostituito. Pensi chi vuole, che fosse quella una sublimità di condos. ļa, o la surrogazione d' idee più giuste ed al paba blico vantaggiose; io penserò cogli antichi, che i pretori, nol fecero per altro che per favore, per interesse e per altre tali cagioni, stimate ferite mortali per la Giustizia. Cosi penso anche l'Ei neccio, il quale benchè impa stato di vecchia giu risprudenza, pure abominò il dritto pretorio ed i più illegali abusi de' Pretori. Si erano essi accom modati talmente a cotal giuoco, che portandolo, ormai all'eccesso, e facendo vero scempio della giustizia, si svegliò finalmente un'anima virtuo sa compassioneyole per la pubblica disgrazia, la qua la en le tentò d'apportarvi riparo. Come infatti si pud vedere lo strazio che della giustizia fanno gli stes si di lei sacerdoti, e non sentirsi l' animo com mosso da pietà egualmente e da 'nobile disdegno. Paulo Emilio nudrito nelle semplici idee di quella véra sapienza che accoppia i doveri alla beneficenza, e l'umanità alla virtù, vedeva con orrore l ' amministrazione della giustizia Romana tanto nel la Città quanto nelle più infelici provincie. Vede va condannati gl'innocenti, i deboli oppressi, ed i Magistrati impuniti; e questo' nell'epoca la più memorevole della Romana virtù. Sdegnò egli, come rapporta PLUTARCO, i studii che la nobile gio venid coltivava ai suoi tempi per giungere alle cariche: quindi non comparve mai nel foro, o a piatire innanzi ai Magistrati, o ad umiliarsi al po polo per ambizione; ma corse libero la strada del la gloria e superò tutti i suoi contemporanei in virtù ed in valore. Nè vi vuol meno d’un tal carattere per attaccare i pregiudizj potenti, gli abu. 81 interessati, ed i sistemi di corruzione. Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre le sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su la pub-. blica corruttela, stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare più i loro Editri = V. K. Apria lis. Fasccs penes Æmilium S. C. factum est, uti prætores ex suis perpetuis edictis jus dice teni. PAULO EMILIO fu in dovere di partir subi. to per la Macedonia, dove ebbe più durevoli trion fi su i lontani nimici, che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva dentro delle sue mura. Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge; e non è raro che i nimici del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più efficaci. Da quest'anno cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal danzire alle spese della Giustizia, e di quell' equirà medesima, che tanto vantavano nei loro editri a nella loro giudicatura. La Repubblica sempre in disordini correva già al suo termine per i vizi della casuale costituzio ne; ma tra i disordini, la Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto insopportabile. A nulla valevano le accuse contro de ' Magistrati, poiché i mezzi di salvarsi erano molto conosciuti. Quello però a cui un Console non potè riuscire con ef fetto susseguente, riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con tuttocchè fosse stato contrariato dai suoi compagni. Questi fu C. CORNELLIO SILLA il quale o tocco dai stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato specialmente dalle depredazioni di Verre e de' simili a lui, fra le altre utili leggi, propose la rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata cupidigia de' Pretori. LIVIO e DION CASSIO ed altri autori ci attestano in que' tempi non solo la sfrenatezza pretoria,  ma il grand' interesse de nobili specialmente a conservarsene il possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto tale ne' Comizj, che i fasci Consolari andiedero in pezzi, ed i sassi facendosi sentire più delle vo ci, convenne dimettere, o posporre la lodevole im, presa ad altro tempo più tranquillo. Infatti secondo ASCONIO PEDIANO la legge passò = Multis 12 mon invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie jus dicere assueverunt, sustit lit. Gli oppositori della legge non avendo potuto impedirla, rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo di Fellonia, e Cornelio fu debitore della sua salvezza alla facondia di CICERONE: Troppo tardi perd pel popolo Romano vena ne quel beneficio; la Repubblica era già spirante i disordini irreparabili, ed apparecchiati i ferri per le Ascon. in Orat. pro Cond. le nuove catene. Roma non godè mai della liber ' tà, non seppe conoscerla, nè conobbe mai i moa menti favorevoli, ne' quali avrebbe potuta ren: derla eterna, Se colla Repubblica però fini la grande autorità de' Pretori, e se nuova Legislazione, nuova Giurisprudenza e nuovo metodo giu diziario furono introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la Give risprudenza, l' ordine giadiziario restarono perd perpetuamente infetti dagli usi o d'abusi, che l'ar te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza in trodotti y aveva. Nuove parole ', nuove azioni, nuovi atti legittimi ingombrava no le leggi e la giurisprudenza; ma quello che poi fu il colmo dell' abuso, ridicolo per se stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver inventato un nuovo metoda di considerar in giudizio gli oggetti,.i rapporti e le azioni; in sostanza le finzioni legali: Anche questo bel ritrovato lo dobbiamo alla Romana intelligenza. Senz'averè molta perizia nella Giuris. prudenza, basta la più semplice ragione per ve dere, che tali invenzioni furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni della ingiustizia. Si possono perdonare ai Romani; ma come perdonare a que' moderni Giureconsuli, i quali ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far sacri libamenti alla Giustizia? Tale fu l’ALTESERR, il quale offerendo a Lamoignon l'opera de Fictionibus Juris, così s'espresse = quid enim aliud istæ fictiones, quam juris remedia et jurisprudenium supulua IC, qui bus difficiliores casus expediuntur, et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta aperiuntur? = e peg gio altrove. Tale fu EINECCIO ancora il quale nel la Dissertazione, De Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per giustificare le finzioni legali, e farne vedere la bellezza e l'im portanza. Chi sarà vago di conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza, potrà consultare i cita ti autori e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti. lo aggiungero soltanto, che esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la prima av. venne, che nei progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị barbarựci modi de' tesçamen tị, de contratti, de’ litigj, credettero quasi che fosse cangiata la realità, e chiamarono finzioni i modi che a queli furono surrogati. Per la secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per eludere le loro prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano espressamente par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo VICO portando le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e richiamando, le ai loro principi, chiamò il vecchio dritto. Roma-, no un Poema serio, poichè le immagini si erano Sosti uite alla realità, e non si erano trovate poi espressioni più semplici e più adattate.  In con , fum tà di tali nature (dice il lodato autore ) l'antica Giurisprudenza tutia fu Poetica, la qua. le fingeva i farti non facii, i non fatti, fatti, na y ti gli non nati ancora, mori i viventi, i morti vivere nelle loro giacenti eredilà: introdusse tan, te maschere vane senza subjenti, che si dissero, » jura imaginaria; ragioni favoleggiate da fanta e riponeva tutta la sua riputazione in rim  trovare sì fatte favole, che alle leggi serbassero y la gravità, ed ai fatti somministrassero la ragio talche tutte le finzioni dell’antica Giurism prudenza furono verità mascherate, e le formo, s le colle quali parlavano le leggi, per le loro circoscrit te misure di tante e tali parole, nè più, nè meno, nè altre si dissero carmina. Ed altrove ragionando della Giurisprudenza Eroica ciod. H 3 bara sia: 99 he: (VICO Princ. della Scien. Nuo.) barbara de' Romani, la paragona a quella della se. conda barbarie, dicendo, Cost a tempi barbari,, ritornati la riputazion de' dottori era di trovar, cautele intorno a contratti, o ultime volontà red in saper formare domande di ragioni ed ar ticoli, che era appunto il cavere e de jure respon. dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò si rileva, che sebbene la Romana Repubblica progredisse in quanto allo stato politico verso la libertà, ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in quanto alle leggi però ad alla Giurisprus, denza i Romani erano rimasti in quello stato poetico, o barbaro, che caracterizza i primi passi sociali o lo stato (dirò cost) di necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la cagione, si troverà facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel perfezionamento dello spirito o della Ragione; poichè da questo solo possono essere migliorate le: costituzioni, le leggi politiche, e le civili. Mi dispenso volentieri, è credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le novità, che i Pre cori introdussero nel dritto, se da quanto si è detto finora, la Giurisprudenza pretoria resta ab bastanza caratterizzata; e chi volesse meglio istruir sene, può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno sarà preventivamente infatuato del'no me di Roma, vi troverà cose maravigliose e pelle grine, compiangerà l'attuale barbarie, e gemerà su le ruine del Campidoglio: ma se sarà una persona ragionevole e senza prevenzione, riderà di molte fole, compiangerà coloro che ne sono restati illu si, e farà voti sinceri, accið tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell ' obblio. Volendo dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata dall'ammirazione e dai pre giudizi della infanzia, dovremo dire, che i Preto - ri poterono essere buoni o cattivi, come in tuli gl ' impieghi sociali accader suole; e che perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative ', riducendo all' equità, o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità, le leggi troppo se vere. o barbare che allora esistevano. Ma dall' al tra banda dovremo pur confessare, che la maggior parte de pretori si abbandonarono ciecamente ai nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare, per cui, più che ministri o sacerdoti furono conculca tori della Giustizia. Riconosceremo nel tempo stes 50, che questo nacque, dal non essere stata limi ta e legittimamente circonscritta la di loro autori tà o potere; e per questo d'ogni arbitrio abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario, la Giurise prudenza equivoca ed incerta', e fecero nascere una nuova specie di dritto, che tali qualità tutte in se comprendeva; e sebbene non autenticato da alcun atto del potere legislativo, divenne. pure. un dritto consuetudinario più esteso e più usato delle leggi, e durò con perpetua continuità insiem. me colla Repubblica e coll' Impero Romano. Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto vantata eruiià pretoria: l'equià ve a fu solo de' buoni, e quella specie di equità può solo valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè giusta. Considerando le antiche azioni della leg gé, gli atti legittimi, e le finzioni legali, ci com parirà molto giusto che GIUSTINIANO le chiami favo le cioè azioni Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si rappresentavano innan zi ai Magistrati. Cosi tutte le azioni che si face Justin. In proem instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis fabulis discere, sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco difetto della Romana Repub. blica non parmi che si pensasse gianımai a pora, tar un vero rimedio., per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce,nè si può sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere, e fuggi. finalmente di mezzo a un popolo, che non la co nobbe, e non fu mai degno d'adorarla. Il latte della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani, ne quina 7 vano per æs et libram, le rivindicazioni, le cré zioni, le manomissioni, le nunciazioni di nuove opere, le usutpazioni, le licitazioni, le antestazio lé elezioni et c. non solo erano faite conceptis verbis, dalle quali non si poteva trascendere, me con azioni e rappresentanze particolari, che rende. vanò comiche le processure giudiziarie. Questo però non significa altro, se non che, nei tempi d'ignorana ga si sostituisce il linguaggio d'azione all' espres sione naturale delle idee e de sentimenti; e percið i simboli, i geroglifici, le gesticolazioni furono nei tempi barbari il supplemento della lingua parlata é divennero poi il linguaggio rituale solenne e sacro; in che principalmente consisteya la Giurisprudonza Romana quindi conobbero mai i sentimenti di sociabilità, i piaceri della società, le regole che all'adempimen to di essi prescrive la Natura. Perciò e per effet to della loro barbarie ed ignoranza, si disputò, si discusse, si combatte, si decise sempre sopra idee particolari, nè mai seppero elevarsi a generalizza re i principi, che la ragione ci mostra per la buo na' costituzione de corpi sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi continuo l alternativo passaggio maquanto furono felici colla forza o colla frode altrettanto infelici furono nell'uso della ragione. Essi non ebbero mai sentimenti univoci, e se la plebe fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia conservò sempre la sua condotta, ne seppero far cessare il nome di plebe, che vergognosamente li caratterizzava, e distingueva pre giudizievolmente il cittadino dal cittadino. Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea, e quindi non poterono averla della libertà, che sola per quella sussiste, ed il vantato censo, non diro quello di Seryio Tullio, ma quello stesso della Res pubblica non fu una invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad alcuno superflue in rapporto al soggetto della Giurisprudenza Romana, rispondero, che tali non sono poic (Det poichè quando si parla delle leggi, convien neces sariamente avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore, dei suoi sentimenti, e della forma e condizione del potere legislativo. Or potrà sembrare strano il dire, che Roma era formata quasi di due stati l'uno nell'altro, e che il potere legislativo fosse diviso in due corpi o anche in tre, e che poi quelle leggi fossero di un uso generale. E pure tal fu di Roma nel tempo in cui fu più celebre e risplendente. $' egli è vero, che nella undecima delle dodici tavole fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani, dobbiamo pur riconoscere che fu la più negletta e la meno rammentata, poichè i fram menti o le quisquilie che di essa ci rimangono sono le più meschine. E quantunque io sia nell' idea, che quella tavola non contenesse che i prin cipali dritti dell' Aristocrazia, qual' era appunto la legge de'cornubj, tanto detestata dalla plebe, e ro versciata vittoriosamente da CANULEJO; pure in un frammento rimastoci, troviamo quale avrebbe dovuto esser il vero stabilimento del dritto Legisla tivo, cioè QUOD POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $ TO. Ma se vogliamo seguire, la ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni, la parola popolo non fu ivi presa nel senso proprio; e nel significato generale, per esprimere la collezio ne di tutti gl'individui componenti lo stato, ma di quelli soli che godevano il dritto, e meritava no il vero nome di Cittadini, quali erano i soli Patrizj. Quando poi la plebe gradatamente venne a partecipare alle qualità civiche, la parola po. " polo divenne generale, e non essendovi più di visione privilegiata d'ordini nello stato, ma solo di classi, ciocchè la cennata legge prescriveva, passò ad essere nel suo vero uso e valore, cioè, a far, sì che legge si chiamasse, ctocchè l'intiero popolo avea prescritto e comandato. Se tale è però il principio costitutivo delle Rear pubbliche, e secondo il Gravina il più convenien te ancora alla natura umana, vi devono esse re delle regole, accið lespressione della volon tà generale sia certa legittima libera ed uguale, onde ciascun cittadino senta essere una parte in tegrante del Sovrano, dello Stato, e della Patria: Tali sono le leggi costitu zionali, che riguardano il dritto del suffragio, o la maniera di communi care la propria volontà al corpo sociale, e fare che la volontà pubblica sia realmente il risultato del. le volontà particolari. Il Dritto di suffragio costi tui yang tuisce dunque principalmente la qualità di cittadi. no, e il modo di darlo, forina quasi una misura di graduazione del Cittadino mede simo. cioè che tanto più si è Gittadino, quanto più il dritto del suffragio è libero ed uguale. Troppo lungi mi porterebbe l'andare esaminan do particolarinence colla Storia, come questo drit to si stabilisse in Roma:, cioè nella formazione casuale di quella Repubblica, alla quale contribul molto più la natura o il corso naturale delle sa cietà, che i priacipj d'intelligenza e di ragione. Dirò solo, che quel popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto lontano dal conoscere l'importanza di queste idee, che şi conteniò di essere con vocato al suon d'un corno di bue alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra od ovile fu chiamato quel luogo, dove si radunava, per compir l'atto il più degno, il più glorioso p er un popolo, cioè il dar leggi a se stesso. Ma cotai nomi ed usanze erano avanzi dell'antico stato Aristocrațico; e pa stori e mandre sono correlativi necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si diedero į suf DIONYS. ANTIQV. ROMANARVM e i suffragj, quella de' Comizj tributi si può dire che fondasse veramente la libertà o la potestà del po polo, giacchè i Comizj delle Curie furono obblia ti, nè ebbero in effetto il potere legislativo; ed i Comizj centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza alle ricchezze. Vi fu inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro dritto, che di esaminare o consultare, si arrogo pure in parte il potere legislativo. O la Nazione dunque radu nata per Tribd, o essa stessa convocata per Centurie, o il Senato ebbero o in dritto o in fatto l'esercizio del potere legislativo. Le risoluzioni per tribù dette plebisciti, non ottennero che dopo molte contese la vera for za di leggi, cioè di obbligare tutti i cittadi ni, giacchè da principio non obbligavano che la plebe soltanto. Tanto è vero che i Patrizi si cre devano un altro popolo un altra Nazione; che quelle leggi nelle quali non avevano potuto far prevalere, le loro idee e le loro volontà, per mol to tempo non le fecero valere per leggi. L'auto rità de' Senatusconsulti fu meramente abusiva, poichè nè per le leggi Decemvirali ne per al cun stabilimento posteriore, il Senato da se solo aveva in alcun modo la potestà legislasiva. el 3 2 tiva. Quelle risoluzioni però che portarono parti colarmente il nome proprio di leggi, furono le de cisioni dei Comizi centuriati, delle quali non oc corre ripetere nè il metodo nelle proposizioni, nè quello della convocazione, nè quello delle deci sioni. Tuttocið fu vario nel corso della Repubbli. ca, e si può trovare presso mille autori, che del governo Romano anno ragionato. Ho voluto solo ricordare queste poche notizia per mostrare, come il potere legislativo fu stabie lito in Roma sotto varie forme, le quali influivano di molto su la realità, e come il dritto di suffra. gio, non fu lo stesso nè uguale nei diversi comizi. Nei centuriati la qualità di Cittadino era misurata su le ricchezze, e non si può dire, che fosa se la volontà del maggior numero de' cittadini, che rappresentasse la volontà generale, come don vrebb' essere per natura. Și sa ancora quanti abu si vi s'introdussero per farle essere le decisioni del minor numero, e spesso la quarta o quinta parte del popolo aveva già decretata la legge, men tre la volontà di tutti gli altri rimaneva inutile e, delusa. Che quello fosse un sistema meraviglioso lo potranno dir solamente gli Entusiasti, ma non chi nel giudicare suol prendere per guida la ragione: Dirò di più, e ciò fu contro i principi di ogni regolare amministrazione, che quei comizj oltre al potere legislativo si arrogarono ancora la facoltà governativa', ed in molte occasioni simil mente il potere giudiziario; ciocchè indica, qua le idea essi avessero di un vero ' e buon Politico sistema. Fu sicuramente un effetto delle distinzioni sco lastiche dell' antica Roma il dire, che i Tribuni del popolo non fossero Magistrati, perchè non avevano nè imperio nè dritto di vocazione, nè giu risdizione, nè auspicj, ma in verità se non erano magistrati nominali, lo erano in effetto, ed eser citavano un potere amplissimo su la plebe, sul Senato, e sopra tutta la Repubblica: ad es si apparteneva il convocare i comizj tributi i quali secondo me formavano il vero corpo le gislativo, se in essi il dritto del suffragio ap parteneva egualmente ed integralınente ad ogni. cittadino. Il Cittadino vi figurava come Citra dino libero, e non era il rango o la ricchezza, che davano la preponderanza. E pure questa par te della legislazione non meritò mai il nome di legge, come l'ebbero le risoluzioni de'Comizj cen turiati. lo non decido pai se al paragone le leggi Orno proposte dại Tribuni fossero più giuste ed utili allo stato, che quelle proposte nei Comizj centu riati dai Magistrati maggiori. Possiamo però ri Aettere, che tutte le leggi riguardanti la costitu zione politica, o relative alla libertà ed al lo stato popolare, le quali si possono chiamare leggi di Umanità e di Giustizia uni versale, furono tutte o quasi tutte proposte dai Tribuni. Nè si pud dubitare che esse fossero leggi necessarie, poi che erano le leggi naturali della libertà, e quindi necessarie e costituzionali per un popolo che voleva essere libero, Nè è da imputar loro che non fos sero migliori; giacchè la mancanza d'idee e di buone cognizioni era comune ai patrizi ed ai ple bei. Lo stesso Cicerone contuttoche fosse Aristo cratichissimo, non potè far a meno, di con fessare, che se si avessero voluti annoverare i misfatti de' Consoli, non sarebbero stati pochi, ma che toline i due GRACCHI, non si potevano contare altri Tribuni perniciosi. Infatti, e varj plebisci ti furono salutarissimi alla Repubbiica, e le leggi an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni promosse furono effettiva. mente a pubblico vantaggio. La maggior parte però delle leggi, dei plebisciti, e de' Senatusconsulti furono una specie di leggi volanti o temporarie, essendo per lo più pro mosse per occasioni particolari; ¢ sebbene si procurasse di dare ad esse tutta l'autenticità so. lenne, non si riducevano però in un corpo, che avesse l'autorità d'un codice di legislazione; ne io credo, che ad uso pubblico sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di bronzo, come pur ci vo. gliono far credere alcuni autori antichi. Sono in dotto a pensar cosi da varie testimonianze, e spes cialmente da una di CICERONE. Possiamo da esse raccogliere, che quando le leggi furono una scienza arcana de' Patrizj e de' Pontefici, si conservaro no e custodirono con gelosia e con mistero, trat tandosi quasi della loro proprietà più preziosa, e proprietà come abbiamo veduto molto dispo nibile. Il tempio prima di Cerere par che fosa se a ciò destinato, e poi il pubblico Erario, accid i Consoli'o i Senatori non le corrompessero o in volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica, gli antichi curatori non le curarono più, e funne generalmente negletta la custodia Al (131 ) si. Almeno cosi ci attesta CICERONE, assicurandoci, che per saperle, o per conoscerle, bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti = Legum custodiam nullam habemus: itaque hæ leges sunt, quæ apparia tores nostri volunt; a librariis petimus; pubblicis literis consignaram memoriam publicam nullam ha bemus. Græci hoc diligentius, apud quos xquaquaames creantur: nec hi solum literas (nam id quidem een iam apud majores nostros erat, sed etiam facta hominùm obsesvabant, ad legesque revocabant. E la credė egli così necessaria, che nel suo Co dice, legislazione stabilisce appunto nell'Erario la conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i Romani si avvidero, che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore. Ho avver che TACITO caratterizza con molto favore le leggi Decemvirali, non perchè meritas sero elogj di equità e di giustizia, ma perchè, al meno in apparenza, avevano avuta una certa re golarità di formazione e di pubblicazione; ed a causa delle leggi posteriori, prive di tali qualità. Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i co tito di sopra, 1 (Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le leggi oltre la viziosa costituzione, è da credere ancora, che il disordine e la confusione sempre vi avesse ro luogo, e spesso vi avesse parte la violenza, la cerruzione, e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità, da privato interesse, e da spirito di vendetta. Cosi di fatti c'indica Tacito dicendo compositæ duodecim tabulæ, finis omnis æqui juris: nam sequuræ leges, etsi aliquando in maleficos ex delicto, sæpius tamen dissentione ordi hun, et adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava, per vim taie sunt. Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to abbiamo detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono tanti encomiatori. Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero e giusto, avrebbero veramente meritate P adorazione, e l'accettazione della posterità, se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci avessero presentato un archetipo degno d'imitazione. Ma colla scorta della Storia, e sce vri (TACITO, Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile prevenzione tutt'altro abbiamo trovato. Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen " ta Romolo come un legislatore Filosofo, ed in struito della storia degli alui stati; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia pri mitiva, cioè barbara e feroce, la quale risorin - geva nel suo ordine, tutte le qualità di uomo e di cittadino: ma la storia del primo Regno e de gli alııi successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa, come si potrebbe provare su le poche tracce, che non sfuggono ai critici indagatori del le origini civili. In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato, che dopo una prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che le consuetudini Aristocratiche, si co minciò a dare una forma alla nascenie società. Il re videro, che il loro potere era un nulla, se invece di esser capi de'patrizj, nol divenivano del la plebe o del popolo; ma Romulo scompar ve per diventar Quirino ne' cieli, Servio fu tru cidato, ed il secondo Tarquinio espulso. In tanta incertezza di cose, come i storici assai posteriori parlarono dei tempi passati colle idee dei tempi loro, così si aprì la strada a credere, che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee in epo che di is ble che assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse seguenti si tormentarono prima lo spirito in tante ricerche, e poi si distillarono il cervello per con cordare le contradizioni, che ad ogni passo incon travano fra le idee prima formatesi, ed i fatti che poi trovavano nella Storia. Quindi tante ricerche e tante dispute inopportune e difficili per la man canza di monumenti, ed inutili affatto ai progres si della ragione. La legge regia però non meri tando alcuna particolare attenzione, importava so lo al nostro assunto il vedere, che l' incertezza delle leggi cominciò col nome Romano, e porta rono questa marca vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la durata della Repubblica. Tali poi furono anche il dritto civile, le azioni legitime, gli Editri de' pretori o sia il dritto onorario, e finalmente le leggi propriamente dette, le quali sempre più confusero e resero incerto il drit, to e le leggi antecedenti. Parmi dunque poter drittamente dai fatti con chiudere, che le leggi e la Giurisprudenza Roma na furono immeritevoli di quelle lodi colle quali sono state esaltate, ed indegne di reggere un po polo qualunque, mancando di quelle qualità che poteyano renderle pregey oli e sacre, cioè collo stabilire la regola eterna della giustizia, render P urmo suddito di esse, e non dipendente dall' arbitrio; ciocchè positivamente distingue la libertà del dispotismo, qualunque sia del resto la forma o la costituzione sociale. Se le specolazioni de' politici si fossero fermate principalmente su quest'articolo, avrebbero facil mente ravvisato, che Roma non cadde oppressa della sua grandezza, poichè per gli edifici mate riali o politici è essa anzi una cagione di resi stenza e di durata. Cadde quella mole immensa per mancanza di base, e per difetto di Architettum ia. La base della Società è sempre la Giustizia tanto nella legge e nel principio, quanto dell'amministrazione ed esecuzicne di esse. Che poi l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un prodotto progressivo del caso, credo averlo di sopra abba stanza dichiarato. La giustizia di Roma fir in principio quale può essere nella barbarie; d'indi qua le suol' essere nell'amministrazione arbitraria; e fi nalmente quale dev'essere nell’anarchia, nella confusione della legge e nella generale corruzione. Dell' origine dell'idea che abbiamo della Bellezza. Il Bello della Natura. Il Bello dell'arte, ossia della imitazione e del Bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere complete (Teramo, Fabbri). Indizi di morale. Il metodo della morale. Il sentimento morale. L’origine del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment morale. Divisione della morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà. Lo vviluppo della morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere morale. L’obbligazione morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler – self-love). La virtù. La benevolenza – la benevolenza conversazionale. La giustizia. L’educazione. La felicità. La passione. Note agli "Indizj di Morale" di G. Pannella Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana. La giurisprudenza romana dal tempo de' re fino all'estinzione della repubblica. Sequela dei carattere della giurisprudenza romana sotto gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza. L’amministrazione della giustizia. Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. La Situazione corografica della Repubblica di SAMMARINO e dei varii nomi dati successivamente al capoluogo dello Stato. L’origine della Repubblica di S. Marino, e prime sue memorie fino al secolo decimosecondo. Le memorie di S. Marino nel secolo decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento delle memorie istoriche per tutto il secolo decimoquarto. Proseguimento delle memorie per rutto il secolo decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto il secolo decimosesto. Proseguimento delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela del secolo decimottavo. Il governo politico della Repubblica di San Marino. Diplomi ed altri monumenti citati nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed inutilità. Ai dotti e agli studiosi delle scienze della natura. L’origine naturale della storia e dei progressi ed abusi della medesima. La storica incertezza. L’autorità degli storici contemporanei del cavalier Tiraboschi. L’inutilità della storia e dei pregiudizi derivati dalla medesima. Verificazione degli antecedenti principj con esempi tratti dalla storia della romana repubblica. I bello. Ai giovani educati. L'origine dell'idea che abbiamo del bello. Il bello della natura. Il bello dell'arte, ossia della imitazione e del bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. L’antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche.  Alla reale accademia ercolanese di archeologia e a S. E. reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D. Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi. Il tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria. L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti (Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene (Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre C. Gaetano Filangieri a M. C. Pietro Borghesi a M. C. F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis. Spallanzani all'abate Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli. Spallanzani a M. C.. Luigi Grimaldi a C   Toaldo a M. C...Spannocchi a M. C..V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle]. Michele Torcia a G. Berardino C...Mollo a M. C.. Carli...Mùnter a M. C. Mùnter a C. in Napoli. Mùnter a M. C...Filippo Mazzocchi a M. C...Gazola a M. C...Giuseppe Micali a C...Bertola a G. Bernardino C...Il medesimo a M. C...Brugnatelli a M. C...Anutos a M. C...Gio. Andrea Fontana a M. C.. Il Duca di Cantalupo a C...Palmieri a M. C....Gargallo a M. C. in Teramo...Galante a M. C...Amaduzzi a M. C...Zarillo a M. C...Giovene a M. C...Amoretti a M. C.. Francesco Soave a M. C...Acton a M. C. (Teramo).Fortis a M. C...Zannoni a M. C. Bossi a M. C...Tommaso Frantoni a C...Felici a M. C. Napoleone a. M. C..Trivulzio a C...Melzi a M. C...San Severino a C...Il duca di Sant'Arpino a C. Tracy a M. C.. Antonio Canova a M. C...Ricci a M. C...Gioli a M. C...Dragonetti a M. C...Zurlo a M. C. Michele Arditi a M. C....Orsini a M. C....Burini a M. C....Taranto a M. C. Sorricchio a C...Cicognara a M. C...Santangelo a C....Ciampi a C. Tommasi a M. C... Il Duca di Laurenzana a M. C. Grimaldi a M. C. Santangelo a M. C...Lodovico Bianchini a M. D..Filangieri a Melchiorre C..Niccolini a M. C. Rangone a M. C...Pilla a M. C. Il Duca di Gualtieri a M. C. II Barone Poerio a M. C...Armaroli a M. C. Neroni a Leopoldo Armaroli.Fuoco a M. C. Micali a Gregorio de Filippis..Aggiunta agli opuscoli. Fiera franca in Pescara..Al sig. Pasquale Borelli..Al sig. Antonio Orsini..Al sig. Conte Armaroli..Volta a Orazio C... Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M. C.. Piemonte. Liguria. Regno D' Italia. Toscana. Stati Romani.Napoli. Memoria per la conservazione e riproduzione dei boschi nella provincia di Teramo.Discorso del Cav. Comm. Gian Berardino C. letto in occasione del solenne giuramento prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di Napoli e Sicilia dalla Città e Provincia di Teramo..La famiglia e le opere di Melchiorre C.. I titoli nobiliari. Episodi della vita del C.. Opere ignorate del C.. Il contenuto delle opere. Catalogo per materia delle opere di M. C.. Lettere del C. e al C.. La Repubblica di S. Marino in onore di M. C.. M. C. a Gaspero Selvaggio. A Paolo D' Ambrosio M. C.. Il teramano Melchiorre C. è uno dei più cosmopoliti e al tempo stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali della seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo soggiorno a Napoli, interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di emottisi, il giovane intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio Genovesi e frequenta il gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate, che costituisce il fulcro del movimento riformatore meridionale. Sarà questa scuola composta da Longano, Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed altri, ad imprimere una benefica scossa alla cultura napoletana e avviare negli anni successivi un serrato e articolato dibattito sui problemi più urgenti del Regno, suggerendo le linee di un possibile rinnovamento della società civile che non di rado contrasteranno con l'angusta politica del governo borbonico.  È soprattutto dalla rilettura del genovesiano Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, considerato il manifesto dell'illuminismo napoletano, in cui viene rivendicato un uso pratico del sapere, che C. matura una nuova concezione della cultura e dell'intellettuale, la cui attività sia, come diceva Genovesi, più pratica che teoria» , e la convinzione della necessità di un impegno politico più diretto. Un atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di ascendenza giannoniana e di eredità genovesiana (8), egli manifesta nei due lavori, con i quali inaugura la sua attività di scrittore, in difesa dei diritti del Regno di Napoli sui territori di Benevento, sotto il dominio pontificio, e di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266 annesso allo Stato ecclesiastico. Nelle due Memorie denuncia le tendenze temporali dell'autorità ecclesiastica, dimostrando false o insussistenti» le pretese giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, ottenuti non già per legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione, titolo vergognoso» perché prodotto per dolo o per frode.  Sebbene notevole sia stata l'influenza di Genovesi sul movimento illuminista meridionale, non tutte le molteplici espressioni della cultura riformistica degli anni Settanta e Ottanta possono essere ricondotte alla sola riflessione del pensatore salernitano. Anche per i rappresentanti della corrente più provinciale», più tecnica e descrittiva della scuola genovesiana, l'insegnamento del Maestro non sempre costituirà l'unica matrice culturale. Lo stesso C., sebbene riconosca il suo debito nei confronti dell'abate, non trova in lui il pensatore che la propria ragione gli faceva desiderare, bensì il pubblicista che ricerca e analizza i mali economici e sociali della sua terra. La fortuna però - scriverà più tardi - avendomi fatto pervenir nelle mani le immortali opere di Loke [sic] e di Condillac, parve che il mio spirito prendesse una nuova modificazione, e quindi una inclinazione pel vero, ed un gusto particolare per i morali sentimenti. Già nel Saggio filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo, alcuni anni dopo il suo ritorno in provincia, s'intravede l'orientamento filosofico dello scrittore abruzzese basato su una visione tutta empiristica e sensistica dei rapporti umani, che indurrà la Congregazione del Sant'Uffizio a porre l'opuscolo nell'Index librorum prohibitorum. L'opera è una vera e propria esaltazione sia dello stato coniugale che dell'amore, inteso come desiderio, come piacere fisico ma soprattutto morale. In polemica con Rousseau, C. considera il vincolo matrimoniale una fonte continua di sensazioni e di sentimenti aggradevoli e sostiene, richiamandosi a Hume, che esso debba essere il più possibile completo e duraturo. La critica del celibato e più ancora del libertinaggio è l'occasione per un'attenta disamina della condizione della donna, di cui sostiene l'emancipazione e la rivalutazione nella famiglia e nella società, fino a rivendicare una legislazione sulla parità dei diritti e dei doveri fra i sessi. Sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine dell'assessore Paolillo che ne dispone il sequestro mentre sono ancora in corso di stampa, i quali svelano assai più a fondo e gl'ideali politici di C. e la sua cultura» (15). Sul piano filosofico infatti essi segnano una piena adesione all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei due pensatori il Teramano non si discosterà più, restando sino alla fine legato alla dottrina sensistica. Confessa ad un amico: Dopoché il mio spirito soffrì la modificazione dal Trattato delle sensazioni, non l'ho turbato più perché mi vi sono trovato comodo, non trascurando però le successive osservazioni le quali hanno potuto migliorarlo. Egli riconosce alla morale il fondamento empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce l'origine dei sentimenti morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gl’uomini acquisiscono le prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano utili o dannose, ne consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella delle loro attività si dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui maggiormente cresce la possibilità di comprensione della qualità degl’oggetti e gli individui sono messi nelle condizioni che meglio permettono la individuazione dell'amor proprio. È nel passaggio dall'Aristocrazia allo stato popolare, scrive, che le nazioni godono del colmo della virtù e nasce quella gara d’Eroismo che è difficile a trovarsi nelle Monarchie e che si verifica ogni qualvolta l'interesse di tutti i particolari va a riunirsi col pubblico e i cittadini partecipano maggiormente alla sovranità e al potere.  L'affermazione non si concreta in una scelta della democrazia come forma di governo, né in una rivendicazione di ordinamenti politici alternativi a quelli in cui si incarna la monarchia borbonica. L'allusione alla repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque priva di un reale contenuto politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la propria simpatia per il despotisme éclairé. Vi è, da parte sua, una svalutazione della politica in quanto problema teorico, a favore di un impegno politico più immediatamente finalizzato alla soluzione di questioni politiche contingenti. Suo obiettivo principale è il perseguimento del bene pubblico, realizzato attraverso un'avveduta e coraggiosa politica di riforme. Un processo di trasformazione che miri innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha niente a che vedere con la fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e di eterne contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche costituiscono una imprescindibile componente, consente a C. di condurre a fondo l'attacco contro la struttura feudale della società napoletana, in cui ancora assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa generata dall'abuso del potere che da quello delle ricchezze. Conosciuti i mali che provengono dall'ineguaglianza - afferma a conclusione del capitolo sulla proprietà - deve essere un canone politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad altre ricompense che a quelle del merito personale e dell'industria. Al contrario, il persistere dell'ineguaglianza non fa che produrre lusso e corruzione» ed aggravare la già precaria condizione dei più miserevoli, privati della loro stessa dignità perché costretti a mercanteggiare persino la vita, l'onore, la stima, la virtù, ed i più sacrosanti doveri. Dopo il sequestro degli Indizi di morale e la messa all'Indice del Saggio filosofico,  C. incorre in un nuovo spiacevole episodio con le autorità provinciali. Soprattutto a causa del vescovo Pirelli e dell'assessore Dragonetti, con cui pure aveva avuto rapporti di amicizia, è ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di certe monache dal monastero di S. Matteo di Teramo.  L'exequatur del Tribunale del capoluogo abruzzese con il conseguente ordine di carcerazione, emesso nei confronti suoi e di altri lajci seduttori presunti responsabili dell'insubordinazione, lo costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a Napoli, dove rimarrà circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda giudiziaria, giunta con l'indulto regio.  Questo secondo soggiorno partenopeo, avvenuto a dieci anni di distanza dalla fine del primo, si rivela assai fecondo per lo scrittore teramano che ha l'occasione di  rinsaldare i legami con gli ambienti riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti della cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi, Filangieri, Pagano, Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura l'idea che la provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali prodotti dal sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica governativa ed avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra capitale e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella Napoli corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di riforme.  Ritornato a Teramo, C. pubblica il Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, che gli varrà, l'anno successivo, la nomina ad Assessore militare della sua provincia. Lo scritto, dedicato all'amico FILANGIERI, inaugura un'intensa stagione che vede l'illuminista abruzzese farsi promotore di numerose riforme. Nel Discorso la questione militare acquista rilevanza politica, avendo intuito l'Autore l'importanza che una buona costituzione militare poteva assumere per la vita di uno Stato. Criticando lo spirito di corpo» dei militari, quel sentimento dissociale» che li porta a disprezzare la vita civile e che fa di loro una classe di privilegiati distinta dal corpo sociale, egli mira a riqualificare il ruolo del soldato all'interno della società, non soltanto in tema di sicurezza, ma anche, soprattutto, di progresso civile, riunendo, sull'esempio di Rousseau, la qualità di soldato a quella di cittadino, così che i due termini diventino sinonimi fra loro.  Ad alimentare la fiducia nei primi anni Ottanta che si potesse realizzare sul piano legislativo e amministrativo quanto si veniva sostenendo su quello dottrinario, contribuirono sia la istituzione della Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere (che però tradì presto le attese suscitate) che quella del Supremo Consiglio delle Finanze. Il Consiglio si prefiggeva di riformare gli antichi e perniciosi abusi del sistema e di restituire l'abbattuto vigore alla Nazione promuovendo i canali della ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso C. vorrebbe sottoporre la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo, pubblicata a Napoli. Considerato forse il più limpido e ragionato dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni, il testo è una dura requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni feudali e di certi abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale coltivazione in uno stato di sottosviluppo. La risposta delficina è in favore di un ammodernamento della tecnica di produzione e della rimozione di tutti gli ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni governative, che impediscono la realizzazione di un'economia di mercato. È di nuovo a Napoli, dove si fermerà fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa una permanenza piacevole. All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto un sentimento di profonda amarezza per l'andamento della vita politica della capitale. Egli prende coscienza della incapacità dello Stato di dar vita ad un programma organico di risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a dura prova dal terribile terremoto calabrese. La condotta della corte borbonica gli appare quanto mai improvvisata e piena di incertezze e di contraddizioni.  Ritornato a Teramo è raggiunto dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo, un Elogio che ne rievoca il pensiero e il valore. Dopo un rapido excursus delle opere, lo scrittore abruzzese si sofferma sulle Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini, pubblicate a Napoli. In esse l'Autore confuta le tesi roussoiane  sull'uguaglianza  tra  gli uomini,  correggendo quei paradossi», scrive C., che fra molte vere e nobili osservazioni sono racchiusi nel Discours sur l'origine de l'inégalité. Contrariamente al Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere presque nulle dans l'Etat de Nature, Grimaldi ne afferma il principio dell'origine naturale, smentendo quanti sostenevano che gli uomini nascono eguali. Una particolare attenzione rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro di Grimaldi, gli Annali del Regno di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui l'idea di una storia non più concepita come piacevole passatempo per gli oziosi e gli annojati», ma in funzione d'un utile presente per l'umanità e, in particolare, per la nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non è più il nudo racconto di fatti isolati o di particolarità legate a circostanze del momento, bensì la conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la vita morale delle nazioni.  Alla fine di giugno del 1785 C. si trasferisce di nuovo a Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi nella città natale. Risale a questo periodo l'incontro con il danese, di origine tedesca, Friedrich Münter, venuto in Italia con l'incarico di propagandare l'Ordine degli Illuminati di Baviera. A Münter, con il quale visiterà assieme a Filangieri e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà da profonda amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che trentennale, accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto, per la numismatica.  A Napoli C. pubblica la Memoria sul Tribunal della Grascia, considerata, assieme a pochi altri testi, il vangelo del liberismo napoletano» (34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco contro il terribile mostro» del Tribunale della Grascia, istituito lungo il confine tra l'Abruzzo e lo Stato pontificio e simile per alcuni versi a quello più odioso dell'inquisizione», che impedisce ai due Stati pacifici di scambiarsi liberamente i prodotti, fomentando dovunque corruzione e violenza e lasciando quelle popolazioni in un languore di dissoluzione. Vi è nella Memoria l'affermazione del principio della libertà di commercio e dell'abolizione del sistema protezionistico, a proposito del quale vengono fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del celebre Smith, di cui il Teramano è uno dei primi in Italia a citare La ricchezza delle nazioni. Vede la luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia in cui C. rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e il mantenimento delle rendite, la divisione di quelle terre in favore dei contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata alla pastorizia. In un Paese così infelicemente» amministrato, dove regna una troppo marcata diseguaglianza e una ripugnante ed infelice» contrapposizione tra ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un obiettivo che risponde non soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad una necessità dello Stato. Tutti i più savj governi - scrive - distinsero sempre la classe dei proprietarj, come quella che dava il vero carattere di cittadino. La proprietà infatti è il primo e più saldo principio della società, poiché crea nei proprietari sempre affezione» nei confronti dello Stato, a cui essi chiedono di riconoscere e tutelare i loro diritti, interessati come sono, più di ogni altra classe, al buon funzionamento delle sue istituzioni e alla corretta applicazione delle sue leggi. Della parte settentrionale della Puglia l'illuminista abruzzese si era occupato una prima volta nella pur breve ma incisiva ricognizione geografico-economica del tratto costiero desolato» che va dal Fortore al Tronto, in cui denunciava le gravi avarie» commesse dai governanti con la creazione di continue dogane che, ostacolando il libero scambio dei prodotti tra quelle popolazioni, finiva per immiserirle sempre più.  Si coglie in questi scritti non soltanto la totale adesione di C. al liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza del ruolo che lo Stato è chiamato a svolgere in favore di un sistema economico imperniato sulla libertà di scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia di mercato, che egli affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio della fine degli anni Ottanta, in cui esalta il principio del laissez-faire contro le regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il rifiuto di ogni coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà (di produzione, di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e uno sviluppo economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che allo Stato stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli governativi che ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono che le attività economiche si svolgano nei modi loro naturali che la scienza economica riesce a far fronte al suo duplice compito di mantenimento dello Stato e di accrescimento della ricchezza e del benessere individuali.  In quest'ultimo soggiorno napoletano prima dello scoppio della rivoluzione francese, C. si attiva non poco, presso le Segreterie della capitale, per sollecitare iniziative e soluzioni di problemi riguardanti le provincie del Regno. Ma le sue istanze non sempre trovano il riscontro desiderato. Ciò non fa che accrescere in lui un sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice del governo. Un'insofferenza, quella nei confronti del potere politico partenopeo, che lo porterà ad allontanarsi da un ambiente dove gli era diventato penoso vivere, non prima però di aver presentato a Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri (41). Nello scritto condanna la giurisdizione feudale in nome dei principi roussoiani di indivisibilità e inalienabilità della sovranità fino a ritenere qualsiasi forma di alienazione o di usurpazione della sovranità stessa non solo un atto nullo, ma anche ingiusto.  La notizia della rivoluzione francese raggiunge C. lontano dal Regno napoletano, mentre si trova nel Nord Italia, dove si era recato per accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze naturali sotto la guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo soggiorno ha modo di frequentare gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in contatto con Beccaria, il filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli Verri, Parini, il giurista senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso di scienze agrarie ed economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà un rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è difficile tenersi informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli guardi con simpatia a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la determinazione con cui si conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono a ritenere che la rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e rappresenti un esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non indugino più sulla strada delle riforme.  Rianimato da queste speranze dopo aver fatto da poco ritorno nella sua città natale, C. si trasferisce a Napoli, dove dà alle stampe, nell'estate del 1790, le Riflessioni su la vendita dei feudi in cui, ispirandosi al dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più diretto ed esplicito contro il sistema feudale e la giurisdizione baronale in particolare. Nel 1791 pubblica le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, che rappresentano la più forte manifestazione del pensiero illuministico italiano nei confronti del diritto romano, cui viene negato ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo, uguale ed uniforme per tutti gl'individui» che, a differenza di quello vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più inerente all'indole delle nazioni e dei governi presenti. Sull'esempio di quanto accade in Francia, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare, una legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne costituisca il necessario fondamento. Il sistema politico che egli predilige si fonda sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione della giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e provinciali.  Da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale C. non si allontanerà mai. Alla politica illuminata del sovrano restano per lui legate le condizioni di cambiamento della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua predilezione per la monarchia si ravvisa nel Teramano un conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare un programma di rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si sorprende sempre più spesso scontentissimo».  Il rientro a Teramo, nel dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e letterario, al termine del quale egli vede svanire la possibilità che la rivoluzione francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo napoletano. È, questo, un periodo di grande sconcerto e delusione per quanti, come C., avvertono i limiti della politica ferdinandea. La consapevolezza che la grande stagione riformistica sia definitivamente conclusa è radicata nel suo animo. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia diverrà pressoché totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte agitazione». È l'epoca della scoperta della congiura giacobina che porta all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed esponenti giacobini. Coinvolto è pure l'amico e concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera innocente e spera invano venga presto scagionato.  L'accentuarsi del carattere reazionario della politica napoletana non determina tuttavia in C., come in altri illuministi, il passaggio da regalista in giacobino» o repubblicano, anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede più nella Francia del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici. L'avversione per gli eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico che avrà fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase della rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza, ed una fase successiva, il '93, caratterizzata da tanti orrori. C. lascia di nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla primavera successiva ed ha modo di rivedere gli amici Giovanni Fantoni e Giuseppe Micali e legarsi al nobile fiorentino Neri Corsini e all'uomo di Stato francese Miot. A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica per quello Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che ancora vi regnava. Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo raggiungono le notizie dell'avanzata francese in Piemonte e in Lombardia. Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati.  Nella seconda metà del 1796 si riaccende nello scrittore teramano l'interesse per la Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina; interesse che si manifesta anche attraverso il desiderio, mai realizzato, di compiere un viaggio transalpino (52). Ciò nonostante, appare poco probabile una sua partecipazione al concorso indetto dall'Amministrazione generale della Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della Repubblica francese sul quesito Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, di cui risulterà vincitore il piacentino Gioia.  Immutato è invece il giudizio sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una ripresa di dialogo con il governo borbonico, non scorge alcun cambiamento nella sua politica. Sempre più, inoltre, dovrà guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici, soprattutto nel 1798, quando verrà nominato portolano della città di Teramo, con responsabilità amministrative di rilievo. La situazione si aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni per una probabile invasione straniera si uniranno quelle per il susseguirsi di infondate accuse di giacobinismo costruite ai suoi danni da parte di anonimi concittadini. Già nel 1793 era stato costretto a dare formale prova del suo lealismo monarchico in seguito a delazioni da parte di alcuni malevoli di Napoli fra quali il Vescovo in unione colla magistratura. Sempre più si alimenta il sospetto di una sua cospirazione antimonarchica, tanto che è tratto in arresto, nel proprio palazzo, assieme a tutta la famiglia. Liberato l'11 dicembre successivo dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi, è dapprima posto a capo della Municipalità della città e successivamente nominato presidente dell'Amministrazione Centrale dell'Alto Abruzzo. Èchiamato a presiedere a Pescara il Supremo Consiglio, l'organo politico più importante esistente in Abruzzo, che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo - in cui il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso il territorio regionale.  Non vi è dubbio che la collaborazione di C. con i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina (59), dal momento che l'esperienza non provoca quella vera e propria lacerazione» e rottura» nella sua biografia intellettuale che è stata riscontrata invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione. Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni ( del 24 piovoso anno, l'atto legislativo più importante del Consiglio Supremo pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana, sanciva, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministrazione gratuita della giustizia e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la prontezza» e l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione delle norme; l'abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venisse provata la frode» del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché la possibilità di ricorrere in appello.  Volentieri egli si sarebbe portato nella capitale partenopea dove è nominato membro del Governo Provvisorio dal comandante in capo Championnet. Ma a Napoli C. non potrà recarsi mai a causa delle insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare all'attività legislativa del Governo Provvisorio a cui muove l'accusa di aver non solo abbandonato» ma addirittura obliato» le province abruzzesi, lasciando che ovunque si verificassero le più ferali tragedie» ad opera di briganti e di scorribande antifrancesi. Non è da escludere a questo punto che proprio durante il periodo pescarese C. abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino. Il testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi dei diritti, proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il governo. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio forse  delle sommosse che si stavano verificando e di quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni.  Di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla partenza dei Francesi da Teramo, C. preferisce, prima ancora della caduta della Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo San Marino. Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la carica di consigliere di Stato.  Durante il soggiorno sammarinese C. si interrogherà a lungo sulla tempestosa crisi» di fine secolo di cui, come CUOCO (si veda), critica l'immatura ed intempestiva» manifestazione, come pure il metodo rivoluzionario, ritenuto distruttivo. La confusione dei princìpi, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati calcoli avevano fatto nascere delle idee politiche così mostruose» che per i loro intrinseci difetti non avevano potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia, afferma, a far sorgere dei canoni politici falsi e irregolari». L'Italia, abbagliata ed attonita - scrive - non ebbe tempo a riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai essa veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né la finezza del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le forze intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale palingenesia.  Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria C. trae l'indicazione della necessità di un recupero della tradizione storica nazionale: Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti. A questo senso di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua tranquillità e alla sua felicità. La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve, in definitiva, nella ricerca di una linea politica saggia e realistica che non miri alle magiche trasformazioni ma proceda per proporzionate graduazioni» alla realizzazione di un programma costituzionale a cui è lecito aspirare. Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi civili più adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle forme politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una definizione vichiana, nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San Marino, nonostante il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in modo non utopistico, mostrava non essere impossibile alla specie umana una tal forma di società.  Dalla piccola Repubblica C. uscirà diverse volte per riordinare la biblioteca pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni mesi nella casa del marchese Belmonte, la cui amicizia risaliva, o per andare a Bologna dal suo amico Fortis, in quel tempo prefetto della biblioteca nazionale della città. Soggiorna ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Si porta a Milano per seguire la stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel capoluogo lombardo, dove sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della legislazione universale d’Avenstein, rivedrà CUOCO (si veda) e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe Bossi, Pietro Custodi e Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a Gian Giacomo Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in contatto con il celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana Cislago, donna assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale resterà, come con gli altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno all'inverno di quello stesso anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo fratello.  È, quello sammarinese, un periodo in cui C., fuori dalla vita politica attiva, riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della Repubblica di S. Marino e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima che, usciti a Forlì nel 1808, vedono in poco tempo altre due edizioni (70). Lo studio della storia in stretta relazione con la realtà presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova nelle Memorie storiche diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle battute iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione di coloro i quali riguardano la storia come maestra della vita e dispensatrice della civile sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca diligente e vasta, scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del mito» di San Marino, di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria libertas e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini, Lodovico Zuccolo e Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia della piccola Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le vicende di un popolo che poteva costituire un esempio degno d'imitazione. Questa rivalutazione» dell'esperienza storica appare quanto meno strana in un pensatore considerato da alcuni l'espressione più radicale dell'antistoricismo italiano.  Nei Pensieri C. affronta il problema della conoscenza storica in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire se la scienza di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza. Con quest'opera esprime l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una storia utile, che indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma perché questo avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla tradizione storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi metodologici inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata conoscenza del passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert, Rousseau, Condorcet, Volney, delle cui Leçons d'histoire risente la stesura dei Pensieri, nega che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte siano state in grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di certezza, la storia non presenta alcuna vera utilità per il genere umano. Egli si pone principalmente il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio della storiografia illuministica. A tal fine, denuncia deficienze e manchevolezze che ancora permangono negli studi storici e lamenta che la proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro stagnazione piuttosto che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri della pratica storiografica. Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre il secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le circostanze nel loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti e le loro cause. Essa dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di fatti gli uni dipendenti dagli altri, per scorgere come dai primi e più semplici siamo gradatamente giunti alle attuali positive cognizioni, di modo che mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da percorrere, per andare in cerca delle altre verità desiderose di venire alla luce. Così concepita, l'indagine storica permetterebbe di recuperare positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria per divenire una componente integrante del processo storico contemporaneo. Una convinzione, questa, che trova conferma in un successivo scritto delficino, Discorso preliminare su le origini italiche (79), in cui viene ribadita l'opportunità di interrogare il passato e registrare i fatti del tempo» in funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che C. chiama anche storia delle scienze». Le cognizioni storiche perdono allora il carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore intrinseco: Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma a conclusione della sua opera, potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è» (80).  Un atteggiamento polemico egli assume anche nei confronti delle mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad incapacità di fornire una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso degli incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Grimaldi e rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi. La dissertazione, che si colloca nel filone della letteratura illuministica di confutazione delle superstizioni, è una dura requisitoria contro gli impostori» serpari, i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti naturali.  Una diversa considerazione, invece, egli ha dei cosiddetti favoleggiatori». Come il virtuoso» Socrate e il divino» Platone, C. tiene in grande considerazione il racconto allegorico. Quando ancora lo spirito umano, afferma nel Discorso sulle favole esopiane del 1792 (83), non aveva maturato le sensazioni e le esperienze necessarie per poter generalizzare le idee ed esprimerle con precisione e proprietà di linguaggio, fu naturale che i primi pensieri morali, il sentimento di giustizia, le nozioni di bene e di male e molti altri concetti fossero acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero così la morale dell'infanzia dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno neppure nei tempi moderni dal momento che gli apologhi, se convenientemente scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma anche a quella parte del popolo che, ancora vittima dell'errore» e del pregiudizio», si trova in uno stato più infelice» (84) di quello dei secoli remoti.  Il ritorno a Napoli dei Francesi, nel febbraio del 1806, viene salutato come l'inizio di una nuova stagione politica. Esso rappresenta per lo scrittore teramano quell'inversione di rotta che era ormai tempo che si facesse e che lo induce a riportarsi, nel giugno di quell'anno, dopo sette anni di esilio sammarinese, nella capitale partenopea dove farà parte, per quasi un decennio, della nuova amministrazione francese. Nell'età napoleonica egli intravede la possibilità di un recupero di quello spirito di ragione e di moderazione», a cui riteneva necessario ricondurre la politica dopo la crisi di fine secolo e che costituiva l'unica via possibile di sviluppo, sia contro gli eccessi dei rivoluzionari, sia contro le intemperanze dei reazionari.  Nominato da Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato (3 giugno 1806), C. viene assegnato alla sezione delle Finanze, per poi passare alla presidenza della sezione dell'Interno, divenendo uno dei quattro presidenti del Consiglio di Stato. Regge più volte ad interim il ministero dell'Interno, facendo parte delle Commissioni per le lauree, per le pensioni, per le riforme del Codice civile, per la procedura delle cause feudali in Cassazione, per la riforma della pubblica istruzione, per la ripartizione dei demani, per la vendita dei beni dello Stato. Presidente della Commissione degli Archivi generali del Regno, nominato commendatore dell'ordine delle Due Sicilie, viene insignito da Murat del titolo di Barone.  I numerosi incarichi di responsabilità non lo distolgono dalla tensione intellettuale, tutta incentrata sullo studio della fisiologia e di altre fisiche cognizioni. Evidente appare il suo debito nei confronti di Cabanis, sostenitore della sensibilità fisica quale fondamento dell'attività umana. Delle teorie dei Rapports du physique et du moral de l'homme, l'opera più importante del filosofo francese, risentono soprattutto le Ricerche su la sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni  e la Memoria su la perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell'educazione con alcune vedute sulla medesima del 1814, cui segue, l'anno successivo, la Seconda memoria. Del 1818 sono, infine, le Nuove ricerche sul Bello, pubblicate a Napoli da Agnello Nobile.  Con la restaurazione dei Borboni, nel 1815, C. dirada il suo impegno nella vita politica. Ciò nonostante, all'indomani dello scoppio insurrezionale del 1820, Ferdinando I gli affida l'incarico di tradurre la Costituzione spagnola del 1812 e subito dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina (assieme ad altri 14) membro della Giunta provvisoria di governo, chiamata a sostituire il Parlamento fino al suo insediamento. Successivamente sarà uno degli 89 deputati di quel Parlamento che vivrà solo fino a quando Ferdinando I chiederà l'intervento austriaco per porre fine all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo governo reazionario. Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli ambienti governativi.  Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli teme non soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale, avviato dai Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese. Nell'azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede profilarsi la minaccia di rendere il mondo stazionario» se non addirittura di farlo a grandi passi o salti retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso, ancora più probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, non ultimo Niccolò Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali ci si serve per sostenere fini politici particolari. Questo clima è per C. l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del gran politico pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così, agli inizi degli anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino, nate dall'esigenza di confrontarsi con Machiavelli intorno ad alcuni temi, come la religione, la libertà, il problema costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni pregiudizi che si sarebbero formati sotto la sua potente autorità, senza tuttavia tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili per le civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o meno accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni positive.  Dell'illustre autore» C. sottolinea il realismo politico e l'aderenza alla realtà effettuale. Egli guarda il Principe non come un'astratta speculazione politica, bensì come uno scritto d'occasione contenente una particolare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico contingente, qual è la rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti i costi un precorritore del Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo un'interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in lui la viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre fine alla grave crisi della società italiana del Cinquecento. Ma la condizione di immobilismo e di decadenza politica e civile dell'Italia, per la quale Machiavelli suggerisce la soluzione del Valentino quale liberatore degli Stati italiani, non porta lo scrittore teramano a condividere interamente tutte le tesi del Segretario fiorentino: Se si possono giustificare le sue intenzioni, e la persona» afferma questo non vale per le sue dottrine. Infatti, se da un lato egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di una prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso mezzi eccezionali, dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo realismo politico, non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione machiavelliana tra etica e politica e il principio che per regnar tutto lice.  Divergenze emergono anche dal tentativo che C. in seguito compie di ricondurre il pensiero machiavelliano ai tempi presenti per poi valutarlo sulla base delle proprie convinzioni ed esperienze storiche, politiche e culturali maturate tra il XVIII e il XIX secolo. Molte sono tuttavia le idee del Fiorentino che considera ancora valide e attuali, come l'identificazione dell'origine dei conflitti sociali con l'ineguaglianza giuridica ed economica, l'assoluta inconciliabilità tra gli umori» del popolo e quelli dei grandi (95) o la condanna del ruolo antisociale dei gentiluomini», di quegli uomini cioè che, oziosi», vivono dei proventi dei loro ingenti possedimenti (96). Ma, soprattutto, riconosce a Machiavelli il merito di aver legato la questione militare» alla questione politica», di aver ritenuto la soluzione dell'una imprescindibile da quella dell'altra. Tale correlazione presuppone ed implica un nuovo rapporto tra governanti e governati basato sul reciproco impegno, da parte del popolo, di assicurare la propria affezione» allo Stato, così da garantirgli una maggiore stabilità; da parte dei governi, di soddisfare le aspirazioni dei sudditi, migliorandone le condizioni. Lo sviluppo di questo vincolo, che con assoluta originalità C. fa derivare dal nesso tra dimensione militare e dialettica politica, è concepito all'interno di una monarchia costituzionale, considerata la forma più conveniente all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta soluzione tra rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale, di cui aveva manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione francese, risponde soprattutto all'esigenza di assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei diritti individuali dei cittadini, garantendo loro la sicurezza reale e personale. C. torna a Teramo, ma nell'autunno successivo si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino a quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno. Nel capoluogo abruzzese, dove trascorre il resto della sua vita, senza mai più allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a scrivere. Fra i lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di questi, molti non terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la memoria Della importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale, in cui ribadisce la sua concezione materialistica della conoscenza e concepisce la ragione come strumento critico e operativo, che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare l'essenza delle cose e tutto ciò che non può realmente conoscere ma rivolgersi alle cose utili e necessarie al benessere e alla felicità del genere umano, e gli scritti sulla numismatica pubblicati a Teramo dai tipi Angeletti con il titolo Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche.  Non verrà meno neppure il suo impegno riformatore che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti, dal titolo Fiera franca in Pescara e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara, con i quali si prefigge di rivitalizzare le attività produttive in questa zona ancora poco sviluppata del Regno. Decisivo gli appare a tal proposito un rilancio del commercio, considerato la sola sorgente inesausta della ricchezza e floridezza delle Provincie», non senza però aver prima creato le condizioni e le strutture necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la realizzazione di un grande emporio o fiera franca, che non solo ridurrebbe sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un notevole afflusso di merci, di provenienza anche straniera, senza l'imposizione di alcun dazio di importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a molti proprietari abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati dello Stato pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di Senigallia. Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul commercio che potrebbe così finalmente divenir attivo e moltiplicare i capitali e far nascere nuove attività economiche o migliorare e accrescere quelle esistenti.  La creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del fiume Pescara costituisce l'oggetto della riflessione che C. conduce nel Brevecenno. L'idea che il mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra loro, permettendo infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere l'utilità che la creazione di un porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per l'incremento del commercio e per lo sviluppo economico in generale. La scelta di Pescara quale centro di scalo portuale trova giustificazione nel fatto di avere la cittadina adriatica il fiume con la foce più ampia e di essere punto centrale nel litorale degli Abruzzi», crocevia delle tre principali strade, l'una diretta verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la prima verso lo stato pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo, ma sarebbe anche l'unico porto ad avvalersi di una piazza forte» che renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione delle merci. Così il porto di Pescara potrebbe riacquistare quell'importanza che aveva avuto un tempo quando era conosciuto con il nome di Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano fatto confluire le tre strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi commerciali.  A metà degli anni Venti un libro anonimo, dal titolo La vérité sur les cent jours, principalement par rapport à la renaissance projetée de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse (H. Tarlier, Bruxelles), di cui uscirà una traduzione italiana incompleta dal titolo Delle cause italiane nell'evasione dell'imperatore Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del luogo e dell'editore del testo originale, riferisce di una congiura che sarebbe stata ordita da alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone Bonaparte. Dei presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fa il nome soltanto del conte Luigi Corvetto, justement regardé comme un des meilleurs jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre C., un des hommes les plus vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al Teramano viene anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M. l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie, sulle condizioni politiche e morali dei vari Stati italiani, che sarebbe dovuto servire all'imperatore francese per meglio valutare le possibilità di successo dell'impresa. Ma nessuna conferma in proposito è mai venuta dalle carte delficine, né da successive ricerche, per cui ancora oggi l'ipotesi di una partecipazione del Nostro al progetto resta legata a quest'unica notizia. C. pubblica la lettera Della preferenza de' sessi alla contessa Chiara Mucciarelli Simonetti in cui riprende i temi della condizione ed emancipazione della donna affrontati in gioventù nel Saggio filosofico sul matrimonio. Trascorre gli ultimi anni della vita continuando a coltivare i suoi interessi intellettuali. A questo periodo risalgono i suoi studi sulla scienza medica testimoniati da numerose pagine, ancora inedite, conservate presso il Fondo C. della Biblioteca Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni manoscritti di cui uno dal titolo Sugli antichi confini del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e i progressi delle Società civili che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti, il quale ne caldeggia la pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende rivederlo. Riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le regioni del Regno, e viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di Commendatore dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese C. muore.  Dopo la notorietà di cui aveva goduto in vita, alla sua morte C. cade in un lungo e ingiustificato oblio. Uscito grazie a GENTILE (si veda) dal ristretto ambito locale, che lo rende un filosofo sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in una dimensione più ampia, nazionale, C. è oggetto di una diversa considerazione. Una rivalutazione che si determina in coincidenza con il rinnovato interesse storiografico per la cultura e la storia, e, in particolare, per alcune esperienze intellettuali e politiche significative dell'illuminismo. Merito di questa storiografia è quello di aver ricondotto e legato il riformismo delficino all'esperienza e al fervore culturale del movimento riformatore napoletano. Una lettura che ha privilegiato il C. riformatore, la sua fase riformistica, contrapponendosi alle rivisitazioni critiche precedenti, sia della storiografia neo-idealistica che del ventennio fascista. Llinee interpretative stanno approfondendo altre fasi fondamentali della biografia intellettuale di C. (alcune delle quali scarsamente scandagliate), come quella relativa al decennio rivoluzionario o quelle che contrassegnano la sua evoluzione durante la Restaurazione, da riformatore nutrito dell'illuminismo napoletano a FILOSOFO della storia e della politica. Nato in un paesino vicino Teramo, LEOGNANO, dove il genitore, Berardo C., si rifugia durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Muore a Teramo. Per le notizie biografiche, la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C., Angeletti, Teramo, arricchita di un'elencazione dei saggi editi ed inediti del Nostro, alcuni dei quali successivamente pubblicati, nonché di quelli non terminati e dei frammenti. Rimasta incompiuta, l'opera continua sul Giornale abruzzese di scienze lettere e arti», col titolo Notizie intorno alle OPINIONI FILOSOFICHE ed alle opere di C.  e, sempre sulla stessa rivista, col titolo Notizie sulla vita e sulle opere di Melchiorre C. Molti degli amici e dei discepoli del Genovesi furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre ai fratelli Giamberardino, Gianfilippo e Melchiorre C., il teatino Romualdo de Sterlich, Tommaso Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne, l'aquilano Giacinto Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano Giammichele Thaulero e Troiano Odazi di Atri, che succede al Maestro nella cattedra di economia. Sulla presenza anche in Abruzzo di quello che è stato definito il partito genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo  borbonico. Cultura, società, economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto; U. Russo,  Studi sul Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti, Diaz, Dal movimento dei lumi al movimento dei popoli, Il Mulino, Bologna.Sul riformismo borbonico, cfr. F. Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma;  I Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di M. Di Pinto, Guida, Napoli Chiosi, Il Regno, in Storia del Mezzogiorno, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Edizioni del Sole, Roma, e la sintesi di a. M. Rao, Il riformismo borbonico a Napoli, in Storia della società italiana, vol. 12, Il secolo dei lumi e delle riforme, Teti, Milano e la ricca bibliografia in essa contenuta. Lo scritto, dedicato a Bartolomeo Intieri e pubblicato assieme al Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura dell'abate Ubaldo Montelatici colla Relazione dell'erba orobanche detta volgarmente succiamele e del modo di estirparla di Pier-Antonio Micheli, uscì a Napoli. GENOVESI (si veda), Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati (Napoli), Lettera, Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Feltrinelli, Milano Per una valutazione dell'influenza di Pietro Giannone sulla cultura napoletana oltre al lavoro sempre valido di L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento. Lo svolgimento della coscienza politica del ceto intellettuale del regno, Laterza, Bari 1950, cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di GIANNONE (si veda), Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp. il contributo di E. Chiosi, La tradizione giannoniana nella seconda metà del Settecento, Sulla posizione di Genovesi nei confronti dell'autorità temporale e dottrinale della Chiesa, cfr. E. Pii, GENOVESI (si veda). Dalla politica economica alla politica civile», Olschki, Firenze; G. Galasso, LA FILOSOFIA in soccorso de' governi. La cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli Le due Memorie, dal titolo Intorno a' dritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento e Saggio istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca, furono commissionate a C. dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon. Della prima, tuttora inedita, esiste una copia autografa presso l'Archivio di Stato di Teramo, Fondo C. fasc. dal titolo Del territorio beneventano. La seconda, invece, fu pubblicata la prima volta su La Rivista abruzzese di scienze e lettere, preceduta dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del manoscritto. Il Saggio istorico è stato riedito nelle Opere complete, Fabbri, Teramo. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a Teramo a cura di Pannella e Savorini.  M. C., Del territorio beneventano, Venturi, Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani, Ricciardi, Milano-Napoli G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C., C., Memoria autobiografica, inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo Manoscritti C.», Misc. C., Saggio filosofico sul matrimonio, in  Opere complete. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano Lettera di C. a Dragonetti, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della Rassegna Nazionale, Firenze La lettera è stata riedita nelle Opere complete, M. C., Indizi di morale, in Opere complete, Sull'ambiguità concettuale di tale espressione cfr. M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, La Nuova Italia, Firenze, Guerci, L'Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, Pomba, Torino. C., INDIZI di morale. Per una ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano. L'attività di C. presso il Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma; L'espressione è ricorrente nella Relazione di Mons. Luigi Pirelli alla Sacra Congregazione del Concilio, in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano. Cfr. C., Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, in Opere complete, F. Venturi, Nota introduttiva (a M. C.), in Riformatori napoletani; Favorevole ad un più moderno sviluppo dell'attività risiera per una ripresa economica della sua provincia, C. assumerà alcuni anni più tardi un atteggiamento decisamente contrario alla risicoltura. Su tale mutamento, cfr. V. Clemente, Cronache della defeudalizzazione in provincia di Teramo: le risaie atriane in Itinerari», C., Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, presso Vincenzo Orsino, Napoli, Opere complete, C. ammira soprattutto la Vita di Ansaldo Grimaldi (Napoli), poiché in essa l'Autore era riuscito a saldare la vicenda dell'uomo di Stato genovese con la storia politica dello Stato stesso e a far vedere come la mancanza di costituzioni e di leggi fondamentali tenesse lo Stato in continua rivoluzione» (Elogio di GRIMALDI (si veda), C., Elogio di GRIMALDI (si veda), Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes, Oeuvres complètes, Gallimard,  Paris. C., Elogio di GRIMALDI (si veda). Su tale associazione, fondata ad Ingolstadt da Adam Weishaupt, cfr. C. Francovich, Gli Illuminati di Baviera, in Storia della massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, La Nuova Italia, Firenze. Alcune lettere sono state pubblicate nel quarto volume delle Opere complete di C.; altre sono apparse nel primo volume di Aus dem Briefwechsel Friedrich Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen Gelehrten, Andreasen, Haasse, Leipzig. Due di queste ultime sono state riprodotte in appendice al libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre C.. (Studi e ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi G. D'Annunzio», Facoltà di Lettere e Filosofia, Chieti, il quale ha pubblicato altre lettere di C. a Münter, assieme ad alcune lettere di C. alla sorella del Danese Federica Brun. Altre, ancora inedite, sono conservate presso la Biblioteca Provinciale di Teramo. C., Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del Regno, Porcelli, Napoli, Opere complete. Solari, Studi su PAGANO (si veda), cur. Firpo, Giappichelli, Torino. Sullo stesso piano l'Autore pone l'altro scritto di C., Memoria sulla libertà del commercio, e l'opera sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo, pubblicata anonima a Palermo; C., Memoria sul Tribunal della Grascia. C., Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli 1788, ora in Opere complete; C., Discorso sul Tavoliere di Puglia Il testo è stato pubblicato da L. Tossini, Una lettera inedita di Melchiorre C. a Michele Torcia, in Nord e Sud. La lettera è datata Teramo, su invito dell'Accademia di Padova agli scrittori italiani di occuparsi del problema della libertà di commercio, la Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso Destefanis, Scrittori classici italiani di economia politica, cur. Custodi. L'opuscolo è stato recentemente riedito (De Petris, Teramo) con un'introduzione di M. Finoia. Sul problema C. tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento su le carestie, in cui apporta alcune modificazioni e moderazioni» al principio della libertà assoluta e illimitata di commercio, auspicando nel mercato l'intervento diretto dello Stato, cui riconosce il compito di prevenire il terribile flagello» delle carestie e di altri simili avvenimenti. Il testo, letto nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli e pubblicato negli Atti, è stato riedito a Teramo assieme alla Memoria sulla libertà del commercio.  Se, dopo varie insistenze, all'inizio del 1788 ottiene, come aveva richiesto due anni prima nella Memoria per il ristabilimento del Tribunale Collegiato nella Provincia di Teramo (in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, il ripristino a Teramo di detto Tribunale, in luogo dei magistrati unici, più agevolmente portati all'abuso del potere, non altrettanta fortuna incontreranno invece le sue richieste sia di abolizione della servitù degli Stucchi, del 1786, sia di istituzione di una Università degli Studi a Teramo ad indirizzo fisico» ed orientamento laico. Sugli sviluppi delle iniziative delficine si vedano R. Di Antonio, Stucchi e Doganelle nel teramano, Libera Università Abruzzese degli Studi G. D'Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche, Teramo, la quale pubblica in appendice la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un nuovo sistema per le Doganelle, e G. Carletti, Introduzione a M. C., Una piccola» Università a Teramo, Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo. La Memoria è pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao, L'amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli, Guida, Napoli; C., Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, Memoria delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo Manoscritti C.», Ined. In Lombardia C. si trattenne per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in seguito a Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, rientra in patria. Su questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di rinsaldare, cfr. G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C.. Opere complete. L'opera, che provocò subito molto chiasso», sia per le reazioni della classe togata, sia per gli elogi che ricevette da più parti, fu pubblicata a Napoli, presso Porcelli, ristampata a Firenze e Napoli; Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di C., in Rivista italiana per le scienze giuridiche. C., Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete. Odazi, nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani della seconda metà del Settecento. Allievo del Genovesi ne cura l'edizione milanese Delle lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato PROFESSORE DI ETICA – non ‘moral philosophy,’ come a Oxford -- nel Reale convitto della Nunziatella, è chiamato a ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era stata del Genovesi e rimasta vacante per diversi anni. Esponente della massoneria napoletana, è coinvolto nel fatti. Arrestato, muore suicida nelle carceri della Vicaria. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani, Odazi. La prima vittima del processo politico in Napoli, in Archivio storico per le province napoletane», CROCE (si veda), La rivoluzione napoletana, Laterza, Bari, Sulle tappe di questo viaggio, cfr. G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C. Si veda la lettera di C. a Fortis da Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di C., Rassegna della letteratura italiana. L'ipotesi di una partecipazione al concorso origina da De Filippis-C., il quale riporta tra le opere delficine non-terminate» (cfr. Della vita e delle opere di C., un opuscolo privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito: Quale sia il miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia, sia in merito a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella ricostruzione biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda Carletti, A proposito di un'anonima dissertazione. Note sulla presunta partecipazione di C. al concorso, in Trimestre. Sono le delficine Memoria per la Decima imposta al Regno; Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per rapporto al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte inedite. Lettera di C. a Fortis in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre C.. Il vescovo a cui allude è Luigi Maria Pirelli, nobile di Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia C.. Nella Relazione risponsiva alle accuse (pubblicata da L. Tossini, Autodifesa di un illuminista, in Archivio storico per le province napoletane», egli era costretto a difendere la propria reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a causa di vaghe» e calunniose imputazioni» di qualche delatore. La denuncia, pur non avendo gravi conseguenze, riuscì tuttavia ad impedire che C. succedesse al fratello nella presidenza della Società Patriottica di Teramo. Una nuova denuncia anonima èall'origine del rifiuto del Supremo Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di conte. Non avrebbe ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con decreto Murat gli avrebbe conferito quello di barone. Il pretesto è fornito da alcune lettere rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica, da poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la donna avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio Michitelli, entrambi frequentatori di casa C.. Si veda in proposito la Memoria della persecuzione subita dalla famiglia C., scritta presumibilmente da Giamberardino C. allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei propri beni», dopo che, condannato dai Regi inquisitori nel processo contro i rei di Stato» e trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era stato liberato in seguito all'indulto generale. Il testo è stato pubblicato da Clemente su Storia e civiltà. L'episodio che portò all'arresto dei C. è a. I Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre 1798. Arrivano a Teramo. Messe in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi riconquisteranno la città, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne e Chieti. Per una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, Vecchioni, L'Aquila, Consorzio Nazionale, Roma. Sull'arrivo e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr. anche le tre cronache del periodo rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli avvenimenti in Teramo ed altri luoghi d'Abruzzo in L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi; G. Tullj, Minuta relazione dei fatti sanguinosi seguiti in Teramo, con postille e con la continuazione del canonico Niccola Palma (pubblicata da V. Clemente col titolo Una cronaca inedita teramana, Storia e Civiltà; C. Januarii, Avvenimenti seguiti nel Teramano dal 1798 al 1809, Teramo Il Consiglio, di cui fecero parte, oltre a C., i lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Madonna, entrò in funzione subito dopo e svolse la sua attività non oltre la fuga del suo presidente da Pescara avvenuta il 28 aprile successivo. Cfr., in proposito, M. Battaglini, Abruzzo. Una repubblica giacobina, in Rassegna storica del Risorgimento, La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma; Sull'esperienza pescarese di C., cfr. anche F.  Masciangioli, C. e Pescara. Per una storia del rapporto tra intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in Trimestre», Sullo spirito di moderazione di C., interessato a trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr. G. Carletti, C.. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, ETS, Pisa; Cfr. Galasso, I giacobini meridionali, in Rivista storica italiana», ora in La filosofia in soccorso de' governi.Il testo è stato pubblicato da R. Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi con documenti e note, in Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti. Senz'altro meno importante è l'altro atto a firma di C., Proclama sulla sicurezza pubblica del ventoso anno, con il quale venivano fissate alcune disposizioni per combattere il vagabondaggio. I due testi sono stati recentemente riediti assieme ad altri scritti delficini da G. Carletti, La Pescara» di Melchiorre C., Edizioni Tracce, Pescara. Cfr. la lettera di C. al Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep., Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra, Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età moderna, in Storia e politica, e Per una rilettura socio-antropologica dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni Città del Sole, Napoli. Per il testo cfr. G. Carletti, C.. Sulla permanenza del Teramano nella Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre C. e la Repubblica di San Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino. Cfr. V. CUOCO (si veda), Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, II ed. con aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano. Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie storiche della Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete. Il saggio, il cui titolo originale era Esame della Storia, e dei suoi vantati pregi, vide la luce due anni dopo che C. l'aveva consegnato alla stamperia Roveri e Casali. La seconda e la terza edizione uscirono a Napoli. C., Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. Cfr. M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia: Melchiorre C., in Itinerari», Cfr. GENTILE (si veda), Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della Critica», Napoli, il quale afferma che nessuno prima di allora aveva negato la storia nel modo assoluto del Teramano. Un estremo radicalismo nell'antistoricismo» delficino è stato rilevato anche da CROCE (si veda), La storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della storia»  e  2. Il nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», rielaborati nel volume Storia della STORIOGRAFIA ITALIANA, Laterza, Bari, e da RUGGIERO (si veda), Il pensiero politico meridionale, Laterza, Bari. C., Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, in Opere complete. Il titolo per esteso dell'opera è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale en l'an III de la République française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson, Paris. Sull'affinità di vedute dei due autori, cfr. Rosso, De Volney à C.: l'histoire, une discipline aussi inutile que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues, Angers, C. Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, Opere complete. C., Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima. Porcelli, Napoli, Epoca. Grimaldi si era rivolto all'amico teramano per avere notizie sull'esistenza nella Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico e su eventuali relazioni tra queste e i rituali moderni. La Lettera delficina venne ricordata nella recensione al volume di Grimaldi, Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto probabilmente, del suo principale estensore Alberto Fortis.  Per un esame critico del testo, riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una ignorata dissertazione di Melchiorre C. sugli incantatori di serpenti, in «Lares, ora anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi guaritori nella tradizione popolare abruzzese, Japadre, L'Aquila-Roma. Lo scritto, ideato e posto come prefazione alle ancora inedite Favole morali di Alessio Tullj, è stato pubblicato da A. Marino, in «Aprutium»; C., Discorso sulle favole esopiane, Lettera ad Onofri, in F. Balsimelli, Epistolario di Melchiorre C.. Lettere sammarinesi, Arti  grafiche Della Balda, San Marino. Sull'attività del Teramano nell'amministrazione francese, cfr. G. Palmieri, Melchiorre C. e il decennio francese, Edizioni del Gallo Cedrone, L'Aquila , il quale riproduce in appendice alcuni scritti delficini del periodo; R. Feola, La monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli Ora in Opere complete. Ora in Opere complete. Ripubblicate nelle Opere complete, le Nuove ricerche sul Bello sono state recentemente riedite a cura di A. Marroni, Ediars, Pescara. Per un quadro d'insieme dell'attività amministrativa e dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno napoletano, oltre al volume, notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla prima edizione, di A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi, Torino, cfr. Villani, Il decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, Il Regno dagli Angioini ai Borboni. Spunti critici anche in Studi sul Regno di Napoli nel decennio francese, cur. Lepre, Liguori, Napoli. Rimasto inedito, il testo finale è tuttora irreperito ma di esso si conservano due stesure pubblicate da A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre C., Solfanelli, Chieti, C., Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino. Cfr. N. Machiavelli, Istorie fiorentine, in Opere di Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario fiorentino, Italia. Cfr. MACHIAVELLO [si veda], Discorsi sopra la prima deca di LIVIO [si veda], in Opere, Opere complete. L'opera, notevolmente ampliata, fu ristampata a Napoli, per i tipi di Angelo Trani, col titolo Dell'antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche, ora in Opere complete. Pubblicati nelle Opere complete, i due testi sono stati riediti da Carletti, La Pescara di C.. C., Breve cenno. C., Fiera franca in Pescara, Breve cenno. Ora, tradotto, in Opere complete, Rapporto sull'Italia inviato a Napoleone e attribuito a C. C., Della preferenza de' sessi. Lettera a Simonetti, pubblicata a Siena ed ora in Opere complete. Cfr. la lettera di C. a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature nel carteggio letterario e politico di Dragonetti. Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Per un quadro d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto, Ricuperati, L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza, Bari, e la ricca bibliografia in esso contenuta. Per una ricognizione degli studi delficini, cfr. Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una storia critica della storiografia delficina, in «Trimestre», Saggio filosofico sul matrimonio, segnato nell'indice de' libri  proibiti, INDIZI di morale, proibito prima di pubblicarsi. Discorso sullo stabilimento della milizia  provinciale. TeramoMemoria sulla coltivazione del riso nella  provincia di Teramo  Napoli  Porcelli Elogio del marchese D. Francescantonio  Grimaldi . Napoli, presso Orsino Memoria sul tribunale della grascia e  sulle leggi economiche nelle provincie confinanti  del regno. Napoli presso  Porcelli. Memoria sulla necessità di rendere uniformi i pesi e le misure del regno. I. voi. iti Napoli presso Porcelli. Memoria su’ regii stucchi, o sia su la  servitù de’ pascoli invernali nelle provincie marittime degli Àpruzzi, Napoli; Discorso sul tavoliere di Puglia e su la  necessità di abolire il sistema doganale presente  e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli; Memoria per la vendita de’ beni dello  Stato d’Atri. I. yol. in 4 * Napoli, stampata una col reai dispaccio di approvazione. Riflessioni su la vendita de’ feudi umiliate a S. R. M. Napoli, presso Porcelli . Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de’ suoi cultori, Napoli, presso Porcelli, ristampato in Firenze ed in Napoli; Lettera di Cantalupo su feudi, Napoli Memorie storiche della repubblica di  San Marino, Milano dalla  tipografia di Francesco Sonzogno .  Memorie sulla libertà del commercio :  ( stampate nella Collezione de classici italiani di Economia politica : parte moderna : Milano i Pensieri su la storia e su la incertezza  ed inutilità della medesima, Forlì. Pensieri sopra alcuni articoli relativi  all’ organizzazione de’ tribunali: stamperia reale di Napoli. Lettera a Selvaggi sulla Tragedia. Pubblicata dal Giornale enciclopedico di Napoli An. Nuove ricerche sul Bello. Napoli. Ricerche sulla sensibilità imitativa considerata come il principio tìsico della sociabilità  della specie, e del civilizzamento de’ popoli e  delle nazioni ( Memoria letta nella reale Ac-  cademia delle scienze di Napoli il: pubblicata tra gli Aiti della medesima Napoli, insieme alle altre due seguenti Memorie. Memoiia su la perfettibilità organica  considerata come il principio fisico dell’ educa-  zione, con alcune vedute sulla medesima : Seconda memoria sulla perfettibilità  organica ec. Ragionamento su le carestie, letto  nell ’ Accademia delle Scienze di Napoli, e pubblicato negli Atti della  medesima voi. II. Napoli.    Poche idee su V accusa de' ministri .  Pubblicate in uno de' giornali costituzionali di  Napoli. Dell* antica numismatica della città  d’ Atri nel Piceno con un discorso preliminare  su le Origini italiche ed un appendice su’ Pelasgi ed i Tirreni, Teramo, con tavole in rame .Rischiarimenti ad alcune osservazioni fatte dal  Micali su la stessa, e di una Lettera a Zuroli su le antiche ghiande missili di  piombo, Napoli, dalla  tipografia di Angelo Trani : con più tavole in  rame .  Della preferenza de’ sessi. Lettera a Simonelti. Siena, Ristampata in Napoli insieme ad alcune poesie del  Conte di Longano. Lettera all’ autore delle Memorie intorno i letterati e gli artisti ascolani. ( Stampa-  ta in fine delle stesse Memorie, Ascoli. Espressioni della parlicolar riconoscenza  della provincia e città di Teramo dovuta alla  memoria dell’ immortai Ferdinando I. Annali civili del regno delle due  Sicilie Inforno a’ dritti sovrani di Napoli sul-  la città di Benevento. Memoria. Intorno a’ diritti sovrani di Napoli sul-  la città di Ascoli. Memoria.  Lettera a' fratelli sulla eruzione del  Vesuvio Estratto ragionevole del trattato degli  animali. Lettere sulla cavalleria ed i romanzi. Lettera al sig. Michele Torcia sul  tratto di paese che si estende dal Fortore al  Tronto. Supplemento alla Memoria su la gra-  scia, per rapporto all' estrazione degli animali  vaccini . Memoria per lo ristabilimento del tri-  bunale collegiato nella provincia di Teramo .  Memoria per lo stabilimento d’ una uni-  versità in Teramo. I titoli in carattere corsivo sono per quegli scritti che  1’autore lasciò senza una denominazione . S’ intende per lo più di pagine scritte, come si dice,  alta spagnola, ossia nella sola metà. Pel resto si troverà sod-  disfacente spiegazione nel prosieguo del libro . Su' danni de' terremoti in Calabria  nel iy . - 0 sii ministro Corradini sulle maioliche  de' Castelli. Lettera. Appendice al discorso sul Tavoliere di  Puglia . Sull’ aumento de' soldi a.' magistrati  nel iygo; Estratto ragionato del Saggio analiti-  co su le facoltà dell’ anima di Bonnet.  Seconda Memoria sulla vendita de’beni allodiali. Breve Saggio su l’ importanza di abo-  lire la giurisdizione feudale, e sul modo di eseguirlo. Supplemento alla Memoria pe’ regii  stucchi .Degli Appalti. Memoria. Per la città di Teramo intorno d  beni dell' abolito convento di Agostino.  Memoria per la decima impesta al regno .  Memoria intorno a’ danni sofferti nella  provincia di Teramo dalla cattiva monetazione  dello Stato pontificio, e de’ mezzi opportuni da  ripararli. Osservazioni su la nuova monetazione   dello Stato papale per rapporto al commercio  delle provincie confinanti del regno . Discorso sulle Scienze morali, pag. ira.  Novena di San Marino . Intorno all’ imposizione per la caccia, ( Questo ed i selle seguenti scritti si  suppongono composti in Napoli dal Rapporto alla reai società d’ incorag-  giamento sul progetto di stabilire nelle provin-  cie del regno altre società simigliatiti, Considerazioni sul debito pubblico, e   su’ beni nazionali relativamente alla legge; Breve esame dell’ indole delle dogane  interne; Rapporto per gli stabilimenti di uma-  nità e di pubblica beneficenza Osservazioni su d’ un progetto d’ istruzione pubblica Sulla tassa fondiaria . Osservazioni sulle procedure criminali  die si chiamano Nullità. Parere intorno ad un’ opera del Sig.  Biie D. Davide JV'uispeare, intitolata : Storia  degli abusi feudali. Delle cause perchè siano molto scar-  si i buoni scrittori . Opuscolo,  Lettera sulla imputabilità de’ muti. Pochi cenni su’fondamenti delle Scienze morali. Discorso letto nella reale Accademia delle Scienze di Napoli nel iSlij, e destinato a stamparsi nel voi. III. degli Aiti  della medesima, insieme al seguente Opuscolo ) .Sulla necessitò di cangiare i metodi  d’ istruzione usati in Europa . Alla Giunta preparatoria del Parlamen-  to nazionale . Allocuzione . Memoria in favore di alcuni impie-gati destituiti Osservazioni sopra alcune dottrine po-  litiche del Secretano fiorentino. Proposta di alcuui mezzi economici per  supplire agli attuali bisogni dello Stato. Deli’ importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia  intellettuale . Discorso ( mandato alla reale  Accademia delle Scienze di Napoli. Elogio in morte della Duchessa di  S. Clemente. Lettera al Cav. e Ferri. Lettera in difesa de' Pensieri sulla Sto-  ria e sulla incertezza ed inutilità della medesi-  ma, per risposta alle obiezioni di Amaury D revai pubblicate nel Mercurio straniero tom . A  ( Questa lettera, e tutti gli altri scritti che  seguono nella presente classe furono compo-  sti dopo V ultimo ritorno dell' Autore in Apruzzo ) Sulle origini ed i progressi delle So-  cietà ossia Saggio filosofico sulla storia del  genere umano Proposta di alcune riflessioni sulla filosofia medica ed intellettuale. Opuscolo, Giudizio sulla storia fi losofica di Da -  miron. Lettera. Lettera su cF un manoscritto comuni-  cato, riguardante politica. Due biografie di se stesso; Delle cagioni per le quali il civilizza-  mento non ebbe molti progressi . Opuscolo Sulla perfettibilità. Sulla guerra. Lettera Sulla medicina omiopatica . Lettere  due. Sulla dottrina medica di Samuele  Hanhemann. Memoria sul riso secco cinese, Sullo stesso argomento . Lettera al  Mse. Tommasi. Sullo stesso argomento. Lettera polemica. De' confini del regno di Napoli nella  linea del Tronto ; ossia : Sugli antichi confi-  ni del regno, Sugli stabilimenti di beneficenza. Lettere. Élen^UtmlnìxU Catechismo di moral ; civile, ossia  trattato pratico de’ doveri del cittadino. Del dritto naturale delle genti, ossia  della morale delle nazioni, Sistema di ragione e benevolenza uni-  versale. Sull’origine de’ popoli, Sulle Capitali. Opuscolo, Degli affari fiscali. Memoria. Sulle proprietà. Sugli stabilimenti di umanità, Deir unione della Ideologia colla Fi-  losofia. Dissertazione, Dell’ eguaglianza de’ diritti delle donne, considerati specialmente nelle successioni,  Distinzione fral merito c la gloria.  Dritti politici e dritti civili, Sul quesito : Quale sia il miglior  de governi per 1'Italia? Opuscolo; Ricerche su le teorie fisiche della ragion degli Stati, o sia de’ veri principi della  Politica, Delle leggi e del regimento de’ comu-  ni. Sulle leggi forestali. Discorso, Sulla vociferata abolizione della provincia di Teramo. Memoria. Ricerche su le leggi coniugali, considerate ne’ rapporti da’ quali devono sorgere,  nelle cause produttrici, e negli efl’etti inorali  e civili; Sulla Vita e la Vitalità, Della specificità in medicina. Pensieri; Osservazioni sull’opera intitolata De’principi della scienza etimologica. Saggio filosofico su la guerra e su la  pace. Igiene. Fritmmitttt iti Di ciò che si chiama quadro dello  stile. Su ORAZIO (si veda). Critica, Pensieri divèrsi filosofici e letterarj. Qualche osservazione sull' opera di  Neker Sur 1’administration; Del Vesuvio; Del tempo musico e filosofico, Idea d’ una legislazione, Per le origini civili, Alle nobili fanciulle mie concittadinc. Prefazione per una raccolta di aneddoti. Sulla Città di Reggio, Sul travaglio. Progressi dello Spirito Orgoglio nazionale - Viaggiatori - Filosofia Eccesso di tipografia; Su’pastori. Saggio sull’ adulazione (Progetto di  un'opera ). Ricerche storico-filosofico-poliliclie su la nobiltà (Progetto di un'opera ) .Istoria dell’ anima. Sugli ospedali. Molti pensieri non  legati. Progetto d’ un nuovo giornale delle  mode. Notizie su le opere impresse nel pri-  mo secolo della stampa, per ordine alfabetica. Qualche pensiero di dritto pubblico,  Delle raccomandazioni. Articolo morale. Considerazioni su’ magistrati municipali. Della Solitudine, Qualche osservazione sulle Lezioni  di Filosofia de Laromiguiere. Qualche osservazione sull’ opere fisiologiche di Spurzheim. Della civiltà, Catechismo universale. Della ragion di stato, Estratto della politica d’ Aristotile. Morale nelle leggi, Piano di scienze morali. DELL’origine e SIGNIFICATO della parola morale, e delle varie applicazioni della medesima Frammenti diversi sulle Leggi,  Osservazioni sulla risposta di Serbatti ad una lettera del cav. Monti  sulla lingua italiana, Esame de' classici italiani, Su' trecentisti, Romantici Osservazioni sull ’ opera di Lemercier riguardante i teatri, Osservazioni sul passato secolo ad uti-  lità del presente Viste politiche e morali sugli effetti  della rivoluzione Frammenti diversi sugli affari politici L’ obolo della vedova . All’ Italia Qualche ossen’azione sopra alcune  espressioni di Romagnosi. Rapporto storico su’ progressi delle  Scienze naturali, pag. io.  A Jannelli.  Dell’uso vero della Storia, Meditazioni d’ un solitario che vive  in mezzo alla società. Sull’Inghilterra. Sopra un libretto che riguarda la  divozione pel Sangue di Gesù-Cristo  Miscellanea di cose Jìsiologiche .Miscellanea di cose economiche .Miscellanea di cose filosòfiche Miscellanea di cose politiche. Il cavaliere Commendatore Melchiorre dei Marchesi Delfico. Melchiorre III Delfico de Civitella. Melchiorre Delfico. Civitella. Civitella. Keywords: giurisprudenza romana, sul bello, estetico, 'l’estetico, l’imitazione della natura, naturale, contra-naturale, non naturale -- l’espressione. La storia romana, incertezza e unitilita – la giurisprudenza romana fino alla caduta della repubblica, aristocrazia versus benevolenza, benevolenza conversazionale tra iguali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza --Grice e Clarano: Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A friend of Seneca from the time they study philosophy together under Attalo. In a letter to Lucilio the Younger, Seneca contrasted the ugliness of his body with the beauty of his soul. Grice: “Strictly, this is Chiarano – since the Italians, unlike the Romans, seem unable to pronounce the ‘cl-‘ cluster.” Clarano.

 

Luigi Speranza -- Grice e Claudiano: l’anima di Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Writes a treatise on the sould against Fausto d Riez. Claudiano Mamerto. Claudiano.

 

Luigi Speranza -- Grice e Claudio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. best under Appius. Appius Claudius. A reforming politician who, according to Cicerone, was at least influenced by Pythagoreanism.

 

Luigi Speranza -- Grice e Claudio: la sofistica a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The son of the sophist Marco Antonio Polemo. Primarily known as a sophist himself, he was also a logician. Publio Claudio Attalo. Claudio.

 

Luigi Speranza -- LGrice e Claudio: Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofi italiano. A philosopher highly regarded for his moral virtue. Claudio Antonino. Claudio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Claudio: il portico a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A member of the Porch and a friend of Antonino. He had a career in public life and was highly respected. Antonino says he leart the value of self-control from him and admired him for his cheerfulness, modesty, imperturbability, and generosity of spirity. He presided over a trial involving Lucio Apuleio. Claudio Massimo. Claduio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Claudio: il lizio a Roma – filosofia italiana – Luigi Spranza (Roma). FIlosofo italiano. A Lizio --  a friend of Antonino. The emperor admired him for his kindness, warmth, and honesty, as well as for his dedication to philosophy. Claudio Severo. Claudio.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cleemporo: Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. According to Plinio Maggiore, some attributed to Cleemporo a treatise on the property of herbs that others attributed to Pythagoras.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cleomene: la gnossi a Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A gnostic who founded his own set in Rome. Originally a pupil of Epigono.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cleonte: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cleofronte: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, a Pythagorean.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cleostene: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.

 

Luigi Speranza -- Grice e Clinagora: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico, a Pythagorean.

 

Luigi Speranza -- Grice e Clinia: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana  -- Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. The information about Clinia is confusing, but running through it all is the constnt theme that he was a Pythagorean. Iamblicus di Calcide associates him with both Taranto and Heraclea. Clinia and Amiclo are said to have prevailed upon Plato not to burn the works of Democrito di Abdera. Iamblico mentions Clinia in an illustration of Pythagorean friendship, claiming he went to the financial aid of Proro di Cirene at considerable cost and risk to himself. Although neither story is possible to date with any precision, if both are true, Clinias would appear to have lived a very long time. A confusion of two people with the same name is perhaps more likely.

 

Luigi Speranza -- Grice e Clitomaco: la setta di Thurii -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Thurii). Filosofo italiano. Probably a pupil of Euclide di Megara. According to Diogenes Laerzio, Clinomaco was the first to write about propositions and PREDICATES. He was interested in logic and attached great value to the use of argument. Some regard him as the initiator of the dialectical school.

 

Luigi Speranza -- Grice e Clodio – Roma: la setta di Napoli -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. According to Porfirio, Clodio wrote a book arguing against vegetarianism.

 

Luigi Speranza -- Grice e Clodio: all’isola -- Roma antica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo italiano Clodio Sesto – a teacher of rhetoric.

 

Luigi Speranza -- Grice e Cocconato: l’implicatura conversazionale --  scuola di Torino – filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino).  Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I like Coconato – I used to say that the first task for the historian of Italian philosophy, unless you are a member of La Crusca, is to decide on the surname – I like Cocconato! He spent some time in London, as I did – and he shows that the average Italian philosopher is a nobleman, or vice versa!” – Grice: “Venturi revived Cocconato, as did the re-issuing of his “Moral Discourses”!” -- “Manhood and unbelief” -- Alberto Radicati, conte di Passerano e Cocconato (Torino), filosofo. Libero pensatore, fu il «primo illuminista della penisola», secondo una definizione di Piero Gobetti. Cocconato matura il suo pensiero anti-clericale nel clima dell'anticurialismo sabaudo ben presente in alcuni settori della corte di Vittorio Amedeo II, re di Sardegna. S'ignora tutto della sua prima formazione, verosimilmente affidata a qualche ecclesiastico. Un infelice matrimonio precoce, combinato dalle famiglie, lo coinvolge ventenne, e già due volte padre, in una serie di penosi contrasti il cui significato travalica i conflitti coniugali. Mentre a prendere le parti della moglie si mobilita il partito devoto-clericale, Radicati trova sostegno a corte in chi appoggia il re sabaudo nei suoi conflitti giurisdizionali con la Curia romana.  Il grottesco-ironico racconto della sua «conversion pubblicato a Londra e ripubblicato con il titolo “A Comical and True Account of the Modern Cannibal's Religion” induce a datare intorno agli anni venti il precipitare della crisi della fede cattolica in cui il conte era stato cresciuto. Nell'opuscolo autobiografico presenta la sua personale vicenda come un caso emblematico di «uscita dalla minorità. Narra infatti come, a partire dal contrasto tra santoni bianchi e santoni neri monaci cistercensi e quelli agostinianisui presunti miracoli operati da un'immagine della Vergine, rinvenuta nel convento agostiniano, avesse cominciato a vacillare in lui la fede e come, verso i vent'anni, avesse cominciato anche in campo religioso “a far uso della mia ragione.”Importante per la sua ulteriore maturazione intellettuale è il viaggio compiuto nella Francia della "Reggenza" tin cui poté ampliare il raggio delle sue conoscenze e forse procurarsi testi libertine come La Sagesse di Charron, l'Hexameron rustique di Vayer o il Traité contre la Médisance di Brosse, in cui ricorrono motivi che troveranno eco e sviluppo nelle sue opere. Il suo scritto principaleI discorsi morali, storici e politici redatti su diretto incarico di Vittorio Amedeo II nel mutato clima conseguente alla ratifica del Concordato stipulato tra regno sabaudo e Benedetto XIII diverrà anche la ragione vera del suo esilio. Il conte, che da un riacquisito potere dell'Inquisizione a Torino deve temere per la sua libertà e per la sua stessa incolumità, lascia segretamente il Piemonte per dirigersi a Londra, dovendo poi subire per questa fuga non autorizzata dal sovrano il sequestro e la confisca dei beni.  A Londra pubblica con un discreto successo l'instant book che ricostruisce i retroscena della recente abdicazione di Vittorio Amedeo II mentre, al contempo, lavora alla stesura del più audace e radicale dei suoi scritti, “La Dissertazione filosofica sulla morte,” che, tradotta da JMorgan, uscirà dai torchi londinesi destando un enorme scandalo. Nella Dissertazione, che gli costa anche l'esperienza delle carceri della tollerante Inghilterra di Walpole, propugna il diritto al suicidio e all'eutanasia sullo sfondo di una esplicita filosofia materialistica che scorge nel Deus sive Natura spinoziano-tolandiano il suo unico grandioso orizzonte di senso. Nella sua meditazione sulla morte e sulla liceità del suicidio si inserisce in un dibattito che già Montesquieu aveva rilanciato nelle Lettere Persiane, riprendendo una discussione inaugurata nel Seicento da Donne con il suo Biothanatos. Interessato a proporre un progetto politico che esige come sua prima tappa essenziale una riforma radicale della cristianità occidentale, capace di affrancarla dal giogo clericale- o se si vuole, in termini più neutri dal potere pastorale- la scelta del tema del diritto individuale alla morte non è scelta casuale per quanto la meditazione sul suicidio non sia priva di elementi autobiografici. Le chiese cristiane di ogni confessione ritengono infatti un loro preciso dovere intervenire direttamente nella gestione del trapasso a quella che esse, in base alla loro fede, considerano la vera vita, quella ultraterrena. Del resto non solo il mondo cristiano, lo stesso ebraismo e l'islam, finendo con il recepire come un dogma l'interpretazione agostiniana del suicidio come omicidio di se stessi, per secoli hanno considerato la morte volontaria come il più grave e irreparabile dei peccati, suprema manifestazione di oltranza e ribellione alla volontà divina, mentre le autorità statali, dal canto loro, si distinguevano per la crudeltà inumana con cui trattavano i cadaveri dei suicidi e i beni dei loro eredi.  Se i Discorsi partivano dalla morale ricavata essenzialmente da una lettura pauperistico-comunistica dei Vangeli che faceva di Cristo, al pari di Licurgo, il grande critico dell'istituto familiare, nonché il fondatore di una democrazia perfetta in cui non esiste né il mio, né il tuo»per poi occuparsi di politica e concludersi in concrete proposte riformatrici, nella Dissertazione filosofica fornisce una risposta alla legittimità del suicidio muovendo da una concezione complessiva del mondo e dell'esistenza umana. Nonostante il suo titolo, la Dissertazione filosofica sulla morte non rinnega affatto l'istanza spinoziana che intende la filosofia quale gioiosa meditatio vitae, apertura mentale a una possibile transizione da una condizione di servitù a una condizione di più ampia libertà che è, simultaneamente, incremento della capacità del corpo di comporsi e ricomporsi con altri corpi per realizzare la sua potenza e ampliare la sua capacità di comprendere le cose.  Definisce l'individualità umana a partire dalle relazioni che essa intrattiene con il tutto. Per quanto grandezze infinitesimali noi siamo materia della materia che costituisce l'Universo nella sua indefinita immensità. La certezza che ci resta, quando ci liberiamo dall'ignoranza in cui nasciamo e dagli idola tribus, i pregiudizi con cui siamo allevati, è che noi siamo vicissitudini della materia. La materia a cui pensa tuttavia nel suo esilio londinese e poi olandese non è lo squalificato sostrato inerte che dai greci giunge fino a Cartesio che, limitandosi a identificare materia ed estensione, continua ad aspettarsi dal Dio creatore l'impulso motore e la creazione continua. Come per il Toland delle Lettere a Serena e del Pantheisticon, la materia pensata dal Radicati è la materia actuosa che reingloba nel meccanicismo moderno motivi provenienti dal naturalismo rinascimentale a cui ineriscono direttamente movimento e autoregolazione.  L'universo è un mondo infinito in perpetuo movimento: in esso nulla continua ad essere anche solo per un istante la stessa cosa. Le continue alterazioni, successioni, rivoluzioni e trasmutazioni della materia non incrementano né diminuiscono tuttavia il grande tutto, come nessuna lettera dell'alfabeto si aggiunge o si perde per le infinite combinazioni e trasposizioni di essa in tante diverse parole e linguaggi. La natura, mirabile architetta sa sempre come utilizzare anche il minimo dei suoi atomi. La fine della nostra individualità costituita dalla morte non è quindi fine assoluta, perché niente si annichila nella materia e il principio vitale che ci anima come non è nato con noi troverà sicuramente altre forme di esplicazione: come la nostra nascita non è avvenuta dal nulla, non sarà nel nulla che ci dissolveremo.-- è estranea ogni forma di lirismo e, tuttavia, una concezione non lontana dalla sua rifiorirà in una delle pagine finali di uno dei maggiori romanzi lirici della modernità, nell'Hyperion di Hölderlin che fa dire alla sua eroina, Diotima: “Noi moriamo per vivere: Oh, certo, i miserabili che non conoscono se non il ciarpame arrabattato dalle loro mani, che sono esclusivamente servi del bisogno e disprezzano il genio e non ti venerano, o fanciullesca vita della natura, a ragione possono temere la morte. Il loro giogo è diventato il loro mondo, non conoscono niente di meglio della loro schiavitù: c'è forse da stupirsi che temano la libertà divina che ci offre la morte? Io no! Io l'ho sentita la vita della natura, più alta di tutti i pensierie anche se diverrò una pianta, sarà poi così grande il danno? Io sarò. Come potrei mai svanire dalla sfera della vita, in cui l'amore eterno che è partecipato a tutti, riunifica le nature? come potrei mai sciogliere il vincolo che riunisce tutti gli esseri?»  Opere Antologia di scritti, in Dal Muratori al Cesarotti. Politici ed economisti del primo Settecento, tomo V, F. Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, Dodici discorsi morali, storici e politici, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Dissertazione filosofica sulla morte, T. Cavallo, Pisa, Ets Vite parallele. Maometto e Mosè. Nazareno e Licurgo, T. Cavallo, Sestri Levante, Gammarò editori, Discorsi morali, istorici e politici. Il Nazareno e Licurgo messi in parallelo, introduzione di G. Ricuperati (check); edizione e commento di D. Canestri, Torino, Nino Aragno Editore, Dissertazione filosofica sulla morte, F. Ieva, Indiana, Milano  Piero Gobetti, Risorgimento senza eroi. Studi sul pensiero nel Risorgimento, Torino, anche in Opere completeSpriano, Torino, Einaudi Franco Venturi, Adalberto Radicati di Passerano, Torino, Einaudi,  Franco Venturi, Settecento riformatore, I, Torino, Einaudi,  Silvia Berti, Radicati in Olanda. Nuovi documenti sulla sua conversione e su alcuni suoi manoscritti inediti, in Rivista Storica Italiana», S. Berti, Radicali ai margini: materialismo, libero pensiero e diritto al suicidio in Radicati di Passerano, in Rivista Storica Italiana», Israel, Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of Modernity Oxford, Cavallo, Introduzione a Radicati, Dissertazione filosofica sulla morte, Pisa, Ets, Cavallo, Le divergenze parallele. Mosè, Maometto, Nazareno e Licurgo: impostori e legislatori nell'opera di Alberto Radicati, introduzione ad A. Radicati, Vite parallele. Maometto e Sosem. Nazareno e Licurgo, Sestri Levante, Gammarò, Vincenzo Sorella, Un partigiano della ragione umana, in I Quaderni di Muscandia», Tarantino, “Alternative Hierarchies: Manhood and Unbelief in Early Modern Europe, in Governing Masculinities: Regulating Selves and Others in the Early Modern Period, ed. by Broomhall and JGent, Ashgate, Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere, M. Cappitti, Le Vite Parallele di Alberto Radicati su blog.carmillaonline. Se poca fortuna ebbe come uomo politico e consigliere di monarchi, non diversa fu la sua sorte di filosofo; e la sua filosofia che ha a tratti momenti di luce viva e che riuscirono a destare interessi e preoccupazioni persino nelli liberi circoli, giacquero come cose inanimate dopo la sua morte, come se questa le avesse private, come il loro autore, di quello spirito vitale che le fa palpitare. E l'oblio scese su di loro, crudele e inesorabile, facendo perdere la conoscenza di la sua filosofia. Infatti il Saraceno pubblicando il  Manifesto» e le due  Lettere » indirizzate, l'una a Vittorio Amedeo II, l'altra a Carlo Emanuele III e premettendo alla sua edizione alcune notizie di carattere biografico e bibliografico, limita, pur credendo di darne l'elenco completo la sua filosofia a quelli saggi da lui pubblicate e a quell'altre contenute nel Recueil edito a Rotterdam. Cat. del British Museum sotto il nome di Thomas Joseph Morgan, il suo traduttore. Più la “History” edita a Londra. Da quel momento, per quei pochissimi che del nostro s'interessarono, le parole del Saraceno furono vangelo, e la filosofia dimenticata scomparvero definitivamente, come non-esistente, dalla sua bibliografìa. La sensazione iniziale di una possibile lacuna nell’elenco della sua filosofia, divenuta certezza in seguito ad alcune notizie rinvenute nel carteggio diplomatico tra l’inviato piemontese a Londra e la Corte di Torino, in cui era fatta la sua parola, mi determinò alla ricerca di questa filosofia sperduta. Quasi del tutto infruttuose furono le ricerche in Italia -- due sole lettere rinvenni all'Ai-, di Stato di Torino --. Fortunate invece all'estero e precisamente alla Biblioteca Bodleiana di Oxford, al British Museum di Londra, ed alla Staats Preusische Bibliothek di Berlino, dimodoché tenendo conto dei nuovi materiali trovati, la sua filosofia risulta in una elencazione definitive. Manifesto di A. I. R. di P. (Archivio R. di P., Castello di Passerano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. Memoria rilasciata al Marchese d'Aix. Lettera scritta dal conte A. R. di P. a S. M. il Re Vittorio Amedeo lì inserviente di prefazione ai discorsi da lui compilati e che intendeva dedicare alla prelodata Maestà sua. (Ardi. Stat. di Tor., Storia della Real Casa, Cat. terza, Storie pari). Lettera alla Contes. di S. Sebastiano. Lettera del P. a Vittorio Amedeo II. “Christianity set in a True Light” in “XII Discourses Political and Historical. By a pagan philosopher newly converted” (London. Printed for J. Peele at Lockes Head in Pater-noster-Row; and sold by the Booksellers of London and Westminster). “The History of the Abdication of Victor Amedeus II, Late King of Sardinia with his confinement in the Castle of Rivole, Shewing the real Motives, which indue'd that Prince to resign the Crown in Favour of his Son Charles Emanuel the present King, as also how be came to repent of his Resignation with the secret Reasons that urg’d him to attempt his Restauration. On a letter frorn the Marquis de T... a Piemonlais now at the Court of Poland; to the Count de C. in London. Printed and sold by A. Dodd without, Tempie-Bar; E. Mutt and E. Cooke, at the Royal. Dell'opera n. 9 ne fa recentemente parola il NATALI, Milano. Royal Exchange; and by the Booksellers and Pamphletsellers of London and Westminster. “A phliosophical [sic] dissertation upon death composed for the consolation of the unhappy, by a friend to Truth” (London. Printed for and sold by W. Mears at the Lamb on Ludgate-Hill). Lettera a S. M. il Re Carlo Emanuele III colla quale supplica la prelodata S. M. di voler gradire la dedica della opera da lui composta e già presentata alla fu S. M. il Re Vittorio Amedeo IIC. (Arch. Slato Torino - Storia Real Casa - Cat. Ili - Storie particolari). Twelve discourses concerning Religion and Governement, Inscribed to all lovers of Truth and Liberty by Albert Comte de Passeran, Written by Royal Command, The second Edition” (London, printed for the Booksellers, and at the Pamplet shops in London ad Westminster). Recueuil de pieces curieuses sur les matieres les plus interessantes – Rotterdam, Chez la Veuve Thomas Johnson et Fils - contenente: Dedica a Don Carlos; Factum d'A. R. de P. parce quel on voit les motifs qui l'ont engagé a composer cet ouvrage. Douze Discours Moraux, historiques et politiques, preceduti da una Declaration de l'Auteur, Histoire abregée de la profession sacerdotal, ancienne et moderne a la tres illustre et tres celèbre secte des esprit-forts par un Free-Thinker Chrètien, Nazarenus et Licurgos mis en parallele par Lucius Sempronius neophyte, Epitre à l'Empereur Trayan Auguste, Recit fìdelle et comique de la religion des Cannibales modernes par Zelin Moslem, dans lequel l'auteur declare les motifs qu'il eut de quitter celte abominable Idolatrie, traduit de l'Arabe a Rome par M. Machiavel [sic] imprimeur de la Sacrée congregation de Propaganda fide, con prefazione dell'editore. Projet facile, équitable et modeste, pour rendre utile à la Nation un grand nombre de pauvres enfans, qui lui son maintenant fort à charhe, traduit de l'Anglois. Sermon perché [sic] dans la grande assamblé des Quakers par le fameux frere E. Elwall dit l'Inspirée, traduit de l'Anglois a Londres, au depens de la Compagnie. La religion Muhammedane comparée à la paienne de l'Indostan par Ali-Ebn-Ornar, Moslem epitre a C.inknin, Bramili de Visa - pour traduit de l'Arabe. A Londres au depens de la Compagnie. Notiamo, ora di queste opere le notizie e di caratteri più salienti. È edita dal Saraceno, nell'opera più volte citata. Il testo rimane nella sua grafia del tutto immutato, con le inconstanze di scrittura (et, ed; chino e hanno) caratteristiche del filosofo; alquanto mutata è invece la punteggiatura, e gli alinea, la prima più scorretta nel testo originale, i secondi inesistenti nel MS., che corre tutto di seguito. Questa lettera con la quale comunica a Vittorio Amedeo II il suo desiderio di fargli pervenire la cassetta e di cui abbiamo notizia sia dalla lett. del March. d'Aix, sia dalla risposta del March, del Borgo, che c'informa pure del suo contenuto, per quante ricerche abbia fatte all'Arch. di Stato di Torino, non mi è stata possibile trovarla. Questa Memoria inedita si trova all'Ardi, di Stato di Torino. Fu edita dal Saraceno ed è una copia della lettera originale andata perduta. Delle lettere comprese sotto questi due numeri abbiamo notizia da una lettera del Cav. Ossorio al March. Del Borgo e dalla risposta del Del Borgo. Ma non mi è stato possibile poterle rintracciare. Quest'operetta edita, in un elegante Vili0, dopo due anni di soggiorno in Inghilterra, doveva nella mente dell'Autore essere composta di dodici discorsi. Fu edita invece incompleta contenendo solamente un “Preliminary discourse in wich the Author gives a particular account of his conversion” e il Discourse I, “Of the Precepts and Life of Jesus Clirist”. Al primo di essi corrisponde alquanto mutato nella forma e nell'estensione il Recit, contenuto nel Recueil. Al secondo corrisponde invece esattamente il Discorso I. Cfr. Twelve Discourses riprodotto poi integralmente dal Discours, Des Preceptes et des Mrnurs de Jesus Christ, dei Douze Discours, moreaux ecc.editi nel Becueil . Ritornando al Preliminary discourse abbiamo detto che questo discorso fu riprodotto nelle sue linee sostanziali dal Recit incluso nel Recueil, ma molte varianti, e alcune di valore capitale sussistono fra i due testi. Accenneremo, qui, da un punto di vista generale, le caratteristiche più salienti dei due testi, e la maggior importanza che può avere, da un punto di vista biografico, l'edizione inglese; e infatti, pur essendo quest'ultima mancante dell'introduzione che troviamo nel testo di Rotterdam. L'imprimeur au lecteur judicieux, e della apocrifa Bolla di Benedetto XtlI, le numerosissime note esplicative, che svelano luoghi, nomi e date, la rendono di una importanza capitale per la ricostruzione della vita del filosofo. Senza questa edizione, corredata di note e di avvertimenti, veramente preziosi, sarebbe stato impossibile, per qualsiasi biografo, fare risultare dal semplice testo le notizie importantissime documentanti la conversione del filosofo al calvinismo. L'assenza di note del Recit e l'espressione più attenuata, in taluni punti, del testo inglese costituiscono i caratteri differenziali fra le due edizioni. I titoli dei discorsi annunciati, ma non editi nellla Christianity sono i seguenti: Discourse II: Of the Doctrine and Manners of the Apostles and Primitive Christians. Discourse III: The Christian Religion to the Religion of Nature itself. Discourse IV: What were the Causes of the Corruption of the Christians. Discourse V. Of the Mischief done to Christianity by the great Number of Churches and Ecclesiasticks. Discours VI. By what Means the Bishop of Rome are become Souvereigns of that Capital of the world. Discourse VII: That neither the spiritual nor temporal power of priests is authorized by the Gospel. Discourse VIII. Of the claims, by which the Papal Monarchy has maintained, continues to maintain and will maintain itself, as long as it can make use of them. Discourse IX. Of the evils caused by priests to sovereigns and their states. Discourse X: Of Natural right: Of the origin ond Nature of Government. Discourse XI: Of Religion in General. That all authority Spiritual as well as Temporal belongs, de jure, to the Sovereign; and how Ecclesiastical Affair should be regulated. Discourse XII: Of the Advantage that will accrue to Sovereigns and States, from the Observance of the Rules. Come si può presumere dai titoli i discorsi mancanti non avrebbero dovuto essere altro che quelli contenuti nei “Twelve Discourses” come di fatto prova il primo discorso contenuto nella Christianity del  tutto analogo al primo di quelli contenut i nei “Twelve Discourses” cosa, del resto, ch e si può rilevar e facilmente confrontando rispettivamente i titoli delle due edizioni, che, pur essendo vi qualche tenue variante di espressione, sintettizzano reciprocamente un analogo contenuto. Copia di questa edizione l'ho trovata soltanto al British Museu m di Londra. Di quest’opera falsamente attribuita al Marchese Trivié o ad un certo Lamberti ma che già il Saraceno ed il Carutti avevan o rivendicat a al filosofo, furono fatte numerosissime edizioni. Citiamo quelle che abbiamo potuto rintracciare e confrontar e con l'edizione inglese che possediamo. Anecdotes de l'abdication du roy de Sardaigne Victor Amédée II, ou l'on trouve les vrais motifs qui ont engagé ce prince a resigner la couronne en faveur de son fils Charles-Emmanuel a présent roi de Sardaigne. Comment il s’en est repenti, avec les raisons et les intrigues secretes qui l'ont porte à entreprendre son rétablissement par le marquis de F*** piemontois, à present à la Gour de Pologne; en forme de lettres écrite au comte de G*** a Londres. S. 1. in Vili. Histoire de l'abdication de Victor Amédé e nel volumetto La politique des deux partis, ou Recueil de pièces traduites de l'anglois de Bolingbroke et des Frère s Walpole (la Haye). Con la stessa intitolazione: Génève contenente una seconda lettera da Ghambery, probabilmente pur essa de filosofo. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Paris, in 4°, erratament e attribuiti dall'Oettinger ad un Lamberti non meglio identificato. L'Oettinger dà una traduzione tedesca dell’Histoire edita a Francoforte. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne, et de sa detention au Ghateau de Rivoli. Où l'on voit les veritables motifs qui obligerent ce prince d'abdiquer la couronne en faveur de Charles-Emmanuel, son fils, et ceux qu'il eut ensuite de s'en repentir et de vouloir la reprendre. Lettre écrite au Conte de C*** a Londres, par le marquis de Trivié, qui est à présent à la Gour du roi de Pologne, edita nel " Recueil de pièces qui regardent le gouvernement du royaume d'Angleterre, et qui ont rapport aux affaires présentes de l'Europe, traduit de l'Anglois, la Haye. Histoire de l'abdication de Victor Amédée, roi de Sardaigne, Genève, pure attribuita dall'Oettinger al Lamberti. Cfr. OETTINGER, Bibliographie biographique universale, Paris. Histoire de l'abdication de Victor Amédée roi de Sardaigne etc. de sa detention au Ghateau de Rivoli et des moyens qu'il s'est servi pour remonter sur le trone, à Turiu. De l'impremerie Royal. Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II,  Anecdotes de l'abdication du Roi de Sardaigne Victor Amédée II. Edita sotto il nome di Marchese di Fleury che il Qnerard ritiene pseudonimo di Marchese di Trivié. Histoire de l'abdication de Victor Amédée Roi de Sardaigne ecc. De sa detention au Ghateau de Rivole, et des moyens dont il s'est servi pour remonter sur le trone. Nouvelle édition sur celle de Turin de 1734-, a Londres, 1782. Non abbiamo creduto necessario per quanto il testo inglese rappresenti il testo originale redatto dal P. di annotare le poche varianti che esistono più di forma che di contenuto. N. 9 di questa operetta, che ho trovato solamente al British Museum, catalogata sotto il nome di Thomas Morgan (l'indicazione della bibliografia del B. M. è: " A philosophical dissertation upon Death - Composed for the consolation of the Unhappy (By A. Badicati Count di Passerano translated or edited by John, or rather Thomas Morgan? era data notizia tanto dal Cav. Ossorio, che ne espone in brevissime righe il contenuto e ci avverte che fu causa di prigionia per l'autore e il traduttore, quanto dal Lilienthals, dal Kahl e dall'Henke (1). Completamente dimenticata dai più recenti studiosi del R. compare citata dal Natali senza indicazione nè di data nè di luogo di stampa. Secondo quanto afferma l'Ossorio, l'operetta stesa in lingua italiana dal R. sarebbe stata tradotta da " un de ses compagnons  " en bon Anglois  e sotto il nome di questo traduttore, che si seppe più tardi essere, Thomas Morgan essa andò per alcun tempo. N. 10 fu edita dal Saraceno ed è una copia della lettera originale andata smarrita. La scoperta di questa nuova edizione, ricordata in alcune opere Cfr. HENKE loco cit. LILIENTHALS loco cit. FREYTAG loco cit. VOGT loco cit. BAUER: loco cit., WAHIUS loco cit. Cfr. NATALI: II settecento. Ove però compare come semplice elencazione bibliografica, senza indicazione nè di luogo di stampa, nè di data. quasi contemporanee, fa cadere l'affermazione che i " Discours  siano stati stampati per la prima volta a Rotterdam nel " Recueil , e che quindi sino al 1736 i " Discours  medesimi siano rimasti manoscritti nelle mani del R. Risulta invece, (poiché posto che esista la primissima introvabile edizione in tutti i casi non la possiamo ammettere edita prima per le ragioni stesse che giustificano l'edizione) che il nostro si decise a dare alle stampe i " Discours  dopo aver visto che non sarebbe mai riuscito a dedicarli a C. E. (3), e che di conseguenza dallo stampare o no quanto aveva inviato a V. A. non sarebbe più dipesa la possibilità di ritornare o meno in Piemonte. Comparve in tal modo l'edizione inglese dei " Discours , la quale messa in confronto con quella di Rotterdam ha dato i seguenti risultati: Mancano nell'edizione inglese la " Dedica  a Don Carlos (sedizione Rotterdam) e il " Factum  fonte di preziose notizie biografiche (edizione Rotterdam da pag. 1 a pag. 10). mentre che la Declaration de Vauteur  contenente i motivi che hanno spinto alla compilazione dell'opera, e i criteri seguiti nel suo svolgimento, che nell'edizione londinese occupa dieci pagine (V-XV) e che sotto riproduciamo è ridotta nell'ediz. di Rot. ad una pagina e un terzo. THE AUTHOR' S DECLARATION. Tho' prefaces are quite out of fashion, I yet hope the benevolent reader will forgive me for making a short declaration concerning the publication of this work, as follows. BAUMGARTEN: Narichten von einer Ilallischen Bibliothec, ENGEL: Bibliotheca selectissima seu catalogus librorum omni scientiarum genere rarissimorum - BERNAE, TRINIUS: Freydenken Lexicon. - Leipzig, und Bemberg, Erster Zugabe zu Freydenken Lexicon. MASCH I Beilriige zur Geschichte merkwiirdiger Biicher, Wismar, SCHROCK: Cristliche Kirchengeschichte seil deiReformation - Leipzig  SCHLEGELS: Kirchengeschichte des 18 Jahrunderts, Heidelberg. Il RENOUR D nel suo " Catalogne d'un Amateur  citato dal QUERARD. Les supercheries litteraires dévoillés, Paris, sotto il nome Ali-Ebn-Omar-Moslen) afferma parlando del P: Il n'existe de son Recueil que deux exemplaires sur grand papier, celui de la Bibliotheque du Roi, et le mien  Di questa edizione, probabilmente in foglio o in 4° grande, (" sur grand papier ) non siamo però riusciti ad averne traccia nè notizia alcuna. Infatti la lettera indirizzata dal P. a CARLO EMMANUEI.E rimase senza risposta. Cfr. lettera, cit. In primis et ante omnia. I do declare that this Work was written at the Command of a great PRINCE, who would be plainly inform'd of all the matters contain'd in it: and as that PRINCE was then reputed to be one of the greatest Politicians of his Age, I was oblig'd to proportionate my Labour to his profound Capacity. So that if I have reveal'd some Religious or Civil Mystery, which had generally been conceal'd, I have methink given a suffìcient Reason for it: However, I have alter'd some Passages and soften'd some Expressions, to make them more intelligible and more agreeable to the Reader. I do solemnly declare, that in all this Work I had nothing in view but Truth, Equity, or Justice: In a word, the Good of Mankind in general; and I flatter my self that all who shall peruse it with candour, shall be convinced of the Rectitude of my Intentions. I do declare, that I have kept dos e throughout this Work to the Doctrine and Morality of our Saviour, occording to the best of my knowledge; and I hope I have not advanc'd anything without good authorities. I do protest before GOD and Men, that whatever is said in this Work concerning the Church or Clergy is to be understood of the Popish Church and Clergy only (who really have long since abandon'd and despis'd the most sacred Precepst of our Blessed LAWGIVER) and not of any other church whatsoever; whose Clergy and Prelates being very humble, vastly charitable, pious, and such utter Enemies to Grandeur and Riches; may justly be stiled the true and only Imitators of Crist's Disciples, and of those primitive good Prelates instituted by the Apostles. (*) See the 54th page of this Book, and you will fìnd what their duty was, and with what Qualities they were endued. Item. I do declare, that I have not her e opposed the superstitious Tenets of the Popish Church; for this has been so often done ever since the Reformation, and by so many Learned Divines, that it would be vain to attempt it. Besides, Popish Princes little regard at this time wha t is said against Transubstantiation, Purgatory, Confession, Invocation of Saints, and such like; as  things, which ways affect their temporal Interest: so, whethe r these opinions are well or ill-grounded; whethe r they spring from Heaven, or from Huma n Malice, 'tis no matter. But wer e they to know how prejudicial the Popish Religion is to their AUTHORITY, and to the WELFARE of their several Countries; they then would undoubtedly think upon the proper Expedients to preserve themselves and their Subjects from Ruin; and this is wha t I have endeavour'd (pag. XI ) to make evident in the ensuing Work. I tlierefore hope it will prove very beneficiai to such Princes, and even be of some service to this Country, particularly at this time, whe n " the Emissaries of Popery (as a worthy Divine (*) has observed) have increased their Diligence in gaining Proselytes, and are now more industriously employ'd in every Corner of our Metropolis than ha s been any time known in the present Age . (*) Dr. Clarke' s Sermons, pag. 18,  LASTLY, ] declare that I have made use of ali the Reason and Understanding 1 ara master of, to discover (pag. XII ) the TRUTH S contained in the sacred Writings, so hidden and involv'd in Mysteries; in order that by them TRUTH S I might procure my own Happiness and that of others. I presume I have found them, and for that reason 1 now publish them. But if I have unluckily fallen into any involuntary Error, as I know myself not to be infallible. I earnestly entreat ali the orthodox and eminent Divines of this happy Kingdom, to poiat them out to me, and to convince my Reason by Reason itself, that I may both retract and avoid them. (pag. XIII ) And I farther beg of our SPIRITUAL DIRECTORS that in case they, f'avour me with this salutary Advice, to do it not with Passion and Bitterness, but LAWGiVER ha s expressly commend (*). For nothing is paser, worlliy, and more scandalous; nay, mor e contrary to the very Principles of the Christian Religion, tlian to rad, calumniate, to load with odious Appellations, and persecute those who labour Day and Night to find out the TRUTH, buried as it is in the dark Abvss of Errors and Superstitions. (*) Matth, XVtlI, 21, ete. AFTER having made this plain Declaration, as I know myself to be wholly destituted of Freinds; I hope that the ALIGHTY GOD, whose Powe r is above ali Huma n Artifice and Malice, will protect me against those, that will certainly promote my Destruction, for having openly espoused the Cause of TRUTH and EQUITY. Il Discorso I (Ediz. lond. pag. 1-13; Ediz. Rot. pag. 15-26 ) è integralmente riprodotto nella edizione olandese: uniche varianti sono le seguenti: Pag. 2 - in not a Collins è qualificato: 0  great and goodman  attribut i c h e mancan o nell'Ediz. .  - manc a la not a sul ministr o Jurie u ch e si trov a a pag. 2 4 dell'Edizion e di Rotterdam. Il Discors o II (Ediz. lond. pag. 14-25; Ediz. Rot.) è pur e ess o integralment e riprodotto. Unich e varianti: pag. 21 - in not a su Bayl e (cfr. pag. 3 5 ediz. di Bot.) è aggiunt o " and 1 shall not be tought in the vrong for vanking him withe Heliogabalus „. nota, dop o le parol e " universally observed „ " généralement observées „ ediz. Rot.) ch e no n si trov a nell'edizion e del 1736: " I say universally observed: for wer e there a Society or Republic, however great it might be, that should be inclined to observe the Laws of Gbrist, it would be obliged for their own preservation, to lay aside the laws of Christ, or suffer themselves to be destroyed by following them. - In a word, a Society of true Christians, wer e they as numerous as the whole Empire of China, could no more make head against a single Infide], who had a mind to plunder them, than a hundred thousand Rabbits could make head against a hungry  Lion, that should fall in among them. But if ali Men, without exception, were good Christians, it is most sure they would be exceding happy. For, being without Ambition, Envy and Revenge, nothing would be capable of di sturbing Iheir Quiet - Here on Gonsult - Bayle's Pensées diverses chap. 141 - continuation des Pensées - Ghap.  „. Il Discorso III (Ediz. lond.; Ediz. Rot. pag. 38-60) ò invece del tutto diverso - Cfr. quindi il medesimo riportato in Appendice. Il Discorso IV (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) è quasi del tutto riprodotto integralmente; però da pag. 63 (dopo le parole " le gouvernement de leur Eepublique „,  dell'ediz. di Rot.) il testo prosegue con 2 pagine in più che qui appresso riproduciamo. But they wer e never practised, for, if we carni fully examine the Epistles of the Apostles, we shall find that in effect they ali agreed in acknowledging that the Christian Religion wa s the best, but differed excedingly as to the Principles of it For, Paul proposing to persuade Christians of the Trut h of that Religion, and shew them wherein it consisted, says expressly, and in so many words, that we ar e " not to boast of our good works, but of Faith alone in Jesus Ghrist, for that good works ncither justify, nor save; but to him, saith he, that worketh not, but believeth on him that justifieth the ungodly, his Faith is counted for Righteousness (**) and shall save him „. James, on the other hand, in a few words summing up the Essentials of Religion, and not amusing himself with vain disputes, as Paul did, tells us; that " Faith without good woorks will neither justify, nor save „; and gives us to' understand that " good works will save us independent of Faith”This Doctrine is highly just and reasonable, and more orthodox than Paul's. For wha t avails it for a man to bellieve that Ghrist dieci to save him, so long as he is cruel, covetous, revengful, and i*) Rom. IV. 5.James II, etc. (***) Rom III. 26, 27, 28. See also Gal lì. 16 {pag. 64) proud? were he not better without that Belief, but good, charitable, and humble? it is much better for a man to be a Christian in practice without speculation, than to be a Christian in speculation, without the practice; that is, it wer e better being a Savage, who. tho' without any Religion, stili practised the duties of a true Christian, who is resolved absolutely to obey none of the precepts of his Religion, tlio' he firmly believes in its mysterles. This notion, so agreeable to the Justice and Wisdom of God, and Intentions of Ghrist, would be of great advantage to Society, wer e it put in practice. Now it is indisputable that the Apostles, by building Religion upon various. and different foundations bave caused an infinite numbe r of Quarrels and Schisms to spring up in the Christian Gommon-wealth, by whieh it ha s been,  and will ever be tome asunder most assuredly, if it does not lay aside the mysterious, or incomprehensible speeulations of Divinity, and frx wholly to those most holy and simple Tenets, which Christ hath taught us, and are very easy to be observed, being the same as those of Nature, as he himself has told us, saying: " Come unto me, ali ye that labour, and are heavy laden, and I will give you Rest (*). Take my yoke upon you, and learn of me, for I am meek, and lowly in heart, and ye shall find rest unto (pag. 65) your Souls. For my yoke is easy, and my burden is light„, and not grievous and insupportable, like that of cruel and ambitious men. (*) Mat. Xt. 28, 29, 30. Il Discorso V (Ediz. lond. pag. 73-92; Ediz. Rot.) è riprodotto integralmente. Notiamo soltanto che a pag. 80, in nota su S. Cipriano dopo la parola " aucupari „, il testo segue: " Non in Sacerdotibus Religio Devota, non Ministris fides integra, non in operibns misericordia, non in moribus disciplina; sed ad decipienda corda simplicium callide fraudes, circumveniendis fratribus subdolae voluntates - Cyprian de Lapsis „, mentre è mutilo alla medesima parola “aucupari” nella Edizione di Rotterdam. Il Discorso VI (Ediz. lond. pag. 93-124; Ediz. Rot.) è riprodotto nell'Edizione Olandese fedelmente. Il Discorso VII (Ediz. lond. ppg. 125-144; Ediz. Rot.) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono: Pag. 129 nota (dopo le parole " alors soni fausses „ pag. 128 Ediz. Rot.): " See what Bayle Says in his Pensées diverses, eh. 49, et Contin. des Pensées diverses eh. 47. in arder to shew how ridiculous it is lo enquire whant a thind is, before we have examined whether it really exist „. Pag. 138 manca la nota della pag. 136 ediz. Rot. la parola “religion” è tradotta nelle due ultime righe di pag. 139 dell'Edizione Rot. con " Superstition „. Il Discorso Vili (Ediz. lond. pag. 145-164; Ediz. Rot.) è riprodotto nell'Ediz. Olandese fedelmente. Il Discorso IX (Ediz. lond. pag. 165-188; Ediz. Rot) è riprodotto quasi del tutto integralmente. Uniche varianti sono: Pag. 166 manca la nota Ediz. Rot. Pag. 186 manca la nota " cependant ces Emissaires „ di pag. 180 81 dell'Ediz. Rot. Il Discorso X (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) ha subito una restrizione nelle pagine 189 a 200 ridotte nell'Ediz. Olandese a sole cinque; riproduciamo qui di seguito il testo inglese. By natural right (ius naturale), I mean the faculty given by nature to each individual, whereby each of them is forced or determined to act, according as he finds it necessary for the preservation of his own being. All animals are forced by nature to eat, drink, sleep, etc. Therefore it follows, that they eat, drink, and sleep of natural and absolute right, when they stand in need of them. In the same manner, fish being by nature determined to swim, and the greater to devour the smaller, consequently they enjoy water by natural right, and the greater by the same right devour the smaller. Thus, birds are determined by nature to fly, and by consequence possess the air by natural right, and birds of prey by the same right feed upon the tame. For it is most certain that Nature considered in the general, has an unlimited right over every part of herself: that is, this right extends as far as her power extends, so that every thing that she can do is lawful for her to do. For the power of nature is the very same as that of God, whose right is eternal, and consequently unalterable. Now as the power of nature is the same with that of every individual who make up that Nature, without exception, it follows, that the right of no one is limited, but extends as far as the strength and industry that nature has bestowed on them; and as it is a general law for all beings, that each of them in particular shall perpetuate his kind, as far as lies in his power, without regarding anything save his own preservation. it follows, that the natural right of every indivual is, to subsist and act to that end according to the power which nature has given him. In this state man is not to be distinguished from the rest of natural beings, no more than the words, reason, or wisdom, and folly; virtue, and vice; honest, and dishonest, just and unjust are, etc. Wherefore there is no difference between the wise and the foolish, the virtuous and vicious; for every individual has a right to act according to the laws of his constitution or organization. that is, according as he is determined by nature to such and such a thing, without being able to act otherwise. So that considering man under the empire of nature, as unacquainted with what philosophers call reason, or virtue; and not having acquired a habit of either, they have, I say, as much right to life in pursuing the dictates of their appetite, as they have that live according to the laws of reason, virtue, and justice, with which they have conneted their ideas. That is, that, as he who is called wise in society has a right to do any thing that is dictaded to him by reason, and to live according to the light of it; so the ignorant and foolish man in the state of nature has a right to every thing his appetite suggests, and to live according to its dictates. For, according to the apostle’s opinion before the law, or in the natural state of man, no man could sin. Rom.  It is not then the business of that reason, or justice, to regulate the right of nature, but of the desire or strength of every individual. For, so far is nature from determining us to live according to the law and rules of this reason, that, on the contrary, notwithstanding education, and the penalties appointed in order to natural impulses. Such is the power of nature. New as we are obliged, as far as in us lies, to preserve our natural being, so we cannot do it but by acting in obedience to the laws of appetite, since nature denies us the actual use of that reason, and none of us are more obliged to live according to the rules of good sense, introduced among us by the civilised part of mankind, than an ant is to live according to the nature of an elephant. From whence it follows that, in the state of mere nature, we have a lawful right (ius iudicatum) to all things whatever without exception, because nature has given all to every man, and may use it without a crime, if we can get it, whether by force, or cunning, by entreaties, or threats, so far as to look any one as enemy, who hinders, or endeavours to hinder us from satisfying our appetite. Therefore, by natural right, an animal may wish for whatever he pleases, and do whatever is in his power to support his own individual, or satisfy his inclination. However we are not to imagine that so unlimited a liberty can produce any great disorder amongst animals of the same kind, as many have thought, because nature has previded them necessaries in abundance; upon which foot, they can have none, no, not thel esst dissension among them, as I have Lions, Wolves with Wolves. Foxes with Foxes, Eagles with Eagles, and so all other species who are in the state of nature. It is to be owned indeed that *discord*, not con-cord, envy, and an implacable hatred reign between one species and another. And this would in reality be a great defect and imperfection in nature, if her wisdom consisted in making an animal happy for ever. For, upon such a supposition, the pidgeon would have reason to complain of nature for not bestowing upon him a sufficient strength to defend himself against the eagle. A hare mìght make the same complaint as to a wolf; and he again as to the lion. But each complaint would be unjust. For, Nature granted an animal his life but for a certain limited time, which is an effect of her infinite goodness, to the end that every being may succeed one another, and enjoy her benefits. Which could never be, if an animal, once alive, were to be immortal. Therefore, since he must necessarily die to make room for another, it imports little whether he dies in this or that manner. Nay more, I insist that a pidgeon that is the eagle's prey, and the wolf that is the lion’s, are happier than the eagle or lion that have devoured them. For his death is sudden, and his pain short, whereas the Eagle and Lion, languish and suffer long before they die, if they die a natural death. Besides, a Lion or an Eagle may at his death complain of nature's injustice, by making him the prey of innumerable and invisihle animals, that lodge in their bones, and throughout their whole bodies, which  feeding upon the best and finest substance in their blood, and wasting alt llieir animal spirit, kill him without mercy. For, those invisible animals that kill not only a lion, but a man too, and every beast that dies of a natural death has no more thought of the mischief they do in feeding upon their blood, than a lion or a man when he kills another animals for food without mercy, they having ali a power to do so by an absolute and natural right. An animal therefore, far from complaining, tough constantly to thank Nature for her infinite justice and goodnes to him, in giving them a limited life only. For, had she created him immortal, she had shewed herself exceeding cruel; considering we are all assured there is no condition of life, however happy, but what at last grows rneasy and burthensom. As we see by those, who having passed most of their time in the polite world, are desirous of retiring, and leading a private life in the country; so he that lives in solitude, often longs for the pleasures of the world; and lastly, he that has long enjoyed bolli, grows tired and out of humour with them, and wishes for a new life thro' death. Now since an animal is tired of life, he may be perpetually diversifying his pleasure, considering the short date of his life; what would it be, were they to live for ever, without ever varying the pleasures they (See the account of the Strulbrugs in Gulliver's Travels) had tasted in the first fifty years of life? Nay, how justly might not they complain, who drag an uneasy languishiug life from the infirmities to which they are subjects, or who perpetually groan under the yoke of another animal, who makes himself no uneasiness in making him miserable, in order to gratifiy his appetite? Every animal therefore ought to look upon death as the most signal blessing he has received from the hands of Nature, and as the effect of her incomparable wisdom; Death putting an end to their pain, aud making them equal with his tyrant. What I have been now saying ought to surprise no man, since Nature is not confined within the bounds of reason, or the instinct of an animal; for the word Nature, of which an animal is but as so much a small point, means an infìnity of other things that relate to an eternal order, and that inviolable law, which gives being, life, and motion to all things. So that what seems ridiculous, unjust, or wicked to an animal, and above all to a man, appears such only because we know things but in part, and because we cannot have an exact idea of the ties and relations of nature, we not comprehending the immense extent of her wisdom and power. Whence it preceeds, that what reason sets before us as an evil, is far from it in regard to the order and laws of universal nature, but only in regard to those of our own. This supreme natural right, which every animal enjoy, exclude not moral good and evil, which is really to be found in the state of nature. I call “morally good” any action of an animal tending to the preservation and propagation of his own individual or his species, for he is then performing their duty, by aiming at the end, proposed by Nature in their Greation. On the contrary, I cali moral evil ali those actions of Animals, that are either in the whole, or in part contrary to those notions, or sensations that Nature has implanted in each of them, that they may perceive and know what is proper for their subsistance, and for perpetuating their Species as far as in them lies. Allwise Nature, the tender mother of ali Animals, not satisfied with impressing on their mind those notions, has always affixed a proporlional recompense to moral good, and a like punishment to moral evil, to the end that ali Animals may chuse the one, and avoid the other with pleasure. Not that she had any occasion to setlle such rewards and punishment in order lo be obeyed; for, as she is Almighty, she well knew she should be obeyed, as she is in fact by ali except one Species, which is Man. And it was for them se appointed them, because knowing they had several cavities in their brains fdled with animai spirits, which by a high fermentalion would so heat their imagination, as to make them fall into a sort of madness, on Delirium. Nature, I say, to bring them back from their wandring, has thought lil severely to punisti them, whenever they swerve from their duty and act agreeably to the false notions with whict that madnes inspires them, which notions tend to the destruction of their own individuai, and to make their Species unhappy. I will explain my self. It is well known, that ali Animals, except Man, act according to the notions infused into them by Nature, commonly called Instinct, for instance, knows its proper food, and the actions to be performed in order to live in health, and perpetuate its Species. Consequently to these notions it acts, by chusing at first such places as are agreable to it: some live in Marchs, some in the Fields, some in the Plains, and others on Hills; some swim, other crawl, and in short, some, called amphibious, live bo!h on Land, and in Water. Ali these Animals perceive what they are to do in order to subsist Wherefore they eat, drink, and make use of their females, when they have occasion; mor did, or do, any one of them ever force itself to eat, or drilli or enjoy its females, when it was satisfied; nor did ever any of them ever voluntarily refuse to eat, drink, or make use of their females, whenever Nature required it; thus by denying themselves nothing necessary, and by never forcing themselves to do what is beyond their strength, they lead a healthy and a happy life. But this is not the case of Mankind. For, tho' they pretend to a greater share of wisdom and reason than other Animals, their actions shew they have less than the rest of them; some thro' excessive folly eating and drinking when they are neither hungry, nor dry, so far as lo bring distemper upon  and kill Ihemselves; and forcing themselves upon venereal pleasure when they are exhausted, is so much as to destroy themselves: Others from a contrary madness, denying themselves meat, and drink, and the enjoyment o' Women, and dragging a miserable life, consume and pine away. Thus by not allowing Nature what she absolutely requires, or forcing her beyond her strength, they are guilty of real moral evil, from whence the Physical takes its rise, which cruelly torments them their whole life time. Anolher madness, to which Mankind are subject, is Avarice, which puts Men upon perpetually heaping up riches, without making any use of them, for fear of wanting; so that the Miser not only makes himself miserable, but greatly contributes to the misery of others. There is stili another kind of madness, called ambition, that lords it over Man, which puts most Men upon depriving themselves of what is really necessary to life, for Ghimeras, that are entirely useless and superfluous to them. The ili effects of this last folly have not stopped there, but produced the greatest disorders amongst Men, and made theme more unhappy than alt other Animals. For, it has happened, that some of them thinlcing themselves better than others, have endeavoured to get above them, appropriate to themselves what belonged to the rest by Naturai right, and make their companions their slaves. which by the opposition they have found, has occasioned tumults, and civil Wars. These different Phrensies that have taken possession of the minds of Men, and that have in ali times scattered trouble and confusion amongst the race of Men, have from time to time obliged wise Men (who made use of their reason in order to preserve themselves from falling into that sad and terrible Delirium to which they were liable) to admonish the rest with a view of reclaiming them from their errore; and those admonitions had sometimes so good an effect, that a whole Nation perceiving anddetecting their Frenzy, voluntary submitted to the decisions of those wise Men, and each Man, renouncing and disclaiming his naturai right, promised obedience to them, upon condition that they on their side should always endeavour to make that Nalion happy. This was the rise and formation of Aristocratical Government.  (Ecliz.) il test o corrispond e esattament e nelle du e edizioni; salvo le lievi differenz a qui sott o notate.  - i puntin i di quest a edizione son o son o sostituiti nell'edizione olandes e " le coeur de Nobles en àrbitraire ou absolu „. Pag. 22 3: mancano le ultime due righe del testo di pag. 20 6 ediz. Rol. 11 Discorso (Ediz. lond.; Ediz. Rot.) Titolo: "Wherein it is proveci that religion was introduced into Society by legislatore, in order to give a sanction to their laivs; and that consequenty ali sacred and civil authority belong de jure to the Prince „.  Le pagine 224 e 236 costituiscono, in confronto dell'edizione olandese, una parte del tutto nuova, e corrispondente alla prima parte del titolo, che difatli non si trova nell'Ediz. Rot. Diamo un breve riassunto di queste pagine, che non parve necessario trascrivere integralmente. Il R. così comincia: My design then in this Discourse is to make Princes sensible that Religion was institued by legislators, in order to give strength and credit to their Laws, and that Sovereign Princes, having the administration of civil Laws, ought by consequence too have that of Religion; and thereby 1 propose tvvo benefits. Tho first to Princes, by joining the sacred and civil authority in one, and the second, to the People, by rescuing the from the Tiranny of Priests. This then is what the most celebrated Historians teli us concerning the Establishment of Religions „. A dimostrazione di questa tesi, l'intera pagina è dedicata ad una di citazione Diodoro Siculo, libr. I pag. 49, Ediz. Han.; l'inter pag. 227 ad una citazione di Strabone, Geograph. libr. 16 pag. 524, ecc.; indi dicendo di non voler citare anche Plutarco, Polibio, Erodoto e Livio, il R. procede a citare " a Zaeloux and Leavned Jew „ cioè Flav. Joseph, contra Appion.,  - Edit. 1634, in fol., e " a very candid popish Priest „ (pag. 230-235) è cioè Gharron, of Widson, book 2 eh. 5. In nota a pag. 235, così meglio identifica il Gharron: " Ile was Canon and Master of the School of the Church of Bordeaux - He lived in Montagne's time, and ivas his intimate freind - See Bayle's Did. Artide, Charron „. E con tutte queste citazioni la dimostrazione è raggiunta: " Wherefore 1 may be allowed to say without any impietg, that lleligion might be subject to the Prince, to Religion „. Dopo di che da pag. 236 a 248 continua con la seconda parte, che corrisposde all'intero Disc. XI dell'Ediz. Rot. Unica differenza è che la nota a pag. " See in the life of Peter, late Czar of Moscow how be wisely reduced the high Priest's exorbitant authority io his own power „ è estesa nel testo a pag. 211 dell'Ediz. di Rotterdam. " Enfin chacun fait toutes les autres nouveautéz „. Il Discorso  Ediz. lond.; Ediz. Rot.) è riprodotto integralmente, ed unica differenza è data dalla mancanza a pag. 259 della esistente nell'Ediz. di Rot. a pag. 228. N. 12: Abbiamo già parlato a proposito del N. 11 degli scritti " a-b-c „ contenuti nel " Recueil „ ed a proposito del N. 7 dello scritto " f „ ed abbiamo notato come la loro prima comparsa, eccettuato per il " b „, sia avvenuta in lingua inglese, e quali cambiamenti abbiano subito nella loro ultima redazione francese.  Notiamo invece per le operette " d „, " e „ che il testo dato dal " Recueil „ deve presumibilmente essere l'unico lasciato dal P.; nè infatti abbiamo trovato di esse ediz. inglesi, anteriori o posteriori al 1736, nè elementi o prove che suffraghino questa possibilità; potrebbe essere presumibile che queste operette scritte dal R. ancora in Inghilterra e forse già pronte per essere tradotte, siano rimaste a noi nel loro testo originale per la fuga del P. in Olanda, oppure che compossle in Olanda, non avendo più possibilità di trovare un traduttore, le abbia conservate e poi edite nella loro lingua originale. Lo scritto " g „ è la traduzione dell'operetta analoga dello Svvift: " A modest proposai for preventnig the children of poor people in Ireland from beìng a burden to their parents or country, and for making them beneficiai io the publick „ (1). Non esiste tra le due edizioni alcuna differenza, che possano mutare lo spirito del testo originale le due uniche varianti che abbiamo notato sono; l'introduzione del " Recueil „ della parole: " Gastigat ridendo mores „ immediatamente dopo il titolo, e omesso dall'originale; e la sostitutuzione della parola " Spain „ del testo inglese, con la parola " Rome „ della versione del R. Fu fatta nel 1749 a Londra una ristampa di tutto il N. 12 (" Recueil de pieces curieuses sur le matieres les plus interessantes par A. R. comte d. P. a Londre) ma dall'esame di questa nuova ediz. posseduta dalla Bib. Querini-Stampalia di Venezia, è risultata l'identità, persino negli errori di stampa coll'ediz. di Rotterdam. N. 13-14 formano nell'Ediz. originale un volume solo, senza titolo generale, con pagine numerate progressivamente (da 1 a 47 il testo n. 13, da 49 a 104 il testo n. 14). L'attribuzione di paternità al R. del primo di questi opuscoli, e convalidata non solo da quanto afferma il " Dictionary of National Uography „ edito dal Leslie Stephen, il Querard ed il Barbier, ma dalla rispondenza che questo opuscolo ha con il Discorso III dei " Twelve discours „. Notiamo le principali variati: Pag. 2: " peché originai „ manca la nota del testo ing. Pag. 4-, nota 2: manca la cit. del testo ingl.; pag. 5, nota 1 e 3: manca il (1) Cfr. in: The Works of Swift, London. (2) Cfr. Dictionary of national biography, edited by LESLIE STEPHEN, sotto 'Elicali.’ Cfr. QUERAR D Col. 1231, T III. Cfr. BARBIER: Dictionaire des onorages anonymes et pseudonymes, Paris.  commento e la cit. del testo ingl.; pag. 8, nota. 1, mancal a cit. del testo ingl.; pag. 10: " vòtre pere celeste „ manca la nota del testo ingl.; pag. 11, nota 2: manca la nota del testo ingl.; pag. 12 nota 1: manca il lungo commento del testo ingl.; pag. 17 " ces Docteurs „ il testo ingl. ha “our Priest” e nota 2: manca la cit. e il comrn. del testo ingl.; pag. 18 " vous dis-je mes Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 19 nota 1: manca la cit, del testo ingl.; pag. 21 nota 2: manca la spiegaz. esistente nel testo ingl.; pag. 22: "et comment auroit-il mieux „ manca la nota del testo ingl.;: " Amerique „ manca la nota del testo ingl.; pag. 27 e 28 sino ad: " Enfiti temoin... „ mancano nel testo ingl.; pag. 32, nota 2: manca il lungo coni, del testo ingl.; pag. 24 nota 2; manca la citaz. del testo ingl.; pag. 35: " les hommes hereux „ manca nel testo ingl. la nota corrispondente; pag. 38 dopo le parole "... leur dependence „ manca quasi l'intera pagina 47 del testo ingl.; pag. 40: " mes cheres Frères „ manca nel testo ingl.; pag. 4 nota 2: differisce dalla rispondente nel testo ingl.;: l'ultimo periodo (“l'esprit... vrais Quakers”) manca nel testo ingl. In merito al N. 14 l'attribuzione di esso al R., è affermata dal Querard (1) e dal Barbier (2) che svolgono lo pseudonimo Ali-EbnOmar con il nome del R., è confermata dal fatto che a pag. 100 dell'operetta in una nota l'autore citando se stesso rinvia al " Discorso Ili „ dei “Twelve Discourse” e tale attribuizione, per ambedue, N. 13 e 14, sostengono pure lo Henke, il Lihienlhals, il Freytag (3). Anzi a proposito di quest'ultimo che viene ad affermare che spesse volte l'opera n. 13 viene seguita dalla n. 14 con un seguirsi di pagine progressivamente numerate (tale è l'ediz. da noi esaminata), come facenti parli del " Recueil „ edito a Londra e Rotterdam nel 1736, facciamo rilevare come ciò non risponda a verità. A parte la confusione dell'ediz. londinese del “Recueil” con l'ediz. Olandese, tanto nell'una che nell'altra non troviamo stampate le operette di cui si tratta, nè infatti potevano essere incluse nell'ediz. del 1736 essendo venute alla luce la prima volta nè nell'ediz. del 1749, che riproduce esattamente la precedente, nè possiamo considerare questa ediz. dell'operette, che abbiamo esaminata, come stralciata dal volume del 0  Recueil „ stante la appariscente diversità dei caratteri di stampa. Come mai esse siano state edite a Londra, mentre già da quattro anni almeno si trovava in Olanda, non siamo in grado di dire: forse trovate fra le sue dopo la sua morte e fatte stampare da qualche suo amico nella capitale inglese? e allora non perchè a Rotterdam dove era già uscito per i tipi della Ved. Johnson il “Recueil” più volte citato? Sono questi tutti interrogativi che ci poniamo senza avere la possibilità di potere rispondere, per mancanza di documenti che giustifichino una ragione piuttosto che un'altra; e questa è un'altra lacuna nella perfetta conoscenza della vita del R. Cocconato.  [H] Desideri:  fenomenologia degenerativa e strategie di controllo 1. I/epithymia nella fenomenologia degenerativa   Il processo degenerativo che dal nobile desiderio per il sapere del filosofo giunge infine alla liberazione e soddisfazione  dei più feroci desideri attuata dal tiranno è innescato, da una  prospettiva psicodinamica, dall'adozione di particolari modalità repressive. Queste, e più in generale le strategie paradigmatiche di controllo del desiderio, sono il nostro oggetto d'indagine privilegiato. La loro analisi ci condurrà direttamente alla disamina delle molteplici specie di desideri, alla caratterologia e alle derive psicopatologiche tracciate da Platone nel libro  Vili, nonché alla dinamica dei processi onirici e alla mania disegnate nel IX. Da ultimo ci soffermeremo sulla contrapposizione strutturale tra repressione e canalizzazione, parimenti  inerente a epithymiai ed eros, che attraversa il grande dialogo.   A monte, Yepithymia platonica è un moto psichico volto a  riempire, soddisfare, generando piacere, una mancanza di origine somatica come di matrice intellettuale; 1 essa viene così a  convergere con l'ampio spettro semantico dischiuso dal termi 1 sull'intera questione cfr. qui voi.  Ili, [H], pp. 251 sgg.; sulla "interiorizzazione" della sfera del desiderio cfr. M.  VEGETTI, L'io, l'anima, il soggetto, in S. SETTIS (a cura di), I Greci, voi. I, Noi e  i Greci, Torino; sul rapporto complessivo psyche-soma, cfr. ROBINSON, Plato 's Psychology, Toronto LA REPUBBLICA   ne "desiderio". 2 Tale estensione, uno dei cardini metapsicologici della fenomenologia degenerativa del libro Vili, fa tutt'uno con la diretta attribuzione ad ogni istanza di una sfera "propria" di desideri esplicitata nel libro IX: siccome tre sono le  parti della psyche, triplici mi sembrano anche i piaceri, ognuno  proprio di ciascuna parte; e similmente i desideri e il loro ruolo  di comando. Con ciò la statica tripartizione delineata nel libro viene calata, retroattivamente,  all'interno della dinamica psico-politica e quindi delle forme  caratteriali disegnata nell'VIII.   Più da vicino, l'attribuzione rende conto del legame tra il  governo del logistikon e il desiderio di sapere del filosofo, il governo dello thymoeide s e il desiderio di onori e gloria del carattere timocratico, e le tre forme caratteriali dischiuse dal governo del polimorfo epithymetikon, contenente tre specie di desideri e piaceri: 1) i necessari», dei quali non ci si può liberare», quali fame, sete ed eros riproduttivo, il cui appagamento è  utile e salutare; 2) i non necessari», che possono essere allontanati», la cui soddisfazione non frutta alcun bene, talvolta  anzi un male;  i paranomoi, fuorilegge, perversi e malvagi, sottospecie dei non necessari, anch'essi allontanabili. Partizione metapsicologica sulla quale poggia la fenomenologia caratteriale: l'avaro uomo oligarchico, dominato dai desideri necessari, nel quale il legittimo desiderio  per il denaro degenera in ossessione; il disinvolto carattere democratico, assediato dalla cangiante moltitudine dei desideri  non necessari; le inquietanti e parzialmente convergenti figure   2 La convergenza con il nostro "desiderio" è già attestata in Marsilio Ficino, Sopra il Convito di Platone, ove Amore è sempre "desiderio di bellezza";  soluzione che venne a sciogliere, indirettamente, le tensioni tra concupiscentia,  appetitus e desiderium derivate dalle letture scolastiche della metapsicologia  aristotelica: cfr., per es., TOMMASO d'Aquino, Summa theologiae; sulla revisione dell'impianto platonico dell'ultimo Aristotele cfr. per es. A.  GRAESER, Probleme der platonischen Seelenteilungslehre, Mùnchen 1969, pp.  22-24.  Vm E IX, [H]   deYL'erottkos e del tirannico, invasi e pervasi dai desideri paranomoi?   Questa diairesi delle specie del desiderio, tassonomicamente inerente d& epithymetikon, eccede euristicamente la catalogazione tipologica su due fronti. Su un versante viene con 3 Sulla convergenza tra la tripartizione delle specie dei desideri e il polimorfo epithymetikon, cfr., per es., HELLWIG, Adikia in Platons 'Politela'.  Interpretationen zu den Bùchern Vili undlX, Amsterdam 1980, pp. 47-50. Ha  sostenuto la forte discrepanza» e aperta contraddizione» tra la tripartizione  psichica e rimprowisata» diairesi dell' 'epithymetikon, N. BlÓéNER, Dialogform und Argument. Studien zu Platons 'Politeia', Stuttgart 1997, soprattutto pp. 61-62, 237-40, -appellandosi alla possibilità che le forme costituzionali e caratteriali potrebbero essere più numerose, e che la partizione psichica  sia forzatamente modellata su quella politica. Sebbene sia vero che rimangano  delle tensioni nel testo - soprattutto rispetto al desiderio necessario del carattere oligarchico: l'ossessione per il denaro potrebbe a rigore esser interpretata  quale elemento appartenente al regno del non necessario - tuttavia Y epithymetikon stesso, in ragione della sua natura polimorfa, supporta perfettamente  i tre tipi caratteriali degenerati, come anche eventuali altre forme "intermedie". Sul rapporto complessivo tra la tripartizione psichica e le cinque forme  politiche cfr. TJ. Andersson, Polis and Psyche. A motifin Plato's 'Republic',  Goteborg. Ferrari, City and Soulin Plato's 'Republic', Sankt Augustin, ha ultimamente sostenuto, di contro a Andersson,  il carattere meramente analogico», non causale» dell'isomorfismo, cfr. soprattutto pp. 50-53, 60, 65-66. Tale tesi implica però l'esclusione della kallipolis e della tirannia (p: 53 e pp. 85 sgg.) nonché, di fatto, della timocrazia; vi è poi una tendenza a caricare eccessivamente alcune tensioni del testo  (cfr. per es. p. 71) e a trascurare la dimensione dialettica e temporale della dinamica degenerativa. Inoltre, Ferrari è costretto a eludere interi brani, come  544d, e nello specifico la dimensione sociale nella quale è calata la degenerazione caratteriale come ove non considera che il giovane timocratico  esce di casa» etc., e che la figura paterna risulta infine sconfitta» perché è collocata in un contesto etico-politico che osteggia il suo modello psicocaratteriale (549c, 550b); analoga la questione rispetto al carattere oligarchico  (pp. 71-71) ove Ferrari elude 553a-d, e rispetto al carattere democratico ove tace. In breve ritengo, di contro a Ferrari, che i due piani, psicologico e politico, siano in una relazione di  corrispondenza biunivoca circolare che garantisce ad ognuno un'autonomia  semi-ontologica dal punto di vista descrittivo, statico, ma che preserva nel     templata la possibilità che i desideri possano essere allontanati  o meno, approccio che mostra come la materia epithymetica  sia analizzata ad iniziare dalle strategie di controllo adottabili  nei suoi confronti. E questa la prospettiva all'interno della quale si articola la catalogazione, non viceversa. Sull'altro fronte,  anche qui sorvolando al di sopra dei contenuti specifici veicolati dalle singole epithymiai, viene rimarcato il peso che la loro  soddisfazione gioca rispetto al benessere o al malessere psicofisico complessivo del soggetto. Questi due fattori, modalità di  gestione tese al contenimento e allontanamento del materiale  epithymetico più pericoloso, insidie e derive psicopatologiche  ad esse correlate, sono i primi due assi sui quali corre la degenerazione che conduce infine alla mania. Essi trovano la loro  unità nel concetto di repressione, dal quale cominceremo, ripercorrendola a ritroso, la nostra ricostruzione della degenerazione.   2. Repressione ed esilio   Kolazomenai: i desideri possono essere e talvolta vengono  repressi:   Fra i piaceri e i desideri non necessari, alcuni mi sembrano essere  contrari alle leggi. Essi probabilmente nascono in ognuno, ma se vengono repressi (kolazomenai) dalle leggi e dai desideri migliori con  l'aiuto della ragione, nel caso di alcuni uomini si allontanano del tutto  oppure restano pochi e deboli, in altri (restano) più forti e numerosi.   La repressione dei desideri non necessari, ed in particolare  di quelli paranomoi, genera una dislocazione topica, bipartita  rispetto alla modalità funzionale, tripartita quanto alle categorie caratterologiche.     contempo la relazione causale circolare dal punto di vista dinamico-temporale, dialettico.   E IX, [H] 475   L'allontanamento: 1) nel primo caso i desideri repressi si allontanano del tutto» (pantapasin apallattesthai). Stesso esito  viene ascritto, più in generale, alla repressione giovanile dei desideri genericamente non necessari: si potrebbero allontanare  (apallaxeien), se ci si prendesse cura di farlo fin da giovani. Ancora: se il desiderio non necessario è represso ed  educato {kolazomene kai paideuomené) fin da giovani, può essere tenuto lontano {apallattesthai) dalla maggior parte degli  uomini» (559b9-10).   b) La permanenza: i desideri repressi permangono esplicitamente (leipesthai) . Esito a sua volta ramificato: 2) in un caso  permangono pochi e deboli» desideri; condizione che non  viene però contrapposta al loro intero allontanamento: le due  forme riguardano la stessa categoria di persone. Nel terzo  caso permangono desideri più forti e numerosi sì che viene  delineata una seconda categoria di persone. Per comprendere la dinamica, la forma, la topica e le conseguenze che comporta l'adozione delle suddette strategie repressive fornisce un contributo essenziale il brano sulla transizione dal carattere oligarchico a quello democratico. Analizzando l'aspro conflitto intrapsichico che lacera il  giovane democratico, 5 Platone traccia anzitutto una esplicita  distinzione inerente alle strategie di repressione e contenimento del desiderio: alcuni desideri (non necessari) vengono distrutti {diephtharesan), altri banditi {exepeson). Abbandonati i desideri banditi al proprio destino, Platone si con- Analoga la ricostruzione, che coniuga le modalità che permettono di  abwenden» i desideri non necessari e il fortdauern» dei paranomoi attestata  dall'analisi dei processi onirici, di VoiGTLÀNDER, Die Lust und das Gute  bei Platon, Wurzburg. Cfr. 559e4-560a2: il conflitto vede ivi schierati su un fronte la specie dei  desideri necessari, "alleati" alla figura paterna, rappresentanti della parte oligarchica, e la specie dei desideri non necessari, fomentati dalle cattive compagnie, rappresentanti della parte democratica. LA REPUBBLICA   centra quindi sull'analisi di altri desideri affini a quelli che sono stati messi al bando», dei quali scrive, in un passaggio nevralgico, che, in talune occasioni, cresciuti di nascosto» (hypotrephomenai), diventano infine molti e vigorosi.   Hypotrephomenai: le epithymiai crescono di nascosto, insensibilmente; carattere subito rimarcato da Platone: esse  unendosi di nascosto [tra loro] ne partoriscono una folla. Essendo tale proliferazione nascosta», segreta»,  furtiva» {lathra), 6 siamo di fronte ad una crescita effettivamente inconsapevole»: ciò alle spalle di cui crescono, ciò da  cui si nascondono non può essere se non ciò che noi usualmente indichiamo con l'espressione coscienza». In breve, sfuggono alla presa di coscienza. La proliferazione dei desideri non  necessari è dunque in questo caso collocata in un luogo intrapsichico oscuro, nascosto, tenebroso, al di fuori della sfera cosciente. Tale sito è quasi certamente lo stesso dei desideri paranomoi repressi nel caso in cui restano forti e numerosi». L'individuazione e concettualizzazione di processi psichici  pacificamente definibili come inconsapevoli» è del resto attestata in diversi altri brani della Repubblica. Ad esempio ove  leggiamo che si deve evitare che i giovani, frequentando persone viziose, ammassino senza accorgersene {lanthanosin) un'unica grande mole di vizio nelle loro psychai» e che, al contrario,  devono crescere tra opere belle» così che la loro aura», fin  da bambini, inconsapevolmente {lanthane)», li conduca all'armonico accordo con la bella ragione. 7 Ed an- Anche HELLWIG sottolinea come le  Begierden gewaltsam unterdriicken» rompano la Harmonie psichica e possano poi rafforzarsi in heimlichem».   7 Jaeger, Paideia, Firenze, parla a questo proposito di inconscio», così come Lear, La psicoanalisi e i  suoi nemici, Milano, XVIII; il termine inconscio» però, in questo caso specifico, non può essere inteso nel senso classico e  ristretto (dinamico) di Freud, poiché slegato da processi riconducibili alla rimozione.   cora ove leggiamo che in certi casi un'opinione esce dalla  mente» in modo involontario, come accade  in coloro che vengono indotti a mutare le loro convinzioni e  che se le dimenticano, perché agli uni il tempo, agli altri il ragionamento, le portano via di nascosto {exairoumenos lanthanei)». Ora, i suddetti processi repressivi sono collocati da Platone all'interno di una ben precisa topica metapsicologica: i desideri repressi, una volta rinvigoritisi e cresciuti di nascosto,  hanno infine conquistato l'acropoli della psyche.  L'acropoli raffigura il centro direttivo della psyche-polis, il luogo nel quale si controlla l'azione, dal quale ognuna delle tre  istanze e le particolari sfere di desideri ad esse pertinenti possono governare l'individuo. I conflitti, lo scontro tra sfere di  desideri alternativi che segnano intimamente la psyche hanno  quindi un obbiettivo ultimo: conquistare la regale fortezza»,  penetrare attraverso i portali» che conducono al cuore del  soggetto, al sé.   La repressione che si limita ad allontanare, ma forse anche  a bandire, e comunque esclusivamente a dislocare topicamente  il desiderio senza distruggerlo, si lascia allora intendere quale  espulsione dall'acropoli e attività di continua difesa, resistenza  e opposizione al loro rientro in essa. Dinamica raffigurata nel  mettere guardie e sentinelle» ai suoi portali, che altro non sono che discorsi, opinioni, convinzioni che sbarrano l'accesso  alla pressione del materiale pulsionale. Anche qui la  politicizzazione platonica della psyche mostra di non esser solo  metafora, ma descrizione, non anatomica o fisiologica, dei processi psicologici di per se stessi, che divengono intelligibili, direttamente, in questa dimensione concettuale.   Un ultimo elemento chiave inerente alle strategie repressive, sempre di matrice psico-politica, è la schiavitù cui sono  soggetti i desideri repressi. Una prima chiara indicazione in tal  senso ci è data nella discussione del carattere oligarchico che  letteralmente rende schiavi», mette in schiavitù» i desideri non necessari (554a7: doulomenos). Modalità che riemerge, in  generale, anche ove leggiamo che bisogna reprimere e mettere in schiavitù» i desideri malvagi» (kolazein te kai  doulousthai). Vedremo meglio come anche nell'analisi dei processi onirici la schiavitù» (douleia), cui sono soggette  le opinioni che sorreggono i desideri paranomoi, svolga un ruolo cruciale. Il punto che ora ci preme sottolineare è che la repressione in taluni casi si configura come un processo seguito  da una forma di controllo radicale, di incatenamento.   In conclusione, la repressione dei desideri, paranomoi ma  più in generale non necessari, è un processo tale per cui essi  vengono allontanati, non distrutti; in alcuni casi essa comporta  la loro esplicita permanenza, in catene, al di fuori della coscienza, dell'acropoli; dimensione dalla quale, rinvigorendosi  di nascosto, inconsapevolmente, possono, in un secondo momento, tentare un attacco alle sue porte.   3. Il ritomo onirico del represso   I desideri paranomoi repressi, scrive Platone all'inizio del  libro IX, sono quelli che si risvegliano nel sonno,  inaugurando così l'analisi dei processi onirici. Disamina che ci  offre un contributo tanto stringato quanto sorprendente per la  sua modernità, essenziale nell'architettura metapsicologica  complessiva delle strategie di controllo deH'epithymia nonché  ai fini della definizione della specie dei desideri paranomoi e  della deriva psicopatologica complessiva della fenomenologia  degenerativa.   II risveglio» avviene quando il resto della psyche - il logistikon e ciò che è socievole e adatto al comando - riposa, mentre la parte ferina e selvaggia, piena di cibo o di vino, si sfrena nella sua danza e, scacciando il sonno, cerca di  aprirsi la via per dare sfogo ai suoi abituali costumi.   Vi è, dunque, una condizione positiva: Yepithymetikon, stimolato fisiologicamente (cibo e vino), si sfrena e respinge via il sonno; ciò comporta il sincronico risveglio» dei suoi desideri;  ed una condizione negativa: il logistikon dorme, perciò non  può dominare la parte desiderante. E associato ad esso anche  ciò che è socievole», 8 probabilmente lo thymoeides.   Il proseguo del brano fa luce su tale stato psicologico: Sai  bene che in un simile stato essa osa fare di tutto, come sciolta e  liberata da ogni freno di vergogna e di ragionevolezza» (571c79). H sonno del logistikon, l'istanza cui va ascritta la phronesis,  e verosimilmente dello thymoeides, al quale possiamo attribuire, quando è sotto l'egida della ragione, Yaischyne, viene quindi  a rappresentare la mancanza di quell'attività di resistenza che  impedisce la manifestazione dei desideri repressi. Il fattore  quantitativo e la struttura dinamica delle due precondizioni sono perfettamente convergenti: al risveglio» indotto dall'eccitazione della parte desiderante, quindi ad una rinnovata pressione dei desideri, segue la loro emersione e soddisfazione permessa dall'inattività delle forze razionali, morali.   Date tali condizioni,   tentare di accoppiarsi con la madre (così s'immagina) non la imbarazza affatto, o con chiunque altro fra uomini, dèi, animali, e commettere qualsiasi assassinio, e non astenersi da alcun cibo.   Quadro edipico», 9 perversione, aggressività omicida.  Questo l'inquietante scenario che si apre dinanzi agli occhi  dell'impotente sognatore.   Posto che l'attività onirica rappresenta la soddisfazione»  immaginaria» o visionaria» di desideri repressi, riprendendo la topica dell'acropoli la loro appari 8 Su hemeron e thymoeides cfr. JAEGER, A New Greek Word in Plato's  'Republic', in Scripta Minora, Roma.   ' Hanno richiamato al riguardo l'edipo freudiano, tra gli altri, POPPER, La società aperta e i suoi nemici, Milano; Kahn, Plato's Theory of Desire, Review of Metaphysics; GlGON, Erlàuterungen, in Plato. Der  Staat, Munchen.   zione e sincronico appagamento potrebbero essere interpretati  come se essi vi penetrassero nottetempo, superando la vigilanza di sentinelle assopite. 10 Trattandosi di una soddisfazione, anche se solo immaginaria, è difatti lecito raffigurarsela nell'unico sito nel quale essa sembra poter realizzarsi. Nel sonno l'acropoli si verrebbe così a configurare come sfera della coscienza, come teatro dell'immaginazione nel quale i desideri impongono la visione della loro drammatica rappresentazione, diventando coscienti e trovando soddisfazione senza però attivare le  funzioni psico-motorie. La ricostruzione di quest'immagine,  priva di riferimenti diretti, mira soltanto a rendere in termini  spaziali il fatto che, come emerge senza incertezze dal testo, il  sogno rappresenta il momento privilegiato grazie al quale è  possibile prendere coscienza di quei desideri repressi e tenuti  in schiavitù che nella veglia sfuggono al suo sguardo. 11   Platone ha così dischiuso e percorso la via regia per l'inconscio» tracciata nel Novecento da Sigmund Freud. A monte,  la repressione platonica si lascia intendere alla luce della rimozione {Verdràngung), o viceversa, anzitutto perché quest'ultima,  che è una forma particolare di repressione {Unterdrùcken), 12 Cfr. anche VEGLEEIS, Platone e il sogno della notte, GuiDOKIZZI (a cura di), Il sogno in Grecia E IL SOGNO D’ENEA, Bari. La più articolata trattazione platonica di ciò che noi indichiamo con le  espressioni coscienza» e autocoscienza» è probabilmente quella di Filebo  33b-42c. Ivi, utilizzando la metafora del pittore, Platone scrive che un individuo vede in qualche modo in se stesso le immagini delle cose dette o opinate, poi che egli scorge in sé anche se stesso» (40a). Il passo della Repubblica, limitato alla percezione di immagini prodotte psichicamente, pare  presupporre una concezione della coscienza» simile.   u Parlano di desideri allo stato di latenza» Kahn, e LEAR (n. 7), p. 142.   12 Ci sono nella vita psichica desideri rimossi. Ci sono non è inteso  storicamente, nel senso che simili desideri sono esistiti e poi sono stati distrutti; per la teoria della rimozione simili desideri rimossi esistono ancora,  ma contemporaneamente esiste un'inibizione che pesa su di essi. Il linguaggio  COMMENTO Al LIBRI Vm E LX, dal carattere morale», 13 tesa a contrastare una sfera di desideri immorali, incestuosi e perversi, o di voglie omicide, sadiche», 14 anziché condurre ad una completa distruzione» 15 dei  desideri, si limita al loro allontanamento» (Entfernung) dalla  coscienza. Questi perciò permangono» (Fortbesteben) al  di là dei confini della sfera cosciente. 17 In una sola parola, il  rimosso è vogelfrei, 18 ovvero "bandito", "proscritto", "fuorilegge".   La rimozione rappresenta, dunque, un'arma a doppio taglio. Su un fronte, al rimosso viene normalmente impedito di  scaricarsi nell'azione reale», gli viene metaforicamente negato l'accesso alla Festung freudiana, la fortezza» dalla quale si     colpisce nel giusto quando parla della "repressione" (Unterdrucken) di tali  impulsi. L'organizzazione psichica, che permette a codesti desideri repressi di  realizzarsi, rimane intatta e utilizzabile» (S. Freud, L 'interpretazione dei sogni,  in Opere complete, 12 voli., trad. it. Torino; DIE TRAUMDEUTUNG, in Gesammelte Werke, 18 voli., rist. Frankfurt a. M. 1999,  voi. Il/in, p. 241; d'ora in poi, tutti i richiami a Freud si riferiscono a queste  edizioni). Freud, L'Io e l'Es; cfr. anche Lo., Breve compendio di  psicoanalisi, FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla 'Interpretazione dei sogni'. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi. XI,  p. 201 [FREUD, Neue Volge der Vorlesungen zur Einfiihrung in die Psychoanalyse, voi. XV, p. 98: eine vollstandige Zerstòrung»]; il richiamo successivo  è certamente a Id., Il tramonto del complesso edipico; cfr. anche  S. Freud, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 290.   16 S. FREUD, Metapsicologia, voi. Vili, p. 40, e ivi p. 37: la sua essenza  consiste semplicemente nelPespellere e nel tener lontano qualcosa dalla coscienza» [Die Verdràngung]; cfr. anche Lo., L'Io e l'Es, FREUD, Metapsicologia, voi. Vili, p. 39 [Die Verdràngung, FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 300 [Hemmung,  Symptom undAngst, voi. XIV, p. 185]. FREUD, Al di là del principio di piacere. LA REPUBBLICA   domina la motilità». 20 Sull'altro però esso sopravvive al di  fuori» della coscienza godendo del privilegio della Exterritorialùàt»: 21 una volta estromesso dal dominio cosciente può  sviluppare derivati e annodare connessioni», prolifera per  così dire nell'oscurità», im Dunkeln. 22 Proliferazione che rappresenta la possibilità del suo sempre possibile ritorno». 23 Da  qui la necessità di una costante attività di resistenza» alle soglie della coscienza. In termini spaziali: espulso un ospite indesiderato si deve poi far sorvegliare perennemente la porta  da un guardiano giacché altrimenti l'individuo respinto la forzerebbe». 25   Poste queste premesse, Freud, ricalcando ancora le orme  platoniche, 26 individua nel sogno la via regia per l'inconscio  perché in esso i desideri repressi, approfittando del cedimento  della sorveglianza deU'Io dormiente», 27 e godendo del casuale     20 S. Freud, L 'interpretazione dei sogni  [Die Traumdeutung, voi. II/III, p. 573]. Riprende questa stessa immagine, accostandola ai  conflitti della psyche platonica, M. Stella. FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, pp. 247-48 [Hemmung, Symptom und Angst,; cfr. anche Id., Il problema dell'analisi condotta da non medici, Freud, Metapsicologia,  [Die Verdrdngung].  Sui meccanismi di difesa cfr., per es., S. Freud, Metapsicologia, voi.  VILT Sul dispendio psichico della resistenza cfr. per es. S. Freud, Metapsicologia, voi. Vili, p. 41; Id., Inibizione, SINTOMO (GRICE) e angoscia. Sulla  distinzione tra derivati e rimosso originario, e tra rimozione originaria e postrimozione, cfr. Id., Metapsicologia, Freud, Metapsicologia, voi. Vili, p. 43 e nota; cfr. anche Id., Cinque  conferenze sulla psicoanalisi; Id., Introduzione alla psicoanalisi, Cfr. in questo senso anche KENNY [citato da Grice, VOLITING – INTENTION AND UNCERTAINTY, The Anatomy of the Soul – cf. Grice, THE POWER STRUCTURE OF THE SOUL,  Oxford; FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), Vili E IX, [H] 483   rinvestimento energetico pre-notturno, 28 riescono talvolta a  farsi breccia nelle porte custodite da resistenze» della coscienza. 29 Non dunque nella Festung, la cui porta che conduce alla motilità» durante il sonno viene chiusa» dal guardiano», 30 il sogno rappresenta infatti la soddisfazione allucinatoria», non certo reale, del desiderio. 31 Al di là dei meccanismi  peculiari del sogno 32 e delle possibilità con le quali la censura  inconscia può deformare i pensieri onirici latenti, anche per  Freud accade talvolta, sebbene «raramente», che si formino  sogni che «significano proprio quello che dicono, e non hanno  subito alcuna deformazione dalla censura», 33 «come quello cui  allude Giocasta nell'Edipo re». 34   Infine, considerato che il concetto di inconscio in senso  stretto (dinamico e non descrittivobè direttamente «ricavato»  dalla dottrina della rimozione, nel senso che il rimosso «è per  FREUD, Inibizione, sintomo e angoscia, voi. X, p. 304; Id., Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), vMetapsicologia; in Id., Analisi terminabile e interminabile, voi. XI,  p. 509, viene ribadito «l'irresistibile potere del fattore quantitativo» nei processi di rimozione; sulla diversità dei vari stimoli cfr. per es. Id., L 'interpretazione dei sogni, Freud, Psicologia delle masse e analisi dell'Io;  cfr. anche Id., Autobiografia, Freud, Il interpretazione dei sogni; al limite ci si  può rifare all'immagine delle «guardie alle porte dell'intelletto. Cfr. anche S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi; Id., Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) Cfr., per es., FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), FREUD, Alcune aggiunte d'insieme alla 'Interpretazione dei sogni',  voi. X, p. 158.   34 Ibidem. Freud allude qui al passo dell'Expo re in cui Giocasta dice:  «Tu non temere le nozze con tua madre: già molti mortali si giacquero in sogno con la propria madre» (980-82; trad. it. di R. Cantarella). noi il modello dell'inconscio», ove l'elemento essenziale è dato  dal fatto che i desideri confinati «non possono divenire coscienti perché una certa forza vi si oppone», 35 esattamente come accade per i desideri repressi platonici tenuti in schiavitù,  possiamo concludere affermando che, di fronte alle analogie  tra le due concezioni complessive, questi ultimi possono essere  considerati alla stregua di desideri rimossi, dunque inconsci in  senso stretto (dinamico). Difese pre-oniriche La difesa approntata dall’ACCADEMIA per prevenire l'emersione  onirica dei desideri repressi o se si vuole «rimossi» è così delineata: ci si deve «accostare al sonno dopo aver tenuto ben desto il logistikon», facendo nel contempo «rimanere assopito Yepithymetikon» - conducendolo cioè in una condizione tale per  cui non resti né «affamato» né sia «troppo riempito» - ed infiFreud, L'Io e l'Es, voi. Cfr. nello stesso senso JAEGER; GOULD, Platonic Love, London; Lear; HOBBS, Platon and the Hero. Courage, Manliness and the  Impersonai Good, Cambridge; GlGON; MONTONERI, Platone: l'eros, il piacere, la bellezza, in I filosofi  greci e il piacere,Bari; REALE (si veda), Corpo, anima e salute,  Milano. Nello stesso senso, ma un po' più cauti, cfr.  DODDS, Plato and the Irrational SOUL – cf. Grice --, Journal of Hellenic Studies; KENNY [citato da Grice, VOLITING – INTENTION AND UNCERTAINTY. Di diversa opinione FERRARI, 'AKRASIA' – cf. H. P. Grice ‘akrasia, incontentia, weakness of the will -- as Neurosis in Plato's 'Protagoras', Boston Colloquium in Ancient Philosophy, rispetto a Repubblica; egli rimanda  però alla messa in schiavitù del logistikon da parte déH'epithymetikon, che abbiamo visto essere di natura diversa, in quanto tesa allo "sfruttamento" e non all'allontanamento, dalla messa in schiavitù dei desideri paranomoi etc. Ho cercato di affrontare l'intera questione in SOLINAS, Unterdrùckung, Traum und Unbewusstes in Platons 'Politeia' und bei  Freud, Philosophisches Jahrbuch.   ne «ammansendo lo thymoeides»; in questo caso «le visioni  fantasticate nei sogni sono le meno contrarie alle leggi. Rispetto all'emersione" onirica lo thymoeides presenta un  carattere asimmetrico: la sua inattività sembra agevolare l'emersione del materiale represso, il suo risveglio rappresenta  però un pericolo. Ciò è verosimilmente dovuto alla sua costitutiva ambivalenza: privo della guida del logistikon mostra la sua  natura bestiale, aggressiva (cfr. 441a sgg., 590b); caratteristica  che potrebbe suggerire che esso possa contribuire alla manifestazione stessa dei desideri paranomoi nel loro carattere marcatamente omicida, e che renderebbe conto del legame tra il logistikon ed un vago «ciò che è socievole».   Quanto all' epithymetikon, il rimarcare la pericolosità del  lasciarlo «affamato» può esser inteso sia come un richiamo alla  concezione del desiderio quale soddisfazione di una mancanza, sia alla formazione di sogni non appaganti, avvalorata dal fatto che l'attività onirica dell' 'epithymetikon è detta  comprendere oltre alle sue «gioie» anche i suoi «dolori»  (%aipov r\ À.imo'unevov). Richiamo all'incubo che trova  un puntello già nel libro I: l'uomo ingiusto «spesso si risveglia  dal sonno, come i bambini, in preda al terrore» (330e6-7).   Anche rispetto al logistikon, ora nutrito da «buoni discorsi  e ricerche, emerge un'asimmetria funzionale: il sonno  rappresenta l'inattività delle sue funzioni di controllo e resistenza, il suo risveglio non comporta però la capacità di svolgere alcuna attività inibente, è limitata allo svolgimento di funzioni intellettuali interne: «solo in se stesso nella sua purezza» potrà «venire in contatto con la verità. 38 Attività che   37 Anche in Timeo 45e-46a emerge uno stretto legame tra tranquillità e  qualità dei sogni, e in 71c-d tra condizioni pre-notturna e sogno.   38 Cfr. nello stesso senso anche VEGLERIS.  Profondamente diversa è la concezione del Timeo ove<è il fegato a fornire una  conoscenza non razionale che la ragione deve «interpretare con     non ha, quindi, niente a che fare con l'emersione dei desideri  repressi. (Rispetto a Freud si potrebbe pensare alla netta distinzione tra il lavoro intellettuale preconscio svolto nel sonno  dall'Io e l'emersione onirica del rimosso). 39   Platone non afferma del resto mai la possibilità di un intervento diretto (notturno) del logistikon teso a calmare o sedare  o compiere una qualsiasi operazione tesa ad arginare eventuali  intemperanze delle altre istanze. Il loro assopimento, come viene ribadito due volte nel proseguo del passo, deve essere perseguito e raggiunto prima di abbandonarsi al sonno; soltanto  dopo aver assolto questo compito ci si può finalmente concedere il riposo. La non-emersione dei desideri è, dunque, garantita univocamente da un intervento consapevole,  pre-notturno. Le possibilità d’interrelazioni nei processi onirici paiono perciò significativamente ridotte rispetto a quelle  della veglia, tanto da non contemplare casi di vero e proprio  conflitto. Tutt'al più la parte razionale può essere turbata dalle gioie o dai dolori dell' epithymetikon, accenno  che sembra indicare che essa si limiti a percepire passivamente,  ad assistere impotente alle sue turbolente manifestazioni.   In conclusione, il quadro dei processi onirici è così articolato: o il logistikon è desto e le altri parti dormono, ed allora  «le visioni fantasticate nei sogni sono le meno contrarie alle   il ragionamento dopo il risveglio. Sempre diversi da quelli di Repubblica sono i sogni quali appaiono in Fedone, Critone, Leg.,  Epinomide, poiché veicolano messaggi di origine extra-psichica: cfr. al  riguardo Dodds, I Greci e l'irrazionale, Firenze. Cfr., per es., S. FREUD, L’io e l'Es: un lavoro intellettuale sottile e difficile, che normalmente richiede una rigorosa meditazione,  può essere effettuato in modo preconscio senza pervenire alla coscienza. Non  vi sono dubbi su casi del genere: essi si verificano ad esempio nel sonno», e  Id., Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni): la  funzione preconscia svolta dall'Io può ben accadere «durante la notte» ma  «non ha nulla a che fare con il lavoro onirico. leggi, ed esso può attivare le sue funzioni intellettuali; oppure  V epithymetikon e verosimilmente lo thymoeides son desti e il  logistikon dorme, ed allora emergono i desideri repressi. Essendo l'esito univocamente determinato da un intervento indiretto e consapevole, tale concezione non ha niente a che fare  con la «difesa» di Freud, incentrata sulla censura onirica, diretta ed inconscia. In Platone, nel sogno, i desideri repressi o non compaiono  affatto o dilagano senza indossare maschera alcuna.   5. Strategie di controllo e caratteri universali   Ora, poiché leggiamo che proprio chi «si trovi in una condizione di sanità e moderazione» deve ottemperare alle suddette misure preventive prima di concedersi il riposo, sì da evitare la manifestazione delle empie visioni, è necessario che sia  presente, anzi incombente il pericolo della loro comparsa. La  ragione metapsicologica fondamentale della precarietà di ogni  forma di difesa nei confronti dei desideri paranomoi, anche rispetto ai moderati, ci è data nel brano che chiude l'analisi dei  processi onirici:   Però parlando di queste cose siamo andati troppo lontano. Ma ciò  che vogliamo capire è questo: in ognuno - anche in quei pochi di noi  che sembrano essere del tutto moderati - è senza dubbio presente  una forma di desideri terribile, selvaggia e illegale, che si manifesta  chiaramente appunto nel sonno.   Il sogno rappresenta, dunque, lo smascheramento delle apparenze, il riconoscimento che «in ognuno», anche in coloro  che più sembrano moderati, nonostante ciò possa parere inam 40 Cfr. per es. S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), voi; sulla metafora politica del sogno come «conquista» e  sulla «resistenza delle popolazioni soggiogate» cfr. Id., Compendio di psicoanalisi, voi. missibile, ebbene anche in loro, anzi in «noi» - Platone qui  sembrerebbe includere anche se stesso - questa specie di desideri esiste: essa «si manifesta appunto nel sonno». Poiché il moderato è sicuramente colui che ha operato la  migliore repressione, i desideri paranomoi in lui debbono essere stati «interamente allontanati, non sono perciò né  pochi né deboli né schiavi. Ciò nonostante tale operazione lascia aperta la via alla possibilità del loro ritorno. Lo stesso pericolo affiorava del resto nel brano sull'acropoli, ove Platone  scriveva che gli uomini «cari agli dèi», in altri termini i moderati, predispongono la «guardia» alle porte dell'acropoli.   Ta hautou ethe: nel sogno V epithymetikon soddisfa «i suoi  abituali costumi» o «i propri caratteri» (571c7). In questa definizione sta la chiave che spiega l'incombenza del pericolo: siamo di fronte ad una «specie di desideri tremenda, selvaggia e  illegale» che costituisce un elemento strutturale dell' 'epithymetikon. Trattandosi di un'istanza costitutiva e originaria della psyche, la specie epithymetica ad essa connaturata non  può che essere presente in ogni uomo. E universale. Con ciò  Platone sembra fugare ogni dubbio rispetto al fatto che i desideri paranomoi «probabilmente nascono in ognuno» C571b56). Del resto i desideri non necessari bussano alle porte dell'acropoli fin dalla giovane età, come mostrano i molteplici richiami ad operare una loro repressione ed educazione «fin da  giovani.   Certo, il fatto che i desideri paranomoi repressi e allontanati «esistano» anche nei moderati non significa che il loro status  sia lo stesso di quelli repressi e tenuti in schiavitù nei non-moderati. Con ciò veniamo all'intreccio tra i vari tipi di repressione i cui fili è giunto il momento di provare a dipanare.   Bipartiamo dal carattere oligarchico. Egli «rende schiavi» i  desideri non necessari, in altri termini essi «vengono  tenuti sotto controllo con la forza» (554cl: katechomenas bia);  spiega ancor meglio Platone: il carattere oligarchico] con una sorta di apprezzabile violenza su di  sé tiene a freno gli altri cattivi desideri interni che pure lo abitano,  non perché li convinca che non vanno nella direzione migliore, né li  ammansisca con un discorso razionale, ma con il peso della necessità  e della paura (554cl2-d3: èrcieiKeì xivi èonnou pm Karéicei oì>  TteiOcov ot>8' finepcòv A,óy(p). La capacità di convinzione e persuasione {peithó) della sfera razionale è qui direttamente contrapposta alla forza o violenza (bia) di una repressione che, sebbene nei suoi intenti sia  apprezzabile, lodevole (epieikei), con le catene della schiavitù  non risolve il problema. Siamo di fronte a due modelli di gestione del desiderio alternativi: l'uno repressivo, negativo, l'altro persuasivo, positivo. 41   Di contro, è anche vero che Platone discutendo del carattere democratico scrive:   se accade che qualcuno gli dica che alcuni piaceri sono relativi ai desideri belli e buoni, altri a quelli malvagi, e che bisogna praticare e onorare i primi, reprimere e mettere in schiavitù i secondi, in tutte queste  occasioni scuote la testa e afferma che essi sono tutti uguali e di pari  rispetto (561b8-c4).   Poiché qui la messa in schiavitù assume un valore positivo,  sembra emergere una contraddizione. In verità però come il  processo di repressione svolto dall'oligarchico è «apprezzabile» nelle intenzioni, è comunque meglio di niente per un individuo degenerato, così nel «discorso vero» che deve esser fatto  passare nella psyche del giovane carattere democratico, che è  ancora più avanti nel processo di degenerazione, tanto da non   41 Anche D. Hellwig (n. 3), soprattutto pp. 147-54, insiste su  «die Alternative bia-peitho», ovvero tra l'atteggiamento che «mit Gewalt unterdriickt» e quello «durch Peitho», non solo rispetto al carattere ed alla costituzione oligarchica ma nei confronti dell'intera fenomenologia degenerativa; la Hellwig inoltre riferisce tale alternativa, ai paradigmi naturalistici di fondo adottati da Platone.  preoccuparsi ormai di controllare alcun desiderio, sarebbe già  sufficiente se egli comprendesse che deve tentare di contrastare perlomeno i suoi desideri peggiori. Includendo a tal fine l'adozione della strategia più drastica: la loro repressione e messa  in schiavitù. Del resto, tale strategia dovrebbe essere l'unica a  disposizione dei degenerati caratteri oligarchico e democratico  (e anche del timocratico), nei quali il logistikon, l'unico in grado di gestire i conflitti in modo «armonico», è ormai «asservito» 42 all' ' epithymetikon (o allo thymoeides. Stringente il parallelismo semantico e concettuale che si  pone a livello politico nell'oligarchia. Ivi la degenerazione politica e sociale permette la nascita e proliferazione di «ladri, tagliaborse e saccheggiatori» «nascosti» negli angoli della polis  che «le autorità provvedono a tenere sotto controllo con la forza» (ove, èni\i£teiq pUa KoaéxoDow ai àp%ou). Il  circolo della degenerazione, a livello sia psichico che politico, si  avvita su stesso: conflitto e disarmonia generano elementi conturbanti, laceranti, patogeni, annidati negli anfratti di psyche e  polis, di fronte ai quali l'unica arma, ormai, è quella inefficace e  patogena, ancorché lodevole, della repressione violenta. In questo caso la «schiavitù» va intesa nel senso dell'asservimento, dello sfruttamento positivo: «l'una calcolando e studiando il modo di aumentare  le ricchezze, l'altro onorando le ricchezze»; viceversa la schiavitù dei desideri  ha carattere esclusivamente negativo: di incatenamento, espulsione, allontanamento.   43 Sull'armonia psichica instaurata dal logistikon nel filosofo, e sulla sua  contrapposizione con la scissione psichica dei caratteri degenerati cfr. R.  KRAUT, Plato's Comparison of Just and Unjust Lives, in Hòffe, Platon. Politela, Berlin. Diversa la questione che si pone rispetto alla kallipolis,  ove Platone, rimarcando il suo elitarismo e pessimismo antropologico, difende la necessità di «asservire» ai filosofi, ovvero di «imporre dall'esterno le direttive corrette» agli individui ed alle classi sociali da lui considerate non pienamente educabili. Se in entrambi i casi si tratta di una extrema ratio, nell'uno  si fa fronte a differenze antropologiche costitutive, tali per cui l'auspicata armonia sociale trova agli occhi di Platone dei limiti invalicabili; nell'altro inve- Riprendendo i fili delle diverse strategie di controllo dei  desideri non necessari emergono allora quattro modelli paradigmatici (escludendo la loro soddisfazione): due repressivi,  uno misto, uno persuasivo: 1) quello per cui essi vengono «distrutti»; 2) quello che li «reprime e mette in schiavitù»; 3) quello in cui il desiderio «represso ed educato» viene «allontanato»; 4) quello in cui il desiderio, anziché esser «controllato con  la forza», è convinto e ammansito. Ciò considerato, l'indeterminata «repressione» dei desideri paranomoi che conduce al loro intero allontanamento od alla  loro esplicita permanenza in condizione di schiavitù non è  esattamente una medesima operazione repressiva come l'abbiamo interpretata inizialmente, ma rimanda a due strategie affini ma distinte. La prima rientra nel modello che «reprime e  mette in schiavitù» ed ha l'esito univoco di spostare e incatenare il desiderio. La seconda rientra nel modello per cui il desiderio «represso ed educato viene allontanato». Qui la compresenza di repressione e educazione, sì che il desiderio «allontanato» non è né pienamente persuaso né brutalmente incatenato, designa un approccio misto, e spiega l'unificazione in  un'unica categoria di persone, i moderati, di coloro che hanno  interamente allontanato i desideri paranomoi o nei quali permangono ma sono «pochi e deboli». Modalità nella quale potremmo forse inserire anche quei desideri «banditi» che Platone abbandonava al proprio destino: in tutti e tre i casi i desideri vengono repressi, non distrutti, ma si tratta di una repressione per così dire morbida, tendente perlomeno in parte alla loro  «educazione», sì che essi non permangono, in massa, alle porte  dell'acropoli. Viceversa, la strategia puramente repressiva, di   ce viene criticata una modalità di controllo metapsicologica che adotta, a  priori ed unilateralmente, un approccio brutalmente repressivo, lacerante.   45 Cfr. rispettivamente: 1) 560a5: diepbtbaresan: kolazein te  hai doulousthai; anche: douloumenos;  kolazomene kaipaideuomene apallattesthai; anche: apallaxeien; bia katechei oupeitho oud'henieron logo. messa in schiavitù, lascia intonso il potenziale energetico dei  desideri; è questa la via che conduce prima al democratico, poi'  alla mania del tiranno.   In conclusione, l'eventualità che anche nei moderati emergano oniricamente i desideri paranomoi si lascia intendere come se, piuttosto che singoli desideri incatenati che premono  ininterrottamente alle porte dell'acropoli, siano gli ethe originari e costitutivi dell' ' epithymetikon a riuscire talvolta ad approfittare di una certa eccitazione pre-notturna e del sonno del logistikon per mostrare le strutture universali, esse stesse «inconsce», che generano e sospingono in avanti i singoli desideri  paranomoi - come sarà poi per l'Es, non solo per i singoli desideri rimossi, di Freud -, Al di là di ogni modalità di controllo  adottata e adottabile, siano pure le più persuasive, il sogno mostra che è impossibile sradicare definitivamente la «specie» dei  desideri paranomoi in quanto tale, parte propria di quella «bestia policefala», tremenda e selvaggia, che abita ogni uomo, e fa  sentire, di tanto in tanto, la sua minacciosa presenza, «anche in  quei pochi di noi che sembrano essere del tutto moderati». Jaeger scrive che siamo di fronte alle  «regioni istintive subcoscienti dell'anima»; cfr. nello stesso senso Kenny [citato da Grice, VOLITING – “INTENTION AND UNCERTAINTY”]; Vegleris; Janke, AAH0ELTATH TPAmiMA, «Archiv fiir Geschichte der Philosophie. Anche Freud opera del resto una distinzione  tra singolo desiderio rimosso e strutture «istintuali», innate ed «inconsce»  dell'Es, cfr. Freud, Compendio di psicoanalisi;  L’uomo Mosè e la religione monoteistica; Id.,  Metapsicologia; sulla differenza tra individuo e specie cfr.  Id., Dalla storia di una nevrosi infantile, voi.   47 Cfr., per es., S. FREUD, Introduzione alla psicoanalisi, tutti gli uomini hanno questi sogni perversi, incestuosi e omicidi», e Id., Alcune aggiunte d'insieme alla Interpretazione dei sogni, I  miei rapporti con Popper-Lynkeus; Gould. Sostengono apertamente l'universalità dei desideri paranomoi, tra gli  altri, Guthrie, A History ofGreek Philosophy, IV: Plato, Cambridge Dal sogno alla realtà: derive psicopatologiche   Se ritorniamo alla degenerazione caratteriale, è facile ora  riconoscere come rispetto alle modalità intrapsichiche di contenimento del desiderio l'approccio univocamente repressivo  alle epithymiai sia il principale responsabile della deriva psicopatologica. La rottura dell'armonia intrapsichica, condizione necessaria dell'integrità, salute e euàaimonia individuale assicurata dal  governo del logistikon, ha inizio con il carattere timocratico,  che colloca sul trono dell'acropoli lo thymoeides. Se egli non rappresenta ancora una figura patologica in senso stretto le conseguenze del defenestramento si  fanno però sentire nella figura immediatamente successiva: il  carattere oligarchico, dominato ormai dai desideri necessari  dell 1 ' epithymetikon, non trova altra strada che reprimere e mettere in schiavitù gli altri desideri. Così facendo egli però non risolve ma acuisce la scissione e la lacerazione intrapsichica: «un  simile uomo non potrà dunque esser libero da conflitti interiori, e non sarà uno ma in un certo senso doppio. In  negativo: «la vera virtù, quella della psyche concorde a armoniosa, fuggirà via lontano da lui.   La stessa strategia repressiva è adottata dal giovane figlio  democratico. Anche lui, dunque, si impegnerà a governare  con la forza quei piaceri che vi insorgono chiamati non; BlRAL, L’ACCADEMIA e la conoscenza di sé, Bari. KAHN; Klosko, The "Rule" of Reason in Plato s Psychology, «History of Philosophy Quarterly;VoiGTLÀNDER;  Lear, con linguaggio freudiano scrive che anche nel migliore dei casi nella  psiche vi saranno sempre desideri paranomoi da rendere inoffensivi o da rimuovere. L'approccio duramente repressivo mostra in questo caso la sua nefasta  presenza nell'interazione psyche-polis: i timocrati sono «educati non con la  persuasione ma con la forza. Necessari. Bice Sri kou oinoc, ap^cov xcòv év anta»  èSovcòv), In questo modo però, se talvolta alcuni desideri vengono distrutti, talaltra invece proliferano «inconsciamente»,  rafforzandosi fino alla conquista dell'acropoli. Saranno allora  «i discorsi cialtroni» di cui si fanno scudo a «chiudere le porte  della regale fortezza» a più miti consigli e ad «esiliare il pudore. 30 Solitamente, tuttavia, superata la lacerante  fase adolescenziale, l'uomo democratico riequilibra parzialmente i suoi desideri e richiama a sé alcuni degli elementi in  passato sconsideratamente «esiliati. Il passo che porta alla mania tirannica, nell'arbitrario determinismo degenerativo disegnato da Platone, è però ormai  cortissimo: l'Eros tyrannos, che raccoglie intorno a sé l'intero  sciame dei desideri paranomoi, facendosene «capo» e «guida», e quelle opinioni che gli fanno da «scorta», si liberano definitivamente «dalla schiavitù», mentre prima, quando  egli «si autogovernava in modo democratico, esse [le opinioni]  si liberavano solo in sogno, nel sonno. 51 Le catene della schiavitù sono state spezzate:   Ma sotto la tirannide di Eros, divenuto in ogni momento della sua vita da desto quello che raramente gli capitava di essere in sogno, non  si asterrà da alcun tremendo assassinio né da alcun cibo né azione.   L'uomo tirannico è «colui che da sveglio è proprio come  l'avevamo descritto nei suoi sogni. Dal punto di vista della fenomenologia degenerativa questa figura è dunque  dovuta, a livello psicodinamico, al «ritorno» di un represso che  scavalca le barriere oniriche: si transita dall'appagamento oni- [Cfr. anche Lear. La comparsa dell'uomo democratico è, in linea di principio, il ritorno del represso nella generazione  successiva»; sull'oligarchico. Se sono le opinioni che si liberano dalla schiavitù, è però l'Eros con i  suoi desideri a riempire di contenuti sia le manifestazioni oniriche sia le azioni  dissolute del tiranno.   rico a quello reale dei desideri repressi, dall'estemporanea rappresentazione della loro soddisfazione nel teatro dell'immaginazione alla conquista permanente dell'acropoli. L'Eros «spadroneggia» ora incontrastato, «governa ogni  settore della psyche abitandovi come un tiranno. I rapporti di forza della psyche-polis vengono  nuovamente ribaltati: è l'Eros a «sopprimere e scacciare fuori  di sé i desideri e le opinioni oneste. Tirannia che  genera una profonda lacerazione, un'espropriazione della volontà. Il soggetto è in balìa dei suoi desideri più selvaggi, rafforzatisi al grado estremo, ne ha perso ormai completamente il controllo e, messo all'angolo dalla loro inappagabile  ed ininterrotta pressione, «ogni giorno e ogni notte», ne cade  preda. Siamo alla mania: l'uomo tirannico è «reso folle dai  suoi desideri e amori. Riepilogando, dal punto di vista intrapsichico il processo  di degenerazione avviato dal defenestramento dell'armonico  ed armonizzante logistikon e concludentesi con la tirannia dell'Eros si configura, perlomeno nelle sue ultime tre fasi, quale  risultato di un approccio brutalmente repressivo del materiale  epithymetico. La repressione permette difatti la permanenza e  il rafforzamento «inconscio», accertato grazie all'analisi dei  processi onirici, dei desideri repressi, i quali, una volta rinvigoritisi, riescono a penetrare nell'acropoli, generando stati psicopatologici di lacerazione, frammentazione, dispersione ed  espropriazione maniacale. Dalla nostra prospettiva psicodinamica è dunque a tale strategia di controllo che deve essere attribuita la più grave responsabilità della fenomenologia degenerativa. Sul doppio livello psico-politico della «schiavitù» e sulla metameleia,  cfr. GlGON, Die Unseligkeit des Tyrannen in ACCADEMIA Staat,  “Museum Helveticum”. all: navvo|iévcp imo èniQv\ii&v te k<xì épcÓTCOV. L 'altra via: la canalizzazione ACCADEMIA, LA REPUBBLICA La strategia antitetica alla repressione è quella della persuasione e educazione del desiderio. L'architrave metapsicologico sotto il quale si dispiega tale modalità è rappresentato dall'adozione di un modello pulsionale "idraulico" che assicura  all' epithy mia, e all'eroi-, una intrinseca malleabilità.   Uepithymia, anzi le epithymiai dal punto di vista dinamico  si delineano quale forza fluida, canalizzabile, come emerge limpidamente nei libri: «Sappiamo che quando le epithymiai di una persona si concentrano con forza in una sola direzione, esse ne risultano indebolite nei riguardi di tutto il resto,  come una corrente lì incanalata. Così, prosegue L’ACCADEMIA, in  quella persona in cui esse (le epithymiai) sono rivolte agli studi  e a ogni attività simile, esse riguarderanno, credo, il piacere  della psyche per se stessa e trascureranno i piaceri del corpo»,  come accade nel philosophos. Se, allora, si considera non Yepithymia nella sua fenomenica e contingente singolarità, si tratti di specifici desideri necessari, non necessari  e/o paranomoi, ma le epithymiai nella loro plurale unitarietà,  esse risultano essere una forza energetico-pulsionale unitaria,  canalizzabile verso mete diverse, anche opposte, secondo un  modello economico. Anche da qui l'insistere di Platone, a  monte, piuttosto che sui contenuti specifici, sulle strategie di  gestione del materiale epithymetico.   Questa è la ragione, dalla nostra prospettiva psicodinamica, con la quale si spiega perché l'estensione metapsicologica  della tripartizione poteva coniugare esplicitamente, in modo simultaneo e complementare, piaceri, desideri e  governi: ogni parte, in conformità con la sua natura intrinseca,  «ha» dei desideri specifici, ma essi possono essere preservati,  rinforzati e quindi soddisfatti soltanto in virtù dell'egemonia  intrapsichica raggiunta dalla singola istanza anche perché le     Resp.: lóonep pev\ia éiceìae àjicoxexE'Uiiévov. COMMENTO AI LIBRI VHI E epithymiai sono una risorsa unitaria e limitata. Modello  rafforzato, descrittivamente, da una sorta di estremizzazione  erotico-caratteriale operata da Platone: si tratti del filosofo o  meno, chi «ama» veramente una cosa la «ama in tutta la sua  forma, come chi «desidera qualcosa la desidera  in tutta la sua forma. Estremismo che conforta la  tipologia caratteriale del libro Vili. L'integrazione tra queste due dimensioni, psicodinamica e  caratterologica, è, infine, rinsaldata dall'eros: unità di misura  comune à tutti i tipi, dal filosofo, letteralmente erastes della verità, 57 aìl'erotikos e al tirannico. La stessa contrapposizione  strutturale tra repressione e canalizzazione risulta così radicalizzarsi nel nome dell'eros. Ai due estremi: su un versante scorre il fiume impetuoso dell'eros tyrannos, ove confluiscono i terribili desideri paranomoi, che trascina il soggetto verso il mare  .aperto deìl'adikia; sul versante opposto si distende l'intensa ma  benefica corrente epithymetica dell'eros filosofico, la sola forza  psichica che in virtù della sua potenza può supportare la lunga  navigazione che permette infine di approdare nel porto sicuro  della dikaiosyne. 38   In conclusione, posta la permanenza di specie di desideri  stabili, indissolubilmente legate alle tre istanze di riferimento,  come quella dei desideri paranomoi, dalle quali non si può mai  svincolarsi del tutto, una parte cospicua del materiale epithymetico, decisivo rispetto agli equilibri o squilibri dei rapporti   56 Cfr. in questo senso anche J. ANNAS, An Introduction to Plato's 'Republic', Oxford -Sulla centralità psicologica, etica e politica dell'eros e la possibilità di  una sua «canalizzazione» o «sublimazione» nella Repubblica ma anche nel  Simposio e nel Fedro cfr. M. VEGETTI, Quindici lezioni su Platone, Torino, Rimarca la necessità di non confinare l'eros nella dimensione subconscia L.H. CRAIG, The War Lover. A Study of Plato's 'Republic', Toronto «a psychology that confines eros to the sub-rational parts of the soul most definitely falls short of the truth. LA REPUBBLICA  di forza intrapsichici complessivi, è intrinsecamente trasformabile, manipolabile. E questa l'energia pulsionale, in gran parte  riconducibile all'universo dell'eros, che non è solo possibile ma  doveroso utilizzare, canalizzandola verso nobili mete, anziché  tentare, inutilmente ed invero assai pericolosamente, di annientarne il potenziale con strategie brutalmente repressive. E  questo lo snodo cruciale di fronte al quale vediamo divaricarsi  i due approcci fondamentali, le due strategie basilari di controllo del desiderio adottate da Platone: repressione versus canalizzazione, violenza versus persuasione, schiavizzazione versus educazione. È questo il bivio dal quale si può imboccare la  via che conduce all'armonia, alla salute, all' 'eudaimonia e alla giustizia del filosofo, o invece il cammino psicopatologico che sbocca, da ultimo, nella mania del tiranno. L'uomo massimamente ingiusto, infelice, malato, espropriato, travolto da una  massa di epithymiai feroci, incontrollabili, ormai liberatesi dalle catene di quella schiavitù che le relegava al di là dei confini  della coscienza, sottraendole ad ogni controllo diretto e permettendo così il rafforzamento fino al massimo grado, e quindi  l'esplosione finale del loro devastante potenziale.  Alberto Radicati, conte di Passerano e Cocconato. Keywords: implicature della morte, eros e tanatos, amore e morte. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cocconato” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Coco: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del mutuale prevalente – il contratto di carattere mutuale prevalente – scuola di Crotone – scuola d’Umbriatico – filosofia crotonese – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Umbriatico). Filosofo crotonese. Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Umbriatico, Crotone, Calabria. Grice: “Typically, while in the Italian North, Conte can play with words, in the Italian South, Coco must work for the workers! Is conversation a work? I think so – lavoro – In the ‘codice civile’ or rather the ‘codice’ of the civil laws – there is a section on ‘lavoro’, and a title on ‘co-operativa’, short for ‘cooperative society’ – This is all due to Coco – It sounds slightly fascist, and he did write a little tract with ‘fascist’ in the subtitle! – Coco is a performativist, so he understands that ius must ‘constitute’ and define: so he goes on to analyse what I’ve been analysing too – what is to cooperate – in a common task or ‘lavoro’ – what is ‘mutuality’ – what are the requirements for mutuality, and so on – It’s not as legalese and boring as it sounds! And it provides a framework for my pragmatics – since a lawyer, and especially a Griceian one, can be VERY SMART! Coco is!” -- Dal punto di vista sistematico molto vicino alla visione del grundnorm, teoria da Kelsen. Si laurea a Napoli. Sostituto procuratore del Re a Cassino. La Regia Procura di Roma. Procuratore Generale presso la Corte d'appello di Roma. Fondatore dell'Ufficio del Massimario. Insegna a Roma. Noto soprattutto per aver partecipato ai lavori di stesura del nuovo codice civile italiano nonché del codice di procedura civile, entrambi entrati in vigore nel 1942. Si occupa prevalentemente della stesura di leggi in materia del contratto, obbligazione, e diritto del lavoro. Altre opere: “Gli eclettismi contemporanei e le lezioni di filosofia del diritto” (Lagonegro, M. Tancredi et Figli); “La filosofia del diritto”; “Una quistione di diritto transitorio in tema di farmacie” (Milano, Società Editrice Libraria); “Sull'ultimo capoverso dell'art. 375 del codice penale” (Milano, Società Editrice Libraria); “Luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra” (Cassino, Soc. Tip. Ed. Meridionale); “Per la tradizione giuridica italiana” (Milano, Società Editrice Libraria); “Saggio filosofico sulla corporazione fascista” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Sulla costituzione di parte civile delle associazioni sindacali” (Roma, Edizioni del diritto del lavoro); “Corso di diritto inter-nazionale (recensita da Santi Romano, seconda edizione riveduta ed ampliata, Padova, MILANI); “Intorno alla pre-giudiziale penale nel giudizio del lavoro” (Roma, U.S.I.L.A.); “Raffaele Garofalo” (Napoli, SIEM); “Il contratto collettivo di lavoro e la impresa cooperativa” (Roma); “Una inchiesta sulla criminalità” (Napoli, SIEM). Annuario Camera dei fasci e delle corporazioni. Rivista penale. Rassegna di dottrina, legislazione, giurisprudenza, Roma, Libreria del Littorio, Rivista di diritto pubblico. La giustizia amministrativa, Roma, Società per la Rivista di diritto pubblico e la Giustizia amministrativa, Una vita per il Diritto Giusto, La giustizia penale. Rivista critica settimanale di giurisprudenza, dottrina e legislazione, Società editoriale del periodico La giustizia penale, Tale trasferimento avvenne per via di un suggerimento pervenutogli al Re dagli allora procuratori presso la Corte d'appello di Napoli Salvatore Pagliano e Giacomo Calabria. La giustizia tributaria. Dottrina, giurisprudenza, legislazione, Città di Castello, Società tipografica Leonardo da Vinci. Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, Cfr. Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia, La scuola positiva. Rivista di diritto e procedura penale, Milano, Vallardi. Nominato pretore di Lagonegro. Pretore di Moliterno, assume in seguito le funzioni di sostituto procuratore a Cassino. Venne trasferito a Roma presso la Procura. Presidente di sezione della Corte Suprema di Cassazione, oltre che Professore di Filosofia del diritto. Dotato di una solidissima dottrina e di un rigorosissimo lavoro applicativo, partecipa ai lavori per la stesura del Codice Civile e del Codice di Procedura Civile.Cura vari aspetti della normativa: contratto, obbligazione, diritto del lavoro. Una delle sue grandi doti è quella di riuscire a non farsi condizionare dal regime dell’epoca. Non accetta la candidatura in parlamento offertagli dai suoi conterranei della Calabria. “Una Vita per il diritto giusto” si lascia leggere con piacere, in diversi passaggi si incontreranno i tratti che lo hanno contraddistinto come uomo, come magistrato e giurista, troveremo, inoltre, la sua attività di ricerca e di elaborazione teoretica. Sotto il profilo sistematico si accosta alla visione di Kelsen per quanto riguarda l’ordinamento e le codificazioni, nonché, proprio per la ricerca e per l’identificazione di una grande norma fondamentale. Dal punto di vista epistemologico, rappresenta la condanna dell’ideologia e della prassi delle scomposizioni in una galassia di frammenti superficialistici. Lo sguardo al pensiero C. ci consente anche di sottolineare la sua analisi critica, egli non si ferma alla semplice stigmatizzazione della responsabilità oggettiva nei confronti del singolo. Prende spunto da queste aberrazioni per sottolineare come all’accanimento contro la condotta individuale della persona fisica non corrispondesse eguale severità verso gl’atti illeciti e dannosi della pubblica amministrazione. Scrive “la responsabilità della pubblica amministrazione”. -- è stato anche filosofo e storico al tempo stesso. Un’uomo molto impegnato nel suo lavoro che ci sembra doveroso ricordare. Dal padre, persona di cultu¬ra, ricevette i primi rudimenti di storia, letteratura, e filosofia, che si ritroveranno, successivamente, in taluni suoi saggi filo¬sofici su AQUINO (si veda). Inizia la carriera giudiziaria come pretore di Lagonegro. Divenne Pretore di Moliterno, per assumere successivamente le funzioni di Sostituto Procuratore del Re a Cassino. Trasferito a Roma, presso quella Regia Procura, col viatico di rapporti ol¬tremodo favorevoli e lusinghieri dei Procuratori Generali Pagliano e Calabria della Corte d’Appello di Napoli, dove vi permarrà per passare alla Procura Generale presso la Corte d’Appello. Ottenne la nomina a Procuratore Generale del Re presso la Corte d’Appello di Cagliari, ma non ne assumerà di fatto la titolarità. Chiamato, invece, a presiedere il Tribunale Supremo delle Acque, era Presidente di Sezione della Corte Suprema di Cassazione. Il giornale “Il Tribunale”, pubblicazione mensile edita a Roma, lo sa¬luta a tale nomina. È della nostra famiglia, di quell’aristocratica famiglia giornalistica, alla quale non disdegna di apparte¬nere, nonostante l’altissimo grado che ricopre nell’ordine giudiziario, oggi lieti di salutarlo, insieme con quello forense, Presidente di Sezione della Suprema Corte. Noi lo abbiamo visto nella Corte di Cassazione sin dagli anni ormai lon¬tani della sua felice unificazione. E stato, infatti, tra i fondatori e promotori di quell’Ufficio del Massimario che raccoglie il vasto e prezioso materiale giurisprudenziale della Suprema Corte. Non appena conseguita la promozione al grado IV°; ha ricoperto la carica di Consigliere, partecipando attivamente alla fun¬zione giudiziaria di così eminente consesso. Ci asterremo, di proposito, da ogni aggettivazione che non sa¬rebbe di buon gusto né riuscirebbe gradita al nostro Amico e collaborato¬re; non possiamo, peraltro, esimerci dal ricordare fra le benemerenze e il titolo di Professore di Filosofia del Diritto nel¬la Scuola di Perfezionamento di Diritto Penale né l’altro, per noi particolarmente caro, di Redattore Capo della Rivista di Diritto Pubblico. La recente nomina, se indubbiamente costituisce un nuo¬vo riconoscimento dei meriti di così eletto Magistrato, rappresenta però un onere, che si aggiunge all’onore di così ambita carica. Ma l’accoglierà di buon grado, assolvendo anche dal nuovo seggio presidenziale le delicate funzioni giudiziarie, alle quali porta il va¬lido contributo della sua competen¬za, ma soprattutto una grande se¬renità ed equanimità. Riguardo ai meriti illustrati dall’articolo dell’epoca, c’è da dire che il suo cursus honorum non è stato caratterizzato soltanto da so¬lidissima dottrina e da rigorosissi¬mo lavoro applicativo, ma anche dalla partecipazione costante all’e¬voluzione dell’ordine giudiziario, e tappa importante in tale attività, fu la Sua nomina a membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ossia dell’organo po¬litico e politico-amministrativo, anche se in base alla legislazione dell’epoca il Consiglio Superiore della Magistratura non aveva ancora il potere e l’importanza che la Costituzione e la successi¬va normativa di attuazione gli die¬dero. Ancora, circa la indicata fondazione del Massimario civile della Corte di Cassazione Unificata va detto che Lui effettivamente fu tra i principali ideatori; era, quello, un periodo di grandi innovazioni, perchè all’atto dell’Unità d’Italia, oltre alla Corte di Cassazione di Torino esistevano quella di Firenze nonchè le due Corti Supreme di Giustizia di Napoli e di Palermo (che assunsero anch’esse la denomina¬zione di Corte di Cassazione). Con la legge, vennero soppresse le Corti sopra indicate, mentre quella di Roma fu trasfor¬mata in Corte di Cassazione del Regno. Fu titolare dell’insegnamento di filosofia a Roma. In questo ambito, svolse attività accademica per quel periodo che vide la Scuola annove¬rare i più bei nomi della dottrina penalistica italiana, le cui teorie risultano, ancora oggi, alla base della trattatistica più importante. Altro aspetto rilevante della sua eccezionale figura di giurista, come si rileva da un saggio del nipote dell’alto Magistrato, che porta con orgoglio lo stesso nome, il Professore Nicola Coco, dell’Università di Roma “La Sapienza”, è costituito dal coerente ri¬ferimento alla legalità, cioè allo stato e all’ordinamento giuridico quali unica garanzia di contratto sociale. Per questo, il periodo che va dal primo dopoguerra all’ av¬vento del fascismo, costituisce una parentesi temporale di efficace e prorompente elaborazione delle basi di quel diritto del lavoro e sin¬dacale, o “giuslavorismo”, costi¬tuendo davvero una novità assolu¬ta nelle scienze giuridiche del tem¬po. Così, quando si verificheranno gravissime crisi socio0eco¬nomiche che metteranno a rischio l’assetto della produzione, la poli¬tica e i sindacati troveranno i loro punti d’incontro nel noto Statuto del Lavoratori, una ri-edizione ag¬giornata delle linee guida tracciate, agli inizi del “secolo breve”, dai primi “giuslavoristi”, tra i quali ap¬punto C. Altro aspetto qualificante del giurista è l’aver concorso alla stesura del Codice Civile, ai cui lavori preparatori, dai Ministri Solmi e Grandi (che è il sottoscrittore anche del Codice di Procedura Civile, emanato anch’esso, furono chiamate le più belle e fertili menti di magistrati e giuristi. Cura vari aspetti della normativa (il contratto, l’obbligazione, diritto del lavoro), tant’è, che nell’immi¬nenza della promulgazione, il Ministro Grandi gli inviò una lettera personale di ringraziamento per il prezioso contributo offerto per il codice. Sua vita coincide con l’immane conflitto mondiale, con la guerra civile e con la scia di vendette e iniquità che ne conseguirono. Dopo la fuga del Re e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana, viene invitato ad assumere la Presidenza della Corte di Cassazione trasferitasi a Brescia e fors’anche la carica di Ministro Guardasigilli, ma egli fermamente rifiuta. Ha, nono¬stante tale ferma presa di posizione nei confronti del regime fascista, sulla base di taluni articoli che ave¬va scritto su “Il Messaggero” di Perrone, di commento a leggi e que¬stioni giuridiche di alto livello, ovviamente di epoca fascista, l’occhiu¬ta Commissione di epurazione, su decine di articoli scritti in una plu¬ridecennale collaborazione, ne sco¬va qualcuno che suona come apologetico del Fascismo. Nulla di più falso, quando era nota a tutti la dirittura morale del magistrato in¬tegerrimo, del quale va appena ri-cordato, ammesso ve ne fosse biso¬gno, che la sorella del Duce, Edvige Mussolini, gli fece pervenire solle¬citazioni per una causa che la inte¬ressava. Ebbene, Coco pro¬cedette secondo coscienza, quindi non nel modo auspicato dalla sorella del Duce! L’epurazione ingiusta, nella quale probabilmente influirono anche motivazioni non occulte di gelosia e invidia da parte di taluni, soprattutto per il fatto che per me¬riti poteva benissimo aspirare alle funzioni di Primo Presidente della Suprema Corte, ne mina rapida¬mente le condizioni di salute. Negli ultimi mesi non volle proporre ri¬corso contro i provvedimenti che lo avevano colpito e rifiuta cortese¬mente anche una candidatura in Parlamento, per le elezioni, che i conterranei di Calabria gli avevano offerto con affetto e ri¬conoscenza. Spira serenamente, non mancando nel suo testamento di perdonare cristiana¬mente quanti gli avevano provocato tanto immeritato dolore. Codice Civile. Del Lavoro. Delle societa cooperative e della mutue assicuratrici, delle societa cooperative – disposizione generali – cooperative a mutualita prevalente. Articoli: societa cooperative; societa cooperative a mutualita prevalente, criterio per la definizione della prevalenza, requisiti delle cooperative a mutualita prevalente. Del Lavoro. Le Società di MUTO SOCCORSO in Italia. Gobbi, nel suo pregevole saggio Le Società di MUTUO SOCCORSO – cfr. Grice, the principle of conversational (i. e. mutual) helpfulness -- dice che il nome di società di MUTUO SOCCORSO è comunemente assunto d’associazioni, le quali hanno per loro scopo principale di dare ai soci sussidi in caso di malattia o in altre eventualità che interessino la loro famiglia o l’esercizio della loro attività economica, ricavando i mezzi all’uopo principalmente da contributi dei soci stessi. Considerato così il carattere economico-sociale dei sodalizi muralisti, non possiamo sicuramente affermare che le prime traccie di essi si riscontrino nelle antiche corporazioni d’arti e mestieri, nelle maestranze, nei collegi, nelle università. Queste associazioni si proponeno scopi di difesa professionale, di perfezionamento nell’arti esercitate dagl’associati. Qualche volta, in via secondaria, l’esercizio di pratiche religiose; e spesso assumeno importanza politica di prim’ordine e conferivano dignità nobiliare, come nell’arti della repubblica di FIRENZE. Abbiamo però nel nostro paese esempi di società mutualiste scaturite dal vecchio tronco della corporazione o del collegio, o meglio che'di questo possono reputarsi trasformazione. Così e non altrimenti noi possiamo considerare la società fra i falegnami e fabbri di Faenza; l’altra pure di Faenza fra calzolai ed arti affini; la società veneta Sovvegno Calafati al R. Arsenale; la Società Calafati del porto di GENOVA; la Società dei Cappellai di Padova; il Consorzio degli Orafi ed Argentieri capi d’arte di Roma. Nè diverso giudizio possiamo recare sui sodalizi che sorsero nel secolo decimosettimo e nella prima metà del decimottavo. E questi sono: la Società dei calzolai di Cesena; le due Società Maestri falegnami, ebanisti e carrozzai e fra falegnami ed arti affini di Torino; la Società fra carrozzai, sellai, fabbricanti di Torino; la Società fra calzolai padroni di Asti; la Società Archimede fra operai fabbri, meccanici ed affini e fra fabbri ferrai e serraglieri (proprietari di officina) (1700); la Confraternita Sovvegno fra israeliti di Padova; le Società Riunite Sovvegni spagnuoli e tedeschi di Venezia; il Pio Istituto lavoranti Milano, Società editrice libraria, pellai di Torino; la Società Cocchieri e palafrenieri di Torino. Quantunque sorta nel 1738, la Unione Pio-Tipografica Italiana di Torino può dirsi la prima che abbia assunto dalle sue origini e poi meglio perfezionati con successivi adattamenti, i caratteri del mutuo soccorso. Essa fu approvata con Regie patenti e poi nel suo riformato organismo con Regie patenti 28 settembre 1770. E ira i sodalizi che sorsero nella seconda metà del secolo decimottavo e possiamo considerare, al pari della Unione Pio Tipografica di Torino, come le più antiche Società di mutuo soccorso, meritano particolar menzione: la Pia Unione fra lavoranti calzolai di Torino del i/54 e la Società dei Servitori di Faenza T . 1 -^ a s ? c °nda metà del secolo decimottavo sorsero quindi in rippnr, • P rim ? Società di mutuo soccorso, secondo il concetto moDaese affe[>m are che di buon'ora si manifestò nel nostro Fara il^KfrfSr? 11 6 J° Uta A } P rev idenza sociale. Ed è cosa singoconcettn°df nnl a Che ’ “® ntre secoQdo la evoluzione logica del Sassari dalIe, f orme più semplici di essa dovrebbe videnza tipIIa lesse, il risparmio, forma primigenia della pre previdenza mutuaPs/nT 116 0I ! ganicile . sorse in Italia più tardi della Hlllacoo^fonì qUale C r blna * due elementi del risparmio auanrìn <yìà ^ !• ^ prime Casse di risparmio sorsero nel 1822, litaria, la quale si esu M, Jl ns P arm io, che è virtù so adatto a raccoglierlo duò P«p.»?r ma - pa e ® e quando trova l’organo domestiche, ed in questa anche nel segreto delle pareti quanto l’economiaVonetaria dp? 0 ^^^ fumare che esso è antico che l’atto primo deTsodalizfo ? 10va inoltre considerare contributo che versa il socio 1Sta + e Un atto dl ris P a nmio; il fini della mutualità, rappresenta La - 1 fondi occorren ti ai “lata, sottratta alle spese vofottSie sp t np dei SU01 guadagni risparoccorre per i bisogni della vita 6 6 n pUre risecata su quanto me„fo 0 U“liX a .S a m m uta 4,I?5', ’ ec ?l° 1 . d!,olmo " 0 no rapido l'inoroprimo dofsecoli“orsòrKtcietó Fi ” 0 al società di MUUO SOCCORSO. di dii Gl0va rammentarle dl Bergamo . Pr« ’camnen*»! !’ ls p. tut0 n | armoniTo’dS el Teatr’f) 1 r?Ìni SU Ì“ t ^ municipale Simoiie Mayr ano. la Pia Unione tessitori in seta areento l a Società di M. S. fra cap’ aigento e oro di Tonno; nel 1884, la Società Assieme a’gli altri benefici di ordine politico e 'sociale che la unificazione del Regno ci recò, dobbiamo segnalare anche il rapido incremento nelle Società di mutuo soccorso. Durante il periodo della prima metà del secolo decimonono solo 48 Società nuove videro la luce, come abbiamo veduto. Al 31 dicembre 1885, cioè dopo 35 anni soltanto, la statistica a quella data denunzia la esistenza di 4896 Sodalizi e ah 31 dicembre 1894, dopo nove anni, ne troviamo 6722, con un aumento di 1826. Vedremo in seguito quante e di qual forza siano quei sodalizi al 31 dicembre 1904, secondo la recente statistica, pubblicata dall’Ispettorato Generale del Credito e della Previdenza. Le Società di mutuo soccorso italiane, nella loro generalità, sono associazioni che esercitano in modo prevalente funzioni di carattere assicurativo col principio della mutualità, aggiungendo spesso a queste altre funzioni accessorie dirette ad accrescere le forze economiche e intellettuali e morali dei soci. Fra le funzioni di carattere assicurativo ha prevalenza in tutte l’assicurazione di un sussidio in caso di malattia. Spesso vi si aggiungono le spese funerarie in caso di morte ed un sussidio una volta tanto ai superstiti. I sussidi di malattia sono commisurati ai contributi, spesso con calcoli empirici, qualche volta alla stregua di previsioni tecnicamente calcolate. Quasi tutte le Societàc he concedono sussidi di malattia, per conseguire il diritto al sussidio fissano un periodo di tempo dall’ ammissione, che comunemente chiamasi periodo di noviziato. Sono poche le Società che accordano il sussidio subito dopo l’ammissione: 45 secondo l’ultima statistica (1); tutte le altre vanno da un minimo di un mese ad un massimo di 24 mesi, e ve ne ha 120 nelle quali il periodo di noviziato supera i 24 mesi. Ma il numero maggiore si condenza intorno al periodo da uno a 12 mesi: il 76 per 100 del totale. Non tutte le Società concedono il sussidio dal primo giorno della malattia, sono anzi pocchissime quelle che lo concedono; le altre fissano un periodo, che chiamono periodo di carenza, nel quale i soci non hanno diritto al sussidio. Il periodo di carenza è di ordinario di uno a tre giorni, ma giunge sino a dieci e per poche Società va oltre i dieci giorni. orefici ed arti aifiai di Bologna, la Società Sant’Anna fra i maestri muratori di Pinerolo; nel' 1835, la Società cocchieri e domestici di Sant’Antonio Abate di Verona; nel 1836, la Società •di M. S. fra parrucchieri di Novara, la Società di M. S. fra brentatori di Vercelli, la Società di M. S. fra lavoranti guantai, tintori e conciatori di pelle di guanto di Torino, la Società operaia di M. S. fra conciatori di Torino, la Società di M. S. fra parrucchieri di "Torino, la Società dì vi. s. fra barbieri, parrucchieri e profumieri di Bologna; nei 1444, il Pio Istituto di M. S. pei medici e chirurgi della città e provincia di Bologna, la Società fra medici e chirurgi di Lombardia in Milano, la Società di M. S. fra farmacisti, medici e veterinari di Parma, la Società lavoranti calzolai di Pinerolo, la Società di M. S. fra marinai pescatori di Trapani; nel 1846, la Società di M. S. dei medici-chirurgi della città e provincia di Ferrara, l’Istituto di M. S. fra medici, chirurgi e farmacisti di Roma e sua provincia, la Società mutua beneficenza di Citta di Castello; nel 1847, la Società di M. S. tra calzolai di Alba, la Società medico-farmaceutica di Padova, l’Unione operaia patriottica fratellanza di Asti, la Società Femminile di M. S. S. Bonifacio di Pinerolo, la Società Generale fra gli operai di Pinerolo, l’Unione per le malattie di Verona, la Federazione italiana fra lavoranti del libro (compositori) di Tonno; nel 1849, la Società di M. S. fra i pompieri municipali di Ancona ; nel 1764, la Università dei pescivendoli patentati di Roma Questi dati e i seguenti concernono le Società riconosciute soltanto, per la quale la statistica ha potuto registrare notizie più copiose. Si tratta quindi di osservazioni che concernono 1548 Società soltanto. Nè il sussidio è concesso per tutta la durata della malattia.Società soltanto sussidiano la malattia fino al suo termine; ma nelle altre assai raramente il sussidio va oltre i 180 giorni in un anno, e il numero maggiore si conta fra quelle che non vanno oltre 120 giorni La misura del sussidio di malattia per mo te Società (il 4-2 per 1001 rimane invariata per tutta la durata della malattia, in molte altre (il 50.4 per 100) varia, sia aumentando dopo alquanti giorni sia diminuendo. L’assicurazione obbligatoria contro gl infortuni del lavoro tutela oggi in Italia una larga massa di operai, ma non H tutela tutti: l’artigianato, la mano d’opera agricola, le industrie ohe non applicano macchine, sono ancora oggi fuori il campo dell assicurazione obbligatoria. E’ confortante perciò osservare nell azione dei nostri sodalizi muralisti, in via se pur vuoisi sussidiaria, un aiuto integratore pei casi di infortunio. Per quanto concerne la invalidità temporanea il numero maggiore delle Società (823 su 965) considerano questa agli effetti-del sussidio come una malattia ordinaria; le altre danno il sussidio in misura diversa. Piu scarso è il numero delle Società che danno sussidio in caso d’invahdita permanente (542), e il sussidio per alcune è determinato sia in un assegno una volta tanto, sia in forma continuativa;- per altre, e sono il numero maggiore, il sussidio è indeterminato, viene dato, cioè, secondo la entità e la disponibilità dei fondi sociali. E ancora in minor numero sono le Società che danno sussidi in caso di morte per fa,tto di infortunio sul lavoro (464 soltanto); e questi sussidi sono in misura determinata sotto forma di assegni per una volta o continuativi o di pensioni o di spese funerarie, o in misura indeterminata. Quantunque riferentisi alle Società riconosciute soltanto, hanno valore, come indice tecnico, i dati relativi ai casi di malattia sussidiati, ai soci sussidiati, alle giornate di malattia sussidiate ed agli oneri finanziari che ne derivano alla Società. Di questi dati ripor Per ogni Società, in media, sono sussidiati 45.1 soci all’ anno, per 52 6 casi di malattia e per 995.3 giornate di malattia, con una spesa media di 1007.02. Su 100 soci si hanno 29.1 casi di malattia, sussidiati e sono sussidiati 25 soci. Per ogni caso di malattia sono sussidiate giornate 18.7; e per ogni socio esistente sono sussidiate giornate 5.52. Questa media può rappresentare l’indice di morbosità nei soci delia Società di mutuo soccorso ed ha grande valore per il migliore ordinamento tecnico di questi sodalizi, per una più razionale corrispondenza fra i mezzi di cui dispongono e gli impegni che assumono con la promessa statutaria. La spesa media pei sussidi di malattia, annualmente, risulta di lire 5.64 per ogni socio esistente. Nell’ordine stesso del mutuo soccorso devono porsi i sussidi per spese funerarie di soci defunti. Molte Società provvedono direttamente alle spese funerarie, alcune concorrono con la famiglia alle spese stesse. Non sono infrequenti poi i casi di Società che danno sussidi alle famiglie dei soci morti sia una volta tanto sia in forma continuativa. Sono relativamente poche le Società che concedono sussidi di puerperio e di baliatico (l’8.9 per 100). Nè sono molte le Società che provvedono con sussidi ai soci disoccupati (il 6.5 per 5 100). Questi dati si riferiscono a tutte Società delle quali si occupa la statistica recente. Carattere degno del maggiore studio delle nostre Società muiualiste è di aver attinto alla forza delle loro organizzazioni per dar vita ad istituzioni cooperative a vantaggio dei propri soci. Questa geniale filiazione della cooperazione dal seno della previdenza mutualista fu rilevata ed illustrata dal Mabilleau in occasione di uno studio che, per conto del Musee Sociale di Parigi venne a fare in Italia delle nostre Istituzione di previdenza assieme al Conte di Rocquigny ed al Rayneri (1). La statistica recente ne dà una conferma luminosa. Nel quadro seguente è indicato il numero delle Società di Mutuo Soccorso che esercitano funzioni cooperative. COMPARTIMENTI Prestiti ai soci Magazzini di consumo Cooperative di lavoro Cooperative di credito Piemonte. 174 281 2 Liguria 19 15 Lombardia 233 46 1 Veneto 161 32 Emilia. 182 23 1 Toscana. 92 58 1 Marche 128 24 1 Umbria. 72 18 Lazio 63 2 . Abruzzi. 82 5 Campania. 150 10 Puglie 1 • 57 7 1 Basilicata. 27 Calabria 47 14 Sicilia. 95 17 Sardegna 15 Regno . .1597 552 5 2 Nella maggior parte dei casi non si tratta di istituzioni autonome fondate secondo le norme del codice di commercio, ma di i-ami di attività della stessa Società di mutuo soccorso operante coi fondi di questa. Le Casse di prestiti sono principalmente dirette al fine di produrre un maggiore rendimento coi fondi sociali, e quindi si comprende come esse siano in numero maggiore (il 24.9 per 100). I magazzini di consumo, che sul totale rappresentano 8 6 per 100 delle Società esistenti, primeggiano nel Piemonte, dove il 21.3 per 100 delle Società hanno annesso il magazzino di consumo, e merita particolare mensione quello della Società Generale operaia di .Torino, reso ancora più forte dalla alleanza con la Cooperativa di consumo dei ferrovieri. La Prévoyance Sociale en Italie - Paris, Armand Colin et C.« Editeurs Fra gli scopi accessori delle nostre Società mutualiste meritano poi particolare mensione quelli diretti alla istruzione dei soci; le Società vi contribuiscono mediante biblioteche, scuole serali o festive, scuole di disegno o industriali, ó pure mediante I’ assegnazione di premi, la provvista dei libri e così via. Altri scopi accessori sono il collocamento dei soci disoccupati^ ed alcune Società hanno annessi veri e propri uffici di collocamento; il conferimento di doti alle figlie dei soci; la costruzione di abitazioni operaie; la concessione dei sussidi alle famiglie dei soci richiamati sotto le armi. Nei riguardi della costruzione delle case operaie la legge del 1903 sulle case popolari contempla in modo particolare le Società di mutuo soccorso, dando ad esse facoltà di impiegare una parte dei loro fondi in costruzione di case pei propri soci. La legge vuole soltanto che le Società, le quali questa impresa intendono assumere, costituiscano una sezione speciale. E già sotto l’impegno di quella legge parecchie Società hanno chiesto ed ottenuto 1’ autorizzazione di intraprendere la costruzione di case Operaie. Un nuovissimo ufficio assunto delle nostre Società di mutuo soccorso è quello di promuovere la iscrizione, collettiva o individuale, dei soci alla Cassa Nazionale di providenza per la invalidità e la vecchiaia degli operai. Contiamo nel nostro paese Società le quali assicurano pensioni di vecchiaia tecnicamente calcolate: sono modelli del genere le due Società, maschile e femminile, di Cremona. E sonovi Società le quali non pensioni ma sussidi di invalidità o di vecchiaia promettono ai loro soci in misura e qualità corrispondenti ai fondi disponibili. E siccome le Società che corrispondono pensioni o sussidi' di vecchiaia ai soci hanno per tale servizio costituito un fondo speciale alimentato da speciali contributi o da avanzi di bilancio, la legge institutrice della Cassa Nazionale di previdenza consente’ a queste Società di versare alla Cassa i fondi così raccolti e le future contribuzioni, inscrivendo ad essa collettivamente i soci aventi diritto a pensione ed accorda a quei soci, segnatamente i più anziani, qualche maggior favore. Quel precetto della legge è provvido, contiene un germe che dovrebbe essere sviluppato, fecondato da nuove e più larghe concessioni per condurre i sodalizi mutualisti a divenire organi intermedi attivissimi fra l’operaio e la Cassa Nazionale, sull’esempio di quanto con maravigliosi risultati viene praticandosi nel Belgio. Alcuni credono che, per mantenere vivo lo spirito di fratellanza per aumentare gli elementi che fanno fiorire e cementano la solidarietà mutualista, sia opportuno conservare alle Società di mutuosoccorso il servizio di pensioni di vecchiaia, di perfezionarlo. Ed altri persuasi che quei sodalizi non possono coi soli contributi dei b^ C n t rni°HAi I ìr e i+ PenS10ni vec ?. hiaia sufficienti ai più elementari vorrebbero che una parte delle risorse assicurate - e i ^ preTld ® nza 0 nu °ve risorse affluissero a quelle Società che intendono mstituire o continuare un bene ordinato servizio di pensioni di vecchiaia. ordinato Io non posso, senza venir meno alle mie convinzioni, manifestate già in pubbliche conferenze, accogliere 1’ una tesi nè 1’ altra. Non occorrono lunghe considerazioni per dimostrare condannevole la prima. In un paese in cui è sorto un Istituto, il quale, con mezzi forniti dallo Stato, può assicurare pensioni di vecchiaia in misura superiore a quella cui possono provvedere istituzioni o sodalizi privati, si renderebbe un cattivo servizio ai lavoratori consigliandoli a preferire la cassa pensioni della Società mutualista cui appartengono. Nè si può ammettere che le inscrizioni dei soci di un gruppo operaio alla Cassa Nazionale rallenti i vincoli della fratellanza e della solidarietà. La Società, organo intermedio fra il socio e la Cassa Nazionale, non affievolisce perciò i suoi rapporti coi soci, anzi li afforza, procurando ad essi maggior vantaggio. E poi, come in tutti i fenomeni sociali ed economici, vi sono virtù compensatoci che colmano le lacune e riconducono rapidamente 1’ equilibrio per un momento turbato. La seconda tesi è pericolosa per le conseguenze cui condurrebbe: il fatale spezzamento delle forze le quali per dare il maggiore effetto utile devono convergere in un unico grande e solido organismo, nel quale soltanto può giuocare, in tema di assicurazioni, la legge così proficua dei grandi numeri. In un sistema d’assicurazione libera, nel quale, pure come nella obbligatoria, devono nécessariamente concorrere i tre elementi: lo Stato, il padrone, l’operaio, non si può ammettere che, accanto all’Istituto nazionale, il quale può funzionare e divenire centro potente di attrazione soltanto per la larghezza dei mezzi che gli si procurano, vivano Istituti privati e diano gli stessi buoni risultati anche procurando ad essi aiuti speciali e peggio ancora se questi vengono sottratti all’Istituto Nazionale, L’esperimento dell’assicurazione libera non può farsi che all’ombra di un grande Istituto verso il quale convergano le cure assidue dello Stato, la simpatia delle classi dirigenti, la fiducia dei lavoratori. La legge operò quindi saviamente quando volle associare alla grande opera dell’assicurazione per la invalidità e la vecchiaia degli operai le forze, le iniziative dei sodalizi mutualisti ; ed il legislatore farà ancora meglio se aumenterà gli stimoli, con un ben congegnato sistema di premi, per la iscrizione dei soci della Società di mutuo soccorso. Intanto sono salutari gl’incitamenti che l’amministrazione del grande Istituto adopera presso le nostre Società mutualiste, fu provvido il pensiero del Ministero di agricoltura, industria e commercio, il quale, con R. Decreto 19 marzo 1905, bandì un concorso a premi in danaro ed in medaglie d’oro e di argento da conferire a quelle Società di mutuo soccorso che al 30 giugno del corrente anno dimostreranno di avere contribuito efficacemente alla iscrizione dei propri soci alla Cassa Nazionale di previdenza. Di queste buone iniziative già si raccolgono copiosi i primi frutti. Sono molte le società che hanno inscritto collettivamente o procurato le inscrizioni individuali dei loro soci. Si hanno notizie precise di 73 sodalizi a tutto il mese di febbraio scorso. Queste 73 Società hanno inscritto alla Cassa Nazionale, 16,078 soci. Meritano particolare mensione: la Società di m. s. della ditta Ginori, di Sesto Fiorentino che ha inscritto tutti i soci (587); la Società Generale di m. s. per le operaie di Milano che ne ha inscritto 568; la Società operaia di m. s. di Modena che ne ha inscritto 519; la Società di m. s. di Molfetta. (Bari) che ne ha inscritto 512. 3.° La legislazione e la giurisprudenza. Le Società di mutuo soccorso sono regolate in Italia dalla legge 15 aprile 1886. Questa contempla però soltanto le Società Operaie. Il legislatore temè che con le forme assai semplici per il riconoscimento giuridico fissate nella legge, senza alcun controllo della potestà politica, potessero rivivere, sotto la specie dell’ associazione mutualistica. le soppresse corporazioni religiose e quindi volle che le Società composte di operai soltanto potessero chiedere ed ottenere il riconoscimento giuridico con il procedimento escogitato. La formula rigida della legge è stata però largamente temperata dalla giurisprudenza; la quale ha ammesso che possa considerarsi operaia una Società costituita in gran parte da operai. E così si è potuto ammettere anche nelle Società operaie l’intervento di soci benemeriti, di soci fondatori, che con largo concorso pecuniario esercitano il benefico ufficio del patronato. Le Società di mutuo soccorso non composte di operai possono ottenere il riconoscimento giuridico in base all’articolo 2 del codice civile, come enti morali, e seguendo le norme che all’ uopo furono tracciate dal Consiglio di Previdenza (1). Qui è opportuno rilevare che la giurisprudenza ha riconosciuto nelle Società di mutuo soccorso i caratteri dell’ ente morale. E quindi non ammette che in caso di scioglimento, il patrimonio sociale possa essere distribuito fra i soci superstiti,jjma debba essere devoluto a scopi afllni o in opere di beneficenza, e vuole che le Società di mutuo soccorso nello acquisto di immobili, nell’accettazione di doni o di legati siano autorizzate con decreto Reale, ai termini della legge del 1850 che contempla appunto enti morali. a uà, ^aucenena aei j naie Civile, depositando copia autentica dell’atto costitutivo e statuto. statuto. Le condizioni che la legge vuole adempiute sono soltanto le seguenti : 1. Le Società devono proporsi tutti o alcuni dei fini seguenti: assicurar ai soci un sussidio nei casi di malattia, di impotenza al lavorò o di vecchiaia ; venir in aiuto alle famiglie dei soci defunti. Possono inoltre; cooperare all’ educazione dei soci e delle loro famiglie ; dare aiuto ai sòci per l’acquisto degli attrezzi del loro mestiere ; esercitare altri uffici propri delle istituzioni di previdenza economica. 2. Gli statuti delle Società devono determinare espressamente; la sede dèlia Società; i Ani pei quali è costituita ; le condizioni, la modalità d’ammissione e di eliminazione dei soci; i doveri che i soci contraggono e i diritti che ne acquistano ; le norme e le cautele per l’impiego e la conservazione del patrimonio sociale ; la disciplina alla cui osservanza è condizionata la validità delle assemblee generali, delle elezioni e delle deliberazioni; la costituzione della rappresentanza della Società in giudizio e fuori; le particolari cautele con cui possono essere deliberati, lo scioglimento, la proroga della Società e le modificazioni degli sta-, tuti, sempre che le medesime non. siano contrarie alle disposizioni della legge. La concessione della personalità giuridica alla Società di mutuo soccorso è quindi secondo la legge del 1886, subordinata soltanto all’ esame estrinsero dell’adempimento delle condizioni dianzi indicate. Non si chiede come ne fn manifestato il proposito in alcuni disegni, di legge presentati prima che si giungesse alla legge del 1886, la dimostrazione tecnica della corrispondenza fra contributi e sussidi, non si impone l’impiego dei fondi sociali in determinate specie di investimenti. Deve però avvertirsi che la legge parla di sussidi e dalla discussione parlamentare risulta che si volle escludere pensatamente la parola pensioni, implicando un regolare servizio di pensioni necessariamente la dimostrazione di un ordinamento tecnico adatto allo scopo. Nè si può dire che la facoltà di corrispondere pensioni possa vedersi compresa nella formula della legge : « esercitare altri uffici propri delle istituzioni di previdenza economica ». Si tratta di una funzione che ha speciale importanza che non può essere esercitata senza un ordinamento tecnico preciso, che implica impegni a lunga scadenza e non si può in modo assoluto ammettere, tenuto conto anche della discussione parlamentare, che il legislatore abbia voluto concedere di straforo l’esercizio di una . così importante funzione. B la giurisprudenza ha confermato il pensiero del legislatore ammettendo che occorra una speciale concessione governativa per' esercitare il ramo pensióni di vecchiaia o di invalidità; concessione subordinata alla dimostrazione di un ordinamento tecnico che dia sicurezza per il mantenimento degli impegni assunti (1). Nelle norme preparate dal Consiglio della Prev^nza per a concessione della personalità giuridica mediante deci eto .R®* 1 ® a “® Società di mutuo soccorso non operaie, si chiede qualche cosa di più di quello che la legge del 1886 chiede alle Società operaie. Può sembrare a una prima impressione, che ciò costituisce una c0I1 ^ 10ne meno favorevole alle Società che non possono ottenere i 1 1 conoscimento giuridico altrimenti che con un atto del potere esecutivo. Ma ove si consideri che si tratta di Società fra persone che hanno qualche maggiore coltura, non sembrerà eccessivo chiedere ad esse una più razionale discriminazione negli scopi, qualche maggiore dettaglio negli Statuti. E nello stabilire quelle nome il Consiglio della Previdenza si è anche proposto l’obbiettivo d additarle ad esempio alle Società operaie. La legge chiede il minimo, e non può quinci escludere che si faccia di più e meglio. I vantaggi che la legge del 1886 consente alle Società di mutuo soccorso riconosciute sono i seguenti: esenzione dalle tasse di bollo e registro, conferita alla Società cooperative dell’articolo 228 del codice di commercio; esenzione dalla tassa sulle assicurazioni e dall' imposta di ricchezza mobile, come all’ articolo 8 della legge 24 agosto 1877, numero 4021; parificazione alle Opere pie per il gratuito patrocinio, per la esecuzione dalle tasse di bollo e registro e perla misura dell’imposta di successione o di trasmissione per atti ira soci ; esenzione da sequestro e pignoramento dei sussidi dovuti dalle Società ai soci. Gli obblighi delle Società registrate, come anche di quelle riconosciute con decreto Reale, si riassumono nell’invio del proprio Statuto al Ministero di agricoltura, industria e commercio e nelle comunicazioni allo stesso Ministero dei rendiconti annuali i quali sono compilati sopra moduli dal Ministero stesso forniti gratuitamente. Il Ministero esamina i rendiconti annuali e spesso dà buoni consigli per la migliore gestione del patrimonio sociale, mettendo in guardia il sodalizio contro la tendenza di spese suutuarie, per un più cauto impiego dei fondi disponibili. Nessun altra ingerenza il Ministero esercita nelle Società registrate, nè esercita ufficio di vigilanza sovra di esse, non potendo sottoporle ad ispezioni, scioglierne le amministrazioni, nominare Commissari Regi. Nè la legge del 1886 nè altre leggi, oltre i vantaggi di ordine fiscale, conferiscono alle Società di mutuo soccorso aiuti diretti o inni Il Consiglio di Previdenza non espresse divei del 1897, cosi concepita « Le Società di mutuo so< lità giuridica ai termini della legge del 15 aprile - -.-e pensioni, ossia rendite vitalizie jn^misuraJìssa e prestabi i una nota al modello di statuto spirano ad ottenere la personas possono proporsi di assi diretti dello Stato. I nostri sodalizi mutualisti vivono esclusivamente, o quasi, eccettuate le non frequenti obblazioni dei benefattori, attingendo le proprie forze alle contribuzioni dei soci. E ciò, a mio giudizio, costituisce il loro miglior vanto. Occorre però tener conto degli aiuti di carattere non continuativo e straordinario che vengono ad esse nei concorsi a premio e da sussidi speciali conferiti dal Ministero di agricoltura, industria e commercio. Nel campo dei concorsi a premio meritano particolare mensione quelli che una volta con alquanta frequenza indiceva la Cassa di Risparmio di Milano fra le Società di mutuo soccorso meglio ordinate. Nel 1882 fu bandito un concorso a premio, di lire 3000 (1500 offerte dal comm Besso e 1500 date dal Ministero) per il miglior ordinamento delle Società di mutuo soccorso; enei 1901 ne fu indetto un’altro dal Ministero con un premio di mille lire, due di cinquecento e con medaglie di argento o di bronzo a quelle Società operaie di M. S. che avessero meglio provveduto ad organizzare e garantire un servizio di rendite Vitalizie ai soci nei casi di inabilità al lavoro o di vecchiaia, sia direttamente con apposito fondo sociale, sia mediante l’inscrizione dei soci alla Cassa Nazionale di previdenza. Ho rammentato più sopra il concorso a premi del 1905. Incoraggiamenti morali vengono dal Governo alle Società di mutuo soccorso, mediante concessione di medaglie di benemerenza. Nella occasione della Esposizione Generale di Torino del 1882, il Ministero istituì premi consistenti di quattro medaglie d’oro di prima Classe, cinque di seconda e 12 medaglie di argento da conferirsi a quelle Società Operaie che avessero dato prova di miglior ordinamento e di più lunga esistenza con risultati efficaci, giovando anche con le scuole e con le biblioteche alla istruzione degli operai. E frequensemente il Ministero concede medaglie di Benemerenza ai sodalizi operai che hanno dato prova per lunga serie di anni di buon ordinamento e di costante devozione ai principii della mutualità. Nè sono infrequenti i sussidi in denaro, non molto larghi data la parità dal fondo all’uopo stanziato, che il Ministero dà alle Società operaie che più si addimostrano bisognose di aiuti. A. Lo stato attuale. La recente statistica sulle Società di mutuo soccorso, elaborate dell’ Ispettorato generale del credito della previdenza, registra la esistenza in Italia al 31 dicembre 1904 di 6535 Società delle quali riconosciute 1548 non riconosciute 4987 Abbiamo veduto più innanzi che la statistica del 1892 denunziava al 31 dicembre di quell’ànno la esistenza di 6722 Società di mutuo soccorso; e quindi nel decennio, in luogo di riscontrare un incremento, come erasi verificata, e notevole, dal 1885 al 1894, si constata uua diminuzione di 187 Società, e cioè, in cifra media, del 2 - 8 per cento. La diminuzione più notevole si osserva nell’Italia meridionale e nell’insulare ed in parte della centrale; si giunge sino al 48. 1 per cent© nelle Puglie. Ma per compenso si ha un aumento nell’ Italia settentrionale e nel rimanente della centrale; aumento che riuscì notevole nel Veneto col 24.2 per cento e nella Lombardia col .15.0 per cento. Abbiamo detto più innanzi che la diffusione delle Società di mutuo soccorso, assai lenta nella prima metà del secolo decimonono, andò accentuandosi dopo la unificazione del Regno, e riportammo, a dimostrazione, le cifre delle statistiche del 1885 e del 1894. La dimostrazione riesce più evidente classificando il numero delle Società per anno di fondazione. Dai numeri assoluti si traggono le medie seguenti su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1904: Società fondate prima del 18*0 % . 1.0 dal 1850 al 1859 2.7 dal 1860 al 1869 10 . 3 dal 1870 al 1879 19 . 2 dal 1880 al 1884 18 . 9 » » dal 1885 al 1889 14 . 5 dal 1890 al 1894 12 . 6 dal 1896 al 1899 8.7 dal 1900 al 1904 12 . 1 Il decennio più fecondo è stato quello dal 1880 al 1889, con una inedia di 33 4: vien dopo il decennio 1890-99 con 21.3; e terzo il decennio 1870-79 con 19 2. Ma l'incremento più rapido si determina appunto dal 1860 in poi. Esaminando le cifre afferenti ai vari compartimenti è da notare che, mentre nell’Italia settentrionale e centrale è piccolo il numero delle Società instituite negli ultimi anni, questo numero è notevole nell’Italia meridionale ed insulare. E siccome in queste regioni si riscontra pure la maggior diminuzione delle Società nel periodo 18951904, si deve concludere che in esse le Società hanno vita più breve. Tale ipotesi trova conferma nelle cifre seguenti: Su 100 Società esistenti al 31 dicembre 1891, numero di quelle sciolte nel decennio: Piemonte Liguria Lombardia Veneto Emilia. Toscana Marche Umbria Abruzzi Campania Puglie. Basilicata Calabria Sicilia . Sardegna Regno 25 . 2 L’indice più alto di diminuzioni lo danno le Puglie; seguono la Basilicata, la Calabria, la Campania, la Sardegna. ° Delle 6,535 Società esistenti al 31 dicembre 1904 sono composte di soli uomini . di sole donne di uomini e donne se ne ignora la composizione . 5,078 252 1,017 189 Le Società esistenti al 31 dicembre 1904, abbiamo veduto, sono 1548. Di queste 42 soltanto sono riconosciute con decreto Reale e 1506 con provvedimento del Tribunale, ai sensi della legge 15 aprile 1886. Al 31 dicembre 1894 le Società riconosciute erano 1156; vi fu quindi nel decennio un aumento di 392 ed in media del 33. 6 per %• L’aumento fu più sensibile nell’Italia meridionale. Su 100 Società esistenti, si contano 23.7 Società riconosciute. Quando si consideri che la legge del 1886 è sufficientemente liberale, non impone vincoli e formalità costose, lascia ai sodalizi la maggiore libertà di azione nello esplicamento dei fini che si propongono, sullo impiego dei fondi, non le asservisce ad alcuna vigilanza governativa, male si spiega il lento incremento delle Società riconosciute e il loro scarso numero rispetto alla massa. Forse deve rintracciarsi la ragione del fatto in pregiudizi non ancora rimossi dall’animo dei nostri lavoratori, nella imperfetta conoscenza dei benefizi che la personalità giuridica reca, indipendentemente da quelli d’ordine finanziario conferiti dalla legge. Non vogliamo ammettere che influiscano anche tendenze che esulano dal campo della mutualità, del fratellevole aiuto. Queste tendenze trovano più conveniente esplicazione in altre forme di organizzazioni, che in ben ordinato reggimento politico hanno diritto di cittadinanza per la legittima difesa di interessi professionali e per la protezione del lavoro. Il,numero dei soci aggregati alle Società di mutuo soccorso, secondo le statistiche alle tre date, risulta nelle cifre seguenti: nel 1885 730,475 nel 1894 - 933,685 nel 1904 926,026 Siccome però non tutte le Società diedero sulle tre indagini le indicazioni del numero dei soci, assumendo, per la integrazione, il criterio della media dei soci per ciascuna Società, si avrebbero le cifre seguenti : nel 1885 — 760,085 nel 1894 — 956,328 nel 1904 — 953,455 La media dei soci per ogni Società nel 1885 risulta di 153.2, nel 1894 di 142 . 3, nel 1904 di 145 . 9. Il numero dei soci è aumentato in tutti i compartimenti dell’Italia settentrionale, escluso il Piemonte: è aumentato anche nell’Emilia, nella Toscana, nell'Umbria e nella Sicilia; ed è diminuito in tutti gli altri compartimenti. Nel periodo 1895-1904 il numero medio dei soci è aumentato in Liguria, Emilia, Campania, Sicilia e Sardegna, si è mantenuto eguale in Lombardia ed è diminuito negli altri compartimenti. Sopra 100 Società esistenti al 31 dicembre 1904, la diversa composizione numerica di esse è indicata dalle cifre seguenti: Sino a 99 soci . — 53 . 6 Con soci da » » da » » da » » da » » da » » da b b da 1000 a 1500 — 0 . 5 b b oltre . 1500 0.3 100 a 199 — 27 . 6 200 a 299 27 . 3 300 a 399 4.5 400 a 499 2.3 500 a 699 1.2 700 a 899 0.8 In complesso, in tutti i compartimenti, esclusa 1’ Emilia ove se ne ha il 43 . 2 per 100 e la Lombardia ove se ne ha il 46 . 0 per 100, più della metà delle Società conta meno di 100 soci; ed in generale un quarto circa delle Società conta un numero di soci da 100 a 200. La statistica del 1904 discrimina anche i soci secondo i sessi. Dei 926,026, soci, 849,418 sono uomini, 76,608 sono donne. Sul movimento economico dqlle Società di mutuo soccorso si possono fare raffronti con la statistica del 1885; quella del 1895 non contiene alcuna notizia sul patrimonio sociale. Ecco i dati riferentisi alle due date: Entrata. Spese . Patrimonio L. 7. L. 14,632.425 .404.205 » 11.790.028 1.200.840 » 72.395.544 Il patrimonio medio per ciascuna Società, che nel 1885 era di L. 9.147,97, nel 1904 ammonta a L. 12.-017,85. Volendo integrare le cifre per le Società, che nei due tempi non diedero la indicazione del patrimonio sociale, assumendo come criterio il patrimonio medio, si avrebbero le cifre seguenti: Con lo stesso metodo si possono integrare le cifre afferenti alle entrate ed alle spese. Secondo tali risultati,!che non si possono discostare molto dalla ventarsi ha nel 1904 in confronto al 1885 un aumento di L. 4.919.727 nelle entrate, di L; 5.089.469 nelle spese; e di L 33.748 218 sul patrimonio, nella misura cioè del 75 . 13 per 100. t 9 o^? trata media .nell’ anno per ciascuna Società risulta di L. 2,342,43, con un mimmo di L. 861,63 per le Società degli Abruzzi e con un massimo di L. 3833,27 per le Società della provincia di Roma. La media delle entrate per ciascun socio è di L. 16 con un Lombardia L ’ 8 ’ 3 ° Pei> la Calabria e un massimo di L. 18,92 per la „ n +S„ el ^ m . e ^ Ì prÌ - nc y? a À i .’ di cui si compongono le entrate sono tre: “SJ on ? dl ® oc ì effettivi, contribuzioni di soci non effettivi, donazioni ed altro (patronato), altre entrate. Sopra ogni cento lire di entrate nel 1904,1 tre elementi davano le cifre seguenti: Contribuzioni di soci effettivi .... 68 80 Contributi di soci non effettivi, donazioni, ecc 7 28 Altre entrate . . y . . . 29 * 47 Il cfflpite inabor 6 di entrata è dovuto, come abbiamo già notato, alle contribuzioni dei soci effettivi. E la proporzione diventa maggiore quando si consideri che le altre entrate slno in malsima dei fondi impiegati, i quali alla loro volta derivano dalle contribuzioni dei soci. La media delle entrate 1eT3 V 9 ate 5 8 da nn ^urioni dei Soci effettivi Varia da^ SSmo Liguria 58 P °° m Basillcata ad un mas simo dall’82 per 100 in Si hanno notizie più particolareggiate sulle entrate delle Società riconosciute ; ma queste, desunte dai loro rendiconti, si riferiscono al 1903. Le percentuali di queste entrate sono le seguenti: Redditi patrimoniali Contribuzioni di soci Introiti lordi Redditi straordinari Rendita di beni immobili ... 1. 69 ( Interessi attivi.17. 13 (effettivi.38.60 ^ non effettivi.0. 99 l di Magazzini di consumo 27. 58 1 di aziende sociali.6.85 .7.16 Anche per queste Società, nella media generale del Regno, il maggiore delle entrate deriva dalle contribuzioni dei soci effettivi, esclusi però il Piemonte, la Toscana e la Calabria ove proviene dagli introiti dei magazzini cooperativi, e la Sicilia ove la maggior parte delle entrate sono dovute alla assunzione da parte di due Società di Palermo, quella fra la gente di mare e l’altra dei capitani marittimi, di appalti di carico e scarico di merci. In Lombardia le contribuzioni dei soci effettivi eguagliano quasi i redditi patrimoniali; ivi infatti sono le Società più antiche e con patrimonio più rilevante. Le contribuzioni dei soci non effettivi variano dal 2. per 109 nell’Umbria, al 0. 5 per 100 nelle Puglie, perchè appunto nelle Società di questa regione è minimo il numero dei soci non effettivi. La spesa media per ciascuna Società nel 1904 risulta di L. 1902,84 e per socio di lire 13. Nelle medie per Società della spesa si va da un minimo di lire 679,30 per le Soc età degli Abruzzi ad un massimo di lire 2925.51 per quelle della provincia di Roma; il minimo ed il massimo delle spese si riscontrano quindi nelle stesse regioni nelle quali si hanno il minimo ed il massimo delle entrate. La spesa per ciascun socio oscilla fra un minimo di lire 6-,67 negli Abruzzi e un massimo di lire 16,51 in Liguria. Nello insieme delle Società non è riuscita possibile una minuta discriminazione delle spese: si è dovuto star paghi alle due grandi divisioni: spese per sussidi, altre spese. Nel 1904, rispettivamente ad ogni 100 lire di entrata, si hanno per il Regno le cifre seguenti: spese per sussidi.51.4 altre spese.29.7 Le spese superarono le entrate dell’1.8 per 100 soltanto in Liguria: nelle altre regioni le spese furono inferiori alle entrate. Nelle Società della Basilicata, della Calabria, della Sicilia la proporzione delle altre spese alle entrate è superiore a quella delle spese per sussidi ai soci e alle loro famiglie, indizio di non buono e parsimonioso ordinamento amministrativo ; nel resto del Regno la parte maggiore delle spese fu assorbita dai sussidi ai soci e alle loro famiglie. Come per le entrate così per le spese si hanno più minuti ragguagli nelle spese delle Società riconosciute, erogate durante l’anno 1903. Nelle cifre seguenti si dà la ripartizione di 100 lire di spesa Spese di malattia j f^^se '. ! : Sussidi di cronicità ed impotenza al lavoro Sussidi di vecchiaia. Soci defunti Altri sussidi l Onoranze funebri Sussidi alle famiglie 19,45 3.01 4,40 10 87 0.75 2.62 1.34 03 ( Magazzini di consumo . < Altre aziende sociali . ’S g ( Altre spese. Spese di amministrazione Spese straordinarie. . . Le spese per sussidi assorbono il 42.44 per cento del totale delle spese e vanno da un minimo del 14.21 per cento in Sicilia ad un massimo del 69.57 per cento nell’ Umbria. In tutte le regioni, esclusa la Lombardia, si nota che la maggior parte delle spese per sussidi va nei sussidi di malattie, col massimo del 50 per cento nell’Umbria. In Lombardia invece hanno prevalenza i sussidi di vecchiaia. Le spese pei magazzini di consumo sono rilevanti nel Piemonte (56.02 per cento), nella Toscana (43.51 per cento), in Calabria (39.97 per cento). Le spese di amministrazione variano dall’ 8.02 per cento in Piemonte, al 33.47 in Basilicata. . 28.78 . 7.05 . 2.6S . 13.14 . 5.91 La sostanza patrimoniale delle Società al 31 dicembre 1902 che come abbiamo veduto, è di lire 72.395.544. ragguagliata per Società e per soci e distinta fra Società registrate e Società non registrate, dà le cifre seguenti: patrimonio medio. per ciascuna Società Società riconosciuta 24.267,00 Società non riconosciuta 7.887,67 Riconosciute e non riconosciute 12.017,85 per ciascun Sòcio 123.32 60,16 82,50 È più alta la media nelle Società riconosciute; e ciò non dimostra che il riconoscimento giuridico sia stato per quei Sodalizi elemento di singolare prosperità, ma che i sodalizi più forti meglio dotati e quindi più evoluti hanno sentito e voluto tutti i vantaggi della personalità giuridica. Dalla media generale del patrimonio per Società si discostano, nel massimo la Lombardia con lire 20.655,70, nel minimo la Calabria con lire 4 391,09; gli stessi scarti si riscontrano nella media del patrimonio per socio : 122.97 in Lombardia, 40.15 in Calabria. Si hanno i dati della composizione del patrimonio soltanto per le Società riconosciute, e si riferiscono al 31 dicembre 1903. A quella data il patrimonio delle Società riconosciute ammontava a lire 35.976.981 ed era cosi composto. Beni stabili L. 3.580.079 10,0 Titoli pubblici e privati 15.239,047 42,6 Mutui e depositi a risparmio . « 14.648 374 40.7 Altre attività.» 2.50S.461 6,9 La misura massima di impieghi in immobili è nelle Società delle Calabrie ove si ha il 33.5 per cento, il minimo si riscontra in quelle della Campania col 2.5 per cento. Negli investimenti in titoli pubblici e privati il massimo è nella provincia romana col 70.3 per cento. Nelle Marche invece si ha il massimo in mutui e depositi a risparmio con 1’ 81.9 per cento ; la Liguria presenta invece in questi impieghi il minimo col 13.8 per cento. Hanno speciale importanza le cifre che discriminano le Società di mutuo soccorso secondo la entità del patrimonio da esse posseduto. Riferiamo qui le cifre assolute e proporzionali del numero delle Società per entità patrimoniale, al 31 dicembre 1904. Numero delle Società che hanno un patrimonio: Da L. 0 a 999 Cifre assolute 1.517 Su 100 Società 23.6 11 1000 a 4999 2.117 35,3 » 5000 a 9999 9S9 16.5 n 10.000 a 49.999 1.239 20.6 n 50.000 a 99.999 156 2.6 n 100.000 a 249.999 60 1.0 ii 250.000 a 49.1,999 12 0.2 n 500.000 a 1.000.000 5 0.1 Oltre un milione 4 tu Senza indicazione del patrimonio 535 Di 5999 Società che hanno comunicato 1’ ammontare del loro patrimonio, solo 81, delle quali 54 riconosciute, hanno un patrimonio superiore a lire 100,000 ossia circa 1' 1.10 per cento. 11 23.6 per cento delle Società ha un patrimonio inferiore a lire 1000; il 35 3 per cento un patrimonio da lire 1000 a 5000, il 16.5 per cento un patrimonio da lire 5.000 a 10.0000 ; il 20.6 per cento un patrimonio da lire 10.000 a lire 50 000 e il 2.6 per cento un patrimonio da lire 50.000 a 100.000. Le federazioni. Nelle norme preparate dal Consiglio di Previdenza per il riconoscimento giuridico delle Società composte di non operai è ammessa la costituzione di consorzi fra Società riconosciute per formare un fondo di riserva consorziale, per assumere impiegati comuni, per stipulare contratti con medici e farmacie, per mettere in comune alcuni servizi, o anche alcune assicurazioni. Si può stringere anche un accordo fra Società non tutte legalmente riconosciute per esercitare un controllo sui soci sussidiati o per regolare il passaggio dall’uno all’ altro sodalizio di quei soci che cambiano resiTa legge francese del 1898 sulle Società mutualiste consente la costituzione di unioni fra le Società, conservando ciascuna la propria autonomia, aventi per oggetto principalmente : l’organizzazione a favore dei membri effettivi delle cure e dei soccorsi indicati nella legge e specialmente la instituzione di farmacie nelle condizioni stabilite dalle leggi speciali sulla materia ; l’ammissione dei membri effettivi che abbiano cambiato residenza; il regolamento delle pensioni di vecchiaia; 1’ organizzazione di assicurazione mutua pei rischi diversi a cui le Società debbano provvedere, specialmente la fondazione di Casse di pensioni e di assicurazioni comuni a più Società per le operazioni a lunga scadenza e le malattie di lunga durata; il servizio del collocamento gratuito. La statistica ufficiale non registra la esistenza in Italia di Consorzi o d Unioni costituiti per gli scopi predetti, che hanno alquanta analogia eon quelli indicati nelle norme. In recenti Congressi regionali di Società di mutuo soccorso fu deliberata la costituzione di unioni regionali, ma ancora non possiamo dire se furono costituite e per quali scopi. Nel primo Congresso nazionale delle Società di mutuo soccorso tenuto a Milano il 29 giugno 1900 fu deliberato «d'organizzare fra m loro tutte le Società operaie di mutuo soccorso in federazione nazionale, salvo studiare il modo di organizzarle razionalmente, con a nomma di una Commissione esecutiva provvisoria », fissando intanto a Hi n^ ta 1 o annUa dl, pre,. 5 per le Societ à aventi non più di 100 soci t pe f <3 £ e i e dl - un numero superiore; e «di indire un mprf Ha] lavnnn Fede n azl one delle Società operaie, quelle delle CaLa fnlliìl! 6 ?r e Ì Ie delle Cooperative per un’intesa comune ». con?t^ a aduna " za deI 5 settembre dello stesso anno 1900, Essa G ha S «Tintento F ri? e n aZ10D H SOn ° P reyaIen temente d'indole morale. Società federate ed?,?^ ed - ere . alla tutela de ^ interessi delle nomico delle classi i a JÌ,!f + lb - U ^ re a miglioramento morale ed ecoraS ungeretei intenti ^ per mezzo delIa Previdenza ». Per aggiungere p ento la Federazione si propone in modo speciale: previdenza e cooperazionp A n< ?I 6 i ment + ) d '^ istituti di mutualità, di Sano effettì^SX*teoon P«r Chè ris S°" fare opera di solidarietà con tutte le li“,QM . de ! lavoratori; e,SC ° P0 .iirftr 1 " t‘la<i'asse lavoratrice; “ P6r slazione che valga a svfiunnare^Am 6 dÌ U ° . si,f tema completo di legia tutelare le ragioni deMavoro “ p pi . u 1 . bene . fiz i dell’associazione, sulle classi lavoratrici; 6 ad alIeviare i tributi che gravano nella m^deUo^ ifm^ 00Ì ^ Società federate, intervenendo mediante pubblicazionrco^fere^ze 0 ÒQWe CÌ * ZÌOn - e 6 di P revid enza, meZ SelK^ UÌ Ia C ° n tUttÌ 1 mutuo soccorso rTcoifosS^e Sf parte tutte le Soc ietà italiane di siano inspirate ai5? f a „ 08,? ute 0 di fatto - P^chè videnza. P p l0 ndamentali della mutualità e della pre di iirc 5 se hanno^^numero^i^ff 1 - 6 UDa quota annua anticipata: se hanno da 100 a 500 soci di k p ® non superiore a 100; di lire 10 ài lire 20 se hanno più di ìooo^om' 1 86 hann0 da 500 a 1000 soci ’ 6 «5dfott federa a e hano diritt0: consigli ed aiuti morali^ ^ oinn: n ss mne esecutiva in ogni circostanza teresse generale- 1 " 81 d<J1 seryizl che la Federazione stabilirà nell’in àana, monitore della 6 P^derazton^^d^ giorna l e La Cooperazione ItaCongresso; ^aerazione, ed una copia degli atti di ogni « d) di ottenere gratuitamente consulti legali e pareri di indole amministrativa; « e) di valersi del giornale La Cooperazione Italiana per trattare quelle questioni che si riferiscono agli interessi della mutualità e della previdenza. Gli organi della Federazione sono: il Congresso delle Società federate; il Consiglio Generale composto di 50 consiglieri eletti dal Congresso fra i soci delle Società federate; la Commissione esecutiva composta di nove membri scelti fra i soci delle Società federate e residenti in Milano; i Comitati regionali, secondo le circoscrizioni stabilite dalla Commissione esecutiva; il Collegio dei Sindaci composto di tre sindaci effettivi e due supplenti, nominati dal Congresso fra i soci delle Società federate residenti in Milano; le Commissioni di consulenza, di statistica, di propaganda, ecc. quando ne fosse reclamata la costituzione. La Federazione ha organizzato tre Congressi nazionali: quello di Milano nel 1900; quello di Reggio Emilia nel 1901; quello di Firenze nel 1904. Le Società federate sono andate crescendo nei cinque anni 1901-1905 nella proporzione seguente: 1901 548 1902 573 1903 720 1904 733 1905 745 In un Congresso internazionale e nel chiudere questa relazione la quale dimostra quale sia la condizione delle organizzazioni mutualiste in Italia, io non credo che si possano presentare, come epilogo dei fatti osservati, voti e proposte che abbiano riferimento alle particolari condizioni delle nostre Mutue ed al loro avvenire. Credo soltanto possibile esprimere un voto il quale ha necessario legame con la proposta costituzione di una Federazione internazionale della mutualità, che sarà vanto di questo III Congresso, poiché, a mio giudizio, una Federazione internazionale deve trovare il suo principale fondamento nelle organizzazioni federative nazionali. Ed il voto è il seguente: Che si promuova in Italia la costituzione di Federazioni od Unioni regionali di mutuo soccorso, le quali si propongano i fini additati dalle Norme e meglio specificati dalla legge francese, in quanto siano applicabili alle particolari condizioni e funzioni delle nostre Società ; Che le Federazioni regionali facciano capo ad una Federazione Nazionale, la quale, pure esplicando l’azione d’indole morale che è nel programma dell’attuale Federazione, compia anche alcuni uffici propri delle federazioni regionali, specialmente quello di sovvenire i soci dei sodalizi aggregati alle regionali, i quali, per ragioni di lavoro o per altre ragioni, si trovino fuori del territorio nel quale la Federazione regionale esplica la sua azione. Uo spirito cooperativo. Se il tracollare di tante impresa o società sorrette da grossi capitali aggiunge nuove pa^ne ai volume delle nostre afflizioni, è bello invece vedere per virtù popolana sorreggersi liberi e sicuri nel loro corso anche in Italia i sodalizii dèlia previdenza e* del mutuo soccorso. Animati nelle loro operazioni dal sentimento della pietà, e non mossi da studio di soverchio guadagno, finiscono col raccogliere anche la ricchezza, come premio della loro virtù e col dare un'alta pro\a di quella verità che gli affari più cauti ed onesti sono sempre in (in dei conti i più lucrosi. Così queste società nuove di operai e di piccoli indaslriali, svincolale dai vecchi rancori, amiche deirordiiie e della liherlA, v:inno sempre meglio disegnando ed aiiargaiido i contorni dell' azione, c creando una buona Speranza per l'avvenire della nostra patria. Fatta Tltalìa, è d'uopo per fare gP italiani che alle vecchie e cascanti passioni di un popolo per secoli torpido e povero, sì sostituisca la fede energica nel lavoro e neir associazione. Occorrono a ciò quelle tempre d^ uomini gagliardi ai quali nulla di onesto e di utile pare impossibile, e che nel meditare al proprio, tornaconto non dimenticano quello degli altri. Occorre che in tutte le citlà^ d'Italia sorgano e iiros|u'rino gli spirili benevoli, i quali sappiano inlendere l' iiulirizzo del nostro secolo, e prodighino le opere buono a quello stesso modo, e sto per dire, con quella spensieratezza, colla quale i più le stemperano nella cascafigine e nelT ozio. E queste qualità cominciano appunto a ravvivarsi nei gruppi de' nostri cooperatori, le quali, mef^lio di tanti discorsi accademici che entrano ed escono dalle orecchie 0 di certi volumi di economia politica, senza lettori, valgono a provare colla evidenza dei fatti, che la maggiore delle industrie è l'onestà dei costumi, e che il lavoro e r associazione non accrescono soltanto la nostra fortuna materiale, ma ben di più» il patrimonio dei nostri affetti e delle virtù nostre. Di fronte al movimento d'associazione che si estende da tutte le parti, è. necessario stabilire i cardini su cui s' aggiri ben definito l' oggetto e lo scopo dell' associazione. Fino ad oggi te società di commercio e dMndostrla avevano per unica mira il guadagno di coloro che le dirigevano. Questo guadagno talvolta eccessivo, aveva per motore l'egoismo, c per mezzi i tranelli, la speculazione e r aggiolag!2Ìo. E pur troppo mezzi così odiosi hanno fatto colossali e scandalose fortune con desolazione c rovina di una falange di creduloni e di delusi. Le società cooperative hanno invece per ragione la fraternità, per principio l'eguaglianza, per mezzi l'onore, la probità e il lavoro dei cooperatori associati ; e per ìscopo r emancipazipoe di tutti ; la cooperazione dà aispiaiTo d' associazione. r uomo il mezzo di amministrare e di gestire da sè stesso ciò che gli appartiene, ed a ciascun cooperatore accorda la facoltà di aver parte air amministrazione delle cose comuni. Còsi la cooperazione sorretta dall' intelligenza, vi* vificata dair amor fraterno, rivela air uomo T arcano della sua forza e della sua potenza. Ma peicliè giunga agli sperati e (Te ili senza deviare dai principii che sono fondamenlo di ogni rigenerazione sociale, si addomanda ai cooperatori vigilanza attiva e studiosa, saggezza, aniiegazione e virtù; nè, per evitare gli scogli contro cui ruppero tanti, cessino di tenersi in guardia contro i funesti allctlamenli, i desiderii ambiziosi, le passioni egoistiche e gelose. Bando sopratutto ai sistemi esclusivi! essi contengono i germi di discordia e di dissoluzione che bisogna sradicare dalla loro prima comj)arsa. Quanto allo socielà cooperative formate lìnora in Italia, mentre dobbiamo conoscere la devozione, il disinteresse dei loro fondatori ed aderenti e i risultati abbastanza felici, tenendo calcolo delle difficoltà che erano da superare, converrà sìeno impiegate maggiori forze e sieno sbandite tutte quelle mezze misure che conducono facilmente air aborto. Si ha bisogno di uscire al più presto dalie vecchie abitudini, dai sistemi restrittiyi, e rendersi p^puasi che un progresso non è realmente buono se non m quanto possano tutti parteciparvi; che T eguaglianza è T anima della cooperazionc, come d'ogni giustizia; che il genio cooperativo nel suo oggetto, nel suo scopo e nelle sue conseguenze sociali, ha una missione immensa da compiere, e che deve penetrare come il sole, tanlo nelle campagne quanto nelle grandi città. Ma perchè le società di credito e di produzione possano agire senza ostacoli deesi sgombrare il terreno dell' industria dall'impiccio delle tante braccia strappate alle campagne e fioriate nelle città a far una disastrosa concorrenza cogli operai. Per togliere dallo stato precario e dalla miseria, ove si trovano, lutti questi campagnoli che disertano la gleba per cercarsi lavoro nelle manifatture » bisognenibbe procurare la loro emancipazione col mclterli anch'essi in grado di partecipare alla propriclà territoriale per mozzo delle associazioni cooperative. Al che condurrebbero quando si formassero de' sodalizii agricoli c industriali, abbastanza potenti per oHrirc un asilo a coloro che non hanno una via aperta alla loro aUivilà. Con questo mezzo il commercio e l’industria si troverebbero al riparo dalia concorrensa industriaJi superflui, poiché ove le società cooperative non propagassero ia loro azione nelle campagne, e restassero nelle sole pitià, subirebbero i maggiori disinganni. Ed oltre a questa concorrenza dannosa, aggiunge quella che i lavoratori si fanno fra essi e che forma reggette dMndebite lagnanze. E infatti coltivatori, affitjtaìuoli, proprielarii si lamentano troppo spesso dr questa concorrenza che, a detto loro, impedisce di vendere i frulli del campo e del lavoro a buon prezzo, e non pensano intanto che la concorrenza de'' produttori coi prezzi moderali suscita un'altra concorrenza, quella de' consumatori; non pensano che se essi hanno quelle vanghe, quelle zappe, quei martelli, quelle seghe a buon patio, e appunto per la concorrenza delle fucine che procura a minor prezzo il ferro di che hanno bisogno per gli isirumenti de' tgro mestieri ; che è la concorrenza dei tessitori e de" granaiuoli che fa comperare ad essi con modici valori il vestito e il nutrimento, e tutto quanto entra nei bisogni della vita. Ma quando l’equilibrio si rompe anche la concorrenza diviene dannosa; le braccia divelle dai campi e intrecciate agli ordigni de^ mestieri devono rompere Tarmonia che è il supremo beneficio d^ogni sociale interesse > ed è appunto un gran prezzo dell’opera il far in modo che ì campagnoli restino nelle campagne, nò depongano la marra e il sarchiello pel maglio o pel telaio. La concorrenza è ìm gran motore delle attività umane, e trova la sua perpetua alimentazione nelP interesse individuale. Essa non e che il risultato dello sforzo che fa ciascuno pel proprio interesse, e porta poi come ultima conseguenza il bene generale. Essa è dunque il principio deir esistenza Jelle società, poiché dalla concorrenza degli uni e degli altri promana il vantaggio di lutti; nè permeile ad' alcuno di predominare a scapito degli altri, è una compensazione che ci facciamo a vicenda. Senza la concorrenza dei produUori i consumatori pagherebbero tutto ad una esorbitanza di prezzi, e senza la concorrenza clie i consomatori si fanno tutto cadrebbe a prezzo sì abbietto che nessuno sarebbe più sollecitato alla produzione. E chi sconoscerà il vantaggio che ne trae l’emulazione « che è uno stimolante prezioso per T intelletto e per Fattività deir uomo, e ne sorregge ne^ suoi lavori la meditazione e i sudori per trionfare sui competitori suoi. Per studiare a tale intento, e trovare nuovi processi di produzione più economica e più abbondante per accorciare il tempo e conseguire Y esito migliore, e per soggiogare le forze delia natura, decuplicando e centuplicando la forza deir uomo? Chi teme la concorrenza è solo colui che non sa far meglio degli altri, o clic vagheggia guadagni più ghiotti; egli sa che il consumatore si rivolgerà al fabbricatore che lavora meglio, e al venditore che spaccia a minor prezzo; e chi invoca misure restrittive, chi domanda ai governi la proibizione d' introdurre merci forestiere, attenta alla liberti, ed è un egoista che vuoi prelevare a suo profitto la differenza tra i suoi prezzi e quelli degli stranieri. Ha quando l’equilibrio delle classi si rompe allora la concorrenza conduce diviato alla ruina. E pur troppo vediamo i giovani campagnoli non rare volte dalla mal tollerata loro condizione sospìnti a quella delP artigiano delle città, perchè a questo la giornata si paga più cara che ad essi, ed ogni sabato esce dall'officina col suo salario alla mano. Queste braccia divelle dai campi e iuirecciate agli ordigni degli opificii tolgono le larghe emanazioni di quella occupazi.one che fin dai primi tempi alimentò l'uomo «uila terra. Eppure l uomo della campagna quando pensa all'artiere della città, dice: in (jual minor conto siamo ' noi tenuti! S'inganna esso a partito; nessuno tiene in minor conto chi guida il solco e l’aratro, ed è necessario che i contadini il sappiano, che abbiano ànch'essi le loro istituzioni da cui sieno allettati, e che le provvide virtù camminino fra i popoli agricoli » sotto i tetti di paglia, tra i novali e i vigneti, e che la vanga e il sarchiello non restino mortificati dinanzi al maglio ed al telaio. Nicola Coco. Keywords: mutuale prevalente, cooperativa, impresa cooperativa, luce di pensiero italico nelle tenebre della guerra, giurisprudenza romana, giurisprudenza italiana, eccletismi, filosofia dell’atto, corporazione, contratto e cooperazione, codice civile italiano, codice di procedura civile italiano, la tradizione giuridica italiana, associazione, sindaco, Kelsen, grundnorm, legalita, nipote: Nicola Coco, ordine giuridico, unica garanzia del contratto sociale, mutuo soccorso, la societa di mutuo soccorso, le societa di mutuo soccorso, mutualita, mutualita prevalente, contratto di carattere mutuale prevalente, lo spirito cooperativo, considerazione sullo spirito cooperative. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Coco” – The Swimming-Pool Library. Coco

 

Luigi Speranza -- Grice e Codronchi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del contratto -- giochi d’assardo – contratto – gioco aleatorio – Ercole, l’Ara Massima, e il patto comunitario – scuola d’Imola – scuola di Bologna – filosofia bolgnese – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Imola). Filosofo bolognese. Filosofo emiliano. Filosofo italiano. Imola, Bologna, Emilia-Romagna. Grice: “One would underestimate Codronchi if it were not for the fact that he wrote a smartest little tracts on the two ways I see conversation as: ‘game’ and ‘contract.’ In “Logic and conversation’ I do confess to having been attracted for a while to a ‘quasi-contractualist’ approach to conversation alla Grice (i. e., G. R. Grice) – and I’m not sure the reason I give there for rejecting the view is valid, or strong enough! As for ‘games’ – of course conversation is a game – but I never took that too seriously – perhaps because Austin was obsessed with games and rules of games – and the subject was worn out for me – when Hintikka came along all he did was talk about ‘dialogue games’! – I do use ‘game’ terminology – and cf. ‘contract bridge!” – such as ‘conversational move,’ ‘converaational rule’ of the ‘conversational game’ – and conversational ‘players’ – “Only this or that ‘move’ will be appropriate’, and so on.” Appartenente alla nobiltà, dopo la laurea prosegue gli studi approfondendo la filosofia spinto dal padre. In seguito entra alla corte del regno di Napoli, prima con Ferdinando I e poi con Giuseppe Bonaparte, da cui ottiene la nomina a consigliere di stato. Le sue saggi più celebri sono “Etica” e “Il contratto”, in cui affronta con semplicità l'argomento del calcolo delle probabilità. Distingue in tre classi di contratto. Contratto epistemico: C’e un contratto nel quale è noto il rapporto tra eventi favorevoli e contrari. Contratto empirico. C’e un secondo contrato nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario è fondato sull'esperienza. Contratto misto Finalmente, c’e un terzo tipo di contratto nel quale il rapporto tra un evento favoravole e un evento contrario si basa su una legge sicura e in parte sull'esperienza. For a time, I was attracted by the idea that observance of the CP and the maxims, in a talk exchange, could be thought of as a quasi-contractual matter, with parallels outside the realm of discourse. If you pass by when I am struggling with my stranded car, I no doubt have some degree of expectation that you will offer help, but once you join me in tinkering under the hood, my expectations become stronger and take more specific forms (in the absence of indications that you are merely an incompetent meddler); and talk exchanges seemed to me to exhibit, characteristically, certain features that jointly distinguish cooperative transactions: 1. The participants have some common immediate aim, like getting a car mended; their ultimate aims may, of course, be independent and even in conflict-each may want to get the car mended in order to drive off, leaving the other stranded. In characteristic talk exchanges, there is a common aim even if, as in an over-the-wall chat, it is a second-order one, namely, that each party should, for the time being, identify himself with the transitory conversational interests of the other. 2. The contributions of the participants.should be dovetailed, mutually dependent. 3. There is some sort of understanding (which may be explicit but which is often tacit) that, otl1er things being equal, the transaction should continue in appropriate style unless both parties are agreeable that it should terminate. You do not just shove off or start doing something else. SAGGIO FILOSOFICO SUI CONTRATTI E GIOCHI D'AZZARDO. C. Sor's incerta vagatur, Fertque refertque vices. Lucan. FIRENZE PER GAETANO CAMBIAGI STAMPATOR GRAND. CON APPROVAZIONE. ALL’ALTEZZA REALE DI PIETRO LEOPOLDO PRINCIPE REALE D'UNGHERIA E DI BOEMIA ARCIDUCA D'AUSTRIA GRANDUCA DI TOSCANA &c. &c. etc. Questa operetta che sottopone il CONTRATTO—cf. Grice, quasi-contratto -- d’azzardo o aleatorio all'esame della filosofia per fissare, quant'è possibile i I dati onde non discordino dalla giustizia, dovea bene essere umiliata, a VOI, che pieno del le verità della prima, avete consacrati tanti pensieri ad assi curare, e stabilir la seconda; onde può dirsi che il vostro trono è il punto più luminoso della loro unione, che sola può formare la felicità degli stati. Posta questa mia fatica, se non è degna dipresentarsi all'illuminatissima vostra mente, non dispiacere al vostro cuore, che non sdegnerà di riconoscere in esta una significazione dei sentimenti del mio, penetrato del la più viva gratitudine al vostro real patrocinio, e alle copiose beneficenze, auspici sotto de’ quali è nata, e condotta alla luce, e ai quali desidero con tutto lo spirito che sempre più raccomandi l'autore. Non avvi forſe negli uomini un sentimento più costante e universale del desiderio di arricchire. L'uomo tende incessantemente a procacciarsi, ed assicurarsi i mezzi necessari a sostenere e a rendere tranquilla e comoda la vita. La natura, che ha voluto che ciò concorra alla sua felicità alla quale con tanta forza lo stimola, gli ha inserito di sua mano nel petto questo vivissimo ardore; acciocchè se dalla propria industria riconosce egli il sostentamento e gli agi della vita, riconosca però dalle provvide mani di lei l'eccitamento e l'efficacia di questa industria medesima. Questa fiamma sempre operosa accende talvolta un cuore angusto che non ha altro oggetto che se medesimo, o un piccolo e ristretto sistema di persone. Talvolta pero trionfa sovranamente in un animo generoso, a che stima di se minori tutte le mire che non sian vaste e sublimi. Patria, nazione, pubblica felicità, interessi dell’uman genere ecco i grandi oggetti, che egli ha sempre davanti; ed ecco intorno a che si aggirano i lumi del politico pensatore; ecco ciò che forma le vigilie dell’uom’di stato. Quindi è che sempre nuove vie si spianano al commercio, nuovi mezzi si studiano per facilitarlo, nuovi metodi si ritrovano per dilatarlo. Questo ardore medesimo ha fatto sì, che gli uomini vadano sempre inventando un nuovo contratto, o ai ritrovati già prima diano nuove sempre e più estese forme. Chi avrebbe mai detto nei primi tempi delle nascenti civili società, quando altro contratto non conoscevasi che quello di dare i grassi capi dell’armento in cambio degli scelti frutti del campo, che vi sarebbero stati un giorno uomini, che avrebbero ridotte a contratto non solo una cosa esistente, sicura, e da esli ben conosciuta, ma la cosa non esistenti ancora, le incerta, la soggetta al caso, la sconosciute? O chi persuaderebbe alle numerose carovane dei mori che vanno nel fondo dell’Affrica a far coi negri il cambio del sale colla polvere d’or, che sonvi e lecici, e un vantaggioso contratto, che si appoggia solamente all’aleatorio pericoloso e al bizzarro capriccio della fortuna? Il moro che mette il suo sale in un mucchio e lo va sminuendo, se gli pare che il negro con cui commercia, non abbia ammassata in sufficiente quantità l'a preziosa polvere; riderà di coloro che si espongono a gravi perdite delle loro sostanze affidandole all'incertezza della sorte. Eppure, e vi e questo contratti aleatorio, e puo esser ridotti a quella uguaglianza che dopo determinati, o dalle leggi, o dalla consuetudine i prezzo della cosa è necessaria a render giusto qualunque contratto. A fissare il limite e il grado di uguaglianza in tale contratto aleatorio giova maravigliosamente quell’utilissima scienza che arditamente calcola le probabilità e si rende soggetti, per così dire, i sempre vari accidenti della fortuna. Questa scienza è stata chiamata finora aritmetica politica perchè è stata ordinata soltanto a ricercare l’utilità e la miglior sorte a 2 del commercio e di chi lo esercita, e ad apprestare dei nuovi dati a chi veglia alla pubblica felicità. Ma io crederò di potere con parità di ragione chiamarla “aritmetica del giusto” ed asserire che se il gran principio che fra il certo presente e l'incerto avvenire trovasi una vera proporzione è stato quel seme fecondo che ha germogliato al pubblico bene, è quello ancora che dee produr nulla meno la sicurezza e la tranquillità nell’animo di chi sulle tracce dell’onesto e del giusto voglia istituire tale contratto. Non farà però inutil cosa se io cercherò di spogliare della austerità e difficoltà del calcolo una sì vantaggiosa teoria e di ridurla a principi generali e semplici, facendo su di essi opportunamente alcune riflessioni ed applicandone le regole al contratto aleatorio, che verrò con la chiarezza e brevità maggiore che a me sia possibile investigando. Mi lusingherò quindi di aver sempre pronta una misura, più o meno esatta, a norma che eſli più o meno ne siano suscettibili, che ne determini l’uguaglianza, é una bilancia che ne pesi l'equità e la giustizia. Contratto aleatorio io chiamo quel contratto nel quale si fa acquisto di un diritto, o vogliam dire di una speranza (res sperata – emptio spei, emptio rei separatae), il buon esito della quale è affidato all’incertezza della sorte (cfr. Grice, “Intenzione e incertezza”). E quì si osservi che si può nel medesimo contratto considerare l’aleatorio relativamente ad ambedue i contraenti. (parola chiave: “ambedue i contraenti”). Quello, il quale talvolta per far guadagno di una tenue somma di denaro ma certa, vende la speranza incerta di un gran guadagno, sottopone all'aleatorio tutto quel di più che avendo buon esito la ceduta speranza, supera la tenue somma in cui la cambio. L'uguaglianza che dopo fissato dalla legge o dalla consuetudine il prezzo della cosa ricercasa nel contratti perchè sia giusto, vi è ſempre, quando esaminata la cosa che ne forma l'oggetto, ritrovisi in Vedasi più sotto ove si parla del contratto di alii curazione un vero senso egualmente pregevole ciò che danno nel contratto e reciprocamente ricevono ambedue i contraenti. Or chi non vede che l'avere un diritto o una speranza è molto più valutabile che il non averla? E se ciò è vero, è manifeſso che questa speranza puo dirsi avere un vero e real prezzo nel commercio degli uomini. Ma siccome tuttociò che ha prezzo pui avere un prezzo diverso, questa speranza ha anch'essa la sua diversita e puo per conseguen prezzo calcolarsi in guisa da poterne trovare il *rapporto* a quello per cui alcuno desideri di farne acquistom che è quanto dire potrà ridursi ad una vera uguaglianza. Stabiliscasi adunque l’incontrastabile fondamenza il suo tale TEOREMA. Nel contratto aleatorio vi puo essere essere quella uguaglianza, che gli caratterizzi per giusti. ng Too vorrei potere esporre con la maggior precisione e chiarezza la serie delle idee che conducono a fissare il canone per cui si puo in un contratto aleatorio rinvenire l'uguaglianza di cui si parla. Il soggetto è molto arduo e per esporlo nel dovuto lume e farne poi l'opportuna applicazione è neceſſario fare di tratto in tratto molte importanti osservazioni che o sviluppino il principio fondamentale o vagliano a dilucidarlo. E prima di tutto io intendo sempre per nome di prezzo tutto quello o sia certo e determinato, o sia incerto anch'esso o per l'evento la quantità che si espone per far l’acquisto di una speranza. Premio io chiamo quello per cui ottenere si espone il prezzo così definite. Conviene pero osservare che per nome di premio si può intendere, e l'oggetto solo a cui si aspira e il medeſimo più il prezzo che si è o esposto o sborsato per acquistarne la speranza. Ciò ben'inteso parmi che per rintracciare questa uguaglianza sia d'uopo conoscere i o per 8 la diversa speranza. Di due elementi viene egli composto. Tanto è più stimabile una speranza quanto ha un'oggetto più pregevole; e questo è ciò che io intendo per valore intrinseco; ma tanto anche è più stimabile per altra parte quanto è più probabile che ha un esito favorevole, e questo col nome di estrinseco valore vuolsi significare. La probabilità è maggiore o minore secondo che è maggiore o minore il numero di casi favorevoli all'evento rispetto al numero de' sinistri; di modo che se si facesse una tavola che gradatamente, e per serie e sprimeſle questi rapporti si avrebbe una vera tavola delle probabilità. Conſiderando però ciascun evento separatamente e senza rapporto ad altri; la probabilità che esso liegua, vien espressa dal *rapporto* del numero de’ casi a lui favorevoli alla somma dei favorevoli insieme e de’ contrari. Poichè se sianvi in un urna 10 palle bianche e 10 nere; per definire la probabilità dell'estrazione di una palla Bianca fa d' uopo conſiderare le 10 bianche in massa colle nere; giacchè in massa sono quando si fa l'estrazione dall'urna. L'istesso avviene di ciascun evento che sia l’oggetto di una speranza; giacchè deve distaccarsi dalla massa che è il cumulo degli eventi favorevoli e dei sinistri che stan raccolti nell’urna sovrana regolatrice della umana vicenda. Se dato un prezzo con cui si voglia fare acquisto di una speranza, il numero dei casi favorevoli al buon esito sia uguale a quello dei sinistri, è troppo chiaro che a volere la ricercata uguaglianza e necessario che il valore intrinseco della speranza o sia dell'oggetto della medesima, sia *doppio* del prezzo che si espone per acquistarlo; poichè in tal guisa la metà del valore intrinseco resta compensata dal prezzo che si è pagato; l'altra metà, che sola è un vero guadagno è uguale al prezzo medesimo che si è espoſto all'aleatorio; e così deve essere essendo nel caso nostro uguale la probabilità del buon esito e dell’infausto. E non altro appunto significa quella regola infallibile secondo la quale è sempre 10 il valore (a) dell’aspettativa, quando in ugual numero siano i casi favorevoli all’esito bramato e i sinistri. Che se si accresca il numero de’ casi sinistri; siccome scema percið il valore estrinſeco della speranza, converrà che si accresca *proporzionatamente* l’intrinseco accrescendo il valore dell’oggetto medesimo. Per maggior chiarezza di cio suppongasi il prezzo con cui si compra la speranza uguale ad un dato numero e suppongasi il numero dei casi favorevoli uguale a quello dei sinistri. In questo caso la probabilità del buon esito e uguale a quella dell'infausto e la speranza si elide col timore, e per conseguenza il suo valore estrinſeco puo considerarsi = 0; verrà dunque in confronto il solo prezzo col premio; che però queste due quantità dovranno eſſere uguali, benchè il valore intrinſeco della speranza, o sia il premio medesimo preso in una più estesa significazione 111 (a) L’aspettativa non è altro che il grado di probabilità che uno ha di ottenere un’intento fortuito. II sia doppio del prezzo, poichè una metà del premio medesimo non si può chiamare lucro, restando compensata col prezzo già sbor fato ed esposto all’aleatorio. Stabilito adunque questo caso, come per punto fisso dal quale si parte la serie dei valori, è chiaro ugualmente che se il numero dei sinistri casi sia maggiore o minore di quello dei favorevoli, di tanto la probabilità del buon esito a fronte della probabilità dell'infausto farà a proporzione maggiore o minore di zero nel formare il valore totale della speranza; lo che non altro significa, se non che ad avere l'uguaglianza necessaria converrà che a proporzione l'oggetto della speranza superi nel primo caso il prezzo con cui si acquista e nel secondo sia ad esso inferiore, e quindi li puo universalmente stabilire. Nel secondo teorema, i valori delle speranze sono in ragion composta del valore intrinseco dell’oggetto o cosa o reale sperato (res sperata), o dell’spettativa. Ne terzo teorema, nel contratto aleatorio allora visarà l'us 1. Il contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando il prezzo che espone uno de contraenti stia al premio, come il numero dei casi favorevoli a lui, alla ſomma dei favorevoli e dei contrari. Notisi che quì per premio s’intende non solo la porzione che si lucra, ma di più il prezzo istesso che si è aleatorio, aleatato. E siccome, per quanti siano i prezzi dei contraenti, deve verificarsi in ciascun prezzo questo rapporto al premio, ne verrà che i prezzi staranno fra di loro come il numero dei casi favorevoli ad uno dei contraenti di viso per la somma de favorevoli e de’ contrari al numero de favorevoli a quello con cui si istituisce il paragone, diviso anch’esso per la somma dei favorevoli e dei contrari: e così dicasi di quanti siano i contraenti. Da questo teorema si deduce il seguente corollario. Nel contratto aleatorio allora vi sarà l'uguaglianza quando i prezzi dei contraenti ſtiano fra di loro, come i numeri dei caſi ri ſpettivamente favorevoli. Dagli enunciati Teoremi chiaramente ap pariſce, che per bene applicarli agl' indivi dui caſi, è neceſſario eſaminare maturamente, qual ſia il vero valore del prezzo con cui ſi compra la ſperanza; quali ſiano i veri caſi favorevoli, e ſiniſtri; e fiflarne il numero con quella eſattezza che convenga alla naturą del contratto in queſtione. Conſiderando at; tentamente la natura e le leggi dei diverſi contratti di azzardo, mi è parſo che preſen tino una facile e natural diviſione, per la quale in tre ſeparate, e diſtinte claſſi li pof ſono comodamente diſtribuire. Imperciocchè dalla loro diverſa natura, e dalle diverſe leg gi che gli coſtituiſcono, ne naſce una diverſa maniera di fiſſare i rapporti del numero dei caſi favorevoli, a quello dei ſiniſtri. A tre fi poſſono in fatti ridurre i metodi per fillare 1 14 gli accennati rapporti, e quindi collocare in una di tre diſtinte claſli ciaſcun contratto di azzardo. Primo metodo è quello per mezzo del quale conſiderata la natura, e le leggi del contrat to rilevaſi il ricercato rapporto dal numero delle cauſe e delle ragioni, che poſſono in fluire ſul buon eſito della ſperanza, numero determinabile, e ragioni certe, e ſicure. Il ſecondo è quello nel quale per la natura del contratto, non ſi può fondare il rapporto, ſe non che ſulla ſperienza, e ſulle oſſerva zioni eſatte perd, e molte volte replicate; e ſopra cagioni incerte, e variabiliffime per le quali il numero dei caſi favorevoli e dei fi niſtri, non può mai eſſer certo, determinato, e ſicuro. Terzo metodo è quello per cui ſi appoggia la indicata proporzione, parte alla conſiderazione di leggi certe e ſicure, e par te alla ſperienza del paſſato, e a circoſtanze incerte ', e di numero indefinito. Nei contratti adunque della prima fpecie, conoſciutene le leggi, fiffato il numero delle cauſe che poſſono influire ſull'oggetto del contratto, ed eſaminate le diverſe maniere nelle quali poſſono combinarſi, ſi avrà un eſatta ed infallibile notizia del rapporto dei caſi favorevoli ai finiftri. La ſcienza delle combinazioni, e permu tazioni è ſtata nel noſtro ſecolo così illuſtra ta, e dall ’ Ugenio, e dal Bernullio, e dal Moivre, ed è così vaſta ed eſteſa, che vo lendo io trattarne a lungo, non potrei per l'una parte non oſcurare ciò che è ſtato detto con tanta preciſione, e ſicurezza, e non fa prei per l'altra accennar poche coſe, che non laſciaffero un neceffario deſiderio di molte più, intorno alle quali l'intertenermi, oltre paſſerebbe di gran lunga il fine, e l'idea di queſto faggio; e tanto più, che ſenza la fe verità del calcolo più aſtruſo non ſi potreb bero per avventura trattare tutti i caſi par ticolari. Nel venire però eſaminando la na tura dei diverſi contratti, ed applicando ad effi li ſtabiliti Teoremi, ſi vedranno di trat to in tratto i principj di queſta ſcienza ſvi luppati, ed indicata la maniera di applicarli ad alcuni caſi particolari, ſiccome con l'uſo ! 16 rétto, e ſicuro del calcolo ſi poſſono adattare a tutti i caſi i più compoſti, ed aſtruſi. Il gioco di pura ſorte è certamente uno dei contratti che alla prima claſſe debbonſi riferire. Mi è noto quanto ha ſcritto il cele bre Giacomo Bernulli, per dare le regole ficure onde fiſſare nei giochi di fortuna il numero dei caſi favorevoli e dei contrari, i vantaggi reſpettivi dei giocatori, e il pre mio che può uno eligere, dopo incominciato il gioco per ritirarſi ſenza rinunziare alla miglior condizione, in cui l'hanno già poſto alcuni colpi favorevoli. So che eſſendo la probabilità, o ſemplice, o compoſta, ne ha queſto gran Matematico ridotta la miſura all'interſezione di una linea retta con una curva logaritmica, o di queſta con una pa rabolica, e così ſucceſſivamente aſcendendo alle curve dei gradi più alti. Ma laſciando da parte i profondi calcoli, e i miſteri della fublime Geometria, i quali però ben pene trati ſcuoprono il profondo e inventore in gegno di queſto grand' uomo, piacemi in quella vece di eſaminare ſemplicemente ſen 17 za di effi la natura e le leggi del gioco, per riconoſcere ſecondo l'accennato metodo, come ſi poſſa in eſſo e dare e ſcoprire l'u guaglianza fra i giocatori, e in tal guiſa applicare a queſto contratto gli enunciati univerſali Teoremi. Il gioco di pura ſorte è una ſpecie di con tratto, nel quale due o più perſone, dopo di aver convenuto di certe leggi, e condizio ni, ſi diſputano un premio, che ſi rilaſcia a chi ſarà più felice, per rapporto a certi acci denti l'effetto dei quali non dipende per ve run modo dalla loro induſtria. E quì cade in acconcio fare una rifleſſione comune a tutti i contratti di azzardo. Il dire che una coſa accada caſualmente, non altro ſignifica, ſe non che la cagione ne è a noi ſconoſciuta; e che non vi abbiamo alcuna volontaria influenza. Per altro quan do fiegue in natura un determinato effetto, qualunque ſiaſi, è certo che neceſſariamente dovea ſeguire. Che due dadi gettati ſu di una tavola, ſcoprano piuttoſto un numero, che un altro; noi ne ignoriamo la cagione b 18 nell'atto ſteſſo che ne ſegue per le noſtre mani medeſime il tratto. E perd ugualmente vero, che dato quel tal moto alla mano che gli getta, dato quel tal grado d'impeto, e non più nè meno, data la mole dei medefi mi, e il piano ſu cui ſi aggirano, devono neceſſariamente preſentar quel tal dato nu mero e non altro. Così dicaſi dei giochi di carte le combinazioni delle quali dipendono dalla diverſa maniera di meſcolarle, e di dividerle alzandone una parte di eſſe fovra il reſtante; anzi pure non ſolo del gioco, ma dicaſi, come ſi avvertì di tutti i contratti di azzardo, e generalmente di qualunque evento fortuito (a ), (a) Non ſolo ne' contratti ove ciò che ſi perde o che ſi guadagna è riducibile ad una miſura diſtinta in gradi coſtanti ed eſattamente marcati, ma anche in tutto il tenore di una vita diretta a un fine fpe rato ma incerto ha luogo il prezzo ed il premio. Le fatiche, gl'incomodi, le priyazioni dei piaceri formano il primo. Nella gloria, nell'autorità, negli onori, nelle ricchezze è ripoſto il ſecondo, che molte volte defrauda le meglio fondate ſperanze, o almeno ad effe perfettamente non corriſponde; onde può dirlig.Varie ſono le ſpecie principali dei giochi di pura ſorte, ſiccome varie ſono le maniere di diſputarſi il premio.O due giocatori eſpon gono all'eſito della forte le loro reſpective porzioni di depoſito con la legge che deb baſi tutto a quello rilaſciare, il quale felice mente s'incontra prima dell'altro in un fa vorevole accidente, che ambi ſi ſono propoſti d'incontrare; o a quello, che in ugual nu mero di faggi, ſotto le medeſime leggi, di pendentemente dalle medeſime condizioni, 6 2 che così in queſte ſecrete e non ftipulate aſpettative come in quelle per cui s'inſtituiſcono e ſi celebrano i contratti,domina ugualmente quella inſtabile divinità creata dall'ignoranza della conneſſione delle cagioni delle coſe, e del compleſſo delle circoſtanze necef ſarie ai fortuiti eventi, ma che in tutti i caſi ſuol chiamarſi ugualmente Saevo laeta negotio Et ludum inſolentem ludere pertinax. Biſogna però rammentarſi ſempre che le parole che eſprimono gli attributi della fortuna, o del caſo, quando ſono uſate dal Filoſofo, hanno un fenſo di verſo da quello in cui le uſa il Poeta che simboleg gia, e il volgo che non ragiona. << tro, così dire nega incontra quelle combinazioni che preſen tano una maggior ſomma di quegli elementi ond'è compoſto il gioco, e alla quale è at taccata la vincita del medeſimo. Oppure il contratto del gioco è tale che un ſolo dei giocatori s'impegna in un dato numero di ſaggi, e ſotto certe condizioni, d'incontrare un dato favorevole accidente o ſemplice ſia di altri ' compoſto, e quale non incontran do, la ſorte s'intende aver deciſo per l'al la ſperanza di cui per tiva, non ha altro oggetto che l'eſito infe lice delle mire dell'avverſario, non obbli gandoſi intanto a tentare poſitivamente ve run colpo di gioco. Nei priini due caſi egli è chiaro che devo no i giocatori azzardare una egual fomma, o prezzo, altrimenti reſterebbe manifeſtamente tolta di mezzo la neceſſaria uguaglianza. E' chiaro che allora il prezzo con cui ſi acquiſta la ſperanza è eguale alla metà del valore dell' oggetto; poichè il primo altro non è che la porzione di depoſito di uno dei giocatori e il ſecondo è la ſomma delle due porzioni 2 1 uguali componenti il totaledepoſito.Ma co me trovare in queſto caſo il numero dei caſi favorevoli uguale a quello dei ſiniſtri come pure eſige la ſtabilita Teoria? E certamente ſe fi conſiderino i caſi favorevoli, ei con trarj diſtintamente in ciaſcuno dei giocatori; non ſi potrà fiſſare nè ragione di uguaglianza nè altra qualunque. E' queſta una evidente verità, ſe ben ſi conſiderino le leggi di queſto gioco, per le quali dipendendo la ſorte di un giocatore, non dai ſuoi colpi ſolamente ma da quelli ancora dell'avverſario, i ter mini della proporzione ſaranno ſempre rela tivi, e per conſeguenza variabili. Eſaminata però più maturamente la natura del gioco di cui ſi tratta, fi dee riflettere, che il nu mero dei caſi favorevoli a un giocatore, è compoſto non ſolo dei caſi propizi a lui di rettamente, ma dei caſi altresì all'avverſario contrarj; e al contrario il numero dei finiſtri, altro non è che la ſomma degl'infauſti a lui, e dei favorevoli all'avverſario. Ma quando fi giochi con condizioni eguali, queſte due fomme fono eguali: dunque anche in queſto 22 caſo può reſtare verificato il canone della ſtabilita proporzione, e i prezzi ſtare fra loro come i caſi favorevoli ai finiſtri. Da ciò ne ſegue, che ſe due giocatori proponganſi di incontrare la medeſima favo revole combinazione o la medeſima ſomma di accidenti; ma che uno voglia far più ſaggi del gioco, o cercar con più mezzi quelle combinazioni che preſentino maggior ſomma degli elementi del gioco, nella guiſa di ſopra accennata; l'altro in tal caſo dovrà eſami nare di quanto il numero delle combinazioni a ſe favorevoli reſti fuperato dalle ſiniſtre, ed eligere che la porzione di depoſito dell' avverſario ſuperi in tal proporzione quella che egli conferiſce nel gioco. Sia concertato per eſempio, che abbia il premio del gioco quello che fa più numeri con i dadi, ed uno voglia gettarli più volte, o in ugual numero di volte gittarne un mag gior numero, è manifeſto, che dalla natura, e dalle leggi di queſto gioco, ſi potrà con le note regole delle combinazioni ricavare in che proporzione debba egli eſporre all'azzardo ſomma maggiore. Che ſe poi trattiſi della ſeconda ſpecie di ſopra accennata, che è allor.quando uno ſolo dei giocatori ſi eſpone ad incontrare una o più favorevoli combinazioni, in un dato numero di faggi, e ſotto certe leggi, e l'altro guadagna full infauſto eſito dell'avverſario, ſenza tentare egli di per ſe alcuna forte di gioco, è più difficile allora, ed è più operoſo il fiſſare gli opportuni termini della noſtra proporzione. L'intenzione e l'oggetto dei giocatori in tal caſo può eſſere di eſporre all'azzardo una ugual porzione, o di eſporla diverſa. Nel primo caſo il giocatore che intraprende, e faminata la natura del gioco, e le leggi chę a lui propone l'avverſario, potrà ricavarne il numero dei caſi favorevoli e quello dei ſiniſtri, e dimandare quelle condizioni nelle quali queſti due numeri ſi uguaglino: nel ſe condo conviene che dimandi quelle condi zioni nelle quali, il numero dei favorevoli caſi, ſuperi tanto quello dei contrari, di quan to la ſua porzione di depoſito ſupera quella dell'altro, o al contrario. Intraprende uno 14 di gettare un dado in maniera che ſi ſcuopra la faccia la quale moſtra il numero 6. Se lo deve fare in una ſol volta, ſiccome ha cin que combinazioni contrarie, e una ſola fa vorevole, converrà, che l'altro azzardi una ſomma cinque volte maggiore, altrimente la proporzione reſta alterata. Che ſe trattiſi di azzardare una fomma eguale da entrambi i giocatori, e ſi voglia più volte ricominciare, erinovare il gioco, converrà oflervare quanti tratti di dado ſiano neceſſarj per fare che il numero dei caſi favorevoli, ſia uguale a quel lo dei contrarj, del che, e relativamente al noſtro addotto caſo, e ai fimili, ne da una eſtefa tavola il gran Bernulli alla propoſizio ne X. del libro primo del ſuo trattato inti tolato ars conje &tandi; ove dimoſtra un ingan no che in fiſſare queſta proporzione è facile a pigliarſi da chi eſamini queſta ſpecie di gioco ſulla prima apparenza, ſenza internarſi profondamente nelle fue leggi. Diffi, quan do fi voglia più volte ricominciare, e rino vare il gioco, per le ragioni addotte dal Ber nulli nel loco citato; giacchè fe non ſi ri 25 novi ſucceſſivamente, egli è evidente che chi deve con un ſol dado ſcoprire la faccia del numero 6. per eſempio, ed azzardare una ſomma eguale a quella dell'avverſario, do vrà chiedere di gettare il dado tre volte; e cid col patto che non s'intendano in queſto numero compreſe quelle volte in cui ſi vol taſſe di nuovo una medeſima faccia del dado già ſtata ſcoperta. Ciò che ſi è detto di due giocatori, dicaſi di più, e ſi conſiderino diſtintamente tutti i contratti che fa ciaſcuno dei giocatori, e l'azzardo a cui eſpone ciaſcuno la depoſitata porzione, e ſi vedrà che non reſta punto terata la noſtra teoria, benchè coll’eſporre una determinata ſomma ſi poſſa guadagnare la medeſima moltiplicata per il numero dei giocatori (a ). Anzi è regola univerſale in tutti i caſi compleſſi di gioco, ridurli ai ſem plici dei quali è compoſto, ed eſaminare in ciaſcuno di effi le ſovra ſtabilite maſſime. Dalle medeſime troppo chiaro appariſce (a) Vedi il Corollario del Teorema III. che i vantaggi, che ha in alcuni giochi il banchiere, per eſempio nel faraone quello dei doppietti, quello dell'ultima carta, ed altri che ha ſecondo i vari uſi dei paeſi ove giocaſi tolgono l'uguaglianza, perchè tur bano la fiſſata da noi proporzione; poichè nei caſi medeſimi nei quali il premio che dà il banchiere è uguale alla ſomma azzardata dal puntatore, il numero dei caſi favorevoli al primo è maggiore del numero dei favo revoli al ſecondo; o in ugual numero di caſi favorevoli il ſecondo azzarda più del primo. Si pretende nonoſtante, che ſe ſi conſideri, non la relazione che ha ciaſcun giocatore in particolare al banchiere ma bensì tutto il ſiſtema del gioco, vi ſiano molti rifleſſi che giuſtifichino queſto vantaggio di condizione. Una ſplendida ſomma ſottopone egli alla cie ca ſorte, e ſi obbliga di laſciarla ſempre in pericolo. Il puntatore per lo contrario può voltar le ſpalle ſdegnoſo a quella avverſa for tuna, che tenta in vano di placare; o aven dola provata propizia può aſſicurare i ſuoi doni dalla capriccioſa ſua volubilità. Oltre 1 1 27 di ciò la ineguaglianza delle ſomme eſpoſte dai vari giocatori, delle quali alcune per dendo può il banchiere rimanere ftremo, ed eſauſto, ſenza ſperanza di tirar profitto dalla incoſtanza della fortuna; le altre ſe vin ce appena gli recano un tenuiſſimo guada gno; la non leggiere fatica per ultimo del banchiere medeſimo poſſono baſtevolmente render leciti i vantaggi che egli ha nel liſte ma del gioco. Io preſcindo dall' eſaminare quale, e quanta conſiderazione eſigano le accennate circoſtanze. Due coſe ſolo aſſeri ſco. E che alcune di queſte ſono quantità non già coſtanti ma variabiliſſime, eſſendo relative a circoſtanze facilmente alterabili; e che conſiderato il gioco in ciaſcuno a par te dei puntatori relativamente al banchiere, come par certamente debbaſi conſiderare, la alterazione della proporzione ſtabilita è mol to notabile in iſvantaggio dei primi, e in manifeſta utilità del ſecondo. Non voglio perd omettere, che eſſendo ſta ta eſaminata con eſatto calcolo la ſerie dei vantaggi del banchiere per ogni pofta femplice, cominciando dalla ſuppoſizione che vi ſiano 52. carte fino a quella che ve ne ſia no quattro due delle quali ſiano dell'iſteſſa figura, ſi è rilevato che la media, è il 5. per 100. Ma in tutto un giro quando l'avi dità dei giocatori fa che per mezzo dei pa roli o delle paci la forza del gioco ſi traſporti almeno verſo l'ultime 24. carte, allora la media diventa il 9. incirca per 100. Ep pure le circoſtanze che eſigono compenſa zione non variano in modo da efigere que Ita differenza (a ). Non ſi ha dunque nell'attuale ſiſtema del faraone la vera maniera di trovare la com penſazione delli ſvantaggi del banchiere. Bi ſognerà dunque per ottenerla, o fiſſare il nu mero delle pofte: 0 por dei termini ſopra, e fotto de' quali non poſſa ſalire o ribaſſarſi la poſta: 0 tentar di fiſſare più che fia poſſibile una ſomma relativa alle diverſe poſte la quale (a) Si noti che il vantaggio di ſopra indicato del ban chiere ſi ripete tante volte quante poite fi fanno, onde ſi vede in un ſol giro quanto ſia enorme ed ecceffivo. 29 effendo un di più della poſta medeſima, ma conoſciuto, non altererà le giuſte proporzioni fra il prezzo ed il premio: o diſperare per ultimo di poter mai annoverare fra i con tratti giuſti il gioco del faraone. Sogliono comunemente dalle fagge leggi vietarſi i giochi di pura ſorte, come quelli che per una certa fatalità luſinghiera, ſi uſur pano il tempo dovuto alle pubbliche cure, alle dotte occupazioni, ed al domeſtico reg gimento delle famiglie, alle quali recano sì di frequente irreparabile ruina; che non è già sì di rado, che una carta di gioco, o un ſol colpo di dado decida della defolazione, e dell' inopia di molti infelici. Si aggiunge a queſto, che la dura legge del biſogno, e la ſevera faccia dell'avverſa fortuna dettano all'inaſprito giocatore le arti meno oneſte, e i mezzi più indiretti nel gio co medeſimo; talchè ſi verificano di troppo i celebri verſi di Madama Deshouliers. Le deſir de gagner qui nuit &jour occupe Eft un dangereux aiguillon; Souvent quoique l'eſprit, quoique le coeur foit bon, On commence paretre dupe, On finit par etre fripon. E quanto il gioco di pura ſorte ſia ſtato ſempre deteſtato lo conoſcerà chi oſſervi le Leggi Romane al tit. De aleatoribus, e nei digeſti, e nel codice, e legga i dotti commenti degl' interpreti sù i medeſimi, e vedrà che ſi è ſempre riguardata come oggetto di compal ſione e di orrore la miſera condizione di que gl’incauti quos praeceps alea nudat. Io però e nel gioco, e in tutti i contratti di azzardo eſamino la giuſtizia per rapporto ſoltanto alla ſovra eſpoſta neceſſaria ugua glianza, preſcindendo affatto da qualunque carattere che poſſa rendere i medeſimi, o conformi, o oppoſti alle provide leggi, e ai retti coſtumi. Similiſſima al gioco è un'altra ſpecie di contratti d'azzardo, che chiamaſi comune mente il lotto de go. numeri; cinque dei quali ſi eſtraggono da un vaſo, e decidono della ſorte di chi ſulla ſperanza, che eſcano 31 dall'urna miniſtra della fortuna, azzarda una data ſomma di denaro. Troppo ſon note le leggi di queſto contratto, e troppo è facile il conoſcerne e combinarne gli accidenti, per poter francamente aſſerire che non vi è forſe contratto di azzardo nel quale, e più nota bilmente e più ſolennemente la ſtabilita pro porzione reſti alterata. Sempliciſſimi elemen ti formano il ſiſtema di queſto contratto, e una ſuperficialiſfima cognizione di calcolo è baſtevole per far conoſcere, che ſebbene una tenue ſomma di denaro può cambiarſi in una ſplendida maſſa di oro, pure a fronte di un caſo favorevole ve ne ſono tanti dei ſiniſtri, che rieſce aſſai più ſuperata la probabilità di gua dagnare da quella di perdere, che non la ſomma azzardata dal promeſſo premio per ricco e grande che poſſa parere. Per ſalvare la giuſtizia di queſto gioco, non giova il dire, che conſentendo i gioca tori con piena e perfetta libertà a queſta diſuguaglianza, queſto baſta per rendere le gitima quella convenzione, che ſarebbe al trimenti tanto leſiva. Queſto argomento proverebbe troppo in genere di contratti, e per ciò deve conſiderarſi di neſſun vigore. Sareb be queſta maſſima l'appoggio di moltilli mi contratti ingiuſti, e la difeſa di infiniti illeciti guadagni. Oltre di ciò la maggior parte di quelli che giocano al lotto neppure ardiſce di ſoſpet tare, che ſiavi a loro ſvantaggio una sì di chiarata ſproporzione; anzi moltiſſimi rin graziano come generoſa e prodiga quella mano che premia i vincitori, come ſe foſſe un gratuito dono ciò che non è ſe non una piccola parte di un debito. Più ſolida difeſa potrebbe recarſi riflettendo doverſi in queſto contratto dal padrone del lotto impiegare molti miniſtri, e fare molte e gravi ſpeſe, per lo che può eſigere ragionevolmente un riſarcimento; ma tutto ciò ancora non baſta a rendere giuſto queſto contratto fe ad altri termini e ad altre maſſime non ſia ridotto. Troppo anche più enorme era la diſugua glianza, prima che con lo ſtabilito aumento foſſe migliorata la condizione dei giocatori; condizione però, che tuttora è aſſai inferio re a quella del padrone del lotto. Quì però fa d'uopo dileguare un inganno comune a moltiſſimi che hanno le vedute corte, e limitate dalla prima ſuperficie delle coſe. Altro è l'aſferire, che il lotto conſide rato ſemplicemente come un contratto è in giuſto; altro è il dire che un Principe giuſto non poſſa ammetterlo nel ſuo ſtato, e debba toglierlo affatto, e ſradicarlo come un mal nato germe della rovina di tanti ſconſigliati. Il lotto può conſiderarſi come un tributo, che viene impoſto a chi ſpontaneamente con fente di pagarlo; cangiandoſi così in vantag gioſo al pubblico, ciò che potrebbe eſſer tan to pernicioſo al privato. Non ſi può deſcri vere l'ardore che muove ciaſcuno a cercare in queſta guiſa un propizio ſguardo della for te; nè ſi può immaginare quanto ſia pungen. te lo ſtimolo che ſpinge, e inquieta chi ri fiette che con una tenue ſomma di denaro, che azzardi, può guadagnare di che ſoſten tare una languente e numeroſa famiglia, o pur talora dilatare i confini del proprio luf ſo, o accreſcer anco tal volta un nuovo peſo agl’inoperoſi forzieri. Quindi è che tanti, e 34 tanti ſi affollano a tentare nel lotto la ſorte (a ). Penetrati dall'idea, e ſedotti dalla luſinga di (a) Non può negarſi per altro, che riccome tutte le cofe hanno un grado di valore e di eſtimazione ri Spettiva che naſce dall' uſo che può o vuol farne chi ne è padrone: può conſiderarſi ſotto l'iſteſſo aſpetto anche il denaro. Oltre il ſuo valor generale che na. ſce dal rapporto che egli ha alla maſſa delle coſe che ſono in commercio, può dirſi che un altro egli ne abbia privato e ſpeſſo mutabile, che naſce dalla qualità e quantità deibiſogni, o reali, o di opinione che à nelle date particolari circoſtanze, chi lo poſſiede; Può darli adunque che ciò che ſi azzarda al lotto, levato da una gran quantità, fia una piccola por zione di eſſa, relativamente ſuperflua; onde il ſuo valore ſia ſtimato sì tenue a fronte di una ſomma ragguardevole che rappreſenta un gran numero di comodi e di piaceri benchè fperabile ſolo per un piccoliſſimo grado di probabilità, che detto valore nella eſtimazione di chi lo gioca ſia conſiderato come zero, o come una quantità più o meno ad eſſo approf. fimante, formandoſi perciò, per così dire, una nuova e riſpettiva proporzione, ſecondo la quale il vantaggio molte volte ſarebbe dalla ſua parte. Queſto ſe non baſta, come ognun yede manifeſtamente, a render giuſto il contratto ſerve a render qualche ragione del traſporto, che hanno a tentar la forte in queſto gioco tanti che pur ne fanno ben conoſcere le condizioni, e calcolar le ſperanze. 35 quel bene che ſperano, non penſano a mi. ſurare i gradi della ſperanza medeſima; e il molto oro che già poſſeggono col penſiero, getta ſugli occhi loro un lampo che abbaglia talvolta anche il più ſaggio filoſofo, e il più freddo calcolatore. Quindi un tale impeto non conoſce freno che poſſa reggerlo, e non legge che poſſa vincerlo. Se un Principe tol ga dal proprio ſtato queſto oggetto dei co muni voti, la ſconſigliata avidità ad onta delle più fagge leggi, e deludendo le più ve glianti ſollecitudini ſi precipiterà in altri ſtati, che ſi arricchiranno a ſpeſe di quello onde il lotto ſia proibito ed eſcluſo. Unſaggio Principe adunque che può far ar gine a queſto torrente, accid non sbocchi al di fuori; deve procurare che ſi ſcarichi tutto a pubblico vantaggio, e che quella porzione di ſoſtanze che fagrificano follemente alla loro avidità i membri del corpo di cui egli è il capo circoli per il medeſimo, e poichè i pri vati ſi eſpongono a riſentire dello ſvantaggio, neſſun nocumento però ne venga alla Repub blica. Così facendo il faggio Principe, e non 1fi attira la taccia di ingiuſto, e merita tutta la lode di prudente, di politico, di difenſore e cuſtode della pubblica felicità. Di queſta verità ne conoſcono per una fe lice eſperienza il frutto in più ſpecial maniera quei popoli, che hanno la ſorte di eſſere go vernati da Principi umani e benefici, che per l'uſo che fanno del loro erario, anzichè pof ſeſſori, ſe ne moſtrano piuttoſto amminiſtra tori a pubblico e generale vantaggio. Havvi un'altra ſpecie di lotti nei quali non è un ſolo il premio, nè un ſolo il colpo fa vorevole della forte, ma molti ſono i premi, come molti e vari i caſi propizi; e ſecondo l'ordine dell'eſtrazione dei numeri dall'ur na, o ſecondo altre leggi convenute in pri ma ſi decide del maggiore, o minor premio. Tale è il lotto che ſi è fatto in Spagna per la coſtruzione del canale di Murcia, nella quale occaſione ſiccome ha fatta luminoſa comparſa la vaſtità, e penetrazione di ſpirito di chi ha ideato il progetto della grand'ope ſi è diſtinta non meno la finezza, e il di ſcernimento di chi ha regolato il metodo di ra;. 2 37 accumulare le gravi ſomme di denaro neceſ fario ad un sì grandioſo diſpendio. In queſto contratto come nei ſimili ad eſſo biſogna conſiderare, che varie ſono le ſperanze e molte, perchè vari e molti ſono i premi, e che la ſomma di tutti reſta come venduta a quelli che hanno comprati i viglietti. Sicco me queſti hanno sborſato un ugual prezzo, così devono avere fra loro ugual numero di caſi favorevoli e finiftri relativamente ai di verſi, o maggiori o minori premi; quali eſſendo per lo più vitalizj, l'uguaglianza fra gli azionarj e il padron dell'impreſa dipen de dalle regole, ſecondo le quali ſi ſtabiliſce la giuſtiza dei vitalizj. Ma non ſi troverà mai eſatta queſta uguaglianza, poichè una parte notabile del denaro che contribuiſcono gli azionarj, non già nel numero o nel valore dei premi ſi impiega, ma ſi deſtina alle ſpeſe delle ideate opere ſontuoſe. In queſto di Murcia però così ſono ſtati bilanciati i di ritti degli azzionarj, e ſono ſtati così grada tamente formati i premi, e in tal numero, e così bene è ſtata regolata l'economia di queſta sì grandioſa impreſa, che forſe non vi è ſtato mai un'altro lotto, in cui ſiaſi nel tempo iſteffo meglio aſſicurata la ſomma ne ceſſaria alla deſtinata opera, e ſia ſtata me no alterata la proporzione a ſvantaggio de gli azzionarj. Troppo ſon note le lotterie, che con al tro nome chiamanſi dai Franceſi Blanques perchè io impieghi molto tempo in eſami nare le qualità, e i caratteri di tale contrat to. Dall'economo del gioco ſi mette in un vaſo un certo numero di viglietti, dei quali alcuni ſon bianchi ed altri neri, e ſi vende il diritto di eſtrarne uno il quale ſe è nero apporta a chi lo eſtraſſe il guadagno di un premio del valore che è notato ful viglietto medefimo. Ognun vede, che accið ſiavi ugua glianza convien ricorrere alla regola mede ſima, che ſi è data pei lotti che ſi fanno per grandioſe opere pubbliche, avuta anche quì in conſiderazione la fatica, e il diſpendio dell'economo del gioco, e riflettendo che in queſto caſo i premi non ſono vitalizj. Questo è un CONTRATTO – cfr. Grice, quasi-contratto -- della natura di quello che dai 39 latini chiamavasi olla FORTVNAE. In simil guisa OTTAVIANO (vedasi) dilettavasi al riferir di SVETONIO (vedasi) di compartir doni ai suoi cortigiani, chiamando così la sorte ad esser ministra della sua beneficenza. Talora un solo è il premio che si disputa fra quelli che giocano alla lotteria, e allora se il premio non è denaro ma un altra cosa qualunque che abbia prezzo, si giustifica più facilmente, giusta l'opinione di Barbeirac, la notata disuguaglianza: e l'economo del gioco può vendere non solo tanti viglietti quanti corrispondono al valore del premio, ma ancora in maggior numero anche di quello che altronde eſiger pud e l'opera sua, e il dispendio, quando ve n'ha. Questi lotti si riducono, dice Barbeirac, ad una specie di compra che si fa in comune, a condizione che la sorte decida a chi debba appartenere la cosa comprata. Se ſiavi adunque dell'alterazione nella proporzione, ſi potrà conſiderare come se si fosse comprata la cosa ad un prezzo un poco più alto del corrente; penſando che ciaſcuno tra 1 ! fcuri queſto di più che in altra fpecie di con tratto gli parrebbe forſe notabile, ſulla ſpe ranza di guadagnare il premio più o meno fondata a proporzione che uno ha comprata maggiore, o minor quantità di viglietti. Queſta mallima, che non è certamente di ri goroſa giuſtizia, non ſi potrebbe eſtendere perfettamente a quei lotti nei quali, e molti e di vario prezzo ſono i viglierti, e molti e di vario valore i premi; a tutti quelli in ſomma, nei quali non ſia aſſolutamente u guale la condizione dei ſingoli poſſeſſori di ciaſcun viglietto, benchè lo ſia riſpettiva mente. Prima di paſſare ad altri contratti giovami riflettere, che anche quando il padron del gioco, o qualunque altro che ne abbia di ritto pretende, che ſiano valutate le ſue fa tiche e il ſuo difpendio, non tanto ſi può dire che v'intervenga una compenſazione; quanto che ſi verifica di fatto a tutto rigore la noſtra proporzione, giacchè quel di più che fi paga, non è a titolo di compra della speranza, ma bensì a titolo dell'altrui di 41 ſpendio, e fatica; e per conſeguenza eſſendo una quantità eſtranea alla detta proporzione non la può in verun modo alterare. Si poſſono ridurre ad un contratto d'az zardo appartenente a queſta claſſe le ſorti ancora propriamente dette. La ſorte, dice l'elegantiſſimo ſcrittore della ſtoria degl'ora coli, è l'effetto dell'azzardo, e come la deci fione, o l'oracolo della fortuna; ma le ſorti fono gli ſtrumenti di cui uno pud valerſi per ſapere qual ſia queſta deciſione. Le ſorti ſono ſtate in uſo preſſo i più antichi popoli; e la forte s'interrogava, o col gettare i dadi colle proprie mani, o col gettarli da un urna: e ai caratteri, ed alle parole che ſu i dadi erano ſegnate, corriſpondevano alcune tavole che ne contenevano la ſpiegazione. Altre molte erano le maniere di tentare la ſorte, e di a ſcoltarne gli oracoli. E' incredibile poi quan iti, e quanto gravi affari ſi regolaſſero a ta lento di queſta cieca divinità. Baſta leggere gli autori che trattano dei voti che ſi offe rivano a Preneſte, e ad Anzio, e che parlano diffuſamente delle forti Omeriche, e Virgiliane. I verſi dell'immortale Epico Greco, nei quali dipinge con sì vivi tratti l'impeto, e il furore dell'indomito Achille, ritrovati a caſo nell'aprire l'lliade, erano talvolta la fola innocente cagione della rovina delle più floride città, e della deſolazione d'intiere Provincie. E ſe per lo contrario, aprendo i libri della divina Eneide s'incontravano gli amabili colori coi quali ſi dipinge la man fuetudine e la pietà del figlio d' Anchiſe, gli animi tutti non reſpiravan che pace, e quei pochi verſi baſtavano per dar fine alle guerre più ſanguinoſe. Aleſſandro Severo, ſalito al foglio dei Ce fari, credette di averne avuto un preſagio, quando privato ancora, anzi odioſo all'Im peratore Eliogabalo, aprendo nel Tempio di Preneſte l'Eneide di Virgilio, s'incontrò in quel tratto, ove queſto gran Poeta eſalta le virtù e piange i'immatura morte di Marcel lo, e preciſamente gli ſi preſentarono quelle parole fi qua fata aſpera rumpas Tu Marcellus eris. Ma io non parlo propriamente di queſte forti, e confeſſo anzi eſſere le medeſime uno dei monumenti più ſolenni dell'umana fol lìa. Io quì parlo delle ſorti, che chiamanlı elettive, diviſorie, attributorie, e ſimili delle quali brevemente eſporrò la natura e le qua lità, ed applicherò alle medeſime i più volte enunciati Teoremi. Due, o più perſone han diritto ad una coſa medeſima; eſaminato il valore del lor diritto lo trovano uguale; non vogliono gettare, nè tempo, nè denaro in ſuſcitare queſtioni; aſcoltano anzi ſentimenti più miti, e commettono alla ſorte la deci fione dell'affare, anzichè affidarlo alle lun ghe, e diſaſtroſe vie dei Tribunali. Conſe gnano i loro nomi all'urna diſpenſatrice della forte, e quello è giudicato favorito dalla me deſima, del quale vien eſtratto il nome; e vien dichiarato pacifico, e ſolo padrone di quella coſa alla quale avea con gli altri ugual diritto. Che ſia lecito commettere in talguiſa alla ſorte un affare dubbioſo o controverſo non v'ha dubbio alcuno, giacchè non vi è ra gione per cui non polfa uno obbligarſi ſotto una condizione tale, che il purificarſi la mede fima dipenda dall'incerto, e vario evento della forte. Ora ſe i diritti ſono uguali, ſe quanti fono i concorrenti tanti ſono i nomi che ſi conſegnano all'urna, ecco che i prezzi che vengono rappreſentati dai diritti che ſi az zardano, ſtaran fra loro come i numeri dei caſi favorevoli ad uno, al numero dei caſi favorevoli a ciaſcuno degli altri riſpettiva mente; ed ecco ſalvata l'uguaglianza di pro porzione fra i favorevoli, e ſiniſtri caſi, e fra i riſpettivi prezzi della ſperanza, la ſomma dei quali è l'oggetto della medeſima nel caſo di cui ſi tratta. L'iſteſſo può dirſi a proporzione, quando uno abbia un diritto, per eſempio doppio di quello degli altri; e baſterà che in tal caſo due volte ſi affidi il ſuo nome all' urna fata le; e così dicaſi di altri ſimili caſi. E di fatto queſto contratto a farne una giuſta analiſi ſi riduce ad un gioco di pura forte, in cui molti depoſitando ugual por zione un ſolo guadagna tutte le porzioni de poſitate, del quale ſi è di ſopra parlato; e ſi  è detto, che uno depoſitando maggior por zione, pud eſigere a proporzione condizioni più vantaggioſe. L'iſteſſe maſſime regolar denno le ſorti elettive che ſi uſano, quando molti avendo un privato diritto ad eſſere eletti a qualche onorifica o autorevole dignità, troncano ogni ſorgente di diſcordanza col tentare la forte, L'iſteſſo dicaſi delle ſorti diviſorie, e di quan te altre poſſono immaginarſi, che tutte ſi ap poggiano ai medeſimi fondamenti, e in tutte nel modo iſteſſo ſi trova la proporzione che coſtituiſce l'uguaglianza fra i contraenti, Fin quì fi è parlato di quei contratti che alla prima delle ſopra indicate claſſi appar tengono. In effi fra la ſperanza che ſi acqui ſta, e il prezzo con cui ſi acquiſta ſi può fif fare un eſatta, inalterabile, e matematica proporzione. Note fono tutte le cagioni che poſſono aver rapporto al favorevole o triſto evento della ſorte, ſi conoſcono tutti gli ele menti dei quali ſi formano le varie combi nazioni, e ſi fanno perfettamente tutti i modi 46 diverſi per mezzo dei quali queſte fi forma no. E' queſto forſe l'unico caſo al quale ſi poſſa applicare lo ſpiritoſo Emblema del ce lebre Moivre, rappreſentante la ruota della fortuna, e ſopra di eſla una ſemicirconferen za di cerchio, che con le ſue diviſioni ſerve a regolare quei capriccioſi giri, che ſono l'og getto di tanti voti, e la cagione di tante vi cende dei mortali. Chi intraprende queſti contratti pud, direi quafi, venire alle preſe con la ſorte, e conoſcendone la forza e l'ar mi bilanciare il deſtino della lotta fatale. Non è così certamente nei contratti che alla ſeconda claſſe ſi riferiſcono, ne' quali il rapporto neceſſario a formare l'uguaglianza fra i contraenti, ſi appoggia alla ſola ſperien za del paſſato, e a cagioni incerte, e varia: biliffime. lo ſo bene che ſi ſono pur trovati dei Filoſofi che hanno francamente aſſerite due coſe. La prima, che nelle umane vicen de che colpi chiamanſi della ſorte, e a noi pajono fortunoſi e irregolari, ſiavi un ordine coſtante, eun'originale diſegno per cui dirette da una provida mano che lor dà moto ſecon 47 1 do certe invariate leggi, eſcano a ſuo tempo ad agire in queſto sì ben congegnato ſiſtema del mondo. La ſeconda, che l'irregolarità, che non agli eventi medeſimi e alle vicende, ma alle noſtre cortę vedute deveſi attribuire, ſcom parirà finalmente, e replicate l'eſperienze fi vedrà quella conneſſione che ora ci è inco gnita, e ſi conoſceranno i fottiliſſimi punti nei quali ſi uniſcono i tanti fili, che regolano con sì bella armonia l'intero univerſo. Da queſte due propoſizioni argomentano, che dunque dopo un dato tempo, ſiccome cre ſcendo il numero delle ſperienze, queſte ci danno regola per conoſcere ſempre più la probabilità di un evento, che anch'eſſa va ſempre aumentando a miſura che ſe ne co noſce la regolarità, arriverà un giorno queſta probabilità a cangiarſi in certezza. Ecco ciò che aſſeriſcono con molta ſicu rezza alcuni FILOSOFI, alla testa dei quali è l'incomparabile Moivre più altero di aver rintracciato ne' ſuoi intimi penetrali l'ordine della NATURA, e di averle ſtrappato queſto ſe 43 creto, che non fu già il ſuo celebre concit tadino di aver conoſciuti, e indicati i rego lari moti e le orbite dei pianeti per gl'im menſi ſpazi del cielo. Egli è veriſſimo che la gran macchina dell univerſo ricevè dalle mani creatrici quel grande impulſo, che poi la mantiene in moto coſtantemente, e dal quale come da prima cagione derivano tutti i più piccoli moti della medeſima, benchè immediatamente prodotti dalle ſottiliſſime e varie molle che la com pongono, e le dan forza. Ad eſſo ſi riferiſce ugualmente un'auretta leggiera che diſſipa per la ſelva poche aride foglie, e un procel loſo vento che ſull'immenſo Oceano di ſperde e rompe una flotta ſuperba di mille vele. Le grandi vedute di un politico illumi nato, che formano il ſoſtegno e la forza del Trono, non ſono agli occhi dell' Onni potente niente più luminoſe delle ignobili e ſconoſciute cure di un ſelvaggio, dirette ſoltanto a ſoſtentare la propria vita, e a difenderſi dall'ingiuria delle ſtagioni. Che poi l'Eterna mente che tutto sà e 49 za, o del tutto regola, abbia voluto che fra i varj eventi che inteflono la ſerie delle umane vicende, e che ſon chiamati in più ſtretto ſenſo fortunoſi ſiavi un rapporto più che un altro, un tal'ordine e non un altro, queſto è quello che io credo non poterſi ſcopriregiam mai. Che dopo un certo periodo ricompa riſca di nuovo l'iſteſſo evento, chedopo certe rivoluzioni torni l'iſteſla ſerie di coſe, ridon da egli forſe in maggior lode o della fapien potere eterno, e ſovrano? Nell'immenſo vortice della divinità fi pers dono le idee, che noi abbiamo di ordine, e conneſſione. O non vi è relativamente agli occhi divini ordine e regola; o non potiam noi conoſcere in che conſiſta; o tutto deve dirſi averla ugualmente. Chi vede inſieme col preſente ſiſtema di coſe infiniti altri pof fibili, vede un punto che non è ſuſcettibile di quei rapporti, che ſono idee relative a vedute limitate e finite; o ne vede infiniti altri, per cagion dei quali pud agli occhi ſuoi parer regolato tutto ciò che noi chiameremmo forſe diſordine, e confuſione. Ma non è forse neppur vero essere più vantaggioſo all'uomo che ſiavi di fatto nelle umane vicende queſta regolarità. Fra le infinite vedute, che l'occhio im menſo ha preſenti per il vantaggio delle ſue creature, chi ſaprà dire quale abbia fillata a preferenza dell'altre? Se un Sovrano cela ai ſuoi popoli i diſegni che forma, e le impreſe che và maturando, queſta condotta è diretta a tenergli nella dovuta ſommiſſione, e ad allontanarne l'orgoglio: e ſe un padre, ben chè benefico fa l'iſteſſo co'propri figli, non lo fa ad altro oggetto, che ad animarne la cieca confidenza che è uno dei più vivaci alimenti di un reciproco amore. Non vi è dunque argomento che comprovi queſta preteſa regolarità degli eventi che ſi fogliono chiamare fortuiti, e caſuali. Ma ſe ancor foſſevi, io ben non veggo ſu che fondamento ſi aſſeriſca, che agli occhi mortali eziandío dovrà una volta comparir chiara, e ſvanire per conſeguenza quella ap parente irregolarità che alla ſcarſezza delle noſtre notizie, e alla mancanza di eſperien ze, in tale ipoteſi deveſi attribuire. SI Quando ſi vuol fiſſare la contingibilità di un evento, oſſervar dennoſi ogni volta ch ' ei compariſce, le circoſtanze che lo accom pagnano, e l'intervallo di tempo che paſſa fra le diverſe ſue apparizioni. Quanto più creſceranno di numero le oſſervazioni, tanto più potrà conoſcerſi in quali circoſtanze ed in qual tempo debba arrivare. Da queſto ap punto argomentano gl ' indicati filoſofi, che ciaſcuna ofſervazione è diretta a ſcemare un grado della diſtanza che corre fralla irrego larità dipendente a ſenſo loro dalle noſtre corte vedute, e la regolarità che eſiſte di fatti nell'originale diſegno, e lega inſieme ed u niſce ſotto certe leggi tutte le varie vicende. Replicando adunque le eſperienze, rinovan do le offervazioni, ſi potrà arrivare a render nulla affatto queſta diſtanza; e a ſquarciare del tutto quel velo che cela ai noſtri occhi queſta bella regolarità. Di fatto ſoggiungono, che altro è la cer tezza ſe non un tutto di cui la probabilità è una parte? Creſcendo adunque queſta per mezzo delle oſſervazioni, potrà arrivare al 1 گرí grado di confonderſi col ſuo tutto: ed ecco fiſſata la certezza di quegli eventi, che ſi fo no ſempre creduti giochi, e capricci di una irregolare fortuna. E' egli per altro evidente queſto diſcorſo? Potrebb'egli un animo, che non voglia ar renderſi ad altra forza, che a quella della ve rità, dubitare ancora di ciò medeſimo che uomini di grande ingegno hanno tenuto per certo? E prima di tutto nel formare la tavola dei tempi nei quali ricompariſce l'evento medeſimo, convien riflettere di non notare ſe non quelle volte, nelle quali ſi moſtra ri veſtito delle medeſime circoſtanze. Se così è, e ſe queſte ſono preſſo che infinite, e in finitamente variabili, ne verrà per conſeguen za che quella rivoluzione che dee ricondur l'iſteſſo evento farà sì vaſta, e il circolo che la rappreſenta sì ampio, che o non ſi potran no da chi oſſerva congiungere oſſervazioni sì diſparate e rimote, o sì poche ſe ne po tranno fare, e la probabilità creſcerà sì len tamente da non potere giammai arrivare al grado di confonderſi colla CERTEZZA – Grice, UNCERTAINTY. Tra= laſcio di oſſervare che un evento può com parire a noi accompagnato dalle medeſime circoſtanze, ed eſſervi nulladimeno tanta va rietà, che ſe foſle da noi ben conoſciuta fa rebbe sì che a tutt'altra ſerie da quella di cui ſi fanno le oſſervazioni, dovrebbeſi ri chiamare. Si conſideri ora ſeriamente qua lunque di queſti eventi che fortuiti chiamat ſogliamo, da quante cauſe poſſa provenire, e queſte in quante maniere poſſano combi narſi; e vedremo, ſe per quante ſi vogliano replicate ſperienze ſi potrà giammai arrivare ad argomentare dalle circoſtanze che altre volte fi videro accompagnare un evento, la eſiſtenza del medeſimo. Quelle ragioni medeſime che immediata mente influiſcono ſugli eventi fortuiti hanno conneſſione con vari ordini di cauſe più o meno rimote, che innumerabili ſono ancor eſſe, e capaci di innumerabili gradi di alte razione. E quì potrei ricorrere a tante fiſiche teorie, le quali dimoſtrano, che un gran fe nomeno può avere la ſua prima ſorgente, tam 54 lora sì rimota che per infiniti giri, e tortuoſi fentieri appena ſi può rintracciare; talvolta sì piccola, che dopo averla conoſciuta, ap pena ſi può credere che da eſſa derivi. E la ragione, e la immaginazione vanno in queſto caſo d'accordo a preſentare al pen fiero l'enormiſſima ſproporzione che correrà ſempre fra un gran numero di offervazioni quali peraltro non potranno eſſere moltiſſi me, (ſe vogliano porſi in calcolo quelle ſolo che fimiliſſime ſono, è relative ad oggetti ſimili ) e l'immenſo vortice fra cui fi aggi ra ľ apparente irregolarità. Di quì deriva, che a rigore parlando dubitar deveſi di quella maſſima, che la probabilità di queſti eventi arriverà una volta a cangiarſi in cer tezza. E quì fa d'uopo riflettere, che la proba bilità, e la certezza ſono due atti eſſenzial mente fra loro diverſi, come dicono i meta fiſici, e che fralla maſſima probabilità che arrivi un evento, e la certezza, vi è di mez zo una ſerie infinita di poflibili. Il timore di errare che ſi coinpone con la maſſiına probabilità e viene eſcluſo dalla minima cer tezza, è una barriera inſuperabile, per cui non ſi poſſono giammai fra loro confon dere, ed è quello appunto che le rende (ſia mi lecito uſare un termine di matematica trattando di una materia nella quale ſe n'è fatto uſo con tanto profitto ) quantità in commenſurabili. Le prime oſſervazioni che fi fanno intorno a un determinato evento, non poſſono dargli che un grado di pro babilità così piccolo riſpetto al vortice im menſo della irregolarità, e all' infinita ſe rie dei poſſibili dall'evento medeſimo di verſi, che queſto grado pud conſiderarſi co me un infiniteſimo. Siccome adunque per trasformare un infiniteſimo in una quantità finita deveſi queſto moltiplicare per l'in finito, così queſto grado di probabilità do vrebbe ricevere infiniti aumenti per mezzo di infinite oflervazioni, prima che ſi poſſa chiamare ridotto al carattere della cer tezza. Parlo di caſi nei quali la ſerie dei poſſibili, che è di mezzo fralla probabilità e la cer 56 2 ! tezza, è compoſta di cauſe, che ogn'uno fa eſſere non immaginate ma vere, e poterſi in infinite maniere combinare. Poche oſſervazioni baſtano al filoſofo per render certe, o almeno eſcludenti un pru dente dubbio, alcune ſempliciſſime leggi della natura, dove tanto è lontano che ſi co noſca effervi infinite altre cagioni poſſibili, che anzi per argomenti preſi dai principi delle ſcienze ſi deduce non eſſervi luogo a ſoſpettare che altre ve ne ſiano. E' ben diverſo il caſo noftro ove trattaſi degli eventi che danno occaſione ai contratti di azzardo; e riguardo a quali ſi pretende ſolo di mettere in diffidenza la maſſima che promette che ſi abbia a cangiare in una aſſo luta e rigoroſa certezza, quella che è mera probabilità, e forſe capace di creſcer ſolo pochi gradi. Che non pud fare l'amor di ſiſtema? Lo ſpirito calcolatore avvezzo a portar lume ai più aſtruſi miſteri della geometria, e ad ana lizzare le coſtanti leggi della natura col più felice ſucceſſo, ſi lancia ardito dal gabinetto $ 7 di un filoſofo, e prefume di porre in mano ai mortali un filo che ſegni la traccia co ſtante degli eventi più incerti, e di aſſoggets tare alla ſua eſattezza ed uniformità, quan to v'ha di più vario, e mutabile. Non ſolo hanno cercato alcuni di ſcoprire un'ordine conoſciuto dai naufragi, un'ordi ne riſpettato dai morbi, e dalla ineſorabil morte; ma hanno fperato di poterlo tro vare anche in quegli eventi che più dipen dono da cauſe morali e libere, le quali agi ſcono certamente, non perchè così voglia un ordine e non un'altro, ma perchè così vo glion eſſe, e non altrimenti. Si è perfino tro vato chi ha propoſto le tavole degl'incendii, delle cadute fatali da un precipizio, e di molti altri ſimili fortunofi accidenti come ſe ſi poteſſe ſcuoprire anche in eſſi a ſuo tempo regola, ed ordine. Per quanto poſſa nei caſi dipendenti da fi fiche cauſe trovarſi una conneſſione fralle me deſime per lunga ſerie concatenate, in guiſa che debbano in un dato tempo produrre un effetto più che un'altro; non ſi potrà mai dire 1 1. $$ altrettanto quando vi abbia luogo una libera volontà che non ſiegue ordine, o conneſ fione, e che può produrre un'atto ſenza rap porto a verun' altro che abbia altre volte prodotto, o che ſia per produrre in appreſſo. E ſe è vero, che negli eventi, e nei caſi preſi in compleſſo di tutte le loro circoſtanze, e in quelli ſpecialmente che ſono il ſoggetto dei contratti di cui parliamo, qualche o più proſſima, o più rimota influenza vi hanno le cauſe morali; che ſi può egli penſare di più ſtravagante che il volergli ridurre eſattamen te a regola e pretendere di cangiare la pro babilità in certezza? E chi fu mai che tentaffe di ordinare le diſperſe, e confuſe foglie, che contenevano le riſpoſte ſull'avvenire, della fatidica Sacer dotella di Cuma? Ma quand'anche gli argomenti da me ad dotti non provaſſero l'impoſſibilità di arriva re dopo un lunghiſſimo corſo di anni a can giare in qualche certezza la probabilità, pro vano almeno, che per noi, e per ben mol te generazioni queſta farà una ſterile ricer 59 ca; giacchè per molti, e molti ſecoli, (ac cordando anche più di quello certamente, che ſi può ) non ſi potrà vincere quel diſordi ne, e irregolarità almeno apparente, che of ſervaſi nelle umane vicende, e che in ſomma il limite delle medeſime è tanto diſcoſto, che pud conſiderarſi come infinitamente diſtante. Dal fin quì detto per altro non ſi può ra gionevolmente inferire, che dunque dal com mercio degli uomini ſi debbano eſcludere i contratti di azzardo che appartengono alla ſeconda delle ſopra indicate clafli. Per provare la verità di queſta aſſerzione convien fiſſare due maſſime conformi alla ragione, e che ſe non erro ſono il fonda mento al quale ſi appoggia la giuſtizia di queſti contratti. Queſta uguaglianza fra i contraenti che è sì neceſſaria a render giuſti i contratti è un termine vago, e che non ha affiffa alcuna idea, ſe allo ſtato di natura vogliam rimon tare. Il prezzo delle coſe introdotto o dalla legge, o dalla conſuetudine che imitatrice della legge la vince di autorità, ecco ciò che ha chiamata l' uguaglianza a preſiedere ai contratti. Alla ſocietà dunque, e alle fire maſſime deveſi attribuire. Si eſamini pero lo ſpirito della ſocietà, e ſi vedrà che nelle ſue maſſime generali non ſi devono comprendere quei caſi che è dello ſpirito della medeſima l'eſcludergli, e l' eccettuarli. Si riduce al lora la queſtione, ad eſaminare ſe ſiano utili alla ſocietà i contratti in queſtione; e ſe nelle bilance del pubblico bene ſia di maggior mo mento il vantaggio che recano, o la preciſa offervanza di quella perfetta uguaglianza ne contratti, che è tanto neceſſaria generalmen te alla quiete, e felicità degli individui, e al buon ſiſtema, e conſervazione di queſto cor po morale, e politico. Pochi elementi, e poche idee ſciolgono il problema. Induſtria eccitata, commercio invigorito, circolazione ampliata. Vantaggi fono queſti generalmente procurati da tali contratti ben regolati, come ſi può ben co noſcere da chi ne eſamini lo ſpirito, e le conſeguenze. Daqueſto argomento riceve gran forza un 61 ſecondo rifleflo. In queſti contratti non ſi può avere fra i contraenti una perfetta ugua glianza di condizione, perchè non ſi può eſattamente miſurare la loro forte. Ma ciò che manca a queſta giuſta miſura è con une ad entrambi. Ad entrambi è egualme ite i gnoto per chi debba eſſere il vantaggio, e per chi il diſcapito, potendo ugualmente nel caſo noſtro, e l'uno, e l'altro a ciaſcun di loro arrivare; e queſto medeſimo forma una ſpecie di ſorte uguale, la quale pud ſupplire a quanto manca alla perfetta uguaglianza. Diſli alla perfetta uguaglianza, perchè le maſſime ſopra eſpoſte ed impugnate, vacil lano ſoltanto, perchè oltrepaſſano certi li miti, dentro dei quali rinchiuſe provano moltiſſimo, rapporto alla uguaglianza che deve eſſere nei contratti della ſeconda claſſe. Inteſe le maſſime con la dovuta moderazio ne, è veriſſimo che eſtraendo da un'urna ove ſiano alla rinfufa molti viglietti bianchi e molti neri, quante più eſtrazioni fi anderan no facendo, tanto più creſcerà la conoſcen za del rapporto che hanno fra loro: è verif fimo che le oſſervazioni ſegnate in tavole danno ai giovani la prudenza dei vecchi: ed è incontraſtabile che quanto più ſpeſſo ac caderà in natura un evento, tanto più ſi po tranno attrappare le circoſtanze che lo ac compagnano, e farà meno irragionevole l'in duzione che dalla eſiſtenza di queſte, ſi farà della futura eſiſtenza di quello. Si potrà dun que avere un qualche dato per eſaminare la probabilità di un'evento, e proporzionargli il prezzo con cui ſe ne acquiſti la ſperanza. Per formare una ſerie dei diverſi gradi di tale probabilità gioverà eſaminare un qualche contratto in ſpecie, e fiffare i punti dai quali la ſerie ſi parte; poichè non ſi potrebbe con tanta facilità fare una giuſta analiſi, o alme no egualmente chiara, ſe fi conſideraſſero le idee in aſtratto, e ſenza applicarle ad un de terminato ſoggetto. Fra tutti i contratti che ridur ſi poſſono a queſta ſeconda claſſe parmi che meriti di eſ ſere diſtintamente eſaminata l'aſſicurazione, Efla è un contratto per cui uno dei contraenti ſi obbliga a riparare tutti i danni che può un altro ſoffrire nelle ſue merci per naufragio, o altre convenute cagioni; e queſti ſi obbli ga a pagarli una determinata mercede in com penſo del pericolo al quale volontariamente ſi eſpone. 1 Fiorentini che avendo già eſteſo il loro commercio per tutto il Levante aveano fatto conoſcere a tutto il mondo quello ſpirito di lo devole induſtria, e fagacità, che forma il nerbo e la floridezza di uno ſtato, e che fu ſempre del loro carattere, furon quelli che riduſſero a certe leggi queſto contratto, e gli diedero for ma e credito. Inſegnarono così alle altre na zioni commercianti a tirarne quel profitto, che il profondo, ed illuminato Melon aſſe riſce dover eſſere sì ampio per uno ſtato che abbondi di eſperti, ed avveduti aſſicuratori. Di fatto alla Repubblica Fiorentina deb bonſi i primi capitoli di aſſicurazione che furono diſteſi negli anni 1523., e 1525. A queſti ſucceſſero negli anni 1563., e 1570. le ordinazioni di Olanda. Non è ſtata queſta l'unica occafionein cui abbiano, gareggiato in fatto di commercio queſte due nazioni, la prima delle quali ha faputo ſempre profittar pienamente delle fe lici fue circoſtanze, e la ſeconda compenſare ognora in mille modi i danni della infelice ſua ſituazione; e inſultar quaſi alla natura di ayerla in eſſa collocata. Gli ſcrittori che hanno trattato di queſto contratto lo diſtinguono in due ſpecie. La prima chiamano eſſi aſſicurazione propria mente detta, ed è quando le merci che ne ſono l'oggetto appartengono di fatto a quello che ne chiede l'aſſicurazione; e queſto è ciò che intendono ſotto il nome di riſico dell' aſſicurato; ed inoltre ſono eſſe realmente ſog gette a pericolo, o com'eſſi dicono a ſiniſtro. Per la validità di queſto contratto ricercaſi la coeſiſtenza del riſico, e del ſiniſtro; ed è quanto dire, che l'aſſicuratore non deve pa gare la ſicurtà, nè l'aſſicurato la mercede, ſe le merci avean corſo già il loro deſtino quan do fi ftipulò il contratto, o ſe non apparten gono all'aſſicurato. Per maggior comodo poi, e dilatazione di commercio fu introdotto il contratto di affi 65 curazione ſulle merci o proprie, ma non nella ſomma che ſi afferiſce, e che cade ſotto l'aſſi curazione: o appartenenti affatto ad altra perſona. In queſto contratto il fondamento conſiſte nella fola eventualità dell'azione; e ſi può in eſſo ravviſare un'apparenza di Scommeſſa della quale però gli mancano ſe condo molti, alcuni caratteri. Anche in queſta ſeconda ſpecie comunemente ricer caſi, che le merci ſiano in pericolo ancora quando ſi fa il contratto; benchè in alcune piazze ſi ſoſtenga anche nel caſo che le merci aveſſero già corſa la loro forte quando ſi ſti puld il contratto, purchè però queſto non foſſe a notizia dei contraenti. Per ridurre pertanto in qualche vero ſenſo il contratto di aſſicurazione alla Teoria ſopra eſpoſta regolatrice della uguaglianza neceſ faria nei contratti di azzardo, fa d'uopo con ſiderare due fatta di caufe che influir poſſono full'evento incerto, che ne forma l'oggetto. Altre ſono le cauſe fiſiche che per un puro meccanico impulſo della materia agiſcono in dipendentemente da qualunque libera determinazione di una cauſa ſeconda; il mare cioè più o meno ſparſo di pericoli, agitato da vortici, terribile per gli ſcogli; il vento che tormenta più un ſeno di mare che un altro, e domina più in una ſtagione, che in un altra; la qualità del naviglio, più o me no capace di reſiſtere agli urti, e di inſul tare gli Aquiloni; e finili altre che a que ſte ridur ſi ponno, anzi con queſte confon derſi. Più incerte affai, e più indocili all'eſat tezza del calcolo ſono quelle cagioni che mo rali ſi chiamano, perchè o conſiſtenti nella libera determinazione di un ente creato, o da quella dipendenti almeno mediatamente. La deſtrezza, e la buona fede del capitano: l'abilità dei marinari e dei piloti: il nume ro, e la gagliardìa dell'equipaggio: la mag giore o minor frequenza dei pirati che infi diano fraudolenti, e poi attaccano rapaci; o dei nemici armatori che appoggiano le fan guinoſe loro infeſtazioni ai tremendi diritti della guerra, ſono o le uniche, o le più con ſiderabili di queſte cauſe morali.  i Se il fondare un calcolo eſatto ſulle fiſiche cagioni ſuaccennate è impoſſibile: il fondarlo che ſi accoſti all'eſattezza difficiliſſimo: lo ſarà molto più l'appoggiarlo alle cauſe morali che non agiſcono per una conneſſione di mo vimenti, e d'impulſi che l'un l'altro fiſie guano neceſſariamente; ma che operano per una mera libera determinazione, che per qualunque congettura la più apparentemente probabile non ſi può preſagire; poichè anche preſa può ſul momento abbandonarſi, per cangiarla in una affatto diverſa, e talora dia metralmente oppoſta, e contraria. Un canone perd univerſaliſſimo, e da non preterirſi giammai in queſto contratto, parmi quello di non conſiderare neſſuna cauſa, o fiſica, o morale, ſeparatamente o iſolata dalle altre; ma di oſſervare l'influenza reci proca che hanno tutte le cauſe l'una ſopra dell'altra, e quella non meno che hanno ſulle morali; e l'iſteſſo dicaſi di queſte rapporto alle fiſiche. Il momento di ciaſcuna cauſa ſi altera a miſura che diverſamente è combi nata, o temperata colle altre. Per conoſcere però quanto poſſano queſte cagioni, e ſingolarmente preſe, e in complef ſo, è neceſſaria una lunga ſperienza. In queſto contratto, per caſi ſiniſtri non ſi intendono già tutte quelle combinazioni, che realmente poſſono funeſtare l'aſſicuratore, e perder la nave, nè per favorevoli quelle che ſalva dai naufragi, e dalle oſtili violenze, la confe gnano al ſoſpirato porto. Fatta una tavola di accurate, e frequenti oſſervazioni, e conoſciuto quante volte in parità di circoſtanze ſiaſi perduta la nave, e quante ſia giunta felicemente al deſiato fuo termine; la ſomma delle prime rappreſenta la ſomma dei caſi ſiniſtri; e quella delle ſe conde ſi tiene per il numero dei favorevoli; e ſu queſti dati ſi forma la proporzione da noi ſtabilita nel III. Teorema. Queſta è la ſpecifica differenza che paſſa fra i contratti del primo genere, e queſti che al ſecondo appartengono. Nei primi entrano in calcolo tutti quanti i poſſibili caſi e fini ſtri, e favorevoli, perchè ſi fanno tutti, e ſe ne conoſce perfettamente il numero; noi 1 69 ſecondi fi calcolano quelli ſoltanto, che dopo una lunga ſperienza ſi ſono oſſervati; reſtan done non compreſi nel calcolo tanti altri pof ſibili, i quali perd dopo molte e molte oſler vazioni fi fuppongono in proporzione di no tati. La proporzione ſi accoſta tanto più al vero, quanti più ſono i caſi oſſervati, come appunto accade nell'urna che contiene un ignoto numero di palle bianche e nere: delle quali con tanto minor pericolo di errore ſi può fiffare la proporzione, quanto più copioſa ſe ne è fatta l'eſtrazione. In una parola, nei primi è incerto l'eſito della ſorte; nei ſecondi è incerto anche ciò che può determinarlo. Rariſſimi però ſono i caſi che ſieno riveſtiti perfettamente delle medefine circoſtanze. Fa d'uopo adunque per formare la propor zione ricorrere alle diverſe tavole, ove ſono notate le circoſtanze preſe ſeparatamente; e conſiderarle come tanti elementi dei quali ſono compoſti i dati della proporzione. Scioglie una nave dal Porto, e veleggia per un mare tranquillo, e placido; queſta circoſtanza è un fondamento della propor 70 zione da ſtabilirſi fra il valor delle merci, e il prezzo dell'aſſicurazione; e la tavola delle navigazioni fatte in queſto mare lo additerà preciſamente. Ma fe queſta nave corra un pericolo di pirati, o di nemici che le altre navi facendo il medeſimo viaggio non avevan corſo giammai, nel formare la proporzione vi entra anche queſto elemento, la di cui forza ſi miſura dalla tavola di altre naviga zioni benchè fatte in altri mari, e ſi compone il minor pericolo che ha queſta veleggiando per un mare tranquillo; col pericolo che cor ſer altre per la ſola oſtile infeſtazione. Vaglia queſto per eſempio delle proporzioni com poſte di varj elementi, il valor dei quali ſia regiſtrato in diverſe tavole, non obliando giammai nel combinarli la forza che acqui ſtano dalla reciproca loro influenza. Ma può talvolta non eſſervi l'eſperienza baſtante a far conoſcere i gradi di probabi lità dell'eſito lieto, o infauſto. Monta per la prima volta un vaſcello un Capitano, che non ha mai per l'avanti governato naviglio alcuno: infeſta i mari una turma di corſari 1 1 71 sbucati da qualche ſcoglio che alzava prima una barriera alla fanguinaria loro rapacità e dei quali ignoraſi per anco il numero, ed il valore, o a meglio dire la violenza della eſecrabile loro ſete dell'oro e del ſangue; chi potrà miſurare i gradi dell'influenza che ha ſull'eſito felice la prụdenza e la deſtrezza del primo, e ſull’infauſto l'ardire, e la forza dei ſecondi? In tal caſo per quanto vogliaſi dare un va lore anche a queſte circoſtanze nuove; fon dandolo ſu qualche piuttoſto appreſa, che conoſciuta ſomiglianza ad altri caſi; egli è certo però che ſenza una più volte ripetu ta eſperienza, non può fiffarſi una propor zione di cui ſi calcolino i gradi, e ſi nume rino i valori; e ſenza di eſſa non ſi può for mare una ſerie che ſerva di norma all'u guaglianza ricercata in tali contratti. Tutto alla fine ci conduce a riflettere, che una e fatta proporzione nei contratti del ſecondo genere non può ſperarſi giammai; che in molti caſi ſi potrà avere meño lontana dall' eſattezza; in altri ſi troverà dalla medeſima 72 più rimota, come dal fin qui detto chiara mente appariſce. Ma forſe gli aſſicuratori interrogano que ſte tavole, formano calcoli, e ſciolgon pro blemi? Il filoſofo che ſcortato dalla ragione fino ai loro principi eſamina le azioni degli uomini e le bilancia, conoſce che queſti cal coli ſono neceſſarj a ridurre i contratti all' uguaglianza e comprende che queſta tanto più ſi otterrà facilmente, quanto più ſiano frequenti queſte tavole, e numeroſi i caſi che ad eſſe, come a indicatrici della ſorte ſono af fidati; l'aſſicuratore poi accorto ed illumi nato le conſulta, o le deſidera; l'indotto, e meno avveduto ha preſente, almeno in con fuſo la maggiore, o minor frequenza de' fini ſtri nelle date circoſtanze ſeguiti, e ſu queſto implicito calcolo forma il ſuo giudicio più o meno eſatto, e non ſi affida totalmente alla cieca all'arbitrio dell'incerta forte. In queſto contratto il prezzo che eſpone l'aſſicuratore, è il valore delle merci, che egli ſi mette in azzardo di dover pagare all' aſſicurato; quello dell'aſſicurato è la merce: 1 73 de che egli paga all'aſſicuratore in compenſo di queſto azzardo medeſimo. Ma ſiccome fatto il contratto di aſſicura zione, l'aſſicurato deve in qualunque evento pagare all'aſſicuratore la convenuta merce de, pare a prima viſta che per l'aſſicurato non ſiavi azzardo alcuno; poichè dal punto dello ſtabilito contratto è deciſa la ſua forte; o a dir meglio riguardo a lui nel ſuo con tratto non ha luogo alcuno la forte. Baſta però una giuſta rifleſſione ſulla natura di tal contratto, per vedere che anche per l'aſſicu rato vi è l'eſito favorevole della ſorte ſicco meancora l'infauſto. Caſo favorevole può chiamarſi quello che rende il contraente pago, e contento di aver fatto il contratto; talmente che ſe aveſſe pre veduto l'eſito, conſultando ſolo il ſuo van taggio, l'avrebbe nonoſtante fatto, anzi con tanto maggiore alacrità. Per lo contrario infauſto può dirſi quello che in qualche modo gli dà occaſione di pentimento, in guiſa che ſe aveſſe previſto l'eſito avrebbe omeſſo di fare il contratto. Ora quantunque 74 l'aſſicurato, fatto il contratto ſia già ſicuro di dover pagare la mercede, qualunque ſia l'evento; quando però la nave giunga a ſal vamento, è in caſo di pentirſi del ſuo con tratto; poichè ſe non lo aveſſe fatto, e avreb be avuta ſalva la nave, e non avrebbe fof ferto il diſpendio della ſtabilita mercede. In queſto ſolo ſenſo, e non in altro, che ſareb be troppo contrario all'umanità, poichè ſi riſolverebbe in compiacerſi dell'altrui dan no, che neppur ridonda in proprio vantaggio, ſi pud intendere ſiniſtro per l'aſſicurato il caſo del ſalvamento della nave; e in queſto ſolo può ridurſi il contratto al carattere di una vera ſcommeſſa, di cui è eſſenziale ſe condo alcuni, che l'avvenimento favorevole ad uno dei contraenti, ſia per l'altro infau ſto, e ſiniſtro. Conchiuſo il contratto, l'al ficurato che ha ſentimenti di umanità, deſi dera che ſi falvi la nave, ma falvata la nave vorrebbe non aver fatto il contratto. Quello che non ſi può in modo alcuno ri durre a calcolo, ſi è nella perdita di una na ve, la minore, o maggior quantità di merci, ! 75 che ritoglier ſi potranno all'ingordigia dell onde, e ritrarre al lido; lo che ſuccede mol te volte, e fa che non debbanſi tutti i cafi ſiniſtri giudicare di un carattere egualmente dannoſo; ma diverſi, a miſura, che più o meno delle aſſicurate merci, ſi perde, e ro vinafi. Il poter prevedere, e calcolare in a vanti tal quantità influirebbe molto a deter minare la mercede che l'aſſicurato promet te. Ma chi potrà mai calcolare le tante cauſe che poſſono influire ſopra un sì variabile accidente? Forſe l'aſſicurato avrà all'ingroſſo preſente queſta varietà di combinazioni; ma potrà egli dare ai loro effetti un giuſto valore? I principj fin'ora eſpoſti regolatori di que Ito contratto, quando ha per oggetto merci affidate al pericoloſo traſporto di mare, pof ſono facilmente adattarſi alle merci traſpor tate per terra; anzi alle merci, o ſituate nei magazzini, o in altra maniera cuſtodite. Tutto ciò che può eſſer ſoggetto ad un fatal accidente, e per quello perire, o deteriorarſi, fi fa eſſere oggetto di queſto contratto. Anzi il guaſto di un incendio divoratore, le ruine 70 di un turbine procellofo che abbatte caſe, porta la deſolazione per le campagne, la vio lenta incurſione di rapaci aſſaſſini, o le ru berie affidate al ſegreto e alle tenebre della notte dalle timide mani infidiatrici, ed altri pericoli di tal fatta, che a prevederli biſogne rebbe nulla meno che lo ſpirito di divinazio ne, ſomminiſtrano in alcuni paeſi occaſione di venire alle mani con la ſorte, ſenza che nè l'una parte nè l'altra poſſa mai, neppure all'in groſſo e colla maggiore ineſattezza, miſurarla. Un'altro contratto non meno intereſſante, e che appartiene a queſta ſeconda claſſe ſi è quello che chiamaſi vitalizio. Gli uomini non contenti di affidare la loro forte a tante, e sì varie combinazioni che alterano, e modificano sì ſtranamente gli ef Teri inanimati; hanno voluto che ella dipen da anche dalla vita dei loro ſimili, ed hanno fatto sì che un uomo debba ftimarſi infelice ſe un altro gode per lungo tempo sì prezioſo dono del cielo. La vita iſteſſa è venuta tal volta in bilancia con un tenuiſſimo guadagno. Il vitalizio altro non è che l'annuo interesse di un capitale collocato a fondo per duto. Chi colloca in tal guiſa il ſuo capitale lo fa ad oggetto di ritrarne un profitto mag giore di quello che riſerbandoſene il dominio potea ſperare. Suol eſſere comune queſto con tratto e a coloro che non avendo perſone congiunte con ſtretto vincolo di ſangue o di amicizia, o che non curando le veci dell' uno, o dell' altra, non hanno nulla che gli ritragga dal provvederſi i mezzi di ſodisfare anche a quei biſogni che ſono figli del più molle, e faſtoſo luſſo; e a quegl' infelici, che ſenza queſto compenſo condur dovrebbero i triſti loro giorni in ſeno all'inopia, e allo ſqual lore. Il vantaggio di liberarſi da tante fre quenti, e penoſe cure della domeſtica eco nomia luſinga molto, ed è talor neceſſario, a chi trovandoſi in un'età cadente, accom pagnata per lo più da una infaufta dote di mali, vedrebbe da mercenarie mani rapaci diſperſi, e lacerati i ſuoi fondi, rendergli un frutto di gran lunga inferiore a quello che potrebbe ritrarne perchè diviſo con tanci domeſtici fti pendiati uſurpatori. 78 Quello poi che ſi carica di pagare un frutto maggiore dell'ordinario ha per oggetto non folo di fare in un colpo l'acquiſto di una ragguardevole ſomma, ma di vedere la vita di quello a cui lo paga non oltrepaſſare un tal corſo di anni che la rendita ecceſſiva af forbiſca il capitale, e la ſomma degli inte reſſi ordinarj, che egli ne ha ritratti. Aipri mo arride la ſorte fe ſopravviva un tal nu mero di anni che fatta la ſomına delle an nuali rendite vitalizie, queſta ſuperi il fondo perduto e di più le rendite ordinarie del medeſimo. Favoriſce il ſecondo ſe la morte fi affretti a troncare prima di tal termine i giorni dell'altro. Ecco lo ſpirito di queſto contratto. Per rintracciare nel medeſimo la neceſſaria uguaglianza, e per verificare i noſtri teore mi è neceſſario riflettere, che sborſato il ca pitale che ſi perde, e fiſſata la rendita mag giore dell'ordinaria, vi ſarà un certo nume ro di anni, per il corſo dei quali ſopravi vendo, la ſomma degli ecceſſi della rendita vitalizia full' ordinaria uguaglierà il capitale. Se quello adunque che perde il fondo foſſe ſicuro di ſopravivere un tal corſo d'an ni, non potrebbe eſiger di più di queſta de terminata rendita vitalizia. Ma ſiccome quel lo che dà a vitalizio non è ſicuro di vivere un determinato numero d'anni; per poter rendere eguali le condizioni dei contraenti, è neceſſario fiſſare un tal numero d'anni, che la probabilità di ſopravivere ſia uguale a quella di premorire, e che al caſo che uno ſopraviva o due o tre anni, o qualunque altro numero, ſi poſſa con ugual probabilità contrapporre il caſo che muoja un egual nu, mero d'anni prima. Quando dunque ſi tratta di formare un vitalizio, conviene eſaminare quanto abbia ſopraviſſuto un gran numero di perſone, per eſempio mille, all'età di quello che vuol farlo. La ſomma di tutti gli anni che tali perſone hanno ſopraviſſuto di viſa per il numero delle medeſime, dà un numero, che ſi chiama l'età media. Trovato queſto, ſi ſuppone che chi fa il vitalizio deb ba ſopravivere fino a tal termine, e ſi fa il diſcorſo che ſi è detto di ſopra, quando ſi è 80 fatta l'ipoteſi che uno foſſe ſicuro di vivere nè più nè meno un determinato numero d'anni. Nel fiſſare la media ſi ſono conſide rati gli eventi che poſſono favorire il caſo della ſopravivenza eguali in numero a quelli che vi ſi oppongono; uguaglianza che ſi ac coſterà tanto più al vero quanto ſarà mag giore il numero delle vite dalle quali ſi ri cava la media. Ecco dunque, come in queſto caſo la ſpe ranza può dirſi uguale al timore, e per con ſeguenza può aver luogo l'azzardo ſenza op porſi alla giuſtizia, ed ecco finalmente ridot to il contratto ai termini dei noſtri teore mi. La ſomma del capitale più le rendite ordinarie, che è il prezzo eſpoſto da chi perde il fondo, deve ſtare alla ſomma delle rendite vitalizie che formano il prezzo eſpoſto dall' altro contraente, come il numero dei cafi favorevoli al primo, al numero dei caſi fa vorevoli al ſecondo; i quali ſupponendoſi moralmente uguali per l'accennata ragione, ne ſegue che la ſomma del capitale, e delle rendite vitalizie dovrà eſſere eguale alla fom 81 ma del capitale, e delle rendite ordinarie computando tal ſomma fino al termine del la vita media, che per ipoteſi ſi dà ſtabilito per l'indicato calcolo. Si ridurrà dunque l'uguaglianza di queſto contratto a diſtribui re per detto numero d'anni queſta ſomma; o ſia a rendere anche più ſemplice l'eſpreſ fione, ſi tratterà di aggiungere alle annue rendite ordinarie il capitale diſtribuito per detto numero d'anni. E'evidente che per rendere in queſto contratto le condizioni più eguali convien pigliare un grandiſſimo nu mero di vite per formar la media. E quì ſi oſſervi che ſe poteſſe la probabilità della du rata di una vita fino a un dato numero d'an ni cangiarſi in certezza, ſarebbe tolto affatto l'uſo di queſto contratto: lo che dee dirſi di tutti i contratti di azzardo. Si penſa a can giare la probabilità degli eventi in certezza. Se queſto ſi otteneſſe ſarebbe affatto bandita quella cieca divinità alla quale ſi abbando nano gli uomini per formarne un ramo di commercio. Vogliamo adunque miſurar la forte, non eſpellerla. f 82 Tanto più farà facile in queſto contratto fiſſare la media, quanto più ſaranno ridotte a claſſi diſtinte le perſone delle quali ſi ſom mano le età. Qualità di profeſſione, carattere di temperamento, indole di clima, eligono ſeparate oſſervazioni. In fatti, ſiccome per cali favorevoli s'intendono quelli per i quali ſi prolungano le vite, per contrari quelli che le abbreviano; e i ſecondi, nel fillarſi l'età media vengono conſiderati moralmente ugua li di numero ai primi; queſta uguaglianza ſarà più vicina alla vera, quanto maggiore ſarà la parità di circoſtanze. Se abbiaſi però riguardo non ſolo alle an nue rendite vitalizie, ma al frutto delle me deſime, potendoſi eſſe, e il frutto loro cangia re ſucceſſivamente in forte fruttifera; fic come quello che paga l'annua rendita vita lizia paga un frutto maggiore di quello che ritrae; dovrà a proporzione ſcemarſi l'ecceſſo della rendita vitalizia ſull'ordinaria. Queſto però non ſi oppone alla verità del teorema terzo; poichè in tal caſo il prezzo che eſpo ne quello che paga la rendita vitalizia non farà più quell'ecceſſo della rendita vitalizia ſull' ordinaria, che naſcerebbe dalla fillata proporzione; ma ſarà un ecceſſo tanto mino re, quanto è la differenza del frutto della rendita vitalizia conſiderato ſucceſſivamente, e per ferie cangiato in forte fruttifera, dal frutto della rendita ordinaria conſiderata nell'iſteſſa maniera, e così cangiandoſi pro porzionalmente le eſpreſſioni dei due prezzi, non ſi cangerà l'analogia. Non farà difficile il perſuaderſi dell'indi cata differenza fe fi conſideri, che chiamata la ſorte totale per eſempio A, e una di lei porzione C, alla quale corriſponda l'annuo frutto B, ſarà la ſerie delle annue rate d'in tereſſe o ſia di ciò che ſi deve ogni anno nella ipoteſi che il frutto ſi cangi in forte, eſpreſſa dalla ſeguente formola. (C + B ) A,(B ) A (C (C + B С N o ſia eſprimendo per Nil numero degli anni ſcorſi dal primo (C + B) À laddove quando il N frutto non ſi cangia in ſorte fi avrà una ſe C_A f 2  rie aritmetica il di cui primo numero cor riſpondente al primo anno farà il capitale col frutto; il ſecondo il capitale col doppio del primo frutto; il terzo il capitale col tri plo del primo frutto. Il valore adunque del frutto del primo anno ſarà la differenza dei termini di queſta ſerie. Siccome poi nel caſo dell'ultima ipoteſi, tanto la rendita ordiną ria, quanto la vitalizia ſi cangiano in forte; fatte le due ſerie di potenze ſecondo la eſpo fta formula, e ridotte ai termini individui del caſo di cui ſi cerca, ſi conoſcerà il valore della ricercata differenza. Richiaminſi però a queſto contratto i prin cipj ſtabiliti in quello dell'aſſicurazione, e ſi abbia in viſta che per caſi favorevoli, altro non s'intende, che il numero di quelle per ſone che in parità di circoſtanze hanno ſo pravviſſuto un dato numero d'anni, per ſi niſtri poi il numero di quelle che ſono man cate prima; che queſta parità di circoſtanze vien compoſta talora da molti elementi il valore de'quali dev'eſſere prima a parte no tato; e che la vita dell'uomo dipendendo da cagioni fiſiche e morali, fa di meſtieri riflet tere al diverſo loro carattere, e alla recipro ca influenza delle medeſime. Lodevolilimo però è l'uſo di far le tavole, o regiſtri, nei quali ſi notino la naſcita, la morte, e gli altri accidenti della vita umana; poichè queſte ſole appreſtano il fondamento ſu cui ſi appoggiano tanti vantaggioſi con tratti; ed elle ſole danno la miſura delle forti, e delle aſpettative dei contraenti. Sarebbe in conſeguenza deſiderabile che ciaſcun medico regiſtraſſe privatamente le qualità, e gli accidenti dellemalattie che egli tratta; ſiccome quelle del temperamento di ciaſcun malato, che egli libera, o che non può ritrarre dalle prepotenti fauci di morte. Queſte ridotte in ſiſtema, e reſe pubbliche riſparmierebbero molte volte la pena di com binarne molte formate da indotti oſſervatori, anzi fovente farebbero neceſſarie; poichè l'imperito regiſtratore omettendo tutte le circoſtanze, o alcuna almeno delle eſſenziali, rende inutili le ſue oſſervazioni, e appreſta piuttoſto occaſione all'altrui errore, o irri fleſſione. Benchè e da quali tavole ſi potrà mai rica vare la giuſta miſura della vita d'un uomo? Quot non ſunt caufae, dice S'graveſand intro duft. ad Phil. a quibus vita hominis pendet? Una di queſte tavole forſe la più eccel lente, perchè ricavata da regiſtri d'interi regni e provincie, è quella di Pietro Süſmlich da lui intitolata: La divina providenza nelle vicende dell'umana ſpecie, dimoſtrata dall'or dine delle naſcite, morti e moltiplicazioni. Celebre è anche quella di Hocdſon fatta appunto per fillare le annue penſioni vitali žie, e dedotta dai cataloghi di mortalità di Londra. Gl’Italiani forſe ſono quelli che hanno traſcurato fin'ora più dell'altre nazioni queſti importanti regiſtri. Oh ſe lo ſpirito d'indu ſtria, e di curioſità, che non è l'ultimo pre gio di queſta nazione ſe l'intendeſſe ſempre con la vera, ed utile filoſofia ! Sono ſtate fatte oſſervazioni meteorologiche, ed ulti mamente l'aſtronomo di Padova il chiariſ fimo S: Toaldo ha dato alla luce un libro nel quale ſono regiſtrate le oſſervazioni fatte  í per un lungo corſo d'anni. Più palpabile però, per ſervirmi di una eſpreſſione di un fommo Filoſofo, e più immediata ſarebbe l'utilità delle tavole di cui ſi parla. Vi è tutta la ragione di aſpettarla grandiſſima, dalla aſſiduità, ed efficacia dei noſtri Italiani oſſervatori. Il preſagio comincia ad avve raríi felicemente. Già dai regiſtri delle na ſcite, che la noſtra fanta religione rende neceffari, ſonoſi ricavate delle conſeguenze ſull'articolo della popolazione: ficcome dalle oſſervazioni delle frequenti morti dei bambi ni, ſi è preſa occaſione di rintracciarne la cauſa, e d'indagare la maniera di ſalvare queſti teneri germi, che sì facilmente foc combono anche ad un leggiero urto, e ad una tenue ſcoſſa. Al genere dei vitalizj appartiene quella convenzione, che dal ſuo oggetto chiamaſi: la dote della figlia. Un provido padre sborfa una determinata ſomma di denaro con la condizione che fe una tal figlia di freſco natagli manchi prima dell'età nubile, la sborſata ſomma cada in 88 proprietà di quello che l'ha ricevuta; ma ſe la figlia arrivi all'età nubile riceva eſſa da queſto una ſomma proporzionata agl'intereſſi decorſi del denaro, e al pericolo in cui ella è ſtata di morire in tal intervallo, e di per der così la ſomma dal padre sborſata. Dovrà in tal contratto rifletterſi che il prez zo, che sborſa il padre per la figlia è uguale alla fomma più le rendite ordinarie fino all anno prefiffo; quello che azzarda l'altro è l'ecceſſo della dote ſopra la sborfata ſomma, e i frutti ordinari: ecceſſo che fi deve per l'incertezza della vita. Deve dunque come il numero dei caſi favorevoli alla vita della figlia fino alprefillo termine, ſta ai ſiniſtri (a), o fia ai favorevoli all'altro; così ſtare la ſom ma sborſata dal padre, più le rendite ordi narie, all'ecceſſo della dote che ſi dovrà alla figlia in caſo di ſopravvivenza ſulla ſomma sborſata più le rendite ordinarie. Havvi un'altro contratto per cui un par ticolare, che vuol comprare una conſidera (a) Anche in queſto contratto i caſi favorevoli, e i finiftri s'intendono come fi dille parlando de' vitalizji 89 bile carica; per non privare della ſomma ne ceſſaria a tal acquiſto una famiglia a lui ca ra che la ſua morte potrebbe mettere in braccio alla deſolazione, e all'inopia; fi fa aſſicurare la propria vita per un dato corſo di anni, pagando, o una ſomma, o un'an nua penſione all'aſſicuratore, che ſi obbliga all'incontro di pagare agli eredi di lui la ſom ma ſpeſa nell'acquiſto della carica, ſe egli muoja prima del termine ſtabilito. La eva luazione della vita, si in queſto, come in tutti gli altri caſi ſi ricava dalle non mai ab baſtanza commendate tavole. Si oſſervi, che in queſto contratto quello che riceve la ſoin ma o l'annua penſione, trova vantaggio nella prolungazione della vita di chi la sborſa, al contrario di ciò che accade nei vitalizj, e negli altri contratti ad eſſi analoghi. Nel for mare adunque la proporzione cangian nome fra loro i caſi che nei vitalizj ſi chiamano favorevoli, o ſiniſtri; del reſto non vi è dif ferenza veruna. E' queſto un contratto di cui tanto meno importa trattenerſi ad eſami nare i dettagli quanto importa più alla feli 1 $ 1 1 1 1 1 go cità di uno ſtato che non poſſa mai trovarſi occaſione d'iſtituirlo. Diaſi però in quella vece una rapida oc chiata a quello che dal nome del ſuo inven tore chiamaſi Tontina. Non differiſce que fto dal vitalizio, ſe non in ciò che ove in quello la rendita annua ceſſa alla morte di colui, che collocò il ſuo capitale a fondo per duto; in queſto ſi diſtribuiſce nei ſuperſtiti che appartengono alla medeſiına claſſe, e che hanno fatto un ſimile contratto col padro ne della tontina. L'ultimo però di ciaſcu na claſſe conſolida ſul ſuo capo tutte le ren dite che ſi pagavano a quegli che gli ſono premorti nella ſua claffe. A formare le diverſe claſli dà norma la diverſa età. E' celebre la Vedova di un Chirurgo di Parigi la quale morì in età di 90. anni, e godeva 35000, lire di annua penlione frutto di uno sborſo di 600, lire. Dalle tavole di mortalità ſi è ricavata la formula che eſprime in un dato numero di vite coetanee quanti anni ſia per durare la più lunga. Da ciò il padrone della tontina pud co 91 lui il pagare a o il noſcere per quanti anni dovrà pagare le ren dite; poichè per il ſovra eſpoſto carattere di tal contratto, val lo ſteſſo per ciaſcuno la ſua penſione col diritto di ac creſcere, che hanno quelliche ſopravvivono, pagare la fomma di tutte a quella vita che durerà più dell'altre. Potrà per conſe guenza fiſſare il valore di queſte annue pen ſioni. Si è in oltre trovata la formola che eſpri me, dato qualunque numero di vite coetanee, il tempo in cui uno, o due, o più manche ranno, la formola per il caſo che più perſo ne comprino un annualità da dividerſi fra loro mentre vivono, da dividerſi poi dopo la mor te di qualcuno di loro ugualmente fra i ſo praviventi, e da ricadere finalmente tutta all'ultimo ſuperſtite da goderſi durante la ſua vita; e queſta ancora dà lume agli azionari ſulla contribuzione che devono preſtare. E faminate queſte formole, ed avuto in conſi derazione il metodo tenuto nel fiſſare la pro porzione per i vitalizj, ſi ritrova facilmente la medeſima anche per le contine.  1 1 E' oltre ogni credere benemerito dell'u“ manità il gran inatematico Abramo Moivre, che ha trovate, e applicate le anzidette, e molte altre formole, che ſi trovano nella incomparabile ſua opera intitolata la dot trina degli azzardi. Io non le ho riportate perchè il far ciò e troppo lungo ſarebbe, e devierebbe dallo ſcopo fin da principio pro poſtomi. Benchè peraltro l'unico mio oggetto nell’ eſaminare i contratti d'azzardo ſia quello di fiſſare i principj sù cui ſi fonda l'uguaglianza perchè ſian giuſti; voglio rammentare, che i più illuminati politici hanno deteſtato l'a buſo di queſte pubbliche rendite, come ap punto ſono le tontine, ed altre di fomi gliante natura. E' troppo chiaro che queſte tendono a ſoffocare i germi dell'induſtria, e ad appreſtare alla parte ozioſa, e indolente della ſocietà armi ſempre nuove per oppri inere la porzione che co'ſuoi ſudori dà moto, ed anima al ben eſſere dello ſtato; oltre di che ſi oppongono alla propagazione, allet tando eſſe a ſituarſi in uno ſtato nel quale il 1 I  generar figli ſarebbe un'accreſcere il numero degl’infelici. En fin je ne me plaindrai plus De l'etoile qui me domine; Il me reſte encore cent ecus Que je vais mettre a la Tontine: O la charmante invention ! Sans avoir du Dieu Mars eſſuyé le orages, Sans avoir fatiguè la cour de mes hom mages, Je ferai ſur l'etat, et j'aurai penſion. Così cantò un elegante Poeta Franceſe in tendendo così di far la ſatira delle tontine; e pare di fatto che il Poeta potrebbe ora viver quieto ſu queſto articolo eſſendo eſſe molto ſcemate, e andate in diſuſo, benchè non così gli altri contratti del genere di cui parliamo. Ma d'altra parte eſſendo utiliſſimo, e tal volta neceſſario al ben dello ſtato il poter ſollecitamente raccogliere una grandioſa ſomma di denaro, ſenza imporre perciò nuo ve contribuzioni; ed effendovi talora molti cittadini, le circoſtanze dei quali rendono ad eſſi neceſſario il ſoccorſo di queſte pen 94. fioni vitalizie ſi potrebbero forſe ritrovare provvedimenti opportuni, per fare un eſame regolato dell'età, e delle circoſtanze di quelli che doveſſero eſſere ammeſſi alla compra delle azioni, e con i neceſſari regolamentipreveni re gl ' inganni, che in queſto articolo intereſ fante poteſſero deludere le pubbliche vedute. Per eſaminare i contratti della terza claſſe ne quali il rapporto su cui ſi fonda l ' ugua glianza fra i contraenti ſi appoggia in parte alla conſiderazione di leggi certe, e ſicure, e in parte alla ſperienza del paſſato, e a cir coſtanze incerte e di numero indeterminato, ſi ripigli l'eſempio dell'urna, nella quale ab biavi un determinato numero, per eſempio di go. palle. Se la ſperanza dell'eſito felice è affidata all'eſtrazione di una palla; per la natura di tal contratto, o gioco che voglia chiamarſi, e per le ſue leggi, il numero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri farà come 1. 89,0 ſia chiamando il numero totale m farà il mu mero dei caſi favorevoli ai ſiniſtri come 1: m - 1 e per conſeguenza l'aſpettativa del buon'eſito farà = mo ſia -112  Ma ſe ſia vero che la palla alla quale è affidata la ſperanza eſca più frequentemente dall'urna che qualunque altra, e l'ecceſſo di tal frequenza ſu quella delle altre ſia Þ; il numero dei caſi favorevoli non ſarà più i ma bensì 1 Xp; e quello dei ſiniſtri eſſendo m = 1, la probabilità della ſperata eſtrazione farà Xp L'addotto eſempio è la norma coſtante di tutti i contratti che poſſano mai cadere for to queſta terza claſſe, come comprendenti le condizioni che ne formano il carattere. Di fatti la probabilità dell'eſtrazione della palla fatale dipende dalle leggi del contratto certe, e ficure che danno il rapporto di e dalla ſperienza, ed oſſervazione delle fre quenti eſtrazioni della medeſima, che danno l'ecceſſo di p ſulla frequenza dell'eſtrazione dell'altre palle nell' urna rinchiuſe, la quale i XP fa che l'aſpettativa diventi I: m; Non è neceſſario che io offervi che per quanto ſiaſi oſſervato queſto ecceſſo p, non 96 dimeno non è ſicuro e certo che piuttoſto eſca tal palla, di quello che ne eſca un'al tra. E queſta è una di quelle circoſtanze che io chiamo incerte e variabili. Che ſe ſi trattaſſe di paragonare la pro babilità dell'eſtrazione fra due palle, ſicco rapporto che naſce dalle leggi certe e ſicure è lo ſteſſo per tutte due, eſſendo in me il I tutte due ſi dovrebbe attendere ſolamen in te la diverſa frequenza dell' eſtrazione di queſte due palle. A queſto eſempio ſi poſſono ridurre fpe cialmente le offervazioni dei giocatori di lotto, e di quelli che ſi travagliano in oſſer vare quali carte ſi moſtrino più ſovente, o quali facce del volubil dado, ad avvicendare nell'agitato cuore dei giocatori la gioja e la triſtezza. Ben' è vero però che per quanto fiano replicate le eſperienze, in moltiſſimi caſi non apparendo neppure in confuſo una minima conneſſione di tal frequenza con una vera cauſa da cui derivi, non potranno giam mai meritare che le abbia in viſta, chi ragiona ſu dati veri, e non fa caſo di mere e vaganti accidentalità. Se ſi aveſſe a queſte riguardo, molti di quei contratti, che nella prima claſſe ho eſa minati, a queſta terza dovrebbonſi riferire. Ma io per le indicate ragioni, a quella ſola nei ſuoi veri termini inteſa giudico i mede ſimi appartenere. Anche in tali caſi perd vi ſono inolti che credono doverſi fare ſcrupo lofo conto dell'oſſervazioni, e per queſta ra gione ancora approverebbero la mia diviſio ne; eſſendo queſta terza claſſe da me confi derata in modo che può, ſe vogliaſi, compren dere le medeſime, anche quando non appa riſca la ſopra indicata conneſſione. Che ſe il numero delle offervazioni ſia grande, e i riſultati coſtanti, ed abbiavi qual che conneſſione fra l'eſito della ſperanza, ed una cauſa dalla quale poſla derivare tal frequenza di oſſervazioni, allora non v'ha dubbio che ſiamo nel caſo che caratterizza queſta terza claſſe, e la diſtingue dalle altre. Vi ſono in fatti molti giochi, nei quali l'eſito fortunato dipende in parte dalla pro g. 98 pizia ſorte, e in parte deveſi alla propria in duſtria o deſtrezza nel combinare gli elemen ti del gioco, e rendergli coſpiranti al termi ne a cui ſta anneſſo il guadagno del premio deſiderato. L'induſtria però di un giocatore pud conſiſtere o nella ſola avvedutezza e pre ciſione nell'oſſervare l'eſito delle varie coin binazioni del gioco, che ſi vanno ſuccefliva mente preſentando, e la replicata ſperienza delle quali porge la norma ai caſi avvenire; o nella deſtrezza maggiore di combinare gli accidenti medeſimi del gioco, di dedurre, di ſcuoprire gli artificj dell'avverſario; e in qualſivoglia di queſti due aſpetti ſi ravviſi l'induſtria, è ſempre vero che i giochi che di effa, e della forte ſi chiamano miſli, hanno un filo non traſcurabile per cui ſi attengono alla terza clafle dei contratti di azzardo, In un gioco miſto è molto difficile che tornino per appunto le medeſime circoſtan ze; e quindi è che le oſſervazioni ad e {To re lative ſono della natura di quelle dei con tratti alla ſeconda claſſe appartenenti; in certe cioè, e incapaci di rendere indubitato e ſicuro l'evento, ma fiſabili quanto baſta per formarne un calcolo che miſuri l ' ugua glianza, acciò il contratto ſia giuſto. Ma ſiccome in queſti giochi medeſimi vi ſono dati ſicuri dipendenti dalle loro leggi inva riabili; quindi è che eſſi appartengono alla terza claſſe, perchè regolati in parte da tali leggi, e in parte da cagioni incerte e inde terminate, e dalla ſola ſperienza. Siccome però poſſono eſſere o molte o poche le com binazioni che conducono all'eſito medeſimo, a miſura che queſte ſono in maggiore o mi nor numero, prevale nei giochi miſti l'in duſtria o la ſorte. Inoltre la deſtrezza di combinare, di de durre, di rammentarſi gli elementi delle com binazioni che ſono uſcite ſucceſſivamente dalla malla totale delle medeſime nel decorſo del gioco, è variabile, come può ognuno of ſervare, quanto è variabile la tranquillità d'a nimo neceſſaria, la perfetta diſpoſizione di ſa lute, e per conſeguenza l'agilità degli ſpiriti, l'elaſticità delle fibre; in una parola l'atti vità neceſſaria per ben riuſcire in qualunque 100 impreſa richiegga applicazione di mente, e attuazione di fantasia. Conſiderate queſte come cauſe incerte ed indeterminate, e che ſi poſſono ſoltanto dopo un lungo corſo di oſſervazioni fatte giocando col medeſimo avverſario ridurre a calcolo, e quanto alla loro frequenza, e quanto al grado d'influenza ſull'eſito del gioco; ecco anche in ciò un motivo per cui il fiſſare l’u guaglianza fra i giocatori nei giochi miſti, dipende, e dalle invariate e ſicure leggi del gioco, e da circoſtanze incerte, e indeter minate, Certo è che nei giochi miſti l'induſtria sà tirar profitto dai colpi della ſorte, e il gioca tore avveduto, dice la Bruyere, imita in queſto un gran generale, e un abile politico. Al valore del primo, e alle vedute del ſe condo è miniſtra la forte. Arrivano entrambi francamente al loro intento per quelle ſtrade medeſime che aperſe il caſo; e che là metton capo, ove forſe non gli avrebber condotti i mezzi più maturati, e i piùmeditatiprogetti. Nei giochi miſti deve farſi la rifleſſione IOI medeſima di cui ſi parlò trattando dei giochi di puro azzardo. O i giocatori tentano con eguali condizioni l'evento medeſimo; o un folo tenta la ſorte del gioco, e l'altro ſta ozioſo ſpettatore, e riduce la ſua ſperanza unicamente all'infauſto eſito dell'avverſario. Nel primo caſo ſiccome il numero dei caſi favorevoli e dei ſiniſtri dipendente dalle leggi del gioco, è l'iſteſſo per ambidue, ſi riduce a calcolo l'eſperienza ed induſtria, la quale ſi oſſerva nelle medeſime circoſtanze quante volte abbia ſaputo ridurre a buon termine il gioco; calcolo che ſi fonda ſopra oſſervazioni molto difficili, e incerte. Giacchè farebbe d' uopo che ſi foſſe ſempre giocato col mede fimo avverſario; eſſendo la deſtrezza, e abi lità di un giocatore affatto relativa a quella dell'avverſario; e potendoſi queſto rapporto variare ogni giorno, o reſtar coſtante ſecondo i progrelli, o uguali, o proporzionali, o di verſi, che l'uno, o l'altro facciano nel gio co. E' vero però non meno, che trattandoſi di rapporti, poſſono in qualche modo gio vare le offervazioni fatte dell'abilità di un giocatore riſpetto ad un terzo all'induſtria del quale è noto qual proporzione abbia quella dell'avverſario. Nel ſecondo caſo poi l'induſtria non è più riſpettiva, ma aſſoluta; e fi riduce a calcolo con l'offervare, nelle medeſime combina zioni, o in non molto diffimili per la natura del gioco, quante volte l'avverſario abbia ottenuto quell'intento che ſi era propoſto, fotto le date condizioni; e quante volte non abbia toccato il termine al quale per otte nere il premio dovea pervenire. Generalmente adunque ficcome il numero dei caſi favorevoli e de'ſiniſtri è dipendente in parte dalle leggi del gioco, in parte dalle oſſervazioni, che miſurano la riſpettiva, e afloluta induſtria, converrà diſtinguere, e calcolare queſti due elementi componenti la ſomma dei caſi favorevoli, e ſiniſtri; e formare poi la proporzione eſpoſta nel Teo rema III.', e nel Corollario. Se non due, ina più ſiano i giocatori, ſi rammenti la regola di ridurre i caſi compleſſi ai ſemplici componenti, e di eſaminare in 103 ciaſcuno a parte le ſtabilite maſſime. Sarebbe un ripetere il già detto; ſe io voleſſi ram mentare i principj ſtabiliti nei contratti della prima claſſe, e in quelli della feconda. Bafli l'avvertire che in queſti della terza claſſe ove trattaſi dei caſi favorevoli o ſiniſtri, in quanto dipendono dalle leggi certe e ſicure del contratto, convien ricorrere ai priini; ove poi fia queſtione di offervazioni, e di cauſe indeterminate, conviene eſaminare i ſecondi; non omettendo mai di riflettere quanta alterazione poſſa produrre l'influenza degli uni, ſu gli altri, e la varia loro com binazione. Stabilite così le leggi ſulla ſcorta delle quali ſi giunge a fiſſare la ricercata ugua glianza in qualunque claſſe di contratti di azzardo; non devo diffimulare, che uno dei più grandi Filoſofi il Signor d'Alembert ha preteſo di abbattere il calcolo delle pro babilità quanto alla ſua applicazione agli ac cidenti umani. Accid, dic ' egli, queſto cal colo foſſe applicabile, ſarebbe neceſſario, che tutti i caſi che ſono ugualmente poſlibili ma 104 tematicamente parlando, lo foſſero anche di fiſica poſſibilità. Sarebbe dunque neceſſario, che gettata infinite volte in alto una moneta, ſopra una faccia della quale vi ſia impreſſa una marca, per eſempio palle, e ſull' altra una diverſa, per eſempio croce, foſſe ugual mente poſſibile che ſi ſcopriſſe ſempre palle, o croce; e che ſi ſcopriſſero alternativamente queſte due diverſe marche. Ma benchè ciò ſia ugualmente poſſibile matematicamente parlando, non lo è fiſicamente. E queſta di verſità appunto è quella che fa sì, che il cal colo matematico delle probabilità, non è applicabile ai caſi fiſici. Anzi non ſi potrà mai fissare il numero delle volte per il quale duri la possibilità fiſica di ſcoprirſi ſempre l'iſtella faccia della moneta, e il limite ol tre il quale non paſſi queſta fiſica poſlibilità, durante però ſempre oltre ogni limnite com'è certiſſimo, ed oltre qualunque aſſegnabile numero di getti, la matematica poſſibilità del continuo ſcoprirſi della medeſima faccia.: Lo prova con una inafſima che egli ſtabi liſce per certa: che non è in natura, che un effetto ſia ſempre, e coſtantemente il mede fino; ſiccome non è in natura che tutti gli alberi, ſi raſſomiglino fra loro. Queſta maf ſima lo induce ad argomentare che la pro babilità di una combinazione, nella quale il medeſimo effetto ſi ſuppone accader più vol te, in parità di circoſtanze è tanto più pic cola, quanto queſto numero di volte è più grande, di modo tale che quando queſto è maſſimo, la probabilità è aſſolutamente nulla, o quaſi nulla; e all'incontro quando queſto numero è aſſai piccolo la probabilità non ne reſta che poco, o punto diminuita per queſto riguardo. Adduce egli moltiſſimi eſempi compro vanti la ſua aſſerzione, e conclude che i re ſultati della teoria dei probabili, quand'anche ſiano fuori di ogni queſtione nell'aftrazion geometrica, ſono ſuſcettibili di molta reſtri zione quando i medeſimi ſi applicano alla natura. Alle ragioni però ingegnoſiſſime di un si grand' uomo converrà adunque arrenderſi, e diſperare della cauſa del noſtro calcolo dei probabili? Parmi che ben'inteſi i noſtri principj co me ſono ſtati da noi ſtabiliti, o non ſiano at taccati da tali oppoſte difficoltà, o le mede fime reftino ſciolte. Prima di tutto ſi oflervi che noi trattiamo ſolo di calcolare i gradi di probabilità nei caſi nei quali ſi ſuppone po terſi efla rinvenire. Se diaſi dunque un caſo, che non cada in modo alcuno forto la cate goria dei fiſicamente poflibili, e che per con ſeguenza nè il minimo grado abbia di proba bilità; io dirò che queſto non è oggetto delle mie teorie; ma non concederò mai che per queſto non ſi poſſano eſſe applicare perfet tainente ai caſi, che ſiano di fatto filica mente poſſibili. Per conoſcere poi quali ſiano i caſi o le combinazioni fiſicamente poſſibili nel ſenſo del Sig. d'Alembert, è neceſſaria una fre quente e replicata oflervazione. Che ſia fiſicamente impoſibiie (ſe pure ſi può uſar queſto termine ) che una moneta moſtri un inaſſimo o un infinito numero di volte la ſtella faccia, donde ſi ricava, fe non dall'avere offervato che una tale continuazione dello ſcoprimento medeſimo non accade, ma che al contrario ſi vanno alter nando, e cangiando di tanto in tanto le facce della moneta? Benchè non può dirſi a rigore fiſicamente impoſſibile il caſo in cui per un infinito numero di getti ſi paleſi ſempre l'iſteſſa fac cia, a meno che non vi ſia nella moneta qualche fiſica e meccanica cagione che ciò non permetta. Se ſi concedeſſe ancora (benchè non ſo quanto ſia dimoſtrato ) che ſia fiſicamente impoſſibile, che ſi dia un albero perfetta mente ſimile ad un altro, non che, come fi contenta di dire il Sig. d'Alembert, che ſi raſſomiglino tutti gli alberi fra di loro; non correrebbe la parità, per dedurne che nel caſo di un infinito numero di getti di una moneta, l'uniforme ſcoprimento di una fac cia della medeſima ſia fiſicamente impoſſi bile. Poichè vi corre una notabiliflima di ſparità. Tutte le combinazioni le quali fanno, che una coſa non ſia fimile all'altra, danno tanti ios riſultati fra loro diverſi. Dalle diverſe com binazioni infinite che faran caufa che l'ala bero A non ſia perfettamente ſimile all'albe+ ro B, naſceranno tanti alberi fra loro diverſi; o altri corpi dei quali ſi conoſcerà la diffe renza. Ma dalle diverſe combinazioni che poſſono fare che non venga infinite volte di ſeguito la faccia palle della moneta; non ne poſſono venire che riſultati affatto ſimili, cioè croce; poichè ogni volta che non ſi ſcopra palle, ſi ſcoprirà croce. Queſto prova che le combinazioni che ſono contrarie alla per fetta ſomiglianza di due coſe, formano infi niti rapporti, infiniti riſultati dei medeſimi, infinite diverſe compoſizioni di parti dipen denti da infinite meccaniche direzioni delle particelle della materia di infinite poſſibili diverſe velocità, figure ec.: coſe tutte che nel caſo noftro non ſi verificano. Di fatto gli elementi che formano la com binazione, che per infinito numero di volte preſenta palle, ſono tutti ſimili fra di loro, ed hanno fra di loro un folo invariato rap porto. Di modo che ſe ſi ſupponeſſe mutato l'ordine col quale eſce prima la infinita ſerie di palle, e ſi ricominciaſſe il getto, e ritor naſſe di nuovo a ſcuoprirſi infinite volte la faccia che preſenta palle, ne verrebbe un or dine fimiliſfimo al primo, potendoſi dire, che l'iſteſla relazione ha il primo ſcoprimento di palle al milleſimo, che ha il ſecondo al cen teſimo, e così dicaſi di tutti. Talmentechè a rigor parlando, non ſi può dire, che fra queſti getti vi ſia ordine che formi fra effi un rapporto piuttoſto che un altro. Non così degli elementi che formano un dato fiore, o albero; eſſendo combinabili fra di loro con infinite varietà di ſopra ac cennate. Gli elementi fiſici adunque delle combinazioni nel caſo della moneta ſono ſempliciſſimi, laddove nell'eſempio addotto dal Sig. d'Alembert fono infiniti, dal che ne viene, che la parità non corre; e dalla fiſica impoſſibilità (ſe fi ammetta ) di trovare mol te, o anche due coſe fra loro ſimili; non ne viene la fiſica impoſſibilità che una monetan gettata in aria infinite volte moſtri ſempre l' iſtefla faccia. La diſparità compariſce più chiara, fe li rifletta che qualunque vedendo in un dato ſpazio tutte le particelle più minute compo nenti i corpi; e riflettendo alle variazioni poſſibili della velocità, e della figura delle medeſime; e vedendone in un ſimile ſpazio un altro ſimile numero, avrebbe ſubito infe rita l'impoſſibilità di una combinazione ta le, che ne riſultaſſero due alberi ſimili. Laddove vedendo una moneta, e ſapendo che ſi deve gettare in aria infinite volte, non avrebbe avuta una fiſica ragione di preſagire che non ſi ſarebbe un infinito numero di volte ſcoperta l'iſteſſa faccia, e di credere tal combinazione fiſicamente impoſſibile, come la pretende, fondato ſulle addotte ri fleſſioni, il Sig. d'Alembert. In una parola della impoſſibilità (ſe tal vo glia chiamarſi ) della ſomiglianza di due al beri ſe ne può addurre a colpo d'occhio una fiſica meccanica ragione; lo che non può dirſi dello ſcoprimento della faccia di una moneta. Lo stesso a proporzione dicaſi delle diverſe, III combinazioni delle lettere che formano la parola Conſtantinopolitanenfibus. Chi attribuirà al caſo, dice d'Alembert, che ſi combinino in modo tante lettere che formino queſta pa rola? chi vorrà crederlo poſſibile? Dunque conchiude egli ſarà ugualmente impoſſibile il continuo per infinite volte ſcoprimento della faccia medeſima di una moneta. Queſto eſempio è molto ſimile a quello dei due al beri fimili; e ſi riſponde anche a queſto, che ciaſcuna lettera può variare rapporto a tutte le altre, e che ciaſcun riſultato ſarà diverſo. La Luna, aggiunge il Ch. Filoſofo, gira attorno al ſuo alle in un tempo preciſamente uguale a quello che ella impiega nel deſcri vere la ſua orbita intorno alla terra; e queſta eguaglianza di tempo produce ammirazione, e ſi vuol cercare qual n'è la cagione. Se il rapporto dei due tempi foſſe quello di due numeri preſi all'azzardo, per eſempio di 21: 33, niſſuno non ne ſarebbe ſorpreſo, e non ſe ne ricercherebbe la cagione; e pure il rap porto di uguaglianza è matematicamente parlando ugualmente poſſibile, che quello di 21:33; perchè dunque ſi cerca una cagione del primo, che non ſi cercherebbe del ſe condo? Lo ſteſſo dicaſi della ſituazione dei pianeti e del rapporto che ha la zona nella quale fono rinchiuſe le orbite loro, alla sfera. Per chè ſi conchiude egli che queſto non è effet to del caſo? perchè queſta combinazione, benchè matematicamente poſſibile al par dell'altre, ſi riguarda.come effetto di un diſegno, e di una regolarità? E non ſi crederà poi, che il ſolo caſo non può pro durre quella combinazione per la quale la moneta ſcopra infinite volte di ſeguito fem pre palle; e non ſi crederà queſta fiſicamente impoſſibile, benchè abbia una matematica poſſibilità eguale a quella delle altre combi nazioni? Ma io riſpondo, che di fatto le com binazioni dei citati eſempi hanno avuta una fiſica poſſibilità uguale a quella di tutte l'al tre combinazioni; che non vi è forſe argo mento che provi che il caſo non le aveſle po tute produrre; ma che anche ſe ſi vogliono LI3 fiſicamente impoſſibili al ſolo caso; ciò è per chè ſon compoſte di elementi infinitamente variabili; lo che appariſce a chi ſi faccia di propofito a conſiderare le diverſe cagioni, e le diverſe poſſibili combinazioni, che poſſon far sì che i tempi dei due giri lunari non ſia no uguali; e che la zona delle orbite plane tarie abbia alla sfera un rapporto diverſo da quello che ora ha infatti; cagioni tutte fi fiche, e meccaniche. Di più dico, che l'uguaglianza dei corſi della luna intanto a noi fa impreſſione, in quanto che il rapporto di uguaglianza è quello al quale ſi fogliono riferire tutti gli altri; e tutta la differenza che fra eſſo, e gli altri paffa, non è che metafiſica; e nulla po ne di fiſico per cui tal combinazione debba eſſere più difficile dell'altre. Lo ſteſſo dicaſi della parola Coſtantinopoli tanenſibus. Queſta combinazione di lettere fa ſpecie a noi che intendiamo il ſenſo della parola, e che al ſuono della medeſima abbia mo legataunidea; non così a un Turco idio ta il quale non col nome di Coſtantinopli ma con quello di Stamboul è avvezzo a no minare la ſuperba metropoli dell'Impero Ot tomano. Non contento Monſieur d'Alembert degli eſempi addotti in conferma della ſua aſſer zione, l'appoggia ad altre due rifleſſioni. Si fa che la durata media della vita di un uomo, contando dal giorno della ſua naſcita è all'incirca di 27 anni; ſi è pure conoſciuto per mezzo delle oſſervazioni, che la durata media delle ſucceſſive generazioni più ome no è di 32 anni; finalmente ſi è provato per tutte le liſte della durata dei regni di ciaſcu na parte d'Europa, che la durata media di ciaſcun regno è di circa a 20 in 22 anni. Si può dunque dic' egli, ſcoinmettere non ſolo con vantaggio ma a gioco ſicuro che 100. fanciulli nati nel medeſimo tempo non vive-, ranno che 27 anni l ' un' per l'altro; che 20 generazioni non dureranno più di 640 anni in circa; che 20 Re ſucceſſivi non viveran no che intorno a 420 anni. Una combina zione adunque che non daſſe intorno a 27. anni la durata media della vita dell'uomo, IIS pigliandone cento a eſaminare, o non dalle di 32 anni la durata media di 100 fuccef five generazioni; oppure portaſſe che 20 Re ſucceſſivi regnaſſero, o molto più, o molto meno di 420 anni, non ſarebbe fiſicamente poſſibile; eppure lo ſarebbe matematicamen te parlando. Dal che riſulta che vi ſono al cune combinazioni matematicamente pofli bili, che ſi denno eſcludere, quando eſſe fo no contrarie all'ordine coſtante della natu ra. Dunque la combinazione in cui, o infi nite volte, o un gran numero veniſſe ſcoperta ſempre la medeſima faccia della moneta, benchè di matematica poſſibilità uguale a quella di qualunque altra combinazione, dev’ eſſere rigettata. E' nell'ordine naturale, ché un banchiere di faraone, che ha dei caſi favorevoli più che dei ſiniſtri ſi arricchiſca coll'andar del tempo. Di fatti ſi oſſerva coſtantemente, che non vi è banchiere, che non accumuli groſſe fomme di denaro. Queſto prova, che quelle combinazioni, che hanno più caſi contrari che favorevoli, ſono alla fine di un certo tempo, meno fiſicamente poſſibili che le al tre; quantunque matematicamente parlando tutte le combinazioni ſiano ugualmente pof ſibili. Dunque conclude egli, la combina zione, la quale preſenti ſucceſſivamente per un gran numero di volte ſempre la ſteſſa fac cia della moneta dev'eſſere eſcluſa. Per riſpondere a queſti due eſempi parmi che prima di tutto ſi poſſa negare la fiſica impoſſibilità, che con tanta franchezza ſi af feriſce della durata media della vita di un' uomo diverſa dallo ſpazio di circa 27 anni. Ed io ſono ben perſuaſo che eſaminando il caſo della vita di molte centinaja d' uomini ſe ne troveranno di quelle, o aſſai maggiori, o aiſai minori dello ſpazio di 27 anni; dun que tale combinazione non fi deve ſcartare come fiſicamente impoſſibile. L'iſteſſo dicafi di quella, per cui un banchiere in vece di arricchire ſi vedeſſe dal gioco medeſimo ri dotto all' inopia; caſo che non è poi sì in frequente ad accadere. Dicafi piuttoſto che l'una, e l'altra di queſte combinazioni con tenute nei due eſempi addotti dal chiarillimo d'Alemberţ ſono molto difficili, e tanto più, quanto l'ecceſſo dei caſi contrarj alle combinazioni medeſime ſupera il numero dei favorevoli; lo che conviene appunto con li da me ſtabiliti principj. Venendo poi al caſo noſtro dico, che fo no varie, e moltiſſime in numero le cauſe vere, e fiſiche che influiſcono ſulla vita degli uomini. Ma trattandoſi del getto della mo neta, non vi ſono principj fiſici diverſi, e tali, che ſi debba in vigor deị medeſimi pre dire piuttoſto una, che l'altra delle combi nazioni, che a rigor parlando non ſono che due, come più ſopra ſi è offeryato. L'ordine delle umane coſe, e le fifiche qualità, e coſtituzioni dell'uomo, e delle ca gioni che lo poſſono privar di vita, ſon con ſultati nel primo caſo; nel ſecondo nulla hav: vi di fiſico che ſi poſſa conſultare a formare il preſagio. Dunque fi pud predire, che ioo o maggior numero di uomini avranno preſi inſieme un corſo di vita uguale a quello di altri 100 uomini; benchè prima di aver faţte le offervazioni non ſi poſſa cal corſo file ſare; così prima di aver’anche fatte le oſſer vazioni, conoſciuto il ſiſtema del gioco del faraone ſi può predire che un numero molto maggiore farà quello dei banchieri che arric chiſcono, che non ſarà quello degli altri che ſi rovinano. E ciò perchè veramente vi ſono delle intrinſeche cagioni che portano a for mare queſto preſagio, e cagioni che naſcono dal ſiſtema del gioco. Ma chi sà dire qual fi fica ragione addur voglia uno, che vedendo gettarall'aria una moneta, aſſeriſca che è fiſicamente impoſſibile, che o per un maſſimo, o anche infinito numero di volte, pre ſenti ſempre la ſteſſa faccia? Varie poſſono eſſere le maniere di gettare in alto la moneta. Si può gettare a una gran de altezza, e a una piccola; con poca forza, e con molta; con tale direzione che la baſe faccia angolo retto con l'orizzonte; o che lo faccia obliquo; oppure in modo che ſia ad eſlo parallela. Si può anche gettare in ma niera che ſomigli quaſi il laſciarla cadere leggermente da un punto fiſſo. Fermiamoci ad eſaminare queſt' ultima ipoteſi; e ſi vede, che laſciandola in tal modo cadere, ſpecialmente a piccola altezza, anche in finite volte, non vi è ragione di preſagire, che non poſſa eſſere coſtante lo ſcoprimen to della faccia medeſima. La impoffiſibilità di queſto uniforme ſcoprimento, la inten de egli il Signor d'Alembert in queſto ca ſo, o negli altri caſi? Se la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica, che il ſolo or dine della natura renda impoſſibile queſto u niforme ſcoprimento? Se poi non la intende in queſto caſo, come dunque ſi verifica uni verſalinente la ſua maſſima? Ma io aſſeriſco eſſere più conforme allo ſpirito delle ragioni del Sig. d'Alembert, che anzi egli intenda di queſto ſolo caſo in cui non altro appunto, che un non sò quale fatal ordine della natu ra,potrebbe cagionare la preteſa variazione. Che ſe pure ſi trattaſſe degli altri caſi, dico che nonoſtante la variabilità delle combina zionidell'impeto,dell'altezza, della direzio ne; queſte non poſſono valutarſi in modo da rendere fiſicamente impoſſibile l ' uniforme ſcoprimento; poichè gli effetti di queſte va 120 riabili combinazioni, non ſono che due; o lo ſcoprimento di palle, o lo ſcoprimento di croce; e non ogni variazione, e combinazione di tali cauſe influiſce a diverſificare gli ef fetti: come peraltro ſuccede negli eſempi ad dotti dal Sig. d'Alembert, nei quali trattan doſi di rapporto, o di diverſa conſociazione di parti, ognun vede, che ogni variazione influiſce a produrre un effetto diverſo. O ſi riſguardi adunque la diverſità negli effetti; e negli addotti eſempi, queſti ſono in finiti, nel caſo noftro non ſon che due non potendoſi voltare, che palle, o croce; o ſi ri guardi la diverſità nelle cagioni che tali ef fetti producono; e negli addotti eſempi, ſo no anch'eſſe infinite, giacchè ogni minima variazione influiſce come nuova cauſa; nel caſo della moneta non è così, potendoſi dare moltiſſime combinazioni di forza, altezza, direzione, che producano ſempre l'iſteſſo effetto; potendoſi anche dare che in infiniti getti, o in un numero aſſai grande, ſi man tenga l'iſteſſa direzione, benchè obliqua; l'iſteſſa altezza benchè grande; l'iſteſſo im 1 1 pero, benchè forte; oppure che fi muti ad ogni getto. Parmi adunque che e queſti ultimi e gli altri addotti eſempi, o non combinano con quello della moneta; o al più provano una no tabile difficoltà nella combinazione che presenti sempre l'iftessa faccia della moneta; verità che s’accorda perfettamente con gl’esposti principj; poichè le osservazioni me deſime ce lo fanno conoscere,ed io suppongo nell'applicargli, il caso probabile [GRICE, PROBABILITA E DESIDERABILITA], e con la scorta dei medesimi ne cerco il grado di probabilità; dal che ne viene che la teorìa non è applicabile ai casi ove o nessuna o quasi nessuna probabilità del buon esito apparisca, per poterne formare la proporzione. Quando poi cominci il numero in cui non sia sperabile un continuo discoprimento di una sola faccia della moneta, le osservazioni, e non altro, possono mostrarlo. Quelle osservazioni io dico, che io medesimo ho prefe per scorta in moltisimi casi appartenenti alla materia dei CONTRATTI d’azzardo. E' poi tanto evidente che la proposizione d’Alembert non atterra l'uso del CALCOLO DELLA PROBABILITA O CREDIBILITA E DEL CALCOLO DELLA DESIDERABILITA, che anzi in qual che caso se ne possono tirare delle conseguenze che lo conferinano. Chi gettando un dado intraprende di scuoprire per esempio il 6 non vorrà gettarlo una sol volta, quando debba azzardare una fom ma eguale a quella che azzarda l'avverſario; ma vorrà gettarlo più volte. La ſua ſperan za è,che non voltandoſi ſempre l'iſtello nu mero che al primo tratto ſi ſcuopre, e che può non eſſere il 6, arrivi in più volte a vol tarſi anche il 6; altrimenti ſe non fcopren doſi alla prima il 6 ſi doveſſe ſempre ſcopri re in tutti i tratti ſucceſſivi quel numero che ſi ſcopre il primo, la ſua perdita ſarebbe ſicura. La ſperanza dunque di queſto gio catore acquiſta tanto maggior fondamento quanto più è vero che ſia impoſſibile che ſi volti ſempre quel numero che alla prima fi ſcoprì; impoſſibilità, che reſta compreſa nel la impugnata opinione del Sig. d'Alembert. Stabiliti i principj regolatori dell' ugua 123 glianza nei contratti d'azzardo, e difeſane l'applicazione non reſta che a deſiderare, che uomini di ſublime ingegno, e di pro fondo ſapere ſi applichino in gran numero ad eſtendere ſempre più l'uſo di una dottri na sì utile. Quanto a me, mi pare di aver ottenuto il mio intento, ſe poſſo luſingarmi di aver formate ed eſpoſte idee giuſte, e chia in un articolo per una parte sì arduo, e per l'altra sì intereſſante. C. nasce in Imola il ed alla patria e al casato accrebbe lustro e decoro: perchè già rapidamente corsi gli studii delle amene lettere e della eloquenza sotto la disciplina de’gesuiti, e con pubblico saggio nelle materie di filosofia sperimentatosi, puo dallo stesso genitore nelle matematiche, delle quali è egli peritissimo, essere ammaestrato. E col magistero di quella scienza sublime, illuminando la mente già ordinata a diritti giudizii e scorto da precetti delibati dalla scuola non fallibile degl’antichi esemplari, comforma la scrittura alla altezza del pensiero, alla cultura dello spirito ed al candore dell'animo. Nè i gravi studii della giurisprudenza cui tennesi in Roma applicato (insegnatore monsignor Giovannardi concittadino di lui, e fiore de giureconsulti) gli tolge di coltivare la poetica, alla quale sentesi per tal guisa inclinato, che basta a dettare alcuni componimenti i quali resi pubblici con le stampe trovano grazia e lode somma ne cultissimi, e sì pure tra gl’ARCADII alla cui accademia appartenne col nome pastorale di Cratino. E sono ne gli scritti di lui altri saggi in tal genere di lettere che a migliori poeti, onde la città di Santerno si onora, il pareggiano: che se come ne sono degni verranno presen tati al pubblico giudizio, ben si farà manifesto aver egli con arte maestra saputi attingere da cia scuno de più valenti Imolesi quei modi sceltissimi onde le loro ope re di bella luce risplendono mel l'italiano parnaso. Il carme in fat to robusto e nervoso tal come u sciva dalla penna di Antonio Zam pieri, e castigato ad un tempo ed elegante, quale il vedi in Camil lo, muove in C. con quella spontanea e nobile sempli cità che t'invaghisce nel Canti; 282 e si abbella di quelle grazie ed e leganze di che Zappi infioriva le soavi e dolci sue rime. Tornato in Imola venne decorato della croce di Santo Stefano, e nella Imolese accademia deg’INDUSTRIOSI di cui è socio si mostra erudito ed elegante oratore e poeta. D'indi a non molto passato per le caro vame a Pisa ha colà lezioni di pubblico diritto da quell'alto spirito di Lampredi, che il tenne in istima d'ingegnoso e di colto, e che lo ha sempre carissimo. Quindi il magnanimo gran duca Leopoldo gli confere la carica di ispettore delle carovane, e ad un tempo la cattedra di etica; intorno a che compone un trattato quasi corso di lezioni, degno per fermo d’essere fatto di pubblica ragione: ed a quel principe intitola C. una eloquente e dotta orazione composta eletta, per incarico da lui avutone, al capito lo de'cavalieri Circa l'origine, le leggi ed i fasti dell'ordine, che è pubblicata pel Cambiagi in Firenze, dai torchi del quale usce altro grave e prezioso volume col titolo di Saggio sui CONTRATTI e giochi d'azzardo, ove risplende la dottrina di pubblico economista e di FILOSOFO; ed ove la materia gravissima, e che diresti poter so lo dimostrarsi col soccorso del calcolo, per la chiara sposizione pia ma e facile si mostra alla intelligenza comune, Corse intanto tal fama del sapere di lui alla corte di Ferdinando di Napoli, che con reale decreto, il nomina membro del supremo consiglio di Finanze; nel qual tempo venne ad egual carica eletto quel sommo ingegno di FILANGIERI (vedasi), cui C. è poi sempre stretto con vincoli di reciproca stima e di amicizia tenerissima. E ben di questo è prova il parere da FILANGIERI (vedasi) proposto al re intorno all'enfiteusi del così nomato Tavoliere di Puglia che leggesi negli opuscoli di lui pubblicati per Silvestri in Milano ove egli da maestro discorre ciò che con grave senno e sapere a veva il suo collega consigliere C. proposto, quando a questo fine per sovrano volere ha a recarsi in quella provincia. Del quale importantissimo servigio ha onore da maestrati quivi preposti alla agraria economia che con parole di lode il provvedimen to del principe ed il nome del benemerito consigliere in latina epigrafe eternano; e n'ebbe dal monarca eziandio meritato pre mio: imperciocchè gli di grado di consigliere effettivo con voto, e di sopra-intendente alle dogane ed alle zecche del regno; nel che adopera a maniera, che sommo vantaggio m'ha lo stato per la retta amministrazione di quegli ufficii, ed a lui vennero per mol te lettere di mano della stessa regnante Carolina onorevolissime lodi. Segue C. la real corte a Palermo quando dovè colà ri fuggirsi: e con essa lei torna al suo impiego in Napoli. Salito al trono il re Giuseppe, volge tosto gli sguardi ad esso lui come a specchio di sapiente reggimento e di non comune interesse, e gli confere la carica di consiglier di stato, di cavaliere del nuovo ordine del le due Sicilie da esso lui istituito. Ma la mal ferma salute che gli vietò continuare a quel monarca i suoi servigi, e che il tolge a quel regno ove lascia fama durabile del suo merito, procaccia alla patria il conforto di vederlo tornare fra' suoi concittadini de quali è desiderio e delizia: e ben l'hanno eglino zelantissimo della pubblica morale, e civile istruzione a quali col più potente dei precetti, l'esempio, è di bel la guida e di stimolo; e per l'importante buon regime delle acque operoso; e di quant'altro puo interessare il pubblico vantaggio studiosissimo: nè mancano ai mendici dalla mano benefica di lui generosi soccorsi i quali seppe providamente elargire, anzichè ad alimento dell'ozio, a meritato sollievo della vera indigenza. Illi bato del costume e per la esquisita erudizione della quale è fornito nella sociale consuetudine piacentissimo, con la serena calma del giusto vide giungere l'ora estrema del vivere, che a suoi cari ed alla patria il rapì: e della acerba morte di lui amaramente si dolse l'universale della città desolato per la perdita irreparabile di quest'uomo chiarissimo nel quale si ammirarono congiunte a sapere profondo in o gni maniera di scienze e di lettere, integrità di vita e dovizioso corredo di ogni bella virtù. Whoever has glanced through the pages of  any text-book on mercantile law will hardly deny  that CONTRACT is the handmaid if not actually the  child of Trade. Merchants and bankers must have  what soldiers and farmers seldom need, the means  of making and enforcing various agreements with  ease and certainty. Thus, turning to the special  case before us, we should expect to find that WHEN ROME IS IN HER INFANCY and when her free  inhabitants busied themselves chiefly with tillage  and with petty warfare, their rules of sale, loan,  suretyship, were few and clumsy. Villages do not  contain lawyers, and even in tdwns hucksters do  not employ them. Poverty of Contract was in fact  a striking feature of the early Roman Law, and can  be readily understood in the light of the rule just  stated. The explanation given by Sir Henry Maine  is doubtless true, but does not seem altogether  adequate. He points out 1 that the Roman household consisted of many families under the rule of a Ancient Law.  B. E. paternal autocrat, so that few freemen had what we  should call legal capacity, and consequently there  arose few occasions for Contract. This may indeed  account for the non-existence of Agency, but not  for that of all other contractual forms. For if the  households had been trading instead of farming  corporations, they must necessarily have been more  richly provided in this respect. The fact that their  commerce was trivial, if it existed at all, alone  accounts completely for the insignificance of Contract in their early Law.   The origin of Contract as a feature of social life  was therefore simultaneous with the birth of Trade  and requires no further explanation. It is with the  origin and history of its individual forms that the  following pages have to deal. As ROMAN CIVILISATION progresses we find Commerce extending and Contract  growing steadily to be more complex and more  flexible. Before the end of the Roman Republic  the rudimentary modes of agreement which sufficed  for the requirements of a semi-barbarous people  have been almost wholly transformed into the  elaborate system f of Contract preserved for us in  the fragments of the Antonine jurists. At the most remote period concerning which  statements of reasonable accuracy can be made,  and which for convenience we may call the Regal  Period, we can distinguish three ways of securing  the fulfilment of a promise. The promise could  be enforced either by the person interested,  or  by the gods, or  by the community. When  however we speak of enforcement, we must not think  of what is now called specific performance, a conception unknown to primitive Law. The only kind  of enforcement then possible was to make punishment the alternative of performance. Self-help, the most obvious method of redress in a society just emerging from barbarism, was  doubtless the most ancient protection to promises,  since we find it to have been not only the mode by  which the anger of the individual was expressed, but  also one of the authorised means employed by the  gods or the community to signify their displeasure.  This rough form of justice fell within the domain of  Law in the sense that the law allowed it, and even encouraged men to punish the delinquent, whenever  religion or custom had been violated. But as people  grew more civilized and the nation larger, self-help  must have proved a difficult and therefore inadequate remedy. Accordingly its scope was by degrees  narrowed, and at last with the introduction of surer  methods it became wholly obsolete. Religious Law, as administered by the  priests, the representatives of the gods, was another  powerful agency for the support of promises. A  violation of Fides, the sacred bond formed between  the parties to an agreement, was an act of impiety  which laid a burden on the conscience of the delinquent and may even have entailed religious disabilities. Fides was of the essence of every compact,  but there were certain cases in which its violation  was punished with exceptional severity. If an  agreement had been solemnly made in the presence  of the gods, its breach was punishable as an act  of gross sacrilege. The third agency for the protection of  promises was legal in our sense of the word. It  consisted of penalties imposed upon bad faith by  the laws of the nation, the rules of the gens, or the  by-laws of the guild to which the delinquent  belonged. What the sanction was in each case we  are left to conjecture. It may have been public  disgrace, or exclusion from the guild, or the paying  of a fine. And as some promises might be strengthened by an appeal to the gods, so might others by  an invocation of the people as witnesses.   Agreements then might be of three kinds corresponding to the three kinds of sanction. They  might consist of an entirely formless compact, a solemn appeal to the gods, or a solemn  appeal to the people. A formless compact is called pactum in the  language of the twelve Tables. It was merely a  distinct understanding between parties who trusted  to each other's word, and in the infancy of Law  it must have been the kind of agreement most  generally used in the ordinary business of life.  Such agreements are doubtless the oldest of all,  since it is almost impossible to conceive of a time  when men did not barter acts and promises as freely  as they bartered goods and without the accompaniment of any ceremony. Compacts of this sort were  protected by the universal respect for Fides, and  their violation may perhaps have been visited with  penalties by the guild or by the gens. But intensely  religious as the early Romans were, there must have  been cases in which conscience was too weak a  barrier against fraud, and slight penalties were  ineffectual. Fear of the gods had to be reinforced  by the fear of man, and self-help was the remedy  which naturally suggested itself. In the twelve  Tables pactum appears in a negative shape,  as a compact by performing which retaliation or  a law-suit could be avoided 1 . If this compact was  broken the offended party pursued his remedy.  Similarly where a positive pactum was violated, the  injured person must have had the option of chastising  1 GELLIO. Auct. ad Her. n. 13. 20.  the delinquent. His revenge might take the form  of personal violence, seizure of the other's goods,  or the retention of a pawn already in his possession.  He could choose his own mode of punishment, but if  his adversary proved too strong for him, he doubtless  had to go unavenged ; whereas if the broken agreement belonged to either of the other classes, the  injured party had the whole support of the  priesthood or the community at his back, and  thus was certain of obtaining satisfaction. It is  therefore plain that though formless agreements  contained the germ of Contract, they could not  have produced a true law of Contract, because by  their very nature they lacked binding force. Their  sanction depended on the caprice of individuals,  whereas the essence of Contract is that the breach  of an agreement is punishable in a particular way.  A further element was needed, and this was supplied  by the invocation of higher powers.   II. At what period the feshion was introduced  of confirming promises by an appeal to the gods  it would be idle to guess. Originally, it seems,  the plain meaning of such appeals is alone considered, and their form is of no importance.  But, under the influence of custom or of the priesthood, they assume by degrees a formal character, and it is thus that we find them in our earliest  authorities. Since religion and law – [“as H. L. A. Hart so well knows, since he is a jew” – H. P. Grice] -- are both at first the  monopoly of the priestly order, and since the religious forms of promise have their counterpart in the customs of Greece and other primitive peoples, whereas the secular form is PECULIARLY Roman,  the religious form is evidently the older, and formal contract therefore has a religious origin. Fides being a divine thing, the most natural means  of confirming a promise is to place it under divine  protection. This may be accomplished in two ways, by ius iurandum, or by sponsio -- each of which  is a solemn, Austinian-type performative declaration placing the promise or  agreement under the guardianship of the god, notably GIOVE. Each form has a curious history, and as  this is are the earliest specimen of a contract,  we should discuss them, and we might! Another method, and one peculiar to the  Romans, which naturally suggests itself for the  protection of agreements, is to perform the whole  transaction in view of other people. This publicity ensures  the fairness of the agreement, and places its existence beyond Cartesian – or Berkeleyian -- dispute. If the transaction is essentially a public matter, such as the official sale of  some public land, or the giving out of a public contract,  no formality seems ever to have been required, so  that even a formless agreement in in that case  is binding. The same validity may be secured for  a private contract, by having it publicly witnessed,  and the nexum is but one application of this  principle. In testamentary law – “How my father, Herbert Grice, inherited the property on the High Way of Halborne” – Grice -- it seems probable  that the public will in comitiis calatis is also  formless, whereas in private the testator may only  give effect to his will by formally saying to his  fellow-citizens testimonium mihi perhibetote. Thus the two elements which turned a bare    agreement into a contract were religion and publicity.  The naked agreements (pacta) need not concern us,  since their validity as contracts never received  complete recognition. But it will be the object of  the following pages to show how agreements grew  into contracts by being invested with a religious or  public dignity, and to trace the subsequent process  by which this outward clothing was slowly cast off.  Formalism was the only means by which Contract  could have risen to an established position, but  when that position was folly attained we shall find  Contract discarding forms and returning to the state  of bare agreement from which it had sprung. Ivsivrandvm is derived by some  from Iouisiurandum 1, which merely indicates that  Jupiter was the god by whom men generally swore.  To make an oath was to call upon some god to  witness the integrity of the swearer, and to punish  him if he swerved from it. This appears from the  wording of the oath in LIVIO, where SCIPIONE says: Si  sciensfalloy turn me, Iuppiter optime maxime, domum familiam remque rneam pessimo leto afficias" and  from the oath upon the Iuppiter lapis given by  Polybius and Paulus Diaconus, where a man throws  down a flint and says : " Si sciens /alio, turn me  Dispiter salua urbe arceque bonis eiiciat, uti ego hunc  lapidem" A promise accompanied by an oath was  simply a unilateral contract under religious sanction.  And it would seem that the oath was in fact used for  purposes of contract. CICERONE remarks 8 that the oath  was proved by the language of the XII Tables to  have been in former times the most binding form of  promise ; and since an oath was still morally binding   1 Cf. Apul. de deo Socr. 5. a xzii.Off. ni. 31. 111.in the time of CICERONE, though it had then no legal  force, the point of his remark must be that in  earlier times the oath was legally binding also.  From Dionysius we know that the altar of ERCOLE (called ARA MASSIMA) was a place at which solemn  compacts (ovvdfjtcai) were often made 1, while Plautus  and Cicero inform us that such compacts were  solemnized by grasping the altar and taking an  oath 2 . It would seem probable that the gods were  consulted by the taking of auspices before an  oath was made. Cicero says that even in private  affairs the ancients used to take no step without  asking the advice of the gods 8 ; and we may safely  conjecture that whenever a god was called upon to  witness a solemn promise, he was first enquired of,  so that he might have the option of refusing his  assent by giving unfavourable auspices. The terms  of the oath were known as concepta uerba, at least  in the later Republic, and like the other forms of the  period they were strictly construed 4 . Periuriv/m did  not mean then, as now, false swearing. It meant  the breach of an oath 5, the commission of any act at  variance with the uerha concepta There is some dispute as to what were the exact  consequences of such a breach. Voigt 7 thinks that  it merely entailed excommunication from religious  rites, but Danz 8 is clearly right in maintaining that  its consequences in early times were far more serious ;   1 Dion. i. 40. 2 Plaut. Rud. 5. 2. 49. Cio. Flacc. 36. 90.   8 Div. 1. 16. 28. 4 Seru. ad Aen. 12. 13.   6 i.e. 8ciem fallere, Plin. Paneg. 64. Seneca, Ben. in. 37. 4.  6 Off. in. 29. 108. 7 Ius Nat. Ram. RG. n. § 149.     they amounted in fact to complete outlawry.  Cicero says that the sacratae leges of the ancients  confirmed the validity of oaths. Now a sacrata lex  was one which declared the transgressor to be  sacer (i.e. a victim devoted) to some particular god 1,  and sacer in the so-called laws of Seruius Tullius 2  and in the XII Tables 8 was the epithet of condemnation applied to the undutiful child and the  unrighteous patron. So likewise it seems highly  probable that the breaker of an oath became sacer,  and that his punishment, as CICERONE hints, was  usually death. The formula of an oath given by  Polybius 6 is more comprehensive than that given  by Paulus Diaconus, for in it the swearer prays  that, if he should transgress, he may forfeit not  onry the religious but also the civil rights of his  countrymen. This shows that the oath-breaker was  an utter outcast; in fact, as the gods could not  always execute vengeance in person, what they did  was to withdraw their protection from the offender  and leave him tolhe punishment of his fellow-men. The drawbacks to this method of contract were the  same as those of the old English Law, which made  hanging the penalty for a slight theft ; the penalty  was likely to be out of all proportion to the injury  inflicted by a breach of the promise. So awful  indeed was it, that no promise of an ordinary kind  could well be given in such a dangerous form, and  consequently the oath was not available for the   1 Festus, p. 318, s.u. sacratae. 2 Fest. p. 230, s.u. plorare.   8 Seru. ad Aen. 6. 609. 4 Leg. n. 9. 22. B in. 25.   6 p. 114, s.u. lapidem. 7 Liu. v. 11. 16. common affairs of daily life. The use of the oath  therefore disappeared with the rise of other forms of  binding agreement, the severity of whose remedies  was proportionate to the rights which had been  violated; while at the same time the breaking  of an oath came to be considered as a moral, instead  of a legal, offence, and by the end of the Republic  entailed nothing more serious than disgrace (dedecus).  In one instance only did the legal force of the oath  survive. As late as the days of Justinian^ the  services due to patrons by their freedmen were still  promised under oath 1 . But the penalty for the  neglect of those services had changed with the  development of the law. At and before the time of  the XII Tables, the freedman who neglected his  patron, like the patron who injured his freedman 2,  no doubt became sacer, and was an outlaw fleeing  for his life, as we are told by DIONISIO. But in  classical times the heavy religious penalty had  disappeared, and the iurisiurandi obligatio was enforced by a special praetorian action, the actio  operarum*. By the time of Ulpian the effects of  the iurata operarum promissio seem indeed to have  been identical with those of the operarum stipulatio*, though the forms of the two were still quite  distinct.   We may then summarise as follows our knowledge  as to this primitive mode of contract :   The form was a verbal declaration on the part of  the promisor, couched in a solemn and carefully   1 38 Dig. 1. 7. a Sera, ad Aen. 6. 609. 8 n. 10. 4 38 Dig. 1. 2 and 7. 5 Cf. 38 Dig. 1. 10.  1  worded 1 formula (concepta tierba), wherein he called  upon the gods {testari deos)*, to behold his good faith  and to punish him for a breach of it.   The sanction was the withdrawal of divine  protection, so that the delinquent was exposed to  death at the hand of any man who chose to slay  him.   The mode of release, if any, does not appear. In  classical times it was the acceptilatio*, but this Was clearly anomalous and resulted from the similar  juristic treatment of operae promissae and operae  iuratae. Though the point is contested  by high authority, yet it scarcely admits of a doubt  that there existed from very early times another  form, known as sponsio, by which agreements could  be made under religious sanction. This method,  as Danz has pointed out, was originally connected  with the preceding one. It was derived from the  stern and solemn compact made under an oath to  the gods. But Danz goes too far when he identifies  the two, and states that sponsio was but another  name for the sworn promise. The stages through  which the sponsio seems to have passed tell a  different story. The word is closely connected with  airovSij, tnrivSeiv, and hence originally meant a  pouring out of wine 8, quite distinct from the convivial \ocfirf or libatio 6, so that " libation " is not its  proper equivalent. The other derivation given by Dig., fr. Plant. Rud. Dig. 4. 13. 4 Danz, Sacr. Schutz Festus s.u. spondere. 6 Leist, Greco-It. R. O. , note o. Varro 1 and Verrius  from sports, the will, whence  according to Girtanner 8 sponsio must have meant a  declaration of the will, savours somewhat too strongly  of classical etymology. This pouring out of wine, as Leist 4 has  shown, was in the Homeric age a constant accompaniment to the conclusion of a sworn compact of  alliance (optcia iriara) between friendly nations.  The sacrificial wine seems originally to have added  force to the oath by symbolising the blood which  would be spilt if the gods were insulted by a breach  of that oath. In this then its original form sponsio  was nothing more than an accessory piece of ceremonial. The second stage was brought about by the  omission of the oath and by the use of wine-pouring alone as the principal ceremony in making less  important agreements of a private nature. In the  Indian Sutras for instance a sacrifice of wine is  customary at betrothals 5, and comparison shows that  the marriage ceremonies of the Romans, in connection with which we find sponsio and sponsalia applied  to the betrothal and sponsa to the bride 6, were very  like those of other Aryan communities 7 . We may  therefore clearly infer that at Rome also there was a  time when the pouring out of wine was a part of the  marriage-contract; and thus our derivation of the  word receives independent confirmation. In the third and last stage sponsio meant   1 L. L. Festus, «. u. spondere. Stip Greco-It. B. G. . 8 Leist, AlUAr. I. Civ.   8 Gell. iv. 4. Varro, L. L.  Leist, loc. ciu nothing more than a particular form of promise, and  it is easy to see how this came about. At first the  verbal promise took its name from the ceremony of  wine-pouring which gave to it binding force; but in  course of time this ceremony was left out as taken  for granted, and then the promise alone, provided  words of style were correctly used, still retained its  old uses and its old name. Sponsio from being a  ceremonial act became a form of words. Such was  the final stage of its development.   The importance attached to the use of the words  spondesne ?, spondeo in preference to all others 1 thus  becomes clear. Spondesne ? spondeo originally meant  " Do you promise by the sacrifice of wine V "I do so  promise," just as we say, "I give you my oath,"  when we do not dream of actually taking one.   Another peculiarity of sponsio, noticed though  not explained by GAIO, was the fact that it could  be used in one exceptional case to make a binding  agreement between Romans and aliens, namely, at  the conclusion of a treaty. Gaius expresses surprise  at this exception. But if, as above stated, a sacrifice  of pure wine {airovhal a/cprjTot) was one of the early  formalities of an international compact (op/cia mard),  it was natural that the word spondeo should survive  on such occasions, even after the oath and the winepouring had long since vanished.   Sponsio being then a religious act and subsequently a religious formula, its sanctity was doubtless  protected by the pontiffs with suitable penalties.  What these penalties were we cannot hope to know, 1 Gai. in. 93. 2 in. 94. though clearly they were the forerunners of the  penal sponsio tertiae partis of the later procedure.  Varro 1 informs us that, besides being used at betrothals the sponsio was employed in money (pecu/nia)  transactions. If pecunia includes more than money  we may well suppose that cattle and other forms of  property, which could be designated by number and  not by weight, were capable of being promised in  this manner. Indeed it is by no means unlikely 2  that nexum was at one time the proper form for  a loan of money by weight, while sponsio was the  proper form for a loan of coined money (pecunia  nwmerata). The making of a sponsio for a sum  of money was at all events the distinguishing feature  of the afibio per sponsionem, and though we cannot  now enter upon the disputed history of that action,  its antiquity will hardly be denied.   The account here given of the origin and early  history of the sponsio is so different from the views  taken by many excellent authorities that we must  examine their theories in order to see why they  appear untenable. One great class of commentators  have held that the sponsio is not a primitive institution, but was introduced at a date subsequent to the XII TABVLAE. The adherents of this theory are  afraid of admitting the existence, at so early a period,  of a form of contract so convenient and flexible  as the sponsio, and they also attach great weight to  the fact that no mention of sponsio occurs in our  fragments of the XII Tables. While it would  doubtless be an anachronism to ascribe to the early   1 L. L.  a Karsten, Stip. p. 42. J  sponsio the actionability and breadth of scope which  it had in later times, still it may very well have  been sanctioned by religious law, in ways of which  nothing can be known unless the pontifical Commentaries of Papirius 1 should some day be discovered.  As to the silence of the XII Tables on this  subject, we are told by Pomponius that they were  intended to define and reform the law rather than  to serve as a comprehensive code 2 . Therefore they  may well have passed over a subject like sponsio  which was already regulated by the priesthood. Or,  if they did mention it, their provisions on the  subject may have been lost, like the provisions as to  iusiurandum, which' we know of only through a  casual remark of CICERONE’s, The early date here attributed to the sponsio  cannot therefore be disproved by any such negative  evidence. Let us see how the case stands with  regard to the question of origin.   (a) The theory best known in England, owing  to its support by Sir H. Maine, is that sponsio was a  simplified form of neocum, in which the ceremonial  had fallen away and the nuncupatio had alone been  left 4 . This explanation is now so utterly obsolete  that it is not worth refuting, especially since Mr  Hunter's exhaustive criticism 5 . One fact which in  itself is utterly fatal to such a theory is that the  nuncupatio was an assertion requiring no reply 6,   i Dion. in. 36. 2 1 Dig. 2. 2. 4.   8 Off. in. 31. 111. * Maine, Am. Law, p. 326.   5 Hunter, Roman Law, p. 385. 6 Gai. n. 24.   B. E. 2   whereas the essential thing about the sponsio was a  question coupled with an answer.   (6) Voigt follows Girtanner in maintaining that  spondere signified originally " to declare one's will,"  and he vaguely ascribes the use of sponsiones in  the making of agreements to an ancient custom  existing at Borne as well as in Latium 1 . He agrees  with the view here expressed that the sponsio was  known prior to the XII Tables, but thinks that  before the XII Tables it was neither a contract  (which is strictly true if by contract we mean an  agreement enforceable by action), nor an act in the  law, and that its use as a contract began in the  fourth century as a result of Latin influence 2 . In  another place 8 he expresses the opinion that its  introduction as a contract was due to legislation, and  most probably to the Lex Silia. The objections to  this view are that the etymology is probably  wrong, and that the inference drawn as to the  original meaning of spondere iuvolves us in serious  difficulties. An expression of the will can be made  by a formless declaration as well as by a formal one.  And if a formless agreement be a sponsio, as it must  be if sponsio means any declaration of the will,  how are we to explain the formal importance  attaching to the use of the particular words " spondesne ? spondeo. This view ignores the religious  nature of the sponsio, which I have endeavoured to  establish, and (4) it forgets that sponsio, being part  of the marriage ceremonial, one of the first subjects   1 Rom. RG.  Ius Nat.   to be regulated by the laws of Romulus 1, is most  probably one of the oldest Roman institutions.  Again (5), as Esmarch has observed 2, the legislative  origin of the sponsio is a very rash hypothesis. We  only know that the Lex Silia introduced an improved  procedure for matters which were already actionable,  and had a new formal contract been created by such  a definite act we should almost certainly have been  informed of this by the classical writers.   (c) Danz also derives sponsio from sports, the  will; but he takes spondere to mean sua sponte  iurare, and thinks that the original sponsio was  exactly the same as iusiurandum, i.e. nothing more  than an oath of a particular kind 3 . . His chief argument for this view is to be found in PAOLO DIACONO,  who gives consponsor = coniurator. But why need  we suppose that Paulus meant more than to give a  synonym ? in which case it by no means follows that  spondere = iurare. For such a statement as that we  have absolutely no authority. Moreover, as we saw  above, iusiurandum was a one-sided declaration on  the part of the promisor only. How then could the  sponsio, consisting as it did of question and answer,  have sprung from such a source ? especially since  the iusiurandum, though no longer armed with  a legal sanction, was still used as late as the days of  Plautus alongside of the sponsio and in complete  contrast to it ? Girtanner, in his reply to the "Sacrale  Schutz" of Danz 4, maintains that sponsio had nothing   1 Dion. n. 25. 2 K. V. filr G. u. R. W. 3 Sacr. Schutz, p. 149. 4 Ueber die Sponsio, p. 4 fif. to do with an oath, but was a simple declaration of  the individual will, and that stipulatio had its origin  in the respect paid to Fides. This view however  is even less supported by evidence than that of  Danz. Arguing again from analogy Girtanner  thinks that, as the Roman people regulated its  affairs by expressing its will publicly in the Comitia,  so we may conjecture that individuals could validly  express their will in private affairs, in other words  could make a binding sponsio. But this, as well  as being a wrong analogy, is a misapprehension of a  leading principle of early Law. For, as we have  seen, no agreement resting simply upon the will of  the parties (i.e. pactum) was valid without some  outward stamp being affixed to it, in the shape  of approval expressed by the gods or by the people.  In the language of the more modern law, we may  say that such approval, tacit or explicit, religious or  secular, was the original causa ciuilis which distinguished contractus from pactiones. Now a popular  vote in the Comitia bore the stamp of public  approval as plainly as did the nexum. But the  sponsio, requiring no witnesses, was clearly not  endorsed by the people ; therefore the endorsement  which it needed in order to become a contractus  iuris cvuilis must have been of a religious nature,  and that such was the case appears plainly if we  admit that sponsio originated in a religious ceremonial such as I have described.   To recapitulate the view here given, we may  conclude that sponsio was a primordial institution   1 See Windscheid, K. F. fiir G. «. R. W. i. 291. of the Roman and Latin peoples, which grew into its  later form through three stages, It is originally  a sacrifice of wine annexed to a solemn compact of  alliance or of peace made under an oath to the gods.  (b) Next it became a sacrifice used as an appeal to  the gods in compacts not made under oath such as  betrothals. Just as iusiurandum for many purposes  was sufficient without the pouring out of wine, so for  other purposes sponsio came to be sufficient without  the oath, Lastly it becomes a verbal formula,  expressed in language IMPLYING the accompaniment  of a wine-sacrifice, but at the making of which no  sacrifice was ever actually performed. In this final  stage, which continued as late as the days of Justinian,   Its form was a question put by the promisee,  and an answer given by the promisor, each using  the verb spondere. Filiam mihi spondesne? Spondeo? Centum dari spondes? Spondeo. Throughout its history this is a form which Roman citizens alone may use, in which fact we clearly see  religious exclusiveness and a further proof of religious  origin. Why they use question and answer rather than plain statement is a minor point the origin  of which no theory – except Grice’s-- has yet accounted for. The  most plausible conjecture seems to be that the  recapitulation by the promisee was intended to  secure the complete understanding by the promisor  of the exact nature of his promise.   Its sanction in the early period of which we  are treating was doubtless imposed by the priests,  but owing to our almost complete ignorance of the pontifical law we cannot tell what that sanction  was.   Having now examined the ways in which an  agreement could be made binding under religious  sanction, let us see how binding agreements could  be made with the approval of the community.  There is reason to believe that this secular class  of contracts is less ancient than the religious class,  because nexum and mancipium were peculiar to the  Romans, whereas traces of iusiurandum and sponsio  are found, as Leist has shown, in other Aryan  civilizations. Nexvm. There is no more disputed subject in the whole history of Roman Law than the  origin and development of this one contract. Yet the  facts are simple, and though we cannot be sure that  every detail is accurate, we have enough information  to see clearly what the transaction was like as  a whole. We know that it was a negotium per aes  et libram, a weighing of raw copper or other  commodity measured by weight in the presence of  witnesses 2 ; that the commodity so weighed was  a loan 8 ; and that default in the repayment of a loan  thus made exposed the borrower to bondage 4 and  savage punishment at the hands of the lender. We  know also that it existed as a loan before the XII  Tables, for it is mentioned in them as something  quite different from mancipium. To assert, as Bechmann does, that since nexum included conveyance as 1 Alt Ar. I. Civ. I« e Abt. pp. 435-443.   2 Gai. in. 173. 3 Muciu* in Varro, L. L..  4 Varro, L. L. Clark, E. R. L. well as loan " mancipiumque " must therefore be an  interpolation into the text of the XII Tables 1, is an  arbitrary and unnecessary conjecture. The etymology  of nexwm, and of mancipium shows that they were  distinct conceptions. Mancipium implies the transfer  of mami8, ownership ; nexum implies the making of  a bond (cf. nectere, to bind), the precise equivalent  of obligatio in the later law. It is true that both  nexwm and mancipium required the use of copper  and scales, to measure in one case the price, in the  other the amount of the loan. But this coincidence  by no means proves that the two transactions were  identical. A modern deed is used both for leases and  for conveyances of real property, yet that would be  a strange argument to prove that a lease and a  conveyance were originally the same thing. Here  however we are met by a difficulty. If, as some  hold 8 and as I have tried to prove, we must regard  mancipium as an institution of prehistoric times  distinct from the purely contractual nexwm, how  are we to explain the fact that nexwm is used  by Cicero 8 and by other classical writers 4 as equivalent to mancipium, or as a general term signifying  omne quod per aes et libram geritur, whether a loan,  a will, or a conveyance ? Now first we must notice  the fact that neamm had at any rate not always been  synonymous with mancipium, for if it had been so,  there could have been no doubt in the minds of   1 Kauf f Mommsen, Hist ad Fam. 7. 30 ; de Or. ; Top. ; Parad. . ; pro  Mwr. 2.   4 Boethius lib. 3 ad Top. 5. 28 ; Gallus Aelius in Festas, s.u.  nexwm ; Manilim in Varro, L. L. Scaeuola and Varro that a res nexa was the same  thing as a res mamipata. This Scaeuola and Varro  both deny, and we must remember that Mucius  Scaeuola was the Papinian of his day. Manilius 1 on  the other hand, struck perhaps by the likeness in  form of the obsolete nexum to other still existing  negotia per aes et libram, seems to have made nexum  into a generic term for this whole class of transactions. In this he was followed by Gallus Aelius.  The new and wider meaning, given by them to that  which was a technical term at the period of the  XII Tables, apparently became general in literature,  partly for the very reason that nexum no longer had  an actual existence, partly because need liberatio,  the old release of nexum, had been adopted by  custom as the proper form of release in matters  which had nothing to do with the original nexum,  namely in the release of judgment-debts and of  legacies per damnationem. One peculiarity mentioned by Gaius in the release of such legacies  seems altogether fatal to the theory that mandpium  was but a species of the genus nexum. Gaius says  that nexi liberatio could be used only for legacies of  things measured by weight. Such things were the  sole objects of the true nexum, whereas res maricipi  included land and cattle. Therefore if mancipiwm  were only a species of nexum we should certainly  find nexi liberatio applying to legacies of res mancipi,  but this, as Gaius shows, was not the case.   The view that nexum was the parent gestum per   1 Varro, L. L. vu. . a Festus, s. u. nexum.   3 Gai. . aes et libram, and that mancipium was the name  given later to one particular form of nexum, is worth  examining at some length, because it is widely  accepted 1, and because it fundamentally affects our  opinion concerning the early history of an important  contract. Bechmarm 2 thinks it more reasonable to  suppose that nexum narrowed from a general to a  specific conception. But it is scarcely conceivable  that nexum should have had the vague generic  meaning of quodcumque per aes et libram geritur  when it was still a living mode of contract, and the  technical meaning of obligatio per aes et libram  when such a contractual form no longer existed.  What seems far more likely is that nexum had a  technical meaning until it ceased to be practised  subsequently to the Lex Poetilia, and that its loose  meaning was introduced in the later Bepublic, partly  to denote the binding force of any contract 4, partly  as a convenient expression for any transaction per  aes et libram\ Even in CICERONE (vedasi) we find ‘nexum’ used chiefly with a view to elegance of style  in places where mandpatio would have been a  clumsy word and where 7 there could be no doubt as  to the real meaning. But when Cicero is writing  history, he uses nexum in its old technical SENSE (Grice, Do not multiply senses beyond necessity) and  actually tells us that it had become obsolete. Bechmann, Kauf,  ; Clark, E. R. L. Varro, I. c. Festus,. u. nexum. Cf. nexu uetu&ti " in Ulpian, 12 Dig. .   5 Cic. de Or.   6 Uar. Resp. vn. 14; ad Fam.; Top. As in pro Mur. 2; Parad.   8 de Rep.  and cf. Liu. mi. Rejecting then as untenable the notion that  nexum denoted a variety of transactions, let us  see how it originated. The most obvious way of  lending corn or copper or any other ponderable  commodity, was to weigh it out to the borrower,  who would naturally at the same time specify by  word of mouth the terms on which he accepted  the loan. In order to make the transaction binding,  an obvious precaution would be to call in witnesses,  or if the transaction took place, as it most likely  would, in the market-place, the mere publicity of the  loan would be enough. Thus it was, we may  believe, that a nexurn was originally made. It was  a formless agreement necessarily accompanied by  the act of weighing and made under public supervision. It dealt only with commodities which could  be measured with the scales and weights, and did  not recognize the distinction between res mancipi  and res nee mancipi, a strong argument that  nescum and mandpium were, as above said, totally  distinct affairs. Its sanction lay in the acts of  violence which the creditor might see fit to commit  against the debtor, if payment was not performed  according to the terms of his agreement. Personal  violence was regulated by the XII Tables, in the  rules of manus iniectio, but before that time it is safe  to conjecture that any form of retaliation against the  person or property of the debtor was freely allowed. The fixing of the number of witnesses at five 1,  which we find also in rnancipium, . is the only  modification of nexum that we know of prior to   1 Gai. hi. the XII Tables. Bekker 1 suggests that this change  was one of the reforms of Seruius Tullius, and that  the five witnesses, by representing the five classes of  the Servian ceruma, personified the whole people.  This is a mere conjecture, but a very plausible one.  For we are told by Dionysius 8 that Seruius made  fifty enactments on the subject of Contract and  Crime, and in another passage of the same author 8,  we find an analogous case of a law which forbade the  exposure of a child except with the approval of five  witnesses. But here a question has been raised as to  what the witnesses did. The correct answer, I  believe, is that given by Bechmann 4, who maintains  that the witnesses approved the transaction as a  whole, and vouched for its being properly and fairly  performed. Huschke, on the other hand, claims that  the function of the witnesses was to superintend the  weighing of the copper, and that before the introduction of coined money some such public supervision  was necessary in order to convert the raw copper  into a lawful medium of exchange 5 . This view  is part of Huschke's theory, that neacum had two  marked peculiarities: (1) it was a legal act performed under public authority, and it was the  recognised mode of measuring out copper money by  weight. The first part of Huschke's theory may be  accepted without reserve, but the second part seems  quite untenable. We have no evidence to show  that nexum was confined to loans of money or of   1 Akt.   4 Kauf. Nexum, p. 16 ff. copper. Indeed we gather from a passage of CICERONE (si veda)  that far, corn, may have been the earliest object of  nexum 1, while GAIO (si veda) states that anything measurable  by weight could be dealt with by neari solvtio. No  inference in favour of Huschke's theory may be  drawn from the name negotium per cms et libram,  for this phrase obviously dates from the more recent  times when the ceremony had only a formal significance, and when the aes (ravduscvlum) was merely  struck against the scales. If then we reject the  second part of Huschke's theory, and admit, as  we certainly should, that nexum could deal with any  ponderable commodity, it is evident that his whole  view as to the function of the witnesses must  collapse also. The very notion of turning copper  from merchandise into legal tender is far too subtle  to have ever occurred to the minds of the early  Romans. As Bechmann 8 rightly remarks, the  original object of the State in making coin was  not to create an authorised medium of exchange,  but simply to warrant the weight and fineness of  the medium most generally used. The view of  Buschke seems therefore a complete anachronism.  There is also another interpretation of neawm  radically different from the one here advocated, and  formerly given by some authorities 4, but which  has few if any supporters among modern jurists. This, view was founded upon a loosely expressed  remark of Varro's in which nexus is defined as CICERONE (si veda) de Leg. Agr. Kauf.  4 See Sell, Scbeurl, Niebuhr, Christiansen, Puchta, quoted in  Danz, Rom. RG. n. 25. a freeman who gives himself into slavery for a debt  which he owes The inference drawn from this  remark was that the debtor's body, not the creditor's  money, was the object of nexwm, and that a debtor  who sold himself by mancipium as a pledge for the  repayment of a loan was said to make a nexum. Such a theory does not however harmonize with the  facts. The evidence is entirely opposed to it, for  Varro's statement, as will be seen later on, admits of  quite another meaning. Neither nexum nor mancipium is ever found practised by a man upon  his own person. Nor could nexum have applied to a  debtors person, for the idea of treating a debtor like  a res mancipi or like a thing quod pondere numero  constat, is absurd. Again, if nexum = mancipium, the  conveyance of the debtors body as a pledge must  have taken effect as soon as the money was lent,  therefore by thus becoming nexus he must have  been in mancipio long before a default could occur,  which is too strange to be believed, and (2) being in  mancipio he must have been capite deminutus, which  Quintilian expressly states that no nexal debtor ever  was 4 . Clearly then mancipium was under no circumstances a factor in nexum.   Thus it would seem that the theory which  regards nexum as a loan of raw copper or other goods  measurable by weight, is the one beset with fewest  difficulties. Such goods correspond pretty nearly  to what in the later law were called res fungibiles. VARRONE (si veda), L. L. nexum inire, Liu. vn. Paul. Diao. u. deminutus. Decl. The borrower was not required to return the very  same thing, but an equal quantity of the same kind  of thing. And this explains why neanim, the first  genuine contract of the Roman Law, should have  received such ample protection. A tool or a beast of  burden could be lent with but little risk, for either  could be easily identified ; but the loan of corn or of  metal would have been attended with very great  risk, had not the law been careful to ensure the  publicity of every such transaction. lusiurandum  or sponsio might no doubt have been used for  making loans, but they both lacked . the great  advantage of accurate measurement, which neanim  owed to its public character. It was the presence of  witnesses which raised neanim from a formless loan  into a contract of loan.   This general sketch of the original neanim is  all that can be given with certainty. The details of the picture cannot be filled in, unless we draw  upon our imagination. We do not know what verbal  agreement passed between the borrower and the  lender, though it is fairly certain that payment  of interest on the loan might be made a part of the  contract. We cannot even be quite sure whether the  scale-holder (libripens) was an official, as some have  suggested, or a mere assistant. Our description of the contract may then be  briefly recapitulated as follows:   The form consisted of the weighing out and  delivery to the borrower of goods measurable by  weight, in the presence of witnesses, (five in number, probably since the time of Seruius Tullius), whose  attendance ensured the proper performance of the  ceremony. The ownership of the particular goods  passed to the borrower, who was merely bound to  return an equal quantity of the same kind of goods,  but the terms of each contract were approximately  fixed by a verbal agreement uttered at the time. The sanction consisted of the violent measures  which the creditor might choose to take against a  defaulting debtor. Before the XII Tables there  seems to have been no limit to the creditor's power  of punishment. Any violence against the debtor  was approved by custom and justified by the notoriety of the transaction, so that self-help was more  easily exercised and probably more severe in the case  of nexum than in that of any other agreement. The release (nexi solutio) was a ceremony precisely similar to that of the nexum itself, the amount  of the loan being weighed and delivered to the lender,  in presence of witnesses. We have now examined three methods  by which a binding promise could be made in the  earliest period of the Roman Law. The next  question which confronts us is whether there existed  at that time any other method. The other forms of  contract, besides those already described, which are  found existing at the period of the XII Tables, were  fiducia, lex mancipi, uadimonium, and dotis dictio.  Did any of these have their origin before this time ?  Fiducia is doubtful, and lex mancipi, as we shall  see, owed its existence to an important provision Gai. \.t  of that code. As to the origin of uadirnonium,  we cannot be certain, but judging from a passage  in Gellius 1 we are almost forced to the conclusion  that uadimonium also was a creation of the XII  Tables. Gellius speaks of •' uades et subuades et XX V  asses et taliones omnisque ilia XII Tabhlarum  antiquitas. We know that twenty-five asses was the  fine imposed by the XII Tables for cutting down  another man's tree, therefore it would seem from the  context that uades had also been introduced by that  code. The point cannot be settled, but since the  XII Tables were at any rate the first enactments  on the subject of which anything is known, we may  discuss uadimonium in treating of the next period. The only contract of which the remote antiquity is  beyond dispute is the dotis dictio. DOTIS DICTIO. Dionysius 8 informs us  that in the earliest times a dowry was given with  daughters on their marriage, and that if the father  could not afford this expense his clients were bound  to contribute. Hence it is clear not only that dos  existed from very early times, but that custom even  in remote antiquity had fenced it about with strict  rules. From Ulpian 8 we know that dos could be  bestowed either by dotis dictio, dotis promissio, or  dotis datio. The promissio is a promise by stipulation, and the datio was the transfer by mancipation  or tradition of the property constituting the dowry ;  so that these two are easy to understand. But dotis  dictio is an obscure subject. It is difficult to know  whence it acquired its binding force as a contract, Reg. since in form it was unlike all other contracts  with which we are acquainted. Its antiquity is  evidenced not only by this peculiarity of form, but  9,lso by a passage in the Theodosian Code which  speaks of dotis dictio as conforming with the ancient  law 1 . An illustration occurs in Terence, where the  father says, Dos, Pamphile, est decern talenta"  and Pamphilus, the future son-in-law, replies,  "Accipio"; but we need not conclude that the  transaction was always formal, for the above Code 8,  in permitting the use of any form, seems rather  to be restating the old law than making a new  enactment. A further peculiarity, stated by Ulpian 4  and by Gaius 5, was that dotis dictio could be validly  used only by the bride, by her father or cognates on  the fathers side, or by a debtor of the bride acting  with her authority. Dictio is a significant word, for  Ulpian 6 distinguishes between dictum and promissum, the former, he says, being a mere statement,  the latter a binding promise. This distinction should  doubtless be applied in the present case, since dotis  dictio and dotis promissio were clearly different.  The following theories seem to be erroneous :  Von Meykow 7 holds that dictio was adopted  as a form of promise instead of sponsio for this family  affair of dos, in order not to hurt the feelings of the  bride and of her kinsmen by appearing to question  their bona fides. That theory would be a plausible  explanation, if dictio could ever have meant a   1 C. Th. 3. 12. 3. 2 And Reg. Epit.Dig. Diet. d. Rfim. Brautg. p. 5 ff.   B. E. 3 promise, but from what Ulpian says, this can hardly  be admitted. Bechmann 1, again, connects dotis dictio with  the ceremony of sponsio at the betrothal of a daughter.  The dos, he thinks, was promised by a sponsio made  at the betrothal, so that the peculiar form known as  dotis dictio was originally nothing more than the  specification of a dowry already promised. The dotis  dictio would therefore have been at first a mere  pactum adiectum, which was made actionable in  later times, while still preserving its ancient form.  The objection to this theory is tKat it lacks evidence :  indeed the only passage (that of Terence) in which  dotis dictio is presented to us with a context goes to  show that this contract was in no way connected  with the act of betrothal.   (c) Another explanation is given by Czylharz,  ie. that dotis dictio was a formal contract. His  view is based on the scholia attached to the  passage of Terence, which say of the bridegroom's  answer: "Mle nisi dixisset ' accipio' dos non esset."  Czylharz therefore looks upon the contract as an  inverted stipulation. The offer of a promise was  made by the promisor, and when accepted by the  promisee became a contract. Though such a process  is quite in harmony with modern notions of Contract,  it would have been a complete anomaly at Rome.  And we cannot believe that, if acceptance by the  promisee had been a necessary part of the dotis  dictio, we should not have been so informed by  Gaius, when he has been so careful to impress Rom. Dotalrecht. 2 Abt. a Z.f. R. G.  upon us that the dotis dictio could be made nulla  interrogatione praecedente. Thus the view of  Czylharz besides being in itself improbable is  almost entirely unsupported by evidence. Even the  scholiast on Terence need not necessarily mean that ‘accipio’ is an indispensable part of the transaction. He may merely have meant that the bridegroom at this juncture could decline the proffered  dos if he chose, and this interpretation is borne out  by Iulianus 1 and Marcellus 8, who give formulae  of dotis dictio without any words of acceptance. A satisfactory solution of the problem seems  to have been found by Danz. He looks upon  dos as having been due from the father or male  ascendants of the bride as an officium pietatis 4,  and quotes passages from the classical writers in  which they speak of refusing to dower a sister  or a daughter as a most shameful thing 5 . The  source of the obligation lay in this relationship  to the bride, not in any binding effect of the dotis  dictio itself. But in order that the obligation might  be actionable its amount had to be fixed, and this  was just what the dictio accomplished. It was an  acknowledgment of the debt which custom had  decreed that the bride's family must pay to the  bridegroom. In this respect the dos was precisely  analogous to the debt of service which a freedman  owed as an offidum to his patron, and which he  acknowledged by the iurata operarumpromissio. The  dos and the operae were both officio, pietatis, but    Dig.  Dig.  Rom. RO. I. 163.Dig. 3. 2. 5 Plaut. Trin.; Oic. Quint. it became customary to specify their nature and  their quantity. In the one case this was done by an  oath, in the other by a simple declaration, and in  both cases the law gave an action to protect these  anomalous forms of agreement. What kind of  action could be brought on a dotis dictio is not  known. Voigt 1 states it to have been an actio  dictae dotis, for which he even gives the formula,  but formula and action are alike purely conjectural.  We can only infer that the dotis dictio was action-  able since it constituted a valid contract. How or  when this came to pass we cannot tell. A further advantage of Danz' theory, and one not  mentioned by him, is that it explains the capacity  of the three classes of persons by whom alone dotis  dictio could be performed. (1) The father and male  ascendants of the bride were bound to provide a dos  under penalty of ignominia; the bride, if sui  iuris, was bound to contribute to the support of her  husband's household for exactly the same reason;  and a debtor of the bride was bound to carry  out her orders with respect to her assets in his possession, and supposing her whole fortune to have con-  sisted of a debt due to her, it is evident that  a dotis dictio by the debtor was the only way in  which this fortune could be settled as a dos at all.  Thus the hypothesis that the dos was a debt  morally due from the father of the bride, or from  the bride herself, whenever a marriage took place,  completely explains the curious limitation with XII Taf. ii. § 123. 2 24 Dig CICERONE (si veda), Top. FORM OF D0TI8 DICTIO regard to the parties who could perform dotis  dictio. The nature of the transaction may then be  summarized as follows :   Its form was an oral declaration on the part  of the bride's father or male cognates, of the  bride herself, or of a debtor of the bride, setting  forth the nature and amount of the property which  he or she meant to bestow as dowry, and spoken  in the presence of the bridegroom. Land as well as  moveables could be settled in this manner No  particular formula is necessary. The bridegroom  might, if he liked, express himself satisfied with the  dos so specified ; but his acceptance does not seem  to have been an essential feature of the proceeding.  Most probably he did not have to speak at all.   Its sanction does not appear, though we may be  sure that there was some action to compel perform-  ance of the promise. This action, whatever it may  have been, could of course be brought by the bride's  husband against the maker of the dotis dictio.  Perhaps in the earliest times the sanction was a  purely religious one.   Art. 6. Now that we have seen the various  ways in which a binding contract could be made in  the earliest period of Roman history, we may con-  sider briefly the general characteristics of that primi-  tive contractual system. The first striking point  is that all the contracts hitherto mentioned are  unilateral: the promisor alone was bound, and he  was not entitled, in virtue of the contract, to any counterperformance on the part of the promisee. Gai. Ep. The second point is that the consent of the parties  was not sufficient to bind them. Over and above  that consent the agreement between them was  required to bear the stamp of popular or divine  approval. Even in dotis dictio, as we have just seen,  a simple declaration uttered by the promisor was  invested with the force of a contract merely because  the substance of that declaration was a transfer of  property approved and required by public opinion. Thirdly we notice that the intention of the con-  tracting parties was verbally expressed, but that the  language employed was not originally of any impor-  tance (except in the one case of sponsio), provided the  intention was clearly conveyed. We must therefore modify the statement so commonly made that the  earliest known contracts were couched in a particular  form of words. For how did each of these particular  forms originate and acquire the shape in which  we afterwards find it ? By having long been used to express agreements which were binding though  their language was informal, and by having thus  gradually obtained a technical significance. Conse-  quently the formal stage was not the earliest stage  of Contract. The most primitive contract of all was not an agreement clothed with a form, but an agree-  ment clothed with the approval of Church or State. Nicola Codronchi. Niccola Codronchi. Keywords: Su i contratti e giochi d’assardo, contratto, tre tipi di contratto, contratto epistemico, contratto empirico, contratto misto, concordato puo essere informale o formale. tre tipi di concordi formali nell’eta regale, il giuramento per giove, il sponsio (il vino come simbolo del sangue dei vittimi) e il nesso. Il giuramento per Giove e lo sponsio sono ambi religiosi in natura. Solo il ‘nesso’ e secular – e chiede o necessita la presenza della comunita come testificatore – e una forma tipicamente romana e consequentemente piu tard ache le forme religiose che vediamo in altre comuita arie. Il nesso si manifesta nel templo publico – ara maxima per Ercole – e invoca la regola del primo re Romolo, contratti bilaterali, forma dialogica, A esprime la proposizione e B risponde assentendo alla comprehension e all’accettazione di p. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Codronchi” – The Swimming-Pool Library. Codronchi.

 

Luigi Speranza -- Grie e Colazza: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’iniziazione – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “Having gone to Clifton, I love Colazza – he is into ‘iniziazione’ – specially in the equites of ancient Rome, but not much different from mine!” Di una famiglia dell'alta borghesia romana, e istruito agli studi umanistici e si laurea a Roma. Cultore dell'esoterismo e delle dottrine massoniche e teosofiche. Fonda il club antroposofico in Italia. Dall'incontro con l'antroposofia C. apprese l'esigenza di seguire pratiche spirituali di concentrazione adatte al contesto occidentale, coltivando in particolare la «via del pensiero cosciente».  Altre opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La magia del noi di Ur (Edizioni Mediterranee). Evola e l'esperienza del Gruppo di Ur.  A strong anthroposophical influence came from C. and Duke Giovanni Colonna di Cesard. Close to the group, which adopted the name UR, were Kremmerz, founder of the Fraternity of Myriam. Sedute spiritiche che si svolgevano in casa dell'amico C., e che talvolta si protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA INTERIORE. Il saggio l’Iniziazione mi fu consigliato da Steiner in francese a Piazza Spagna, come un saggio importante, da tenere sempre presente come guida.  L’uomo così come nella vita quotidiana serve a poco o niente per il mondo dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo poi altri insegnamenti estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra persona, di cui siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto utile per giungere alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare in noi il pensare che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di Eurialo e Niso, che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente. L’esoterismo e facile, se si conforta sempre donandoci personali indicazioni, circa gli esercizi e la pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare fedelmente e scrupolosamente quello che possiamo accogliere e applicare a noi stessi.   Si dice che è importantissimo cominciare sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il concetto di venerazione con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima. L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la gerarchia.  Tale stato di nostre anime destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali, ai quali siamo debitori.  Astenersi dalla critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore, soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima. Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa ricercando nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate percezioni. Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli, senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un grande nemico. Bisogna osservare una pianta in pieno sviluppo afferrando tutti i dettagli; osservarla e riceverne una percezione così chiara che, chiudendo gli occhi, possa rimanere come chiara immagine interiore di fronte a noi. Esercitarsi con la forma esterna cercando ad occhi chiusi di ricordarla, visualizzandola. Quando si riceve un’esperienza non bisogna assolutamente tradurla in concetti con le parole: bensì mantenerla in sé e coltivarla. Altra cosa importante da fare è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare e realizzare la differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di natura vegetale o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie nel vento, il rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una diversa manifestazione delle forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo prolungare in noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite l’orecchio dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in silenzio il sorgere di qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico, genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel mondo spirituale come una ripetizione più sottile delle forme del mondo fisico. Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna sviluppare sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e sensibilità per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL TIROCINIO. Spesso il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti dagli esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi, nascendo dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver avuto una vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il sentimento di aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine percepita ci è a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è un qualcosa di già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o lemurico).  È un primo passo verso il riconoscere in coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in completa unione con il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli occhi fisici un seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò, occorre interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del seme, sforzandosi di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi chiusi. Si pensi che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera pianta: vi è in lui un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la quale manifesterà in un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente contenuta. In lui dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla nostra vista, invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di crescita in successione, nel triplice ritmo della sua costituzione: radice,  fusto, fogliame, fiori, frutto. Non è importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa manifestazione, la potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente delle forze insite nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva è l’elemento invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo vegetale trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e percepibile. Ci si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad esso l’intero processo immaginativo delle potenziali forme di crescita, dell’invisibile che è diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà in noi come facoltà di visione: una specie di nube luminosa, una specie di piccola fiamma di colore lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la vivente forza vitale che edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare una pianta in completo sviluppo, sforzandosi di vedere in essa immaginativamente l’attuarsi del ciclo seme-pianta-fiore-frutto seme, realizzando così un senso di perennità della vita vegetale, espressa nella sintesi della forma della pianta stessa.  In un certo senso, è come se dalla pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante. Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare. Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta, solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il modificare il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale. L’obiettivo di questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per arrivare al suo contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame il ricordo di un evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei movimenti e nei gesti di un individuo preda di un fortissimo desiderio. Sforzarsi di sentire in noi quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo, trasferendo in noi tale sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da poterlo osservare obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri. Appariranno diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da evitare, anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso immette nel sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una specie di neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita, distorce o impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del mondo spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un naturale disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono l’irregolare autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa paralizza le forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente spirituale. I vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare, come funghi, legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce solare, come i pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI DAGL’ESERCIZI. Tutti gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una maggiore mobilità del corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si aiutava attraverso particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali pratiche sono dannose: si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il fisico; se tuttavia se si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe priva di controllo, casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A seguito degli esercizi antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un nuovo ritmo. La mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il proprio corpo fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il tirocinio esoterico, avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono venir interpretate come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima, il proprio sistema osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è sperimentare i propri muscoli come percorsi da correnti; si sente scorrere qualcosa nel sistema muscolare, quale moto del corpo eterico. Si può poi avere la sensazione che la nostra coscienza sia distesa e diffusa non più solo nella testa, ma lungo tutto il sistema circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro noi. Si avverte poi il il centro del proprio essere nel centro del cervello, mentre nella periferia di esso si percepisce la zona ove opera e agisce la memoria rappresentativa. Il sistema nervoso comincia a rendersi indipendente dalla corrente sanguigna. Si ha poi la percezione di avvertire l’indipendenza e l’individualità dei singoli organi interni. Ciò vale anche per gli organi di senso, che sembrano come attaccati al nostro essere. I SENSI. Il tatto non è un senso, ma un urto contro il mondo esterno; tramite gli altri sensi, evocando le relative percezioni di gusto, odore, suono e vista per poi cancellarle ispirativamente, è possibile ritrovare la loro origine spirituale. Il gusto è un organo di percezione dell’etere cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere vitale. L’udito è l’involuzione di un organo dell’epoca lunare, allora predisposto per la percezione dell’armonia delle sfere. Il senso del calore ci rimanda all’antico Saturno. La vista ci permette di percepire la manifestazione dell’etere di luce. Un sintomo evidente dell’effetto degli esercizi è sulla memoria: essa viene man mano a perdersi, per venir sostituita da un’altra facoltà mnemonica non fondata come questa su ricordi visivi e uditivi, ma su ricordi o immaginazioni eteriche. Il vero serbatoio della memoria non è il cervello, ma il corpo eterico: qui ogni cosa viene registrata, racchiusa e conservata. Procedendo dal presente a ritroso, rievocando stati d’animo sperimentati, sarà possibile ritrovarvi eventi dimenticati. Nel sentire, si risveglia la memoria. Occorre sviluppare presenza di Spirito: abituarsi ad una grande autodeterminazione, imparando a decidere con immediatezza, senza esitazioni. Occorre poi di decidere responsabilmente di non tradire il mondo spirituale, una volta conseguite le facoltà iniziatiche. Il comunicare insegnamenti a qualcuno che non ne sia preparato, significa assumersi anche la responsabilità karmica delle eventuali conseguenze, circa il buono o cattivo uso che questi ne farà. Lo stare in segreto non deve significare darsi arie misteriose, ma solo non voler nuocere ad altri. Tutto ciò che ci porta alla nostalgia del nostro passato, è una tentazione luciferica. Bisogna cessare di contare i giorni, i mesi e gli anni trascorsi senza risultati nella disciplina. La parola chiave è Pazienza. L’impazienza rappresenta un ostacolo: il mondo spirituale per potersi rivelare, per aprirsi un varco, ha bisogno di trovare nel discepolo calma attesa, per potervisi riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le potenze spirituali sono in continuo fermento, in perenne attesa per poter essere accolte dall’uomo, purché trovino le giuste condizioni che glielo consentano: esse, datrici di Amore eterno e altruista, trepidano nella fremente attesa di poter riabbracciare i loro fratelli minori. Più che anelare di muoversi incontro a loro, è più giusto intendere che la via giusta è sapersi aprire ad esse. Esse possono riversarsi in noi solo se trovano purezza interiore; esse sono sempre pronte, dai limiti della nostra coscienza, a connettersi con noi. Sono soltanto i veli della personalità soggettiva, l’irrequietezza, i timori, gli impulsi inferiori, a impedire loro di avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire fisico, ogni reazione istintiva, paralizza i sensi spirituali. Bisogna rinunciare alla suscettibilità e alla collericità: tacitare le passioni e i desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza del desiderio, che impedisce la percezione dello Spirito. Padronanza di sé: dominio dei sentimenti che sorgono spontaneamente in noi. È consigliabile nei rapporti con gli altri, non la durezza, ma la mitezza. La durezza erige una barriera invalicabile, spezzando un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio: positività e astensione dalla critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto dall’ambiente della vita di tutti i giorni, per raccogliersi e meditare in mezzo alla Natura. Il rumore della vita quotidiana, può impedire il manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il discepolo mano a mano si libera così della vita istintiva e dei caratteri ereditari della sua razza e famiglia: si svincola dall’azione delle entità spirituali corrispondenti. Occorre sempre chiedersi se si è degni di questa libertà interiore che si vuole conseguire e se si ritiene di avere le forze necessarie per sostenerla, affinché tale libertà agisca positivamente e correttamente. LE sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è connessa al karma: molte volte occorre chiedersi se non vi sia qualche cosa nel campo morale che gravi sul fisico, da purificare o da espiare, che ne impedisca l’atteso miglioramento. Per la salute del corpo occorre sopratutto coltivare la chiarezza del pensare e del discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo esterno. Prima di parlare o di esporre una propria considerazione o un’opinione, occorre stabilire con chiarezza il pensiero da formulare in immagini: non è bene difatti cercare a tutta prima le parole idonee, ma soprattutto la figura d’insieme da cui partire. È l’immagine che deve far scaturire l’espressione dialettica. Sentirsi un arto della vita universale, una parte di questa, superando ogni senso di separazione. La sostanza divina è solo apparentemente e necessariamente ripartita nel cosmo: lo scopo finale dell’evoluzione è comunque ricostituire un’unica entità spirituale. Bisogna aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli altri fossero. 3- Si deve divenire consapevoli che i pensieri e i sentimenti hanno la stessa valenza e importanza che le proprie azioni: il movimento del pensiero e dei sentimenti è altrettanto concreto quanto le azioni fisiche operate sul mondo esteriore. Ciò originerà responsabilità per il circostante ambiente animico e fisico. I pensieri permangono e si diffondono, comprendendo nei suoi effetti una moltitudine di esseri. Operare secondo i puri impulsi dell’Io superiore, non dell’Io inferiore. Si deve prendere coscienza che il corpo fisico, nel quale solitamente ci s’identifica, è solo uno specchio, un arto dell’interiorità. Educarsi al mantenimento di una decisione presa; il rinunciare è un cadere nel vuoto dell’incoerenza e dell’indeterminatezza: è mancanza di forza dell’Io. Non bisogna assolutamente mai, prendere decisioni o fissare regole, mentre ci si trova travolti dall’onda di un moto passionale o di un impulso emotivo. Occorre essere riconoscenti, grati al mondo esterno e allo Spirituale. Si deve ricordare che nell’era di Saturno, Tutto era Uomo, e che solo grazie al frutto del sacrificio di altri esseri spirituali e esseri fisici rimasti indietro nei regni inferiori, è stato possibile configurare l’umanità attuale. Ringraziare per il sostentamento giornaliero. Considerare la vita e agire in essa, secondo la direzione enunciata nelle precedenti condizioni: dare un’impronta unitaria ed equilibrata alla vita facendo in modo che le finalità delle proprie azioni siano determinate dalle attitudini sopra descritte. Molte cose devono essere abbandonate, e molte altre acquisite per porsi al servizio del divino. LA POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa perpendicolarmente e orizzontalmente da correnti, che possono favorire o ostacolare la meditazione. Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre pertanto avere la colonna vertebrale verticale rispetto alla superficie terrestre. La posizione distesa, supina, invece accoglie le correnti orizzontali dirette alle specie animali, inducendo automaticamente ad un tipico stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il corpo eterico è percorso da innumerevoli correnti che muovono in senso longitudinale o circolare radiale. Durante la veglia, il corpo astrale rimane connesso spazialmente al corpo fisico; quando si apre nel discepolo la coscienza spirituale, il corpo astrale si espande in proporzione dello spazio che può essere percepito, ossia diviene grande quanto il suo campo di percezione. Non si parla diffusamente del loto a due petali, fra gli occhi, perché esso è connesso con il risveglio di forze che appartengono alla chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni di sicurezza, del loto della zona basale kundalini e del loto1000 petali, sul capo.  In un lontano passato, i fiori di loto erano attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente solo la loro metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano, cominciando a muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici (cuore)e dieci petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta sull’Io inferiore. IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della preparazione e dell’illuminazione tendono ad attivare tale centro. Si tratta principalmente di lavorare nel campo delle idee, curando la moralità nell’uso delle parole e la qualità di buon fine delle proprie risoluzioni prese. Tale centro, attivato, conferisce la capacità di entrare in comunicazione con altri Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le condizioni da realizzare sono otto, ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente: Formarsi rappresentazioni il più fedeli possibili del mondo esterno, prive di fantasia personale, eliminare l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività; le parole usate in un discorso devono essere sempre rigorosamente connesse all’argomento;  ogni gesto e atto deve essere sempre in piena coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare, pianificare concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità e la giustezza delle proprie aspirazioni;  imparare ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita;  la giornaliera meditazione per interrogarsi sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo interiore.  A volte non è molto altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza. Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’ E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità: anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a due rami, con il compito di portare fuori il corpo eterico. Per mezzo di tale centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione.  Bisogna suscitare un rispettoso silenzio riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni.  Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a trasformare tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta incoerente e non ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle forze spirituali. IL LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la percezione delle forme.  Come gli altri, anche questo centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni da realizzare sono sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema o da un oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente, distaccandosi così dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di persone che parlano in modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non intervenire correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri deformi e correggerli dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé. Controllo delle azioni; uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo dato dagli istinti, prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai movimenti, in modo che non avvenga che le nostre azioni possano venire determinate da impulsi inconsci non passati al vaglio cosciente del nostro pensiero. Pratica della Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità, compiendo e portando sempre a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi, gli esercizi o le determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare la conoscenza dei motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla comprensione degli errori altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di criticare o giudicare; occorre far nascere in sé il desiderio di voler essere utili all’altro tramite consigli o considerazioni costruttive, non con giudizi che bloccano la sua evoluzione. Pratica dell’obiettività o spregiudicatezza; non respingere immediatamente qualcosa che ci venga detta, e parimenti non rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose da noi già appianate e conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità, equilibrio degli esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere le normali reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina certamente difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un buon esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente importante ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con un’altro pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici PETALI (Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri le potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera condotta di Vita.  Occorre considerare la totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri spirituali. Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e spirito. Deve sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire immersi nello spirito: incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e insistere nel lottare duramente contro una propria inclinazione o tendenza molto pronunciata; se tale difetto è così preponderante, a volte lo si può solo dominare o controllare, ma non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare e sublimare le proprie passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni tendenti al voler tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di sperimentare la gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE PARTICOLARITA’ SUL CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre in perenne movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente, seguendo la circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da localizzarsi nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono agli altri centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale imperfezione. Esso è un organo di natura Solare. Nella zona centrale della testa vi è un punto specialissimo in cui corpo eterico e corpo fisico sono congiunti; qui inizialmente si formano le correnti del corpo eterico. Prima di rendere operativo il fiore a 12 petali, nel cuore, occorre predisporre un centro provvisorio nella testa, per rendere possibile uno sviluppo interiore condotto in piena coscienza. Successivamente, dopo aver raggiunto un giusto stadio di controllo cosciente delle attività di pensiero, tale centro dovrà venir trasferito nella sua vera sede, presso il Cuore. Gli esercizi di concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare tale centro nella testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore l’attivazione. RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere il vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei esercizi fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA VIA INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una specie di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere pronti per qualche cosa.  E’ relativamente facile contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un libro, difficile però realizzarlo con la stessa continuità, puntualità, perseveranza e coerenza nella vita: nella vita non è come nel libro, dove un passo viene descritto uno dopo l’altro; a seconda delle occasioni e delle situazioni individuali ogni passo può svilupparsi prima o dopo, in modo assolutamente non conseguente. L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA CONTINUITA’ DELLA COSCIENZA. Il corpo eterico è di per sé, un principio spirituale: è connaturato con il tempo, è fatto di sostanza temporale. L’uomo non ha assolutamente alcun potere di interferire o di influenzare le forme pensiero, di sentimento, di desideri o passioni da lui generate. Una volta emanate, queste forme non possono più venire controllate. Durante lo sviluppo occulto, in un primo momento, il sé superiore si pone di fronte al proprio mondo inferiore, il suo Ego.  Si ha la percezione che tutto che era la nostra natura interiore, prende forme che tendono a venirci addosso, incontro dal di fuori. Si verifica un rovesciamento delle immagini, tipico del mondo astrale.  Il praticare esercizi in modo non corretto, disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida base, potrebbe causare la percezione di queste forme pensiero in forme ossessionanti ed aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e anche possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale). L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2 petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali.  Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva, passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà spirituale si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo apparire veri fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano nella coscienza la sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere: costruiscono quasi la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale esperienza. Si arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene: il karma. A questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la sorgente del proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più indietro perché, compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di quanto gli è inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di veglia, l’uomo si trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno ha la possibilità di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La coscienza di sonno senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà percettiva corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si percepiscono come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la sensazione di parlare a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in noi esseri spirituali. Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio: sono cenni del progresso spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di aver ricevuto qualcosa, qualcosa che non si riesce a definire.  Poi, i rapporti con gli esseri spirituali assumono la caratteristica di domanda e risposta; si sente al risveglio una voce interna donante luce e chiarezza alla propria vita interiore e alla vita esteriore. Non è bene sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno, ma lasciarle sorgere spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al risveglio, questi messaggi diventeranno sempre più chiari, così da portare nella vita di veglia tutte le esperienze della vita spirituale vissuta durante la notte: si instaurerà la continuità fra lo stato di veglia e lo stato di sonno senza sogni. Una volta stabilita, tale continuità di coscienza verrà portata dal discepolo anche attraverso le porte della morte, e con essa la stessa pienezza del ricordo nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione indispensabile per tale realizzazione è la pratica della concentrazione, meditazione e contemplazione. Il discepolo potrà porre delle domande in meditazione, durante lo stato di veglia: riceverà le risposte durante il sonno senza sogni: ciò è l’inizio di un colloquio fra esseri spirituali. Il vero scopo dell’Iniziazione consiste nell’instaurare la continuità della coscienza. Ciò è una mèta assai lontana, ma dirigendosi verso di essa si possono cogliere degli sprazzi di luce che indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza. LA SEPARAZIONE DEL PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il discepolo ad esperienze inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione delle tre facoltà umane è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi spirituali. Sono tre i pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare: divenire astratti teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e indifferenti nei confronti dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel proprio pensare in solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può sentirsi trasportata in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un estremo godimento del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del Volere: divenire super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il mondo esteriore, lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E L’INDIVIDUALISMO ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in modo immediato, istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve distaccarsi da tale automatismo innato, predisposto in lui.  Il fatto di poter dominare le reazioni e i sentimenti conferisce a tutto l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché le emozioni non hanno autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si deve fondare su di una nuova personalità morale, il quale deve conferire al discepolo la coscienza di ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo spirituale e a ciò a cui deve la ragione della propria esistenza. La Libertà prevede che si sia superato l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di moralità e di equilibrio da poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma per l’umanità.Il discepolo diviene consapevole di dipendere dai mondi superiori, con la libera decisione di servire la Causa degli esseri spirituali. Solo in tal modo si può parlare di una Libertà pura e vera, che non porti danno a lui stesso e agli altri. IL GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato pensare, sentire e volere è possibile accedere all’esperienza del guardiano della soglia. LA SOGLIA. Il liberare le facoltà dell’anima significa assumersi direttamente la responsabilità delle proprie azioni. Avendo liberato il corpo eterico e il corpo astrale dagli automatismi del pensare, sentire e volere, si avvicina l’esperienza del guardiano della soglia: si rende obiettivamente visibile il grado a cui si è pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano diviene un essere indipendente, al di fuori di noi. Mentre precedentemente si era intessuti con lui, ovvero con ciò che rappresenta cosmicamente il nostro essere, ora si presenta esteriormente la nostra interiorità. I propri moti interiori si traducono nella figura esteriore di questo essere. Il guardiano si presenta all’improvviso, appena i chakras cominciano ad attivarsi: è la prima esperienza soprasensibile. Tale esperienza, può suscitare terrore. Molti, al cospetto del guardiano, che palesa il grado di imperfezione e purezza da noi raggiunto sinora, riconoscono la propria inadeguatezza, la propria immaturità nel sopportarne la visione, quindi retrocedono. Si ravvisano le proprie limitazioni: i difetti assumono un carattere obiettivo. Solitamente questo essere si presenta per la prima volta al risveglio, la mattina, in un momento inaspettato, tanto da suscitare terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO. Supponiamo che un uomo con il viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai potuto specchiarsi; quale sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando per la prima volta vedrà la sua deformità? Prendere coscienza della propria figura interiore è l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo all’esterno. IL GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il nostro karma; la sua figura riassume il nostro passato vivente con tutte le cause di dolore e gioia. Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare in volto il guardiano, da quel momento ci si assume coscientemente la responsabilità di pagare i propri debiti karmici, quasi andando incontro a questi. Ci si accorge che ogni tentativo di evadere o di rimandare il pagamento del proprio karma, provoca un disastro nell’ordinamento spirituale. Ogni mancanza si riflette assumendo forma demoniaca. Occorre assolutamente a cagion di ciò, quali discepoli, superare il sentimento della paura.  Il coraggio di affrontare il guardiano è contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio destino nelle proprie mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può causare dolore, rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che offre minore resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di più difficile e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano muterà di forma in modo direttamente proporzionale al nostro adempimento karmico, sino ad assumere figure luminosissime nella misura in cui ci saremo purificati. Fino al momento dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e quanti pesi portiamo nel nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi di prima, dopo aver visto la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più possibile ingannare sé stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio karma, non si può dire di essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida delle Potenze del karma per prendere noi stessi la responsabile guida di tale compito, solo allora si comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora le forze del Cristo si sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI CONFRONTI DELLE GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito di popolo nel quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi animici che condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente spirituale, nel quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo. Il riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo che ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a scorgere nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere appieno la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi a quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di Adonai a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire: offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA. Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare, sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura.  L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo. Breno. Kur. Giardino di Maturità, chiamano certi  antichi saggi il luogo, in cui pone piede  l'uomo allorchè gli divengon palesi gli arcani del mondo. Secondo quei saggi in quel  giardino non ci sarebbe fiore, che non recasse il suo frutto, non uovo, che non portasse .a maturità la vita in esso germinante.  Ma come oscure e- pericolose vengono al  tempo stesso descritte le vie che menano  alla = Porta Stretta , la quale appunto chiude quel giardino. Si assicura, però, che quell'oscurità diviene più chiara del sole e che  quei pericoli non hanno potere contro le  forze di cui ferve l'anima di colui, al quale  queste vie sono mostrate con provvida mano da un mistico da un niziato. Tutto ciò come puerile concezione di un' epoca, in cui nulla si sapeva delle scienze  dei giorni nostri, viene ripudiato dall’ i/luminato, che crede di saper distinguere fra  i vaneggiamenti di una fantasia  brancolante  e le ponderate vedute d'un intelletto  scier- i So ca | oggi  tificamente disciplinato E chi, ciò nonostante, parla oggi di coteste concezioni, può Al star certo di vedere sul volto di molti dei  È, suoi contemporanei un sorriso, se. non di  di : ll sprezzo, per lo meno di compassione. Ta Eppure, anche oggi, ciò malgrado, ci sono  I alcuni che, come quegli antichi saggi, parMAS lano del  rondo dell'anima, e della  paN Cuina 7a dello spirito . Costoro vengono riputati  | fe AMA ì È 3  | persone che parlano di un mondo immagifa nario, figurato loro soltanto dalla propria  Sbrigliata fantasia. Si deplora perfino che essi,  LA in mezzo a un mondo che ha raggiunto  i tanto grandiosi risultati, grazie alla pura e  i, now austera logica, vadano brancolando come ebbranco ‘@& bri, cui ad ogni momento viene meno la  li sicurezza, perchè non si attengono a ciò  È che esiste  positivamente,,.Ora, che cosa dicono questi edbri stessi  i a codesti contradittori ? Quando si sentono  f arrivati all'alto punto, in cui è loro conferito  il diritto di parlare di sè, allora dalle loro   È labbra si odono uscire le parole seguenti. È  Noi comprendiamo benissimo voi, ‘che  dovete essere i nostri oppositori. Sappiamo  che molti di voi sono persone da bene, che  senza riserva si pongono al servizio del  Vero e del Buono; ma sappiamo altresì che Bee a), jr er =>  voi non ci potete capire, fin tanto che pensate come appunto pensate. Sulle cose, delle  quali noi abbiamo da ragionare, potremo diiscorrere con voî, soltanto quando vi sarete  presi voi stessi la pena di apprendere il linguaggio nostro. Dopo questa nostra dichiarazione molti di voi, certo, non vorranno  più oltre occuparsi di noi, perchè crederanno  di aver riconosciuto che al farneticamento  della nostra fantasia si accoppia in noi anche un immedicabile orgoglio. Noi però  comprendiamo voi anche in siffatta affermazione e sappiamo al tempo stesso che  dobbiamo essere non già superbi, ma modesti. Per incitarvi a tentare di entrare nel  nostro ordine di idee non ci resta che una  cosa da dire: Credeteci, noi non riconosciamo un vero diritto di parlare delle nostre conoscenze se non a colui, il quale sia  capace di sentire con voi ciò che vi costringe alle vostre asserzioni, e che conosca a fondo la forza, la potenza convincente  e la portata della vostra scienza. Colui che  non reca in sè la sicura consapevolezza di  poter pensare ponderatamente, scientifica  mente, come l’ astronomo o il botanico 0  lo zoologo più obbiettivo, costui in fatto di    vita spirituale, di conoscenze mistiche do9  e = e Re  vrebbe contentarsi di apprendere, e non  già volere insegnare. Ma non ci si frain‘tenda: noi parliamo soltanto di insegnanti, non di studiosi, Studioso di misticismo può: divenire chiunque, giacchè nell’ anima di    ogni persona si trovano le facoltà, i poteri  presaghi, che si schiudono al ‘Vero. Il Mistico dovrebbe parlare in modo comprensibile, anche pei più indotti; e a coloro, ai  quali, secondo il grado del loro intendimento,  egli non potrebbe dire un centesimo della  verità, ne dirà ‘solo un millesimo. Costoro  oggi riconoscono questa millesima parte ;  domani riconosceranno la centesima. Tutti  possono essere  sfudiosi,, ma  insegnante,,  non dovrebbe voler diventare nessuno, che  sia incapace di assoggettarsi alla disciplina  del più austero intelletto e della scienza' più  severa. Sono veri insegnanti di misticismo  soltanto coloro che sono stati precedentemente rigidi cultori della scienza, e che sanno  perciò che cosa viga nella scienza. Anche  il vero mistico ritiene visionario, inebriato,  chiunque non sia capace di deporre in qualunque momento il solenne paludamento del  mistico per indossare la modesta tunica del  fisico, del chimico, del botanico e dello  zoologo ,  sitori ;' con la massima modestia li assicura  ‘che intende il loro linguaggio e che non si  arrogherebbe il diritto di essere un mistico,  se si sapesse ignaro del loro linguaggio. Allora, però, egli può anche aggiungere di saf |pere, e di saperlo come si sanno i fatti della  Ù vita esteriore, che, qualora i suoi Opposi® \tori imparassero il suo linguaggio, cesserebbero di essere suoi oppositori. Egli sa que sto come chiunque, il quale abbia studiato  chimica, sa che, date certe condizioni, dall'ossigeno e dall' idrogeno si forma l' acqua.  Che Platone non volesse ammettere ai   gradi superiori della sapienza nessuno che   > mon conoscesse la geometria, non significa  già che egli facesse suoi alunni soltanto i li  Y T Così parla il vero mistico ai suoi oppoA    9  U  L  dotti in geometria, ma significa che quei    suoi alunni dovevano essersi educati alla severa, rigida, ed esatta investigazione, prima  che venissero loro schiusi gli arcani della  vita spirituale. Una tale esigenza ci appari  sce nella sua giusta luce se ‘riflettiamo che nelle regioni trascendentali viene meno l'elemento di fatto, a cui si saggia e corregge  ad ogni piè sospinto l' investigazione ordinaria del mondo. Se il botanico si forma  concetti erronei, subito i suoi sensi lo illu  n  conci    Da  (UR IZA minano circa il suo errore. Tra lui e il mistico corre il rapporto stesso che intercede  fra chi cammina su strada piana e chi ascende  una montagna: il primo può cadere a terra,  ma solo in casi eccezionali potrà causarsi  la morte ; all’ altro, invece, questo pericolo  sta sempre dinanzi, E certamente nessuno  che non abbia imparato a camminare può  ascendere una montagna. Poichè ; fatti spirituali non correggono i concetti allo stesso  modo che li correggono i fatti del mondo  esteriore, un pensare rigorosissimo e degno  della massima attendibilità è un ovvio presupposto per l'investigatore mistico.  Quando ci si dà tutti a pensieri siffatti,  si riconosce che cosa intendevano dire quegli antichi saggi, allorchè parlavano dei pericoli che minacciano chi voglia penetrare  negli arcani del mondo. Se alcuno si appressa a questi arcani con mente indisciplinata, essi determinano nella sua anima deplorevoli disordini. Divengono pericolosi come  una bomba di dinamite nelle mani di un  fanciullo. Perciò da ogni investigatore mistico si esige rigorosamente che la normalità del suo pensare, di tutta, anzi, la sua  vita psichica, abbia saggiato le proprie forze  SE E    attorno a problemi gravi e spinosi, prima  che egli si appressi ai compiti più elevati.  Valga ciò come accenno a quel che il mistico intenda dire, quando parla dei primi  gradi della Iniziazione nelle verità superiori. Moltissimi, i quali reputano di starsi SUI Mrfica| più alti gradi della cultura moderna, stimano  che sano pensare e misticismo siano due  termini incolta   sano che una illuminata educazione scientifica debba estirpare dall'individuo qualunque |  tendenza mistica. E costoro trovano in par- b cora di tali tendenze chi conosca gli impor  tantissimi risultati della moderna scienza na| turale. Se avesse ragione chi la pensa così,  | si dovrebbe allora, certo, concedere che la  Mistica non abbia nel nostro tempo se non  | piccola probabilità di trovare accesso alle  anime dei nostri contemporanei; giacchè nessuno, il quale abbia intendimento dei bisogni spirituali di questa nostra età, può dubitare che siano pienamente giustificati i  trionfi della scienza naturale già conseguiti.  e ancora da conseguire in avvenire. Biso- vi MER  Na bilmefite antitetici. Essi pen- K pate    ticolar modo incomprensibile che abbia an)  "fi  LI    Peli so  Naturalistici  itreprimibili do  u + Con una certa tr  ‘ zione cotesti insoddisfatti  <j O  Opère dei mistici, e ]} trovand ciò, I cui le  oro anime han Sete: ]ì gj affaccia loro ino  Copiosa vena IÒ, di cui il loro Cuore ha bj.  Sogno: una effettiva aura di vita Spirituale! Si  In contatto con e Sa costoro sentono |  Propria Crescere; ivi tr aNo ciò che ] uomo |  eve incessanternente ce  vino! D’    rcare: l’ali  Ta parte, Però, essi sj   Petere ;l ito   diate a monito:  Bj   ‘formarvi, mediante Ja cie  rale, un pen |  non vj chiappanuvole vai   monito, l’anima loro sj inaridisce,  econdita, . tò, in fondo all’ an ogni individuo Verità, e   i che grande maestra dell’uomo è la   ]    mande AIR    Chi potrebbe non dare, per intimo consenso,  ragione al Goethe, allorchè dice che dagli  errori e dalle disarmonie degli uomini egli  si ritira sempre con rinnovato contento, rivolgendosi alle eterne necessità della natura? E chi potrebbe leggere senza incondizionato consenso quelle parole, con le quali il grande poeta descrive i sentimenti che lo    assalirono in una solitaria meditazione sulle  ferree leggi, secondo le quali la natura forma    le montagne?  Seduto su di un’ alta e nuda vetta, e  spaziando con l'occhio su di una vasta sottostante regione, io posso dirmi:  qui tu  poggi immediatamente su di un suolo, che    ‘arriva fin giù ai più profondi strati della    terra. In_questo istante, in cui le eterne forze  di attrazione e di movimento della terra    quasi direttamente agiscono su di me, in cui più presso a me aliano e mi avvolgono    gli influssi del cielo, vengo come sospinto  a drizzare l'animo mio a studi più alti sulla  natura.... Così, dico fra me e me, mentre  da questa cima nuda volgo lo sguardo in  giù, così sentesi solitario chi voglia schiudere l'anima propria unicamente ai più primordiali, più antichi e più profondi sentimenti del vero. Sì, egli può dire a se stesso:   SONG). pe    Qui, sull'antichissimo ed eterno altare, immediatamente eretto sul punto più basso  della creazione, offro sacrifizio all'Essere di  tutti gli esseri. E' pur naturale che questa disposizione  d'animo, per cui si resta reverenti dinanzi  alla grande istruttrice Natura, si trasferisca  sulla scienza ‘che ne discorre.   Non deve esistere antinomia fra i sentimenti che pervadono l'anima, quando essa  si approssima alle  austere e profondissime  verità primordiali, circa la vita spirituale,  e quelli che v'irrompono, quando l'occhio si  posa sull'attività costruttrice della natura.   Manca forse intelletto al mistico per cotesta armonia della natura coi sentimenti più  sacri all'anima umana? Tutt'altro; giacchè  al di sopra dell’altare, sul quale il vero mistico offre i suoi sacrifizi, in ogni epoca,  in cui può spingersi l'indagine umana, stette  scritto a lettere di fuoco fiammante, come  legge. suprema: Natura è la grande guida  al divino, e la conscia ricerca umana delle  fonti del Vero deve seguire le orme della  sua recondita, volontà. Se i Mistici seguono questa loro norma  suprema, nessuna antitesi dovrebbe sussistere fra le vie loro e quelle su cui camminano gli investigatori della Natura. E tanto   meno tale antitesi dovrebbe determinarsi in   un'epoca, che tanto deve alla scienza naturale.   Per intendere bene quest’ ordine di de  occorre domandarci:  In che, dune ue  consistere l’ accordo fra la Scienza*fi Lie  e il Misticismo ? E in che potrebbe, invece,  aversi un'antitesi? Ebbene, l'accordo non può venir cercato |  se non nel fatto che le rappresentazioni che   ci facciamo intorno alla entità dell’ uomo  ‘non siano estranee a quelle che abbiamo in| torno agli altri esseri della natura; nel ravvisare, quindi, nel ’opera della natura e nella vita dell'uomo uno stesso e unico tipo di   ordine retto da leggi,. L  Un'antitesi, invece, si avrebbe, se si volesse vedere nell’uomo un essere di specie  "completamente diversa dalle creature naturali. Coloro che vogliono un' antitesi in tal  senso si sbigottirono fortemente quando, più  di 40 anni fa, il grande scienziato Huxley,  informandosi allo spirito stesso della scienza naturale moderna, sulla base della somipigliante struttura anatomica, concluse la stretta  parentela fra l’uomo e gli animali supeori con queste parole:  Possiamo prendere in esame un sistema di organi qualsiasi; l'esame comparativo di essi nella serie  delle scimie ci conduce sempre a questo me- È  desimo risultato: che le diversità anatomiche, per le quali l’uomo è distinto dal gorilla e dallo scimpanzè, non sono tanto grandi  quanto quelle che separano il gorilla dalle  altre scimie inferiori. Una. tale asserzione può, però, sbigottire  solamente quando la si riferisca in modo  errato all’ essezza dell'uomo. Certo ne può.  facilmente rampollare il pensiero:  Ma come  è vicino, dunque, l’uomo alle bestie |, Questa stretta affinità non suscita però nel mistico nessuna preoccupazione, giacchè per  lui ne balza subito anche l' altro pensiero: |  A quali fini superiori, però, possono ser\vire gli organi che ritrovansi nelle bestie,   allorchè sono trasformati in organi umani! Il mistico sa che l'occulta volontà della natura muta la percezione animale in percezione umana cofì lo sviluppare in altra forma  gli-organi animali. Egli segue le sicure orme  della natura e ne continua l'operato. Per lui  i l'opera della natura non è punto terminata  con ciò che essa gli ha donato. Egli diviene  un fido discepolo della natura per il fatto  appunto di portarne l’opera a maggiore al  1  toi    tezza. La natura lo ha portato fino al pensare e al sentire umano; egli, però, non  prende questo pensare e questo sentire come  qualcosa di fissato, d'immobile; ma li rende  capaci di attività superiori. Avviene per opera  della sua volontà ciò, che nell'ambiente naturale esteriore avviene indipendentemente  da essa. Gli occhi, come sono ora in lui,  attestano che gli organi visivi sono capaci  di ben altro ufficio di quello che compiono ® ©  nelle scimie. Così l’ occhio può venir trastormato. Le facoltà psichiche del mistico  evoluto sono, rispetto a quelle dell’ uomo  non evoluto, nello stesso rapporto in cui  sono gli occhi umani rispetto a quelli delle  scimie. Si capisce che chi non è mistico.in- pelende  tende l’anima del_ mistico nella stessa scarsa 64 liel  misura, in cui l’animale può intendere il, mote  pensare dell’uomo. E come alla creatura non  pensante si schiuderebbe tutto un nuovo  mondo, se potesse svolgere in sè la facoltà   del pensare, così il mistico, dopo lo sviluppo delle sue facoltà superiori acquista la  visione di un altro mondo. In questo  altro  mondo,, egli è  iniziato,. Chi_non di- Re  Yiene Mistico rinnega la natura. Ègli non È   a progredire ciò che essa ha prodotto senza   di lui con la propria volontà occulta. Per  di mati Vella lastare Mor pTa ene dPR ULOPY CELL. PI | Peg) AM e? lug las } "El n fe fest NL  Los ; mid : ni gd ed deli è y  villa mM ni collo i fiat 1a CA  di (ANI it pece  iò egli si pone in contrasto con la natura,    giacchè questa trasmuta continuamente le   proprie forme: dal vecchio essa crea eterna mente il nuovo. Ora, chi, conformemente   %@. alla moderna scienza naturale, crede a que sta trasmutazione, crede a questa evoluzione   n) e, ciò nonostante, non vuole trasmutare se   esso, costui riconosce, sì, la natura, ma   A; nella sua propria vita si pone in contradi &l-zione con essa. Non si deve soltanto ricenoscere l'evoluzione, si seno ivato Non si   limitino, dunque, le facoltà della nostra vita   ;, col tener conto esclusivamente della nostra   ‘ parentela con gli altri esseri. A chi per edu cazione mistica diviene un fido alunno della   natura, si schiude il senso per la superiore  evoluzione.   A proposito di questi cenni sulla Mistica   e sulla /riziazione molti diranno: Ma che   ci giova questo discorrere di facoltà a noi   sconosciute! Dateci queste facoltà, e vi cre deremo !,. Nessuno, però, può dare a un   altro cosa che questi rifiuti. E il più delle   volte ciò che incontrano i nostri mistici è   . un brusco rifiuto. Al presente essi non pos sono fare. molto .di più che raccontare le   loro cognizioni mistiche a quelli che vo gliono prestare ascolto. Ciò, naturalmente n nt x  IE RAIPAT cn    potima tl  C j Pa ENTI OT  le ero Art 1 er? che,  I,, a . = ì \ wr  / a) i e. e 7  pederntdt    hern ci tCAns4- 1 È   à a tutta prima un volersela cavare col  RE ce raccontare che cosa c'è in America  a chi ci dicesse:  Ajutatemi ad andarci!,,.  Ma pare, non è realmente una scappatoja,  perchè i processi dello spirito sono diversi  da. quelli fisici Molto tempo prima che  l'uomo sia in grado di fissare la verità im  piena luce, egli ha la possibilità di intravederla, e di accoglierla nel suo sentimento.  E questo sentimento stesso è una forza, che  lo può condurre più avanti. E' questa una  fase per cui è necessario passare Chi segue  con ricettivo abbandono la narrazione del  Mistico, già calca il sentiero che mena alle    verità superiori. Solo l' Iniziatof'comprende  completamente l’Iniziato: ma angie per  vero rende anche il non iniZiato ricettivo  alle parole del Mistico. E questa sua ricettività è strumento con. cui egli lavora a schiudere i propri organi mistici. Ciò che prima-,  mente occorre è che si abbia questo senso |  della possibilità di conoscenze superiori: al- |  lorà not si passa più incurantemente accanto alle persone che di queste conoscenze  superiori tengono parola.   E' stato già detto che anche al presente  ci sono persone che si adoperano a rinnovare la vita mistica.  Up irene Kona diteou@ crt u  pe ud)    fasi cl fa ine piftae 1 Om? eudere } fnmmale    tri rautwews i E    Qui vi voglio intrattenere di due esempi  di tal genere, cioè del libro  // Cristianesimo esoterico, (o i Misteri minori),,, di  Annie Besant, (1), e su  / grandi Iniziati    el geniale pensatore e poeta francese Edoardo  Schuré (2). Ambedue queste opere gettano  luce sulla natura della così detta Iniziazione.  Annie Besant, mostra come il Cristianesimo  debba venire compreso quale risultato di  codesta Iniziazione. Edoardo Schuré tratteggia le figure dei massimi duci spirituali della  umanità, fondandosi sulla convinzione che  le grandi confessioni religiose e le grandi  filosofie cosmologiche da quei duci dispen  sate all'umanità, celano verità eferne, che si  possono cercare e re soltanto in  quelle dottrine filosofiche e religiose. Ambedue queste opere trovano la propria  giustificazione unicamente nel campo del Misticismo. Esse traggono la loro origine da  quella corrente spirituale dei tempi nostri,  che è destinata ad elevare l'umanità da un  incivilimento puramente esteriore all'altezza  Traduzione Italiana di D. e O. Calvari, Roma. Traduzione Italiana edita da G. Laterza, Bari, suh Tor ella Vea dii Conti |  RA    fOdeth4, nu pori? IU) di vedute spirituali. Verrà tempo, in cui il  pensiero scientifico,, non potrà più contrapporsi _ostilmente a questa corrente. La scienza naturale riconoscerà allora che non si comprendé lo spirito col.negarlo, e che  | non si contr lle leogi naturali col_cerre Treo © x iii dpi  uelle spirituali. Non si designeranno  iù i Mistici come oscurantisti, giacchè si  saprà che soltanto pei loro avversari il campo  di cui essi ragionano è oscuro.  E non s'irriderà più l' Iniziazione, come i  non si irride l'esigenza, che chi vuole inda- pla 2    gare la vita dei microrganismi deve prima 4, tyoex94    imparare a userei. microscopio. | "I vv trvalta  L'indagine implica la necessità di adem- ' 3    piere a certe condizioni preliminari. Queste  P** ic;  condizioni per l'aspirante mistico non consistono, naturalmente, in pratiche di tecni- |  cismo esteriore, bensì na osservanza di  un determinato orientamento della..vita si- È  ‘ chica. Grazie a tale A si dischiude Tide  il senso per certe verità, le quali non contemplano ciò che è FARA, ma ciò, di, A  cui, secondo le parole de Goethe  ib.tran-\  itori v Bi n_simbolo . In_s sid | oe  alla esistenza umana giacciono capacità,su- |  CRA i GIONO CA  \periori, come il frutto giace.in grembo al  fiore. E perciò nessuna creatura dovrebbe  TI YOMOMono wu € 0kL Lia  UT E E I ipa  ln Leno el muyert Sace  caprata farvi vtuel' fa P even   ord  LISI    (NE presumere di dire che  nel suo mondo vi  i è qualche cosa di esauriente, di compiuto .  Il Se un uonio ha tanta presunzione, assomii glia al verme che ritiene_come orizzonte  i | della esistenza il mondo dei suoi sensi. Li Giardino di maturità Chiamasi quel  IR luogo, dove divengono palesi gli arcani del  mondo. Per accedere a tal luogo bisogna  tI che l’individuo stesso. tenda la sua volontà  AU x al raggiungimento della propria maturità.  Ù" qultan Vé Bisogna che tu rompa e getti via da te  È, È quse: Vle 1 gusci del tuo essere quotidiano, e svegli  |   see $ ÎN te la vita intima nascosta, se vuoi enn trare per la Porta stretta  Nel  Giardino  È di maturità,.  TAR Come molti uomini insigni, anche il  p Goethe espresse numerose verità dalla profonda vena del suo intuito, enunciandole  non già in diffusi e circostanziati discorsi,  bensì in brevi e spesso enigmatici accenni.  sr Uno di tali accenni è in questo periodo:  dg  Nelle opere dell’ uomo, come in quelle  n e della Natura, sono le intenzioni, che meri / tano specialmente la nostra attenzione.   E' questo un aforisma che verrà compreso in tutta Ia sua profondità quando lo  Î si applichi ai più importanti fenomeni della  vita spirituale umana. Giacchè, come possiamo acquistarci senso e comprensione per  le azioni di un singolo individuo soltanto  quando ne veniamo a conoscere le_intenzioni, così ci accade anche per la storia dell'intiero genere umano. Ma che abisso intercede fra l' osservazione degli atti che si  svolgono palesemente alla luce del giorno,  e il riconoscimento delle intenzioni che giacciono nelle regioni occulte dell'anima! Si  può essere addirittura rudimentali quanto a  intuito e a intendimento rispetto ‘a un altro  uomo, ed essere tuttavia capaci di osser varne le azioni; ma bisognerà avere almeno  un po' delle sue qualità di spirito e della sua  levatura psichica, se si vuole penetrarne le    intenzioni. Senza di ciò la sorgente del suo ! agire rimane un arcano, un enigma, alla cui  soluzione ci manca la chiave, Non accade  diversamente con i grandi fatti della storia  spirituale dell'umanità. Questi fatti stessi son  lì aperti davanti agli occhi dello storico; ma  le intenzioni giacciono in profondità molto  recondite. In queste profondità deve penefrare colui, che vuol procurarsi la chiave per  la comprensione. Orbene, l'iptenzione di un’azione giacerà tanto più profondamente recondita, quanto più questa azione avrà importanza e quanto più ampia sarà la sua portata. L'intenzione di un atto della vita  quotidiana non è difficile a penetratsi. Ma  non può essere così, naturalmente, di azioni,  la cui portata abbraccia una serie di secoli.  Chi a ciò pon mente giunge a presentire  che cosa siano i Misteri: giacchè in cotesti  Misteri sono riposte le irzfezzioni dei grandi  fatti dell’ umana evoluzione, involgenti il  mondo intero nella loro portata. E coloro  che conoscono queste intenzioni e posseno  con ciò conferire alle proprie azioni stesse  \ quel peso che le rende realmente efficaci per  lunga serie di secoli, sono gli /niziati.  Solo chi nella storia del mondo scorge  unicamente una mèra successione di casi  fortuiti, può negare l'esistenza dei Misteri e  degli Iniziati. In tal caso non c'è che da  attendere che un uomo siffatto si ponga un  bel giorno a studiare con occhio amorevole  i fatti della storia. Allora un po’ per volta  albeggerà al suo sguardo un significato, un  nesso, ed egli finirà per non più considerare Tortuiti quei fatti storici, come non considera automa un individuo che veda muoversi ed agire. Giungerà così nella sua investigazione là, donde gli Iniziati dirigono  il progresso umano, secondo le conoscenze  the sono avvolte nell'ombra dei Misteri. AA vila AATZzat fer, i 40 dad    x x £ > it  hu v da ORI ig tivfeco Vellar11W; 7 Di cotesti Misteri parlano i testi religiosi  di tutti i tempi. E ad essi vengono condotti  coloro, che non si fermano alla vita estrinseca dei fondatori delle varie religioni, nè  alle vicende storiche del propagamento delle  loro dottrine; ma che, invece, cercano di  elevarsi alle intenzioni di quei fondatori di |  religioni. Non dovrebbe eccitare stupore il  fatto che queste intenzioni rimangano avvolte in arcana oscurità e vengano comunicate soltanto a degli eletti entro le scuole  di sapienza, che sono appunto i Misteri;  giacchè si fa opera saggia solo quando a  un individuo si comunica ciò che egli può  capire, o, con altre parole, quando gli si  comunica qualcosa, soltanto quando egli si  sia messo in condizione di capirla. Per compiere azioni che abbiano peso e valore occorre possedere un’alta sapienza, e per appropriarsi un'alta sapienza bisogna passare  per un periodo lungo e arduo di preparazione. Così avviene nei Misteri.   L’ evoluzione spirituale dell'umanità procede innanzi per opera delle varie religioni  e cosmologie. Chi co-opera a questa evoluzione mette in movimento le forze spirituali  degli uomini. Bisogna che egli conosca le  leggi da cui dipende questo movimento,  DE: pri    come deve conoscere le leggi della chimica   chi vuol mescolare le sostanze con effettuale  risultato. Néi Misteri vengono insegnate le .  leggi supreme della vita spirituale; viene insegnata la chimica dell'anima. E bisogna   cercare di penetrare nella natura di queste   leggi, se si vogliono sorprendere, o anche  solo presentire, i moventi che stanno alla i  A base delle azioni dei grandi Istruttori della   umanità. All'unisono con tutti coloro che cercano   di schiudersi per tale visione gli occhi spi rituali, Annie Besant parla nel suo libro   Cristianesimo esoterico, (0 I Misteri mino ré) , di un  lato occulto delle religioni, A lea Nell’analisi dei mistici arcani del Cristiane 1% simo, del così detto suo contenuto esoterico, ne. essa luminosamente si addentra e trascina.   d il lettore nell'intimo della questione relativa  sperato! scopo delle religioni. ‘a questo pro- |  Posito l'autrice così scrive. Esse ven gono date al mondo da uomini più saggi    delle masse etniche, alle quali le religioni  Stesse sono dispensate e hanno appunto lo   Vedi pure Il Cristianesimo come fattore mistico  di Rudolf Steiner. (Deposito presso l'Ed. Bem- 7  porad, Firenze). Lolo scrullo du fevomeri sia Pe i  Dul th h Ha DI ire  eSleeml J  > Uibftsore  Sé Lap de  scopo di accelerare l'evoluzione dell'umanità.    Per conseguire ciò effettivamente esse deb- di  bono giungere fino agli individui e avere influenza su loro. Orbene, gli uomini non sono î  tutti allo stesso livello di evoluzione, anzi i  l'evoluzione potrebbe venire rappresentata  come una scala ascendente di gradi, su ognuno asLelo api    dei quali si trovano uomini. I massimamente  evoluti stanno di un gran tratto più su dei  meno evoluti, sia in intelligenza che in ca- A  rattere; ad ogni grado varia la capacità di 4  .. comprendere egualmente che quella di agire. }  E' perciò vano dare a tutti ii medesimo in- FE segnamento religioso; quel che gioverebbe  all'uomo d'intelletto resterebbe inintelligibil  all'uomo ottuso, laddove ciò che leverebbe e  in estasi il santo lascerebbe del tutto indif- Ì  ferente il delinquente...2 LE  La religione deve essere graduata con l’e- =  voluzione, altrimenti essa manca al suc scopo SI  UGANB: Es. Chr.): ;  Il modo, dunque, in cui il maestro di religione parla a uomini di grado evolutivo i . diverso, dipende dai bisogni dello spirito e (1  . del cuore di coloro, ai quali egli vuol giun- N  | gere. Per riuscirvi bisogna che egli stesso  | porti nell'anima propria il nocciolo della sa- "i  | pienza, per mezzo della quale egli ha da  START. agire; e il modo come egli porta in sè questo nocciolo deve essere tale da renderlo  capace di parlare ad ognuno secondo la sua  comprensione. Perciò chi studia i discorsi  degli Istruttori religiosi dal loro lato esteriore, conosce soltanto un lato e precisamente quello più estrinseco della loro sapienza. Acutamente accenna a questi fatti  Edoardo Schuré nel suo libro sui  Grandi  Iniziati,. Ivi egli descrive i grandi Maestri  di sapienza: Rama, Krishna, Ermete, Mosè,  Orfeo, Pitagora, Platone, Gesù, da quello  investigatore intuitivo, da quel nobile artista  dei pensiero, da quell'anima satura di profondo sentimento religioso ch’ egli è. Così  nell'introduzione al libro egli espone il suo.  modo di vedere : Tutte le grandi religioni hanno una storia esteriore ed una interiore; l'una visibile,  l'altra nascosta. Per istoria esteriore sono da  intendersi i dogmi et i miti pubblicamente  © insegnati nei fémpli e nelle scuole, riconosciuti nei culti e nelle superstizioni popolari.  Per istoria interiore è da intendersi la scienza  profonda, la dottrina segreta, l’occulto agire  dei grandi Iniziati, profeti o riformatori che  hanno istituite, sorrette e propagate le religioni predette. La prima la storia ufficiale, quella che si legge dovunque, si svolge alla  vista di tutti, ma non per questo è meno  oscura, complicata, contradittoria. La se‘conda, che io chiamo la tradizione esote- |,  rica, o dottrina dei misteri, è difficilissima €  Î a districare dai veli che l’avvolgono. Essa  infatti si svolge nei penetrali dei templi, nelle  segrete confraternite, e i suoi drammi più  appassionanti hanno intieramente per iscena  l’anima dei grandi profeti, che non hanno  mai nè fissato in pergamena, nè confidato  ‘a nessun discepolo le proprie crisi più acute,  o le proprie estasi più paradisiache. Questa  seconda storia vuole essere indovinata, ma  non appena si è scorta, apparisce luminosa,  organica, sempre in armonia con se stessa.  Potrebbe essere anche chiamata la storia  della religione eterna e universale. In essa  le cose mostrano il loro rovescio e la coscienza umana il suo diritto, mentre la storia non ne offre che il faticoso rovescio. In SD  questa seconda storia cogliamo il punto ge-N  netico della religione e della filosofia, che si ricongiungono all’ altro capo dell' ellisse 9/8,  per mezzo della Scienza integrale. Cotesto \T}  unto è costituito dalle verità trascendenti. N  vi troviamo la causa, l'origine e il fine del tene  prodigioso lavoro dei secoli, l'azione della  RES 1; RARO    provvidenza mediante i suoi agenti terrestri.,,   Questi  messaggeri terreni, lavorano  nell'officina Spiritualistica, nel laboratorio spiritualistico della umanità. Ciò che li abilita  a questo lavoro sono le leggi imperiture della  chimica spirituale ed i processi chimici spirituali che esse operano: vale a dire i grandi  prodotti intellettuali e morali della storia del  mondo. Ma ciò che fluisce dalle loro labbra  è soltanto simbolo, immagine della sapienza  superiore dimorante nella profondità delle  loro anime, immagini e simboli proporzionati all'intendimento di coloro, che ad essi  porgono orecchio. Soltanto a coloro che  adempiono alle condizioni, che garantiscono  la comprensione e il  reffo uso  della sapienza superiore, questa può venire dischiusa.  E allora. nella Iniziazione mistica sentono  l'immediato contatto coi primordiali motivi  spirituali, con le potenze genitrici della esistenza. Ascoltisi ciò che dice un uomo tutto compenetrato di siffatti sentimenti: Clemente  Alessandrino, lo scrittore cristiano del 2° e  3° secolo della nostra èra, il quale prima  del suo battesimo fu un  Misto,, ossia  A EE  un alunno dei Misteri, esalta questi con le  seguenti parole : O veramente santi Misteri! O purissima luce! Una face viene portata dinnanzi  a me allorquando rimiro il Cielo e Dio; io  sono santificato, allorchè ricevo la consacrazione. Gli arcani però me li rivela lo spirito primordiale e suggella in me l’Iniziato  con l'illuminazione; iniziato nella Fede mi  presenta al Tutt'Uno, affinchè io vega ser=  bato in grembo all’eternità. Tali sono le cerimonie iniziatiche dei miei Misteri! Se tu  vuoi, fatti iniziare tu pure, e con le forze  spirituali dell'esistenza tu chiuderai la santa  carola attorno all’ increato, all'imperituro, al  tutt'uno spirito dei mondi, e la favella che  a te dal Cosmo viene inspirata intonerà  gl'inni di lode a questo Tutt'Uno,.. Si comprende la descrizione che fa Annie  Besant dei Misteri, se si riflette che gli Iniziati devono parlare di sè come lo fa Clemente Alessandrino con le parole suriferite:  I Misteri d'Egitto, continua l’autrice, erano  il vanto di quella vetusta contrada e i più  nobili figli della Grecia, come ad esempio  | Platone, andavano a Sais e a Tebe per farsi  | iniziare nei Misteri dai maestri della sapienza  | iniziatica egizia. I Misteri Mithriaci dei Per. IDO. JIA    siani, i Misteri Orfici e quelli Bacchici, e  i posteriori pseudomisteri di Eleusi in Grecia, i Misteri di Samotracia, della Scizia,  della Caldea, sono universalmente noti, almeno di nome, come le parole d'uso familiare. Persino nella forma estremamente attenuata dei Misteri eleusini il loro valore  viene altamente magnificato dai più eminenti  uomini della Grecia, come Pindaro, Sofocle, Isocrate, Platone e Plutarco. E nei  Misteri non si mira soltanto all’ ampliamento  del sapere, alla sola spiegazione di cose  ignorate, ma alla elevazione di tutta la natura umana, di modo ch’ essa si compenetri di quella sacra disposizione iniziatica,  che pone in grado di comprendere le fonti  e principi del Cosmo. Il mistico non solo  conosce le cose superiori, ina oltre a ciò la  sua propria natura si fonde con esse. Egli  deve quindi essere preparato al fine di potere accogliere come si deve le fonti di ogni  vita che in lui affluiscono. Appunto nel nostro tempo, in cui si vuol riconoscere come  attendibile soltanto ciò che è scientifico in  senso materiale, diviene difficile il credere  che, circa le cose supreme, quello, che imV. Esot. Chr., a    porta veramente è una disposizione d° animo. Per tal modo si fa della cognizione  un fatto intimo dell'anima umana: e tale  essa è per il Mistico. Si dica a qualcuno  la soluzione di tutti gli enigmi del mondo:  Il Mistico troverà sempre che una siffatta  esposizione è vuota risonanza, che sfiora l'orecchio e svanisce, se |’ anima non. è stata  prima preparata ed innalzata ad un livello  superiore; egli troverà che il sentimento non  ne resta affatto toccato, se non è staîc disposto a sentire l'accoglimenio della sapienza  come un  Sacramento,. Solo chi intende  ciò conosce atmosfera spirituale dal’ alto  della quale discendono certe espressioni del  Mistico, come quelle di Filone:  Sovente,  allorchè mi_riscuoto dal sopore della corpo-4%  reità e rientro in me, distogliendomi dal  mondo esteriore, e penetro dentro me stesso, .  scorgo una mirabile bellezza ; allora io sono  certo di essermi internato nella parte migliore di me; metto in attività la vita vera,  sono unito col divino e in lui fondato, e  conseguo la forza di trasferirmi nel mondo  trascendentale. Quando, poi, da codesta contemplazione dell’ Altissimo, e dopo questo  riposo nell’ elemento spirituale del mondo,  discendo nuovamente alla consueta formazione di pensieri, allora mi domando come  potè avvenire che l’ anima mia si impigliasse  nel vivere quotidiano, posto che la sua patria è pur quella dove testè mi sono soffermato ! Chi sa quale grado di purificazione del sentimento e della funzione  intellettiva sia necessario per arrivare a sentire così conosce anche le ragioni per cui  la sapienza mistica, la sapienza consacrata  non può essere oggetto della vita consueta  quotidiana, nè dell’ insegnamento ordinario,  nè dei documenti della storia esteriore; e  perchè essa stia chiusa nell'anima dei divini messaggeri e debba costituire, come  dice Schurè, il riservato oggetto della  iniziazione in fratellanze appartate. Ma, quantunque questa immediata comprensione della  verità rimanga un fatto d’ insegnamento del  tutto intimo, pure tutti gli uomini partecipano dei benefici della sapienza. Come i  benefici delle ferrovie elettriche ricadono su  tutta la popolazione, pur restando monopolio    degli elettrotecnici la conoscenza delle. leggi  Pe così avviene, quanto ai frutti,  ella efficacia e della sapienza dei Misteri,  E come il beneficio delle cognizioni tecni  che si traduce nelle istituzioni esteriori della  civiltà. così quello della sapienza dei Mistici si esprime e distribuisce nel contenuto  spirituale della vita dell'umanità: cioè nei  suoi miti, nei concetti informatori delle sue  credenze e delle sue religioni, nel suo mondo  di leggende e di fiabe, non solo, ma altresì  nelle sue idee di morale e di diritto, e da  ultimo anche nella sua attività artistica, nelle  sue scienze e nelle sue filosofie. Il Mistico  mostra che la sapienza più profonda della  umanità è la radice di tutti questi vari contenuti della vita, rendendosi ben conto che  essi tutti possono trovare la loro vera spiegazione soltanto in quella sapienza. Clemente Alessandrino parla del fatto che un uomo può avere la fede seriza possedere eru Izione,, ma al tempo stesso proclama essere impossibile che un uomo senza  sapienza comprenda gli oggetti che vengono  spiegati nella fede, (v. Besant, Esot. christ.).   Ogni Mistico conosce questo vero rapporto fra Fede re e sa che tra i  due non può esistere contraddizione j ma  anche alla Mistica egli può fare riconoscere  valore unicamente sulla base della vera scienza. Anche di ciò parla Clemente. Alcuni che si ritengono favoriti da natura, non desiderano di occuparsi nè di filosofia, nè di logica; anzi essi non desiderano di studiare e imparare la scienza naturale; essi richiedono nuda fede soltanto. Io, pertanto, chiamo dotto veramente colui  che tutto mette a contributo per la verità,  così che traendo dalla geometria e dalla musica, dalla grammatica o dalla filosofia stessa,  ciò che è utile, difende la fede da ogni assalto. Quanto è necessario per chi desidera partecipare dei poteri di Dio il trattare filosoficamente soggetti intellettuali! Lo gnostico (Mistico) si vale del rami  dello scibile vene di esercizi ausiliari vreparativi. (A. B. Es. Chr.). Chi ha colto questo profondo accordo della  Fede col Sapere si trova costretto a rilevare sempre di nuovo una caratteristica peculiarità della nostra civiltà moderna, la quale  ha invece scavato un abisso tra Fede e  Scienza.   E. Schurè accenna a questo abisso fin dai  periodi introduttivi del suo libro. Il peggior male del nostro tempo è il  mostrarsi la Scienza e la Religione come  due forze nemiche e irreducibili. Infermità  intellettuale questa tanto più perniciosa in  quanto che deriva dall'alto e furtivamente s' infiltra, ma sicuramente, in tutte le membra, come un veleno sottile che si respiri  nell’ aria. Orbene ogni infermità dell’ iritelligenza diviene a lungo andare infermità  dell'anima e in conseguenza un male sociale.    Fintanto che il Cristianesimo non fece  che affermare ingenuamente la fede cristiana in  seno a una Europa ancor semibarbara, come  era nel medio evo, esso fu la più grande  delle forze morali, e ha plasmato l’anima  dell'uomo moderno. Fin tanto che la scienza  sperimentale, apertamente ricostituitasi nel  secolo 16°, non fece che rivendicare i legittimi diritti della ragione e l’ illimitata sua  libertà, essa fu la più grande tra le forze  intellettuali; essa ha cambiato faccia al mondo, liberato l’uomo da secolari catene, e  fornito la mente umana di fondamenta incrollabili. Non meno energicamente Annie Besant  accenna a questa peculiarità della civiltà  spirituale moderna. Per ognuno che studi l’ultimo immediato quarantennio del secolo passato è chiaro  che persone meditative e morali sono in gran  numero esulate dalle chiesé perchè gl’ insegnamenti che vi ricevevano urtavano, offendevano la loro intelligenza e il loro senso  morale.   E' vano pretendere che l’agnosticismo così  ue. largamente diffuso in questi tempi abbia ra: dice solo nella mancanza di moralità o in  È; una deliberata involuzione della mente. ChiunA que attentamente studi gli esposti fenomeni,  ammetterà che uomini di forte intelletto sono  stati allontanati dal seno del Cristianesimo  per via della rude goffaggine delle idee religiose loro presentate, delle contradizioni  negli insegnamenti delle varie autorità, nelle  vedute circa Dio, l'uomo e l’universo, idee  n che nessun intelletto colto e metodicamente  ; disciplinato potrebbe di leggeri accettare .  a (A. B. Cris, esot.).   Alla domanda:  Che cosa è da farsi in  questa direzione ?, Annie Besant risponde  inspirandosi alla veduta che anche la radice  del Cristianesimo giace in una sapienza occulta e che la Fede deve, quindi, per susI sistere risospingersi a questa radice. Se il Cristianesimo vuol continuare a vi  i co vere, deve ricuperare il sapere che ha e riad | vere la propria Mise € l propri insegnasd cculti; deve di nuovo erigersi come. un istruttore autorevole di verità spirituali,  ma rivestito della sola autorità meritevole. Me, ù   Mes di essere alquanto apprezzata, l' autorità,  cicè, della conoscenza. Se questi insegnamenti ‘verranno recuperati, la loro influenza  sarà subito constatabile nelle più ampie  e più profonde vedute che si avranno circa  la verità, dogmi che ora sembrano meri gusci ed impacci, saranno riconosciuti subito  quali parziali presentimenti di realtà fondamentali. In primo luogo il Cristianesimo  esoterico riapparirà nel /uogo santo, nel Tempio, così che tutti i capaci di riceverlo possano seguirne le linee di pensiero palese, e  secondariamente il Cristianesimo occulto ridiscenderà nell'adito celato dietro la Cortina  che custodisce il  Sancta Sanctorum, in  cui può entrare l’ iniziato soltanto. (A. B.  Es. Chris.). Mediante il senso della vista l'uomo percepisce la natura con cento e cento sfumature di luce è di colore. Sono i raggi della  luce solare che, riverberati dagli oggetti, ne  determinano gli aspetti cromatici variamente  sfumati. Sebbene per tal fatto la percezione  della luce solare sia una funzione abituale  dell'occhio, tuttavia questo non può impunemente fissare la fonte stessa de a luce:  Sole; esso viene accecato dal contatto immediato, diretto, dei raggi solari. Ciò che 0° néi suoi effetti è adeguato al compito quotidiano dell'occhio, dà occasione a una sofferenza, quando, come causa in sè, colpisce  l'organo sensorio. Chi sa applicare nel giusto modo questa immagine alla vita spirituale dell'uomo, comprende perchè  coloro  che sanno  parlano di  pericoli della  Iniziazione ai Misteri. Cotesti pericoli esistono innegabilmente; se non che, chi ne  parla non va preso alla lettera, interpretando  la parola  pericoli,, nel senso usuale. La  intelligenza e la ragione umana sono tanto  poco assuefatte a riconoscere le fonti del  vero nel complesso totale del mondo, quanto  poco è capace l'occhio di fissare direttamente  il Sole. Come l'occhio sente a sè rispondenti gli effetti delia luce, così intelletto. e  ragione sentono a sè rispondenti gli effetti  della sapienza eterna nei fenomeni della natura e nel decorso della storia degli uomini.  Ma come l'occhio viene meno. di.fronte.alla    sorgente stessa della luce, così l'intelligenza umana vigne meno dinanzi alle fonti primordiali della sapienza. Questo umano intendimento nel subito arretra, rinuncia. Or bisogna assimilare nel debito modo ciò che  allora succede nell’ uomo, al fatto dell’ abbacinamento chel’ occhio.subisce dal sole. veg 3 fer: Poichè l'uomo è assuefatto a scorgere nella  Natura e nell'attività dello spirito soltanto  il riflesso della Verità, e non questa immediatamente, egli viene meno di fronte alla  verità stessa, quando questa gli si presenta.  Avvezzo a cogliere soltanto la realtà grossolana, che quotidianamente I prnia, l'uomo  sente le manifestazioni della sapienza superiore come illusioni, come costruzioni di una  fantasiosità irreale: esse non gli possono dire  nulla, sono per lui come forme aeree che  svaniscono quando egli le vuole afferrare,  così come è solito afferrare gli oggetti della  realtà consueta. Questa lo avvince a sè con  mille lacci; ciò che essa gli può promettere  egli lo conosce, lo ha imparato ad apprezzare in mille modi. Chi qui vede giustamente, comprende che cosa intendano dire  le leggende religiose quando parlano del  Tentatore, che promette tutte le magnificenze di guesto mondo a coloro, i quali vogliono intraprendere il sentiero della illuminazione superiore. Se noh è risvegliata in.  loro la forza di resistere a cotesto Tentatore, essi cadono inesorabilmente in sua balia. Con ciò si accenna a quel che s'intende  per  pericoli della soglia,, che occorre  varcare, se si vuole calcare il  sentiero,  della sapienza. Niuno può giungere a questo sentiero se non intende valersi dell’ occhio spirituale, dell'intelletto e della ragione,  diversamente da come vengono adoperati)  nella vita quotidiana. L'uomo deve porre il  piede sulla soglia come un trasmutato, come  "°° uno, il cni°occhio spirituale è stato rafforzato; ed è singolarmente difficile nell’ età  nostra attuale rinvigorire così.quest'occhio, x giacchè appunto dalla nostra scienza esso  viene rivolto o a.ciò che è concreto  li tangibile. Per compiere le sue conquiste  nel campo delle forze naturali esteriori que-, sta scienza dovè rendere quest'occhio cieco  alle potenze spirituali dell’esistenza. Non si  fraintenda tutto ciò, prendendolo per un  rimprovero! Chi vuol comprendere il mec-\l  canismo di un orologio non ha certo biso i}  gno di risalire con l'indagine fino ai pensieri dell’ inventore dell’ orologio ; egli può   mM bene attenersi a quanto ha imparato dalla   [RUN fisica; può comprendere l’ orologio dal suo   stesso meccanismo. a nessuno può com preridere come le forze e le cose che coo perano nell’ orologio siano state originaria mente combinate, se non va in traccia dello   | spirito che le ha combinate e non indaga le ragioni per cui esse sono state così comf frze   Tmnon © SEXI ma ) fe   | fa meda; meo N el Mm NK ke  bt re e  € o’ uc gi Riti fet rextore9 Lo fel #0    A 0 è MT, ui gno PEA Vs. b- parte li (a  È Logan Foe. SP RTTO el ppartnzs ti dae  binate. Il naturalista può comprendere giustamente la Natura solo se in lei stessa ri- le  cerca anzitutto le forze con cui essa opera. Se afferma che queste si sono combinate | ® cudl  da sè, assomiglia a colui che non si perita Y0Me flat  di pensare che un orologio si sia congegnato da sè. S izione-è non il A | lo spirito Ge Le cose, bensì il trasferirlo  alla cieca me/le cose stesse. Superstizioso è,  non colui che cerca l'inventore dell’ orolo  gio, ma colui che nell’orologio stesso immagina ‘uno spirito, il quale manda avanti Π le lancette. Soltanto quando in questo modo ||  sî fraintendono coloro che vanno in traccia  dello spirito dell'esistenza cosmica, si può  metterli in un fascio con quelli che a buon  diritto sono accusati di superstizione e che  cen altrettanto buon diritto vengono oggi  riguardati come turbapace, perchè compromettono i  benefizi, che la nostra coltura  scientifica ha prodotto. (Chi non ha l'occhio velato da. preconcetti saprà a chi si vuol  alludere nelle due categorie citate).  Chi-pone il piede sulla  Sogliz  che d  accesso alla visione superiore, se vuole riu i scire ad avanzare, deve essere provvisto della 2 sN  forza che mena ad avvertire il Reale là dov@mnn  l'intelletto ordinario e la ragione solita scor- x i  T] x  > l'intolegione I Lie ii pai de Pe Pe Pietà sa desti Ann ie siii nc e a | na ta A in x gono soltanto fantasticaggine ed illusione. Giacchè il perenne e l'eterno sono appunto,  là, dgye all'occhio rivolto soltanto al transi*  torio e temporaneo altro non appare che  fantasticaggine ed illusione. Nessun utile,  dunque, risentirà un uomo che venga condotto dinnanzi alla sorgente della eterna sapienza colgalo corredo.della.sua intelligenza  rdinaria. Perciò nei Misteri, il primo grado  d Iniziazione non consiste nell'impartire un  nuovo sapere intellettuale, ma nella completa trasmutazione delle forze conoscitive  dell’uomo. Con fine intuito pertanto, Edoardo  Scuré descrive nei suoi  Grandi Iniziati,  il cammino di chi tende al  Sapere, mediante i Misteri:    ALE  L’ iniziazione era a leaneno  r, le di futfo l'essere umano ad ascenlere le vette vertiginose dello spirito, dall'alto delle quali si può dominare la vita. E più innanzi egli dice: Per giungere a questa padronanza l’uomo  ha bisogno di una totale rifusione del proprio essere fisico, morale e intellettuale. Orbene, questa rifusione non è possibile se  non mediante |’ esercizio simultaneo della  volontà, dell’intuito e del raziocinio. Mercè  il loro completo accordo l’ uomo può svi  }  ;)  I Fapiecinia TX. iNalonta Ponso ;  I he sli    luppare le proprie facoltà fino a limiti indefinibili. L’ anima ha sensi assopiti ; l' iniziazione li risveglia. Mercè uno studio profondo e un'applicazione costante l’uomo può mettersi in rapporto cosciente con le forze  occulte dell'universo. Con uno sforzo porentoso egli puo raggiungere la percezione  spirituale diretta, schiudersi i sentieri che  portano. all’olt a, al superfisico, e divenire capace di regolarvisi. oltanto allora  può dire di aver vinto il destino e di esSersi conquistato fin da quaggiù la propria  tiliberi divina. Soltanto allora l’iniziato può  vi divenire inizi.tore, profeta e teurgo, vale a  dire veggente e formatore di anime. Infatti  soltanto colui, che comanda a se stesso  può comandare agli altri, e soltanto chi è  libero può liberare .   (Opera cit.).   La missione dei Misteri va intesa in tal  senso, per quel che si riferisce al loro primo  grado. ‘Non si trattava solo fi una DUOSA  scienza, ma della produzione di nuove forze   | pudore ‘L’individuo=doveva. trasmutarsi,    ivenire un altro, prima di venir condotto    al Sole spirituale, alla sorgente della sapienza.  Colui, le cui forze non sono temprate allorchè pone il piede sulla  Soglia, non  sente la realtà dell’eterne. potenze spirituali, (}.  che quivi gli si fanno incontro. In luogo di  entrare in rapporto con_un mondo superiore egli ricade nel mondo inferiore. À questo pericolo trovasi esposto chi va in cerca  delle sorgenti della sapienza. Se egli soccombe, allora ha temporaneamente ucciso  in sè l'eterno germe. Questo era per l'innanzi dormente in lui, ma, pur così dormente, era tuttavia ciò che nobilitava la  passeggera, inferiore natura e la trasfigura. Ingenuo ed inconsapevole, l' individuo  viveva con questo rudimento di spiritualità  superiore. Dal mal riuscito tentativo, di.iniziazione quel latente rudimento JÉne. distrutto. All'individuo non resta che l'istinto    di vivere nel transitorio, di yivere Soltanto  pel regno di guesto mondo. Per il fatto di.  avere sentito come_illusorio il  divino spirituale,, egli divinizza il  sensibile_materiale,. In tal modo, sulla  Soglia,, può  andare perduto per l'individuo il suo più  prezioso tesoro, la sua parte immortale. Questo è il pericolo analogo all’ accecamento  dell'occhio nella similitudine su riferita.   E' ovvio che coloro, cui nei misteri incombeva l'ufficio d’iniziatori, erano per pro- .Wei  Rito  fonda consapevolezza della propria responsabilità, estremamente esigenti verso i discepoli, giacchè tali esigenze dovevano servire  a temprare nel senso indicato le loro forze  spirituali. E. Schuré descrive la scala gra  duale della Iniziazion ‘a_praticata I  riella scuola di Pitagora (a. 582-507 a. C.)    e-la sua descrizione è tutta improntata di  geniale senso d’arte e di mistica profondità.  Mi appoggerò appunto ad essa per parlare  di quei gradi iniziatici.   Erano ammessi all’Iniziazione soltanto coloro che offrivano sicurezza di riuscita per  la costituzione appropriata della loro natura  intellettuale, morale e spirituale. Per costoro  cominciava allora il periodo della  Preparazione,. Per molti anni essi diventavano   itori. Nel tempo nostro, in cui ciascuno  sf crede autorizzato a giudicare e criticare  mon appena abbia appreso qualche cosa, 0,  torse anche più sovente, quando non ha ancora imparato nulla, non è punto facile rendere simpatica l’idea" quel lungo uditorato. All'uditore era imposto il più assoluto  silenzio, inteso non nel senso esteriore di   ‘ astinenza da ogni parola, bensì nel senso di  | astinenza da qualsiasi critica, STdoveva  Accogliere del tutto spregiudicatamente l’istru  due crilica   PESTO, gp    zione, senza turbare questa spregiudicatezza  con una prematura analisi critica. Il saggio  sapeva, e gli uditori avevano fiducia; per un  certo tempo non_.era loro Jlecito..criticare,  giacchè il sapere che ricevevano era appunto  ciò che occorreva per renderli maturi all  critica. Come è possibile che impari vera[mente chi vuole immediatamente criticare \{  quel che apprende? Con questo metodo di  ascoltare in silenzio i Pitagorici hanno reso  maggio a una massima, che sola può fare  ascendere i gradini della conoscenza. Chi  ha percorso la via della conoscenza lo sa.  Egli non può che sentire pietà per coloro,  che si creano intoppi su tale strada coi loro  giudizi prematuri e con le loro critiche. Il  nostro tempo è tutto pieno di questo_immaturo spirito di critica: basta osservare intorno a noi ciò che i nostri oratori dicono  e ciò che i nostri scrittori scrivono.,Se vi  fosse ai tempi nostri solo un pò di spirito  pitagorico, resterebbero. inespressi più dei  nove decimi di quanto vien detto e altrettanto rimarrebbe non stampato di quanto  vien pubblicato. Oggidì, chi ha messo insieme un paio di osservazioni, o si è appiccicato in testa un paio d'idee, si crede  autorizzato a sputar sentenze e giudizi sui  sel  RARI TESE, soggetti più essenziali. Invece un tale diritto spetta soltanto a chi abbia imparato a  contenere per anni il suo giudizio e a porgere ascolto spregiudicat ea quanto i  savi dell'umanità hanno detto.  Esaminate  tutto e tenetevi il meglio,, è una fallace  norma dell'anima di chi non è maturo per  esaminare. Il nostro giudizio non vale proprio nulla, nulla affatto di fronte alla Verità, fin tanto che non lo abbiamo fatto esaminare dalla verità stessa. Invece di dire. Io esamino tutto e voglio tenermi il meglio, molti dovrebbero dire. Io voglio fare esaminare me stesso dalla Verità, e  quando io sia sufficientemente buono per  essa, allora ch' essa mi prenda! Chi non  si è esercitato per anni ad adattare, a inalveare la propria vita in questo illimitato abbandono al giudizio delle sagge guide della  umanità, non arriverà mai a formulare giudizi che siano più che fumo e vacua risonanza. Pa   Una norma siffatta è certamente invisa in  questo nostro tempo  illuminato,, in cui  dominano la pubblica criticaglia, e lo spirito gazzettaio ; invece gli uditori pitagorici  si attenevano appunto a cotesta norma. Raggiunta la voluta maturità, l' uditore vedeva | 4 iena: acli    Neggiunto per lui il giorno d'oro col quale  cominciavano le rivelazioni sull'essenza della  natura e dello spirito umano. A poco a poco  i gli si fa comprendere la zomìa [I am a zoologist – a philosophical zoologist – Grice], le leggi della esistenza corporea e psichica. Be" 1 Voglia afferrare questa romia col non  raffinato intelletto ordinario non ne comprende nulla. Goethe una volta accennò  a questo. Allorchè nel SUO VIAGGIO PER L’ITALIA e per la Sicilia si era dato con tutta  lena allo studio delle piante, e si era formato quelle sue vedute tanto citate ma tanto  poco comprese sulla pianta archetipa,  scrive in Germania che avrebbe voluto  fare un viaggio in India, non per scoprire  qualche cosa di nuovo, bensi per guardare  a Suo..modo_.il già scoperto. Quel che importa, appunto, non è il conoscere le leggi  messe in luce dalla botanica  intellettuale vi  bensi il penetrare coll’aiuto di queste leggi nell’intima essenza della vita vegetale. Si  fica essere un erudito professore di botanica e non capir nulla di questa vita vegetale. | nostri scienziati hauno veramente delle  strane idee a questo proposito. Essi o credono che, in genere, non si possa penetrare nell'intimo della natura, o affermano che la  nosira indagine non è ancora fanto avanzata. Essi non sospettano che con questa  indagine mediante i sensi e l'intelletto possono, sì, moltiplicarsi con effetto benefico  le nostre cognizioni, ma che per investigare  (|  interno,, è, invece, necessaria una maniera di pensare tutta diversa da quella che  essi mettono in pratica. Non vogliono saperne dell’inventore dell'orologio mentre studiano l'orologio alla stregua dei principi della fisica. Poichè non possono trovare nell'orologio nessuno spiritello che  spinge avanti le lancette, o negano lo spirito, che ha congegnato le ruote, o asseriscono che esso è inaccessibile all’umana conoscenza, 0 del tutto o fino ad oggi. Chi parla dello spirito della Natura viene  accusato di sbizzarrirsi in vane parole. Ma  non è colpa sua se gli accusatori non sentono in ciò altro che parole! I discepoli pitagorici, al secondo grado della loro istruzione, venivano introdotti nelloSpirito della  Natura.   Soltanto: dopo RARO al questo grado,  potevano venir condotti alla  grande Iniziazione . A questo punto erano maturi per  accogliere in sè i  Segreti della esistenza;  il loro occhio spirituale era ormai sufficientemente vigoroso; oramai non apprendevano  più a conoscere soltanto lo spirito delia nai tura, ma anche le intenzioni di questo spii rito. Da questo punto in poi non sì può più  i parlare dei Misteri col solito linguaggio, ma  soltanto per via d'immagini, giacchè il no(a stro linguaggio è tutto adeguato all'intelletto e non ha parola adatta alla conoscenza superiore, di cui qui ci occupiamo. In questo  È senso va inteso pure quanto segue. Prima di ogni altra cosa l'individuo apprendeva a spingere lo sguardo oltre la propria esistenza personale. Da ciò traeva l' esperienza che quella sua vita era la ripetiiS . zione di vite anteriori a un nuovo gradino  dell'esistenza. Si poteva convincere che quel  i che è lecito chiamare anima, nel giusto  senso della parola, si rincarna ripetutamente,  e che le capacità, le vicende e le azioni della  Me sua vita presente erano da interpretarsi come  effetti di cause reperibili in quelle sue vite  antecedenti. Egli si rendeva anche conto che  i fatti e gli eventi di quella sua vita presente  dovevano produrre i loro effetti in esistenze  1 avvenire. i  ; Su ciò bastino qui questi pochi cenni,  da perchè ho intenzione di parlare in altro luogo esaurientemente delle grandi leggi della rincorporazione, e della legge cosmica, ovvero, in altre parole, della rincarnazione, e del Karma. Queste verità potevano divenir convinzioni per il discepolo dei Misteri, come è  verità per l'uomo comune che 2 x 2-4; perchè al terzo grado il discepolo era a ciò  maturo. Ma anche a questo grado si può  avere un giudizio completamente sicuro su  queste conoscenze, unicamente perchè si è  ormai acquistata la capacità di comprenderne giustamente il significato. Anche oggi, come in ogni tempo, molto  si criticano tali concetti ;, ma ciò che viene  criticato in realtà sono soltanto le arbitrarie,  concezioni dei critici stessi, che non hanno  alcuna importanza. Del resto, però, si deve  anche pienamente convenire che pure molti  seguaci della idea della rincarnazione non  hanno di essa concetti migliori di quelli dei  suoi oppositori. Non tutti coloro che oggi  difendono queste dottrine, le comprendono  veramente. Anche tra questi difensori ce ne  sono molti che sono troppo scansafatiche 0  troppo.... consci di sè per apprendere in  silenzio prima di far da insegnanti. 0° Cfr. dello stesso autore gli scritti maggiori Teosofia  Scienza occulta  e i minori Azione del Karma. Rincarnazione e Karma come leggi naturali. Ora, se non forse presso i Pitagorici,  c'era, però, in altri Misteri, dopo la grande   Iniziazione rivelatoria,, il grado della vera iniziazione mistica. In essa non soltanto  l'osservare e il pensare, ma tutto il vivere  conscio veniva esteso oltre l'immediata personalità dello individuo. Per essa il discepolo  non diveniva soltanto un sapiente, soltanto un  veggente. Egli ormai non percepiva l'essenza  delle cose, ma la viveva con esse. Molto  arduo è dare una idea di ciò, di cui qui si  tratta. Il veggente non ha soltanto la sensazione degli oggetti, bensì sente regoli oggetti stessi, trasferendosi nel loro interno;  egli non pensa circa la natura, bensì esce  di se medesimo e s'interna, pensando, re//a  natura. (E' questo un procedimento noto al  Teosofo, il quale lo chiama. lo schiudersi  dei sensi astrali. L'uomo intellettuale  non bada ai veggenti: essi debbono esser per  lui dei visionari, se non peggio. Chi, invece,  ha senso per le loro doti, li ascolta con pio  rispetto, giacchè sente parlare in loro non più  una persona umana, bensì la stessa Saggezza  vivente. Essi hanno fatto olocausto delle Cfr. dello stesso autore: Come si acquista conoscenza dei mondi trascendentali v. EA proprie inclinazioni, simpatie, opinioni personali per poter prestare la propria bocca  all’eterno Verbo, mediante il quale furono fatte tutte le cose. Giacchè dove  parla ancora l'opinione umana, dove campeggiano ancora inclinazioni’e interessi, ivi  tace la sapienza eterna. E quando questa  giunge all'orecchio di coloro che non  ‘hanno ancora sentimento per essa, appare  loro soltanto come personale parola umana,  per quanto in essa possa chiudersi una forza  divina. Ma dai veggenti stessi, gli uomini  ‘potrebbero imparare ad ascoltare, giacchè il veggente fa tacere la sua umana personalità quando a lui parla la voce della Verità. Il suo giudizio tace, i suoi interessi, le  sue inclinazioni gli stanno dinanzi altrettanto insignificanti quanto il tavolino che  ha davanti a sè: egli è tutto assorto nel| l'ascoltazione interiore. Solo il veggente ascenderà al grado successivo, che gli antichi chiamavano del  teurgo e che nella nostra lingua può venire designato come quel grado, in cui  si opera una completa riversione, delle  facoltà umane. Forze che, di solito, affluiscono nell'individuo da/ di fuori, ora si effondono da /uîi. In certi campi, nei quali  5 RS a l’uomo è soltanto un servitore, diviene un  dominatore colui, le cui facoltà sono trasmutate. E poichè solo il veggente è in  grado di giudicare la portata e la maniera  a d’'agire di coteste forze, l'uomo che ne verrà  Ti in possesso senza aver raggiunta la purità del veggente, ne farà mal uso. E questa  do  sapienza senza purità,, è possibile a causa  w di un cencatenamento di circostanze, di cui  <a qui non è il caso di tener discorso. Sulla Iniziazione superiore, a proposito dei Pitagorici, E. Schuré ha il seguente magnifico passo : 1  i BRANO Abbiamo, seguendo Pitagora, toccato la cima della iniziazione antica. Da  dr questa vetta la terra apparisce come im- cf ersa nell'ombra, come un astro morente. Di lì si schiudono le prospettive sideree e eri dispiega nel suo meraviglioso complesso. Le Scegatao ii a n 1  la vista dall'alto, l'epifaria dell'universo. Ma \\®s4* scopo dell'insegnamento non era l’assorbire  VITA l'individuo nella contemplazione o nell'estasi.   È le regioni incommensurabili del Cosmo, li  UH aveva tuffati negli abissi dell'invisibile. I veri pauroso pellegrinaggio fatti migliori, più forti  e meglio temprati pei cimenti della vita.  I, Il Maestro aveva condotto i discepoli per iniziati dovevano ritornare sulla terra da quei î  =Sf ia Alla iniziazione della intelligenza doveva seguire quella della volontà, ed era di tutte la più ardua, giacchè ora per il discepolo si  trattava di far discendere la verità nelle profonde latebre dell’ esser suo, e di porla in  azione nella pratica della vita.   Per raggiungere questo scopo ideale occorre secondo Pitagora riunire tre perfezioni: avere realmente la verità nell’intelletto,  la virtù nell'animo, la purezza nel corpo.  Un'igiene sapiente, una regolata continenza  dovevano serbare al corpo là purezza che si  richiedeva non come scopo, ma come mezzo. Ogni eccesso corporeo lascia una traccia e  quasi un imbratto nel corpo astrale, vivente  | organismo dell’ anima, e per conseguenza  anche nello spirito. A questa altezza l'individuo diviene un adepto, e, se possiede  bastante energia, entra in possesso di facoltà  e di poteri novelli. Si schiudono i sensi interni animici, e la volontà si riversa radiosa  negli altri sensi (vedi Schuré). Di tutto ciò che l'uomo compie prima di  raggiungere questo grado, le cause sono da  ricercare in regioni a lui completamente sconosciute. Lo sguardo del teurgo, invece,  | spazia in coteste regioni, e in perfetta consapevolezza, egli irradia da sè quanto  nell'uomo dorme di solito  inconsciamente, nelle più profonde latebre dell'anima,  Egli trovasi a faccia a faccia con la sua Guida, che per l’innanzi lo aveva diretto invisibilmente da tergo.  Col sussidio di siffatti pensieri si dovrebbero leggere periodi come il seguente, tratto dall'antico testo di sapienza chiamato il Mundakopanishad: Quando il veggente vede  l'aureo Creatore, il Signore, lo Spirito, il cui  grembo è Brahman, allora il savi o, dopo che  ha gettato via merito e demerito, raggiunge  immacolato l'unione suprema.  Alle vette, dunque, che vengono così con-.  quistate drizza lo sguardo E. Schuré; e la  mistica fede nella fulgida forza di codeste  vette gli conferisce la capacità di trapassare.  alcuni dei nebulosi veli che nascondono la.  vera natura delle grandi Guide dell'Umani  tà. Ciò lo rende capace di descriverli, questi grandi iniziati,: Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Orfeo, Pitagora di CROTONE, Platone e  Gesù. A grado a grado da coteste Guide  sono state irraggiate nell'umanità le forze a_  seconda della maturità raggiunta dal genere  umano nelle diverse epoche. Rama condusse  alla porta della sapienza; Krishna ed Er-.ai mete ne misero le chiavi nelle mani di alcuni; Mosè, Orfeo e Pitagora additarono  l'interno, e Gesù, il Cristo, presentò il Sancta  Sanctorum, l'intimo sacro penetrale.  Sarebbe sciupare tutto il singolare incanto del libro dello Schuré il volerne raccontare il contenuto, nel quale, così com'è  ognuno dovrebbe profondarsi da sè.  Ed, Schurè accenna al fatto che pel tramite del Fondatore del Cristianesimo le  forze della sapienza dei Misteri sono state  riversate nelle vene spirituali dell’ umanità  in forma tale, che le orecchie dell’ umanità  hanno potuto udirla. E anche in questo terreno la verità deve essere cercata pei sentieri che E. Schurè ci presenta. La forza.  che s' irradia dalla personalità di Gesù, è  forza vivente nei cuori di tutti coloro, che  la lasciano fluire in sè stessi. Comprendere  la vivente Parola che in questa forza agi| sce, può solo colui che se ne procaccia la  chiave, mercè la comprensione della sapienza dei Misteri. E a ciò fornisce, per  quanto è possibile, il fondamento Besant col suo cristianesimo esoterico. E' questo un libro, per mezzo del quale l'occulto  | significato delle parole bibliche si svela al  lettore che tutto vi si abbandona,  Sg VI Siffatti libri-chiave sono necessari ai no.  stri giorni. L'umanità era in condizione del  F tutto diversa dall’odierna, quando ricevè l’Evangelo, l'annunzio gioioso. Oggidì l’intelletto ha ben altro allenamento che non  ne avesse 19 secoli fa. Oggi l’uomo ‘può  trasmutare in vita propria la forza vivente  della parola palese soltanto se riesce ad  afferrare cotesta forza mediante la propria  facoltà ragionante. Ma ciò che è vero, resta  $ vero eternamente, anche se il modo come  i l'uomo deve afferrarlo si cambia nel corso  i dei tempi. Che oggi l’ intelletto e il raziocinio facciano valere i propri diritti è una  necessità ; chi conosce l’evoluzione umana sa che deve essere così. E perciò egli dà  oggi all’intelletto, ciò che secoli addietro è  stato dato ad altre forze dell'anima. Da que  sta e da nessun’ altra cognizione dovrebbe  scaturire l'attività del vero teosofo, e così  vuole essere interpretato il  Cristianesimo  esoterico, di Besant. Il teosofo sa  che nel Cristianesimo c'è la Verità, e sa altresì che Gesù, nel quale s'incarnò il Cristo, non è un  Duce di morti, bensi un Duce di vivi,. Il teosofo intende la grande  parola del Maestro. Io sono con voi tutti  i giorni, sino alla fine,,. Alla Guida viven- Bla: £ @ÈS    te, non a quella dei ragguagli storici, si rivolge anzitutto chi, come A. Besant, vuole  spiegare il Cristianesimo. Ciò che la  Parola vivente, ancora oggi,, annunzia all'orecchio che vuol porgerle ascolto, è ciò  che poi proietta la sua luce sul racconto  evangelico. Sì, certo, l' Annunziatore della  Parola è rimasto qui fino ad oggi e può  dirci come dobbiamo intendere la lettera dei  ragguagli intorno ai Suoi atti e ai Suoi discorsi.   Le buone novelle  debbono essere  intese  esotericamente cioè, bisogna, prima, che sia svegliata dentro di noi la forza  vivente, che imprime su di esse il sigillo di  . Gò che è  Santo,,. E poichè l'intelletto e  il razigcinio sono i grandi strumenti della  civiltà d’oggi, bisogna ch’essi vengano liberati dai lacci dell’ intendimento puramente sensistico, della comprensione meramente   positiva, della realtà. L'intelletto stesso  dell'umanità presente deve tuffarsi nel mare  che lo riempie di vera religiosità, giacchè  non è esatto che l’assennato intelletto non  valga che a distruggere le  illusioni, di  cui il sentimento religioso avvolge le cose.  Ciò è opera solo dell'intelletto abbagliato e  inceppato dai successi riportati nella nozione ALI: 000    e nel dominio delle forze puramente materiali della natura. Gli uomini del presente  e con essi i nostri fisici, i nostri biologi e  i nostri storici, si credono Ziberi nel loro  mondo intellettuale unicamente edificato sul  fatto positivo. In Verità essi vivono sotto  l’azione di una Suggestione dominante su  tutto. Liberi, fino a un certo punto, potreste diventare voi fisici, biologi e storici di oggi, se voleste riconoscere che i vostri concetti di rea/tà anzi di materie e di forze del  mondo, di sforia umana e di evoluzione  della civiltà, non sono altro che  sugge\stioni collettive,. Un giorno vi cadrà la  benda dagli.occhi, e allora soltanto sperimeénterete fino a qual punto è verità e non errore quel che voi pensate dell'elettricità e  della luce, della evoluzione animale ed umana;  giacchè, notate bene, anche i teosofi riguardano le vostre asserzioni non come errori,  ma come verità. Infatti anche la vostra interpretazione della natura è per loro una   professione di fede, e quando essi dicono  di volere cercare il nucleò della verità in tutte le religioni,, fanno ciò non  solo riguardo a Buddha, Mosè e Cristo,  ma anche riguardo a Lamark, Darwin ed  Hickel, ay ( (A   E opere come queile citate di Schuré e di Besant sono destinate a togliervi  la benda dagli occhi, debbono insegnarvi a veder chiaro nelle  vostre suggestioni.  Conseguentemente, in libri siffatti quel che  importa non è tanto il loro contenuto letterale, quanto le occulte forze che mossero  la penna dei loro autori e che si trasfondono nelle vene dei lettori, così che questi  vengono tutti pervasi da un nuovo senso  della verità. 1 lettori che subiscono il giusto effetto di tali libri ricevono sotto un  certo rispetto una /riziazione di tipo, diremo così, intellettuale. Chi a questa frase  mon arriccia il naso, come alla asserzione  di un miracolo, chi è in grado di scorgervi,  invece, qualche cosa di più che una vacua frase, potrà anche comprendere, come  — libri siffatti gli vengano presentati non già  per allettarlo a fare una delle solite letture,  ma con l’altra ben diversa mira ch' essi, per virtù delle forze con le quali sono stati  scritti, debbono suscitare in lui forze dormenti, anche se a tutta prima coteste forze  possano essere soltanto quelle dell'arimia intellettiva.  Al nostro tempo, peraltro, non c’è vera  Iniziazione, che non passi per l' intelletto. Chi vuole in oggi condurre agl’arcani superiori, evitando di passare per l' intelletto, mon capisce nulla dei segni dei tempi, e non può far altro che porre sugsa gestioni nuove al posto delle antiche. Grice: “Of course, Austin thought that the Saturday mornings should be held on Wednesday midnights at Parson’s Pleasure – we were into initiation!”  Giovanni Colazza. Keywords. dell’iniziazione, rito di passagio, rito di iniziazione, iniziazione nel misterio, iniziazione, l’iniziazione di Bacco, la Baccanalia, il sacrifizio di Bacco, sacrifizio come dolore e piacere, Prosimno, iniziazione di Bacco, la reazione della religione romana al mistero bacchico, iniziazione, iniziazione del giovane romano, la toga virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colazza” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Colecchi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Pescocostanzo –filosofia aquilese – filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescocostanzo). Filosofo aquilese. Filosofo abruzzese. Filosofo italiano. Pescocostanzo, L’Aquila, Abruzzo. Grice: “What I love about Colecchi is that while he was a bad Kantian, he was an excellent Vicoian!” Studia ad Ortona, dove sube diverse perquisizioni da parte dell'Inquisizione per la sua tacita simpatia verso gli ideali rivoluzionari. Insegna alla Reale Accademia Militare della Nunziatella. Venne mandato in missione in Russia, dove si dedica alla filosofia speculative.Al ritorno, soggiorna a Königsberg, dove ebbe modo di conoscere l'opera di Kant. Fu uno dei primi filosofi italiani a studiare Kant.Rientrato in Italia, fonda a Napoli una scuola privata di filosofia ed ha tra i suoi allievi i fratelli Spaventa, Sanctis, Settembrini e Caracciolo. Il suo merito principale fu quello di essere, insieme a Galluppi, un assertore del criticismo kantiano in Italia. Altre opere: “Se la sola analisi sia un mezzo d'invenzione, o s'inventi colla sintesi ancora?” La legge del pensiere; L’analisi e la sintesi; La legge morale, La legge della ragione; “Se il raziocinio sia essenzialmente diverso dalla intuizione”; “Se nell'invenzione eserciti maggior influenza la sintesi o l'analisi; “Se li giudizi necessari sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità formale del raziocinio sia valevole a convertire il raziocinio empirico in raziocinio misto?”; “Il principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica e quando istruisce”; “Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una logica mista”; “Se una idea soggettiva non altro sia che una idea di un rapporto, L’idea dello spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di filosofia: se la sensazione sia esterna di sua natura, o tale diventa in forza del giudizio abituale? Alcune quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia, Logica applicata, Ideologia, Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, Firenze; Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F. Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi filosofici, Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa, Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura, filosofia e critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis, La lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema filosofico di C. (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F. Amodeo, C., in «Atti della Accademia Pontaniana», Discussioni biografiche e documenti inediti, Ravenna); L'istruzione pubblica e privata nel Napoletano; Città di Castello, C. filosofo e matematico: nuove notizie e nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese di storia e d'arte», Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, II, Milano); Pedagogisti ed educatori, Milano); Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo a C., in «Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi: C., in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», A. Cristallini, C., un filosofo da riscoprire, Padova, G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari; Garin, Storia della filosofia italiana, III, Torino; F. Tessitore, Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche, Napoli; G. Cacciatore, Vico e Kant nella filosofia di C., Centro di studi vichiani; Io e C.. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre Editore, L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla tomba della setta italica, tenendo dietro alle origini dell’antica lingua del Lazio – la lingua romana -- trasse fuori VICO queste divine idee; ha lello forse BRUNO ancora, perchè un’ombra d’idealismo copre spesso la sua filosofia, spezialmente nella scienza nuova, dove l’uomo passa suo malgrado dalle selve allo stato civile per la sola opera di una lupa (la lupa capitolina). Se non che l’uomo di VICO rimane nello stesso stato in cui avealo lasciato ENEA. Devono le divine idee rideslarsi all'occasione delle sensazioni; njun tentativo per ravvicinare la sensazione all’idea; dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la ragione è sempre scontenta di quanto scopre l’induzione. Non ancora siera mostrato Kant per conciliar insieme la sensazione (sensus) e l'idea o concetto. Con questa filosofia, appoggiata all’induzione, si dispone VICO a crear il diritto universale della nazione del Lazio – la nazione romana. Ma preoccupalo sempre delle civili cose di Roma, brillando sempre nel suo spirito l'immagine di Roma, si risolge in fine di stabilire Roma come modello di civiltà. Il perchè nella storia, della mitologia, nelle lingue, nel blasone, e pe’ feudi pur anche del medio evo deesi Roma ripelere, e la romana giurisprudenza diventar quel la di tutte le nazioni del mondo. E come i fatti hanno a servir di occasione per ridestare la idea, così il diritto di Roma, le XII Tavole, tutta la storia, tutta la mitologia concorrer devono a risvegliar le idee del vero, del giusto, a dir breve l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che metafisica, logica, morale, educazione, politica, geografia, astronomia si abbozzano prima della religione de’ padri in mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla città di Roma; dove il senato si compone degli stessi primi padri, riuniti in Ordini, per reprimere le ribellioni degli ammutipali clienti. Di qui le lante critiche sulla storia positiva per distruggerla. Sesostri e Tanai sono due simboli. La sapienza del poeta vera immagine della sapienza o scienza del filosofo, L’Eneide confuse con la sapienza dei romani. E tutto questo per via di etimologie stirale, di mili forzati, di stranissime analogie. Egli è evidente che tal metodo d’interpretazione deesi ridurre in fine ad una tortura, per isforzare tutt’imonumenti della storia e delle favole a deporre in favore di un sistema. Siegue da questa osservazione che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione, per la potente sintesi di VICO, pieghi sempre al modello DI ROMA, NO DI KOESINGBERGA, e la sua civiltà a poco a poco siasi spenta, fino a che passato il medio evo, col risorgimento delle lettere e delle scienze, ricomioci il suo corso; può non pertanto rimaner il dubbio che il popolo romano altro forse non sia che un fatto isolato. Essendo si in effetto limitato il Vico al uomo del Lazio.VICO, dobbiamo pur dirlo a Gloria d'Italia,VICO è di gran lunga superiore ad Herder, il quale nella sua Storia dell'umanità parla pur anche dell'origine e del progresso della civiltà de’ popolo romano. Imperocchè se Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del Lazio nella natura, e dalla formazione del cristallo, per una ben lunga scala, va sino all'uomo che è la corona dell'organizzazione. VICO, seguace di Platone e non d’Aristotele, con maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo nell’uomo stesso contempla. E se l'analisi di Herder vivamente rallegra l'immaginazione, la sintesi di VICO sembra lalmente falla l'intelligenza per, che il lettore, in onla del suo linguaggio enigmalico e della strapezza delle analogie, viene attirato potentemente dalla magica forza della sua filosofia. Niuno più originale di VICO, e pare che l’originalità dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel VICO spenta. De’ suoi principii intanlo, per quel che riguarda il nostro assunto, egli è facile di raccorre, che avendo le legge per iscopo di metter freno alla passione umana, e di render l'uomo migliore; ben possono per esse la *forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi il genere umano, convertirsi in *valor militare*, *prudente mercatanzia* e *savio governo*. La legislazione dunque, considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi migliori la passione, lo riforma e trasmuta in quello che esser deve. La massima di VICO pertanto, ben lunga dall’opporse alla legge morale, la conferm viemaggiormente e ne presuppone l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei lettori, se da VICO stesso tolgo le prove di questa mia assertiva. L’unico principio e fine del diritto è per VICOla virtù del vero. E chiama virtù del vero l’umana ragione -- la vernunft di Kant -- la quale è virtù in quanto combatte con la cupidità -- è giustizia in quanto regola e pondera la utilità. La utilità non e per sè stesse ne onesta nè turpe; ma turpitudine è la sua ineguaglianza, onestà la sua eguaglianza. L’utilità privata di un singolare individuo, o anche nazione o popolo di due uomini, è labile, perchè finisce con l'individuo la diada dei due uomo o con la nazione; ma l’eguaglianza delle utilità, che è figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è cosa immutabile ed eterna. Una cosa caduca non puo produrre l’immutabile, nè un corpo dar nascimeoto a ciò che li trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari, con questi pochi molli del VICO, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre detto di Pedio presso Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la legge introdotta è buona occasione supplire con la legge stessa le altre cose che tendono alla stessa utilità. Una buona occasione adunque e alla divina provvidenza l’umana debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa spontaneità, ritrasse gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere socievoli, uguagliando tra loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio per intera onestà, ma per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione* di mutua utilità che interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un padre (superiore) e un figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti – l’eguale è tra fratelli ROMOLO E REMO o i dioscure – Castores (dual), o Eurialo e Niso, i due amici, tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia rellrice ed equatrice. L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* -- progressione geometrica -- misura determinata, è il subietto della giustizia rettrice, della giustizia *distributive*, la quale mira alla dignità delle due persone. L'eguaglianza poi delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression aritmetica -- misura, è materia della giustizia equatrice, volgarmente detta giustizia *commutativa*, la quale si rapporta al mio ed al tuo – al nostro -- -- ed ba luogo in ogni società eguale. Nè osta punto (come crede Grozio, il quale dital L'occasione poi, per la quale una cosa accade, non è cagione della cosa stessa, il che Grozio non vide, trattando dell'origine del diritto; e pur doveva ia questa disamina por mente ad una osservazione tanto importante che ne è il cardine. L' utilità dunque non fu produttrice del diritto, come piacque al greco Epicuro, al etrusco Machiavelli, ad Obbes, i quali intesero per utilità la cessazione o del bisogno, o della violenza, o del timore; ma fu l'occasione, per la le gli uomini divisi, deboli, bisognosi tralti furono alla vita sociale. qua. Siegue da ciò, che l'upa e l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice hanno per fondamento l'onestà, e che non può avervi giustizia senza morale: conseguenza importautissima, dedotta dal VICO da vero suo priocipio, e sfuggita al positivista CARMIGNANI, il quale fa della morale e del diritto due cose talmente distinte, quasi non avessero nulla di comune tra loro. Elementi del giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la temperanza, la fortezza. La prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta con ragione, von come della la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle cose utili genera la libertà. La potenza regolala dalla fortezza partorisce la incolpala tutela. La tutela de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il diritto naturale, che gli antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici appellano il principio della natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono cose nalurali all’uomo, e oale per le occasioni. Così la libertà del diritto era prima della guerra; ma venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome, introdoltasi, per la guerra, la schiavitu. Similmente con la divisione de'campi siammisero I dominii delle cose del suolo; ma il giure coosultodice: non essersii dominii introdotli:essersisolamente distinti con la divisione. Finalmente dalla potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso. distinzione siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di daparo, prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono parli di lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della persona che li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne avrebbe preso, se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della ragione su iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti chiamalo secondario, e dal PORTICO conseguenti della natura. Rimontiamo col VICO all’origine di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere, con la sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio deriva del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra con cui vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle utili, e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita: diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto domina la prima: di guise che quando POMPEO, impedito dalla tempesta a partire, disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile ancor la prima, non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi, non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma:non esser ella di alcun uso, sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli stesso l'ammelte tacitamente; perchè in questo appunto il suo uso consiste, che nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del primo. Ma bisogna un VICO per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e mostrare a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto naturale primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il diritto naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto volontario è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè al tutto dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in parle viaggiugne, inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione della legge sono due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione dalla legge è l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e la mente della legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata per altri iniqua. equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della legge la fa vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori, per ottenere con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir non possono; il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè data da Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta al diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità, la qual, dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità, seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di vero, che rende certa la legge, m a non del tutto vera; perchè qualche ragione non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile; laditt Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela, nacque il diritto delle prime genti, che può dirsi; Diritto della violenza. Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si stabilissero le leggi: motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei delle genti maggiori.Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi. Pare a VICO che tale divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono patriziï delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero, e patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che gli uomini, senz’alcun freno di legge, toglievano con la propria mano, ed usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni, usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso, come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti, usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale! per tre nolti continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne’ governi divini ed eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col diritto delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè dicemmo, si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si ollenevano, con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza frequenta risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e poco fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural pudore, conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore disordine in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del diritto naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori, coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio, la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende; all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama VICO il romano diritto un serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni, delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi,ma con certo legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani con una paglia, dellaper. Ciò da GELLIO festucaria. Pernon diral la fine di tanteal tre, l’azione personale chiamata “condictio” non più e l’andar unito il creditore al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia. Le quali cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede il poeta il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di Anfione vero. Ella è questa, secondo VICO, l'origine ed il progresso dell’universale diritto delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di VICO stesso, in istretta amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti questo gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza, che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer anche meglio l’accordo della filosofia di VICO con la legge morale, basta osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo VICO, una sola virtù, e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli, che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come particolare virtù, nell'animo del sapienle, c regola gli uffizi di tutte le virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde VICO, v'ha unica ragione che così della, unico vero bene, unica giustizia, e unico diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente diverso da quello che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè stesso crear questo bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato di libertà: a quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere morale, ed un tal passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno di congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione, qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era semplicemente materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor coniugale che è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne seguì, un terzo ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli strinsero insensibilmente tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo e Remo che non è punto interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono con questa prima famiglia di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon l'avanzar de’lumitutt’il membro della citta si crede idoneo alle funzione che prima da’ soli padri si esercilavano, e sursero allora la repubblica e la monarchia, dove si ni in gran parte il certo dell’autorita,e comincia il vero della legge. Sollo queste forme di governo lulla si spiega la moralità dell’azione, perchè si dissero azione della stessa, per una convenuta mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il padre comanda al proprio figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal nome de’ famoli si appellò famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo naturale governo. Stabilita l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto e sui famoli ha già il fanciullo contratto l’abito di rispettare la volontà del genitore. Quando fatto grande, il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i di lui figli onorar colui verso il quale vedevano che gran rispetto porta il padre loro; supposero quindi nell’avo un’autorità superiore a quella del proprio padre. E perchè l’avo in ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo, un taluso, per più a poi osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere sovrano su tutt’i membri della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale, che lungi dal puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a garenlirla e consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità riunite, costitusce la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i cittadini dovellero amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a Romolo, il capo delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della famiglia presta all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di vera stima verso gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado disinteressata. Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo VICO, nei quattro stati su indicati noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di solitudine in fatti cerca egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e fatti figliuoli ama la sua salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile ama la sua salvezza con la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri popoli ama la sua salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace, alleanza, commercio, ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano. L'uomo, conchiude Vico, in ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il perchè non da altriche dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar con giustizia la familiare, l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle soltanto che si facevano nell’interesse della morale, senza domandare anticipatamente, seerano gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si manifesta si ridusse ne’ goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che propongono farsi la tal cosa o non farsi, e la volontà ne decide dietro la legge della ragione, o è la ragione che prende l’iniziativa, e la volontà ubbidisce, senza consultare il senso. governo. Così è, diciamo pur noi, ma perchè l’utile che cerca l’uomo, tosto che si è reso superiore all’istinto, è subordinato ro a quello della famiglia; secondo a quello della città; terzo all’utile del paese; quarto all'utile di tutto il genere umano; l’utile che cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati non èl'utile variabile, ma quelloche è figlio dell’onestà, la quale, come Vico si esprime, talmente dirige e pondera le cose utili che a tutti giovano egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire, lulto questo è opera della provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro però il diritto naturale del giurecosulto, di lunga mano di verso dal diritto naturale del filosofo che alla norma della ragione eterna lo agguagliano sempre. Ma essendo la repubblica degli ottimati quasi tutte ridotte in democrazia o principali, le qualidue forme di governo vengono regolate più secondo l’ordine naturale che secondo il civile; per queste cagioni venne a rallentarsi la custodia del diritto delle genti maggiori più antiche, sul quale diritto poggiavano sopratutto la re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di quello stato la custodia delle palric consucludini. Vico della provvidenza è l'umano arbitrio, che ha per regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune di ciascun popolo o nazione che dirige in società la nostra azione, sicchè facciano acconcezza con ciò che ne sentono tuttidi quell popolo o nazione. Quando poi le nazioni per commerci, per paci, per alleanze sono si conosciute, la convenienza del senso comune de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la sapienza del genere umano. Or, il senso comune di ogni popolo e di ogni nazione, il quale deve dirigere in società la nostre azione, acciò si accordion con tutto ciò che ne peosa il genere omano: che altro può esser mai se non è la legge morale? per perciò VICO, seguendo GAIO, chiama diritto civile comu. de il diritto comune di ogni popolo. Perchè GAIO, ove define il diritto civile, dice: Ogni popolo che e governato da una legge e da una consuetudine, in parte si serve del proprio diritto, in parte del comune diritto di lultigli uomini, e ció per la divina provvidenza, che secondo la stessa opportunità delle cose lo spiegò Ira la pazione separatamente, con la loro costumanza, per la tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto spiegato con la comune costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio, dalla libertà nacquero, secondo VICO, tre pure forme dello stato. Quella DEGL’OTTIMATI, la regia, e la libera. FONDAMENTO DELLO STATO DEGL’OTTIMATI È LA TUTELA DELL’ORDINE, con che venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano gl’auspicii, il campo, la gente, i connubî, i maestrati, gl’imperî, e presso legenti i sacerdoti. La regia risplende pel dominio di un solo, ROMOLO, e pel sommo e formisura libero arbitrio di esso solo in tutte le cose. La libera vien celebrata dall’eguaglianza de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per l’eguale adito a ogni onore, il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di essi comanda un solo,o come vuole TACITO: uno essere il corpo della repubblica, e doversi governare con l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun politico reggimento colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari che l’unico non si può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati, benchè sieno da quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse; tultavolta allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà, il potere risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e costituiscono irë parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto è l’anima di ogni stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine delle cose corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine, ma sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’ sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe ROMOLO si vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede, diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo, il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura. Imperoc chè I primi imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion naturale per le cause di certo diritto, così l'ordine civile per natura sua fa parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza, ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso, altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere Ma questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza de un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual cosa l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini. Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di chi ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e da GAIO DIRITTO COMUNE a tutti i popoli, altro non è ch e il diritto naturale, il quale h aperto della parola, o che torna lo stess, non secondo il certo della legge, ma giusta il vero della legge stessa, reggano gli stati. E perchè la leggr in moltissimi casi mancano ed è necessaria l’interpretazione che a la deficienza supplisca; può accader ancora che sollo la stessa autorità del diritto non solo qualche volta per ignoranza si erri, ma la stessa legge con frode si eludano. Più felice dunque e quello stato, nel quale il civile ordine e misto più secondo il naturale ordine o secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del certo. Quindi ove si conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli Ordini che le leggi si cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le leggi mancano, gli stati rovinano. Perciòsiamo servi della legge, diceva Tullio, per poter esser liberi. Convertendo dunque la massima si dirà pure con verità: se ci libereremo dalla legge, saremo naturalmenle servi. la legge morale; perchè, secondo Vico, non può darsi diritto senza morale. Iolanlo è da nolarsi diligentemente che VICO distingue il diritto io diritto vero, e diritto certo. Quello è per la ragione, questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo libero, il secondo l'uomo che più della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente che negli stessi umani governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto che alla libera elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità che dalla ragione. Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze de’ popoli e le diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i quali con la loro autorità oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo essii più sapienti, i più prudenti, come vuole VICO, non si propongano per i scopo il diritto vero e che non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran pena. La destinazione infalli del l'uomo non può dipendere dall’istinto, e tosto che l'uomo si conosce libero e la sua ragion consulta, questa gli ordina di conservarsi e di perfezionarsi: di essere cioè savio, moderato, prudente; di collivar l’intellelto, e nel tumulto de’ sensi e degli affetti di cautelare la volontà: nel che propriamente consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè egli scopre in altri esseri, a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli considera tutti eguali, e tale scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di lasciar i suoi simili nella loro indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso giudica di non aver diritto su di ciò che è stato da altri prima di lui occupalo, e ciò che ha egli occupato il primo, giudica che a lui spella solamente, nel che sla il dominio. Di qui reciprocità del diritto e del dovere; di qui l’origine della giustizia che gareolisce la proprietà. Tulli gli anzidelli del diritto e del dovere, perchè fondati sulla libertà, sul dominio, e sulla tutela, o che lorna lo stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè, prima che l’uomo entri con altri in società. La legge non li creano, perchè già erano prima della legge. Questa non altro fanno che conservarlo. Lo stesso diritto e lo stesso dovere servono di fondamento alla società, che il legislatore non crea ma dirige, perchè la società già era, quando il governo non era ancora. La libertà del diritto, dice VICO, fuprim a ch e si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il dominio con la divisione de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di operare infine nacque tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che, ammellendo Vico nell’umana mente al cuni semi del vero che con l'andar del tempo si sviluppano in cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che tratto tratto si spiega la massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli in gran parte seguace di Platone intorno all’origine di quella verità che si dice necessaria. Or tale verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche ed una pratica, diciamo, che rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il quale per un alto di spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione, appoggiato alle quattro idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di cagione, riduce all’unità tutto il vario della rappresentazione che a lui offer il senso. Riguardo poi alle verita pratica, essendo elleno legge pratica o comando di fare, si contiene in una massima universalisabile. Quando ti determini all’azione, esamina te stesso e vedi se la tua volontà sia di accordo con la volontà generale di ogni persona. Una tal massima universalisabile è la suprema legge della morale. Che che sia però della filosofia di Vico, a noi basta di aver provato che le due sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial la legge morale, la confermano mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre elementi del diritto; tre elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non può avervi diritto senza morale. La filosofia perciò di VICO si accorda perfettamente con la morale. All natios bostna viSing to derive merit from the splendonr of their original. And irhere history ii uleot, they fueiuenJiy anpply the defect with fable, THE ROMANS were particnlaHy dcH^OB of being thought DESCENDED FROM THE GODS, m if to hide the meaaDess of their real ancestry. Mueas, the Bon of Veona AocUaei. having escaped ftvm the deitniotioii of Ttey, after'11MU17 adventures and dangers, atrived octet a in Italy, where Aeneas was kindly received by Latinus, king of the latins, who gave him his daughter Lavinia in marriage. Italy was then, as it is now, divided into a number of small states, independent of each other, and consequntly subject to frequent contentions among themselves. Turnus, king of the Rutnti, is the first who opposes Aeneas, he having long made pret^uions to Lavinia himself. A war ensues, in which the Trojan hero is victorious, and Tornus sfadn. In consequence of this, Aeneas built a city, which was eded Lavimnm, in honour of his wife, and some time after, engaging in another war against Hezentius, one of the petty Ungs of the country, he was vanquished in turn, and died in battie, after a reign of four years. Ascanius, his son, succeeds to the kingdom, and to him Silvius, a second son, ^lom be had by lAvioia. It would be tedious and unninterealing to recite a dry catalogue of the kings that followed, and of whom we know little mtae than the names. It will be sufficient to say, that the sacoesnoD coatiDiied for near four hundred years in the family, and that Numitor, the fifteenth from Aeneas, is the last king of Alba. Numitor, vho took posseBsitHi of the kingdom in consequence of his father's will, had abrpther named Amnlius, to whom are left the treasures which had been brought from Troy. As riches but too generally prev^ against right, Amolins made use of his wealth to supplant his brother,a nd aooo foDod means top ossess himself of the kingdom, ot content with the crime of usurpation, he added that of murder also. Nnmitor's sons first fell a sacrifice to his suspicions, and to remove all apprehensions of being one day distorbed in his ill-gotten power, he caused Rhea Silvia, his brother's only daughter, to become a vestal virgin, which office obliging her to perpetual celibacy, made him less uneasy as to the claims of posterity. His precautions, however, are all frustrated in the event; for Rhea Silvia, going to fetch wator frqip a Qeighbopring grove, was met and ravished by a man, whom, pei^tqw to palliate her offence, she avers to be MARTE, the god of war. Whoever this lover of hers was, whether some person had deceived her by assuming so great a name, or Amnlins himself, as some writers are pleased to a£Srm, it matters not.Certain it is, that, in due time she was broug:lit to bed of two boys, who were no sooner bom than devoted by the usurper to destmction. The mother is condemned to be buried alive -the usual punishment for vestals who had violated their chasti^, and the twins are ordered to be flung into tbe riverTiber.It happens, however, at the time this rigorous sentence was put into eieculion, that the river had more than usually overflowed its banks, so that the place where the children are thrown, being at a distance from thei main cnirent, the water is too shallow to drown them. In this ntoation, therefore, they continued without harm; and that no part of their preservatioD might want its wonders, we are told, that they were for some time suckled there by a wolf, until Fanstulos, the king's herdsman, finding ihem exposed, brought them home to Acca Laurentia, his wife, who brought them up as her own. Some, however, will have it; that the nurse's name was Lupa, which gave rise to the stoijr vt their being nouriihed by a wolf; but it is needless to vfad Do,l,,-cdtyS oirt a iwglH MBpg«b«ba% fian 'venevntB vbtfe die vkote « omgrowB with ftUe. Boraoloa and Bemna, Ae twins thtu strangely prcwcved. Memed eariy to diacover afai)iti«i uid desiret above the me«i- noH of thor aapposed origiiuL The ahepkenl's life be^an to di^leaae them, aod fnaa tending the flock, or hantiag wild beasts, they soon tnmed their strength agsinst the robben lonnd the eonntry, whom they efien atfipt of their [daader to share it among their feUew-shepherds. In one of these ezcmnons it was that Remus is taken priaoner by Nvmttor's berdsmen, who bring him before the king, and aoensed him of the very crime which he bad ao t^tea attempted to sappresa. Bomnlaa, bowerer, beii^ informed 1^ FaiiBtaliu of his real birth, was not remisa in assembling ft munber of hia fbllow^epherds, in order to resooe bis brother from posoD, and foroe the kingdtmi from tbe bands of tbe nsnrper. Yet, being too feeble to act openly, he direcs bis followers to assemUe near the place by different ways, while Beniiis with eqnal vigilaooe gm&ed npon tbe dtiuua within. AmalioB, tfans beaet on all sides, and not knowing iriiat expedient to thinkof for bit seoiuity, was,daring hia amasenent and distraotion, taken and daio, while Numitor who had been deposed forty-two years, recognised bis grandscns, and is restored to the throne. Nnmitor being tints in qvet posiewion of the kingdom, hot grandaou resolred to bnild a eify npoo those hills whoe they had formerly lived as aheiriierda. The king had too many oUigations to them not to approve their des^; he appointed tbem lands, and gave pennisnoB to .snoh of hia subjects a» thoo proper to settie in their new colony. Many of the neil^draariiig shejdierda also, and sncb as were fond of change, lepabed to the intended dty, and prepared to raise. For the more speedy oarrybg on this work, the people were divided into two parts, each of whioh, it was sapposed, woidd indoatriondy emnlate the otfaer. Bat what was designed fi» an advantage proved nearly fatal to this infimt oolony: it gives birth to two factions, one preferring Romulus, the other Remus,who themselves arenot agreed upon the spot where the city shonld stand. To terminate this difference, they are recommended by the kingto take an omen from the flight of birds; and that be, whose ome should be most favoorable^ afaonld in all reepeots direct die odier. In ooatflSaaoe wiOl this advice,thej both take their stations npon diffra«nt hilk. To Remus appear six vultures, to Romulus, twice that number, to ttwt each party thongfat itielf viotoriovi, the one tiaviog the *first* omen, the other the most nnmeroiu. Tbifl prodnoed a contest, whitdi ended ui a batde, wherein Bemoa is slain, and it is even said, that he was kiUed by his brother, who, facingprovoked at his leaping contemptnoasly over the city wbU, itrack him dead upon tbe qrat, at the same time proKssio^, that nooe shonld ever inanlt his walla withim punity. Romoltu, being now sole coHunuider, and eighteen yean of age, b^an the fonndation of acity, that was one day to give laws to the woild. It was called Rorne after the uaaie of the founder, and bnilt npon the Palatine hill, on which he had taken lus ancceflsfol omen. The city was at first almost square, oontaining «bont a tlwiisand houss. It was near a mile in compass, and commanded a small territory ranod it of about eight miles over. However, smallas it appears, it was, ootwithstandiiy, vone inhabited; and the first method made uae of to increase its numbers vaa the opemng a sanctosry for all male&otors, slaves, aod snch as wm« desirons of novelty. These came in great multitudes, and cootibated to increase the number of our legtslatoi'B new subjects. To have a just idea ther^re of Rome in its infant stale, we have only to iwsgine a coUec- tion o( cottages, sairotinded by a feeble wall, rather built to serve as a military retreat, than for the purposes of civil >o- cie^, rather filled with a tnmoltuoas and vicious rabble, thaD with subjects bred to obedience and control.We have only to conceive men bred to rapine, Iwing in a place that merelj seemed calculated for the security of plonder; and yet, to our astonishment, we shall soon find this tumulbioas coocouise unit> ingin the strictest bonds of sode^; this lawless rabble putting OB the most sincere regard for religion; end, thouf^ composed of the dr^s of mankind, setting examples, to all the worid, of valour and riitne. Doiii,,ih,. WWLOU SoARGB mm tbe city rnsed abore iti &niid«tioB. vhen Hs rade mhalulsBtB hegaa to tfauik of gmag some fonn to their. MoslitBtioii. Their first object was to unite lifoer^ and empire; to fonn a kiod of mixed monncby, by irfaicfa all power vw to be dividad between the prince and the peopte. Bo- nlna, by an act of great geoeromtf, left them at liberty to dwose whom they wonld for dieir king, and tliey in gnrtitiide eoBcmred to elect their founder; be was accordingly acknowledged as chief of dieir religion, sovereign magistrate of Rorne, md geoeral of Ae army. Beside a guard to attend his person, it was agreed that he should be preceded wherever be went by tweW e mCT, armed with axes tied op in a bnadle of rods, who were to serve as execntioners of the law, and to impress hii new subjeots with an idea of his authority. Yet stUl tUa aKiboriQr was ondw very great restriotii»ig, as his whole power CMisisted in caQing the THE SENATEsenate togedier, in assembling the peo tMibstont and fierce as the first Romans, it was wise to enforce obedience t &6 most reqnidte dnty. lie first care of the new-created king is to attend to the interests of religion, and to endeavour to hnmantse his subjects, by the notion of other rewards and pnnishnients than diose of hnman law. The precise form of their worship is nn- known; bat die greatest part of the religion of that age con- siMed in a firm relianoe upon Ae credit of their soothsi^ers, irito fvetended, from observations on the flight of birds and the entrails of beasts, to direct the present, and to dive into fntmrity. This pioos fhrad, wbich first uvse from ignorance, soon became a most usefnl machine in the hands of government. Romnlns, by an express law, commanded, that no election should be made, no enterprise undertaken, witfa- flat first conaolting die soothsayers. With equal wisdom he ordained, that no new divinities should be introdoced into pnhlic worship, that the priesthood should continue for fif, and that Aone shonM be elected into it before the age of fifty. He fort>ade them to mix fable witb the masteries of their reUgion; And, timt they mi^t be quaKfied to teach others, he ordered Aat tiiey should be tiie iHstoriographns of tiie times; so tiia^ while instructed by priests Bk^ these, the people cordd never degenerate into total barbarity. Of his other laws we have but few fragments remmnii. In these, however, we learn, that wives were forbid, upon any pretext whatsoever, to separate from tbeir husbands; wUle, on the contrary, the husbaod was empowered to repudiate the wife, and even to put her to death with the consent of hef retatioQB, inc ase she was detected in adultery, in attempting to poison, in making false keys,. or even of having drunk too much vine. His laws between children and their parents w«'e yet sdll more severe; the father had entire power over his offspring, both of fortune and fife; he conid ell them or imprison them at any time of their lives, or in any ttations to which they were arrived. The father might expose his clnldren, if bom witii any deformities, having previoasly eommunicated bis intentions to his five next of kindred. Our lawgiver seemed moze kind even to his enemies, for his subjectswere prt^hited from killing them after they bad surren- dM«d, m even from sdling them: his ambition only aiaied at .,Coo many endeaToiiTs to inoraase bia BnbjeotBi aad m mmy Inra to r^nlate them, he next gave ordeis to ascertna tbeir numbers. Tbb whole amoanled bat to three tbooMnd foot, and about as many bnndred horsemen, capable of beari^ arms. These, therdbre were divided equally into three tribes, and to each he asiigaed a different part of the taty. Each of these tribes were sabdivided into ten cmin or compame, consiBting of an hundred men each, with a oentnrioB to command it, a priest c^ed curio to perform the sacrifioes, and two of the principal inhatntants, called duumviri, to distribute jnstioe. Aocordijigly to the number of ooriv he divides the lands into thirty parts, reserving one portion for public uses, and another for religiaus ceremonies. Tbo «m- phaty and fingality of tha times will be best iindeistood by observing, that dach citizen had not id>ove two ictea of ground for his owB subsistence. Of the horsemen mentioned above, dtere were chosen ten from eei^ curia; tfaey were particularly appointed to fi^t round the person of the king; of them hU gaud was composed, and from tbeir alacrity in battle, or fhuB the >ame of their first commander, ^ey were called ceUrat, a word equivalent to our light horsemen. A goremmcot thus wisely instituted, it may be suppoaed, nduced numbers to come and live under it: each day added to its strength, maltitudes flocked in from all the adjacent towns, and it only seemed to waqt women to ascertain its duration. In this exiaeiatx, Romulus, by the advice of the senate, sent deputies among the Sabines, his neighbours, entreatingtheir alliance, and upon these terms- ofiering to cement the most strict confederacy with them. The Sabines, who were then considered as the moat warlike people of Italy, r^ected the proposition with disdain, and some even added raillery to the refusal, demanding, that as he had opened a sanctuary for fugitive slaves, why he had not also opened another for prostitute women. Tbis answer quickly raised the indignation of the Rpmans; and the king, in order to gratify their resentaient, while he at the same time should people hb ci^, resolved to obtain by force what was denied to intrea^. For this purpose he proclaimed a feast, in honour of N^tane, diron^ut all the nMghboitring villagea, and made the meet KAPB OF THK BABINBS. t mmgaiAMat pnftamtkmi for it Tbets feuta wen guan^ preceded by sacrifices, and ended in shows of wreeden, ^ft- diaton, and chariot-^onrses. The Salnnes, as he had expected, were among the foremost who came to be spectalon^ fannging their wives and daughters with them to share t^ pkasore of the sight. The inhabitants also of maaj of tht ueig^hoariDg to^os came, who were received by the RomaM with marks of the most cordial hospitality. lo the mean time the games began, and while the strangers were most intent upon the spectacle, a number of the Roman yonth rushed la mnoag them wiUi drawn swords seized the yotingedt and meet beaatilid women, and earned them off by violence., In vain the parents protested against this bre&cfa of hospitali^; in vain the virgins themselves at first opposed the attempts of th^ raviBfaers; perseverance and caresses obtained those &• TOWS which timidi^ at firstdenied: so that the betrayera, frma being objects of aversion, soon became partners of their dearest affections. But however the afiront might have been botne by them, it was not BO easily pnt up by their parents; a bloody war ei^ sued. The cities of Cenioa, Antemna, and Cnutuminm, wen the &at who resolved to revenge the common cause, which the Salnses seemed too dilatory in pursuing. These, by making aeparate inroads, becamea more easy conquest to Romulus, who first ovothrew the Ceoinenses, slew dieir king Acron in sio combat, -and made an offering of the royal spoils to Jupiter Feretrius, on the spot where the capitol was afterwards built The Antemnates and Crustuminians shared the same. fate; their armies were overthrowu, and their cities takes. The conqueror, however, made the most merciful use of las victny; for instead (rf destroying their towns, or lessemi^l tbent nnmbeis, he only placed colonies of Romana in them, to. serve as a frontier to repress more distant invasions.Tattos, king of Cures, a Sabine city, was the last, althou^ the most formidable who undertook to cevuige the disgrace his country had suffered. He entered the Roman territoriea at the head of twenty-five thousand men| and not content with a superiority of forces, he added stratagem also. Tarpeia, who was daughter to the commander of. the Cajutolme hill, happened to &11 into his hands, as she went without 4>e walls of the city to fetch water. Upon her he prevailed, by meant of hrga pttuSaet, to bebrajr aae of the ^^ates to his army. Tlie i«<irwd she eagdgei for was vfaat the soldiers wore on their atteB, by vfaich the meaot their bracelets. They, however, cotber miataking^ her meaning, or wiUing to panish her peifidy, ttvew tlieir bncklera upon her as they entered, and crushed ber to death beneath them. The Sabines, being thus possessed of the Capitoline, had the advantage of continning the War at tbeir pleasure; and for some time only slight enconnters passed between them. At length, however, the tedionsness of this contest began to weary out both parties, so that each wished, but neither would stoop to sue for peace. The desire of peace ofteii gives vigour to measures in war ; wherefore boUt sides resolving to terminate their doubts by a detMsive action, a general engagement ensued, which was renewed for several days, with almost equal success. They both fon^t for all that was vEduable in life, and neither could think of submitting: it was in the valley between the Capitoline and Qui- rinal hills, that the last engagement was fought between the Romans and the Sabines. The engem«it became general, and the slaughter prod^ioua, when the attention of both sides was suddenly turned from the scene of horror before them, to (mother infinitely more striking. The Sabine women, who h^ been carried off by the Romans, were seen with their hair loose and iheir ornaments neglected, fiying in between tbe combatants, regardless of their own danger, and with loud outcries only solicitous for that of their parents, their husbands, and their cUIdren. " If," cped ihey, " you are resolved upon daughter, turn your atma upon us, since we only are the cause <tf your animosity. If any must die, let it be us; since if oar parents orour husbands faU, we must be equally miserable in being the surviving cause." A spectacle so moving could not be resisted by the combatants; both sides for a wtiile, as if by mutual impulse, let fall their weapons, and beheld the distress - in silent wnazement The tears and entreaties of thdr wives and daughters at length prevaUed; an accommodation ensued, by which it was' agreed, that Romulus and Tatius should t«ign jointly in Rome, with equal power and prerogative; diat an bailed Sabines should be admitted into the senate; that the city should still retain its farmer name, but that As citizens should bctdled Qnirites, after Cures, the principal town of the Sabines; and that both nations being thus united. 11 •aoh of the Sabtees u i^ose it shoiM be sdnAted to Bniad eDJoy all the privilegea of citizens oi Rome. llaH erery •torm, vhich seemed to threateo this growing empire, only served to increase itvigour. That army, wfaich in die mondug had resolved upon its destruction, came in the evetlin^ with j(^ to be enrolled uiDoag the number of its ctttzens. RomfoloB saw his dominions and his sul^ects increased by more then half in the space of a few hours; and, as if fortune meant every way to assist his greatness, Tatins, his partner in the govem- ment, was killed about five years after by the Lavinians, for having protected some servants of his, who had plundered them and slain their ambassadors; so that by this accident Romulus once more saw himself sole monarch of Rome. Rome being greatly strengthened by this new acquisition of power, began to grow formidable to her neighbours ; and it -aiay be supposed, that pretexts for war were not wanting, when prompted by jealousy on their ride, and by ambition on that of the Romans. Fidena and Cameria, two oe^hbonring cities, were stibdoed and tAken. Veii also, one of the most power Ail states of Etruria, shared nearly the same fate; after two fierce engagements tiiey sued ftM* a peace and a league, which was granted upon giving np the seventh part of tbev dominions, their salt-pits near the river, and hostages for greater security. Successes like these produced an equal share of pride in the oonqneror. From being contented with those limits which had been wisely fixed to his power he began to affect absolute sway, and to govern those laws, to which he had himself formerly professed implicit obedience. The senate was particularly displeased at his conduct, finding themselves only used as instrom^its to ratify the rigour of his commands. We are not told the precise manner which they made use of to get rid of the tyrant: some say that be was torn in pieces in the senate botise; otiters that he disappeared while reviewing his army: eertain it is, that from the secrecy of the fact, and the concealment of the body, tbey took occasion to persuade the multitude, that he was taken np into heaven; thus him whom they oonld not bear as a king, tbey were contented to worship as a god: Romnlns reigned tlnrty-seven yean, and after his death bad a temple built to turn under the name of Quirinus, one of the Hwrton wilwMly vffiiniaff, that be had appeared to hm, and desired to be isTtAed by that tide. We see little more in the obaraeter of this princ, than vhat mi^t be expected in andk an a^, great temperance and great valour, wbich generally make np the catalt^e of sar^^e virtues. Howeva, the gnndenr of an empire, admired by the whole irorid, creates in u an adnuration of tiie founder, viftoat mnch raamimng' hia. Grice: “Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s easy enough to check his references to other Italian philosophers – not just Vico, as I have done – but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero – and perhaps more importantly his influence on the so-called Neapolitan Hegelians!” -- Ottavio Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi, Cacciatore, Macchiaveli, Lazio, Romolo e Remo, Kant, categoric imperative, massima, first-hand knowledge of Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico – il kantismo di Colecchi – l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario kantiano in Colecchi – analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio necessario – Romolo e Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno, Giove, etimologia di Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di Roma, diritto romano, psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto, la passione, la ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione, l’agire como reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la rifutazione di Vico all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di Bentham, lo caduco e lo no caduco, ius naturale, ius artificiale, ius como la virtu unica, giustizia equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia distritutiva, l’ordine aritmetico e l’ordine geometrico – progression arimmetica, progressioe geometrica, la base matematica della filosofia di Colecchi, l’amore, amore interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo, padre e figlio, uomo come cittadino, il genere umano, la massima universalisabile, l’onesto, fortezza, prudenza, toleranza, virtu, vizio, il vero versus il certo, la nascita della morale dal ordine agglomerazione sociale, la potesta naturale, il dominio, la tutela, la liberta, libero arbitrio e passione, autorita e ragione, forza, autorita e raggione, l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo dell’avo, la societa di equali, il modello della societa romana antica, la societa dell’amicizia, Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come requisite del patto sociale, la parola e il concetto, la formola della parola, verbum/res, res pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine: primo stato dell’uomo in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di inequali, padre/figlio, terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo, il paese di Romolo, il genero umano, diritto universale di Vico e Kant, Hampshire on Vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Colletti: la ragione conversazionale e  l’implicatura conversazionale dei curiazi, ovvero, politica romana – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Colletti – he takes political philosophy seriously unlike we of the Lit. Hum, not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman and has all the Orazi and Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a Roma. “Partito Socialista Italiano”. Altre saggi: “Il marxismo e Hegel, in Lenin, Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, Ideologia e società, Bari, Laterza, Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, e con Claudio Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista politico-filosofica, con un saggio su Marxismo e dialettica, Roma-Bari, Laterza, Il marxismo e il "crollo" del capitalismo, a cura di, Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo e no, Roma-Bari, Laterza, Tramonto dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a oggi; Dialettica e non-contraddizione; Kelsen e il marxismo], Roma-Bari, Laterza, Crisi delle ideologie. Intervista politico-filosofica, Il marxismo, Le ideologie dal '68 a oggi, Milano, Club degli editori, Pagine di filosofia e politica, Milano, Rizzoli, La logica di Benedetto Croce, Lungro di Cosenza, Marco, Fine della filosofia e altri saggi, Roma, Ideazione, Lezioni tedesche. Con Kant, alla ricerca di un'etica laica, Roma, Liberal, È morto C. voce "contro" di Forza Italia, su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo Parlamentare di Forza Italia, Ricordo di C., Roma, Stampa e servizi, Orlando Tambosi, Perché il marxismo ha fallito C. e la storia di una grande illusione, Milano, Mondadori, Ministero per i beni e le attività culturali, C.: il cammino di un filosofo contemporaneo, Roma, Essetre, Pino Bongiorno, Ricci, C. scienza e libertà, Roma, Ideazione, Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, Manifesto libri. C., LaTreccani L'Enciclopedia Italiana.  C. su Camera XIII legislatura, Parlamento italiano. Lucio Colletti, su CameraXIV legislatura, Parlamento italiano. La storia di C. di Preve, nel sito Kelebek Roma. Partito Comunista Italiano” Forza Italia”. Il saggio di C. Marxismo e dialettica fu scritto «a chiarimento di alcuni temi toccati» nell’intervista apparsa sulla “New Left Review”, e pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista. Più esattamente Colletti si propone di chiarire la «differenza tra opposizione reale (la Realopposition o Realrepugnanz di Kant) e contraddizione dialettica. Si tratta di opposizioni radicalmente diverse: la prima è «senza contraddizione (ohne Widerspruch)», la seconda è «per contraddizione (durch den Widerspruch). La opposizione dialettica è espressa dalla formula A non-A, nella quale ciascun opposto è solo la negazione dell’altro, ma non è niente in sé e per sé. I poli dell’opposizione sono cioè ambedue negativi, più esattamente ciascuno è la negazione dell’altro, ma solo all’interno dell’unità con l’altro. Quindi «entrambi gli opposti sono negativi, nel senso che sono ir-reali, non-cose (Undinge), ma idee». Ciascun opposto ha la sua essenza fuori di sé, nell’altro di cui è la negazione. L’origine dell’opposizione dialettica, e della stessa dialettica, è platonica: l’unità degli opposti è la koinona ton genon. L’opposizione reale è espressa dalla formula A e B, nella quale ciascun opposto sussiste di per sé, è positivo, e perciò è esclusivo dell’altro. La cosa più importante è che Biscuso. Opposizione reale, contraddizione logica e contraddizione dialettica 4 «nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà (Gegenverhältnis), gli estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga indicato come il contrario negativo dell’altro. Questo accade ad esempio quando ci rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione contraria: il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo qualcosa possiamo rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di contrarietà che è l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso che uno dei due termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè come non-essere». Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il pdnc, proprio perché sono senza contraddizione (dove è già implicito, come sarà confermato in seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il marxismo non ha mai avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi generi di opposizione, e non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con sufficiente rigorosità il suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la dialettica delle idee è al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso preciso che è impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si presta attenzione, si vede subito che il rapporto finito-infinito, essere-pensiero, segue il modello della contraddizione A non-A. Fuori l’uno dell’altro, cioè al di fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi astratti, irreali, e l’unità che include il finito e il falso infinito (falso perché altrettanto finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al finito) è l’Idea, il vero infinito. Dunque, commenta C., «dov’era la cosa è ora subentrata la contraddizione logica (– si badi bene: contraddizione logica e non, come ci si attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il «dramma del marxismo» è aver «ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana della materia, scambiandola per una forma superiore di materialismo. Dramma, perché quella dialettica era volta: a) alla distruzione del finito, b) alla negazione del pdnc; cioè proprio a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi da cui si deve necessariamente muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul pdnc, «è il solo modo di apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo). Avvertiti di questa difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni marxisti polacchi e tedesco-orientali cercarono di mostrare che «ciò che i “materialisti dialettici” presentano come contraddizioni nella natura sono, in realtà, contrarietà, cioè opposizioni ohne Widerspruch; e che, dunque, il marxismo può benissimo continuare a parlare di conflitti e di opposizioni oggettive, senza, per questo, essere costretto a dichiarare guerra al principio di (non-)contraddizione e mettersi così in rotta con la scienza. Tali risultati convergevano con quelli della ricerca di Volpe: a costo di liquidare gran parte dell’opera filosofica di Engels in quanto fonte del Diamat, sembrava però legittimarsi l’aspirazione del marxismo a costituirsi come la fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società. In realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a che fare con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione dell’astratto, filosofia-italiana.net l’inversione di soggetto e predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava nella struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa. Vi sono dunque «due Marx» (99): lo scienziato dell’economia politica e il critico dell’economia politica. Questo significa riconoscere i limiti della stessa lettura dellavolpiana, che condivide con molte altre letture marxiste il difetto di non cogliere le due facce del pensiero di Marx. «Quando il marxismo è una teoria scientifica del divenire sociale, è tutt’al più una “teoria del crollo”1, ma non una teoria della rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria della rivoluzione, essendo solo una “critica dell’economia politica”, rischia di risultare il progetto di una soggettività utopica. Dunque per lo stesso Marx le contraddizioni del capitalismo sono non opposizioni reali, bensì contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola. Da un passo delle Teorie sul plusvalore (la possibilità della crisi è la possibilità che momenti che sono inseparabili si separino e quindi vengano riuniti violentemente) C. conclude che i poli dell’opposizione, separandosi, si sono fatti reali, pur non essendolo veramente: «sono, in breve, un prodotto dell’alienazione, sono entità per sé irreali seppur reificate. Teoria dell’alienazione e teoria della contraddizione, dunque, come una sola e identica teoria. la contraddizione nasce dal fatto che l’aspetto individuale e quello sociale del lavoro, pur essendo intimamente connessi, si danno un’esistenza separata. È la contraddizione di individuo e genere, di natura e cultura, già rilevata dai maggiori analisti della società civile borghese del Settecento. «La società moderna è la società della divisione (alienazione, contraddizione). Ciò che un tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È rotta l’“unità originaria” dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo, dove l’unità, essendo data, non deve essere spiegata, mentre è da spiegare la divisione. «Seppure modificato, riaffiora lo schema della filosofia della storia di Hegel. E questo, ci si scopre essere il secondo volto di Marx, accanto a quello dello scienziato, naturalista e empirico. Hegel versuchte, um die von ihm vertretene Dialektik (im Sinne einer Lehre von den Gegensätzen in den Dingen) durchzusetzen, die Logik in einer Weise zu erweitern (sog. dialektische Logik), die den Satz vom Widerspruch außer Geltung setzt. Damit versuchte Hegel, die Kantische Widerlegung des sogenannten Dogmatismus in der Metaphysik zu umgehen. Der Wissenschaftstheoretiker Karl Popper kommentiert: „Diese Widerlegung Kants betrachtet Hegel als gültig nur für Systeme, die metaphysisch in seinem engeren Sinne sind, jedoch nicht für den dialektischen Rationalismus, der die Entwicklung der Vernunft berücksichtigt und deshalb Widersprüche nicht zu fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische Kritik in dieser Weise umgeht, stürzt er sich in ein äußerst gefährliches Abenteuer, das zur Katastrophe führen muss; denn er argumentiert etwa folgendermaßen: ‚Kant widerlegte den Rationalismus durch die Feststellung, er müsse zu Widersprüchen führen. Dies gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses Argument seine Stärke aus dem Gesetz vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur solche Systeme, die dieses Gesetz akzeptieren, also solche, die beabsichtigen, frei von Widersprüchen zu sein. Das Argument ist nicht gefährlich für ein System wie das meinige, das bereit ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für ein dialektisches System.‘ Es besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen Dogmatismus von äußerst gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der keinerlei Angriff mehr zu fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie]. Denn jeder Angriff, jede Kritik irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode stützen, irgendwelche Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie selbst oder zwischen einer Theorie und irgendwelchen Fakten. Logisches Quadrat  Das logische Quadrat Unter der Voraussetzung, dass ihre Subjekte keine leeren Begriffe sind, bestehen zwischen den unterschiedlichen Aussagentypen verschiedene Beziehungen:  Zwei Aussagen bilden einen kontradiktorischen Gegensatz genau dann, wenn beide weder gleichzeitig wahr noch gleichzeitig falsch sein können, mit anderen Worten: Wenn beide unterschiedliche Wahrheitswerte haben müssen. Das wiederum ist genau dann der Fall, wenn die eine Aussage die Negation der anderen ist (und umgekehrt). Für die syllogistischen Aussagentypen trifft das kontradiktorische Verhältnis auf die Paare A–O und I–E zu. Zwei Aussagen bilden einen konträren Gegensatz genau dann, wenn sie zwar nicht beide zugleich wahr, wohl aber beide falsch sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar A–E in konträrem Gegensatz. Zwei Aussagen bilden einen subkonträren Gegensatz genau dann, wenn nicht beide zugleich falsch (wohl aber beide zugleich wahr) sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar I–O in subkonträrem Gegensatz. Zwischen den Aussagetypen A und I einerseits und E und O andererseits besteht ein Folgerungszusammenhang (traditionell wird dieser Folgerungszusammenhang im logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus A folgt I, d. h., wenn alle S P sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P sind; und aus E folgt O, d. h., wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich S, die nicht P sind. Diese Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter dem Namen „Logisches Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung). Die älteste bekannte Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem zweiten nachchristlichen Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros zugeschrieben. Orazi e Curiazi figure leggendarie dell'antica Roma Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Orazi e Curiazi (disambigua). Gli Orazi e i Curiazi sono figure leggendarie della Roma antica.   Il giuramento degli Orazi, di David, Museo del Louvre Leggenda Secondo la versione riportata da Tito Livio (Hist.), durante il regno di Tullo Ostilio. Roma e Alba Longa entrarono in guerra, affrontandosi con gli eserciti schierati lungo le Fossae Cluiliae(sull'attuale via Appia Antica), al confine fra i loro territori.  Ma Roma e Alba Longa condividevano attraverso il mito di Romolo una sacra discendenza che rendeva empia questa guerra, perciò i rispettivi sovrani decisero di affidare a due gruppi di rappresentanti le sorti del conflitto fra le due città, evitando ulteriori spargimenti di sangue.  Furono scelti per Roma gli Orazi, tre fratelli figli di Publio Orazio, e per Alba Longa i tre gemelli Curiazi, che si sarebbero affrontati a duello alla spada. Livio afferma che gli storici non erano concordi nello stabilire quale delle due triadi fosse quella romana; propende per gli Orazi perché la maggior parte degli studiosi sceglie quella versione.  Iniziato il combattimento, quasi subito due Orazi furono uccisi, mentre due dei Curiazi riportarono solo lievi ferite; il terzo Orazio, che non avrebbe potuto affrontare da solo tre nemici, trovandosi in difficoltà, pensò di ricorrere all'astuzia e finse di scappare verso Roma. Come aveva previsto, i tre Curiazi lo inseguirono, ma nel correre si distanziarono fra loro, perché, feriti in modo differente, inseguivano a velocità differenti.  Per primo fu raggiunto dal Curiazio che non era stato ferito e, voltandosi a sorpresa, lo trafisse. Riprese a correre e fu raggiunto da ciascuno degli altri due, che a causa delle ferite erano sfiniti, e gli fu facile ucciderli uno alla volta. La vittoria dell'Orazio fu la vittoria di Roma, cui Alba Longa si sottomise.  Camilla Orazia, sorella dell'Orazio superstite, era promessa sposa di uno dei Curiazi uccisi e rimproverò violentemente del delitto il fratello, tanto che questi la uccise per farla tacere. Per purificarsi dovette passare sotto il giogo del Tigillum Sororium, che da allora i Romani festeggiavano come rito di purificazione dei soldati ogni 1º ottobre. Inoltre, per il processo al delitto di perduellio (delitto contro le libertà del cittadino, reato che in realtà fu istituito dopo la fase regia di Roma), di cui si era macchiato uccidendo Camilla Orazia, la cui vita - essendo ella estranea al duello pattuito - era sacra per legge, Tullo Ostilio istituì, secondo la leggenda rielaborata nel tempo, dei giudici appositi: i duumviri perduellionis (anch'essi da ricondurre, in realtà, alla successiva fase repubblicana).  Le parentele fra Orazi e Curiazi erano ulteriormente intrecciate, secondo versioni successive della leggenda, essendo Sabina - nativa di Alba Longa ma romana d'adozione - sia sorella di uno dei Curiazi sia moglie di Marco Orazio.  Realtà storica Il cosiddetto Sepolcro degli Orazi e Curiazi ad Albano Laziale Nell'antica Roma si trovano testimonianze di età augustea attinenti alla leggenda, come una colonnadel Foro alla quale sarebbero state appese le spoglie dei Curiazi e il Mausoleo degli Orazi al sesto miglio della via Appia.  Ad Albano Laziale, lungo l'attuale via della Stella, si trova un sepolcro tardo-repubblicano detto degli "Orazi e Curiazi", ma si ipotizza che sia tomba di altri personaggi.  Nella realtà la guerra fra Roma e Alba Longa fu cruenta e il re della città sconfitta, Mezio Fufezio, venne squartato.  C'è chi indica San Giovanni in Campo Orazio, nel territorio di Poli, come luogo dove avvenne la cruenta battaglia.  Orazi e Curiazi nelle artiModifica Gli eroi di questa disfida sono citati da Dante (Che i tre a' tre pugnar per lui ancora, Par. VI, 39), a essi è dedicata la Sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio.  TeatroModifica Sulla vicenda degli Orazi e Curiazi si basano alcune opere liriche:  Gli Orazi e i Curiazi di Domenico Cimarosa, opera in tre atti su libretto di Antonio Simeone Sografi, la cui prima esecuzione ebbe luogo al Teatro La Fenice di Venezia Orazi e Curiazi di Saverio Mercadante, opera in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano, eseguita per la prima volta al teatro San Carlo di Napoli. The Horatian - Three Songs di Heiner Goebbels Orazi e Curiazi è anche uno dei drammi didattici scritti da Bertold Brecht. CinemaModifica Orazi e Curiazi, cortometraggio muto. Orazi e Curiazi, film di Ferdinando Baldi e Terence Young. Orazi e Curiazi, film-rivisitazione in chiave farsesca del mito. Curiosità  La vicenda dello scontro tra gli Orazi e i Curiazi viene rievocata nella miniserie "L'ombra nera del Vesuvio" di Steno con Massimo Ranieri, Carlo Giuffré e Claudio Amendola. Molto evidente il riferimento al mito quando, per regolare i conti tra due clan, si scelgono tre rappresentanti per ciascuna delle due organizzazioni criminali: i fratelli Carità, figli del boss Don Peppe Carità, e i tre fratelli Sposito per il clan di Gaetano Bonanno. Uno dei fratelli Carità è sposato con la sorella degli Sposito, e la stessa sorella dei Carità era promessa come sposa al più giovane degli Sposito. Anche le dinamiche del combattimento e le relative conseguenze sono identiche. Livio, Ab Urbe condita libri, Is quibusdam piacularibus sacrificiis factis quae deinde genti Horatiae tradita sunt, transmisso per viam tigillo, capite adoperto velut sub iugum misit iuvenem.Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di Bernardo Santalucia, Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di Bernardo Santalucia, Orazi e Curiazi, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma   Portale Mitologia Tullo Ostilio terzo re di Roma  Gens Horatia famiglie romane che condividevano il nomen Horatius  Il giuramento degli Orazi dipinto di Jacques-Louis David  Grice: “Colletti takes negation more seriously than Popper does. Colletti examines Hegel’s target, which is Kant’s distinction between ‘real opposition’ or ‘real repugnance’ and ‘dialectical contradiction.’ Both can combine. Hegel indeed wishes to go beyond the principle of non-contradiction instituted in Velia by Parmenides. The Italian language allows for some distinction that the English language doesn’t. There’s the opposto, which is combined of posto, posto is cognate with ponere, as in modus ponens, and it’s also the root for ‘positive’ (as opposed to negative, or strictly, togliere, tollere modus tollens – to deny). So the the posto, we have the opposto. On the other hand, there’s the ‘contra’, which translates Greek ‘anti’ – so that ‘apo-phasis’ becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate with ‘deixis,’ and so more to do with dictiveness and indicativeness than with ‘vocalisation’ qua ‘vox’ (if not with ‘vocation’ – cf. my extended use of ‘utterance’ to include the characterization of something that need not be linguistic or conventional but a characterization of a deed or a product which may be a ‘sound’ among others. The Germans deal with the ‘widerspruch’ but that’s THEIR problem. So to the posto we have the opposto. But after Cicero, the use of ‘contrario’ becomes important. Il contrario and l’opposto then pretty much covered all I failed to see back with my ‘Negation and privation,’ and my later lectures on ‘Negation’ simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and I, allow for the good old tilde ‘~’ being all we need!” Lucio Colletti. Keywords: curiazi, ovvero, filosofia romana, opposition, negazione, la contraddizione dialettica e la non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian, “Negation and Privation” “Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das Quadrat – contradictum – the deicticness of the dictum – contra – counter – anti – antithesis – apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario, l’opposto, contra-dictio and contrario, il contrario, il contradditorio, dialettica ateniese, dialettica oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colletti” – The Swimming-Pool Library. Colletti.

 

Luigi Speranza -- Grice e Colizzi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Norcia – filosofia perugina – filosofia umbra -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Norcia). Filosofo perugino. Filosofo umbro. Filosofo italiano. Norcia, Perugia, Umbria. Grice:“By focusing on ‘desire,’ focuses Collizi on Thales who famously, for fixing on the stars, de-fixed from the ground!” Grice: “If I had to chose one philosophical word I adore is ‘desideratum,’ and Collizi tells it right – while Short and Lewis doubt it, to desire is like to consider – and the ‘sidus’ is involved!” Compone il saggio “De amore fundamenta mundis ac ethicae”. C. si è appreso attraverso i riferimenti in Bruno e Mersenne. Il nucleo centrale dela sua filosofia consiste nell'unione dell'idea di dio come amore con uno spunto, totalmente ri-adattato, di derivazione platonica, secondo cui il reale è emanazione, a partire da livelli di purezza e deità più elevati. Facendo dell'amore la caratteristica principale di dio – IVS PATER, arriva a dire che il reale coincide con l'amore, in forme più o meno degradate. Da questo concetto fa derivare una forte istanza di svelamento. Nonostante l'apparente neutralità emotiva del reale, il vero fondamento divino, e quindi dell'universo, è l'amore. Il vero si consegue quindi applicando questo principio ad una apparenza fenomenica, in modo da svelarne il vero essere, cioè il principio di amore – Grice: “Not to be confused with my principle of conversational self-love!” -Il suo passo più celebre, tuttavia, riguarda l'etimologia della parola “de-sider-ium”, che collega all'espressione “de sidera”. Come una stella, infatti, un de-sider-io e qualcosa che percepiamo con i sensi, ma senza potere esperire direttamente l'amore che da loro scaturisce, così il “de-siderio” è mera APPARENZA sotto la quale si cela un bisogno. Il “de-siderio,” questo tendere all'apparenza, scompare completamente solo una volta compreso fino in fondo il fondamento dell'essere, nella “mystica copulatio” raggiungibile attraverso la filosofia. La sua filosofia quindi, sembra unire una forte istanza metafisica a un'altrettanto forte istanza etica, cercando nel reale una fondamentale armonia di senso che è compito di ogni uomo, scopertala, riprodurre e preservare. Cf. Bruno, “De l'infinito, universo e mondi,” Bruno,“Praxis descensus seu applicatio entis,”D.Cantimori,“Storia ereticale” (Laterza). Bolgiani, “Ortodossia ed eresia : il problema storiografico nella storia e la situazione ortodossia-eresia agli inizi della storia (CELID). A compimento di questo settimo Libro ed in osservanza alla regola fin qui seguita, rimanci di far menzione di que'nostri Concittadini, che per meriti di santità, o per dottrina, ovvero per singolare valore nelle scienze,se ne resero meritevoli. E primo ci si presenta il Ven. Fr. Agostino da Norcia della famiglia C., emulo delle virtù del suo zio Fr. Giustino da noi ricordato Degl’eroici furori di Bruno Letteratura italiana Einaudi   Edizione di riferimento: Bruno Nolano, De gli eroici furori.Parigi, appresso Baio, in Dialoghi filosofici italiani, a cura di Ciliberto, Mondadori, Milano Letteratura italiana Einaudi Sommario Argomento del Nolano Avertimento a’ lettori Iscusazion  del Nolano de gli Eroici Furori Dialogo primo Dialogo secondo Dialogo Dialogo Dialogo Seconda parte de gli Eroici Furori Al molto illustre et eccellente cavalliero Signor Filippo Sidneo Bruno De gli eroici furori ARGOMENTO DEL NOLANO sopra GLI EROICI FURORI: scritto al molto illustre SIGNOR FILIPPO SIDNEO È cosa veramente, o generosissimo Cavalliero, da basso, bruto e sporco ingegno, d’essersi fatto constantemente studioso, et aver affisso un curioso pensiero circa o sopra la bellezza d’un corpo femenile. Che spettacolo (o Dio buono) più vile et ignobile può presentarsi ad un occhio di terso sentimento, che un uomo cogitabundo, afflitto, tormentato, triste, maninconioso: per dovenir or freddo, or caldo, or fervente, or tremante, or pallido, or rosso, or in mina di perplesso, or in atto di risoluto; un che spende il meglior intervallo di tempo, e gli più scelti frutti di sua vita corrente, destillando l’elixir del cervello con mettere in concetto, scritto, e sigillar in publichi monumenti, quelle continue torture, que’ gravi tormenti, que’ razionali discorsi, que’ faticosi pensieri, e quelli amarissimi studi destinati sotto la tirannide d’una indegna, imbecille, stolta e sozza sporcaria? Che tragicomedia? che atto, dico, degno più di compassione e riso può esserne ripresentato in questo teatro del mondo, in questa scena delle nostre conscienze, che di tali e tanto numerosi suppositi fatti penserosi, contemplativi, constanti, fermi, fideli, amanti, coltori, adoratori e servi di cosa senza fede, priva d’ogni costanza, destituta d’ogni ingegno, vacua d’ogni merito, senza riconoscenza e gratitudine alcuna, dove non può capir più senso, intelletto e bontade, che trovarsi possa in una statua, o imagine depinta al muro? e dove è più superbia, arroganza, protervia, orgoglio, ira, sdegno, falsitade, libidine, avarizia, ingratitudine et altri crimi exiziali, che avessero possuto uscir veneni et instrumenti di morte Bruno De gli eroici furori dal vascello di Pandora, per aver pur troppo largo ricetto dentro il cervello di mostro tale? Ecco vergato in carte, rinchiuso in libri, messo avanti gli occhi, et intonato a gli orecchi un rumore, un strepito, un fracasso d’insegne, d’imprese, de motti, d’epistole, de sonetti, d’epigrammi, de libri, de prolissi scartafazzi, de sudori estremi, de vite consumate, con strida ch’assordiscon gli astri, lamenti che fanno ribombar gli antri infernali, doglie che fanno stupefar l’anime viventi, suspiri da far exinanire e compatir gli dèi, per quegli occhi, per quelle guance, per quel busto, per quel bianco, per quel vermiglio, per quella lingua, per quel dente, per quel labro, quel crine, quella veste, quel manto, quel guanto, quella scarpetta, quella pianella, quella parsimonia, quel risetto, quel sdegnosetto, quella vedova fenestra, quell’eclissato sole, quel martello; quel schifo, quel puzzo, quel sepolcro, quel cesso, quel mestruo, quella carogna, quella febre quartana, quella estrema ingiuria e torto di natura: che con una superficie, un’ombra, un fantasma, un sogno, un circeo incantesimo ordinato al serviggio della generazione, ne inganna in specie di bellezza. La quale insieme insieme viene e passa, nasce e muore, fiorisce e marcisce; et è bella cossì un pochettino a l’esterno, che nel suo intrinseco vera e stabilmente è contenuto un navilio, una bottega, una dogana, un mercato de quante sporcarie, tossichi e veneni abbia possuti produre la nostra madrigna natura; la quale dopo aver riscosso quel seme di cui la si serva, ne viene sovente a paga d’un lezzo, d’un pentimento, d’una tristizia, d’una fiacchezza, d’un dolor di capo, d’una lassitudine, d’altri et altri malanni che son manifesti a tutto il mondo; a fin che amaramente dolga, dove suavemente proriva. Ma che fo io? che penso? son forse nemico della generazione? ho forse in odio il sole? Rincrescemi forse il mio et altrui essere messo al mondo? Voglio forse ridur gli uomini a non raccòrre quel più dolce pomo che può produr l’orto del nostro terrestre paradiso? Son forse io per impedir l’instituto santo della natura? Debbo tentare di suttrarmi io o altro dal dolce amaro giogo che n’ha messo al collo la divina providenza? Ho forse da persuader a me et ad altri, che gli nostri predecessori sieno nati per noi, e noi non siamo nati per gli nostri successori? Non voglia, non voglia Dio che questo giamai abbia possuto cadermi nel pensiero. Anzi aggiongo che per quanti regni e beatitudini mi s’abbiano possuti proporre e nominare, mai fui tanto savio o buono che mi potesse venir voglia de castrarmi o dovenir eunuco. Anzi mi vergognarei se cossì come mi trovo in apparenza, volesse cedere pur un pelo a qualsivoglia che mangia degnamente il pane per servire alla natura e Dio benedetto. E se alla buona volontà soccorrer possano o soccorrano gl’instrumenti e gli lavori, lo lascio considerar solo a chi ne può far giudicio e donar sentenza. Io non credo d’esser legato: perché son certo che non bastarebbono tutte le stringhe e tutti gli lacci che abbian saputo e sappian mai intessere et annodare quanti furo e sono stringari e lacciaiuoli, (non so se posso dir) se fusse con essi la morte istessa, che volessero maleficiarmi. Né credo d’esser freddo, se a refrigerar il mio caldo non penso che bastarebbono le nevi del monte Caucaso o Rifeo. Or vedete dumque se è la raggione o qualche difetto che mi fa parlare. Che dumque voglio dire? che voglio conchiudere? che voglio determinare? Quel che voglio conchiudere e dire, o Cavalliero illustre, è che quel ch’è di Cesare sia donato a Cesare, e quel ch’è de Dio, sia renduto a Dio. Voglio dire che a le donne, benché talvolta non bastino gli onori et ossequii divini, non perciò se gli denno onori et ossequii divini. Voglio che le donne siano cossì onorate et amate, come denno essere amate et onorate le donne; per tal causa dico, e per tanto, per quanto si deve a quel poco, a quel tempo e quella occasione, se non hanno altra virtù che naturale, cioè di quella bellezza, di quel splendore, di quel serviggio: senza il quale denno esser stimate più vanamente nate al mondo che un morboso fungo, qual con pregiudicio de meglior piante occupa la terra; e più noiosamente che qualsivoglia napello o vipera che caccia il capo fuor di quella. Voglio dire che tutte le cose de l’universo, perché possano aver fermezza e consistenza, hanno gli suoi pondi, numeri, ordini e misure, a fin che siano dispensate e governate con ogni giustizia e raggione. Là onde Sileno, Bacco, Pomona, Vertunno, il dio di Lampsaco, et altri simili che son dèi da tinello, da cervosa forte e vino rinversato, come non siedeno in cielo a bever nettare e gustar ambrosia nella mensa di Giove, Saturno, Pallade, Febo et altri simili: cossì gli lor fani, tempii, sacrificio e culti denno essere differenti da quelli de costoro. Voglio finalmente dire che questi furori eroici ottegnono suggetto et oggetto eroico: e però non ponno più cadere in stima d’amori volgari e naturaleschi, che veder si possano delfini su gli alberi de le selve, e porci cinghiali sotto gli marini scogli. Però per liberare tutti da tal suspizione, avevo pensato prima di donar a questo libro un titolo simile a quello di Salomone, il quale sotto la scorza d’amori et affetti ordinaria, contiene similmente divini et eroici furori, come interpretano gli mistici e cabalisti dottori: volevo (per dirla) chiamarlo Cantica. Ma per più caggioni mi sono astenuto al fine: de le quali ne voglio referir due sole. L’una per il timor ch’ho conceputo dal rigoroso supercilio de certi farisei, che cossì mi stimarebono profano per usurpar in mio naturale e fisico discorso titoli sacri e sopranaturali; come essi sceleratissimi e ministri d’ogni ribaldaria si usurpano più altamente che dir si possa gli titoli de sacri, de santi, de divini oratori, de figli de Dio, de sacerdoti, de regi: stante che stiamo aspettando quel giudicio divino che farà manifesta la lor maligna ignoranza et altrui dottrina, la nostra simplice libertà e l’altrui maliciose regole, censure et instituzioni. L’altra per la grande dissimilitudine che si vede fra il volto di questa opra e quella, quantunque medesimo misterio e sustanza d’anima sia compreso sotto l’ombra dell’una e l’altra: stante che là nessuno dubita che il primo instituto del sapiente fusse più tosto di figurar cose divine che di presentar altro; perché ivi le figure sono aperta e manifestamente figure, et il senso metaforico è conosciuto di sorte che non può esser negato per metaforico: dove odi quelli occhi di colombe, quel collo di torre, quella lingua di latte, quella fragranzia d’incenso, que’ denti che paiono greggi de pecore che descendono dal lavatoio, que’ capelli che sembrano le capre che vegnono giù da la montagna di Galaad. Ma in questo poema non si scorge volto che cossì al vivo ti spinga a cercar latente et occolto sentimento: atteso che per l’ordinario modo di parlare e de similitudini più accomodate a gli sensi communi, che ordinariamente fanno gli accorti amanti, e soglion mettere in versi e rime gli usati poeti, son simili a i sentimenti de coloro che parlarono a Citereida, a Licori, a Dori, a Cinzia, a Lesbia, a Corinna, a Laura et altre simili: onde facilmente ogn’uno potrebbe esser persuaso che la fondamentale e prima intenzion mia sia stata addirizzata da ordinario amore, che m’abbia dettati concetti tali; il quale appresso per forza de sdegno s’abbia improntate l’ali e dovenuto eroico; come è possibile di convertir qualsivoglia fola, romanzo, sogno e profetico enigma, e transferirle in virtù di metafora e pretesto d’allegoria a significar tutto quello che piace a chi più comodamente è atto a stiracchiar gli sentimenti: e far cossì tutto di tutto, come tutto essere in tutto disse il profondo Anaxagora. Ma pensi chi vuol quel che gli pare e piace, ch’alfine o voglia o non, per giustizia la deve ognuno intendere e definire come l’intendo e definisco io, non io come l’intende e definisce lui: perché come gli furori di quel sapiente Ebreo hanno gli proprii modi ordini e titolo che nessuno ha possuto intendere e potrebbe meglio dichiarar che lui se fusse presente; cossì questi Cantici hanno il proprio titolo ordine e modo che nessun può meglio dechiarar et intendere che io medesimo quando non sono absente. D’una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello per il che io mi essagito in questo proemiale argomento, dove singularmente parlo a voi eccellente Signore, e ne gli Dialogi formati sopra gli seguenti articoli, sonetti e stanze, è ch’io voglio ch’ogn’un sappia ch’io mi stimarei molto vituperoso e bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi fusse mai delettato o delettasse de imitar (come dicono) un Orfeo circa il culto d’una donna in vita, e dopo morte, se possibil fia, ricovrarla da l’inferno: se a pena la stimarei degna, senza arrossir il volto, d’amarla sul naturale di quell’istante del fiore della sua beltade, e facultà di far figlioli alla natura e dio; tanto manca che vorrei parer simile a certi poeti e versificanti in far trionfo d’una perpetua perseveranza di tale amore, come d’una cossì pertinace pazzia, la qual sicuramente può competere con tutte l’altre specie che possano far residenza in un cervello umano: tanto, dico, son lontano da quella vanissima, vilissima e vituperosissima gloria, che non posso credere ch’un uomo che si trova un granello di senso e spirito, possa spendere più amore in cosa simile che io abbia speso al passato e possa spendere al presente. E per mia fede, se io voglio adattarmi a defendere per nobile l’ingegno di quel tosco poeta che si mostrò tanto spasimare alle rive di Sorga per una di Valclusa, e non voglio dire che sia stato un pazzo da catene, donarommi a credere, e forzarommi di persuader ad altri, che lui per non aver ingegno atto a cose megliori, volse studiosamente nodrir quella melancolia, per celebrar non meno il proprio ingegno su quella matassa, con esplicar gli affetti d’un ostinato amor volgare, animale e bestiale, ch’abbiano fatto gli altri ch’han parlato delle lodi della mosca, del scarafone, de l’asino, de Sileno, de Priapo, scimie de quali son coloro ch’han poetato a’ nostri tempi delle lodi de gli orinali, de la piva, della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del martello, della caristia, de la peste; le quali non meno forse sen denno gir altere e superbe per la celebre bocca de canzonieri suoi, che debbano e possano le prefate et altre dame per gli suoi. Or (perché non si faccia errore) qua [non] voglio che sia tassata la dignità di quelle che son state e sono degnamente lodate e lodabili: non quelle che possono essere e sono particolarmente in questo paese Britannico, a cui doviamo la fideltà et amore ospitale: perché dove si biasimasse tutto l’orbe, non si biasima questo che in tal proposito non è orbe, né parte d’orbe: ma diviso da quello in tutto, come sapete; dove si raggionasse de tutto il sesso femenile, non si deve né può intendere de alcune vostre, che non denno esser stimate parte di quel sesso: perché non son femine, non son donne, ma (in similitudine di quelle) son nimfe, son dive, son di sustanza celeste; tra le quali è lecito di contemplar quell’unica Diana, che in questo numero e proposito non voglio nominare. Comprendasi dumque il geno ordinario. E di quello ancora indegna et ingiustamente perseguitarci le persone: perciò che a nessuna particolare deve essere impreparato l’imbecillità e condizion del sesso, come né il difetto e vizio di complessione: atteso che se in ciò è fallo et errore, deve essere attribuito per la specie alla natura, e non per particolare a gl’individui. Certamente quello che circa tai supposti abomino è quel studioso e disordinato amor venereo che sogliono alcuni spendervi, de maniera che se gli fanno servi con l’ingegno, e vi vegnono a cattivar le potenze et atti più nobili de l’anima intellettiva. Il qual intento essendo considerato, non sarà donna casta et onesta che voglia per nostro naturale e veridico discorso contrastarsi e farmisi più tosto irata, che sottoscrivendomi amarmi di vantaggio, vituperando passivamente quell’amor nelle donne verso gli uomini, che io attivamente riprovo ne gli uomini verso le donne. Tal dumque essendo il mio animo, ingegno, parere e determinazione, mi protesto che il mio primo e principale, mezzano et accessorio, ultimo e finale intento in questa tessitura fu et è d’apportare contemplazion divina, e metter avanti a gli occhi et orecchie altrui furori non de volgari, ma eroici amori, impiegati in due parti: de le quali ciascuna è divisa in cinque dialogi. argomento de’ cinque dialogi de la prima parte Nel Primo dialogo della prima parte son cinque articoli, dove per ordine: nel primo si mostrano le cause e principiii motivi intrinseci sotto nome e figura del monte, e del fiume, e de muse che si dechiarano presenti, non perché chiamate, invocate e cercate, ma più tosto come quelle che più volte importunamente si sono offerte: onde vegna significato che la divina luce è sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama e batte a le porte de nostri sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive: come pure è significato nella Cantica di Salomone dove si dice: En ipse stat post parietem nostrum, respiciens per cancellos, et prospiciens per fenestras. La qual spesso per varie occasioni et impedimenti avvien che rimagna esclusa fuori e trattenuta. Nel secondo articolo si mostra quali sieno que’ suggetti, oggetti, affetti, instrumenti et effetti per li quali s’introduce, si mostra e prende il possesso nell’anima questa divina luce: perché la inalze e la converta in Dio. Nel terzo il proponimento, definizione e determinazione che fa l’anima ben informata circa l’uno, perfetto et ultimo fine. Nel quarto la guerra civile che séguita e si discuopre contra il spirito dopo tal proponimento; onde disse la Cantica: Noli mirari quia nigra sum: decoloravit enim me sol, quia fratres mei pugnaverunt contro me, quam posuerunt custodem in vineis. Là sono esplicati solamente come quattro antesignani: l’Affetto, l’Appulso fatale, la Specie del bene, et il Rimorso; che son seguitati da tante coorte militari de tante, contrarie, varie e diverse potenze, con gli lor ministri, mezzi et organi che sono in questo composto. Nel quinto s’ispiega una naturale contemplazione in cui si mostra che ogni contrarietà si riduce a l’amicizia: o per vittoria de l’uno de’ contrarii, o per armonia e contemperamento, o per qualch’altra raggione di vicissitudine; ogni lite alla concordia, ogni diversità a l’unità: la qual dottrina è stata da noi distesa ne gli discorsi d’altri dialogi. Nel Secondo dialogo viene più esplicatamente descritto l’ordine et atto della milizia che si ritrova nella sustanza di questa composizione del furioso; et ivi: nel primo articolo si mostrano tre sorte di contrarietà: la prima d’un affetto et atto contra l’altro, come dove son le speranze fredde e gli desideri caldi; la seconda de medesimi affetti et atti in se stessi, non solo in diversi, ma et in medesimi tempi; come quando ciascuno non si contenta di sé, ma attende ad altro: et insieme insieme ama et odia; la terza tra la potenza che séguita et aspira, e l’oggetto che fugge e si suttrae. Nel secondo articolo si manifesta la contrarietà ch’è come di doi contrari appulsi in generale; alli quali si rapportano tutte le particolari e subalternate contrarietadi, mentre come a doi luoghi e sedie contrarie si monta o scende: anzi il composto tutto per la diversità de le inclinazioni che son nelle diverse parti, e varietà de disposizioni che accade nelle medesime, viene insieme insieme a salire et abbassare, a farsi avanti et adietro, ad allontanarsi da sé e tenersi ristretto in sé. Nel terzo articolo si discorre circa la conseguenza da tal contrarietade. Nel Terzo dialogo si fa aperto quanta forza abbia la volontarie in questa milizia, come quella a cui sola appartiene ordinare, cominciare, exeguire e compire; cui vien intonato nella Cantica: Surge, propera, columba mea, et veni: iam enim hiems transiit, imber abiit, flores apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit. Questa somministra forza ad altri in molte maniere, et a se medesima specialmente quando si reflette in se stessa, e si radoppia; all’or che vuol volere, e gli piace che voglia quel che vuole; o si ritratta, all’or che non vuol quel che vuole, e gli dispiace che voglia quel che vuole: cossì in tutto e per tutto approva quel ch’è bene e quel tanto che la natural legge e giustizia gli definisce: e mai affatto approva quel che è altrimente. E questo è quanto si esplica nel primo e secondo articolo. Nel terzo si vede il gemino frutto di tal efficacia, secondo che (per consequenza de l’affetto che le attira e rapisce) le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte; come per forza de vertiginoso appulso e vicissitudinal successo dicono che la fiamma s’inspessa in aere, vapore et acqua; e l’acqua s’assottiglia in vapore, aere e fiamma. In sette articoli del Quarto dialogo si contempla l’impeto e vigor de l’intelletto, che rapisce l’affetto seco, et il progresso de pensieri del furioso composto, e delle passioni de l’anima che si trova al governo di questa Republica cossì turbulenta. Là non è oscuro chi sia il cacciatore, l’ucellatore, la fiera, gli cagnuoli, gli pulcini, la tana, il nido, la rocca, la preda, il compimento de tante fatiche, la pace, riposo e bramato fine de sì travaglioso conflitto. Nel Quinto dialogo si descrive il stato del furioso in questo mentre, et è mostro l’ordine, raggione e condizion de studii e fortune. Nel primo articolo per quanto appartiene a perseguitar l’oggetto che si fa scarso di sé. Nel secondo quanto al continuo e non remittente concorso de gli affetti. Nel terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti. Nel quarto quanto al volontario volere. Nel quinto quanto a gli pronti e forti ripari e soccorsi. Ne gli seguenti si mostra variamente la condizion di sua fortuna, studio e stato, con la raggione e convenienza di quelli, per le antitesi, similitudini e comparazioni espresse in ciascuno di essi articoli. argomento de’ cinque dialogi della seconda parte Nel Primo dialogo della seconda parte s’adduce un seminario delle maniere e raggioni del stato dell’eroico furioso. Ove nel primo sonetto vien descritto il stato di quello sotto la ruota del tempo. Nel secondo viene ad iscusarsi dalla stima d’ignobile occupazione et indegna iattura della angustia e brevità del tempo. Nel terzo accusa l’impotenza de suoi studi gli quali quantunque all’interno sieno illustrati dall’eccellenza de l’oggetto, questo per l’incontro viene ad essere offoscato et annuvolato da quelli. Nel quarto è il compianto del sforzo senza profitto delle facultadi de l’anima mentre cerca risorgere con l’imparità de le potenze a quel stato che pretende e mira. Nel quinto vien rammentata la contrarietà e domestico conflitto che si trova in un suggetto, onde non possa intieramente appigliarsi ad un termine o fine. Nel sesto vien espresso l’affetto aspirante. Nel settimo vien messa in considerazione la mala corrispondenza che si trova tra colui ch’aspira, e quello a cui s’aspira. Nell’ottavo è messa avanti gli occhi la distrazzion dell’anima, conseguente della contrarietà de cose esterne et interne tra loro, e de le cose interne in se stesse, e de le cose esterne in se medesime. Nel nono è ispiegata l’etate et il tempo del corso de la vita ordinaria all’atto de l’alta e profonda contemplazione: per quel che non vi conturba il flusso o reflusso della complessione vegetante, ma l’anima si trova, in condizione stazionaria e come quieta. Nel decimo l’ordine e maniera in cui l’eroico amore tal’or ne assale, fere e sveglia. Nell’undecimo la moltitudine delle specie et idee particolari che mostrano l’eccellenza della marca dell’unico fonte di quelle, mediante le quali vien incitato l’affetto verso alto. Nel duodecimo s’esprime la condizion del studio umano verso le divine imprese, perché molto si presume prima che vi s’entri, e nell’entrare istesso: ma quando poi s’ingolfa e vassi più verso il profondo, viene ad essere smorzato il fervido spirito di presunzione, vegnono relassati i nervi, dismessi gli ordegni, inviliti gli pensieri, svaniti tutti dissegni, e riman l’animo confuso, vinto et exinanito. Al qual proposito fu detto dal sapiente: qui scrutator est maiestatis, opprimetur a gloria. Nell’ultimo è più manifestamente espresso quello che nel duodecimo è mostrato in similitudine e figura. Nel Secondo dialogo è in un sonetto, et un discorso dialogale sopra di quello, specificato il primo motivo che domò il forte, ramollò il duro, et il rese sotto l’amoroso imperio di Cupidine superiore, con celebrar tal vigilanza, studio, elezzione e scopo. Nel Terzo dialogo in quattro proposte e quattro risposte del core a gli occhi, e de gli occhi al core, è dichiarato l’essere e modo delle potenze cognoscitive et appetitive. Là si manifesta qualmente la volontà è risvegliata, addirizzata, mossa e condotta dalla cognizione; e reciprocamente la cognizione è suscitata, formata e ravvivata dalla volontade, procedendo or l’una da l’altra, or l’altra da l’una. Là si fa dubio se l’intelletto o generalmente la potenza conoscitiva, o pur l’atto della cognizione, sia maggior de la volontà o generalmente della potenza appetitiva, o pur de l’affetto: se non si può amare più che intendere, e tutto quello ch’in certo modo si desidera, in certo modo ancora si conosce, e per il roverso; onde è consueto di chiamar l’appetito cognizione, perché veggiamo che gli Peripatetici nella dottrina de quali siamo allievati e nodriti in gioventù, sin a l’appetito in potenza et atto naturale chiamano cognizione; onde tutti effetti, fini e mezzi, principii, cause et elementi distingueno in prima, media, et ultimamente noti secondo la natura: nella quale fanno in conclusione concorrere l’appetito e la cognizione. Là si propone infinita la potenza della materia, et il soccorso dell’atto che non fa essere la potenza vana. Laonde cossì non è terminato l’atto della volontà circa il bene, come è infinito et interminabile l’atto della cognizione circa il vero: onde ente, vero e buono son presi per medesimo significante, circa medesima cosa significata. Nel Quarto dialogo son figurate et alcunamente ispiegate le nove raggioni della inabilità, improporzionalità e difetto dell’umano sguardo e potenza apprensiva de cose divine. Dove nel primo cieco, che è da natività, è notata la raggione ch’è per la natura che ne umilia et abbassa. Nel secondo cieco per il tossico della gelosia è notata quella ch’è per l’irascibile e concupiscibile che ne diverte e desvia. Nel terzo cieco per repentino apparimento d’intensa luce si mostra quella che procede dalla chiarezza de l’oggetto che ne abbaglia. Nel quarto, allievato e nodrito a lungo a l’aspetto del sole, quella che da troppo alta contemplazione de l’unità, che ne fura alla moltitudine. Nel quinto, che sempre mai ha gli occhi colmi de spesse lacrime, è designata l’improporzionalità de mezzi tra la potenza et oggetto che ne impedisce. Nel sesto che per molto lacrimar have svanito l’umor organico visivo, è figurato il mancamento de la vera pastura intellettuale che ne indebolisce. Nel settimo cui gli occhi sono inceneriti da l’ardor del core, è notato l’ardente affetto che disperge, attenua e divora tal volta la potenza discretiva. Nell’ottavo, orbo per la ferita d’una punta di strale, quello che proviene dall’istesso atto dell’unione della specie de l’oggetto; la qual vince, altera e corrompe la potenza apprensiva, che è suppressa dal peso, e cade sotto l’impeto de la presenza di quello; onde non senza raggion talvolta la sua vista è figurata per l’aspetto di folgore penetrativo. Nel nono, che per esser mutolo non può ispiegar la causa della sua cecitade, vien significata la raggion de le raggioni, la quale è l’occolto giudicio divino che a gli uomini ha donato questo studio e pensiero d’investigare, de sorte che non possa mai gionger più alto che alla cognizione della sua cecità et ignoranza, e stimar più degno il silenzio ch’il parlare. Dal che non vien iscusata né favorita l’ordinaria ignoranza; perché è doppiamente cieco chi non vede la sua cecità: e questa è la differenza tra gli profettivamente studiosi, e gli ociosi insipienti: che questi son sepolti nel letargo della privazion del giudicio di suo non vedere, e quelli sono accorti, svegliati e prudenti giudici della sua cecità; e però son nell’inquisizione, e nelle porte de l’acquisizione della luce: delle quali son lungamente banditi gli altri. argomento et allegoria del quinto dialogo Nel Quinto dialogo, perché vi sono introdotte due donne, alle quali (secondo la consuetudine del mio paese) non sta bene di commentare, argumentare, desciferare, saper molto et esser dottoresse per usurparsi ufficio d’insegnare e donar instituzione, regola e dottrina a gli uomini; ma ben de divinar e profetar qualche volta che si trovano il spirito in corpo: però gli ha bastato de farsi solamente recitatrici della figura lasciando a qualche maschio ingegno il pensiero e negocio di chiarir la cosa significata. Al quale (per alleviar overamente tòrgli la fatica) fo intendere qualmente questi nove ciechi, come in forma d’ufficio e cause esterne, cossì con molte altre differenze suggettive correno con altra significazione, che gli nove del dialogo precedente: atteso che secondo la volgare imaginazione delle nove sfere, mostrano il numero, ordine e diversità de tutte le cose che sono subsistenti infra unità absoluta, nelle quali e sopra le quali tutte sono ordinate le proprie intelligenze che secondo certa similitudine analogale dependono dalla prima et unica. Queste da Cabalisti, da Caldei, da Maghi, da Platonici e da cristiani teologi son distinte in nove ordini per la perfezzione del numero che domina nell’università de le cose, et in certa maniera formaliza il tutto: e però con semplice raggione fanno che si significhe la divinità, e secondo la reflessione e quadratura in se stesso, il numero e la sustanza de tutte le cose dependenti. Tutti gli contemplatori più illustri, o sieno filosofi, o siano teologi, o parlino per raggione e proprio lume, o parlino per fede e lume superiore, intendano in queste intelligenze il circolo di ascenso e descenso. Quindi dicono gli Platonici che per certa conversione accade che quelle che son sopra il fato si facciano sotto il fato del tempo e mutazione, e da qua montano altre al luogo di quelle. Medesima conversione è significata dal pitagorico poeta, dove dice: Has omnes ubi mille rotam volvere per annos Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno: rursus ut incipiant in corpora velle reverti. Questo (dicono alcuni) è significato dove è detto in revelazione che il drago starà avvinto nelle catene per mille anni, e passati quelli sarà disciolto. A cotal significazione voglion che mirino molti altri luoghi dove il millenario ora è espresso, ora è significato per uno anno, ora per una etade, ora per un cubito, ora per una et un’altra maniera. Oltre che certo il millenario istesso non si prende secondo le rivoluzioni definite da gli anni del sole, ma secondo le diverse raggioni delle diverse misure et ordini con li quali son dispensate diverse cose: perché cossì son differenti gli anni de gli astri, come le specie de particolari non son medesime. Or quanto al fatto della rivoluzione, è divolgato appresso gli cristiani teologi, che da ciascuno de’ nove ordini de spiriti sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste basse et oscure regioni; e che per non esser quelle sedie vacanti, vuole la divina providenza che di queste anime che vivono in corpi umani siano assumpte a quella eminenza. Ma tra filosofi Plotino solo ho visto dire espressamente come tutti teologi grandi, che cotal rivoluzione non è de tutti, né sempre: ma una volta. E tra teologi Origene solamente come tutti filosofi grandi, dopo gli Saduchini et altri molti riprovati, have ardito de dire che la revoluzione è vicissitudinale e sempiterna; e che tutto quel medesimo che ascende ha da ricalar a basso: come si vede in tutti gli elementi e cose che sono nella superficie, grembo e ventre de la natura. Et io per mia fede dico e confermo per convenientissimo, con gli teologi e color che versano su le leggi et instituzioni de popoli, quel senso loro: come non manco d’affirmare et accettar questo senso di quei che parlano secondo la raggion naturale tra’ pochi, buoni e sapienti. L’opinion de quali degnamente è stata riprovata per esser divolgata a gli occhi della moltitudine; la quale se a gran pena può essere refrenata da vizii e spronata ad atti virtuosi per la fede de pene sempiterne, che sarrebe se la si persuadesse qualche più leggiera condizione in premiar gli eroici et umani gesti, e castigare gli delitti e sceleragini? Ma per venire alla conclusione di questo mio progresso: dico che da qua si prende la raggione e discorso della cecità e luce di questi nove, or vedenti, or ciechi, or illuminati; quali son rivali ora nell’ombre e vestigii della divina beltade, or sono al tutto orbi, ora nella più aperta luce pacificamente si godeno. All’or che sono nella prima condizione, son ridutti alla stanza di Circe, la qual significa la omniparente materia, et è detta figlia del sole, perché da quel padre de le forme ha l’eredità e possesso di tutte quelle le quali con l’aspersion de le acqui, cioè con l’atto della generazione, per forza d’incanto, cioè d’occolta armonica raggione, cangia il tutto, facendo dovenir ciechi quelli che vedeno: perché la generazione e corrozzione è causa d’oblio e cecità, come esplicano gli antichi con la figura de le anime che si bagnano et inebriano di Lete. Quindi dove gli ciechi si lamentano dicendo: Figlia e madre di tenebre et orrore, è significata la conturbazion e contristazion de l’anima che ha perse l’ali, la quale se gli mitiga all’or che è messa in speranza di ricovrarle. Dove Circe dice: Prendete un altro mio vase fatale, è significato che seco portano il decreto e destino del suo cangiamento, il qual però è detto essergli porgiuto dalla medesima Circe; perché un contrario è originalmente nell’altro, quantunque non vi sia effettualmente: onde disse lei, che sua medesima mano non vale aprirlo, ma commetterlo. Significa ancora che son due sorte d’acqui: inferiori sotto il firmamento che acciecano, e superiori, sopra il firmamento che illuminano: quelle che sono significate da Pitagorici e Platonici nel descenso da un tropico et ascenso da un altro. Là dove dice Per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti gli numerosi regni, significa che non è progresso immediato da una forma contraria a l’altra, né regresso immediato da una forma a la medesima: però bisogna trascorrere, se non tutte le forme che sono nella ruota delle specie naturali, certamente molte e molte di quelle. Là s’intendeno illuminati da la vista de l’oggetto, in cui concorre il ternario delle perfezzioni, che sono beltà, sapienza e verità, per l’aspersion de l’acqui che negli sacri libri son dette acqui de sapienza, fiumi d’acqua di vita etema. Queste non si trovano nel continente del mondo, ma penitus toto divisim ab orbe, nel seno dell’Oceano, dell’Amfitrite, della divinità, dove è quel fiume che apparve revelato procedente dalla sedia divina, che have altro flusso che ordinario naturale. Ivi son le Ninfe, cioè le beate e divine intelligenze che assistenti et amministrano alla prima intelligenza, la quale è come la Diana tra le nimfe de gli deserti. Quella sola tra tutte l’altre è per la triplicata virtude, potente ad aprir ogni sigillo, asciòrre ogni nodo, a discuoprir ogni secreto, e disserrar qualsivoglia cosa rinchiusa. Quella con la sua sola presenza e gemino splendore del bene e vero, di bontà e bellezza appaga le volontadi e gl’intelletti tutti: aspergendoli con l’acqui salutifere di ripurgazione. Qua è conseguente il canto e suono, dove son nove intelligenze, nove muse, secondo l’ordine de nove sfere; dove prima si contempla l’armonia di ciascuna, che è continuata con l’armonia de l’altra; perché il fine et ultimo della superiore è principio e capo dell’inferiore, perché non sia mezzo e vacuo tra l’una et altra: e l’ultimo de l’ultima per via de circolazione concorre con il principio della prima. Perché medesimo è più chiaro e più occolto, principio e fine, altissima luce e profondissimo abisso, infinita potenza et infinito atto, secondo le raggioni e modi esplicati da noi in altri luoghi. Appresso si contempla l’armonia e consonanza de tutte le sfere, intelligenze, muse et instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de’ mondi, l’opre della natura, il discorso de gl’intelletti, la contemplazion della mente, il decreto della divina providenza, tutti d’accordo celebrano l’alta e magnifica vicissitudine che agguaglia l’acqui inferiori alle superiori, cangia la notte col giorno, et il giorno con la notte, a fin che la divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l’infinita bontà infinitamente si communiche secondo tutta la capacità de le cose. Questi son que’ discorsi, gli quali a nessuno son parsi più convenevoli ad essere addirizzati e raccomandati che a voi, Signor eccellente: a fin ch’io non vegna a fare, come penso aver fatto alcuna volta per poca advertenza, e molti altri fanno quasi per ordinario, come colui che presenta la lira ad un sordo et il specchio ad un cieco. A voi dumque si presentano, perché l’Italiano raggioni con chi l’intende; gli versi sien sotto la censura e protezzion d’un poeta; la filosofia si mostre ignuda ad un sì terso ingegno come il vostro; le cose eroiche siano addirizzate ad un eroico e generoso animo, di qual vi mostrate dotato; gli officii s’offrano ad un suggetto sì grato, e gli ossequii ad un signor talmente degno qualmente vi siete manifestato per sempre. E nel mio particolare vi scorgo quello che con maggior magnanimità m’avete prevenuto ne gli officii, che alcuni altri con riconoscenza m’abbiano seguitato. vale. avertimento a’ lettori Amico lettore, m’occorre al fine da obviare al rigore d’alcuno a cui piacesse che tre de’ sonetti che si trovano nel primo dialogo della seconda parte de’ Furori eroici, siano in forma simili a gli altri, che sono nel medesimo dialogo: voglio che vi piaccia d’aggiongere a tutti tre gli suoi tornelli. A quello che comincia Quel ch’il mio cor, giongete in fine: Onde di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion si duole. A quello che comincia Se da gli eroi, giongete in fine: Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’e accende et èmmi a lato, farammi illustre, potente e beato. A quello che comincia Avida di trovar, giongete al fine: Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che lemmi a lungo infortunato amante. alcuni errori di stampa piùurgenti Piacciavi, benigno lettore, prima che leggere di corregere. Da A in sino a Q significano gli quinterni; il numero seguente quella lettera, significa la carta; f significa la faccia prima o seconda; l significa la linea. A 1, f 2, l 2: correte a’ miei dolori; A 2, f 1, li 12: ritenendolo da cose; f 2, li 30: homerica poesia; A 4, f 1, li 15: illustre mentre canto di morte cipressi et inferni; A 7, f 1, li 4: la gelosia sconsola; li 11: di regione; B 1, f 2, li 7: potran ben soli con sua diva corte; C 2, f 1, li 2: sappia certo che se quei; lin 4: seguite che parlino; li 23: son divini; C 7, f 2, l 15: suspicientes in; D 8, f 1, [l 26]: Alti, profondi; f 2, l 10, compagni del mio core; E 6, f 1, l 21: intrattiene in quel essere; F 1, f 1, li 16: dice quell’altezza; G 8, f 1, l 2: che fa volgar; I 2, f 1, li 17: per quanto mi si diè; K 5, f 2, li 19: Del gratioso sguardo apri le porte; L 6, f 2, li 21: XII, Cesa; L 7, f 1, l 10: da cure moleste; M 4, f 1, li 15: ergo; Cor.; N 5, f 1, lin penultima: Deucalion; O 3, f 1, li 14: hammi si crudament’ il spirto infetto; O 4, f 2, li 10: Il Nil d’ogn’altro suon; O 5, f 2, li 13: intromettea la luce; O 7, f 1, li 6: Aspra ferit’ empio ardor; li 13: appresso Dite; f 2, li ultima: in quello aspira per certo più; O 8, f 2, li ultima: alli quali si mostra, non proviene con misura di moto et tempo, come accade nelle; P 6, f 1, li antepenultima: quale chiumque have ingegno; P 7, f 1, li 12: Siam nove spirti che molt’anni; Q 1, f 1, li 10: Ch’io possa esprimere. Q 4, f 1, l 1: De le dimore alterne. ISCUSAZION DEL NOLANO alle più virituose e leggiadre dame De l’Inghilterra o vaghe Ninfe e Belle, non voi ha nostro spirt’ in schif’, e sdegna; né per mettervi giù suo stil s’ingegna, se non convien che femine v’appelle. Né computar, né eccettuar da quelle, son certo che voi dive mi convegna: se l’influsso commun in voi non regna, e siete in terra quel ch’in ciel le stelle. De voi, o Dame, la beltà sovrana nostro rigor né morder può, né vuole, che non fa mira a specie sopr’umana. Lungi arsenico tal quindi s’invole, dove si scorge l’unica Diana, qual è tra voi quel che tra gli astri il sole. L’ingegno, le parole e ’l mio (qualumque sia) vergar di carte faranv’ossequios’il studio e l’arte.   DE GLI EROICI FURORI Bruno De gli eroici furori DIALOGO PRIMO interlocutori Tansillo, Cicada. tansillo Gli furori dumque, atti più ad esser qua primieramente locati e considerati, son questi che ti pono avanti secondo l’ordine a me parso più conveniente. cicada Cominciate pur a leggerli. tansillo [1] Muse che tante volte ributtai, importune correte a’ miei dolori, per consolarmi sole ne’ miei guai con tai versi, tai rime e tai furori, con quali ad altri vi mostraste mai, che de mirti si vantan et allori; or sia appo voi mia aura, àncora e porto, se non mi lice altrov’ir a diporto. (3) O monte, o dive, o fonte ov’abito, converso e mi nodrisco; dove quieto imparo et imbellisco; alzo, avviv’, orno, il cor, il spirto e fronte: morte, cipressi, inferni cangiate in vita, in lauri, in astri eterni. 1. È da credere che più volte e per più caggioni le ributtasse, tra le quali possono esser queste. Prima perché, come deve il sacerdote de le muse, non ha possut’esser ocioso: perché l’ocio non può trovarsi là dove si combatte contra gli ministri e servi de l’invidia, ignoranza e malignitade. Secondo, per non assistergli degni protectori e difensori che l’assicurassero, iuxta quello. Non mancaranno, o Flacco, gli Maroni, se penuria non è de Mecenati. Appresso, per trovarsi ubligato alla contemplazion, e studi de filosofia: li quali se non son più maturi, denno però come parenti de le Muse esser predecessori a quelle. Oltre perché traendolo da un canto la tragica Melpomene con più materia che vena, e la comica Talia con più vena che materia da l’altro, accadeva che l’una suffurandolo a l’altra, lui rimanesse in mezzo più tosto neutrale e sfacendato, che comunmente negocioso. Finalmente per l’autorità de censori che ritenendolo da cose più degne et alte alle quali era naturalmente inchinato, cattivavano il suo ingegno: perché da libero sotto la virtù lo rendesser cattivo sott’una vilissima e stolta ipocrisia. Al fine, nel maggior fervor de fastidi nelli quali incorse, è avvenuto che non avend’altronde da consolarsi, accettasse l’invito di costoro, che son dette inebriarlo de tai furori, versi e rime, con quali non si mostraro ad altri: perché in quest’opra più riluce d’invenzione che d’imitazione. cicada Dite: che intende per quei che si vantano de mirti et allori? tansillo Si vantano e possono vantarsi de mirto quei che cantano d’amori: alli quali (se nobilmente si portano) tocca la corona di tal pianta consecrata a Venere, dalla quale riconoscono il furore. Possono vantarsi d’allori quei che degnamente cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici per la filosofia speculativa e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per specchio exemplare a gli gesti politici e civili. cicada Dumque son più specie de poeti e de corone? tansillo Non solamente quante son le muse, ma e di gran numero di vantaggio: perché quantunque sieno certi geni, non possono però esser determinate certe specie e modi d’ingegni umani. cicada Son certi regolisti de poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovidio, Marziale, Exiodo, Lucrezio et altri molti in numero de versificatori, esaminandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele. tansillo Sappi certo, fratel mio, che questi son vere bestie: perché non considerano quelle regole principalmente servir per pittura dell’omerica poesia o altra simile in particolare; e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e non per instituir altri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori, equali, simili e maggiori, de diversi geni. cicada Sì che come Omero nel suo geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che serveno a coloro che son più atti ad imitare che ad inventare; e son state raccolte da colui che non era poeta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia, in serviggio di qualch’uno che volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero: non di propria musa, ma scimia de la musa altrui. tansillo Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano da le poesie: e però tanti son geni e specie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti. cicada Or come dumque saranno conosciuti gli veramente poeti? tansillo Dal cantar de versi: con questo, che cantando o vegnano a delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme. cicada A chi dumque serveno le regole d’Aristotele? tansillo A chi non potesse come Omero, Exiodo, Orfeo et altri poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver propria musa, vuolesse far l’amore con quella d’Omero. cicada Dumque han torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti alcuni, o perché non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno principii de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non osservano la consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una istoria o favola con l’altra, o perché [non] finiscono gli canti epilogando di quel ch’è detto e proponendo per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine, per censure e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere che essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarrebono gli veri poeti, et arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son altro che vermi che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per rodere, insporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per propria virtude et ingegno, cercano di mettersi avanti o a dritto o a torto, per altrui vizio et errore. tansillo Or per tornar là donde l’affezzione n’ha fatto alquanto a lungo digredire: dico che sono e possono essere tante sorte de poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti et invenzioni umane, alli quali son possibili d’adattarsi ghirlande non solo da tutti geni e specie de piante, ma et oltre d’altri geni e specie di materie. Però corone a’ poeti non si fanno solamente de mirti e lauri: ma anco de pampino per versi fescennini, d’edera per baccanali, d’oliva per sacrifici e leggi; di pioppa, olmo e spighe per l’agricoltura; de cipresso per funerali: e d’altre innumerabili per altre tante occasioni. E se vi piacesse anco di quella materia che mostrò un galantuomo quando disse: O fra Porro poeta da scazzate, ch’a Milano t’affibbi la ghirlanda di boldoni, busecche e cervellate. Letteratura italiana Einaudi 27   Giordano Bruno De gli eroici furori cicada Or dumque sicuramente costui per diverse vene che mostra in diversi propositi e sensi, potrà infrascarsi de rami de diverse piante, e potrà degnamente parlar con le Muse: perché sia appo loro sua aura con cui si conforte, ancora in cui si sustegna, e porto al qual si retire nel tempo de fatiche, exagitazioni e tempeste. Onde dice: O monte Parnaso dove abito, Muse con le quali converso, fonte cliconio o altro dove mi nodrisco, monte che mi doni quieto aroggiamento, Muse che m’inspirate profonda dottrina, fonte che mi fai ripolito e terso; monte dove ascendendo inalzo il core; Muse con le quali versando avvivo il spirito; fonte sotto li cui arbori poggiando adorno la fronte; cangiate la mia morte in vita, gli miei cipressi in lauri, e gli miei inferni in cieli: cioè destinatemi immortale, fatemi poeta, rendetemi illustre, mentre canto di morte, cipressi et inferni. tansillo Bene, perché a color che son favoriti dal cielo, gli più gran mali si converteno in beni tanto maggiori: perché le necessitadi parturiscono le fatiche e studi, e questi per il più de le volte la gloria d’immortal splendore. cicada E la morte d’un secolo, fa vivo in tutti gli altri. Séguita. tansillo Dice appresso: In luogo e forma di Parnaso ho ’l core, dove per scampo mio convien ch’io monte; son mie muse i pensier ch’a tutte l’ore mi fan presenti le bellezze conte; onde sovente versan gli occhi fore lacrime molte, ho l’Eliconio fonte: per tai montagne, per tai ninfe et acqui, com’ha piaciut’al ciel poeta nacqui. Or non alcun de reggi, non favorevol man d’imperatore, non sommo sacerdot’, e gran pastore, mi dien tai grazie, onori e privileggi; ma di lauro m’infronde mio cor, gli miei pensieri, e le mie onde. 1. Qua dechiara: prima qual sia il suo monte, dicendo esser l’alto affetto del suo core; secondo, quai sieno le sue muse, dicendo esser le bellezze e prorogative del suo oggetto; terzo, quai sieno gli fonti, e questi dice esser le lacrime. In quel monte s’accende l’affetto; da quelle bellezze si concepe il furore; e da quelle lacrime il furioso affetto si dimostra. 2. Cossì se stima di non posser essere meno illustremente coronato per via del suo core, pensieri e lacrime, che altri per man de regi, imperadori e papi. cicada Dechiarami quel ch’intende per ciò che dice: il core in forma di Parnaso. tansillo Perché cossì il cuor umano ha doi capi che vanno a terminarsi a una radice, e spiritualmente da uno affetto del core procede l’odio et amore di doi contrarii; come have sotto due teste una base il monte Parnaso. cicada A l’altro. tansillo Dice: Chiama per suon di tromb’ il capitano tutti gli suoi guerrier sott’un’insegna; dove s’avvien che per alcun in vano udir si faccia, perché pronto vegna, qual nemico l’uccide, o a qual insano gli dona bando dal suo camp’e ’l sdegna: cossì l’alm’i dissegni non accolti sott’un stendardo, o gli vuol morti, o tolti. (2) Un oggetto riguardo, chi la mente m’ingombr’, è un sol viso, ad una beltà sola io resto affiso, chi sì m’ha punt’il cor è un sol dardo, per un sol fuoco m’ardo, e non conosco più ch’un paradiso. 1. Questo capitano è la voluntade umana che siede in poppa de l’anima, con un picciol temone de la raggione governando gli affetti d’alcune potenze interiori, contra l’onde de gli émpiti naturali. Egli con il suono de la tromba, cioè della determinata elezzione, chiama tutti gli guerrieri, cioè provoca tutte le potenze (le quali s’appellano guerriere per esserno in continua ripugnanza e contrasto) o pur gli effetti di quelle, che son gli contrariia pensieri; de quali altri verso l’una, altri verso l’altra parte inchinano: e cerca constituirgli tutti sott’un’insegna d’un determinato fine. Dove s’accade ch’alcun d’essi vegna chiamato in vano a farsi prontamente vedere ossequioso (massime quei che procedono dalle potenze naturali quali o nullamente o poco ubediscono alla raggione), al meno forzandosi d’impedir gli loro atti, e dannar quei che non possono essere impediti, viene a mostrarsi come uccidesse quelli, e donasse bando a questi: procedendo contra gli altri con la spada de l’ira, et altri con la sferza del sdegno. 2. Qua un oggetto riguarda, a cui è volto con l’intenzione. Per un viso, con cui s’appaga ingombra la mente. In una sola beltade si diletta e compiace; e dicesi restarvi affiso, perché l’opra d’intelligenza non è operazion di moto, ma di quiete. E da là solamente concepe quel dardo che l’uccide, cioè che gli constituisce l’ultimo fine di perfezione. Arde per un sol fuoco, cioè dolcemente si consuma in uno amore. cicada Perché l’amore è significato per il fuoco? tansillo Lascio molte altre caggioni, bastiti per ora questa: perché cossì la cosa amata l’amore converte ne l’amante, come il fuoco tra tutti gli elementi attivissimo è potente a convertire tutti quell’altri semplici e composti in se stesso. cicada Or séguita. tansillo Conosce un paradiso: cioè un fine principale, perché paradiso comunmente significa il fine, il qual si distingue in quello ch’è absoluto, in verità et essenza, e l’altro che è in similitudine, ombra e participazione. Del primo modo non può essere più che uno, come non è più che uno l’ultimo et il primo bene. Del secondo modo sono infiniti. Amor, sorte, l’oggetto e gelosia m’appaga, affanna, content’e sconsola; il putto irrazional, la cieca e ria, l’alta bellezza, la mia morte sola: mi mostr’il paradis’, il toglie via, ogni ben mi presenta, me l’invola; tanto ch’il cor, la mente, il spirto, l’alma ha gioia, ha noia, ha refrigerio, ha salma. Chi mi terrà di guerra? Chi mi farà fruir mio ben in pace? Chi quel ch’annoia e quel che sì mi piacefarà lungi disgionti, per gradir le mie fiamme e gli miei fonti? Mostra la caggion et origine onde si concepe il furore e nasce l’entusiasmo, per solcar il campo de le muse, spargendo il seme de suoi pensieri, aspirando a l’amorosa messe, scorgendo in sé il fervor de gli affetti in vece del sole, e l’umor de gli occhi in luogo de le piogge. Mette quattro cose avanti: l’amore, la sorte, l’oggetto, la gelosia. Dove l’amore non è un basso, ignobile et indegno motore, ma un eroico signor e duce de lui; la sorte non è altro che la disposizion fatale et ordine d’accidenti, alli quali è suggetto per il suo destino; l’oggetto è la cosa amabile, et il correlativo de l’amante; la gelosia è chiaro che sia un zelo de l’amante circa la cosa amata, il quale non bisogna donarlo a intendere a chi ha gustato amore, et in vano ne forzaremo dechiararlo ad altri. L’amore appaga: perché a chi ama, piace l’amare; e colui che veramente ama non vorrebbe non amare. Onde non voglio lasciar de referire quel che ne mostrai in questo mio sonetto: Cara, soave et onorata piaga del più bel dardo che mai scelse amore; alto, leggiadro e precioso ardore, che gir fai l’alma di sempr’arder vaga: qual forza d’erba e virtù d’arte maga ti torrà mai dal centro del mio core, se chi vi porge ogn’or fresco vigore quanto più mi tormenta, più m’appaga? Dolce mio duol, novo nel mond’e raro, quando del peso tuo girò mai scarco, s’il rimedio m’è noia, e ’l mal diretto? Occhi, del mio signor facelle et arco, doppiate fiamme a l’alma e strali al petto, poich’il languir m’è dolce e l’ardor caro. La sorte affanna per non felici e non bramati successi, o perché faccia stimar il suggetto men degno de la fruizion de l’oggetto, e men proporzionato a la dignità di quello; o perché non faccia reciproca correlazione, o per altre caggioni et impedimenti che s’attraversano. L’oggetto contenta il suggetto, che non si pasce d’altro, altro non cerca, non s’occupa in altro, e per quello bandisce ogni altro pensiero. La gelosia sconsola, perché quantunque sia figlia dell’amore da cui deriva, compagna di quello con cui va sempre insieme, segno del medesimo, perché quello s’intende per necessaria conseguenza dove lei si dimostra (come sen può far esperienza nelle generazioni intiere, che per freddezza di regione, e tardezza d’ingegno, meno apprendono, poco amano, e niente hanno di gelosia), tutta volta con la sua figliolanza, compagnia e significazione vien a perturbar et attossicare tutto quel che si trova di bello e buono nell’amore. Là onde dissi in un altro mio sonetto: O d’invidia et amor figlia sì ria, che le gioie del padre volgi in pene, caut’Argo al male, e cieca talpa al bene, ministra di tormento, Gelosia; Tisifone infernal fetid’Arpia, che l’altrui dolce rapi et avvelene, austro crudel per cui languir conviene il più bel fior de la speranza mia; fiera da te medesma disamata, augel di duol non d’altro mai presago, pena, ch’entri nel cor per mille porte: se si potesse a te chiuder l’entrata, tant’il regno d’amor saria più vago, quant’il mondo senz’odio e senza morte. Giongi a quel ch’è detto che la Gelosia non sol tal volta è la morte e ruina de l’amante, ma per le spesse volte uccide l’istesso amore, massime quando parturisce il sdegno: percioché viene ad essere talmente dal suo figlio affetta, che spinge l’amore e mette in dispreggio l’oggetto, anzi non lo fa più essere oggetto. cicada Dechiara ora l’altre particole che siegueno, cioè perché l’amore si dice putto irrazionale? tansillo Dirò tutto. Putto irrazionale si dice l’amore non perché egli per sé sia tale; ma per ciò, che per il più fa tali suggetti, et è in sugetti tali: atteso che in qualumque è più intellettuale e speculativo, inalza più l’ingegno e più purifica l’intelletto, facendolo svegliato, studioso e circonspetto, promovendolo ad un’animositate eroica et emulazion di virtudi e grandezza, per il desio di piacere e farsi degno della cosa amata. In altri poi (che son la massima parte) s’intende pazzo e stolto, perché le fa uscir de proprii sentimenti, e le precipita a far delle extravaganze, perché ritrova il spirito, anima e corpo mal complessionati, et inetti a considerar e distinguere quel che gli è decente da quel che le rende più sconci: facendoli suggetto di dispreggio, riso e vituperio. cicada Dicono volgarmente e per proverbio, che l’amor fa dovenir gli vecchi pazzi, e gli giovani savii. tansillo Questo inconveniente non accade a tutti vecchi, né quel conveniente a tutti giovani; ma è vero de quelli ben complessionati, e de mal complessionati quest’altri. E con questo è certo, che chi è avezzo nella gioventù d’amar circonspettamente, amarà vecchio senza straviare. Ma il spasso e riso è di quelli alli quali nella matura etade l’amor mette l’alfabeto in mano. cicada Ditemi adesso, perché cieca e ria se dice la sorte o fato? tansillo Cieca e ria si dice la sorte ancora, non per sé, perché è l’istesso ordine de numeri e misure de l’universo; ma per raggion de suggetti si dice et è cieca: perché le rende ciechi al suo riguardo, per esser ella incertissima. È detta similmente ria, perché nullo de mortali è che in qualche maniera lamentandosi e querelandosi di lei, non la incolpe. Onde disse il pugliese poeta: Che vuol dir, Mecenate, che nessuno al mondo appar contento de la sorte, che gli ha porgiuta la raggion o cielo? Cossì chiama l’oggetto alta bellezza, perché a lui è unico e più eminente, et efficace per tirarlo a sé; e però lo stima più degno, più nobile, e però sel sente predominante e superiore: come lui gli vien fatto suddito e cattivo. La mia morte sola dice de la gelosia, perché come l’amore non ha più stretta compagna che costei, cossì anco non ha senso di maggior nemica: come nessuna cosa è più nemica al ferro che la ruggine, che nasce da lui medesimo. cicada Or poi ch’hai cominciato a far cossì, séguita a mostrar parte per parte quel che resta. tansillo Cossì farò. Dice appresso de l’amore: Mi mostra il paradiso; onde fa veder che l’amore non è cieco in sé, e per sé non rende ciechi alcuni amanti, ma per l’ignobili disposizioni del suggetto: qualmente avviene che gli ucelli notturni dovegnon ciechi per la presenza del sole. Quanto a sé dumque l’amore illustra, chiarisce, apre l’intelletto e fa penetrar il tutto e suscita miracolosi effetti. cicada Molto mi par che questo il Nolano lo dimostre in un altro suo sonetto: Amor per cui tant’alto il ver discerno, ch’apre le porte di diamante nere, per gli occhi entra il mio nume, e per vedere nasce, vive, si nutre, ha regno eterno; fa scorger quant’ha ’l ciel, terr’, et inferno; fa presenti d’absenti effiggie vere, repiglia forze, e col trar dritto, fere; e impiaga sempr’il cor, scuopre l’interno. O dumque, volgo vile, al vero attendi, porgi l’orecchio al mio dir non fallace, apri, apri, se puoi, gli occhi, insano e bieco: fanciullo il credi perché poco intendi, perché ratto ti cangi ei par fugace, per esser orbo tu lo chiami cieco. Mostra dumque il paradiso amore, per far intendere, capire et effettuar cose altissime; o perché fa grandi almeno in apparenza le cose amate. Il toglie via, dice de la sorte: perché questa sovente, a mal grado de l’amante, non concede quel tanto che l’amor dimostra, e quel che vede e brama, gli è lontano et adversario. Ogni ben mi presenta, dice de l’oggetto: perché questo che vien dimostrato da l’indice de l’amore, gli par la cosa unica, principale, et il tutto. Me l’invola, dice della Gelosia, non già per non farlo presente togliendolo d’avanti gli occhi; ma in far ch’il bene non sia bene, ma un angoscioso male; il dolce non sia dolce, ma un angoscioso languire. Tanto ch’il cor, cioè la volontà, ha gioia nel suo volere per forza d’amore, qualunque sia il successo. La mente, cioè la parte intellettuale, ha noia, per l’apprension de la sorte, qual non aggradisce l’amante. Il spirito, cioè l’affetto naturale, ha refrigerio, per esser rapito da quell’oggetto che dà gioia al core, e potrebbe aggradir la mente. L’alma, cioè la sustanza passibile e sensitiva, ha salma, cioè si trova oppressa dal grave peso de la gelosia che la tormenta. Appresso la considerazion del stato suo, soggionge il lacrimoso lamento, e dice: Chi mi torrà di guerra, e metterammi in pace; o chi disunirà quel che m’annoia e danna, da quel che sì mi piace et apremi le porte de cielo, perché gradite sieno le fervide fiamme del mio core, e fortunati i fonti de gli occhi miei? Appresso continuando il suo proposito, soggionge: Premi (oimè) gli altri, o mia nemica sorte; vatten via, Gelosia, dal mondo fore: potran ben soli con sua diva corte far tutto nobil faccia e vago amore. Lui mi tolga de vita, lei de morte; lei me l’impenne, lui brugge il mio core; lui me l’ancide, lei ravvive l’alma; lei mio sustegno, lui mia grieve salma. Ma che dic’io d’amore? se lui e lei son un suggetto o forma, se con medesm’imperio et una norma fann’un vestigio al centro del mio core? Non son doi dumque: è una che fa gioconda e triste mia fortuna. Quattro principii et estremi de due contrarietadi vuol ridurre a doi principii et una contrarietade. Dice dumque: Premi (oimè) gli altri, cioè basti a te, o mia sorte, d’avermi sin a tanto oppresso, e (perché non puoi essere senza il tuo essercizio) volta altrove il tuo sdegno. E vatten via fuori del mondo, tu, Gelosia: perché uno di que’ doi altri che rimagnono potrà supplire alle vostre vicende et offici; se pur tu, mia sorte, non sei altro ch’il mio Amore, e tu Gelosia, non sei estranea dalla sustanza del medesimo. Reste dumque lui per privarmi de vita, per bruggiarmi, per donarmi la morte, e per salma de le mie ossa: con questo che lei mi tolga di morte, mi impenne, mi avvive e mi sustente. Appresso, doi principii et una contrarietade riduce ad un principio et una efficacia, dicendo: Ma che dich’io d’Amore? Se questa faccia, questo oggetto è l’imperio suo, e non par altro che l’imperio de l’amore; la norma de l’amore è la sua medesima norma; l’impression d’amore ch’appare nella sustanza del cor mio, non è certo altra impression che la sua: perché dumque dopo aver detto nobil faccia, replico dicendo vago amore? tansillo Or qua comincia il furioso a mostrar gli affetti suoi e discuoprir le piaghe che sono per segno nel corpo, et in sustanza o in essenza nell’anima, e dice cossì: Io che porto d’amor l’alto vessillo, gelate ho spene, e gli desir cuocenti: a un tempo triemo, agghiaccio, ardo e sfavillo, son muto, e colmo il ciel de strida ardenti; dal cor scintill’, e da gli occhi acqua stillo; e vivo e muoio, e fo ris’e lamenti: son vive l’acqui, e l’incendio non more, ch’a gli occhi ho Teti, et ho Vulcan al core, altr’amo, odio me stesso: ma s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso; poggi’altr’al ciel, s’io mi ripogno al basso; sempr’altri fugge, s’io seguir non cesso; s’io chiamo, non risponde: e quant’io cerco più, più mi s’asconde. A proposito di questo voglio seguitar quel che poco avanti ti dicevo: che non bisogna affatigarsi per provare quel che tanto manifestamente si vede, cioè che nessuna cosa è pura e schetta (onde diceano alcuni, nessuna cosa composta esser vero ente: come l’oro composto non è vero oro, il vino composto non è puro vero e mero vino); appresso, tutte le cose constano de contrarii: da onde avviene che gli successi de li nostri affetti per la composizione ch’è nelle cose, non hanno mai delettazion alcuna senza qualch’amaro; anzi dico, e noto di più, che se non fusse l’amaro nelle cose, non sarrebe la delettazione, atteso che la fatica fa che troviamo delettazione nel riposo; la separazioLetteratura italiana ne è causa che troviamo piacere nella congiunzione: e generalmente essaminando, si trovarà sempre che un contrario è caggione che l’altro contrario sia bramato e piaccia. cicada Non è dumque delettazione senza contrarietà? tansillo Certo non, come senza contrarietà non è dolore, qualmente manifesta quel pitagorico poeta quando dice: Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, nec auras respiciunt, clausae tenebris et carcere caeco. Ecco dumque quel che caggiona la composizion de le cose. Quindi aviene che nessuno s’appaga del stato suo, eccetto qualch’insensato e stolto, e tanto più quanto più si ritrova nel maggior grado del fosco intervallo de la sua pazzia: all’ora ha poca o nulla apprension del suo male, gode l’esser presente senza temer del futuro; gioisce di quel ch’è e per quello in che si trova, e non ha rimorso o cura di quel ch’è o può essere, et in fine non ha senso della contrarietade la quale è figurata per l’arbore della scienza del bene e del male. cicada Da qua si vede che l’ignoranza è madre della felicità e beatitudine sensuale, e questa medesima è l’orto del paradiso de gli animali; come si fa chiaro nelli dialogi de la Cabala del cavallo Pegaseo e per quel che dice il sapiente Salomone: chi aumenta sapienza, aumenta dolore. tansillo Da qua avviene che l’amore eroico è un tormento, perché non gode del presente come il brutale amore; ma e del futuro e de l’absente; e del contrario sente l’ambizione, emulazione, suspetto e timore. Indi dicendo una sera dopo cena un certo de nostri vicini: Giamai fui tanto allegro quanto sono adesso gli rispose Gioan Bruno, padre del Nolano: Mai fuste più pazzo che adesso. cicada Volete dumque che colui che è triste sia savio, e quell’altro ch’è più triste, sia più savio? tansillo Non, anzi intendo in questi essere un’altra specie di pazzia, et oltre peggiore. cicada Chi dumque sarà savio, se pazzo è colui ch’è contento, e pazzo è colui ch’è triste? tansillo Quel che non è contento né triste. cicada Chi? quel che dome? quel ch’è privo di sentimento? quel ch’è morto? tansillo No: ma quel ch’è vivo, vegghia et intende; il quale considerando il male et il bene, stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e consistente in moto, mutazione e vicissitudine (di sorte ch’il fine d’un contrario è principio de l’altro, e l’estremo de l’uno è cominciamento de l’altro), non si dismette, né si gonfia di spirito, vien continente nell’inclinazioni e temperato nelle voluptadi: stante ch’a lui il piacere non è piacere, per aver come presente il suo fine. Parimente la pena non gli è pena, perché con la forza della considerazione ha presente il termine di quella. Cossì il sapiente ha tutte le cose mutabili come cose che non sono, et afferma quelle non esser altro che vanità et un niente: perché il tempo a l’eternità ha proporzione come il punto a la linea. cicada Sì che mai possiamo tener proposito d’esser contenti o mal contenti, senza tener proposito de la nostra pazzia, la qual espressamente confessiamo; là onde nessun che ne raggiona, e per conseguenza nessun che n’è partecipe, sarà savio: et infine tutti gli omini saran pazzi. tansillo Non tendo ad inferir questo, perché dirò massime savio colui che potesse veramente dire talvolta il contrario di quel che quell’altro: Giamai fui men allegro che adesso over: Giamai fui men triste che ora. cicada Come non fai due contrarie qualitadi dove son doi affetti contrarii? perché, dico, intendi come due virtudi, e non come un vizio et una virtude, l’esser minimamente allegro, e l’esser minimamente triste? tansillo Perché ambi doi li contrarii in eccesso (cioè per quanto vanno a dar su quel più) son vizii, perché passano la linea; e gli medesimi in quanto vanno a dar sul meno, vegnono ad esser virtude, perché si contegnono e rinchiudono intra gli termini. cicada Come l’esser men contento e l’esser men triste non son una virtù et uno vizio, ma son due virtudi? tansillo Anzi dico che son una e medesima virtude: perché il vizio è là dove è la contrarietade; la contrarietade è massime là dove è l’estremo; la contrarietà maggiore è la più vicina all’estremo; la minima o nulla è nel mezzo, dove gli contrarii convegnono e son uno et indifferente: come tra il freddissimo e caldissimo è il più caldo et il più freddo; e nel mezzo puntuale è quello che puoi dire o caldo e freddo, o né caldo né freddo, senza contrarietade. In cotal modo chi è minimamente contento e minimamente triste, è nel grado della indifferenza, si trova nella casa della temperanza, e là dove consiste la virtude e condizion d’un animo forte, che non vien piegato da l’Austro né da l’Aquilone. Ecco dumque (per venir al proposito) come questo furor eroico, che si chiarisce nella presente parte, è differente da gli altri furori più bassi, non come virtù dal vizio: ma come un vizio ch’è in un suggetto più divino o divinamente, da un vizio ch’è in un suggetto più ferino o ferinamente. Di maniera che la differenza è secondo gli suggetti e modi differenti, e non secondo la forma de l’esser vizio. cicada Molto ben posso da quel ch’avete detto, conchiudere la condizion di questo eroico furore che dice gelate ho spene, e li desir cuocenti; perché non è nella temperanza della mediocrità, ma nell’eccesso delle contrarietadi ha l’anima discordevole: se triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti desiri; è per l’avidità stridolo, mutolo per il timore; Sfavilla dal core per cura d’altrui, e per compassion sé versa lacrime da gli occhi; muore ne l’altrui risa, vive ne’ proprii lamenti; e (come colui che non è più suo) altri ama, odia se stesso: perché la materia (come dicono gli fisici) con quella misura ch’ama la forma absente, odia la presente. E cossì conclude nell’ottava la guerra ch’ha l’anima in se stessa; e poi quando dice ne la sestina ma s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso e quel che séguita, mostra le sue passioni per la guerra ch’essercita con li contrarii esterni. Mi ricordo aver letto in Iamblico, dove tratta de gli Egizii misterii, questa sentenza: Impius animam dissidentem habet: unde nec secum ipse convenire potest neque cum aliis. tansillo Or odi un altro sonetto di senso consequente al detto: Ahi, qual condizioni natura, o sorte: in viva morte morta vita vivo. Amor m’ha morto (ahi lasso) di tal morte, che son di vit’insiem’e morte privo. Voto di spene, d’inferno a le porte, e colmo di desio al ciel arrivo: talché suggetto a doi contrarii eterno, bandito son dal ciel e da l’inferno. Non han mie pene triegua, perch’in mezzo di due scorrenti ruote, de quai qua l’una, là l’altra mi scuote, qual Ixion convien mi fugga e siegua: perché al dubbio discorso dan lezzion contraria il sprone e ’l morso. Mostra qualmente patisca quel disquarto e distrazione in se medesimo: mentre l’affetto, lasciando il mezzo e meta de la temperanza, tende a l’uno e l’altro estremo; e talmente si trasporta alto o a destra, che anco si trasporta a basso et a sinistra. cicada Come con questo che non è proprio de l’uno né de l’altro estremo, non viene ad essere in stato o termine di virtude? tansillo All’ora è in stato di virtude, quando si tiene al mezzo declinando da l’uno e l’altro contrario: ma quando tende a gli estremi inchinando a l’uno e l’altr di quelli, tanto gli manca de esser virtude, che è doppio vizio, il qual consiste in questo che la cosa recede dalla sua natura, la perfezzion della quale consiste nell’unità: e là dove convegnono gli contrarii, consta la composizione, e consiste la virtude. Ecco dumque come è morto vivente, o vivo moriente; là onde dice: in viva morte morta vita vivo. Non è morto, perché vive ne l’oggetto; non è vivo, perché è morto in se stesso: privo di morte, perché parturisce pensieri in quello; privo di vita, perché non vegeta o sente in se medesimo. Appresso è bassissimo per la considerazion de l’alto intelligibile e la compresa imbecillità della potenza; è altissimo per l’aspirazione dell’eroico desio che trapassa di gran lunga gli suoi termini, et è altissimo per l’appetito intellettuale che non ha modo e fine di gionger numero a numero; è bassissimo per la violenza fattagli dal contrario sensuale che verso l’inferno impiomba. Onde trovandosi talmente poggiar e descendere, sente ne l’alma il più gran dissidio che sentir si possa; e confuso rimane per la ribellion del senso, che lo sprona là d’onde la raggion l’affrena, e per il contrario. – Il medesimo affatto si dimostra nella seguente sentenza dove la raggione in nome de Filenio dimanda, et il furioso risponde in nome di Pastore, che alla cura del gregge o armento de suoi pensieri si travaglia; quai pasce in ossequio e serviggio de la sua ninfa, ch’è l’affezzione di quell’oggetto alla cui osservanza è fatto cattivo: fileno Pastor. pastore Che vuoi? fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno Che fai? Doglio. Perché? Perché non m’ha per suo vita, né morte. Chi fallo? Amor. Quel rio? Quel rio. Dov’è? Nel centro del mio cor se tien sì forte. Che fa? Fere. Chi? Me. Te? Sì. Con che? Con gli occhi de l’inferno e del ciel porte. Speri? Spero. Mercé? Mercé. Da chi? Da chi sì mi martóra nott’e dì. Hanne? Non so. Sei folle. Che, se cotal follia a l’alma piace? Promette? Non. Niega? Nemeno. Tace? Sì, perché ardir tant’onestà mi tolle. Vaneggi. In che? Nei stenti. pastore Temo il suo sdegno, più che miei tormenti. Qua dice che spasma: lamentasi dell’amore, non già perché ami (atteso che a nessuno veramente amante dispiace l’amare), ma perché infelicemente ami: mentre escono que’ strali che son gli raggi di quei lumi, che medesimi secondo che son protervi e ritrosi, overamente benigni e graziosi, vegnono ad esser porte che guidano al cielo, overamente a l’inferno. Con questo vien mantenuto in speranza di futura et incerta mercé, et in effetto di presente e certo martìre. E quantunque molto apertamente vegga la sua follia, non per tanto avvien che in punto alcuno si correga, o che almen possa conciperne dispiacere; perché tanto ne manca, che più tosto in essa si compiace, come mostra dove dice: Mai fia che dell’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’esser felice. Appresso, mostra un’altra specie di furore parturita da qualche lume di raggione, la qual suscita il timore, e supprime la già detta, a fin che non proceda a fatto, che possa inasprir o sdegnar la cosa amata. Dice dumque la speranza esser fondata sul futuro, senza che cosa alcuna se gli prometta o nieghe: per che lui tace, e non dimanda, per téma d’offender l’onestade. Non ardisce esplicarsi e proporsi, onde fia o con ripudio escluso, overamente con promessa accettato: perché nel suo pensiero più contrapesa quel che potrebbe esser di male in un caso, che bene in un altro. Mostrasi dumque disposto di suffrir più presto per sempre il proprio tormento, che di poter aprir la porta a l’occasione per la quale la cosa amata si turbe e contriste. cicada Con questo dimostra l’amor suo esser veramente eroico: perché si propone per più principal fine la grazia del spirito e la inclinazion de l’affetto, che la bellezza del corpo, in cui si termina quell’amor ch’ha del divino. tansillo Sai bene che il rapto platonico è di tre specie, de quali l’uno tende alla vita contemplativa o speculativa, l’altro a l’attiva morale, l’altro a l’ociosa e voluptuaria: cossì son tre specie d’amori; de quali l’uno dall’aspetto della forma corporale s’inalza alla considerazione della spirituale e divina; l’altro solamente persevera nella delettazion del vedere e conversare; l’altro dal vedere va a precipitarsi nella concupiscenza del toccare. Di questi tre modi si componenti altri, secondo che o il primo s’accompagna col secondo, o che s’accompagna col terzo, o che con correno tutti tre modi insieme: de li quali ciascuno e tutti oltre si moltiplicano in altri, secondo gli affetti de furiosi che tendeno o più verso l’obietto spirituale, o più verso l’obietto corporale, o equalmente verso l’uno e l’altro. Onde avviene che di quei che si ritrovano in questa milizia e son compresi nelle reti d’amore, altri tendeno a fin del gusto che si prende dal raccòrre le poma da l’arbore de la corporal bellezza, senz’il qual ottento (o speranza al meno) stimano degno di riso e vano ogn’amoroso studio: et in cotal modo corrono tutti quei che son di barbaro ingegno, che non possono né cercano magnificarsi amando cose degne, aspirando a cose illustri, e più alto a cose divine accomodando gli suoi studi e gesti, a i quali non è chi possa più ricca e commodamente suppeditar l’ali, che l’eroico amore. Altri si fanno avanti a fin del frutto della delettazione che prendeno da l’aspetto della bellezza e grazia del spirito che risplende e riluce nella leggiadria del corpo; e de tali alcuni benché amino il corpo e bramino assai d’esser uniti a quello, della cui lontananza si lagnano, e disunion s’attristano, tutta volta temeno che presumendo in questo non vegnan privi di quell’affabilità, conversazione, amicizia et accordo che gli è più principale: essendo e dal tentare non più può aver sicurezza di successo grato, che gran téma di cader da quella grazia qual come cosa tanto gloriosa e degna gli versa avanti gli occhi del pensiero. cicada È cosa degna, o Tansillo, per molte virtudi e perfezzioni che quindi derivano nell’umano ingegno, cercar, accettar, nodrire e conservar un simile amore: ma si deve ancora aver gran cura di non abbattersi ad ubligarsi ad un oggetto indegno e basso, a fin che non vegna a farsi partecipe della bassezza et indignità del medesimo; in proposito de quali intendo il consiglio del poeta ferrarese: Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ali. tansillo A dir il vero, l’oggetto ch’oltre la bellezza del corpo non hav’altro splendore, non è degno d’esser amato ad altro fine che di far (come dicono) la razza: e mi par cosa da porco o da cavallo di tormentarvici su; et io (per me) mai fui più fascinato da cosa simile, che potesse al presente esser fascinato da qualche statua o pittura, dalle quali mi pare indifferente. Sarebbe dumque un vituperio grande ad un animo generoso, se d’un sporco, vile, bardo et ignobile ingegno (quantunque sotto eccellente figura venesse ricuoperto) dica: Temo il suo sdegno più ch’il mio tormento.  tansillo Poneno, e sono più specie de furori, li quali tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non mostrano che cecità, stupidità et impeto irrazionale, che tende al ferino insensato; altri consistono in certa divina abstrazzione per cui dovegnono alcuni megliori in fatto che uomini ordinarii. E questi sono de due specie perché: altri per esserno fatti stanza de dèi o spiriti divini, dicono et operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e tali per l’ordinario sono promossi a questo da l’esser stati prima indisciplinati et ignoranti, nelli quali come vòti di proprio spirito e senso, come in una stanza purgata, s’intrude il senso e spirto divino; il qual meno può aver luogo e mostrarsi in quei che son colmi de propria raggione e senso, perché tal volta vuole ch’il mondo sappia certo che se quei non parlano per proprio studio et esperienza come è manifesto, séguite che parlino et oprino per intelligenza superiore: e con questo la moltitudine de gli uomini in tali degnamente ha maggior admirazion e fede. Altri, per essere avezzi o abili alla contemplazione, e per aver innato un spirito lucido et intellettuale, da uno interno stimolo e fervor naturale suscitato da l’amor della divinitate, della giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio dell’intenzione acuiscono gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade accendono il lume razionale con cui veggono più che ordinariamente: e questi non vegnono al fine a parlar et operar come vasi et instrumenti, ma come principali artefici et efficienti. cicada Di questi doi geni quali stimi megliori? tansillo Gli primi hanno più dignità, potestà et efficacia in sé: perché hanno la divinità. Gli secondi seri essi più degni, più potenti et efficaci, e son divini. Gli primi son degni come l’asino che porta li sacramenti: gli secondi come una cosa sacra. Nelli primi si considera e vede in effetto la divinità e quella s’admira, adora et obedisce. Ne gli secondi si considera e vede l’eccellenza della propria umanitade. – Or venemo al proposito. Questi furori de quali noi raggioniamo, e che veggiamo messi in esecuzione in queste sentenze, non son oblio, ma una memoria; non son negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e buono con cui si procure farsi perfetto con transformarsi et assomigliarsi a quello. Non è un raptamento sotto le leggi d’un fato indegno, con gli lacci de ferine affezzioni: ma un impeto razionale che siegue l’apprension intellettuale del buono e bello che conosce; a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere, di sorte che della nobiltà e luce di quello viene ad accendersi, et investirsi de qualitade e condizione per cui appaia illustre e degno. Doviene un dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto; e d’altro non ha pensiero che de cose divine, e mostrasi insensibile et impassibile in quelle cose che comunmente massime senteno, e da le quali più vegnon altri tormentati; niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de la vita. Non è furor d’atra bile che fuor di consiglio, raggione et atti di prudenza lo faccia vagare guidato dal caso e rapito dalla disordinata tempesta; come quei ch’avendo prevaricato da certa legge de la divina Adrastia vegnono condannati sotto la carnificina de le Furie: acciò sieno essagitati da una dissonanza tanto corporale per sedizioni, ruine e morbi, quanto spirituale per la iattura dell’armonia delle potenze cognoscitive et appetitive. Ma è un calor acceso dal sole intelligenziale ne l’anima et impeto divino che gl’impronta l’ali: onde più e più avvicinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine de le umane cure, dovien un oro probato e puro, ha sentimento della divina et interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte le cose. Non come inebriato da le tazze di Circe va cespitando et urtando or in questo, or in quell’altro fosso, or a questo or a quell’altro scoglio; o come un Proteo vago or in questa or in quell’altra faccia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo, né materia di fermarsi e stabilirsi. Ma senza distemprar l’armonia vince e supera gli orrendi mostri; e per tanto che vegna a dechinare, facilmente ritorna al sesto con quelli intimi instinti, che come nove muse saltano e cantano circa il splender dell’universale Apolline: e sotto l’imagini sensibili e cose materiali va comprendendo divini ordini e consegli. È vero che tal volta avendo per fida scorta l’amore, ch’è gemino, e perché tal volta per occorrenti impedimenti si vede defraudato dal suo sforzo, all’ora come insano e furioso mette in precipizio l’amor di quello che non può comprendere: onde confuso da l’abisso della divinità tal volta dismette le mani, e poi ritorna pure a forzarsi con la voluntade verso là dove non può arrivare con l’intelletto. È vero pure che ordinariamente va spasseggiando, et or più in una, or più in un’altra forma del gemino Cupido si trasporta; perché la lezzion principale che gli dona Amore è che in ombra contempla (quando non puote in specchio) la divina beltate: e come gli proci di Penelope s’intrattegna con le fante quando non gli lice conversar con la padrona. Or dumque, per conchiudere, possete da quel ch’è detto comprendere qual sia questo furioso di cui l’imagine ne vien messa avanti, quando si dice: Se la farfalla al suo splendor ameno vola, non sa cb’è fiamm’al fin discara; se quand’il cervio per sete vien meno, al rio va, non sa della freccia amara; s’il lioncorno corre al casto seno non vede il laccio che se gli prepara: i’al lum’, al font’, al grembo del mio bene, veggio le fiamme, i strali e le catene. S’è dolce il mio languire, perché quell’alta face sì m’appaga, perché l’arco divin sì dolce impiaga, perché in quel nodo è avolto il mio desire: mi sien eterni impacci fiamme al cor, strali al petto, a l’alma lacci. Dove dimostra l’amor suo non esser come de la farfalla, del cervio e del lioncorno, che fuggirebono s’avesser giudizio del fuoco, della saetta e de gli lacci, e che non han senso d’altro che del piacere: ma vien guidato da un sensatissimo e pur troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco che altro refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più que’ legami che altra libertade. Perché questo male non è absolutamente male: ma per certo rispetto al bene secondo l’opinione, e falso; quale il vecchio Saturno ha per condimento nel devorar che fa de proprii figli. Perché questo male absolutamente ne l’occhio de l’eternitade è compreso o per bene, o per guida che ne conduce a quello; atteso che questo fuoco è l’ardente desio de le cose divine, questa saetta è l’impression del raggio della beltade della superna luce, questi lacci son le specie del vero che uniscono la nostra mente alla prima verità: e le specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo e sommo bene. A quel senso io m’accostai quando dissi: D’un sì bel fuoco e d’un sì nobil laccio beltà m’accende, et onestà m’annoda, ch’in fiamm’e servitù convien ch’io goda, fugga la libertade e tema il ghiaccio; l’incendio è tal ch’io m’ard’e non mi sfaccio, el nodo è tal ch’il mondo meco il loda, né mi gela timor, né duol mi snoda; ma tranquill’è l’ardor, dolce l’impaccio. Scorgo tant’alto il lume che m’infiamma, el laccio ordito di sì ricco stame, che nascend’il pensier, more il desio. Poiché mi splend’al cor sì bella fiamma, e mi stringe il voler sì bel legame, sia serva l’ombra, et arda il cener mio. Tutti gli amori (se sono eroici e non son puri animali, che chiamano naturali e cattivi alla generazione, come instrumenti de la natura in certo modo) hanno per oggetto la divinità, tendeno alla divina bellezza, la quale prima si comunica all’anime e risplende in quelle, e da quelle poi o (per dir meglio) per quelle poi si comunica alli corpi: onde è che l’affetto ben formato ama gli corpi o la corporal bellezza, per quel che è indice della bellezza del spirito. Anzi quello che n’innamora del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la qual si chiama bellezza; la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli determinati colori o forme, ma in certa armonia e consonanza de membri e colori . Questa mostra certa sensibile affinità col spirito a gli sensi più acuti e penetrativi: onde séguita che tali più facilmente et intensamente s’innamorano, et anco più facilmente si disamorano, e più intensamente si sdegnano, con quella facilità et intensione, che potrebbe essere nel cangiamento del spirito brutto, che in qualche gesto et espressa intenzione si faccia aperto: di sorte che tal bruttezza trascorre da l’anima al corpo, a farlo non apparir oltre come gli apparia bello. La beltà dumque del corpo ha forza d’accendere; ma non già di legare e far che l’amante non possa fuggire, se la grazia che si richiede nel spirito non soccorre, come la onestà, la gratitudine, la cortesia, l’accortezza: però dissi bello quel fuoco che m’accese, perché ancor fu nobile il laccio che m’annodava. cicada Non creder sempre cossì, Tansillo; perché qualche volta quantunque discuopriamo vizioso il spirito non lasciamo però di rimaner accesi et allacciati: di maniera che quantunque la raggion veda il male et indignità di tale amore, non ha però efficacia di alienar il disordinato appetito. Nella qual disposizion credo che fusse il Nolano quando disse: Oimè che son constretto dal furore d’appigliarmi al mio male, ch’apparir fammi un sommo ben Amore. Lasso, a l’alma non cale ch’a contrarii consigli umqua ritenti; e del fero tiranno, che mi nodrisce in stenti, e poté pormi da me stess’in bando, più che di libertad’ i’ son contento. Spiego le vele al vento, che mi suttraga a l’odioso bene: e tempestoso al dolce danno amene. tansillo Questo accade, quando l’uno e l’altro spirto è vizioso, e son tinti come di medesimo inchiostro, atteso che dalla conformità si suscita, accende e si confirma l’amore. Cossì gli viziosi facilmente concordano in atti di medesimo vizio. E non voglio lasciar de dire ancora quel che per esperienza conosco, che quantunque in un animo abbia discuoperti vizii molto abominati da me, com’è dire una sporca avarizia, una vilissima ingordiggia sul danaio, irreconoscenza di ricevuti favori e cortesie, un amor di persone al tutto vili (de quali vizii questo ultimo massime dispiace perché toglie la speranza a l’amante che per esser egli, o farsi più degno, possa da lei esser più accettato), tutta volta non mancava ch’io ardesse per la beltà corporale. Ma che? io l’amavo senza buona volontà, essendo che non per questo m’arrei più contristato che allegrato delle sue disgrazie et infortunii. cicada Però è molto propria et a proposito quella distinzion che fanno intra l’amare e voler bene. tansillo È vero, perché a molti vogliamo bene, cioè desideramo che siano savii e giusti: ma non le amiamo, perché sono iniqui et ignoranti; molti amiamo perché son belli, ma non gli vogliamo bene, perché non meritano: e tra l’altre cose che stima l’amante quello non meritare, la prima è d’essere amato; e però benché non possa astenersi d’amare, niente di meno gli ne rincresce e mostra il suo rincrescimento: come costui che diceva, Oimè ch’io son costretto dal furore d’appigliarmi al mio male. In contraria disposizione fu, o per altro oggetto corporale in similitudine, o per suggetto divino in verità, quando disse: Bench’a tanti martir mi fai suggetto, pur ti ringrazio, e assai ti deggio, Amore, che con sì nobil piaga apriste il petto, e tal impadroniste del mio core, per cui fia ver ch’un divo e viv’oggetto, de Dio più bella imago ’n terra adore; pensi chi vuol ch’il mio destin sia rio, ch’uccid’in speme, e fa viv’in desio. Pascomi in alta impresa; e bench’il fin bramato non consegua, e ’n tanto studio l’alma si dilegua, basta che sia sì nobilment’ accesa: basta ch’alto mi tolsi, e da l’ignobil numero mi sciolsi. L’amor suo qua è a fatto eroico e divino, e per tale voglio intenderlo: benché per esso si dica suggetto a tanti martìri; perché ogni amante ch’è disunito e separato da la cosa amata (alla quale com’è congionto con l’affetto, vorrebe essere con l’effetto) si trova in cordoglio e pena, si crucia e si tormenta: non già perché ami, atteso che degnissima e nobilissimamente sente impiegato l’amore; ma perché è privo di quella fruizione la quale ottenerebbe se fusse gionto a quel termine al qual tende: non dole per il desio che ravviva, ma per la difficultà del studio ch’il martora. Stiminlo dumque altri a sua posta infelice per questa apparenza de rio destino, come che l’abbia condannato a cotai pene: perché egli non lasciarà per tanto de riconoscer l’obligo ch’have ad Amore, e rendergli grazie, perché gli abbia presentato avanti gli occhi de la mente una specie intelligibile, nella quale in questa terrena vita (rinchiuso in questa priggione de la carne, et avvinto da questi nervi, e confirmato da queste ossa) li sia lecito di contemplar più altamente la divinitade, che se altra specie e similitudine di quella si fusse offerta. cicada Il divo dumque e vivo oggetto, ch’ei dice, è la specie intelligibile più alta che egli s’abbia possuto formar della divinità; e non è qualche corporal bellezza che gli adombrasse il pensiero come appare in superficie del senso? tansillo Vero: perché nessuna cosa sensibile, né specie di quella, può inalzarsi a tanta dignitade. cicada Come dumque fa menzione di quella specie per oggetto, se (come mi pare) il vero oggetto è la divinità istessa? tansillo La è oggetto finale, ultimo e perfettissimo; non già in questo stato dove non possemo veder Dio se non come in ombra e specchio, e però non ne può esser oggetto se non in qualche similitudine; non tale Lequal possa esser abstratta et acquistata da bellezza et eccellenza corporea per virtù del senso: ma qual può esser formata nella mente per virtù de l’intelletto. Nel qual stato ritrovandosi, viene a perder l’amore et affezzion d’ogni altra cosa tanto sensibile quanto intelligibile; perché questa congionta a quel lume dovien lume essa ancora, e per conseguenza si fa un Dio: perché contrae la divinità in sé essendo ella in Dio per la intenzione con cui penetra nella divinità (per quanto si può), et essendo Dio in ella, per quanto dopo aver penetrato viene a conciperla e (per quanto si può) a ricettarla e comprenderla nel suo concetto. Or di queste specie e similitudini si pasce l’intelletto umano da questo mondo inferiore, sin tanto che non gli sia lecito de mirar con più puri occhi la bellezza della divinitade: come accade a colui che è gionto a qualch’edificio eccellentissimo et ornatissimo, mentre va considerando cosa per cosa in quello, si aggrada, si contenta, si pasce d’una nobil maraviglia; ma se avverà poi che vegga il signor di quelle imagini, di bellezza incomparabilmente maggiore, lasciata ogni cura e pensiero di esse, tutto è volto et intento a considerar quell’uno. Ecco dumque come è differenza in questo stato dove veggiamo la divina bellezza in specie intelligibili tolte da gli effetti, opre, magisteri, ombre e similitudini di quella, et in quell’altro stato dove sia lecito di vederla in propria presenza. – Dice appresso: Pascomi d’alt’impresa, perché (come notano gli Pitagorici) cossì l’anima si versa e muove circa Dio, come il corpo circa l’anima. cicada Dumque il corpo non è luogo de l’anima? tansillo Non: perché l’anima non è nel corpo localmente, ma come forma intrinseca e formatore estrinseco; come quella che fa gli membri, e figura il composto da dentro e da fuori. Il corpo dumque è ne l’anima, l’anima nella mente, la mente o è Dio, o è in Dio, come disse Plotino: cossì come per essenza è in Dio che è la sua vita, similmente per l’operazione intellettuale e la voluntà conseguente dopo tale operazione, si riferisce alla sua luce e beatifico oggetto. Degnamente dumque questo affetto del eroico furore si pasce de sì alta impresa. Né per questo che l’obietto è infinito, in atto simplicissimo, e la nostra potenza intellettiva non può apprendere l’infinito se non in discorso, o in certa maniera de discorso, com’è dire in certa raggione potenziale o aptitudinale, è come colui che s’amena a la consecuzion de l’immenso onde vegna a constituirse un fine dove non è fine. cicada Degnamente, perché l’ultimo fine non deve aver fine, atteso che non sarebe ultimo. È dumque infinito in intenzione, in perfezzione, in essenza et in qualsivoglia altra maniera d’esser fine. [tansillo] Dici il vero. Or in questa vita tal pastura è di maniera tale, che più accende, che possa appagar il desio, come ben mostra quel divino poeta che disse: Bramando è lassa l’alma a Dio vivente, et in altro luogo: Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excelsum. Però dice: E bench’il fin bramato non consegua, E ’n tanto studio l’alma si dilegua, Basta che sia sì nobilmente accesa: vuol dire ch’in tanto l’anima si consola e riceve tutta la gloria che può ricevere in cotal stato, e che sia partecipe di quel ultimo furor de l’uomo in quanto uomo di questa condizione, nella qual si trova adesso, e come ne veggiamo. cicada Mi par che gli peripatetici (come esplicò Averroe) vogliano intender questo quando dicono la somma felicità de l’uomo consistere nella perfezzione per le scienze speculative. tansillo È vero, e dicono molto bene: perché noi in questo stato nel qual ne ritroviamo, non possiamo desiderar né ottener maggior perfezzione che quella in cui siamo quando il nostro intelletto mediante qualche nobil specie intelligibile s’unisce o alle sustanze seperate, come dicono costoro, o a la divina mente, come è modo de dir de Platonici. Lascio per ora di raggionar de l’anima o uomo in altro stato e modo di essere che possa trovarsi o credersi. cicada Ma che perfezzione o satisfazzione può trovar l’uomo in quella cognizione la quale non è perfetta? tansillo Non sarà mai perfetta per quanto l’altissimo oggetto possa esser capito, ma per quanto l’intelletto nostro possa capire: basta che in questo et altro stato gli sia presente la divina bellezza per quanto s’estende l’orizonte della vista sua. cicada Ma de gli uomini non tutti possono giongere a quello dove può arrivar uno o doi. tansillo Basta che tutti corrano; assai è ch’ognun faccia il suo possibile; perché l’eroico ingegno si contenta più tosto di cascar o mancar degnamente e nell’alte imprese, dove mostre la dignità del suo ingegno, che riuscir a perfezzione in cose men nobili e basse. cicada Certo che meglio è una degna et eroica morte, che un indegno e vil trionfo. tansillo A cotal proposito feci questo sonetto: Poi che spiegat’ho l’ali al bel desio, quanto più sott’il piè l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e vers’il ciel m’invio. Né del figliuol di Dedalo il fin rio fa che giù pieghi, anzi via più risorgo; ch’i’cadrò morto a terra ben m’accorgo: ma qual vita pareggia al morir mio? La voce del mio cor per l’aria sento: Ove mi porti, temerario? china, che raro è senza duol tropp’ardimento; Non temer (respond’io) l’alta ruina. Fendi sicur le nubi, e muor contento: s’il ciel sì illustre morte ne destina. cicada Io intendo quel che dice: basta ch’alto mi tolsi; ma non quando dice: e da l’ignobil numero mi sciolsi, s’egli non intende d’esser uscito fuor de l’antro platonico, rimosso dalla condizion della sciocca et ignobilissima moltitudine; essendo che quei che profittano in questa contemplazione non possono esser molti e numerosi. tansillo Intendi molto bene; oltre, per l’ignobil numero può intendere il corpo e sensual cognizione dalla quale bisogna alzarsi e disciòrsi chi vuol unirsi alla natura di contrario geno. cicada Dicono gli Platonici due sorte de nodi con gli quali l’anima è legata al corpo. L’uno è certo atto vivifico che da l’anima come un raggio scende nel corpo; l’altro è certa qualità vitale che da quell’atto resulta nel corpo. Or questo numero nobilissimo movente ch’è l’anima, come intendete che sia disciolto da l’ignobil numero ch’è il corpo? tansillo Certo non s’intendeva secondo alcun modo di questi: ma secondo quel modo con cui le potenze che non son comprese e cattivate nel grembo de la materia, e qualche volta come sopite et inebriate si trovano quasi ancora esse occupate nella formazion della materia e vivificazion del corpo; tal’or come risvegliate e ricordate di se stesse riconoscendo il suo principio e geno, si voltano alle cose superiori, si forzano al mondo intelligibile come al natio soggiorno; quali tal volta da là per la conversione alle cose inferiori, si son trabalsate sotto il fato e termini della generazione. Questi doi appolsi son figurati nelle due specie de metamorfosi espresse nel presente articolo che dice: Quel dio che scuot’il folgore sonoro, Asterie vedde furtivo aquilone, Mnemosine pastor, Danae oro, Alcmena sposo, Antiopa caprone; fu di Cadmo a le suore bianco toro, a Leda cigno, a Dolida dragane: io per l’altezza de l’oggetto mio da suggetto più vil dovegno un dio. Fu cavallo Saturno, Nettun delfin, e vitello si tenne Ibi, e pastor Mercurio dovenne, un’uva Bacco, Apollo un corvo furno: et io (mercé d’amore) mi cangio in dio da cosa inferiore. Nella natura è una revoluzione et un circolo per cui, per l’altrui perfezzione e soccorso, le cose superiori s’inchinano all’inferiori, e per la propria eccellenza e felicitade le cose inferiori s’inalzano alle superiori. Però vogliono i Pitagorici e Platonici esser donato a l’anima ch’a certi tempi non solo per spontanea voluntà, la qual le rivolta alla comprension de le nature, ma et anco della necessità d’una legge interna scritta e registrata dal decreto fatale vanno a trovar la propria sorte giustamente determinata. E dicono che l’anime non tanto per certa determinazione e proprio volere come ribelle declinano dalla divinità, quanto per certo ordine per cui vegnono affette verso la materia: onde non come per libera intenzione, ma come per certa occolta conseguenza vegnono a cadere; e questa è l’inclinazion ch’hanno alla generazione, come a certo minor bene. (Minor bene dico per quanto appartiene a quella natura particolare, non già per quanto appartiene alla natura universale dove niente accade senza ottimo fine che dispone il tutto secondo la giustizia.) Nella qual generazione ritrovandosi (per la conversione che vicissitudinalmente succede) de nuovo ritornano a gli abiti superiori. cicada Sì che vogliono costoro che l’anime sieno spinte dalla necessità del fato, e non hanno proprio consiglio che le guide a fatto? tansillo Necessità, fato, natura, consiglio, voluntà, nelle cose giustamente e senza errore ordinate, tutti concorrenti in uno. Oltre che (come riferisce Plotino) vogliono alcuni che certe anime possono fuggir quel proprio male, le quali prima che se gli confirme l’abito corporale, conoscendo il periglio rifuggono alla mente. Perché la mente l’inalza alle cose sublimi, come l’imaginazion l’abbassa alle cose inferiori: la mente le mantiene nel stato et identità come l’imaginazione nel moto e diversità; la mente sempre intende uno, come l’imaginazione sempre vassi fingendo varie imagini. In mezzo è la facultà razionale la quale è composta de tutto, come quella in cui concorre l’uno con la moltitudine, il medesimo col diverso, il moto col stato, l’inferiore col superiore. – Or questa conversione e vicissitudine è figurata nella ruota delle metamorfosi, dove siede l’uomo nella parte eminente, giace una bestia al fondo, un mezzo uomo e mezzo bestia descende dalla sinistra, et un mezzo bestia e mezzo uomo ascende da la destra. Questa conversione si mostra dove Giove, secondo la diversità de affetti e maniere di quelli verso le cose inferiori, s’investisce de diverse figure dovenendo in forma de bestie; e cossi gli altri dèi transmigrano in forme basse et aliene. E per il contrario, per sentimento della propria nobiltà, ripigliano la propria e divina forma: come il furioso eroico inalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontade, con l’ali de l’intelletto e voluntade intellettiva s’inalza alla divinitade lasciando la forma de suggetto più basso. E però disse: Da suggetto più vil dovegno un Dio, Mi cangio in Dio da cosa inferiore.  tansillo Cossì si descrive il discorso de l’amor eroico per quanto tende al proprio oggetto ch’è il sommo bene; e l’eroico intelletto che gionger si studia al proprio oggetto che è il primo vero o la verità absoluta. Or nel primo discorso apporta tutta la somma di questo, e l’intenzione: l’ordine della quale vien descritto in cinque altri seguenti. Dice dumque: Alle selve i mastini e i veltri slaccia il giovan Atteon, quand’il destino gli drizz’il dubio et incauto camino, di boscareccie fiere appo la traccia. Ecco tra l’acqui il più bel busto e faccia che veder poss’il mortal e divino, in ostro et alabastro et oro fino vedde: e ’l gran cacciator dovenne caccia. Il cervio ch’a’ più folti luoghi drizzav’i passi più leggieri, ratto voraro i suoi gran cani e molti. I’allargo i miei pensieri ad alta preda, et essi a me rivolti morte mi dan con morsi crudi e fieri. Atteone significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina. Costui slaccia i mastini et i veltri: de quai questi son più veloci, quelli più forti. Perché l’operazion de l’intelletto precede l’operazion della voluntade; ma questa è più vigorosa et efficace che quella: atteso che a l’intelletto umano è più amabile che comprensibile la bontade e bellezza divina, oltre che l’amore è quello che muove e spinge l’intelletto acciò che lo preceda come lanterna. Alle selve, luoghi inculti e solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi, e però dove non son impresse l’orme de molti uomini, il giovane poco esperto e prattico, come quello di cui la vita è breve et instabile il furore, nel dubio camino de l’incerta et ancipite raggione et affetto designato nel carattere di Pitagora, dove si vede più spinoso, inculto e deserto il destro et arduo camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la traccia di boscareccie fiere che sono le specie intelligibili de concetti ideali, che sono occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non s’offreno a tutti quelli che le cercano: Ecco tra l’acqui, cioè nel specchio de le similitudini, nell’opre dove riluce l’efficacia della bontade e splender divino: le quali opre vegnon significate per il suggetto de l’acqui superiori et inferiori, che son sotto e sopra il firmamento; vede il più bel busto e faccia, cioè potenza et operazion esterna che vedersi possa per abito et atto di contemplazione et applicazion di mente mortal o divina, d’uomo o dio alcuno. cicada Credo che non faccia comparazione, e pena come in medesimo geno la divina et umana apprensione quanto al modo di comprendere, il quale è diversissimo, ma quanto al suggetto che è medesimo. tansillo Cossì è. Dice in ostro, alabastro et oro, perché quello che in figura nella corporal bellezza è vermiglio, bianco e biondo, nella divinità significa l’ostro della divina vigorosa potenza, l’oro della divina sapienza, l’alabastro della beltade divina, nella contemplazion della quale gli Pitagorici, Caldei, Platonici et altri al meglior modo che possono, s’ingegnano d’inalzarsi. Vedde il gran cacciator: comprese quanto è possibile, e dovenne caccia: andava per predare e rimase preda, questo cacciator per l’operazion de l’intelletto con cui converte le cose apprese in sé.  (cicada Intendo, perché forma le specie intelligibili a suo modo e le proporziona alla sua capacità, perché son ricevute a modo de chi le riceve. tansillo) E questa caccia per l’operazion della voluntade, per atto della quale lui si converte nell’oggetto. cicada Intendo: perché lo amore transforma e converte nella cosa amata. tansillo Sai bene che l’intelletto apprende le cose intelligibilmente, idest secondo il suo modo; e la voluntà perseguita le cose naturalmente, cioè secondo la raggione con la quale sono in sé. Cossì Atteone con que’ pensieri, que’ cani che cercavano estra di sé il bene, la sapienza, la beltade, la fiera boscareccia, et in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola contratta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la divinità. cicada Però ben si dice il regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del riformato intelletto e voluntade. tansillo Cossì è: ecco dumque come l’Atteone, messo in preda de suoi cani, perseguitato da proprii pensieri, corre e drizza i novi passi: è rinovato a procedere divinamente e più leggermente, cioè con maggior facilità e con una più efficace lena a’ luoghi più folti, alli deserti, alla reggion de cose incomprensibili; da quel ch’era un uom volgare e commune, dovien raro et eroico, ha costumi e concetti rari, e fa estraordinaria vita. Qua gli dan morte i suoi gran cani e molti: qua finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sensuale, cieco e fantastico; e comincia a vivere intellettualmente: vive vita de dèi, pascesi d’ambrosia et inebriasi di nettare. – Appresso sotto forma d’un’altra similitudine descrive la maniera con cui s’arma alla ottenzion de l’oggetto, e dice: Mio pàssar solitario, a quella parte ch’adombr’ e ingombra tutt’il mio pensiero, tosto t’annida: ivi ogni tuo mestiero rafferma, ivi l’industria spendi, e l’arte. Rinasci là, là su vogli allevarte gli tuoi vaghi pulcini omai ch’il fiero destin hav’espedit’il cors’intiero contra l’impres’, onde solea ritrarte. Và, più nobil ricetto bramo ti godi, e arai per guida un dio che da chi nulla vede, è cieco detto. Và, ti sia sempre pio ogni nume di quest’ampio architetto, e non tornar a me se non sei mio. Il progresso sopra significato per il cacciator che agita gli suoi cani, vien qua ad esser figurato per un cuor alato, che è inviato da la gabbia in cui si stava ocioso e quieto, ad annidarsi alto, ad allievar gli pulcini suoi pensieri, essendo venuto il tempo in cui cessano gli impedimenti che da fuori mille occasioni, e da dentro la natural imbecillità subministravano. Licenzialo dumque per fargli più magnifica condizione, applicandolo a più alto proposito et intento, or che son più fermamente impiumate quelle potenze de l’anima significate anco da Platonici per le due ali. E gli commette per guida quel dio che dal cieco volgo è stimato insano e cieco, cioè l’amore: il qual per mercé e favor del cielo è potente di trasformarlo come in quell’altra natura alla quale aspira o quel stato dal quale va peregrinando bandito. Onde disse: E non tornar a me che non sei mio, di sorte che non con indignità possa io dire con quell’altro: Lasciato m’hai, cuor mio, e lume d’occhi miei non sei più meco. Appresso descrive la morte de l’anima, che da Cabalisti è chiamata morte di bacio figurata nella Cantica di Salomone dove l’amica dice: Che mi bacie col bacio de sua bocca, perché col suo ferire un troppo crudo amor mi fa languire. Da altri è chiamata sonno, dove dice il Salmista: S’avverrà, ch’io dia sonno a gli occhi miei, e le palpebre mie dormitaransi, arrò ’n colui pacifico riposo. Dice dumque cossì l’alma, come languida per esser morta in sé, e viva ne l’oggetto: Abiate cur’ o furiosi al core: ché tropp’ il mio da me fatto lontano, condotto in crud’e dispietata mano, lieto soggiorn’ove si spasma e muore. Co i pensier mel richiamo a tutte l’ore: et ei rubello qual girfalco insano, non più conosce quell’amica mano, onde per non tornar è uscito fore. Bella fera, ch’in pene tante contenti, il cor, spirt’, alma annodi con tue punte, tuoi vampi e tue catene, de sguardi, accenti e modi; quel che languisc’et arde, e non riviene, chi fia che saldi, refrigere e snodi? Ivi l’anima dolente non già per vera discontentezza, ma con affetto di certo amoroso martìre parla come drizzando il suo sermone a gli similmente appassionati: come se non a felice suo grado abbia donato congedo al core, che corre dove non può arrivare, si stende dove non può giongere, e vuol abbracciare quel che non può comprendere; e con ciò perché in vano s’allontana da lei, mai sempre più e più va accendendosi verso l’infinito. cicada Onde procede, o Tansillo, che l’animo in tal progresso s’appaga del suo tormento? onde procede quel sprone ch’il stimola sempre oltre quel che possiede? tansillo Da questo che ti dirò adesso. Essendo l’intelletto divenuto all’apprension d’una certa e definita forma intelligibile, e la volontà all’affezzione commensurata a tale apprensione, l’intelletto non si ferma là: perché dal proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene in sé ogni geno de intelligibile et appetibile, sin che vegna ad apprendere con l’intelletto l’eminenza del fonte de l’idee, oceano d’ogni verità e bontade. Indi aviene che qualunque specie gli vegna presentata e da lei vegna compresa: da questo che è presentata e compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore e maggiore, con ciò sempre ritrovandosi in discorso e moto in certa maniera. Perché sempre vede che quel tutto che possiede è cosa misurata, e però non può essere bastante per sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è l’universo, non è l’ente absoluto: ma contratto ad esser questa natura, ad esser questa specie, questa forma rapresentata a l’intelletto e presente a l’animo. Sempre dumque dal bello compreso, e per conseguenza misurato, e conseguentemente bello per participazione, fa progresso verso quello che è veramente bello, che non ha margine e circonscrizzione alcuna. cicada Questa prosecuzione mi par vana. tansillo Anzi non, atteso che non è cosa naturale né tansillo cicada tansillo conveniente che l’infinito sia compreso, né esso può donarsi finito: percioché non sarrebe infinito; ma è conveniente e naturale che l’infinito per essere infinito sia infinitamente perseguitato (in quel modo di persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di certo moto metafisica; et il quale non è da imperfetto al perfetto: ma va circuendo per gli gradi della perfezzione, per giongere a quel centro infinito il quale non è formato né forma). cicada Vorrei sapere come circuendo si puo arrivare al centro. Non posso saperlo. Perché lo dici? Perché posso dirlo, e lasciarvel considerare. Se non volete dire che quel che perséguita l’infinito, è come colui che discorrendo per la circonferenza cerca il centro, io non so quel che vogliate dire. tansillo Altro. cicada Or se non vuoi dechiararti, io non voglio intenderti. Ma dimmi, se ti piace: che intende per quel che dice il core esser condotto in cruda e dispietata mano? tansillo Intende una similitudine o metafora tolta da quel, che comunmente si dice crudele chi non si lascia fruire o non pienamente fruire, e che è più in desio che in possessione; onde per quel che possiede alcuno, non al tutto lieto soggiorna, perché brama, si spasma e muore. cicada Quali son quei pensieri che il richiamano a dietro, per ritrarlo da sì generosa impresa? tansillo Gli affetti sensitivi et altri naturali che guardano al regimento del corpo. cicada Che hanno a far quelli di questo che in modo alcuno non può aggiutargli, né favorirgli? tansillo Non hanno a far di lui, ma de l’anima: la quale essendo troppo intenta ad una opra o studio, dovien remissa e poco sollecita ne l’altra. cicada tansillo cicada sanno. Perché lo chiama qual insano? Perché soprasape. Sogliono esser chiamati insani quei che men tansillo Anzi insani son chiamati quelli che non sanno secondo l’ordinario, o che tendano più basso per aver men senso, o che tendano più alto per aver più intelletto. cicada M’accorgo che dici il vero. Or dimmi appresso: quai sono le punte, gli vampi e le catene? tansillo Punte son quelle nuove che stimulano e risvegliano l’affetto perché attenda; vampi son gli raggi della bellezza presente che accende quel che gli attende; catene son le parti e circonstanze che tegnono fissi gli occhi de l’attenzione et uniti insieme gli oggetti e le potenze. cicada Che son gli sguardi, accenti e modi? tansillo Sguardi son le raggioni con le quali l’oggetto (come ne mirasse) ci si fa presente; accenti son le raggioni con le quali ci inspira et informa; modi son le circonstanze con le quali ci piace sempre et aggrada. Di sorte ch’il cor che dolcemente languisce, suavemente arde e constantemente nell’opra persevera; teme che la sua ferita si salde, ch’il suo incendio si smorze e che si sciolga il suo laccio. cicada Or recita quel che seguita. tansillo ch’uscir volete da materne fasce de l’afflitt’alma, e siete acconci arcieri per tirar al versagli’ onde vi nasce l’alto concetto: in questi erti sentieri scontrarvi a cruda fier’il ciel non lasce. Sovvengav’il tornar, e richiamate il cor ch’in man di dea selvaggia late. Armatevi d’amore di domestiche fiamme, et il vedere reprimete sì forte, che straniere non vi rendan compagni del mio core. Al men portate nuova di quel ch’a lui tanto diletta e giova. Qua descrive la natural sollecitudine de l’anima attenta circa la generazione per l’amicizia ch’ha contratta con la materia. Ispedisce gli armati pensieri che sollecitati e spinti dalla querela della natura inferiore, son inviati a richiamar il core. L’anima l’instruisce come si debbano portare perché invaghiti et attratti dal oggetto non facilmente vegnano anch’essi sedotti a rimaner cattivi e compagni del core. Dice dumque che s’armino d’amore: di quello amore che accende con domestiche fiamme, cioè quello che è amico della generazione alla quale son ubligati, e nella cui legazione, ministerio e milizia si ritrovano. Appresso li dà ordine che reprimano il vedere chiudendo gli occhi, perché non mirino altra beltade o bontade che quella qual gli è presente, amica e madre. E conchiude al fine che se per altro ufficio non vogliono farsi rivedere, rivegnano al manco per donargli saggio delle raggioni e stato del suo core. cicada Prima che procediate ad altro, vorrei intender da voi che è quello che intende l’anima quando dice a gli pensieri: il vedere reprimete sì forte. tansillo Ti dirò. Ogni amore procede dal vedere: l’amore intelligibile dal vedere intelligibilmente; il sensibile dal vedere sensibilmente. Or questo vedere ha due significazioni: perché o significa la potenza visiva, cioè la vista, che è l’intelletto, overamente senso; o significa l’atto di quella potenza, cioè quell’applicazione che fa l’occhio o l’intelletto a l’oggetto materiale o intellettuale. Quando dumque si consegliano gli pensieri di reprimere il vedere, non s’intende del primo modo, ma del secondo; perché questo è il padre della seguente affezzione del appetito sensitivo o intellettivo. cicada Questo è quello ch’io volevo udir da voi. Or se l’atto della potenza visiva è causa del male o bene che procede dal vedere, onde avviene che amiamo e desideramo di vedere? Et onde avviene che nelle cose divine abbiamo più amore che notizia? tansillo Desideriamo il vedere, perché in qualche modo veggiamo la bontà del vedere; perché siamo informati che per l’atto del vedere le cose belle s’offreno: però desiderano quell’atto, perché desideriamo le cose belle. cicada Desideriamo il bello e buono; ma il vedere non è bello, né buono, anzi più tosto quello è parangone o luce per cui veggiamo non solamente il bello e buono, ma anco il rio e brutto. Però mi pare ch’il vedere tanto può esser bello o buono, quanto la vista può esser bianco o nero: se dumque la vista (la quale è atto) non è bello né buono, come può cadere in desiderio? tansillo Se non per sé, certamente per altro è desiderata, essendo che l’apprension di quell’altro senza lei non si faccia. cicada Che dirai se quell’altro non è in notizia di senso né d’intelletto? come, dico, può esser desiderato almanco d’esser visto, se di esso non è notizia alcuna, se verso quello né l’intelletto né il senso ha esercitato atto alcuno, anzi è in dubio se sia intelligibile o sensibile, se sia cosa corporea o incorporea, se sia uno o doi o più, d’una o d’un’altra maniera? tansillo Rispondo che nel senso e l’intelletto è un appetito et appulso al sensibile in generale; perché l’intelletto vuol intender tutto il vero, perché s’apprenda poi tutto quello che è bello o buono intelligibile: la potenza sensitiva vuol informarsi de tutto il sensibile, per che s’apprenda poi quanto è buono o bello sensibile. Indi aviene che non meno desiderano vedere le cose ignote e mai viste, che le cose conosciute e viste. E da questo non séguita ch’il desiderio non proceda da la cognizione, e che qualche cosa desideriamo che non è conosciuta; ma dico che sta pur raro e fermo che non desideriamo cose incognite. Perché se sono occorre quanto all’esser particulare, non sono occolte quanto a l’esser generale: come in tutta la potenza visiva si trova tutto il visibile in attitudine, nella intellettiva tutto l’intelligibile. Però come ne l’attitudine è l’inclinazione a l’atto, aviene che l’una e l’altra potenza è inchinata a l’atto in universale, come a cosa naturalmente appresa per buona. Non parlava dumque a sordi o ciechi l’anima, quando consultava con suoi pensieri de reprimere il vedere, il quale quantunque non sia causa prossima del volere, è però causa prima e principale. cicada Che intendete per questo ultimamente detto? tansillo Intendo che non è la figura o la specie sensibilmente o intelligibilmente representata, la quale per sé muove: perché mentre alcuno sta mirando la figura manifesta a gli occhi, non viene ancora ad amare; ma da quello instante che l’animo concipe in se stesso quella figurata non più visibile ma cogitabile, non più dividua ma individua, non più sotto specie di cosa, ma sotto specie di buono o bello, all’ora subito nasce l’amore. Or questo è quel vedere dal quale l’anima vorrebbe divertir gli occhi de suoi pensieri. Qua la vista suole promuovere l’affetto ad amar più che non è quel che vede; perché, come poco fa ho detto, sempre considera (per la notizia universale che tiene del bello e buono) che oltre li gradi della compresa specie de buono e bello, sono altri et altri in infinito. cicada Onde procede che dopo che siamo informati de la specie del bello la quale è conceputa nell’animo, pure desideriamo di pascere la vista esteriore? tansillo Da quel, che l’animo vorrebbe sempre amare quel che ama, vuol sempre vedere quel che vede. Però vuole che quella specie che gli è stata parturita dal vedere non vegna ad attenuarsi, snervarsi e perdersi. Vuol dumque sempre oltre et oltre vedere, perché quello che potrebe oscurarsi nell’affetto interiore, vegna spesso illustrato dall’aspetto esteriore: il quale come è principio de l’essere, bisogna che sia principio del conservare. Proporzionalmente accade ne l’atto del intendere e considerare: perché come la vista si riferisce alle cose visibili, cossì l’intelletto alle cose intelligibili. Credo dumque ch’intendiate a che fine et in che modo l’anima intenda quando dice: reprimet’il vedere. cicada Intendo molto bene. Or seguitate a riportar quel ch’avvenne di questi pensieri. tansillo Séguita la querela de la madre contra gli detti figli li quali, per aver contra l’ordinazion sua aperti gli occhi et affissigli al splendor de l’oggetto, erano rimasi in compagnia del core. Dice dumque: E voi ancor a me figli crudeli, per più inasprir mia doglia, mi lasciaste; e perché senza fin più mi quereli, ogni mia spene con voi n’amenaste. A che il senso riman, o avari cieli? a che queste potenze tronche e guaste, se non per farmi materia et essempio de sì grave martir, sì lungo scempio? Deh (per dio) cari figli, lasciate pur mio fuoco alato in preda, e fate ch’io di voi alcun riveda tornato a me da que’ tenaci artigli. Lassa, nessun riviene per tardo refrigerio de mie pene. Eccomi misera priva del core, abandonata da gli pensieri, lasciata da la speranza, la qual tutta avevo fissa in essi; altro non mi rimane che il senso della mia povertà, infelicità e miseria. E perché non son oltre lasciata da questo? perché non mi soccorre la morte, ora che son priva de la vita? A che mi trovo le potenze naturali prive de gli atti suoi? Come potrò io sol pascermi di specie intelligibili, come di pane intellettuale, se la sustanza di questo supposito è composta? Come potrò io trattenirmi nella domestichezza di queste amiche e care membra, che m’ho intessute in circa, contemprandole con la simmetria de le qualitadi elementari, se mi abandonano gli miei pensieri tutti et affetti, intenti verso la cura del pane immateriale e divino? Su su, o miei fugaci pensieri, o mio rubelle cuore: viva il senso di cose sensibili e l’intelletto de cose intelligibili. Soccorrasi al corpo con la materia e suggetto corporeo, e l’intelletto con gli suoi oggetti s’appaghe: a fin che conste questa composizione, non si dissolva questa machina, dove per mezzo del spirito l’anima è unita al corpo. Come, misera, per opra domestica più tosto che per esterna violenza ho da veder quest’orribil divorzio ne le mie parti e membra? Perché l’intelletto s’impaccia di donar legge al senso e privarlo de suoi cibi? e questo per il contrario resiste a quello, volendo vivere secondo gli proprii e non secondo l’altrui statuti? perché questi e non quelli possono mantenerlo e bearlo, percioché deve essere attento alla sua comoditade e vita, non a l’altrui. Non è armonia e concordia dove è unità, dove un essere vuol assorbir tutto l’essere; ma dove è ordine et analogia di cose diverse; dove ogni cosa serva la sua natura. Pascasi dumque il senso secondo la sua legge de cose sensibili, la carne serva alla legge de la carne, il spirito alla legge del spirito, la raggione a la legge de la raggione: non si confondano, non si conturbino. Basta che uno non guaste o pregiudiche alla legge de l’altro, se non è giusto che il senso oltragge alla legge della raggione. È pur cosa vituperosa che quella tirannegge su la legge di questo, massime dove l’intelletto è più peregrino e straniero, et il senso è più domestico e come in propria patria. – Ecco dumque, o miei pensieri, come di voi, altri son ubligati di rimanere alla cura di casa, et altri possono andar a procacciare altrove. Questa è legge di natura, questa per conseguenza è legge dell’autore e principio della natura. Peccate dumque or che tutti sedotti dalla vaghezza de l’intelletto lasciate al periglio de la morte l’altra parte di me. Onde vi è nato questo malencolico e perverso umore di rompere le certe e naturali leggi de la vita vera che sta nelle vostre mani, per una incerta e che non è se non in ombra oltre gli limiti del fantastico pensiero? Vi par cosa naturale che non vivano animale et umanamente, ma divina, se elli non sono dèi ma uomini et animali? È legge del fato e della natura che ogni cosa s’adopre secondo la condizion de l’esser suo: per che dumque mentre perseguitate il nettare avaro de gli dèi, perdete il vostro presente e proprio, affligendovi forse sotto la vana speranza de l’altrui? Credete che non si debba sdegnar la natura di donarvi l’altro bene, se quello che presentanearnente v’offre tanto stoltamente dispreggiate? Sdegnarà il ciel dar il secondo bene a chi ’l primiero don caro non tiene. Con queste e simili raggioni l’anima prendendo la causa de la parte più inferma, cerca de richiamar gli pensieri alla cura del corpo. Ma quelli (benché al tardi) vegnono a mostrarsegli non già di quella forma con cui si partiro, ma sol per dichiarargli la sua ribellione, e forzarla tutta a seguitarli. Là onde in questa forma si lagna la dolente: Ahi cani d’Atteon, o fiere ingrate, che drizzai al ricetto de mia diva, e vòti di speranza mi tornate; anzi venendo a la materna riva, tropp’infelice fio mi riportate: mi sbranate, e volete ch’i’ non viva. Lasciami, vita, ch’al mio sol rimonte, fatta gemino rio senz’il mio fonte. Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi disciolga? Quand’avverrà ch’anch’io da qua mi tolga, e ratt’a l’alt’oggetto mi sulleve; e insieme col mio core e i communi pulcini ivi dimore? Vogliono gli Platonici che l’anima, quanto alla parte superiore, sempre consista ne l’intelletto, dove ha raggione d’intelligenza più che de anima: atteso che anima è nomata per quanto vivifica il corpo e lo sustenta. Cossì qua la medesima essenza che nodrisce e mantiene li pensieri in alto insieme col magnificato cuore, se induce dalla parte inferiore contrastarsi e richiamar quelli come ribelli. cicada Sì che non sono due essenze contrarie, ma una suggetta a doi termini di contrarietade? tansillo Cossì è a punto; come il raggio del sole il quale quindi tocca la terra et è gionto a cose inferiori et oscure che illustra, vivifica et accende, indi è gionto a l’elemento del fuoco, cioè a la stella da cui procede, ha principio, è diffuso, et in cui ha propria et originale sussistenza: cossì l’anima ch’è nell’orizonte della natura corporea et incorporea, ha con che s’inalze alle cose superiori, et inchine a cose inferiori. E ciò puoi vedere non accadere per raggion et ordine di moto locale, ma solamente per appulso d’una e d’un’altra potenza o facultade. Come quando il senso monta all’imaginazione, l’imaginazione alla raggione, la raggione a l’intelletto, l’intelletto a la mente, all’ora l’anima tutta si converte in Dio, et abita il mondo intelligibile. Onde per il contrario descende per conversion al mondo sensibile per via de l’intelletto, raggione, imaginazione, senso, vegetazione. cicada È vero ch’ho inteso che per trovarsi l’anima nell’ultimo grado de cose divine, meritamente descende nel corpo mortale, e da questo risale di nuovo alli divini gradi; e che son tre gradi d’intelligenze: perché son altre nelle quali l’intellettuale supera l’animale, quali dicono essere l’intelligenze celesti; altre nelle quali l’animale supera l’intellettuale, quali son l’intelligenze umane; altre sono nelle quali l’uno e l’altro si portano ugualmente, come quelle de demoni o eroi. tansillo Nell’apprender dumque che fa la mente, non può desiderare se non quanto gli è vicino, prossimo, noto e familiare. Cossì il porco non può desiderar esser uomo, né quelle cose che son convenienti all’appetito umano. Ama più d’isvoltarsi per la luta che per un letto de bissino; ama d’unirsi ad una scrofa, non a la più bella donna che produca la natura: perché l’affetto séguita la raggion della specie (e tra gli uomini si può vedere il simile, secondo che altri son più simili a una specie de bruti animali, altri ad un’altra: questi hanno del quadrupede, quelli [del] volatile; e forse hanno qualche vicinanza, la qual non voglio dire, per cui si son trovati quei che sono affetti a certe sorte di bestie). Or a la mente (che trovasi oppressa dalla material congionzione de l’anima) se fia lecito di alzarsi alla contemplazione d’un altro stato in cui l’anima può arrivare, potrà certo far differenza da questo a quello, e per il futuro spreggiar il presente. Come se una bestia avesse senso della differenza che è tra le sue condizioni e quelle de l’uomo, e l’ignobiltà del stato suo dalla nobiltà del stato umano, al quale non stimasse impossibile di poter pervenire; amarebbe più la morte che li donasse quel camino et ispedizione, che la vita quale l’intrattiene in quel essere presente. Qua dumque quando l’anima si lagna dicendo O cani d’Atteon, viene introdotta come cosa che consta di potenze inferiori solamente, e da cui la mente è ribellata con aver menato seco il core, cioè gl’intieri affetti, con tutto l’exercito de pensieri: là onde per apprension del stato presente et ignoranza d’ogni altro stato, il quale non più lo stima essere, che da lei possa esser conosciuto, si lamenta de pensieri li quali al tardi convertendosi a lei vegnono per tirarla su più tosto che a farsi ricettar da lei. E qua per la distrazzione che patisce dal commune amore della materia e di cose intelligibili, si sente lacerare e sbranare di sorte che bisogna al fine di cedere a l’appulso più vigoroso e forte. Qua se per virtù di contemplazione ascende o è rapita sopra l’orizonte de gli affetti naturali, onde con più puro occhio apprenda la differenza de l’una e l’altra vita, all’ora vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto; e benché viva nel corpo, vi vegeta come morta, e vi è presente in atto de animazione et absente in atto d’operazioni; non perché non vi operi mentre il corpo è vivo, ma perché l’operazioni del composto sono rimesse, fiacche e come dispenserate. cicada Cossì un certo Teologo, che si disse rapito sin al terzo cielo, invaghito da la vista di quello, disse che desiderava la dissoluzione dal suo corpo. tansillo In questo modo, dove prima si lamentava del core e querelavasi de pensieri, ora desidera d’alzarsi con quelli in alto, e mostra il rincrescimento suo per la communicazione e familiarità contratta con la materia corporale, e dice: Lasciami vita corporale, e non m’impacciar ch’io rimonti al mio più natio albergo, al mio sole: lasciami ormai che più non verse pianto da gli occhi miei, o perché mal posso soccorrerli, o perché rimagno divisa dal mio bene; lasciami, che non è decente né possibile che questi doi rivi scorrano senza il suo fonte, cioè senza il core: non bisogna (dico), che io faccia dei fiumi de lacrime qua basso, se il mio core il quale è fonte de tai fiumi, se n’è volato ad alto con le sue ninfe, che son gli miei pensieri. Cossì a poco a poco, da quel disamore e rincrescimento procede a l’odio de cose inferiori; come quasi dimostra dicendo: Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi disciolga? e quel che seguita appresso. cicada Intendo molto bene questo, e quello che per questo volete inferire a proposito della principale intenzione: cioè che son gli gradi de gli amori, affezzioni e furori, secondo gli gradi di maggior o minore lume di cognizione et intelligenza. tansillo Intendi bene. Da qua devi apprendere quella dottrina che comunmente, tolta da’ Pitagorici e Platonici vuole che l’anima fa gli doi progressi d’ascenso e descenso, per la cura ch’ha di sé e de la materia; per quel ch’è mossa dal proprio appetito del bene, e per quel ch’è spinta da la providenza del fato. cicada Ma di grazia dimmi brevemente quel che intendi de l’anima del mondo: se ella ancora non può ascendere né descendere? tansillo Se tu dimandi del mondo secondo la volgar significazione, cioè in quanto significa l’universo, dico che quello per essere infinito e senza dimensione o misura, viene a essere inmobile et inanimato et informe, quantunque sia luogo de mondi infiniti mobili in esso, et abbia spacio infinito, dove son tanti animali grandi che son chiamati astri. Se dimandi secondo la significazione che tiene appresso gli veri filosofi, cioè in quanto significa ogni globo, ogni astro, come è questa terra, il corpo del sole, luna et altri, dico che tal anima non ascende né descende, ma si volta in circolo. Cossì essendo composta de potenze superiori et inferiori, con le superiori versa circa la divinitade, con l’inferiori circa la mole la qual viene da essa vivificata e mantenuta intra gli tropici della generazione e corrozzione de le cose viventi in essi mondi, servando la propria vita eternamente: perché l’atto della divina providenza sempre con misura et ordine medesimo, con divino calore e lume le conserva nell’ordinario e medesimo essere. cicada Mi basta aver udito questo a tal proposito. tansillo Come dumque accade che queste anime particolari diversamente secondo diversi gradi d’ascenso e descenso vegnono affette quanto a gli abiti et inclinazioni, cossì vegnono a mostrar diverse maniere et ordini de furori, amori e sensi: non solamente nella scala de la natura, secondo gli ordini de diverse vite che prende l’anima in diversi corpi, come vogliono espressamente gli Pitagorici, Saduchimi et altri, et implicitamente Platone et alcuni che più profondano in esso; ma ancora nella scala de gli affetti umani, la quale è cossì numerosa de gradi come la scala della natura, atteso che l’uomo in tutte le sue potenze mostra tutte le specie de lo ente. cicada Però da le affezzioni si possono conoscer gli animi, se vanno alto o basso, o se vegnono da alto o da basso, se procedono ad esser bestie o pur ad essere divini, secondo lo essere specifico come intesero gli Pitagorici, o secondo la similitudine de gli affetti solamente come comunmente si crede: non dovendo la anima umana posser essere anima di bruto, come ben disse Plotino, et altri Platonici secondo la sentenza del suo principe. tansillo Bene. Or per venire al proposito, da furor animale questa anima descritta è promossa a furor eroico, se la dice: Quando averrà ch’al alto oggetto mi sulleve, et ivi dimore in compagnia del mio core e miei e suoi pulcini? Questo medesimo proposito continova quando dice: Destin, quando sarà ch’io monte monte, qual per bearm’a l’alte porte porte, che fan quelle bellezze conte, conte, e ’l tenace dolor conforte forte chi fe’ le membra me disgionte, gionte, né lascia mie potenze smorte morte? Mio spirto più ch’il suo rivale vale, s’ove l’error non più l’assale, sale. Se dove attende, tende, e là ’ve l’alto oggett’ascende, ascende: e se quel ben ch’un sol comprende, prende, per cui convien che tante emende mende; esser felice lice, come chi sol tutto predice dice. O destino, o fato, o divina immutabile providenza, quando sarà ch’io monte a quel monte, cioè ch’io vegna a tanta altezza di mente, che mi faccia toccar transportandomi quegli alti aditi e penetrali, che mi fanno evidenti e come comprese e numerate quelle conte, cioè rare bellezze? Quando sarà, che forte et efficacemente conforte il mio dolore (sciogliendomi da gli strettissimi lacci de le cure, nelle quali mi trovo) colui che fe’ gionte et unite le mie membra, ch’erano disunite e sgionte: cioè l’amore che ha unito insieme queste corporee parti, ch’erano divise quanto un contrario è diviso da l’altro, e che ancora queste potenze intellettuali, quali ne gli atti suoi son smorte, non le lascia a fatto morte, facendole alquanto respirando aspirar in alto? Quando, dico, mi confortarà a pieno, donando a queste libero et ispedito il volo, per cui possa la mia sustanza tutta annidarsi là dove forzandomi convien ch’io emende tutte le mende mie; dove pervenendo il mio spirito, vale più ch’il rivale, perché non v’è oltraggio che li resista, non è contrarietà ch’il vinca, non v’è error che l’assaglia? Oh se tende et arriva là dove forzandosi attende; et ascende e perviene a quell’altezza, dove ascende, vuol star montato, alto et elevato il suo oggetto: se fia che prenda quel bene che non può esser compreso da altro che da uno, cioè da se stesso (atteso che ogn’altro l’have in misura della propria capacità; e quel solo in tutta pienezza): all’ora avverrammi l’esser felice in quel modo che dice chi tutto predice, cioè dice quella altezza nella quale il dire tutto e far tutto è la medesima cosa; in quel modo che dice o fa chi tutto predice, cioè chi è de tutte cose efficiente e principio: di cui il dire [e] preordinare è il vero fare e principiare. Ecco come per la scala de cose superiori et inferiori procede l’affetto de l’amore, come l’intelletto o sentimento procede da questi oggetti intelligibili o conoscibili a quelli; o da quelli a questi. cicada Cossì vogliono la più gran parte de sapienti la natura compiacersi in questa vicissitudinale circolazione che si vede ne la vertigine de la sua ruota.  cicada Fate pure ch’io veda, perché da me stesso potrò considerar le condizioni di questi furori, per quel ch’appare esplicato nell’ordine (in questa milizia) qua descritto. tansillo Vedi come portano l’insegne de gli suoi affetti o fortune. Lasciamo di considerar su gli lor nomi et abiti; basta che stiamo su la significazion de l’imprese et intelligenza de la scrittura, tanto quella che è messa per forma del corpo de la imagine, quanto l’altra ch’è messa per il più de le volte a dechiarazion de l’impresa. cicada Cossì farremo. Or ecco qua il primo che porta un scudo distinto in quattro colori, dove nel cimiero è depinta la fiamma sotto la testa di bronzo, da gli forami della quale esce a gran forza un fumoso vento, e vi è scritto in circa At regna senserunt tria. tansillo Per dichiarazion di questo direi che per essere ivi il fuoco che per quel che si vede scalda il globo, dentro il quale è l’acqua, avviene che questo umido elemento essendo rarefatto et attenuato per la virtù del calore, e per conseguenza risoluto in vapore, richieda molto maggior spacio per esser contenuto: là onde se non trova facile exito, va con grandissima forza, strepito e ruina a crepare il vase. Ma se vi è loco o facile exito d’onde possa evaporare, indi esce con violenza minore a poco a poco; e secondo la misura con cui l’acqua se risolve in vapore, soffiando svapora in aria. Qua vien significato il cor del furioso, dove come in esca ben disposta essendo attaccato l’amoroso foco, accade che della sustanza vitale altro sfaville in fuoco, altro si veda in forma de lacrimoso pianto boglier nel petto, altro per l’exito di ventosi suspiri accender l’aria. – E però dice At regna senserunt tria. Dove quello At ha  II. tansillo Appresso è designato un che ha nel suo scudo parimente destinto in quattro colori, il cimiero, dove è un sole che distende gli raggi nel dorso de la terra; e vi è una nota che dice Idem semper ubique totum. Giordano Bruno De gli eroici furori virtù di supponere differenza, o diversità, o contrarietà: quasi dicesse che altro è che potrebbe aver senso del medesimo, e non l’have. Il che è molto bene esplicato ne le rime seguenti sotto la figura: Dal mio gemino lume, io poca terra soglio non parco umor porgere al mare; da quel che dentr’il petto mi si serra spirto non scarso accolgon l’aure avare; e ’l vampo che dal cor mi si disserra si può senza scemars’al ciel alzare: con lacrime, suspiri et ardor mio a l’acqua, a l’aria, al fuoco rendo il fio. Accogli’acqu’, aria, foco qualche parte di me: ma la mia dea si dimostra cotant’iniqua e rea, che né mio pianto appo lei trova loco, né la mia voce ascolta, né piatos’al mi’ardor umqua si volta. Qua la suggetta materia significata per la terra è la sustanza del furioso; versa dal gemino lume, cioè da gli occhi, copiose lacrime che fluiscono al mare; manda dal petto la grandezza e moltitudine de suspiri a l’aria capacissimo; et il vampo del suo core non come picciola favilla o debil fiamma nel camino de l’aria s’intepidisce, infuma e trasmigra in altro essere: ma come potente e vigoroso (più tosto acquistando de l’altrui che perdendo del proprio) gionge alla congenea sfera. cicada Ho ben compreso il tutto. A l’altro. cicada Vedo che non può esser facile l’interpretazione. tansillo Tanto il senso è più eccellente, quanto è men volgare: il qual vedrete essere solo, unico e non stiracchiato. Dovete considerare che il sole benché al rispetto de diverse regioni de la terra, per ciascuna, sia diverso, a tempi a tempi, a loco a loco, a parte a parte; al riguardo però del globo tutto, come medesimo, sempre et in cadaun loco fa tutto: atteso che, in qualunque punto de l’eclittica ch’egli si trove, viene a far l’inverno, l’estade, l’autunno e la primavera; e l’universal globo de la terra a ricevere in sé le dette quattro tempeste. Perché mai è caldo a una parte che non sia freddo a l’altra; come quando fia a noi nel tropico del Cancro caldissimo, è freddissimo al tropico del Capricorno; di sorte che è a medesima raggione l’inverno a quella parte, con cui a questa è l’estade, et a quelli che son nel mezzo è temperato, secondo la disposizion vernale o autumnale. Cossì la terra sempre sente le piogge, li venti, gli calori, gli freddi; anzi non sarebbe umida qua, se non disseccasse in un’altra parte, e non la scalderebe da questo lato il sole, se non avesse lasciato d’iscaldarla da quell’altro. cicada Prima che finisci ad conchiudere, io intendo quel che volete dire. Intendeva egli che come il sole sempre dona tutte le impressioni a la terra, e questa sempre le riceve intiere e tutte: cossì l’oggetto del furioso col suo splendore attivamente lo fa suggetto passivo de lacrime, che son l’acqui; de ardori, che son gl’incendii; e de suspiri quai son certi vapori, che son mezzi che parteno dal fuoco e vanno a l’acqui, o partono da l’acqui e vanno al fuoco. tansillo Assai bene s’esplica appresso: Quando declin’il sol al Capricorno, fan più ricco le piogge ogni torrente; se va per l’equinozzio o fa ritorno, ogni postiglion d’Eolo più si sente; e scalda più col più prolisso giorno, nel tempo che rimonta al Cancro ardente: non van miei pianti, sospiri et ardori con tai freddi, temperie e calori. Sempre equalmente in pianto, quantumqu’intensi sien suspiri e fiamme. E benché troppo m’inacqui et infiamme, mai avvien ch’io suspire men che tanto: infinito mi scaldo, equalment’a i suspiri e pianger saldo. cicada Questo non tanto dechiara il senso de la divisa come il precedente discorso faceva: quanto più tosto dice la conseguenza di quello, o l’accompagna. tansillo Dite megliore, che la figura è latente ne la prima parte, et il motto è molto esplicato ne la seconda; come l’uno e l’altro è molto propriamente significato nel tipo del sole e de la terra. cicada Passamo al terzo. III. tansillo Il terzo nel scudo porta un fanciullo ignudo disteso sul verde prato, e che appoggia la testa sollevata sul braccio con gli occhi rivoltati verso il cielo a certi edificii de stanze, torri, giardini et orti che son sopra le nuvole, e vi è un castello di cui la materia è fuoco; et in mezzo è la nota che dice Mutuo fulcimur. cicada Che vuol dir questo? tansillo Intendi quel furioso significato per il fanciullo ignudo come semplice, puro et esposto a tutti gli accidenti di natura e di fortuna, qualmente con la forza del pensiero edifica castegli in aria, e tra l’altre cose una torre di cui l’architettore è l’amore, la materia l’amoroso foco, et il fabricatore egli medesimo, che dice Mutuo fulcimu: cioè io vi edifico e vi sustegno là con il pensiero, e voi mi sustenete qua con la speranza: voi non sareste in essere se non fusse l’imaginazione et il pensiero con cui vi formo e sustegno, et io non sarrei in vita se non fusse il refrigerio e conforto che per vostro mezzo ricevo. cicada È vero che non è cosa tanto vana e tanto chimerica fantasia, che non sia più reale e vera medicina d’un furioso cuore, che qualsivoglia erba, pietra, oglio, o altra specie che produca la natura. tansillo Più possono far gli maghi per mezzo della fede, che gli medici per via de la verità: e ne gli più gravi morbi più vegnono giovati gl’infermi con credere quel tanto che quelli dicono, che con intendere quel tanto che questi facciono. Or legansi le rime: Sopra de nubi, a l’eminente loco, quando tal volta vaneggiando avvampo, per di mio spirto refrigerio e scampo, tal formo a l’aria castel de mio foco: s’il mio destin fatale china un poco, a fin ch’intenda l’alta grazia il vampo in cui mi muoio, e non si sdegn’ o adire, o felice mia pena e mio morire. Quella de fiamme e lacci tuoi, o garzon, che gli uomini e gli divi fan suspirar, e soglion far cattivi, l’ardor non sente, né prova gl’impacci: ma può ’ntrodurt’, o Amore, man di pietà, se mostri il mio dolore. cicada Mostra che quel che lo pasce in fantasia, e gli fomenta il spirito, è che (essendo lui tanto privo d’ardire d’esplicarsi a far conoscere la sua pena, quanto profondamente suggetto a tal martìre), se avvenisse ch’il fato rigido e rubelle chinasse un poco (perché voglia il destino al fin rasserenargli il volto), con far che senza sdegno o ira de l’alto oggetto gli venesse manifesto, non stima egli gioia tanto felice, né vita tanto beata, quanto per tal successo lui stime felice la sua pena, e beato il suo morire. tansillo E con questo viene a dichiarar a l’Amore che la raggion per cui possa aver adito in quel petto, non è quell’ordinaria de le armi con le quali suol cattivar uomini e dèi; ma solamente con fargli aperto il cuor focoso et il travagliato spirito de lui; a la vista del quale fia necessario che la compassion possa aprirgli il passo et introdurlo a quella difficil stanza. IV. cicada Che significa qua quella mosca che vola circa la fiamma e sta quasi quasi per bruggiarsi, e che vuol dir quel motto: Hostis non hostis? tansillo Non è molto difficile la significazione de la farfalla, che sedotta dalla vaghezza del splendore, innocente et amica va ad incorrere nelle mortifere fiamme: onde hostis sta scritto per l’effetto del fuoco, non hostis per l’affetto de la mosca. Hostis la mosca passivamente, non hostis attivamente. Hostis la fiamma per l’ardore, non hostis per il splendore. cicada Or che è quel che sta scritto nella tabella? tansillo Mai fia che de l’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’ esser felice; sia pur ver che per lui penoso stente, non vo’ non voler quel che si me lice; sia chiar o fosch’il ciel, fredd’o ardente, sempr’un sarò ver l’unica fenice. Mal può disfar altro destin o sorte quel nodo che non può sciòrre la morte. Al cor, al spirt’, a l’alma non è piacer, o libertad’, o vita, qual tanto arrida, giove e sia gradita, qual più sia dolce, graziosa et alma, ch’il stento, giogo e morte, ch’ho per natura, voluntade e sorte. Qua nella figura mostra la similitudine che ha il furioso con la farfalla affetta verso la sua luce; ne gli carmi poi mostra più differenza e dissimilitudine che altro: essendo che comunmente si crede che se quella mosca prevedesse la sua ruina non tanto ora séguita la luce quanto all’ora la fuggirebbe, stimando male di perder l’esser proprio risolvendosi in quel fuoco nemico. Ma a costui non men piace svanir nelle fiamme de l’amoroso ardore, che essere abstratto a contemplar la beltà di quel raro splendore, sotto il qual per inclinazion di natura, per elezzion di voluntade e disposizion del fato, stenta, serve e muore: più gaio, più risoluto e più gagliardo, che sotto qualsivogli’altro piacer che s’offra al core, libertà che si conceda al spirito, e vita che si ritrove ne l’alma. cicada Dimmi, perché dice: sempr’un sarò? tansillo Perché gli par degno d’apportar raggione della sua constanza, atteso che il sapiente si muta con la luna, il stolto si muta come la luna. Cossì questo è unico con la fenice unica. V. cicada Bene; ma che significa quella frasca di palma, circa la quale è il motto: Caesar adest? tansillo Senza molto discorrere, tutto potrassi intendere per quel che è scritto nella tavola: Trionfator invitto di Farsaglia, essendo quasi estinti i tuoi guerrieri, al vederti, fortissimi ’n battaglia sorser, e vinser suoi nemici altieri. Tal il mio ben, ch’al ben del ciel s’agguaglia, fatto a la vista de gli miei pensieri, ch’eran da l’alma disdegnosa spenti, le fa tornar più che l’amor possenti. La sua sola presenza, o memoria di lei, sì le ravviva, che con imperio e potestade diva dóman ogni contraria violenza. La mi governa in pace; né fa cessar quel laccio e quella tace. Tal volta le potenze de l’anima inferiori, come un gagliardo e nemico essercito che si trova nel proprio paese, prattico, esperto et accomodato, insorge contra il peregrino adversario che dal monte de la intelligenza scende a frenar gli popoli de le valli e palustri pianure. Dove dal rigor della presenza de nemici e difficultà de precipitosi fossi vansi perdendo, e perderiansi a fatto, se non fusse certa conversione al splendor de la specie intelligibile mediante l’atto della contemplazione: mentre da gli gradi inferiori si converte a gli gradi superiori. cicada Che gradi son questi? tansillo Li gradi della contemplazione son come li gradi della luce, la quale nullamente è nelle tenebre; alcunamente è ne l’ombra; megliormente è ne gli colori secondo gli suoi ordini da l’un contrario ch’è il nero a l’altro che è il bianco; più efficacemente è nel splendor diffuso su gli corpi tersi e trasparenti, come nel specchio o nella luna; più vivamente ne gli raggi sparsi dal sole; altissima e principalissimamente nel sole istesso. Or essendo cossì ordinate le potenze apprensive et affettive de le quali sempre la prossima conseguente have affinità con la prossima antecedente, e per la conversione a quella che la sulleva, viene a rinforzarsi contra l’inferior che la deprime (come la raggione per la conversione a l’intelletto non è sedotta o vinta dalla notizia o apprensione et affetto sensitivo, ma più tosto secondo la legge di quello viene a domar e correger questo), accade che quando l’appetito razionale contrasta con la concupiscenza sensuale, se a quello per atto di conversione si presente a gli occhi la luce intelligenziale, viene a repigliar la smarrita virtude, rinforzar i nervi, spaventa e mette in rotta gli nemici. cicada In che maniera intendete che si faccia cotal conversione? tansillo Con tre preparazioni che nota il contemplativo Plotino nel libro Della bellezza intelligibile: de le quali la prima è proporsi de conformarsi d’una similitudine divina, divertendo la vista da cose che sono infra la propria perfezzione, e commune alle specie uguali et inferiori; secondo è l’applicarsi con tutta l’intenzione et attenzione alle specie superiori; terzo il cattivar tutta la voluntade et affetto a Dio. Perché da qua avverrà che senza dubio gl’influisca la divinità la qual da per tutto è presente e pronta ad ingerirsi a chi se gli volta con l’atto de l’intelletto, et aperto se gli espone con l’affetto de la voluntade. cicada Non è dumque corporal bellezza quella che invaghisce costui? tansillo Non certo, perché la non è vera né constante bellezza, e però non può caggionar vero né constante amore: la bellezza che si vede ne gli corpi è una cosa accidentale et umbratile e come l’altre che sono assorbite, alterate e guaste per la mutazione del suggetto, il quale sovente da bello si fa brutto senza che alterazion veruna si faccia ne l’anima. La raggion dumque apprende il più vero bello per conversione a quello che fa la beltade nel corpo, e viene a formarlo bello: e questa è l’anima che l’ha talmente fabricato e infigurato. Appresso l’intelletto s’inalza più, et apprende bene che l’anima è incomparabilmente bella sopra la bellezza che possa esser ne gli corpi; ma non si persuade che sia bella da per sé e primitivamente: atteso che non accaderebbe quella differenza che si vede nel geno de le anime, onde altre son savie, amabili e belle; altre stolte, odiose e brutte. Bisogna dumque alzarsi a quello intelletto superiore il quale da per sé è bello e da per sé è buono. Questo è quell’unico e supremo capitano, qual solo messo alla presenza de gli occhi de militanti pensieri, le illustra, incoraggia, rinforza e rende vittoriosi sul dispreggio d’ogn’altra bellezza e ripudio di qualsivogli’altro bene. Questa dumque è la presenza che fa superar ogni difficultà e vincere ogni violenza. cicada Intendo tutto. Ma che vuol dire La mi governa in pace, Né fa cessar quel laccio e quella face? tansillo Intende e prova, che qualsivoglia sorte d’amore quanto ha maggior imperio e più certo domìno, tanto fa sentir più stretti i lacci, più fermo il giogo, e più ardenti le fiamme. Al contrario de gli ordinarii prencipi e tiranni, che usano maggior strettezza e forza, dove veggono aver minore imperio. cicada Passa oltre. VI. tansillo Appresso veggio descritta la fantasia d’una fenice volante, alla quale è volto un fanciullo che bruggia in mezzo le fiamme, e vi è il motto: Fata obstant. Ma perché s’intenda meglior, leggasi la tavoletta: Unico augel del sol, vaga Fenice, ch’appareggi col mondo gli anni tui, quai colmi ne l’Arabia felice: tu sei chi fuste, io son quel che non fui; io per caldo d’amor muoio infelice; ma te ravviv’il sol co’ raggi sui; tu bruggi ’n un, et io in ogni loco; io da Cupido, hai tu da Febo il foco. Hai termini prefissi di lunga vita, et io ho breve fine, che pronto s’offre per mille ruine, né so quel che vivrò, né quel che vissi. Me cieco fato adduce, tu certo torni a riveder tua luce. Dal senso de gli versi si vede che nella figura si disegna l’antitesi de la sorte de la fenice e del furioso; e che il motto Fata obstant, non è per significar che gli fati siano contrarii o al fanciullo, o a la fenice, o a l’uno e l’altro; ma che non son medesimi, ma diversi et oppositi gli decreti fatali de l’uno e gli fatali decreti de l’altro: perché la fenice è quel che fu, essendoché la medesima materia per il fuoco si rinova ad esser corpo di fenice, e medesimo spirito et anima viene ad informarla; il furioso è quel che non fu, perché il suggetto che è d’uomo, prima fu di qualch’altra specie secondo innumerabili differenze. Di sorte che si sa quel che fu la fenice, e si sa quel che sarà: ma questo suggetto non può tornar se non per molti et incerti mezzi ad investirsi de medesima o simil forma naturale. Appresso, la fenice al cospetto del sole cangia la morte con la vita; e questo nel cospetto d’amore muta la vita con la morte. Oltre, quella su l’aromatico altare accende il foco; e questo il trova e mena seco, ovumque va. Quella ancora ha certi termini di lunga vita; ma costui per infinite differenze di tempo et innumerabili caggioni de circonstanze, ha di breve vita termini incerti. Quella s’accende con certezza, questo con dubio de riveder il sole. cicada Che cosa credete voi che possa figurar questo? tansillo La differenza ch’è tra l’intelletto inferiore, che chiamano intelletto di potenza o possibile o passibile, il quale è incerto, moltivario e moltiforme; e l’intelletto superiore, forse quale è quel che da Peripatetici è detto infima de l’intelligenze, e che immediatamente influisce sopra tutti gl’individui dell’umana specie, e dicesi intelletto agente et attuante. Questo intelletto unico specifico umano che ha influenza in tutti li individui, è come la luna, la quale non prende altra specie che quella unica, la qual sempre se rinova per la conversion che fa al sole che è la prima et universale intelligenza: ma l’intelletto umano individuale e numeroso viene come gli occhi a voltarsi ad innumerabili e diversissimi oggetti, onde secondo infiniti gradi che son secondo tutte le forme naturali viene informato. Là onde accade che sia furioso, vago et incerto questo intelletto particolare; come quello universale è quieto, stabile e certo, cossì secondo l’appetito come secondo l’apprensione. O pur quindi (come da per te stesso puoi facilmente desciferare) vien significata la natura dell’apprensione et appetito vario, vago, inconstante et incerto del senso, e del concetto et appetito definito, fermo e stabile de l’intelligenza; la differenza de l’amor sensuale che non ha certezza né discrezion de oggetti, da l’amor intellettivo il qual ha mira ad un certo e solo, a cui si volta, da cui è illuminato nel concetto, onde è acceso ne l’affetto, s’infiamma, s’illustra et è mantenuto nell’unità, identità e stato. VII. cicada Ma che vuol significare quell’imagine del sole con un circolo dentro, et un altro da fuori, con il motto Circuit? tansillo La significazion di questo son certo che mai arrei compresa, se non fusse che l’ho intesa dal medesimo figuratone: or è da sapere che quel circuit si referisce al moto del sole che fa per quel circolo, il quale gli vien descritto dentro e fuori; a significare che quel moto insieme insieme si fa et è fatto: onde per consequenza il sole viene sempre ad ritrovarsi in tutti gli punti di quello. Perché s’egli si muove in uno instante, séguita che insieme si muove et è mosso, e che è per tutta la circonferenza del circolo equalmente, e che in esso convegna in uno il moto e la quiete. cicada Questo ho compreso nelli dialogi De l’infinito, universo e mondi innumerabili, e dove si dechiara come la divina sapienza è mobilissima (come disse Salomone) e che la medesima sia stabilissima, come è detto et inteso da tutti quelli che intendono. Or séguita a farmi comprendere il proposito. tansillo Vuol dire che il suo sole non è come questo, che (come comunmente si crede) circuisce la terra col moto diurno in ventiquattro ore, e col moto planetare in dodeci mesi; laonde fa distinti gli quattro tempi de l’anno, secondo che a termini di quello si trova in quattro punti cardinali del Zodiaco; ma è tale, che (per essere la eternità istessa e conseguentemente una possessione insieme tutta e compita) insieme insieme comprende l’inverno, la primavera, l’estade, l’autunno, insieme insieme il giorno e la notte: perché è tutto per tutti et in tutti gli punti e luoghi. cicada Or applicate quel che dite alla figura. tansillo Qua, perché non è possibile designar il sol tutto in tutti gli punti del circolo, vi son delineati doi circoli: l’un che ’l comprenda per significar che si muove per quello; l’altro che sia da lui compreso per mostrar che è mosso per quello. cicada Ma questa dimostrazione non è troppo aperta e propria. tansillo Basta che sia la più aperta e propria che lui abbia possuta fare: se voi la possete far megliore vi si dà autorità di toglier quella e mettervi quell’altra; perché questa è stata messa solo a fin che l’anima non fusse senza corpo. cicada Che dite di quel Circuit? tansillo Quel motto, secondo tutta la sua significazione, significa la cosa quanto può essere significato; atteso che significa che volta e che è voltato: cioè il moto presente e perfetto. cicada Eccellentemente: e però que’ circoli li quali malamente significano la circonstanza del moto e quiete tale, possiamo dire che son messi a significar la sola circolazione. E cossì vegno contento del suggetto e de la forma de l’impresa eroica. Or legansi le rime. tansillo Sol che dal Tauro fai temprati lumi, e dal Leon tutto maturi e scaldi, e quando dal pungente Scorpio allumi, de l’ardente vigor non poco faldi; poscia dal fier Deucalion consumi tutto col fredd’, e i corp’umidi saldi: de primavera, estade, autunno, inverno mi scald’ accend’ ard’ avvamp’in eterno. Ho sì caldo il desio, che facilment’ a remirar m’accendo quell’alt’oggetto, per cui tant’ardendo, fo sfavillar a gli astri il vampo mio: non han momento gli anni, che vegga variar miei sordi affanni. Qua nota che gli quattro tempi de l’anno son significati non per quattro segni mobili che son Ariete, Cancro, Libra e Capricorno, ma per gli quattro che chiamano fissi, cioè Tauro, Leone, Scorpione et Aquario: per significare la perfezzione, stato e fervor di quelle tempeste. Nota appresso che in virtù di quelle apostrofi che son nel verso ottavo, possete leggere mi scaldo, accendo, ardo, avampo; over, scaldi, accendi, ardi, avampi; over scalda, accende, arde, avvampa”. Hai oltre da considerare che questi non son quattro sinonimi, ma quattro termini diversi che significano tanti gradi de gli effetti del fuoco. Il qual prima scalda, secondo accende, terzo bruggia, quarto infiamma o invampa quel ch’ha scaldato, acceso e bruggiato. E cossì son denotate nel furioso il desio, l’attenzione, il studio, l’affezzione, le quali in nessun momento sente variare. cicada Perché le mette sotto titolo d’affanni? tansillo Perché l’oggetto, ch’è la divina luce, in questa vita è più in laborioso voto che in quieta fruizione: perché la nostra mente verso quella è come gli occhi de gli uccelli notturni al sole. cicada Passa, perché ora da quel ch’è detto posso comprender tutto. VIII. tansillo Nel cimiero seguente vi sta depinta una luna piena col motto Talis mihi semper et astro. Vuol dir che a l’astro, cioè al Sole, et a lui sempre è tale, come si mostra qua piena e lucida nella circonferenza intiera del circolo: il che acciò che meglio forse intendi, voglio farti udire quel ch’è scritto nella tavoletta. Lun’inconstante, luna varia, quale con corna or vere e tal’or piene svalli, or l’orbe tuo bianc’or fosco risale, or Bora e de’ Rifei monti le valli fai lustre, or torni per tue trite scale a chiarir l’Austro, e di Libia le spalli. La luna mia per mia continua pena mai sempre è ferma, ci è mai sempre piena. È tale la mia stella, che sempre mi si togli’ e mai si rende, che sempre tanto bruggia e tanto splende, sempre tanto crudele e tanto bella: questa mia nobil face sempre sì mi martora, e sì mi piace. Mi par che voglia dire che la sua intelligenza particulare alla intelligenza universale è sempre tale: cioè da quella viene eternamente illuminata in tutto l’emisfero; benché alle potenze inferiori e secondo gl’influssi de gli atti suoi or viene oscura, or più e meno lucida. O forse vuol significare che l’intelletto suo speculativo (il quale è sempre in atto invariabilmente) è sempre volto et affetto verso l’intelligenza umana significata per la luna, perché come questa è detta infima de tutti gli astri et è più vicina a noi, cossì l’intelligenza illuminatrice de tutti noi (in questo stato) è l’ultima in ordine de l’altre intelligenze, come nota Averroe et altri più sottili Peripatetici. Quella a l’intelletto in potenza or tramonta, per quanto non è in atto alcuno, or come svallasse, cioè sorgesse dal basso de l’occolto emispero, si mostra or vacua or piena secondo che dona più o meno lume d’intelligenza; or ha l’orbe oscuro or bianco, perché talvolta mostra per ombra, similitudine e vestigio, tal volta più e più apertamente; or declina a l’Austro, or monta a Borea, cioè or ne si va più e più allontanando, or più e più s’avvicina. Ma l’intelletto in atto con sua continua pena (percioché questo non è per natura e condizione umana in cui si trova cossì travaglioso, combattuto, invitato, sollecitato, distratto e come lacerato dalle potenze inferiori) sempre vede il suo oggetto fermo, fisso e constante, e sempre pieno e nel medesimo splendor di bellezza. Cossì sempre se gli toglie per quanto non se gli concede, sempre se gli rende per quanto se gli concede. Sempre tanto lo bruggia ne l’affetto, come sempre tanto gli splende nel pensiero; sempre è tanto crudele in suttrarsi per quel che si suttrae, come sempre è tanto bello in comunicarsi per quel che gli se presenta. Sempre lo martòra, perciò che è diviso per differenza locale da lui, come sempre gli piace, percioché gli è congionto con l’affetto. cicada Or applicate l’intelligenza al motto. tansillo Dice dumqueTalis mihi semper, cioè per la mia continua applicazione secondo l’intelletto, memoria e volontarie (perché non voglio altro rallentare, intendere, né desiderare) sempre mi è tale, e per quanto posso capirla, al tutto presente, e non m’è divisa per distrazzion de pensiero, né me si fa più oscura per difetto d’attenzione, perché non è pensiero che mi divertisca da quella luce, e non è necessità di natura qual m’oblighi perché meno attenda. Talis mihi semper dal canto suo, perché la è invariabile in sustanza, in virtù, in bellezza et in effetto verso quelle cose che sono constanti et invariabili verso lei. Dice appresso ut astro, perché al rispetto del sole illuminator de quella sempre è ugualmente luminosa, essendo che sempre ugualmente gli è volta, e quello sempre parimente diffonde gli suoi raggi: come fisicamente questa luna che veggiamo con gli occhi, quantunque verso la terra or appaia tenebrosa or lucente, or più or meno illustrata et illustrante, sempre però dal sole vien lei ugualmente illuminata; perché sempre piglia gli raggi di quello al meno nel dorso del suo emispero intiero. Come anco questa terra sempre è illuminata nell’emisfero equalmente; quantunque da l’acquosa superficie cossì inequalmente a volte a volte mande il suo splendore alla luna (qual come molti altri astri innumerabili stimiamo un’altra terra) come aviene che quella mande a lei: atteso la vicissitudine ch’hanno insieme de ritrovarsi or l’una or l’altra più vicina al sole. cicada Come questa intelligenza è significata per la luna che luce per l’emisfero? tansillo Tutte l’intelligenze son significate per la luna, in quanto che son partecipi d’atto e di potenza, per quanto dico che hanno la luce materialmente, e secondo participazione, ricevendola da altro; dico non essendo luci per sé e per sua natura: ma per risguardo del sole ch’è la prima intelligenza, la quale è pura et absoluta luce come anco è puro et absoluto atto. cicada Tutte dumque le cose che hanno dependenza, e che non sono il primo atto e causa, sono composte come di luce e tenebra, come di materia e forma, di potenza et atto? tansillo Cossì è. Oltre, l’anima nostra secondo tutta la sustanza è significata per la luna la quale splende per l’emispero delle potenze superiori, onde è volta alla luce del mondo intelligibile, et è oscura per le potenze inferiori, onde è occupata al governo della materia. IX. cicada E mi par che a quel ch’ora è detto abbia certa conseguenza e simbolo l’impresa ch’io veggio nel seguente scudo, dove è una ruvida e ramosa quercia piantata, contra la quale è un vento che soffia, et ha circonscritto il motto Ut robori robur. Et appresso è affissa la tavola che dice: Annosa quercia, che gli rami spandi a l’aria, e fermi le radici ’n terra: né terra smossa, né gli spirti grandi che da l’aspro Aquilon il ciel disserra, né quanto fia ch’il vern’orrido mandi, dal luog’ove stai salda mai ti sferra; mostri della mia fé ritratto vero qual smossa mai stran’accidenti féro. Tu medesmo terreno mai sempr’abbracci, fai colto e comprendi, e di lui per le viscere distendi radici grate al generoso seno: i’ ad un sol oggetto ho fiss’il spirt’, il sens’e l’intelletto. [tansillo] Il motto è aperto, per cui si vanta il furioso d’aver forza e robustezza, come la rovere; e come quell’altro, essere sempre uno al riguardo da l’unica fenice; e come il prossimo precedente conformarsi a quella luna che sempre tanto splende, e tanto è bella; o pur non assomigliarsi a questa antictona tra la nostra terra et il sole in quanto ch’è varia a’ nostri occhi: ma in quanto sempre riceve ugual porzion del splendor solare in se stessa. E per ciò cossì rimaner constante e fermo contra gli Aquiloni e tempestosi inverni per la fermezza ch’ha nel suo astro in cui è piantato con l’affetto et intenzione, come la detta radicosa pianta tiene intessute le sue radici con le vene de la terra. cicada Più stimo io l’essere in tranquillità e fuor di molestia che trovarsi in una sì forte toleranza. tansillo È sentenza d’Epicurei la qual se sarà bene intesa, non sarà giudicata tanto profana quanto la stimano gli ignoranti; atteso che non toglie che quel ch’io ho detto sia virtù, né pregiudica alla perfezzione della constanza, ma più tosto aggionge a quella perfezzione che intendeno gli volgari: perché lui non stima vera e compita virtù di fortezza e constanza quella che sente e comporta gl’incommodi: ma quella che non sentendoli le porta; non stima compìto amor divino et eroico quello che sente il sprone, freno o rimorso o pena per altro amore, ma quello ch’a fatto non ha senso de gli altri affetti: onde talmente è gionto ad un piacere, che non è potente dispiacere alcuno a distorlo o far cespitare in punto. E questo è toccar la somma beatitudine in questo stato, l’aver la voluptà e non aver senso di dolore. cicada La volgare opinione non crede questo senso d’Epicuro. tansillo Perché non leggono gli suoi libri, né quelli che senza invidia apportano le sue sentenze, al contrario di color che leggono il corso de sua vita et il termine de la sua morte. Dove con queste paroli dettò il  X. tansillo Guarda in quest’altro ch’ha la fantasia di quella incudine e martello, circa la quale è il motto Ab Aetna. Ma prima che la consideriamo, leggemo la stanza. Qua s’introduce di Vulcano la prosopopea: Or non al monte mio siciliano torn’, ove tempri i folgori di Giove; Giordano Bruno De gli eroici furori principio del suo testamento: Essendo ne l’ultimo e medesimo felicissimo giorno de nostra vita, abbiamo ordinato questo con mente quieta, sana e tranquilla; perché quantunque grandissimo dolor de pietra ne tormentasse da un canto, quel tormento tutto venea assorbito dal piacere de le nostre invenzioni e la considerazion del fine. Et è cosa manifesta che non ponea felicità più che dolore nel mangiare, bere, posare e generare, ma in non sentir fame, né sete, né fatica, né libidine. Da qua considera qual sia secondo noi la perfezzion de la constanza: non già in questo che l’arbore non si fracasse, rompa o pieghe; ma in questo che né manco si muova: alla cui similitudine costui tien fisso il spirto, senso et intelletto, là dove non ha sentimento di tempestosi insulti. cicada Volete dumque che sia cosa desiderabile il comportar de tormenti, perché è cosa da forte? tansillo Questo che dite comportare è parte di constanza, e non è la virtude intiera; ma questo che dico fortemente comportare et Epicuro disse non sentire. La qual privazion di senso è caggionata da quel che tutto è stato absorto dalla cura della virtude, vero bene e felicitade. Qualmente Regolo non ebbe senso de l’arca, Lucrezia del pugnale, Socrate del veleno, Anaxarco de la pila, Scevola del fuoco, Cocle de la voragine, et altri virtuosi d’altre cose che massime tormentano e danno orrore a persone ordinarie e vili. cicada Or passate oltre. qua mi rimagno scabroso Vulcano: qua più superbo gigante si smuove, che contr’il ciel s’infiamm’e stizz’in vano, tentando nuovi studii e varie prove; qua trovo meglior fabri e Mongibello, meglior fucina, incudine e martello. Dov’un pett’ha suspiri che quai mantici avvivan la fornace, u’ l’alm’a tante scosse sottoghiace di que’ sì lunghi scempii e gran martìri; e manda quel concento che fa volgar sì aspr’e rio tormento. Qua si mostrano le pene et incomodi che son ne l’amore, massime nell’amor volgare, il quale non è altro che l’officina di Vulcano: quel fabro che forma i folgori de Giove che tormentano l’anime delinquenti. Perché il disordinato amore ha in sé il principio della sua pena; attesoché Dio è vicino, è nosco, è dentro di noi. Si trova in noi certa sacrata mente et intelligenza, cui subministra un proprio affetto che ha il suo vendicatore, che col rimorso di certa sinderesi al meno, come con certo rigido martello flagella il spirito prevaricante. Quella osserva le nostre azzioni et affetti, e come è trattata da noi fa che noi vengamo trattati da lei. In tutti gli amanti, dico, è questo fabro Vulcano: come non è uomo che non abbia Dio in sé, non è amante che non abbia questo dio. In tutti è Dio certissimamente, ma qual dio sia in ciascuno non si sa cossì facilmente; e se pur se può esaminare e distinguere, altro non potrei credere che possa chiarirlo che l’amore: come quello che spinge gli remi, gonfia la vela e modera questo composto, onde vegna bene o malamente affetto. – Dico bene o malamente affetto quanto a quel che mette in esecuzione per l’azzioni morali e contemplazione; perché del resto tutti gli amanti comunmente senteno qualch’incomodo: essendoché come le cose son miste, non essendo bene alcuno sotto concetto et affetto a cui non sia gionto o opposto il male, come né alcun vero a cui non sia apposto e gionto il falso; cossì non è amore senza timore, zelo, gelosia, rancore et altre passioni che procedono dal contrario che ne perturba, se l’altro contrario ne appaga. Talmente venendo l’anima in pensiero di ricovrar la bellezza naturale, studia purgarsi, sanarsi, riformarsi: e però adopra il fuoco, perché essendo come oro trameschiato a la terra et informe, con certo rigor vuol liberarsi da impurità; il che s’effettua quando l’intelletto vero fabro di Giove vi mette le mani essercitandovi gli atti dell’intellettive potenze. cicada A questo mi par che si riferisca quel che si trova nel Convito di Platone, dove dice che l’Amore da la madre Penìa ha ereditato l’esser arido, magro, pallido, discalzo, summisso, senza letto e senza tetto: per le quali circonstanze vien significato il tormento ch’ha l’anima travagliata da gli contrarii affetti. tansillo Cossì è, perché il spirito affetto di tal furore viene da profondi pensieri distratto, martellato da cure urgenti, scaldato da ferventi desii, insoffiato da spesse occasioni: onde trovandosi l’anima suspesa, necessariamente viene ad essere men diligente et operosa al governo del corpo per gli atti della potenza vegetativa. Quindi il corpo è macilento, mal nodrito, estenuato, ha difetto de sangue, copia di malancolici umori, li quali se non saranno instrumenti de l’anima disciplinata o pure d’un spirito chiaro e lucido, menano ad insania, stoltizia e furor brutale; o al meno a certa poca cura di sé e dispreggio del esser proprio, il qual vien significato da Platone per gli piedi discalzi. Va summisso l’amore e vola come rependo per la terra, quando è attaccato a cose basse; vola alto quando vien intento a più generose imprese. In conclusione et a proposito: qualunque sia l’amore, sempre è travagliato e tormentato di sorte che non possa mancar d’esser materia nelle focine di Vulcano; perché l’anima essendo cosa divina, e naturalmente non serva, ma signora della materia corporale, viene a conturbarsi ancor in quel che volontariamente serve al corpo, dove non trova cosa che la contente. E quantumque fissa nella cosa amata, sempre gli aviene che altretanto vegna ad essagitarsi e fluttuar in mezzo gli soffii de le speranze, timori, dubii, zeli, conscienze, rimorsi, ostinazioni, pentimenti, et altri manigoldi che son gli mantici, gli carboni, l’incudini, gli martelli, le tenaglie, et altri stormenti che si ritrovano nella bottega di questo sordido e sporco consorte di Venere. cicada Or assai è stato detto a questo proposito: piacciavi di veder che cosa séguita appresso. XI. tansillo Qua è un pomo d’oro ricchissimamente, con diverse preciosissime specie, smaltato. Et ha il motto in circa che dice Pulchriori detur. cicada La allusione al fatto delle tre dee che si sottoposero al giudicio de Paride, è molto volgare: ma leggansi le rime che più specificatamente ne facciano capaci de l’intenzione del furioso presente. tansillo Venere, dea del terzo ciel, e madre del cieco arciero, domator d’ogn’uno; l’altra, ch’ha ’l capo giovial per padre, e di Giove la mogli’ altera Giuno; il troiano pastor chiaman, che squadre de chi de lor più bell’è l’aureo muno: se la mia diva al paragon s’appone, non di Venere, Pallad’, o Giunone. Per belle membra è vaga la cipria dea, Minerva per l’ingegno, e la Saturnia piace con quel degno splendor d’altezza, ch’il Tonante appaga; ma quest’ha quanto aggrade di bel, d’intelligenza, e maestade. Ecco qualmente fa comparazione dal suo oggetto il quale contiene tutte le circonstanze, condizioni e specie di bellezza come in un suggetto, ad altri che non ne mostrano più che una per ciascuno; e tutte poi per diversi suppositi: come avvenne nel geno solo della corporal bellezza di cui le condizioni tutte non le poté approvare Apelle in una, ma in più vergini. Or qua dove son tre geni di beltade, benché avvegna che tutti si troveno in ciascuna de le tre dee, perché a Venere non manca sapienza e maestade, in Giunone non è difetto di vaghezza e sapienza, et in Pallade è pur notata la maestà con la vaghezza: tutta volta aviene che l’una condizione supera le altre, onde quella viene ad esser stimata come proprietà, e l’altre come accidenti communi, atteso che di que’ tre doni l’uno predomina in una, e viene ad mostrarla et intitularla sovrana de l’altre. E la caggion di cotal differenza è lo aver queste raggioni non per essenza e primitivamente, ma per participazione e derivativamente. Come in tutte le cose dependenti sono le perfezzioni secondo gli gradi de maggiore e minore, più e meno. – Ma nella simplicità della divina essenza è tutto totalmente, e non secondo misura: e però non è più sapienza che bellezza, e maestade, non è più bontà che fortezza: ma tutti gli attributi sono non solamente uguali, ma ancora medesimi et una istessa cosa. Come nella sfera tutte le dimensioni sono non solamente uguali (essendo tanta la lunghezza quanta è la profondità e larghezza) ma anco medesime: atteso che quel che chiami profondo, medesimo puoi chiamar lungo e largo della sfera. Cossì è nell’altezza de la sapienza divina, la quale è medesimo che la profondità de la potenza, e latitudine de la bontade. Tutte queste perfezzioni sono uguali perché sono infinite. Percioché necessariamente l’una è secondo la grandezza de l’altra, atteso che dove queste cose son finite, avviene che sia più savio che bello e buono, più buono e bello che savio, più savio e buono che potente, e più potente che buono e savio. Ma dove è infinita sapienza, non può essere se non infinita potenza: perché altrimenti non potrebbe saper infinitamente. Dove è infinita bontà, bisogna infinita sapienza: perché altrimenti non saprebbe essere infinitamente buono. Dove è infinita potenza, bisogna che sia infinita bontà e sapienza, perché tanto ben si possa sapere e si sappia possere. Or dumque vedi come l’oggetto di questo furioso, quasi inebriato di bevanda de dèi, sia più alto incomparabilmente che gli altri diversi da quello. Come, voglio dire, la specie intelligibile della divina essenza comprende la perfezzione de tutte l’altre specie altissimamente, di sorte che, secondo il grado che può esser partecipe di quella forma, potrà intender tutto e far tutto, et esser cossì amico d’una, che vegna ad aver a dispreggio e tedio ogn’altra bellezza. Però a quella si deve esser consecrato il sferico pomo, come chi è tutto in tutto. Non a Venere bella che da Minerva è superata in sapienza, e da Giunone in maestà. Non a Pallade di cui Venere è più bella, e l’altra più magnifica. Non a Giunone, che non è la dea dell’intelligenza et amore ancora. cicada Certo come son gli gradi delle nature et essenze, cossì proporzionalmente son gli gradi delle specie intelligibili, e magnificenze de gli amorosi affetti e furori. XII. cicada Il seguente porta una testa, ch’ha quattro faccia che soffiano verso gli quattro angoli del cielo; e son quattro venti in un suggetto, alli quali soprastanno due stelle, et in mezzo il motto che dice Novae ortae Aeoliae; vorrei sapere che cosa vegna significata. tansillo Mi pare ch’il senso di questa divisa è conseguente di quello de la prossima superiore. Perché come là è predicata una infinita bellezza per oggetto, qua vien protestata una tanta aspirazione, studio, affetto e desio; percioch’io credo che questi venti son messi a significar gli suspiri; il che conosceremo, se verremo a leggere la stanza: Figli d’Astreo Titan e de l’Aurora, che conturbate il ciel, il mar e terra, quai spinti fuste dal Litigio fuora, perché facessi a’ dèi superba guerra: non più a l’Eolie spelunche dimora fate, ov’imperio mio vi fren’e serra: ma rinchiusi vi siet’entra’a quel petto ch’i’ veggo a tanto sospirar costretto. Voi socii turbulenti de le tempeste d’un et altro mare, altro non è che vagli’ asserenare, che que’omicidi lumi et innocenti: quelli apert’et ascosi vi renderan tranquilli et orgogliosi. Aperto si vede ch’è introdotto Eolo parlar a i venti, quali non più dice esser da lui moderati nell’Eolie caverne: ma da due stelle nel petto di questo furioso. Qua le due stelle non significano gli doi occhi che son ne la bella fronte: ma le due specie apprensibili della divina bellezza e bontade di quell’infinito splendore, che talmente influiscono nel desio intellettuale e razionale, che lo fanno venire ad aspirar infinitamente, secondo il modo con cui infinitamente grande, bello e buono apprende quell’eccellente lume. Perché l’amore mentre sarà finito, appagato, e fisso a certa misura, tansillo cicada tansillo Giordano Bruno De gli eroici furori non sarà circa le specie della divina bellezza: ma altra formata; ma mentre verrà sempre oltre et oltre aspirando, potrassi dire che versa circa l’infinito. cicada Come comodamente l’aspirare è significato per il spirare? che simbolo hanno i venti col desiderio? tansillo Chi de noi in questo stato aspira, quello suspira, quello medesimo spira. E però la vehemenza dell’aspirare è notata per quell’ieroglifico del forte spirare. cicada Ma è differenza tra il sospirare e spirare. tansillo Però non vien significato l’uno per l’altro come medesimo per il medesimo: ma come simile per il Simile. cicada Seguitate dumque il vostro proposito. tansillo L’infinita aspirazion dumque mostrata per gli suspiri, e significata per gli venti, è sotto il governo non d’Eolo nell’Eolie, ma di detti doi lumi; li quali non solo innocente, ma e benignissimamente uccidono il furioso, facendolo per il studioso affetto morire al riguardo d’ogn’altra cosa: con ciò che quelli che chiusi et ascosi lo rendono tempestoso, aperti lo renderan tranquillo; atteso che nella staggione che di nuvoloso velo adombra gli occhi de l’umana mente in questo corpo, aviene che l’alma con tal studio vegna più tosto turbata e travagliata: come essendo quello stracciato e spinto, doverrà tant’altamente quieta, quanto baste ad appagar la condizion di sua natura. cicada Come l’intelletto nostro finito può seguitar l’oggetto infinito? Con l’infinita potenza ch’egli ha. Questa è vana, se mai sarrà in effetto. Sarrebe vana, se fusse circa atto finito, dove l’infinita potenza sarrebe privativa; ma non già circa l’atto infinito, dove l’infinita potenza è positiva perfezzione. cicada Se l’intelletto umano è una natura et atto finito, come e perché ha potenza infinita? tansillo Perché è eterno, et acciò sempre si dilette, e non abbia fine né misura la sua felicità; e perché come è finito in sé, cossì sia infinito nell’oggetto. cicada Che differenza è tra la infinità de l’oggetto et infinità della potenza? tansillo Questa è finitamente infinita, quello infinitamente infinito. Ma torniamo a noi. Dice dumque là il motto Novae partae Aeoliae, perché par si possa credere che tutti gli venti (che son negli antri voraginosi d’Eolo) sieno convertiti in suspiri, se vogliamo numerar quelli che procedono da l’affetto che senza fine aspira al sommo bene et infinita beltade. XIII. cicada Veggiamo appresso la significazione di quella face ardente, circa la quale è scritto Ad vitam, non ad horam. tansillo La perseveranza in tal amore et ardente desio del vero bene, in cui arde in questo stato temporale il furioso. Questo credo che mostra la seguente tavola: Partesi da la stanz’il contadino, quando il sen d’Oriente il giorno sgombra; e quand’il sol ne fere più vicino, stanc’e cotto da caldo sied’a l’ombra; lavora poi, e s’affatica insino ch’atra caligo l’emisfer ingombra; indi si posa: io sto a continue botte mattina, mezo giorno, sera e notte. Questi focosi rai ch’escon da que’ dei archi del mio sole, de l’alma mia (com’il mio destin vuole) dal orizonte non si parton mai: bruggiand’a tutte l’ore dal suo meridian l’afflitto core.cicada Questa tavola più vera che propriamente esplica il senso de la figura. tansillo Non ho d’affaticarmi a farvi veder queste proprietadi, dove il vedere non merita altro che più attenta considerazione. Gli rai del sole son le raggioni con le quali la divina beltade e bontade si manifesta a noi. E son focosi, perché non possono essere appresi da l’intelletto, senza che conseguentemente scaldeno l’affetto. Doi archi del sole son le due specie di revelazione che gli scolastici teologi chiamano matutina e vespertina; onde l’intelligenza illuminatrice di noi, come aere mediante, ne adduce quella specie o in virtù che la admira in se stessa, o in efficacia che la contempla ne gli effetti. L’orizonte de l’alma in questo luogo è la parte delle potenze superiori, dove a l’apprensione gagliarda de l’intelletto soccorre il vigoroso appulso de l’affetto, significato per il core, che bruggiando a tutte l’ore s’afflige; perché tutti gli frutti d’amore che possiamo raccòrre in questo stato non son sì dolci che non siano più gionti a certa afflizzione, quella almeno che procede da l’apprension di non piena fruizione. Come specialmente accade ne gli frutti de l’amor naturale, la condizion de gli quali non saprei meglio esprimere, che come fe’ il poeta epicureo: Ex hominis vero facie pulchroque colore nil datur in corpus praeter simulacra fruendum tenuia, quae vento spes captat saepe misella. Ut bibere in somnis sitiens cum quaerit, et humor non datur, ardorem in membris qui stinguere possit; sed laticum simulacra petit frustraque laborat, in medioque sitit torrenti flumine potans: sic in amore Venus simulacris ludit amantis, nec satiare queunt spectando corpora coram, nec manibus quicquam teneris abradere membris possunt, errantes incerti corpore toto. Denique cum membris conlatis flore fruuntur aetatis; dum iam praesagit gaudia corpus, atque in eo est Venus, ut muliebria conserat arva, adfigunt avide corpus iunguntque salivas oris, et inspirant pressantes dentibus ora, nequicquam, quoniam nibil inde abradere possunt, nec penetrare et abire in corpus corpore toto. Similmente giudica nel geno del gusto che qua possiamo aver de cose divine: mentre a quelle ne forziamo penetrare et unirci, troviamo aver più afflizzione nel desio che piacer nel concetto. E per questo può aver detto quel savio Ebreo, che chi aggionge scienza aggionge dolore, perché dalla maggior apprensione nasce maggior e più alto desio, e da questo séguita maggior dispetto e doglia per la privazione della cosa desiderata; là onde l’epicureo che séguita la più tranquilla vita, disse in proposito de l’amor volgare: Sed fugitare decet simulacra, et pabula amoris abstergere sibi, atque alio convertere mentem, nec servare sibi curam certumque dolorem: ulcus enim virescit el inveterascit alendo, inque dies gliscit furor, atque erumna gravescit. Nec Veneris fructu sarei is qui vitat amorem, sed potius quaes sunt sine paena commoda sumit. cicada Che intende per il meridiano del core? tansillo La parte o region più alta e più eminente de la volontà, dove più illustre, forte, efficace e rettamente è riscaldata. Intende che tale affetto non è come in principio che si muova, né come in fine che si quiete, ma come al mezzo dove s’infervora. XIV. cicada Ma che significa quel strale infocato che ha le fiamme in luogo di ferrigna punta, circa il quale è avolto un laccio, et ha il motto Amor instat ut instans? Dite che ne intendete. tansillo Mi par che voglia dire che l’amor mai lo lascia, e che eterno parimente l’affliga. cicada Vedo bene laccio, strale e fuoco; intendo quel che sta scritto: Amor instat; ma quel che séguita, non posso capirlo, cioè che l’amor come istante o insistente, inste: che ha medesima penuria di proposito, che se uno dicesse: questa impresa costui la ha finta come finta, la porta come la porta, la intendo come la intendo, la vale come la vale, la stimo come un che la stima. tansillo Più facilmente determina e condanna chi manco considera. Quello instans non significa adiettivamente dal verbo instare, ma è nome sustantivo preso per l’instante del tempo. cicada Or che vuol dir che l’amor insta come l’instante? tansillo Che vuol dire Aristotele nel suo libro Del tempo, quando dice che l’eternità è uno instante, e che in tutto il tempo non è che uno instante? cicada Come questo può essere se non è tanto minimo tempo che non abbia più instanti? Vuol egli forse che in uno instante sia il diluvio, la guerra di Troia, e noi che siamo adesso? Vorrei sapere come questo instante se divide in tanti secoli et anni; e se per medesima proporzione non possiamo dire che la linea sia un punto. tansillo Sì come il tempo è uno, ma è in diversi suggetti temporali, cossì l’instante è uno in diverse e tutte le parti del tempo. Come io son medesimo che fui, sono e sarò; io medesimo son qua in casa, nel tempio, nel campo e per tutto dove sono. cicada Perché volete che l’instante sia tutto il tempo? tansillo Perché se non fusse l’instante, non sarrebe il tempo: però il tempo in essenza e sustanza non è altro che instante. E questo baste se l’intendi (perché non ho da pedanteggiar sul quarto de la Fisica); onde comprendi che voglia dire, che l’amor gli assista non meno che il tempo tutto: perché questo instans non significa punto del tempo. cicada Bisogna che questa significazione sia specificata in qualche maniera, se non vogliamo far che sia il motto vicioso in equivocazione, onde possiamo liberamente intendere ch’egli voglia dire che l’amor suo sia d’uno instante, idest d’un atomo di tempo e d’un niente: o che voglia dire che sia (come voi interpretate) sempre. tansillo Certo se vi fussero inplicati questi doi sensi contrarii, il motto sarrebe una baia. Ma non è cossì, se ben consideri, atteso che in uno instante che è atomo o punto, che l’amore inste o insista non può essere: ma bisogna necessariamente intendere l’instante in altra significazione. E per uscir di scuola, leggasi la stanza: Un tempo sparge, et un tempo raccoglie; un edifica, un strugge; un piange, un ride: un tempo ha triste, un tempo ha liete voglie; un s’affatica, un posa; un stassi, un side: un tempo porge, un tempo si ritoglie; un muove, un ferm’; un fa viv’, un occide: in tutti gli anni, mesi, giorni et ore m’attende, fere, accend’e lega amore. Continuo mi disperge, sempre mi strugg’e mi ritien in pianto, è mio triste languir ogn’or pur tanto, in ogni tempo mi travagli’ et erge; tropp’in rubbarmi è forte, mai non mi scuote, mai non mi dà morte. cicada Assai bene ho compreso il senso: e confesso che tutte le cose accordano molto bene. Però mi par tempo di procedere a l’altro. tansillo Qua vedi un serpe ch’a la neve languisce dove l’avea gittato un zappatore; et un fanciullo ignudo acceso in mezzo al fuoco, con certe altre minute e circonstanze, con il motto che dice Idem, itidem, non idem. Questo mi par più presto enigma che altro, però non mi confido d’esplicarlo a fatto: pur crederei che voglia significar medesimo fato molesto, che medesimamente tormenta l’uno e l’altro (cioè inentissimamente, senza misericordia, a morte) con diversi instrumenti o contrarii principio, mostrandosi medesimo freddo e caldo. Ma questo mi par che richieda più lunga e distinta considerazione. cicada Un’altra volta. Leggete la rima. [tansillo] Languida serpe, a quell’umor sì denso ti rintorci, contrai, sullevi, inondi; e per temprar il tuo doler intenso, al fredd’or quest’or quella parte ascondi; s’il ghiaccio avesse per udirti senso, tu voce che propona o che rispondi, credo ch’areste efficaci’ argumento per renderlo piatoso al tuo tormento. Io ne l’eterno foco mi dibatto, mi struggo, scaldo, avvampo; e al ghiaccio de mia diva per mio scampo né amor di me, né pietà trova loco: lasso, per che non sente quant’è il rigor de la mia fiamma ardente. Angue cerchi fuggir, sei impotente; ritenti a la tua buca, ell’è disciolta; proprie forze richiami, elle son spente; attendi al sol, l’asconde nebbia folta; mercé chiedi al villan, odia ’l tuo dente; fortuna invochi, non t’ode la stolta. Fuga, luogo, vigor, astro, uom o sorte non è per darti scampo da la morte. Tu addensi, io liquefaccio; io miro al rigor tuo, tu a l’ardor mio; tu brami questo mal, io quel desio; n’io posso te, né tu me tòr d’impaccio. Or chiariti a bastanza del fato rio, lasciamo ogni speranza. cicada Andiamone, perché per il camino vedremo di snodar questo intrico, se si può. tansillo Bene.  interlocutori Cesarino, Maricondo. cesarino Cossì dicono che le cose megliori e più eccellenti sono nel mondo quando tutto l’universo da ogni parte risponde eccellentemente: e questo stimano allor che tutti gli pianeti ottegnono l’Ariete, essendo che quello de l’ottava sfera ancora ottegna quello del firmamento invisibile e superiore dove è l’altro zodiaco; le cose peggiori e più basse vogliono che abbiano loco quando domina la contraria disposizione et ordine: però per forza di vicissitudine accadeno le eccessive mutazioni, dal simile al dissimile, dal contrario a l’altro. La revoluzion dumque et anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da abiti et effetti diversissimi per gli oppositi mezzi e contraria si ritorna al medesimo: come veggiamo ne gli anni particolari, qual è quello del sole, dove il principio d’una disposizione contraria è fine de l’altra, et il fine di questa è principio di quella: però ora che siamo stati nella feccia delle scienze, che hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della feccia de gli costumi et opre, possiamo certo aspettare de ritornare a meglior stati. Giordano Bruno De gl’eroici furori maricondo Sappi, fratel mio, che questa successione et ordine de le cose è verissima e certissima: ma al nostro riguardo sempre, in qualsivoglia stato ordinario, il presente più ne afflige che il passato, et ambi doi insieme manco possono appagarne che il futuro, il quale è sempre in aspettazione e speranza, come ben puoi veder designato in questa figura la quale è tolta dall’antiquità de gli Egizzii, che fêrno cotal statua che sopra un busto simile a tutti tre puosero tre teste, l’una di lupo che remirava a dietro, l’altra di leone che avea la faccia volta in mezzo, e la terza di cane che guardava innanzi; per significare che le cose passate affligono col pensiero, ma non tanto quanto le cose presenti che in effetto ne tormentano: ma sempre per l’avenire ne promettemo meglio. Però là è il lupo che urla, qua il leon che rugge, appresso il cane che applaude. cesarino Che contiene quel motto ch’è sopra scritto? maricondo Vedi che sopra il lupo è Iam, sopra il leone Modo, sopra il cane Praeterea, che son dizzioni che significano le tre parti del tempo. cesarino Or leggete quel ch’è nella tavola. maricondo Cossì farò. Un alan, un leon, un can appare a l’auror, al di chiar, al vespr’oscuro quel che spesi, ritegno, e mi procuro, per quanto mi si die’, si dà, può dare. Per quel che feci, faccio et ho da fare al passat’, al presente et al futuro, mi pento, mi tormento, m’assicuro, nel perso, nel soffrir, nell’aspettare. Con l’agro, con l’amaro, con il dolce l’esperienza, i frutti, la speranza mi minacciò, m’affligono, mi molce. L’età che vissi, che vivo, ch’avanza mi fa tremante, mi scuote, mi folce, in absenza, presenza, e lontananza. Assai, troppo, a bastanza quel di già, quel di ora, quel d’appresso m’hann’in timor, martir, e spene messo. cesarino Questa a punto è la testa d’un furioso amante; quantunque sia de quasi tutti gli mortali in qualunque maniera e modo siano malamente affetti; perché non doviamo né possiamo dire che questo quadre a tutti stati in generale, ma a quelli che furono e sono travagliosi: atteso che ad un ch’ha cercato un regno et ora il possiede, conviene il timor di perderlo; ad un ch’ha lavorato per acquistar gli frutti de il amore, come è la particular grazia de la cosa amata, conviene il morso della gelosia e suspizione. E quanto a gli stati del mondo, quando ne ritroviamo nelle tenebre e male, possiamo sicuramente profetizar la luce e prosperitade; quando siamo nella felicità e disciplina, senza dubio possiamo aspettar il successo de l’ignoranze e travagli: come avvenne a Mercurio Trimigisto che per veder l’Egitto in tanto splender de scienze e divinazioni, per le quali egli stimava gli uomini consorti de gli demoni e dèi, e per conseguenza religiosissimi, fece quel profetico lamento ad Asclepio, dicendo che doveano succedere le tenebre de nove religioni e culti, e de cose presenti non dover rimaner altro che favole e materia di condannazione. Cossì gli Ebrei quando erano schiavi nell’Egitto e banditi nelli deserti, erano confortati da lor profeti con l’aspettazione de libertà et acquisto di patria. Quando furono in stato di domìno e tranquillità, erano minacciati de dispersione e cattività. Oggi che non è male né vituperio a cui non siano suggetti, non è bene né onore che non si promettano. Similmente accade a tutte l’altre generazioni e stati: li quali se durano e non sono annihilati a fatto, per forza della vicissitudine delle cose, è necessario da ’l male vegnano al bene, dal bene al male, dalla bassezza a l’altezza, da l’altezza alla bassezza, da le oscuritadi al splendore, dal splendor alle oscuritadi. Perché questo comporta l’ordine naturale: oltre il qual ordine, se si ritrova altro che lo guaste o corregga, io lo credo, e non ho da disputarne, perché non raggiono con altro spirito che naturale. maricondo Sappiamo che non fate il teologo ma filosofo e che trattate filosofia non teologia. cesarino Cossì è. Ma veggiamo quel che séguita. II. cesarino Veggio appresso un fumante turribolo che è sostenuto da un braccio, et il motto che dice Illius aram; et appresso l’articolo seguente: Or chi quell’aura de mia nobil brama d’un ossequio divin credrà men degna s’in diverse tabelle ornata vegna da voti miei nel tempio de la fama? Perch’altr’impres’eroica mi richiama, chi pensarà giamai che men convegna ch’al suo culto cattivo mi ritegna quella ch’il ciel onora tanto et ama? Lasciatemi, lasciate, altri desiri, importuni pensier, datemi pace. Perché volete voi ch’io mi ritiri da l’aspetto del sol che sì mi piace? Dite di me piatosi: Perché miri quel, che per remirar si ti disface? perché di quella face sei vago sì? Perché mi fa contento più ch’ogn’altro piacer, questo tormento. maricondo A proposito di questo io ti dicevo che quantunque un rimagna fisso su una corporal bellezza e culto esterno, può onorevolmente e degnamente trattenirsi: purché dalla bellezza materiale la quale è un raggio e splender della forma, et atto spirituale, di cui è vestigio et ombra, vegna ad inalzarsi alla considerazion e culto della divina bellezza, luce e maestade: di maniera che da queste cose visibili vegna a magnificar il core verso quelle che son tanto più eccellenti in sé e grate a l’animo ripurgato, quanto son più rimosse da la materia e senso. Oimè (dirà) se una bellezza umbratde, fosca, corrente, depinta nella superficie de la materia corporale, tanto mi piace e tanto mi commuove l’affetto, m’imprime nel spirito non so che riverenza di maestade, mi si cattiva, e tanto dolcemente mi lega e mi s’attira, ch’io non trovo cosa che mi vegna messa avanti da gli sensi che tanto m’appaghe: che sarà di quello che sustanzialmente, originalmente, primitivamente è bello; che sarà de l’anima mia, dell’intelletto divino, della regola de la natura? Conviene dumque che la contemplazione di questo vestigio di luce mi amene mediante la ripurgazion de l’animo mio all’imitazione, conformità e participazione di quella più degna et alta, in cui mi transforme et a cui mi unisca: perché son certo che la natura che mi ha messa questa bellezza avanti gli occhi, e mi ha dotato di senso interiore, per cui posso argomentar bellezza più profonda et incomparabilmente maggiore, voglia ch’io da qua basso vegna promosso a l’altezza et eminenza di specie più eccellenti. Né credo che il mio vero nume come me si mostra in vestigio et imagine, voglia sdegnarsi che in imagine e vestigio vegna ad onorarlo, a sacrificargli, con questo ch’il mio core et affetto sempre sia ordinato, e rimirare più alto: atteso che chi può esser quello che possa onorarlo in essenza e propria sustanza, se in tal maniera non può comprenderlo? cesarino Molto ben dimostri come a gli uomini di eroico spirito tutte le cose si converteno in bene, e si sanno servire della cattività in frutto di maggior libertade, e l’esser vinto una volta convertiscono in occasione di maggior vittoria. Ben sai che l’amor di bellezza corporale a color che son ben disposti non solamente non apporta ritardamento da imprese maggiori, ma più tosto viene ad improntargli l’ali per venire a quelle: allor che la necessità de l’amore è convertita in virtuoso studio per cui l’amante si forza di venire a termine nel quale sia degno della cosa amata, e forse di cosa maggiore, megliore e più bella ancora; onde sia o che vegna contento d’aver guadagnato quel che brama, o sodisfatto dalla sua propria bellezza, per cui degnamente possa spregiar l’altrui che viene ad esser da lui vinta e superata: onde o si ferma quieto, o si volta ad aspirare ad oggetti più eccellenti e magnifichi. E cossì sempre verrà tentando il spirito eroico, sin tanto che non si vede inalzato al desiderio della divina bellezza in se stessa, senza similitudine, figura, imagine e specie, se sia possibile: e più se sa arrivare a tanto. maricondo Vedi dumque, Cesarino, come ha raggione questo furioso di risentirsi contra coloro che lo ri- prendono come cattivo de bassa bellezza a cui sparga voti et appenda tabelle; di maniera che quindi non viene rubelle dalle voci che lo richiamano a più alte imprese: essendo che come queste basse cose deriva- no da quelle et hanno dipendenza, cossì da queste si può aver accesso a quelle come per proprii gradi. Queste se non son Dio son cose divine, sono imagini sue vive: nelle quali non si sente offeso se si vede ado- rare: perché abbiamo ordine dal superno spirito che dice Adorate scabellum pedum eius. Et altrove disse un divino imbasciatore: Adorabimus ubi steterunt pedes eius. cesarino Dio, la divina bellezza e splendore riluce et è in tutte le cose; però non mi pare errore d’admirarlo in tutte le cose secondo il modo che si comunica a quelle: errore sarà certo se noi donaremo ad altri l’onor che tocca a lui solo. Ma che vuol dir quando dice Lasciatemi, lasciate, altri desiri? maricondo Bandisce da sé gli pensieri, che gli appresen- tano altri oggetti che non hanno forza di commoverlo tanto; e che gli vogliono involar l’aspetto del sole, il qual può presentarsegli da questa fenestra più che da l’altre. cesarino Come importunato da pensieri si sta con- stante a remirar quel splendor che lo disface, e non lo fa di maniera contento che ancora non vegna forte- mente a tormentarlo? maricondo Perché tutti gli nostri conforti in questo stato di controversia non sono senza gli suoi di- sconforti cossì grandi come magnifici son gli conforti. Come più grande è il timore d’un re che consiste su la perdita d’un regno, che di un mendico che consiste sul periglio di perdere dieci danaii; è più urgente la cura d’un prencipe sopra una republica, che d’un ru- stico sopra un grege de porci: come gli piaceri e deli- cie di quelli forse son più grandi che le delicie e piace- ri di questi. Però l’amare et aspirar più alto, mena seco maggior gloria e maestà con maggior cura, pen- siero e doglia: intendo in questo stato dove l’un con- trario sempre è congionto a l’altro, trovandosi la mas- sima contrarietade sempre nel medesimo geno, e per conseguenza circa medesimo suggetto, quantunque gli contraria non possano essere insieme. E cossì pro- porzionalmente nell’amor di Cupido superiore, come dechiarò l’epicureo poeta nel cupidinesco volgare e animale, quando disse: Fluctuat incertis erroribus ardor amantum, nec constat quid primum oculis manibusque fruantur: quod petiere premunit arte, faciuntque dolorem corporis, et dentes inlidunt saepe labellis osculaque adfigunt, quia non est pura voluptas, et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum, quodcumque est, rabies, unde illa haec germina surgunt. Sed leviter paenas frangit Venus inter amorem, blandaque refraenat morsus admixta voluptas, namque in eo spes est, unde est ardoris origo, restingui quoque posse ab eodem corpore flammam. Ecco dumque con quali condimenti il magistero et arte della natura fa che un si strugga sul piacer di quel che lo disface, e vegna contento in mezzo del tormento, e tormentato in mezzo de tutte le conten- tezze: atteso che nulla si fa assolutamente da un paci- fico principio, ma tutto da contrarii principii per vit- toria e domìno d’una parte della contrarietade; e non è piacere di generazione da un canto, senza dispiace- re di corrozzione da l’altro: e dove queste cose che si generano e corrompono sono congionte e come in medesimo suggetto composto, si trova il senso di de- lettazione e tristizia insieme. Di sorte che vegna no- minata più presto delettazione che tristizia, se aviene che la sia predominante, e con maggior forza possa sollecitare il senso. III. cesarino Or consideriamo sopra questa imagine seguente, ch’è d’una fenice che arde al sole, e con il suo fumo va quasi a oscurar il splender di quello, dal cui calore vien infiammata et èvvi la nota che dice: Neque simile, nec par. maricondo Leggasi l’articolo prima: Questa fenice ch’al bel sol s’accende, e a dramm’a dramma consumando vassi, mentre di splender cint’ardendo stassi, contrario fio al suo pianeta rende: perché quel che da lei al ciel ascende tepido fumo et atra nebbia fassi, ond’i raggi a’ nostri occhi occolti lassi e quello avvele, per cui arde e splende. Tal il mio spirto (ch’il divin splendore accende e illustra) mentre va spiegando quel che tanto riluce nel pensiero, manda da l’alto suo concetto fore rima, ch’il vago sol vad’oscurando, mentre mi struggo e liquefaccio intiero. Oimè! questo adro e nero nuvol di foco infosca col suo stile quel ch’aggrandir vorrebb’, e ’l rend’umile. cesarino Dice dumque costui che come questa le nice venendo dal splendor del sole accesa, et abituata d lu- ce e di fiamma, vien ella poi ad inviar al cielo quel fu- mo che oscura quello che l’ha resa lucente: cossì egli infiammato et illuminato furioso per quel che fa in lo- de d tanto illustre suggetto che gli have acceso il core e gli splende nel pensiero, viene più tosto ad oscurarlo, che ritribuirgli luce per luce, procedendo quel fumo, effetto di fiamme in cui si risolve la sustanza di lui. maricondo Io senza che metta in bilancio e comparazione gli studi di costui, torno a dire quel che ti dicevo l’altr’ieri, che la lode è uno de gli più gran sacrificii che possa far un affetto umano ad un oggetto. E per lasciar da parte il proposito del divino, ditemi: chi co- noscerebbe Achille, Ulisse e tanti altri greci e troiani capitani, chi arrebe notizia de tanti grandi soldati, sapienti et eroi de la terra, se non fussero stati messi alle stelle e deificati per il sacrificio de laude, che nell’altare del cor de illustri poeti et altri recitatori have acceso il fuoco, con questo che comunmente montasse al cielo il sacrificatore, la vittima et il canonizato divo, per mano e voto di legitimo e degno sacerdote? cesarino Ben dici di degno e legitimo sacerdote; perché de gli appostici n’è pieno oggi il mondo, li quali come sono per ordinario indegni essi loro, cossì vegnono sempre a celebrar altri indegni, di sorte che asini asinos fricant. Ma la previdenza vuole che in luogo d’andar gli uni e gli altri al cielo, sen vanno giontamente alle tenebre de l’Orco: onde fia vana e la gloria di quel che celebra, e di quel ch’è celebrato; perché l’uno ha intessuta una statua di paglia, o insculpito un tronco di legno, o messo in getto un pezzo di calcina; e l’altro idolo d’infamia e vituperio non sa che non gli bisogna aspettar gli denti de l’evo e la falce di Saturno per esser messo giù: stante che dal suo encomico medesimo vien sepolto vivo all’ora all’ora propria che vien lodato, salutato, nominato, presentato. Come per il contrario è accaduto alla prudenza di quel tanto celebrato Mecenate, il quale se non avesse avuto altro splendore che de l’animo inchinato alla protezzione e favor delle Muse, sol per questo meritò che gl’ingegni de tanti illustri poeti gli dovenessero ossequiosi a metterlo nel numero de più famosi eroi che abbiano calpestrato il dorso de la terra. Gli proprii studii et il proprio splendore l’han reso chiaro e nobilissimo, e non l’esser nato d’atavi regi, non l’esser gran segretario e consegliero d’Augusto. Quello dico che l’ha fatto illustrissimo, è l’aversi fatto degno dell’execuzion della promessa di quel poeta che disse: Fortunati ambo, si quid mea carmina possuni, nulla dies unquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet, imperiumque pater Romanus habebit. maricondo Mi sovviene di quel che dice Seneca in certa epistola dove riferisce le paroli d’Epicuro ad un suo amico, che son queste: Se amor di gloria ti tocca il petto, più noto e chiaro ti renderanno le mie lettere che tutte quest’altre cose che tu onori, e dalle quali sei onorato, e per le quali ti puoi vantare. Similmente arria possuto dire Omero se si gli fusse presentato avanti Achille o Ulisse, Vergilio a Enea et alla sua progenia; perciò che, come ben suggionse quel filosofo morale, è più conosciuto Domenea per le lettere d’Epicuro che tutti gli megistani satrapi e regi, dalli quali pendeva il titolo [di] Domenea, e la memoria de gli quali venea suppressa dall’alte tenebre de l’oblio. Non vive Attico per essere genero d’Agrippa e progenero de Tiberio, ma per l’epistole de Tullio. Druso pronepote di Cesare non si troverebbe nel numero de nomi tanto grandi, se non vi l’avesse inserito Cicerone. Oh che ne sopraviene al capo una profonda altezza di tempo, sopra la quale non molti ingegni rizzaranno il capo. Or per venire al proposito di questo furioso il quale vedendo una fenice accesa al sole, si rammenta del proprio studio, e duolsi che come quella per luce et incendio che riceve, gli rimanda oscuro e tepido fumo di lode dall’olocausto della sua liquefatta sustanza. Qualmente giamai possiamo non sol raggionare, ma e né men pensare di cose divine, che non vengamo a detraergli più tosto che aggiongergli di gloria: di sorte che la maggior cosa che far si possa al riguardo di quelle, è che l’uomo in presenza de gli altri uomini vegna più tosto a magnificar se stesso per il studio et ardire, che donar splendore ad altro per qualche compita e perfetta azzione. Atteso che cotale non può aspettarsi dove si fa progresso all’infinito, dove l’unità et infinità son la medesima cosa; e non possono essere perseguitate dal altro numero, perché non è unità, né da altra unità perché non è numero, né da altro numero et unità: perché non sono medesimo absoluto et infinito. Là onde ben disse un teologo che essendo che il fonte della luce non solamente gli nostri intelletti, ma ancora gli divini di gran lunga sopraavanza, è cosa conveniente che non con discorsi e paroli, ma con silenzio vegna ad esser celebrata. cesarino Non già col silenzio de gli animali bruti et altri che sono ad imagine e similitudine d’uomini: ma di quelli, il silenzio de quali è più illustre che tutti gli eridi, rumori e strepiti di costoro che possano esser uditi. maricondo Ma procediamo oltre a vedere quel che significa il resto. cesarino Dite se avete prima considerato e visto quel che voglia dir questo fuoco in forma di core con quattro ali, de le quali due hanno gli occhi, dove tutto il composto è cinto de luminosi raggi, et hassi in circa scritta la questione: Nitimur in cassum? maricondo Mi ricordo ben che significa il stato de la mente, core, spirito et occhi del furioso; ma leggiamo l’articolo: Questa mente ch’aspira al splendor santo, tant’alti studi disvelar non ponno; il cor, che recrear que’ pensier vonno, da guai non può ritrarsi più che tanto; il spirto che devria posarsi alquanto, d’un moment’al piacer non si fa donno; gli occhi ch’esser derrian chiusi dal sonno tutta la notte son aperti al pianto. Oimè miei lumi con qual studio et arti tranquillar posso i travagliati sensi? Spirto mio, in qual tempo et in quai parti mitigarò gli tuoi dolori intensi? E tu, mio cor, come potrò appagarti di quel ch’al grave tuo suffrir compensi? Quand’i debiti censi daratti l’alma, o travagliata mente, col cor, col spirto e con gli occhi dolente? Perché la mente aspira al splendor divino, fugge il consorzio de la turba, si ritira dalla commune opinione: non solo dico e tanto s’allontana dalla moltitudine di suggetti, quanto dalla communità de studii, opinioni e sentenze; atteso che per contraer vizii et ignoranze tanto è maggior periglio, quanto è maggior il popolo a cui s’aggionge: Nelli publici spettacoli DICE IL FILOSOFO MORALE, mediante il piacere più facilmente gli vizii s’ingeriscono. Se aspira al splendor alto, ritiresi quanto può all’unità, contrahasi quanto è possibile in se stesso, di sorte che non sia simile a molti, perché son molti; e non sia nemico de molti, perché son dissimili, se possibil fia serbar l’uno e l’altro bene: altrimenti s’appiglie a quel che gli par megliore. – Conversa con quelli gli quali o lui possa far megliori, o da gli quali lui possa essere fatto megliore: per splendor che possa donar a quelli, o da quelli possa ricever lui. Contentesi più d’uno idoneo che de l’inetta moltitudine; né stimarà d’aver acquistato poco quando è dovenuto a tale che sia savio per sé, sovvenendogli quel che dice Democrito: Unus mihi pro populo est, et populus pro uno; e che disse Epicuro ad un consorte de suoi studii scrivendo: Haec tibi, non multis; satis enim magnum alter alteri theatrum sumus. – La mente dumque ch’aspira alto, per la prima lascia la cura della moltitudine, considerando che quella luce spreggia la fatica, e non si trova se non dove è l’intelligenza; e non dove è ogni intelligenza: ma quella che è, tra le poche, principali e prime, la prima, principale et una. cesarino Come intendi che la mente aspira alto? verbigrazia con guardar alle stelle? al cielo empireo? sopra il cristallino? maricondo Non certo, ma procedendo al profondo della mente per cui non fia mistiero massime aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, menar i passi al tempio, intonar l’orecchie de simulacri, onde più si vegna exaudito: ma venir al più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé, più ch’egli medesimo esser non si possa; come quello ch’è anima de le anime, vita de le vite, essenza de le essenze: atteso poi che quello che vedi alto o basso, o in circa (come ti piace dire) de gli astri, son corpi, son fatture simili a questo globo in cui siamo noi, e nelli quali non più né meno è la divinità presente che in questo nostro, o in noi medesimi. Ecco dumque come bisogna fare primeramente de ritrarsi dalla moltitudine in se stesso. Appresso deve dovenir a tale che non stime ma spreggie ogni fatica, di sorte che quanto più gli affetti e vizii combattono da dentro, e gli viziosi nemici contrastano di fuori, tanto più deve respirar e risorgere, e con uno spirito (se possibil fia) superar questo clivoso monte. Qua non bisognano altre armi e scudi che la grandezza d’un animo invitto, e toleranza de spirito che mantiene l’equalità e tenor della vita, che procede dalla scienza, et è regolato da l’arte di specolar le cose alte e basse, divine et umane, dove consiste quel sommo bene. Per cui disse un filosofo morale che scrisse a Lucilio: non bisogna tranar le Scille, le Cariddi, penetrar gli deserti de Candavia et Apennini, o lasciarsi a dietro le Sirti: perché il camino è tanto sicuro e giocondo quanto la natura medesima abbia possuto ordinare. Non è dice egli l’oro et argento che faccia simile a Dio, perché non fa tesori simili; non gli vestimenti, perché Dio è nudo; non la ostentazione e fama, perché si mostra a pochissimi, e forse che nessuno lo conosce, e certo molti, e più che molti hanno mala opinion de lui; non tante e tante altre condizioni de cose che noi ordinariamente admiriamo: perché non queste cose delle quali si desidera la copia ne rendeno talmente ricchi, ma il dispreggio di quelle. cesarino Bene: ma dimmi appresso in qual maniera costui Tranquillarà gli sensi, mitigarà gli dolori del spirito, appagarà il core e darà gli proprii censi a la mente, di sorte che con questo suo aspirare e studii non debba dire Nitimur in cassum? maricondo Talmente trovandosi presente al corpo che con la meglior parte di sé sia da quello absente, farsi come con indissolubil sacramento congionto et alligato alle cose divine, di sorte che non senta amor né odio di cose mortali, considerando d’esser maggiore che esser debba servo e schiavo del suo corpo: al quale non deve altrimente riguardare che come carcere che tien rinchiusa la sua libertade, vischio che tiene impaniate le sue penne, catena che tien strette le sue mani, ceppi che han fissi gli suo piedi, velo che gli tien abbagliata la vista. Ma con ciò no sia servo, cattivo, invecchiato, incatenato, discioperato, saldo e cieco: perché il corpo non gli può più tiranneggiare ch’egli medesimo si lasce; atteso che cossì il spirito proporzionalmente gli è preposto, come il mondo corporeo e materia è suggetta alla divinitade et a la natura. Cossì farassi forte contra la fortuna, magnanimo contra l’ingiurie, intrepido contra la povertà, morbi e persecuzioni. cesarino Bene instituito il furioso eroico. V. cesarino Appresso veggasi quel che seguita. Ecco la ruota del tempo affissa, che si muove circa il centro proprio: e vi è il motto: Manens moveor; che intendete per quella? maricondo Questo vuol dire che si muove in circolo: dove il moto concorre con la quiete, atteso che nel moto orbiculare sopra il proprio asse e circa il proprio mezzo si comprende la quiete e fermezza secondo il moto retto; over quiete del tutto, e moto secondo le parti; e da le parti che si muoveno in circolo si apprendeno due differenze di Nazione, in quanto che successivamente altre parti montano alla sommità, altre dalla sommità descendeno al basso; altre ottegnono le differenze medianti, altre tegnono l’estremo dell’alto e del fondo. E questo tutto mi par che comodamente viene a significare quel tanto che s’esplica nel seguente articolo: Quel ch’il mio cor aperto e ascoso tiene, beltà m’imprime et onestà mi cassa; zelo ritiemmi, altra cura mi passa per là d’ond’ogni studio a l’alma viene: quando penso suttrarmi da le pene, speme sustienmi, altrui rigor mi lassa; amor m’inalz’e riverenz’abbassa allor ch’aspiro a l’alt’e sommo bene. Alto pensier, pia voglia, studio intenso de l’ingegno, del cor, de le fatiche, a l’ogetto inmortal, divin, inmenso fate ch’aggionga, m’appiglie e nodriche; né più la mente, la raggion, il senso in altro attenda, discorra, s’intriche. Onde di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion si duole. Cossì come il continuo moto d’una parte suppone e mena seco il moto del tutto, di maniera che dal ributtar le parti anteriori sia conseguente il tirar de le parti posteriori: cossì il motivo de le parti superiori resulta necessariamente nell’inferiori, e dal poggiar d’una potenza opposita seguita l’abbassar de l’altra opposita. Quindi viene il cor (che significa tutti l’affetti in generale) ad essere ascoso et aperto; ritenuto dal zelo, sollevato da magnifico pensiero; rinforzato da la speranza, indebolito dal timore. Et in questo stato e condizione si vederà sempre che trovarassi sotto il fato della generazione. VI. cesarino Tutto va bene; vengamo a quel che séguita. Veggio una nave inchinata su il onde; et ha le sarte attaccate a lido et ha il motto: Fluctuat in portu. Argumentate quel che può significare: e se ne siete risoluto, esplicate. maricondo E la figura et il motto ha certa parentela col precedente motto e figura, come si può facilmente comprendere se alquanto si considera. Ma leggiamo l’articolo: Se da gli eroi, da gli dèi, da le genti assicurato son che non desperi; né téma, né dolor, né impedimenti de la morte, del corpo, de piaceri fia ch’oltre apprendi, che soffrisca e senti; e perché chiari vegga i miei sentieri, faccian dubio, dolor, tristezza spenti speranza, gioia e gli diletti intieri. Ma se mirasse, facesse, ascoltasse miei pensier, miei desii e mie raggioni, chi le rende sì ’ncerti, ardenti e casse, sì graditi concetti, atti, sermoni, non sa, non fa, non ha qualumque stassi de l’orto, vita e morte a le maggioni. Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’, e accend’, et emmi a lato, farammi illustre, potente e beato. Da quel che ne gli precedenti discorsi abbiamo considerato e detto si può comprendere il sentimento di ciò, massime dove si è dimostrato che il senso di cose basse è attenuato et annullato dove le potenze superiori sono gagliardamente intente ad oggetto più magnifico et eroico. E tanta la virtù della contemplazione (come nota lamblice) che accade tal volta non solo che l’anima ripose da gli atti inferiori, ma et oltre lascie il corpo a fatto. Il che non voglio intendere altrimenti che in tante maniere quali sono esplicate nel libro De’ trenta sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazzione. De quali alcune vituperosa, altre eroicamente fanno che non s’apprenda téma di morte, non si soffrisca dolor di corpo, non si sentano impedimenti di piaceri: onde la speranza, la gioia, e gli diletti del spirto superiore siano di tal sorte intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano aver origine da dubbio, dolore e tristezza alcuna. cesarino Ma che cosa è quella da cui richiede che mire a que’ pensieri ch’ha resi cossì incerti, compisca gli suoi desii che fa sì ardenti, et ascolte le sue raggioni che rende sì casse? maricondo Intende l’oggetto il quale allora il mira, quando esso se gli fa presente; atteso che veder la divinità è l’esser visto da quella, come vedere il sole concorre con l’esser visto dal sole; parimente essere ascoltato dalla divinità è a punto ascoltar quella, et esser favorito da quella è il medesimo esporsegli; dalla quale una medesima et immobile procedono pensieri incerti e certi, desii ardenti et appagati, e raggioni exaudite e casse: secondo che degna, o indegnamente l’uomo se gli presenta con l’intelletto, affetto et azzioni. Come il medesimo nocchiero vien detto caggione della summersione o salute della nave, per quanto che o è a quella presente, overo da quella trovasi absente; eccetto che il nocchiero per suo diffetto o compimento ruina e salva la nave: ma la divina potenza che è tutta in tutto, non si porge o suttrae se non per altrui conversione o aversione. VII. maricondo Con questa dumque mi par ch’abbia gran concatenazione e conseguenza la figura seguente, dove son due stelle in forma de doi occhi radianti con il suo motto che dice: Mors et vita. cesarino Leggete dumque l’articolo. maricondo Cossì farò: Per man d’amor scritto veder potreste nel volto mio l’istoria de mie pene; ma tu perché il tuo orgoglio non si affrene et io infelice eternamente reste, a le palpebre belle a me moleste asconder fai le luci tant’amene, ond’il turbato ciel non s’asserene, né caggian le nemiche ombre funeste. Per la bellezza tua, per l’amor mio, ch’a quella (benché tanta) è forse uguale, rèndite a la pietà diva per dio. Non prolongar il troppo intenso male, ch’è del mio tanto amar indegno fio: non sia tanto rigor con splender tale. Se ch’io viva ti cale, del grazioso sguardo apri le porte: mirami, o bella, se vuoi darmi morte. Qua il volto in cui riluce l’istoria de sue pene, è l’anima, in quanto che è esposta alla recepzion de doni superiori, al riguardo de quali è in potenza et attitudine, senza compimento di perfezzione et atto: il qual aspetta la ruggiada divina. Onde ben fu detto: Anima mea sicut terra sine aqua tibi. Et altrove: Os meum aperui et attraxi spiritum, quia mandata tua desiderabam. Appresso, l’orgoglio che non s’affrena è detto per metafora e similitudine (come de Dio tal volta si dice gelosia, ira, sonno): e quello significa la difficultà con la quale egli fa copia di far veder al meno le sue spalli, che è il farsi conoscere mediante le cose posteriori, et effetti. Cossì copre le luci con le palpebre, non asserena il turbato cielo de la mente umana, per toglier via l’ombra de gli enigmi e similitudini. – Oltre (perché non crede che tutto quel che non è non possa essere) priega la divina luce che per la sua bellezza la quale non deve essere a tutti occolta, almeno secondo la capacità de chi la mira, e per il suo amore che forse a tanta bellezza è uguale (uguale intende de la beltade in quanto che la se gli può far comprensibile), che si renda alla pietà, cioè che faccia come quelli che son piatosi, quali da ritrosi e schivi si fanno graziosi et affabili: e che non prolonghe il male che avviene da quella privazione; e non permetta che il suo splendor per cui è desiderata, appaia maggiore che il suo amore con cui si communiche: stante che tutte le perfezzioni in lei non solamente sono uguali, ma ancor medesime. – Al fine la ripriega che non oltre l’attriste con la privazione; perché potrà ucciderlo con la luce de suoi sguardi, e con que’medesimi donargli vita: e però non lo lasce a la morte con ciò che le amene luci siano ascose da le palpebre. cesarino Vuol dire quella morte de amanti che procede da somma gioia, chiamata da Cabalisti mors oscuri? la qual medesima è vita eterna, che l’uomo può aver in disposizione in questo tempo, et in effetto nell’eternità? maricondo Cossì è. VIII. cesarino Ma è tempo di procedere a considerar il seguente dissegno simile a questi prossimi avanti rapportati, con li quali ha certa conseguenza. Vi è un’aquila che con due ali s’appiglia al cielo; ma non so come e quanto vien ritardata dal pondo d’una pietra che tien legata a un piede. Et èvvi il motto: Scinditur incertum. E certo significa la moltitudine, numero e volgo delle potenze de l’anima; alla significazion della quale è preso quel verso: Scinditur incertum studia in contraria vulgus. Il qual volgo tutto generalmente è diviso in due fazzioni (quantumque subordinate a queste non mancano de l’altre), de le quali altre invitano a l’alto dell’intelligenza e splendore di giustizia; altre allettano, incitano e forzano in certa maniera al basso, alle sporcizie delle voluttadi, e compiacimenti de voglie naturali. Onde dice l’articolo: Bene far voglio, e non mi vien permesso; meco il mio sol non è, bench’io sia seco, che per esser con lui, non son più meco, ma da me lungi, quanto a lui più presso. Per goder una volta, piango spesso; cercando gioia, afflizzion mi reco; perché veggio tropp’alto, son sì cieco; per acquistar mio ben, perdo me stesso. Per amaro diletto, e dolce pena, impiombo al centro, e vers’il ciel m’appiglio; necessità mi tien, bontà mi mena; sorte m’affonda, m’inalza il consiglio; desio mi sprona, et il timor m’affrena; cura m’accende, e fa tard’il periglio. Qual dritto o divertiglio mi darà pace, e mi terrà de lite, s’avvien ch’un sì mi scacce, e l’altro invite? L’ascenso procede nell’anima dalla facultà et appulso ch’è nell’ali, che son l’intelletto et intellettiva volontade, per le quali essa naturalmente si riferisce et ha la sua mira a Dio come a sommo bene e primo vero, come all’absoluta bontà e bellezza. Cossì come ogni cosa naturalmente ha impeto verso il suo principio regressivamente, e progressivamente verso il suo fine e perfezzione, come ben disse Empedocle; da la cui sentenza mi par che si possa inferire quel che disse il Nolano in questa ottava: Convien ch’il sol d’onde parte raggiri, e al suo principio i discorrenti lumi; e ’l ch’è di terra, a terra si retiri, e al mar corran dal mar partiti fiumi, et ond’han spirto e nascon i desiri aspiren come a venerandi numi: cossì dalla mia diva ogni pensiero nato, che torne a mia diva è mistiero. La potenza intellettiva mai si quieta, mai s’appaga in verità compresa, se non sempre oltre et oltre procede alla verità incomprensibile: cossì la volontà che séguita l’apprensione, veggiamo che mai s’appaga per cosa finita. Onde per conseguenza non si riferisce l’essenza de l’anima ad altro termine che al fonte della sua sustanza et entità. Per le potenze poi naturali, per le quali è convertita al favore e governo della materia, viene a referirse et aver appulso, a giovare et a comunicar de la sua perfezzione a cose inferiori, per la similitudine che ha con la divinità, che per la sua bontade si comunica o infinitamente producendo, idest communicando l’essere a l’universo infinito, e mondi innumerabili in quello; o finitamente, producendo solo questo universo suggetto alli nostri occhi e comun raggione. Essendo dumque che nella essenza unica de l’anima se ritrovano questi doi geni de potenze, secondo che è ordinata et al proprio e l’altrui bene, accade che si depinga con un paio d’ali, mediante le quali è potente verso l’oggetto delle prime et immateriali potenze; e con un greve sasso, per cui è atta et efficace verso gli oggetti delle seconde e materiali potenze. Là onde procede che l’affetto intiero del furioso sia ancipite, diviso, travaglioso, e messo in facilità de inchinare più al basso, che di forzarsi ad alto: atteso che l’anima si trova nel paese basso e nemico, et ottiene la regione lontana dal suo albergo più naturale, dove le sue forze son più sceme. cesarino Credi che a questa difficultà si possa riparare?  maricondo Molto bene; ma il principio è durissimo, e secondo che si fa più e più fruttifero progresso di contemplazione, si doviene a maggiore e maggior facilità. Come avviene a chi vola in alto, che quanto più s’estoglie da la terra, vien ad aver più aria sotto che lo sustenta, e conseguentemente meno vien fastidito dalla gravità; anzi tanto può volar alto, che senza fatica de divider l’aria non può tornar al basso, quantunque giudicasi che più facil sia divider l’aria profondo verso la terra, che alto verso l’altre stelle. cesarino Tanto che col progresso in questo geno, s’acquista sempre maggiore e maggiore facilità di montare in alto? maricondo Cossì è; onde ben disse il Tansillo: Quanto più sott’il pie l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e verso il ciel m’invio. Come ogni parte de corpi e detti elementi quanto più s’avvicina al suo luogo naturale, tanto con maggior impeto e forza va, sin tanto che al fine o voglia o non bisogna che vi pervegna. Qualmente dumque veggiam nelle parti de corpi a gli proprii corpi, cossì doviam giudicare de le cose intellettive verso gli proprii oggetti, come proprii luoghi, patrie e fini. Da qua facilmente possete comprendere il senso intiero significato per la figura, per il motto e per gli carmi. cesarino Di sorte che quanto vi s’aggiongesse, tanto mi parrebe soverchio. IX. cesarino Vedasi ora quel che vien presentato per quelle due saette radianti sopra una targa, circa la quale è scritto Vicit instans. maricondo La guerra continua tra l’anima del furioso la qual gran tempo per la maggior familiarità che ha con la materia, era più dura et inetta ad esser penetrata da gli raggi del splendor della divina intelligenza e spezie della divina bontade; per il qual spacio dice ch’il cor smaltato de diamante, cioè l’affetto duro et inetto ad esser riscaldato e penetrato, ha fatto riparo a gli colpi d’amore che aportavano gli assalti da parti innumerabili. Vuol dire non ha sentito impiagarsi da quelle piaghe de vita eterna de le quali parla la Cantica quando dice: Vulnerasti cor meum, o dilecta, vulnerasti cor meum. Le quali piaghe non son di ferro, o d’altra materia, per vigor e forza de nervi; ma son freccie de Diana o di Febo: cioè o della dea de gli deserti della contemplazione de la Veritade, cioè della Diana che è l’ordine di seconde intelligenze che riportano il splender ricevuto dalla prima, per comunicarlo a gli altri che son privi de più aperta visione; o pur del nume più principale Apollo, che con il proprio e non improntato splendore manda le sue saette, cioè gli suoi raggi, da parti innumerabili tali e tante che son tutte le specie delle cose, le quali son indicatrici della divina bontà, intelligenza, beltade e sapienza, secondo diversi ordini dall’apprension dovenir furiosi amanti, percioché l’adamantino suggetto non ripercuota dalla sua superficie il lume impresso: ma rammollato e domato dal calore e lume, vegna a farsi tutto in sustanza luminoso, tutto luce, con ciò che vegna penetrato entro l’affetto e concetto. Questo non è subito nel principio della generazione quando l’anima di fresco esce ad esser inebriata di Lete et imbibita de l’onde de l’oblio e confusione: onde il spirito vien più cattivato al corpo e messo in essercizio della vegetazione, et a poco a poco si va digerendo per esser atto a gli atti della sensitiva facultade, sin tanto che per la razionale e discorsiva vegna a più pura intellettiva, onde può introdursi a la mente e non più sentirsi annubilata per le fumositadi di quell’umore che per l’exercizio di contemplazione non s’è putrefatto nel stomaco, ma è maturamente digesto. – Nella qual disposizione il presente furioso mostra aver durato sei lustri, nel discorso de quali non era venuto a quella purità di concetto che potesse farsi capace abitazione delle specie peregrine, che offrendosi a tutte ugualmente batteno sempre alla porta de l’intelligenza. Al fine l’amore che da diverse parti et in diverse volte l’avea assaltato come in vano (qualmente il sole in vano se dice lucere e scaldare a quelli che son nelle viscere de la terra et opaco profondo), per essersi accampato in quelle luci sante, cioè per aver mostrato per due specie intelligibili la divina bellezza, la quale con la raggione di verità gli legò l’intelletto e con la raggione di bontà scaldògli l’affetto, vennero superari gli studi materiali e sensitivi che altre volte soleano come trionfare, rimanendo (a mal grado de l’eccellenza de l’anima) intatti; perché quelle luci che facea presente l’intelletto agente illuminatore e sole d’intelligenza, ebbero facile entrata per le sue luci (quella della verità per la porta de la potenza intellettiva, quella della bontà per la porta della potenza appetitiva) al core, cioè alla sustanza del generale affetto. Questo fu quel doppio strale che venne come da man de guerriero irato, cioè più pronto, più efficace, più ardito, che per tanto tempo innanzi s’era dimostrato come più debole o negligente. Allora quando primieramente fu sì scaldato et illuminato nel concetto, fu quello vittorioso punto e momento, per cui è detto: Vicit instans. Indi possete intendere il senso della proposta figura, motto, et articolo che dice: Forte a i colpi d’amor feci riparo quand’assalti da parti varie e tante soffers’il cor smaltato di diamante; ond’i miei studi de suoi trionfare. Al fin (come gli cieli destinaro) un dì accampossi in quelle luci sante, che per le mie sole tra tutte quante facil entrata al cor mio ritrovare. Indi mi s’avventò quel doppio strale, che da man di guerrier irato venne, qual sei lustri assalir mi seppe male: notò quel luogo, e forte vi si tenne, piantò ’l trofeo di me là d’onde vale tener ristrette mie fugaci penne. Indi con più sollenne apparecchio, mai cessano ferire mio cor, del mio dolce nemico l’ire. Singular instante fu il termine del cominciamento e perfezzione della vittoria. Singulari gemine specie furon quelle, che sole tra tutte quante trovaro facile entrata; atteso che quelle contegnono in sé l’efficacia e virtù de tutte l’altre: atteso che qual forma megliore e più eccellente può presentarsi che di quella bellezza, bontà e verità, la quale è il fonte d’ogn’altra verità, bontà, beltade? Notò quel luogo, prese possessione de l’affetto, rimarcollo, impressevi il carattere di sé; e forte vi si tenne, e se l’ha confirmato, stabilito, sancito di sorte che non possa più perderlo: percioché è impossibile che uno possa voltarsi ad amar altra cosa quando una volta ha compreso nel concetto la bellezza divina. Et è impossibile che possa far di non amarla, come è impossibile che nell’appetito cada altro che bene o specie di bene. E però massimamente deve convenire l’appetenzia del sommo bene. Cossì ristrette son le penne che soleano esser fugaci concorrendo giù col pondo della materia. Cossì da là mai cessano ferire, sollecitando l’affetto e risvegliando il pensiero, le dolci ire, che son gli efficaci assalti del grazioso nemico, già tanto tempo ritenuto escluso, straniero e peregrino. È ora unico et intiero possessore e disponitor de l’anima; perché ella non vuole, né vuol volere altro; né gli piace, né vuol che gli piaccia altro, onde sovente dica: Dolci ire, guerra dolce, dolci dardi, dolci mie piaghe, miei dolci dolori. cesarino Non mi par che rimagna cosa da considerar oltre in proposito di questo. Veggiamo ora questa faretra et arco d’amore, come mostrano le faville che sono in circa, et il nodo del laccio che pende: con il motto che è, Subito, clam. Giordano Bruno De gl’eroici furori maricondo Assai mi ricordo d’averlo veduto espresso ne l’articolo; però leggiamolo prima: Avida di trovar bramato pasto, l’aquila vers’il ciel ispiega l’ali, facend’accorti tutti gli animali, ch’al terzo volo s’apparecchia al guasto. E del fiero leon ruggito vasto fa da l’alta spelunca orror mortali, onde le belve presentando i mali fuggon a gli antri il famelico impasto. E ’l ceto quando assalir vuol l’armento muto di Proteo da gli antri di Teti, pria fa sentir quel spruzzo violento. Aquile ’n ciel, leoni in terr’e i ceti signor’ in mar, non vanno a tradimento: ma gli assalti d’amor vegnon secreti. Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che femmi a lungo infortunato amante. Tre sono le regioni de gli animanti composti de più elementi: la terra, l’acqua, l’aria. Tre son gli geni de quelli: fiere, pesci et ucelli. In tre specie sono gli prìncipi conceduti e definiti dalla natura: ne l’aria l’aquila, ne la terra il leone, ne l’acqua il ceto: de quali ciascuno come dimostra più forza et imperio che gli altri, viene anco a far aperto atto di magnanimità, o simile alla magnanimità. Percioché è osservato che il leone, prima che esca a la caccia, manda un ruggito forte che fa rintonar tutta la selva, come de l’erinnico cacciatore nota il poetico detto: At saeva e speculis tempus dea nacta nocendi, ardua testa petit, stabuli et de culmine summo pastorale canit signum, cornuque recurvo tartaream intendit vocem, qua protinus omne contremuit nemus, et silvae intonuere profundae. De l’aquila ancora si sa che volendo procedere alla sua venazione, prima s’alza per dritto dal nido per linea perpendicolare in alto, e quasi per l’ordinario la terza volta si balza da alto con maggior impeto e prestezza che se volasse per linea piana; onde dal tempo in cui cerca il vantaggio della velocità del volo, prende anco comodità di specular da lungi la preda, della quale o despera o si risolve dopo fatte tre remirate. cesarino Potremmo conietturare per qual caggione, se alla prima si presentasse a gli occhi la preda, non viene subito a lanciarsegli sopra? maricondo Non certo. Ma forse che ella sin tanto distingue se si gli possa presentar megliore o più comoda preda. Oltre non credo che ciò sia sempre, ma per il più ordinario. Or venemo a noi. Del ceto o balena è cosa aperta che per essere un machinoso animale non può divider l’acqui se non con far che la sua presenza sia presentita dal ributto de l’onde: senza questo, che si trovano assai specie di questo pesce che con il moto e respirar che fanno, egurgitano una ventosa tempesta di spruzzo acquoso. Da tutte dumque le tre specie de principi animali hanno facultà di prender tempo di scampo gli animali inferiori: di sorte che non procedono come subdoli e traditori. Ma l’Amor che è più forte e più grande, e che ha domìno supremo in cielo, in terra et in mare, e che per similitudine di questi forse derrebe mostrar tanto più eccellente magnanimità quanto ha più forza, niente di manco assalta e fere a l’improvisto e subito. Labitur totas furor in medullas, igne furtivo populante venas, nec habet latam data plaga frontem; sed vorat tectas penitus medullas, virginum ignoto ferit igne pectus. Come vedete, questo tragico poeta lo chiama furtivo fuoco, ignote fiamme; Salomone lo chiama acqui furtive, Samuele lo nomò sibilo d’aura sottile. Li quali tre significano con qual dolcezza, lenità et astuzia, in mare, in terra, in cielo, viene costui a (come) tiranneggiar l’universo. cesarino Non è più grande imperio, non è tirannide peggiore, non è meglior domino, non è potestà più necessaria, non è cosa più dolce e suave, non si trova cibo che sia più austero et amaro, non si vede nume più violento, non è dio più piacevole, non agente più traditore e finto, non autor più regale e fidele, e (per finirla) mi par che l’amor sia tutto, e faccia tutto; e de lui si possa dir tutto, e tutto possa attribuirsi a lui. maricondo Voi dite molto bene. L’amor dumque (come quello che opra massime per la vista, la quale è spiritualissimo de tutti gli sensi, per che subito monta sin alli appresi margini del mondo, e senza dilazion di tempo si porge a tutto l’orizonte della visibilità) viene ad esser presto, furtivo, improvisto e subito. Oltre è da considerare quel che dicono gli antichi, che l’amor precede tutti gli altri dèi; però non fia mestiero de fingere che Saturno gli mostre il camino, se non con seguitarlo. Appresso, che bisogna cercar se l’amore appaia e facciasi prevedere di fuori, se il suo alloggiamento è l’anima medesima, il suo letto è l’istesso core, e consiste nella medesima composizione de nostra sustanza, nel medesimo appulso de nostre potenze? Finalmente ogni cosa naturalmente appete il bello e buono, e però non vi bisogna argumentare e discorrere perché l’affetto si informe e conferme; ma subito et in uno instante l’appetito s’aggionge a l’appetibile, come la vista al visibile. XI. cesarino Veggiamo appresso che voglia dir quella ardente saetta circa la quale è avolto il motto: Cui nova plaga loco?. Dechiarate che luogo cerca questa per ferire. maricondo Non bisogna far altro che leggere l’articolo, che dice cossì: Che la bogliente Puglia o Libia mieta tante spiche, et areste tante a i venti commetta, e mande tanti rai lucenti da sua circonferenza il gran pianeta, quanti a gravi doler quest’alma lieta (che sì triste si gode in dolci stenti) accoglie da due stelle strali ardenti, ogni senso e raggion creder mi vieta. Che tenti più, dolce nemico, Amore? qual studio a me ferir oltre ti muove, or ch’una piaga è fatto tutto il core? Poiché né tu, né altro ha un punto, dove per stampar cosa nuova, o punga, o fóre, volta volta sicur or l’arco altrove. Non perder qua tue prove, per che, o bel dio, se non in vano, a torto oltre tenti amazzar colui ch’è morto. Tutto questo senso è metaforico come gli altri, e può esser inteso per il sentimento di quelli. Qua la moltitudine de strali che hanno ferito e feriscono il core significa gl’innumerabili individui e specie de cose, nelle quali riluce il splendor della divina beltade, secondo gli gradi di quelle, et onde ne scalda l’affetto del proposto et appreso bene. De quali l’un e l’altro per le raggioni de potenzia et atto, de possibilità et effetto, e cruciano e consolano, e donano senso di dolce e fanno sentir l’amaro. Ma dove l’affetto intiero è tutto convertito a Dio, cioè all’idea de le idee, dal lume de cose intelligibili la mente viene exaltata alla unità super essenziale, è tutta amore, tutta una, non viene ad sentirsi sollecitata da diversi oggetti che la distrahano: ma è una sola piaga, nella quale concorre tutto l’affetto, e che viene ad essere la sua medesima affezzione. Allora non è amore o appetito di cosa particolare che possa sollecitare, né almeno farsi innanzi a la voluntade, perché non è cosa più retta ch’il dritto, non è cosa più bella che la bellezza, non è più buono che la bontà, non si trova più grande che la grandezza, né cosa più lucida che quella luce, la quale con la sua presenza oscura e cassa gli lumi tutti. cesarino Al perfetto, se è perfetto, non è cosa che si possa aggiongere: però la volontà non è capace d’altro appetito, quando fiagli presente quello ch’è del perfetto, sommo, e massimo. Intendere dumque posso la conclusione, dove dice a l’amore: Non perder qua tue prove; perché, se non in vano, a torto (si dice per certa similitudine e metafora) tenti ammazzar colui ch’è morto. Cioè quello che non ha più vita né senso circa altri oggetti, onde da quelli possa esser punto o forato; a che oltre viene ad essere esposto ad altre specie? e questo lamento accade a colui che, avendo gusto de l’optima unità, vorrebe essere al tutto exempto et abstratto dalla moltitudine. maricondo Intendete molto bene. cesarino Or ecco appresso un fanciullo dentro un battello che sta ad ora ad ora per essere assorbito, da l’onde tempestose, che languido e lasso ha abandonati gli remi. Et èvvi circa lo motto Fronti nulla fides. Non è dubio che questo significhe che lui dal sereno aspetto de l’acqui fu invitato a solcar il mare infido; il quale a l’improviso avendo inturbidato il volto, per estremo e mortal spavento, e per impotenza di romper l’impeto, gli ha fatto dismetter il capo, braccia, e la speranza. Ma veggiamo il resto: Gentil garzon che dal lido scioglieste la pargoletta barca, e al remo frale, vago del mar l’indotta man porgeste, or sei repente accorto del tuo male. Vedi del traditor l’onde funeste la prora tua, ch’o troppo scend’o sale; né l’alma vinta da cure moleste, contra gli obliqui e gonfii flutti vale. Cedi gli remi al tuo fero nemico, e con minor pensier la morte aspetti, che per non la veder gli occhi ti chiudi. Se non è presto alcun soccorso amico, sentirai certo or or gli ultimi effetti de tuoi si rozzi e curiosi studi. Son gli miei fati crudi simili a’ tuoi, perché vago d’Amore sento il rigor del più gran traditore. In qual maniera e perché l’amore sia traditore e frodulento l’abbiamo poco avanti veduto: ma perché veggio il seguente senza imagine e motto, credo che abbia conseguenza con il presente; però continuano leggendolo: Lasciato il porto per prova e per poco, feriando da studi più maturi, ero messo a mirar quasi per gioco: quando viddi repente i fati duri. Quei sì m’han fatto violento il foco, ch’in van ritento a i lidi più sicuri, in van per scampo man piatosa invoco, perché al nemico mio ratto mi furi. Impotent’a suttrarmi, roco e lasso io cedo al mio destino, e non più tento di far vani ripari a la mia morte: facciami pur d’ogni altra vita casso, e non più tarde l’ultimo tormento, che m’ha prescritto la mia fera sorte. Tipo di mio mal forte è quel che si commese per trastullo al sen nemico, improvido fanciullo. Qua non mi confido de intendere o determinar tutto quel che significa il furioso: pure è molto espressa una strana condizione d’un animo dismesso dall’apprension della difficultà de l’opra, grandezza della fatica, vastità del lavoro da un canto; e da un altro, l’ignoranza, privazion de l’arte, debolezza de nervi, e periglio di morte. Non ha consiglio atto al negocio; non si sa d’onde e dove debba voltarsi, non si mostra luogo di fuga o di rifugio; essendo che da ogni parte minacciano l’onde de l’impeto spaventoso e mortale. Ignoranti portum, nullus suus ventus est. Vede colui che molto e pur troppo s’è commesso a cose fortuite, s’aver edificato la perturbazione, il carcere, la ruina, la summersione. Vede come la fortuna si gioca di noi; la qual ciò che ne mette con gentilezza in mano, o lo fa rompere facendolo versar da le mani istesse, o fa che da l’altrui violenza ne sia tolto, o fa che ne suffoche et avvelene, o ne sollecita con la suspizione, timore e gelosia, a gran danno e ruina del possessore. Fortunae an ulla putatis dona carere dolis? Or, perché la fortezza che non può far esperienza di sé, è cassa; la magnanimità che non può prevalere, è nulla, et è vano il studio senza frutto; vede gli effetti del timore del male, il quale è peggio ch’il male istesso: Peior est morte timor ipse mortis. Già col timore patisce tutto quel che teme de patire, orror ne le membra, imbecillità ne gli nervi, tremor del corpo, anxia del spirito; e si fa presente quel che non gli è sopragionto ancora, et è certo peggiore che sopragiongere gli possa: che cosa più stolta che dolere per cosa futura, absente, e la qual presente non si sente? Queste son considerazioni su la superficie e l’istoriale de la figura. Ma il proposito del furioso eroico penso che verse circa l’imbecillità de l’ingegno umano il quale attento a la divina impresa in un subito talvolta si trova ingolfato nell’abisso della eccellenza incomprensibile, onde il senso et imaginazione vien confusa et assorbita, che non sapendo passar avanti, né tornar a dietro, né dove voltarsi, svanisce e perde l’esser suo non altrimenti che una stilla d’acqua che svanisce nel mare, o un picciol spirito che s’attenua perdendo la propria sustanza nell’aere spacioso et inmenso. maricondo Bene: ma andiamone discorrendo verso la stanza, perché è notte. fine del primo dialogo mariconda Qua vedete un giogo fiammeggiante et avolto de lacci, circa il quale è scritto Levius aura; che vuol significar come l’amor divino non aggreva, non trasporta il suo servo, cattivo e schiavo al basso, al fondo: ma l’inalza, lo sulleva, il magnifica sopra qualsivoglia libertade. cesarino Priegovi leggiamo presto l’articolo, perché con più ordine, proprietà e brevità possiamo considerar il senso, se pur in quello non si trova altro. mariconda Dice cossì: Chi femmi ad alt’amor la mente desta, chi fammi ogn’altra diva e vile e vana, in cui beltad’ e la bontà sovrana unicamente più si manifesta; quell’è ch’io viddi uscir da la foresta, cacciatrice di me la mia Diana, tra belle ninfe su l’aura Campana, per cui dissi ad Amor: Mi rendo a questa; et egli a me: O fortunato amante, o dal tuo fato gradito consorte: che colei sola che tra tante e tante, quai ha nel grembo la vit’e la morte, più adorna il mondo con le grazie sante, ottenesti per studio e per sorte, ne l’amorosa corte sì altamente felice cattivo, che non invidii a sciolt’ altr’uomo o divo. Vedi quanto sia contento sotto tal giogo, tal coniugio, tal soma che l’ha cattivato a quella che vedde uscir da la foresta, dal deserto, da la selva; cioè da parti rimosse dalla moltitudine, dalla conversazione, dal volgo, le quali son lustrate da pochi. Diana splendor di specie intelligibili, è cacciatrice di sé, perché con la sua bellezza e grazia l’ha ferito prima, e se l’ha legato poi; e tienio sotto il suo imperio più contento che mai altrimenti avesse potuto essere. Questa dice tra belle nimfe, cioè tra la moltitudine d’altre specie, forme et idee; e su l’aura Campana, cioè quello ingegno e spirito che si mostrò a Nola, che giace al piano del orizonte campano. A quella si rese, quella più ch’altra gli venne lodata da l’amore, che per lei vuol che si tegna tanto fortunato, come quella che, tra tutte quante si fanno presenti et absenti da gli occhi de mortali, più altamente adorna il mondo, fa l’uomo glorioso e bello. Quindi dice aver sì desta la mente ad eccellente amore, che apprende ogni altra diva, cioè cura et osservanza d’ogni altra specie, vile e vana. – Or in questo che dice aver desta la mente ad amor alto, ne porge essempio de magnificar tanto alto il core per gli pensieri, studii et opre, quanto più possibil fia, e non intrattenerci a cose basse e messe sotto la nostra facultade: come accade a coloro che o per avarizia, o per negligenza, o pur altra dapocagine rimagnono in questo breve spacio de vita attaccati a cose indegne. cesarino Bisogna che siano arteggiani, meccanici, agricoltori, servitori, pedoni, ignobili, vili, poveri, pedanti et altri simili: perché altrimenti non potrebono essere filosofi, contemplativi, coltori degli animi, padroni, capitani, nobili, illustri, ricchi, sapienti, et altri che siano eroici simili a gli dèi. Però a che doviamo forzarci di corrompere il stato della natura il quale ha distinto l’universo in cose maggiori e minori, superiori et inferiori, illustri et oscure, degne et indegne, non solo fuor di noi, ma et ancora dentro di noi, nella nostra sustanza medesima, sin a quella parte di sustanza che s’afferma inmateriale? Come delle intelligenze altre son suggette, altre preminenti, altre serveno ed ubediscono, altre comandano e governano. Però io crederei che questo non deve esser messo per essempio a fin che li sudditi volendo essere superiori, e gl’ignobili uguali a gli nobili, non vegna a pervertirsi e confondersi l’ordine delle cose, che al fine succeda certa neutralità e bestiale equalità, quale si ritrova in certe deserte et inculte republiche. Non vedete oltre in quanta iattura siano venute le scienze per questa caggione che gli pedanti hanno voluto essere filosofi, trattar cose naturali, intromettersi a determinar di cose divine? Chi non vede quanto male è accaduto et accade per averno simili fatte ad alti amori le menti deste? Chi ha buon senso, e non vede del profitto che fe’ Aristotele, che era maestro de lettere umane ad Alessandro, quando applicò alto il suo spirito a contrastare e muover guerra a la dottrina pitagorica e quella de filosofi naturali, volendo con il suo raciocinio logicale ponere diffinizioni, nozioni, certe quinte entitadi et altri parti et aborsi de fantastica cogitazione per principio e sustanza di cose, studioso più della fede del volgo e sciocca moltitudine, che viene più incaminata e guidata con sofismi et apparenze che si trovano nella superficie delle cose, che della verità che è occolta nella sustanza di quelle, et è la sustanza medesima loro? Fece egli la mente desta non a farsi contemplatore, ma giudice e sentenziatore di cose che non avea studiate mai, né bene intese. Cossì a’ tempi nostri quel tanto di buono ch’egli apporta e singolare di raggione inventiva, iudicativa e di metafisica, per ministerio d’altri pedanti che lavorano col medesimo sursum corda, vegnono instituite nove dialettiche e modi di formar la raggione: tanto più vili di quello d’Aristotele quanto forse la filosofia d’Aristotele è incomparabilmente più vile di quella de gli antichi. Il che è pure avvenuto da quel che certi grammatisti dopo che sono invecchiati nelle culine de fanciulli e notomie de frasi e de vocaboli, ban voluto destar la mente a far nuove logiche e metafisiche, giudicando e sentenziando quelle che mai studiorno et ora non intendono: là onde cossì questi col favore della ignorante moltitudine (al cui ingegno son più conformi), potranno cossì bene donar il crollo alle umanitadi e raziocinio d’Aristotele, come questo fu carnefice delle altrui divine filosofie. Vedi dumque a che suol promovere questo consiglio, se tutti aspireno al splendor santo, et abbiano altre imprese vili e vane. mariconda Ride si sapis, o puella, ride, pelignus (puto) dixerat poeta; sed non dixerat omnibus puellis: et si dixerit omnibus puellis, non dixit tibi. Tu puella non es. Cossì il sursum corda non è intonato a tutti, ma a quelli ch’hanno l’ali. Veggiamo bene che mai la pedantaria è stata più in esaltazione per governare il mondo, che a’ tempi nostri; la quale fa tanti camini de vere specie intelligibili et oggetti de l’unica veritade infallibile, quanti possano essere individui pedanti. Però a questo tempo massime denno esser isvegliati gli ben nati spiriti armati dalla verità et illustrati dalla divina intelligenza, di prender l’armi contra la fosca ignoranza, montando su l’alta rocca et eminente torre della contemplazione. A costoro conviene d’aver ogni altra impresa per vile e vana. Questi non denno in cose leggieri e vane spendere il tempo, la cui velocità è infinita: essendo che sì mirabilmente precipitoso scorra il presente, e con la medesima prestezza s’accoste il futuro. Quel che abbiamo vissuto è nulla, quel che viviamo è un punto, quel ch’abbiamo a vivere non è ancora un punto, ma può essere un punto, il quale insieme sarà e sarà stato. E tra tanto questo s’intesse la memoria di genealogie, quello attende a desciferar scritture, quell’altro sta occupato a moltiplicar sofismi da fanciulli. Vedrai verbigrazia un volume pieno di: Cor est fons vite, nix est alba: ergo cornix est fons vitae alba. Quell’altro garrisce se il nome fu prima o il verbo, l’altro se il mare o gli fonti, l’altro vuol rinovare gli vocaboli absoleti che per esserno venuti una volta in uso e proposito d’un scrittore antico, ora de nuovo le vuol far montar a gli astri; l’altro sta su la falsa e vera ortografia, altri et altri sono sopra altre et altre simili frascarie, le quali molto più degnamente son spreggiate che intese. Qua diggiunano, qua ismagriscono, qua intisichiscono, qua arrugano la pelle, qua allungano la barba, qua marciscono, qua poneno l’àncora del sommo bene. Con questo spreggiano la fortuna, con questo fan riparo e poneno il scudo contra le lanciate del fato. Con tali e simili vilissimi pensieri credeno montar a gli astri, esser pari a gli dei, e comprendere il bello e buono che promette la filosofia. cesarino È gran cosa certo che il tempo che non può bastarci manco alle cose necessarie, quantunque diligentissimamente guardato, viene per la maggior parte ad esser speso in cose superflue, anzi cose vili e vergognose. – Non è da ridere di quello che fa lodabile Archimede o altro appresso alcuni, che a tempo che la cittade andava sottosopra, tutto era in ruina, era acceso il fuoco ne la sua stanza, gli nemici gli erano dentro la camera a le spalli, nella discrezzion et arbitrio de quali consisteva de fargli perdere l’arte, il cervello e la vita; e lui tra tanto avea perso il senso e proposito di salvar la vita, per averlo lasciato a dietro a perseguitar forse la proporzione de la curva a la retta, del diametro al circolo o altre simili matesi, tanto degne per giovanotti quanto indegne d’uno che (se posseva) devrebbe essere invecchiato et attento a cose più degne d’esser messe per fine de l’umano studio. mariconda In proposito di questo mi piace quello che voi medesimo poco avanti dicesti, che bisogna ch’il mondo sia pieno de tutte sorte de persone, e che il numero de gl’imperfetti, brutti, poveri, indegni e scelerati sia maggiore: et in conclusione non debba essere altrimenti che come è. La età lunga e vechiaia d’Archimede, Euclide, di Prisciano, di Donato et altri che da la morte son stati trovati occupati sopra li numeri, le linee, le dizzioni, le concordanze, scritture, dialecti, sillogismi formali, metodi, modi de scienze, organi et altre isagogie, è stata ordinata al servizio della gioventù e de’ fanciulli, gli quali apprender possano e ricevere gli frutti della matura età di quelli, come conviene che siano mangiati da questi nella lor verde etade: a fin che più adulti vegnano senza impedimento atti e pronti a cose maggiori. cesarino Io non son fuor del proposito che poco avanti ho mosso: essendo in proposito di quei che fanno studio d’involar la fama e luogo de gli antichi con far nove opre o peggiori, o non megliori de le già fatte, e spendeno la vita su le considerazioni da mettere avanti la lana di capra o l’ombra de l’asino; et altri che in tutto il tempo de la vita studiano di farsi esquisiti in que’ studii che convegnono alla fanciullezza, e per la massima parte il fanno senza proprio et altrui profitto. mariconda Or assai è detto circa quelli che non possono né debbono ardire d’aver ad alt’amor la mente desta. Venemo ora a considerare della volontaria cattività, e dell’ameno giogo sotto l’imperio de la detta Diana: quel giogo, dico, senza il quale l’anima è impotente de rimontar a quella altezza da la qual cadìo, percioché la rende più leggiera et agile; e gli lacci la fanno più ispedita e sciolta. cesarino Discorrete dumque. mariconda Per cominciar, continuar e conchiudere con ordine, considero che tutto quel che vive, in quel modo che vive, conviene che in qualche maniera si nodrisca, si pasca. Però a la natura intellettuale non quadra altra pastura che intellettuale, come al corpo non altra che corporale: atteso che il nodrimento non si prende per altro fine eccetto perché vada in sustanza de chi si nodrisce. Come dumque il corpo non si trasmuta in spirito, né il spirito si trasmuta in corpo (perché ogni trasmutazione si fa quando la materia che era sotto la forma de uno viene ad essere sotto la forma de l’altro), cossì il spirito et il corpo non hanno materia commune, di sorte che quello che era soggetto a uno possa dovenire ad essere soggetto de l’altro. cesarino Certo se l’anima se nodrisse de corpo si portarebe meglio dove è la fecondità della materia (come argumenta Iamblico), di sorte che quando ne si fa presente un corpo grasso e grosso, potremmo credere che sia vase d’un animo gagliardo, fermo, pronto, eroico, e dire: O anima grassa, o fecondo spirito, o bello ingegno, o divina intelligenza, o mente illustre, o benedetta ipostasi da far un convito a gli leoni, over un banchetto a i dogs. Cossì un vecchio, come appare marcido, debole e diminuito de forze, debba esser stimato de poco sale, discorso e raggione. Ma seguitate. mariconda Or l’esca de la mente bisogna dire che sia quella sola che sempre da lei è bramata, cercata, abbracciata, e volentieri più ch’altra cosa gustata, per cui s’empie, s’appaga, ha prò e dovien megliore: cioè la verità alla quale in ogni tempo, in ogni etade et in qualsivoglia stato che si trove l’uomo, sempre aspira, e per cui suol spreggiar qualsivoglia fatica, tentar ogni studio, non far caso del corpo, et aver in odio questa vita. Perché la verità è cosa incorporea; perché nessuna, o sia fisica, o sia metafisica, o sia matematica, si trova nel corpo; perché vedete che l’eterna essenza umana non è ne gl’individui li quali nascono e muoiono. È la unità specifica (disse Platone) non la moltitudine numerale che comporta la sustanza de le cose; però chiamò l’idea uno e molti, stabile e mobile: perché come specie incorrottibile, è cosa intelligibile et una, e come si communica alla materia et è sotto il moto e generazione, è cosa sensibile e molti. In questo secondo modo ha più de non ente che di ente: atteso che sempre è altro et altro, e corre eterno per la privazione; nel primo modo è ente e vero. Vedete appresso che gli matematici hanno per conceduto che le vere figure non si trovano ne gli corpi naturali, né vi possono essere per forza di natura né di arte. Sapete ancora che la verità de sustanze sopranaturali è sopra la materia. – Conchiudesi dumque che a chi cerca il vero, bisogna montar sopra la raggione de cose corporee. Oltre di ciò è da considerare che tutto quel che si pasce, ha certa mente e memoria naturale del suo cibo, e sempre (massime quando fia più necessario) ha presente la similitudine e specie di quello, tanto più altamente, quanto è più alto e glorioso chi ambisce, e quello che si cerca. Da questo, che ogni cosa ha innata la intelligenza de quelle cose che appartegnono alla conservazione de l’individuo e specie, et oltre alla perfezion sua finale, depende la industria di cercare il suo pasto per qualche specie di venazione. – Conviene dumque che l’anima umana abbia il lume, l’ingegno e gl’instrumenti atti alla sua caccia. Qua soccorre la contemplazione, qua viene in uso la logica, altissimo organo alla venazione della verità, per distinguere, trovare e giudicare. Quindi si va lustrando la selva de le cose naturali dove son tanti oggetti sotto l’ombra e manto, e come in spessa, densa e deserta solitudine la verità suol aver gli antri e cavernosi ricetti; fatti intessuti de spine, conchiusi de boscose, ruvide e frondose piante: dove con le raggioni più degne et eccellenti maggiormente s’asconde, s’avvela e si profonda con diligenza maggiore, come noi sogliamo gli tesori più grandi celare con maggior diligenza e cura, accioché dalla moltitudine e varietà de cacciatori (de quali altri son più exquisiti et exercitati, altri meno) non vegna senza gran fatica discuoperta. Qua andò Pitagora cercandola per le sue orme e vestigii impressi nelle cose naturali, che son gli numeri li quali mostrano il suo progresso, raggioni, modi et operazioni in certo modo: perché in numero de moltitudine, numero de misure, e numero de momento o pende, la verità e l’essere si trova in tutte le cose. Qua andò Anaxagora et Empedocle che considerando che la omnipotente et omniparente divinità empie il tutto, non trovavano cosa tanto minima che non volessero che sotto quella fusse occolta secondo tutte le raggioni, benché procedessero sempre vèr là dove era predominante et espressa secondo raggion più magnifica et alta. Qua gli Caldei la cercavano per via di suttrazzione non sapendo che cosa di quella affirmare: e procedevano senza cani de dimostrazioni e sillogismi; ma solamente si forzaro di profondare rimovendo, zappando, isboscando per forza di negazione de tutte specie e predicati comprensibili e secreti. Qua Platone andava como isvoltando, spastinando e piantando ripari: perché le specie labili e fugaci rimanessero come nella rete, e trattenute da le siepe de le definizioni, considerando le cose superiori essere participativamente, e secondo similitudine speculare nelle cose inferiori, e queste in quelle secondo maggior dignità et eccellenza; e la verità essere ne l’une e l’altre secondo certa analogia, ordine e scala, nella quale sempre l’infimo de l’ordine superiore conviene con il supremo de l’ordine inferiore. E cossì si dava progresso dal infimo della natura al supremo come dal male al bene, dalle tenebre alla luce, dalla pura potenza al puro atto, per gli mezzi. Qua Aristotele si vanta pure da le orme e vestigii impressi di posser pervenire alla desiderata preda, mentre da gli effetti vuol amenarsi a le cause. Benché egli per il più (massime che tutti gli altri ch’hanno occupato il studio a questa venazione) abbia smarrito il camino, per non saper a pena distinguere de le pedate. – Qua alcuni teologi nodriti in alcune de le sette cercano la verità della natura in tutte le forme naturali specifiche, nelle quali considerano l’essenza eterna e specifico sustantifico perpetuator della sempiterna generazione e vicissitudine de le cose, che son chiamate dèi conditori e fabricatori, sopra gli quali soprasiede la forma de le forme, il fonte de la luce, verità de le veritadi, dio de gli dèi, per cui tutto è pieno de divinità, verità, entità, bontà. Questa verità è cercata come cosa inaccessibile, come oggetto inobiettabile, non sol che incomprensibile: però a nessun pare possibile de vedere il sole, l’universale Apolline e luce absoluta per specie suprema et eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l’universo, la natura che è nelle cose, la luce che è nell’opacità della materia: cioè quella in quanto splende nelle tenebre. De molti dumque, che per dette vie et altre assai discorreno in questa deserta selva, pochissimi son quelli che s’abbattono al fonte de Diana. Molti rimagnono contenti de caccia de fiere selvatiche e meno illustri, e la massima parte non trova da comprendere avendo tese le reti al vento, e trovandosi le mani piene di mosche. Rarissimi dico son gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di posser contemplar la Diana ignuda: e dovenir a tale che dalla bella disposizione del corpo della natura invaghiti in tanto, e scorti da que’ doi lumi del gemino splendor de divina bontà e bellezza, vegnano trasformati in cervio, per quanto non siano più cacciatori ma caccia. Perché il fine ultimo e finale di questa venazione è de venire allo acquisto di quella fugace e selvaggia preda, per cui il predator dovegna preda, il cacciator doventi caccia; perché in tutte le altre specie di venaggione che si fa de cose particolari, il cacciatore viene a cattivare a sé l’altre cose, assorbendo quelle con la bocca de l’intelligenza propria; ma in quella divina et universale viene talmente ad apprendere che resta necessariamente ancora compreso, as- sorbito, unito: onde da volgare, ordinario, civile e populare, doviene selvatico come cervio, et incola del deserto; vive divamente sotto quella procerità di selva, vive nelle stanze non artificiose di cavernosi monti, dove admira gli capi de gli gran fiumi, dove vegeta intatto e puro da ordinarie cupiditadi, dove più liberamente conversa la divinità, alla quale aspi- rando tanti uomini che in terra hanno volsuto gustar vita celeste, dissero con una voce: Ecce elongavi fugiens, et mansi in solitudine. Cossì gli cani, pensieri de cose divine, vorano questo Atteone, facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal carnal carcere della materia; onde non più vegga come per forami e per fenestre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglia a terra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte che tutto guarda come uno, non vede più per distinzioni e numeri, che secondo la diversità de sensi, come de diverse rime fanno veder et apprendere in confusione. Vede l’Amfitrite, il fonte de tutti numeri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la Monade, vera essenza de l’essere de tutti; e se non la vede in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa monade che è la natura, l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia come il sole nella luna, mediante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emisfero delle sustanze intellettuali. Questa è la Diana, quello uno che è l’istesso ente, quello ente che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensibile, in cui influisce il sole et il splendor della natura superiore secondo che la unità è destinta nella generata e generante, o producente e prodotta. Cossì da voi medesimo potrete conchiudere il modo, la dignità, et il successo più degno del cacciatore e de la caccia: onde il furioso si vanta d’esser preda della Diana, a cui si rese, per cui si stima gradito consorte, e più felice cattivo e suggiogato, che invidiar possa ad altro uomo che non ne può aver ch’altretanto, o ad altro divo che ne have in tal specie quale è impossibile d’essere ottenuta da natura inferiore, e per conseguenza non è conveniente d’essere desiata, né meno può cadere in appetito. cesarino Ho ben compreso quanto avete detto, e m’avete più che mediocremente satisfatto. Or è tempo di ritornar a casa. mariconda Bene. fine del secondo dialogo interlocutori Liberio, Laodonio. liberio Posando sotto l’ombra d’un cipresso il furioso, e trovandosi l’alma intermíttente da gli altri pensieri (cosa mirabile), avvenne che (come fussero animali e sustanze de distinte raggioni e sensi) si parlassero insíeme il core e gli occhi: l’uno de l’altro lamentandosi come quello che era principio di quel faticoso tormento che consumava l’alma. laodonio Dite, se vi ricordate, le raggioni e le paroli. liberio Cominciò il dialogo il core, il qual facendosi udir dal petto proruppe in questi accenti: Prima proposta del core a gli occhi Come, occhi miei, sì forte mi tormenta quel che da voi deriva ardente foco, ch’al mio mortal suggetto mai allenta di serbar tal incendio, ch’ho per poco l’umor de l’Oceàn e di più lenta artica stella il più gelato loco, perché ivi in punto si reprima il vampo, o al men mi si prometta ombra di scampo? Voi mi féste cattivo d’una man che mi tiene, e non mi vuole; per voi son entro al corpo, e fuor col sole, son principio de vita, e non son vivo: non so quel che mi sia ch’appartegno a quest’alma, e non è mia. laodonio Veramente l’intendere, il vedere, il conoscere è quel che accende il desio, e per conseguenza, per ministerio de gli occhi, vien infiammato il core: e quanto a quelli fia presente più alto e degno oggetto, tanto più forte è il foco e più vivaci son le fiamme. Or qual esser deve quella specie per cui tanto si sente acceso il core, che non spera che temprar possa il suo ardore tanto più fredda quanto più lenta stella che sia conchiusa nell’artico cerchio, né rallentar il vampo l’umor intiero de l’Occano? Quanta deve essere l’eccellenza di quello oggetto che l’ha reso nemico de l’esser suo, rubello a l’alma propria, e contento di tal ribellione e nemicicia, quantunque sia cattivo d’una man che ’l dispreggia e non lo vuole? Ma fatemi udire se gli occhi risposero e che cosa dissero. liberio Quelli per il contrario si lagnavano del core, come quello che era principio e caggione per cui versassero tante lacrime. Però a l’incontro gli proposero in questo tenore: Prima proposta de gli occhi al core Come da te sorgon tant’acqui, o core, da quante mai Nereidi alzar la fronte ch’ogni giorn’al bel sol rinasce e muore? A par de l’Amfitrite il doppio fonte versar può sì gran fiumi al mondo fore, che puoi dir che l’umor tanto surmonte, che gli fia picciol rio chi Egitto inonda scorrend’al mar per sette doppia sponda. Die’ natura doi lumi a questo picciol mondo per governo; tu perversor di quell’ordin eterno, le convertiste in sempiterni fiumi. E questo il ciel non cura, ch’il natìo passa, el violento dura. laodonio Certo ch’il cor acceso e compunto fa sorger lacrime da gli occhi, onde come quelli accendono le fiamme in questo, quest’altro viene a rigar quelli d’umore. Ma mi meraviglio de sì forte exaggerazione per cui dicono che le Nereidi non alzano tanto bagnata fronte a l’oriente sole, quanta possa appareggiar queste acqui; et oltre agguagliansi all’Oceano, non perché versino, ma perché versar possano questi doi fonti, fiumi tali e tanti, che computato a loro il Nilo apparirebbe una picciola lava distinta in sette canali. liberio Non ti meravigliar della forte exaggerazione e di quella potenza priva de l’atto; perché tutto intenderete dopo intesa la conchiusione de raggionamenti loro. Or odi come prima il core risponde alla proposta de gli occhi. laodonio Priegovi fatemi intendere. liberio Prima risposta del core a gli occhi Occhi, s’in me fiamma immortal s’alluma, et altro non son io che fuoco ardente, se quel ch’a me s’avvicina, s’infuma, e veggio per mio incendio il ciel fervente; come il gran vampo mio non vi consuma, ma l’effetto contrario in voi si sente? Come vi bagno, e più tosto non cuoco, se non umor, ma è mia sustanza fuoco? Credete ciechi voi che da sì ardente incendio derivi el doppio varco, e que’ doi fonti vivi da Vulcan abbian gli elementi suoi, come tal volt’acquista forza un contrario, se l’altro resista? Vede come non possea persuadersi il core di posser da contraria causa e principio procedere forza di contrario effetto, sin a questo che non vuol affirmare il modo possibile, quando per via d’antiperistasi, che significa il vigor che acquista il contrario da quel che fuggendo l’altro viene ad unirsi, inspessarsi, inglobarsi e concentrarsi verso l’individuo della sua virtude, la qual quanto più s’allontana dalle dimensioni, tanto si rende efficace di vantaggio. laodonio Dite ora come gli occhi risposero al core. liberio Prima risposta de gli occhi al core Ahi, cor, tua passion sì ti confonde, ch’hai smarito il sentier di tutt’il vero. Quanto si vede in noi, quanto s’asconde, è semenza de mari, onde l’intero Nettun potrà ricovrar non altronde, se per sorte perdesse il grand’impero; come da noi deriva fiamma ardente, che siam del mare il gemino parente? Sei sì privo di senso, che per noi credi la fiamma trapasse, e tant’umide porte a dietro lasse, per far sentir a te l’arder immenso? Come splender per vetri, crederai forse che per noi penétri? Qua non voglio filosofare circa la coincidenza de contrarii, de la quale ho studiato nel libro De principio et uno; e voglio supponere quello che comunmente si suppone, che gli contraria nel medesimo geno son distantissimi, onde vegna più facilmente appreso il sentimento di questa risposta, dove gli occhi si dicono semi o fonti, nella virtual potenza de quali è il mare: di sorte che se Nettuno perdesse tutte l’acqui, le potrebbe richiamar in atto dalla potenza loro, dove sono come in principio agente e materiale. Però non metteno urgente necessità quando dicono non posser essere che la fiamma per la lor stanza e cortile trapasse al core con lasciarsi tant’acqui a dietro, per due caggioni: prima perché tal impedimento in atto non può essere se non posti in atto tali oltraggiosi ripari; secondo perché per quanto l’acqui sono attualmente ne gli occhi, possono donar via al calore come alla luce: essendo che l’esperienza dimostra che senza scaldar il specchio viene il luminoso raggio ad accendere per via di reflessione qualche materia che gli vegna opposta; e per un vetro, cristallo, o altro vase pieno d’acqua, passa il raggio ad accendere una cosa sottoposta senza che scalde il spesso corpo tramezzante: come è verisimile et anco vero che caggione secche et aduste impressioni nelle concavitadi del profondo mare. Talmente per certa similitudine, se non per raggioni di medesimo geno, si può considerare come fia possibile che per il senso lubrico et oscuro de gli occhi possa esser scaldato et acceso di quella luce l’affetto, la quale secondo medesima raggione non può essere nel mezzo. Come la luce del sole secondo altra raggione è nell’aria tramezzante, altra nel senso vicino, et altra nel senso commune, et altra ne l’intelletto: quantunque da un modo proceda l’altro modo di essere. laodonio Sonvi altri discorsi? liberio Sì, perché l’uno e l’altro tentano di saper con qual modo quello contegna tante fiamme, e quelli tante acqui. Fa dumque il core la seconda proposta: Seconda proposta del core S’al mar spumoso fan concorso i fiumi, e da fiumi del mar il cieco varco vien impregnato, ond’è che da voi lumi non è doppio torrente al mondo scarco che cresca il regno a gli marini numi, scemando ad altri il glorioso incarco? Perché non fia che si vegga quel giorno, ch’a i monti fa Deucalion ritorno? Dove gli rivi sparsi? Dove il torrente che mia fiamma smorze, o per ciò non posser più la rinforze? Goccia non scende a terra ad inglobarsi, per cui fia ch’io non pensi che sia cossì, come mostrano i sensi? Dimanda qual potenza è questa che non si pone in atto; se tante son l’acqui, perché Nettuno non viene a tiranneggiar su l’imperio de gli altri elementi? Ove son gli inondanti rivi? Ove chi dia refrigerio al fuoco ardente? Dove è una stilla onde io possa affirmar de gli occhi quel tanto che niegano i sensi? Ma gli occhi di pari fanno un’altra dimanda: Seconda proposta de gli occhi al core Se la materia convertita in foco acquista il moto di lieve elemento, e se ne sale a l’eminente loco, onde avvien che veloce più che vento, tu ch’incendio d’amor senti non poco, non ti fai gionto al sole in un momento? per che soggiorni peregrino al basso, non t’aprendo per noi e l’aria il passo? Favilla non si scorge uscir a l’aria aperto da quel busto, né corpo appar incenerit’o adusto, né lacrimoso fumo ad alto sorge: tutt’è nel proprio intiero, né di fiamma è raggion, sens’, o pensiero. laodonio Non ha più né meno efficacia questa che quell’altra proposta: ma vengasi presto alle risposte, se vi sono. liberio Vi son certamente e piene di succhio; udite: Seconda risposta del core a gli occhi Sciocco è colui che sol per quanto appare al senso, et oltre a la raggion non crede: il fuoco mio non puote alto volare, e l’infinito incendio non si vede, perché de gli occhi ban sopraposto il mare, e un infinito l’altro non eccede: la natura non vuol ch’il tutto pera, se basta tanto fuoco a tanta sfera. Ditemi, occhi, per dio, qual mai partito prenderemo noi, onde far possa aperto o io, o voi, per scampo suo, de l’alma il fato rio, se l’un e l’altro ascoso mai potrà fargli il bel nume piatoso? laodonio Se non è vero, è molto ben trovato: se non è cossì, è molto bene iscusato l’uno per l’altro, se stante che dove son due forze de quali l’una non è maggior de l’altra, bisogna che cesse l’operazion di questa e quella: essendo che tanto questa può resistere quanto quella insistere; non meno quella ripugna, che possa oppugnar questa. Se dumque è infinito il mare et inmensa la forza de le lacrime che sono ne gli occhi, non faranno giamai ch’apparir possa Cavillando o isvampando l’impeto del fuoco ascoso nel petto; né quelli mandar potranno il gemino torrente al mare, se con altretanto di vigore gli fa riparo il core: però accade che il bel nume per apparenza di lacrima che stile da gli occhi, o favilla che si spicche dal petto, non possa esser invitato ad esser piatoso a l’alma afflitta. [liberio] Or notate la conseguente risposta de gli occhi: Seconda risposta de gli occhi al core Ahi per versar a l’elemento ondoso, l’émpito de noi fonti al tutt’è casso; che contraria potenza il tien ascoso, acciò non mande a rotilon per basso. L’infinito vigor del cor focoso a i pur tropp’alti fiumi niega il passo; quindi gemino varco al mar non corre, ch’il coperto terren natura aborre. Or dinne, afflitto core, che puoi opporti a noi con altretanto vigor: chi fia giamai che porte il vanto d’esser precon di sì ’nfelice amore, s’il tuo e nostro male quant’è più grande, men mostrarsi vale? Per essere infinito l’un e l’altro male, come doi ugualmente vigorosi contraria si ritegnono, si supprimeno; e non potrebbe esser cossì, se l’uno e l’altro fosse finito, atteso che non si dà equalità puntuale nelle cose naturali, né ancora sarebbe cossì se l’uno fusse finito e l’altro infinito: ma certo questo assorbirebbe quello, et avverrebe che si mostrarebbono ambi doi, o al men l’uno per l’altro. Sotto queste sentenze la filosofia naturale et etica che vi sta occolta, lascio cercarla, considerarla e comprenderla a chi vuole e puote. Sol questo non voglio lasciare, che non senza raggione l’affezzion del core è detta infinito mare dall’apprension de gli occhi: perché essendo infinito l’oggetto de la mente, et a l’intelletto non essendo definito oggetto proposto, non può essere la volontarie appagata de finito bene; ma se oltre a quello si ritrova altro, il brama, il cerca, perché (come è detto commune) il summo della specie inferiore è infimo e principio della specie superiore, o si prendano gli gradi secondo le forme le quali non possiamo stimar che siano infinite, o secondo gli modi e raggioni di quelle, nella qual maniera per essere infinito il sommo bene, infinitamente credemo che si comunica secondo la condizione delle cose alle quali si diffonde: però non è specie definita a l’universo (parlo secondo la figura e mole), non è specie definita a l’intelletto, non è definita la specie de l’affetto. laodonio Dumque queste due potenze de l’anima mai sono, né essere possono perfette per l’oggetto, se infinitamente si riferiscono a quello. liberio Cossì sarrebe se questo infinito fusse per privazion negativa o negazion privativa de fine, come è per più positiva affirmazione de fine infinito et interminato. laodonio Volete dir dumque due specie d’infinità: l’una privativa la qual può essere verso qualche cosa che è potenza, come infinite son le tenebre, il fine delle quali è posizione di luce; l’altra perfettiva la quale è circa l’atto e perfezzione, come infinita è la luce, il fine della quale sarebbe privazione e tenebre. In questo dumque che l’intelletto concepe la luce, il bene, il bello, per quanto s’estende l’orizonte della sua capacità, e l’anima che beve del nettare divino e de la fonte de vita eterna, per quanto comporta il vase proprio; si vede che la luce è oltre la circonferenza del suo orizonte dove può andar sempre più e più penetrando; et il nettare e fonte d’acqua viva è infinitamente fecondo, onde possa sempre oltre et oltre inebriarsi. [liberio] Da qua non séguita imperfezzione nell’oggetto né poca satisfazzione nella potenza; ma che la potenza sia compresa da l’oggetto e beatificamente assorbita da quello. Qua gli occhi imprimeno nel core, cioè nell’intelligenza, suscitano nella volontà un infinito tormento di suave amore, dove non è pena, perché non s’abbia quel che si desidera: ma è felicità, perché sempre vi si trova quel che si cerca; et in tanto non vi è sazietà, per quanto sempre s’abbia appetito, e per conseguenza gusto: acciò non sia come nelli cibi del corpo il quale con la sazietà perde il gusto, e non ha felicità prima che guste, né dopo ch’ha gustato, ma nel gustar solamente: dove se passa certo termine e fine, viene ad aver fastidio e nausea. – Vedi dumque in certa similitudine qualmente il sommo bene deve essere infinito, e l’appulso de l’affetto verso e circa quello esser deggia anco infinito, acciò non vegna talvolta a non esser bene: come il cibo che è buono al corpo, se non ha modo, viene ad essere veleno. Ecco come l’umor de l’Oceano non estingue quel vampo, et il rigor de l’Artico cerchio non tempra quell’ardore. Cossì è cattivo d’una mano che il tiene e non lo vuole: il tiene perché l’ha per suo, non lo vuole perché (come lo fuggesse) tanto più se gli fa alto quanto più ascende a quella, quanto più la séguita tanto più se gli mostra lontana per raggion de eminentissima eccellenza, secondo quel detto: Accedet homo ad cor altum, et exaltabitur Deus. – Cotal felicità d’affetto comincia da questa vita, et in questo stato ha il suo modo d’essere: onde può dire il core d’essere entro con il corpo, e fuori col sole, in quanto che l’anima con la gemina facultade mette in esecuzione doi uffici: l’uno de vivificare et attuare il corpo animabile, l’altro de contemplare le cose superiori; perché cossì lei è in potenza receptiva da sopra, come è verso sotto al corpo in potenza attiva. Il corpo è come morto e cosa privativa a l’anima la quale è sua vita e perfezzione; e l’anima è come morta e cosa privativa alla superiore illuminatrice intelligenza da cui l’intelletto è reso in abito e formato in atto. Quindi si dice il core essere prencipe de vita, e non esser vivo; si dice appartenere a l’alma animante, e quella non appartenergli: perché è infocato da l’amor divino, è convertito finalmente in fuoco, che può accendere quello che si gli avicina: atteso che avendo contratta in sé la divinitade, è fatto divo, e conseguentemente con la sua specie può innamorar altri: come nella luna può essere admirato e magnificato il splendor del sole. Per quel poi ch’appartiene al considerar de gli occhi, sapete che nel presente discorso hanno doi ufficii: l’uno de imprimere nel core, l’altro de ricevere l’impressione dal core; come anco questo ha doi ufficii: l’uno de ricevere l’impressioni da gli occhi, l’altro di imprimere in quelli. Gli occhi apprendono le specie e le proponeno al core, il core le brama et il suo bramare presenta a gli occhi: quelli concepeno la luce, la diffondano, et accendono il fuoco in questo; questo scaldato et acceso invia il suo umore a quelli, perché lo digeriscano. Cossì primieramente la cognizione muove l’affetto, et appresso l’affetto muove la cognizione. Gli occhi quando moveno sono asciutti, perché fanno ufficio di specchio e di ripresentatore; quando poi son mossi, son turbati et alterati; perché fanno ufficio de studioso executore: atteso che con l’intelletto speculativo prima si vede il bello e buono, poi la voluntà l’appetisce, et appresso l’intelletto industrioso lo procura, séguita e cerca. Gli occhi lacrimosi significano la difficultà de la separazione della cosa bramata dal bramante, la quale acciò non sazie, non fastidisca, si porge come per studio infinito, il quale sempre ha e sempre cerca: atteso che la felicità de dèi è descritta per il bevere non per l’aver bevuto il nettare, per il gustare non per aver gustato l’ambrosia, con aver continuo affetto al cibo et alla bevanda, e non con esser satolli e senza desio de quelli. Indi, hanno la sazietà come in moto et apprensione, non come in quiete e comprensione, non son satolli senza appetito, né sono appetenti senza essere in certa maniera satolli. laodonio liberio laodonio Esuries satiata satietas esuriens. Cossì a punto. Da qua posso intendere come senza biasimo ma con gran verità et intelletto è stato detto che il divino amore piange con gemiti inenarrabili, perché con questo che ha tutto ama tutto, e con questo che ama tutto ha tutto. liberio Ma vi bisognano molte glose se volessimo intendere de l’amor divino che è la istessa deità; e facilmente s’intende de l’amor divino per quanto si trova ne gli effetti e nella subalternata natura; non (dico) quello che dalla divinità si diffonde alle cose: ma quello delle cose che aspira alla divinità. laodonio Or di questo et altro raggionaremo a più aggio appresso. Andiamone. fine del terzo dialogo interlocutori Severino, Minutolo. severino Vedrete dumque la raggione de nove ciechi, li quali apportano nove principii e cause particolari de sua cecità, benché tutti convegnano in una causa generale d’un comun furore. minutolo Cominciate dal primo. severino Il primo di questi benché per natura sia cieco, nulladimeno per amore si lamenta, dicendo a gli altri che non può persuadersi la natura esser stata più discortese a essi che a lui; stante che quantunque non veggono, hanno però provato il vedere, e sono esperti della dignità del senso e de l’eccellenza del sensibile, onde son dovenuti orbi: ma egli è venuto come talpa al mondo a esser visto e non vedere, a bramar quello che mai vedde. minutolo Si son trovati molti innamorati per sola fama. severino Essi (dice egli) aver pur questa felicità de ritener quella imagine divina nel conspetto de la mente, de maniera, che quantunque ciechi, hanno pure in fantasia quel che lui non puote avere. Poi nella sestina si volta alla sua guida, pregandola che lo mene in qualche precipizio, a fin che non sia oltre orrido spettacolo del sdegno di natura. Dice dumque: Parla il primo cieco Felici che talvolta visto avete, voi per la persa luce ora dolenti compagni che dei lumi conoscete. Questi accesi non furo, né son spenti; però più grieve mal che non credete è il mio, e degno de più gran lamenti: perché, che fusse torva la natura più a voi ch’a me, non è chi m’assicura. Al precipizio, o duce, conducime, se vòi darmi contento, perché trove rimedio il mio tormento, ch’ad esser visto, e non veder la luce, qual talpa uscivi al mondo, e per esser di terra inutil pondo. Appresso séguita l’altro che morsicato dal serpe de la gelosia, è venuto infetto nell’organo visuale. Va senza guida, se pur non ha la gelosia per scorta: priega alcun de circonstanti che se non è rimedio del suo male, faccia per pietà che non oltre aver possa senso del suo male; facendo cossì lui occolto a se medesimo, come se gli è fatta occolta la sua luce: con sepelir lui col proprio male. Dice dumque: Parla il secondo cieco Da la tremenda chioma ha svèlto Aletto l’infernal verme, che col fiero morso hammi sì crudament’il spirto infetto, ch’a tòrmi il senso principal è corso, privando de sua guida l’intelletto: ch’in vano l’alma chiede altrui soccorso, sì cespitar mi fa per ogni via quel rabido rancor di gelosia. Se non magico incanto, né sacra pianta, né virtù de pietra, né soccorso divin scampo m’impetra, un di voi sia (per dio) piatoso in tanto, che a me mi faccia occolto: con far meco il mio mal tosto sepolto. Succede l’altro il qual dice esser dovenuto cieco per essere repentinamente promosso dalle tenebre a veder una gran luce; atteso che essendo avezzo de mirar bellezze ordinarie, venne subito a presentarsegli avanti gli occhi una beltà celeste, un divo sole: onde non altrimente si gli è stemprata la vista e smorzatosegli il lume gemino che splende in prora a l’alma (perché gli occhi son come doi fanali che guidano la nave) ch’accader suole a un allievato nelle oscuritadi cimmerie, se subito immediatamente affiga gli occhi a sole. E nella sestina priega che gli sia donato libero passagio a l’inferno, perché non altro che tenebre convegnono ad un supposito tenebroso. Dice dumque cossì: Parla il terzo cieco S’appaia il gran pianeta di repente a un uom nodrito in tenebre profonde, o sott’il ciel de la cimmeria gente, onde lungi suoi rai il sol diffonde; gli spenge il lume gemino splendente in prora a l’alma, e nemico s’asconde: cossì stemprate fur mie luci avezze a mirar ordinarie bellezze. Fatemi a l’orco andare: perché morto discorro tra le genti? perché ceppo infernal tra voi viventi misto men vo? Perché l’aure discare sorbisco, in tante pene messo per aver visto il sommo bene? Fassi innanzi il quarto cieco per simile, ma non già per medesima caggione orbo, con cui si mostra il primo: perché come quello per repentino sguardo della luce, cossì questo con spesso e frequente remirare, o pur per avervi troppo fissati gli occhi, ha perso il senso de tutte l’altre luci, e non si dice cieco per conseguenza al risguardo di quella unica che l’ha occecato; e dice il simile del senso de la vista a quello ch’aviene al senso dell’udito, essendo che coloro che han fatte l’orecchie a gran strepiti e rumori, non odeno gli strepiti minori: come è cosa famosa de gli popoli cataduppici che son là d’onde il gran fiume Nilo da una altissima montagna scende precipitoso alla pianura. minutolo Cossì tutti color ch’hanno avezzo il corpo, l’animo a cose più difficili e grandi, non sogliono sentir fastidio dalle difficultadi minori. E costui non deve essere discontento della sua cecità. severino Non certo. Ma si dice volontario orbo, a cui piace che ogn’altra cosa gli sia ascosa, come l’attedia col divertirlo da mirar quello che vuol unicamente mirare. – Et in questo mentre priega gli viandanti che si degnino de non farlo capitar male per qualche mal rancontro, mentre va sì attento e cattivato ad un oggetto principale. minutolo Riferite le sue paroli. severino Parla il quarto cieco Precipitoso d’alto al gran profondo, il Nil d’ogn’altro suon il senso ha spento de Cataduppi al popolo ingiocondo; cossì stand’io col spirto intiero attento alla più viva luce ch’abbia il mondo, tutti i minor splendori umqua non sento: or mentr’ella gli splende, l’altre cose sien pur a l’orbo volontario ascose. Priegovi, da le scosse di qualche sasso, o fiera irrazionale, fatemi accorto, e se si scende o sale: perché non caggian queste misere osse in luogo cavo e basso, mentre privo de guida meno il passo. Al cieco che séguita, per il molto lacrimare accade che siano talmente appannati gli occhi, che non si può stendere il raggio visuale a compararsi le specie visibili, e principalmente per riveder quel lume ch’a suo mal grado, per raggion di tante doglie una volta vedde. Oltre che si stima la sua cecità non esser più disposizionale ma abituale, et al tutto privativa; perché il fuoco luminoso che accende l’alma nella pupilla, troppo gran tempo e molto gagliardamente è stato riprimuto et oppresso dal contrario umore: de maniera che quantunque cessasse il lacrimare, non si persuade che per ciò conseguisca il bramato vedere. Et udirete quel che dice appresso alle brigate, perché lo facessero oltrepassare: Parla il quinto cieco Occhi miei d’acqui sempremai pregnanti, quando fia che del raggio visuale la scintilla se spicche fuor de tanti e sì densi ripari, e vegna tale, che possa riveder que’ lumi santi, che fur principio del mio dolce male? Lasso: credo che sia al tutto estinta, sì a lungo dal contrario oppressa e vinta. Fate passar il cieco, e voltate vostr’occhi a questi fonti che vincon gli altri tutti uniti e gionti; e s’è chi ardisce disputarne meco, è chi certo lo rende ch’un de miei occhi un Oceàn comprende. Il sesto orbo è cieco, perché per il soverchio pianto ha mandate tante lacrime che non gli è rimasto umore, fin al ghiacio et umor per cui come per mezzo diafano il raggio visuale era transmesso, e s’intromettea la luce esterna e specie visibile, di sorte che talmente fu compunto il core che tutta l’umida sustanza (il cui ufficio è de tener unite ancora le diverse varie e contrarie) è digerita; e gli è rimasta l’amorosa affezzione senza l’effetto de le lacrime, perché l’organo è stemprato per la vittoria de gli altri elementi, et è rimasto consequentemente senza vedere e senza constanza de le parti del corpo insieme. Poi propone a gli circonstanti quel che intenderete: Parla il sesto cieco Occhi non occhi; fonti, non più fonti, avete sparso già l’intiero umore, che tenne il corpo, il spirto e l’alma gionti. E tu visual ghiaccio che di fore facevi tanti oggetti a l’alma conti, sei digerito dal piagato core: cossì vèr l’infernale ombroso speco vo menando i miei passi, arido cieco. Deh non mi siate scarsi a farmi pronto andar, di me piatosi, che tanti fiumi a i giorni tenebrosi sol de mio pianto m’appagando ho sparsi: or ch’ogni umor è casso, vers’il profondo oblio datemi il passo. Sopragionge il seguente che ha perduta la vista dal intenso vampo che procedendo dal core è andato prima a consumar gli occhi, et appresso a leccar tutto il rimanente umore de la sustanza de l’amante, de maniera che tutto incinerito e messo in fiamma non è più lui: perché dal fuoco la cui virtù è de dissolvere gli corpi tutti ne gli loro atomi, è convertito in polve non compaginabili, se per virtù de l’acqua sola gli atomi d’altri corpi se inspessano e congiongono a far un subsistente composto. Con tutto ciò non è privo del senso de l’intensissime fiamme; però nella sestina con questo vuol farsi dar largo da passare: ché se qualch’uno venesse tócco da le fiamme sue, dovenerebbe a tale che non arrebe più senso delle fiamme infernali come di cosa calda, che come di fredda neve. Dice dumque: Parla il settimo cieco La beltà che per gli occhi scorse al core formò nel petto mio l’alta fornace ch’assorbì prima il visuale umore, sgorgand’in alt’il suo vampo tenace; e poi vorando ogn’altro mio liquore, per metter l’elemento secco in pace, m’ha reso non compaginabil polve, chi ne gli atomi suoi tutto dissolve. Se d’infinito male avete orror, datemi piazza, o gente; guardatevi dal mio fuoco cuocente; che se contagion di quel v’assale, crederete che inverno sia, ritrovars’al fuoco de l’inferno. Succede l’ottavo, la cecità del quale vien caggionata dalla saetta che Amore gli ha fatto penetrare da gli occhi al core. Onde si lagna non solamente come cieco, ma et oltre come ferito, et arso tanto altamente, quanto non crede ch’altro esser possa. Il cui senso è facilmente espresso in questa sentenza: Parla l’ottavo cieco Assalto vil, ria pugna, iniqua palma, punt’acuta, esca edace, forte nervo, aspra ferit’, empio ardor, cruda salma, stral, fuoco e laccio di quel dio protervo, che puns’ gli occhi, arse il cor, legò l’alma, e femmi a un punto cieco, amante e servo: talché orbo de mia piaga, incendio e nodo, ho ’l senso in ogni tempo, loco e modo. Uomini, eroi e dèi, che siete in terra, o appresso Dite o Giove, dite (vi priego) quando, come e dove provaste, udiste o vedeste umqua omei medesmi, o tali, o tanti tra oppressi, tra dannati, tra gli amanti? Viene al fine l’ultimo, il quale è ancor muto: perché non possendo (per non aver ardire) dir quello che massime vorrebe senza offendere o provocar sdegno, è privo di parlar di qualsivogli’altra cosa. Però non parla lui, ma la sua guida produce la raggione circa la quale, per esser facile, non discorro, ma solamente apporto la sentenza: Parla la guida del nono cieco Fortunati voi altri ciechi amanti, che la caggion del vostro mal spiegate: esser possete, per merto de pianti, graditi d’accoglienze caste e grate; di quel ch’io guido, qual tra tutti quanti più altamente spasma, il vampo late, muto forse per falta d’ardimento di far chiaro a sua diva il suo tormento. Aprite, aprite il passo, siate benigni a questo vacuo volto de tristi impedimenti, o popol folto, mentre ch’il busto travagliato e lasso va picchiando le porte di men penosa e più profonda morte. Qua son significate nove caggioni per le quali accade che l’umana mente sia cieca verso il divino oggetto, perché non possa fissar gli occhi a quello. De le quali: La prima, allegorizata per il primo cieco, è la natura della propria specie, che per quanto comporta il grado in cui si trova, in quello aspira per certo più alto che apprender possa. minutolo Perché nessun desiderio naturale è vano, possiamo certificarci de stato più eccellente che conviene a l’anima fuor di questo corpo in cui gli fia possibile d’unirsi o avvicinarsi più altamente al suo oggetto. severino Dici molto bene che nessuna potenza et appulso naturale è senza gran raggione, anzi è l’istessa regola di natura la quale ordina le cose: per tanto è cosa verissima e certissima a ben disposti ingegni, che l’animo umano (qualunque si mostre mentre è nel corpo) per quel medesimo che fa apparire in questo stato, fa espresso il suo esser peregrino in questa regione, perché aspira alla verità e bene universale, e non si contenta di quello che viene a proposito e profitto della sua specie. La seconda, figurata per il secondo cieco, procede da qualche perturbata affezzione, come in proposito de l’amore è la gelosia, la quale è come tarlo che ha medesimo suggetto, nemico e padre, cioè che rode il panno o legno di cui è generato. minutolo Questa non mi par ch’abbia luogo nell’amor eroico. severino Vero, secondo medesima raggione che vedesi nell’amor volgare: ma io intendo secondo altra raggione proporzionale a quella la quale accade in color che amano la verità e bontà; e si mostra quando s’adirano tanto contra quelli che la vogliono adulterare, guastare, corrompere, o che in altro modo indegnamente vogliono trattarla: come son trovati di quelli che si son ridutti sino alla morte, alle pene et esser ignominiosamente trattati da gli popoli ignoranti e sette volgari. minutolo Certo nessuno ama veramente il vero e buono che non sia iracondo contra la moltitudine: come nessuno volgarmente ama, che non sia geloso e timido per la cosa amata. severino E con questo vien ad esser cieco in molte cose veramente, et affatto affatto secondo l’opinion commune è stolto e pazzo. minutolo Ho notato un luogo che dice esser stolti e pazzi tutti quelli che hanno senso fuor et estravagante dal senso universale de gli altri uomini; ma cotal estravaganza è di due maniere, secondo che si va estra o con ascender più alto che tutti e la maggior parte sagliano o salir possano: e questi son gli inspirati de divino furore; o con descendere più basso dove si trovano coloro che hanno difetto di senso e di raggione più che aver possano gli molti, gli più, e gli ordinaria: et in cotal specie di pazzia, insensazione e cecità non si trovarà eroico geloso. severino Quantumque gli vegna detto che le molte lettere lo fanno pazzo, non gli si può dire ingiuria da dovero. La terza, figurata nel terzo cieco, procede da che la divina verità, secondo raggione sopra naturale, detta metafisica, mostrandosi a que’ pochi alli quali si mostra, non proviene con misura di moto e tempo, come accade nelle scienze fisiche (cioè quelle che s’acquistano per lume naturale, le quali discorrendo da una cosa nota secondo il senso o la raggione, procedono alla notizia d’altra cosa ignota: il qual discorso è chiamato argumentazione), ma subito e repentinamente secondo il modo che conviene a tale efficiente. Onde disse un divino: Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excelsum. Onde non è richiesto van discorso di tempo, fatica de studio, et atto d’inquisizione per averla: ma cossì prestamente s’ingerisce come proporzionalmente il lume solare senza dimora si fa presente a chi se gli volta e se gli apre. minutolo Volete dumque che gli studiosi e filosofi non siano più atti a questa luce che gli quantunque ignoranti? severino In certo modo non, et in certo modo sì. Non è differenza quando la divina mente per sua providenza viene a comunicarsi senza disposizione del suggetto: voglio dire quando si communica, perché ella cerca et eligge il suggetto; ma è gran differenza quando aspetta e vuol esser cercata, e poi secondo il suo bene placito vuol farsi ritrovare. In questo modo non appare a tutti, né può apparir ad altri che a color che la cercano. Onde è detto: Qui quaerunt me invenient me; et in altro loco: Qui sitit, veniat, et bibat. minutolo Non si può negare che l’apprensione del secondo modo si faccia in tempo. severino Voi non distinguete tra la disposizione alla divina luce, e la apprensione di quella. Certo non niego che al disporsi bisogna tempo, discorso, studio e fatica: ma come diciamo che la alterazione si fa in tempo, e la generazione in instante; e come veggiamo che con tempo s’aprono le fenestre, et il sole entra in un momento: cossì accade proporzionalmente al proposito. La quarta, significata nel seguente, non è veramente indegna, come quella che proviene dalla consuetudine di credere a false opinioni del volgo il quale è molto rimosso dalle opinioni de filosofi: opur deriva dal studio de filosofie volgari le quali son dalla moltitudine tanto più stimate vere, quanto più accostano al senso commune. E questa consuetudine è uno de grandissimi e fortissimi inconvenienti che trovar si possano: perché (come exemplificò Alcazele et Averroe) similmente accade a essi, che come a color che da puerizia e gioventù sono consueti a mangiar veneno, quai son dovenuti a tale, che se gli è convertito in suave e proprio nutrimento; e per il contrario abominano le cose veramente buone e dolci secondo la comun natura. Ma è dignissima, perché è fondata sopra la consuetudine de mirar la vera luce (la qual consuetudine non può venir in uso alla moltitudine come è detto). Questa cecità è eroica, et è tale, per quale degnamente contentare si possa il presente furioso cieco, il qual tanto manca che si cure di quella, che viene veramente a spreggiare ogni altro vedere, e da la comunità non vorrebe impetrar altro che libero passagio e progresso di contemplazione: come per ordinario suole patir insidie, e se gli sogliono opporre intoppi mortali. La quinta, significata nel quinto, procede dalla improporzionalità delli mezzi de nostra cognizione al cognoscibile; essendo che per contemplar le cose divine, bisogna aprir gli occhi per mezzo de figure, similitudini et altre raggioni che gli Peripatetici comprendono sotto il nome de fantasmi; o per mezzo de l’essere procedere alla speculazion de l’essenza: per via de gli effetti alla notizia della causa; gli quali mezzi tanto manca che vagliano per l’assecuzion di cotal fine, che più tosto è da credere che siano impedimenti, se credere vogliamo che la più alta e profonda cognizion de cose divine sia per negazione e non per affirmazione, conoscendo che la divina beltà e bontà non sia quello che può cader e cade sotto il nostro concetto: ma quello che è oltre et oltre incomprensibile; massime in questo stato detto speculator de fantasmi dal filosofo, e dal teologo vision per similitudine speculare et enigma; perché veggiamo non gli effetti veramente, e le vere specie de le cose, o la sustanza de le idee, ma le ombre, vestigii e simulacri de quelle, come color che son dentro l’antro et hanno da natività le spalli volte da l’entrata della luce, e la faccia opposta al fondo: dove non vedeno quel che è veramente, ma le ombre de ciò che fuor de l’antro sustanzialmente si trova. – Però per la aperta visione la quale ha persa, e conosce aver persa, un spirito simile o meglior di quel di Platone piange desiderando l’exito da l’antro, onde non per riflessione, ma per immediata conversione possa riveder sua luce. minutolo Parmi che questo cieco non versa circa la difficultà che procede dalla vista riflessiva: ma da quella che è caggionata dal mezzo tra la potenza visiva e l’oggetto. severino Questi doi modi quantunque siano distinti nella cognizion sensitiva o vision oculare, tutta volta però concorrenti in uno nella cognizione razionale o intellettiva. minutolo Parmi aver inteso e letto che in ogni visione si richiede il mezzo over intermedio tra la potenza et oggetto. Perché come per mezzo della luce diffusa ne l’aere e la similitudine della cosa che in certa maniera procede da quel che è visto a quel che vede, si mette in effetto l’atto del vedere: cossì nella regione intellettuale dove splende il sole dell’intelletto agente mediante la specie intelligibile formata e come procedente da l’oggetto, viene a comprendere de la divinità BRUNO (vedasi) l’intelletto nostro o altro inferiore a quella. Perché come l’occhio nostro (quando veggiamo) non riceve la luce del foco et oro in sustanza, ma in similitudine: cossì l’intelletto in qualunque stato che si trove, non riceve sustanzialmente la divinità, onde sieno sostanzialmente tanti dèi quante sono intelligenze, ma in similitudine; per cui non formalmente son dèi, ma denominativamente divini, rimanendo la divinità e divina bellezza una et exaltata sopra le cose tutte. severino Voi dite bene; ma per vostro dire bene non è mistiero ch’io mi ritratte, perché non ho detto il contrario: ma bisogna che io dechiare et expliche. Però prima dechiaro che la visione immediata, detta da noi et intesa, non toglie quella sorte di mezzo che è la specie intelligibile, né quella che è la luce; ma quella che è proporzionale alla spessezza e densità del diafano, o pur corpo al tutto opaco tramezzante: come aviene a colui che vede per mezzo de le acqui più e meno turbide, o aria nimboso e nebbioso; il quale s’intenderebbe veder come senza mezzo quando gli venesse concesso de mirar per l’aria puro, lucido e terso. Il che tutto avete come esplicato dove si dice: Spicche fuor di tanti e sì densi ripari. Ma ritorniamo al nostro principale. La sesta, significata nel sequente, non è altrimenti caggionata che dalla imbecillità et insubsistenza del corpo, il quale è in continuo moto, mutazione et alterazione; e le operazioni del quale bisogna che seguitino la condizione della sua facultà, la quale è consequente dalla condizione della natura et essere. Come volete voi che la immobilità, la sussistenza, la entità, la verità sia compresa da quello che è sempre altro et altro, e sempre fa et è fatto altri et altrimenti? Che verità, che ritratto può star depinto et impresso dove le pupille de gli occhi si dispergono in acqui, l’acqui in vapore, il vapore in fiamma, la fiamma in aura, e questa in altro et altro, senza fine discorrendo il suggetto del senso e cognizione per la ruota delle mutazioni in infinito? minutolo Il moto è alterità, quel che si muove sempre è altro et altro, quel che è tale, sempre altri et altrimente si porta et opra, per che il concetto et affetto séguita la raggione e condizione del suggetto. E quello che altro et altro, altri et altrimenti mira, bisogna necessariamente che sia a fatto cieco al riguardo di quella bellezza che è sempre una et unicamente, et è l’istessa unità et entità, identità. severino Cossì è. La settima, contenuta allegoricamente nel sentimento del settimo cieco, deriva dal fuoco dell’affezzione, onde alcuni si fanno impotenti et inabili ad apprendere il vero, con far che l’affetto precorra a l’intelletto. Questi son coloro che prima hanno l’amare che l’intendere: onde gli avviene che tutte le cose gli appaiano secondo il colore della sua affezzione; stante che chi vuole apprendere il vero per via di contemplazione deve essere ripurgatissimo nel pensiero. minutolo In verità si vede che sì come è diversità de contemplatori et inquisitori per quel che altri (secondo gli abiti de loro prime e fondamentali discipline) procedeno per via de numeri, altri per via de figure, altri per via de ordini o disordini, altri per via di composizione e divisione, altri per via di separazione e congregazione, altri per via de inquisizion e dubitazione, altri per via de discorso e definizione, altri per via de interpretazioni e desciferazion de voci, vocaboli e dialecti: onde altri son filosofi matematici, altri metafisici, altri logici, altri grammatici; cossì è diversità de contemplatori che con diverse affezzioni si metteno ad studiare et applicar l’intenzione alle sentenze scritte: onde si doviene sin a questo che medesima luce di verità espressa in un medesimo libro per medesime paroli, viene a servire al proposito di sette tanto numerose, diverse e contrarie. severino Per questo è da dire che gli affetti molto sono potenti per impedir l’apprension del vero, quantumque gli pazienti non se ne possano accorrere: qualmente aviene ad un stupido ammalato che non dice il suo gusto amaricato, ma il cibo amaro. Or tal specie de cecità è notata per costui, gli occhi del quale son alterati e privi dal suo naturale, per quel che dal core è stato inviato et impresso, potente non solo ad alterar il senso, ma et oltre l’altre tutte facultadi de l’alma, come la presente figura dimostra. Al significato per l’ottavo, cossì l’eccellente intelligibile oggetto have occecato l’intelletto, come l’eccellente sopraposto sensibile a costui ha corrotto il senso. Cossì avviene a chi vede Giove in maestà, che perde la vita, e per conseguenza perde il senso. Cossì avviene che chi alto guarda tal volta vegna oppresso da la maestà. Oltre quando viene a penetrar la specie divina, la passa come strale: onde dicono gli teologi il verbo divino essere più penetrativo che qualsivoglia punta di spada o di coltello. Indi deriva la formazione et impressione del proprio vestigio, sopra il quale altro non è che possa essere impresso o sigillato; là onde essendo tal forma ivi confirmata, e non possendo succedere la peregrina e nova, senza che questa cieda, conseguentemente può dire che non ha più facultà di prendere altro, se ha chi la riempie, o la disgrega per la necessaria improporzionalitade. La nona caggione è notata per il nono che è cieco per inconfidenza, per deiezzion de spirito, la quale è administrata e caggionata pure da grande amore, con lo ardire teme de offendere; onde disse la Cantica: Averte oculos tuos a me, quia ipsi me avolare fecere. E cossì supprime gli occhi da non vedere quel che massime desidera e gode di vedere; come raffrena la lingua da non parlare con chi massime brama di parlare, per téma che difetto di sguardo o difettosa parola non lo avvilisca, o per qualche modo non lo metta in disgrazia: e questo suol procedere da l’apprensione de l’excellenza de l’oggetto sopra de la sua facultà potenziale, onde gli più profondi e divini teologi dicono che più si onora et ama Dio per silenzio, che per parola; come si vede più per chiuder gli occhi alle specie representate, che per aprirli: onde è tanto celebre la teologia negativa de Pitagora e Dionisio, sopra quella demostrativa de Aristotele e scolastici dottori. minutolo Andiamone raggionando per il camino. severino Come ti piace. fine del quarto dialogo DIALOGO QUINTO interlocutori Laodomia, Giulia. laodomia Un’altra volta, o sorella, intenderai quel che apporta tutto il successo di questi nove ciechi, quali eran prima nove bellissimi et amorosi giovani, che essendo tanto ardenti della vaghezza del vostro viso, e non avendo speranza de ricevere il bramato frutto de l’amore, e temendo che tal disperazione le riducesse a qualche final ruina, partironsi dal terreno della Campania felice, e d’accordo (quei che prima erano rivali) per la tua beltade giuròrno di non lasciarsi mai sin che avessero tentato tutto il possibile per ritrovar cosa più de voi bella, o simile al meno; con ciò che scuoprir si potesse in lei accompagnata quella mercé e pietade che non si trovava nel vostro petto armato di fierezza: perché questo giudicavano unico rimedio che divertir le potesse da quella cruda cattivitade. Il terzo giorno dopo la lor sollenne partita, passando vicini al monte Circeo, gli piacque d’andar a veder quelle antiquitadi de gli antri e fani di quella dea. Dove essendo gionti, dalla maestà del luogo ermo, de le ventose, eminenti e fragose rupi, del mormorìo de l’onde maritime che vanno a frangersi in quelle cavitadi, e di molte altre circonstanze che mostrava il luogo e la staggione, vennero tutti come inspiritati; tra’ quali un (che ti dirò), più ardito espresse queste paroli: Oh se piacesse al cielo che a questi tempi ne si fesse presente, come fu in altri secoli più felici, qualche saga Circe che con le piante, minerali, veneficii et incanti era potente di mettere come il freno alla natura: certo crederei che ella, quantunque fiera, piatosa pur sarebbe al nostro male. Ella molto sollecitata da nostri supplichevoli lamenti, condiscenderebbe o a darne rimedio, o ver a concederne grata vendetta contra la crudeltà di nostra nemica. A pena avea finito di proferir queste paroli, che a tutti si presentò visibile un palaggio, il quale chiumque have ingegno di cose umane, possea facdmente comprendere che non era manifattura d’uomo, né di natura: de la figura e descrizzion de la quale ti dirò un’altra volta. Onde percossi da gran maraviglia, e tòcchi da qualche speranza che qualche propizio nume (il qual ciò gli mise avanti) volesse definire il stato de la lor fortuna, dissero ad una voce che peggio non posseano incorrere che il morire, il quale stimavano minor male che vivere in tale e tanta passione. Però vi entraro dentro non trovando porta che fermata gli fosse, o portinaio che gli domandasse raggione; sin che si ritrovano in una richissima et ornatissima sala, dove in quella regia maestade (che puoi dire che Apolline fusse stato ritrovato da Fetonte) apparve quella ch’è chiamata sua figlia; con l’apparir de la quale veddero sparire le imagini de molti altri numi che gli administravano. Là con grazioso volto accettati e confortati, si fero avanti: e vinti dal splendor di quella maestade, piegaro le ginocchia in terra, e tutti insieme con quella diversità de note che gli dettava il diverso ingegno, esposero gli lor voti alla dea. Dalla quale in conclusione furono talmente trattati, che ciechi, raminghi et infortunatamente laboriosi hanno varcati tutti mari, passati tutti fiumi, superati tutti monti, discorse tutte pianure, per spacio de diece anni; al termine de quali entrati sotto quel temperato cielo de l’isola britannica, gionti al conspetto de le belle e graziose ninfe del padre Tamesi, dopoi aver essi fatti gli atti di conveniente umiltade, et accettati da quelle con gesti d’onestissima cortesia, uno tra loro, il principale, che altre volte ti sarà nomato, con tragico e lamentevole accento espose la causa commune in questo modo: Di que’, madonne, che col chiuso vase si fan presenti, et han trafitt’il core, non per commesso da natur’ errore, ma d’una cruda sorte ch’in sì vivace morte le tien astretti, ogn’un cieco rimase. Siam nove spirti che molt’anni, erranti, per brama di saper, molti paesi abbiam discorsi, e fummo un dì surpresi d’un rigid’accidente, per cui (se siete attente) direte: O degni, et o infelici amanti. Un’empia Circe, che si don’il vanto d’aver questo bel sol progenitore, ne accolse dopo vario e lungo errore; e un certo vase aperse, de le cui acqui insperse noi tutti, et a quel far giunse l’incanto. Noi aspettand’il fine di tal opra, eravam con silenzio muto attenti, sin al punto che disse: O voi dolenti, itene ciechi in tutto; raccogliete quel frutto, che trovan troppo attenti al che gli è sopra». Figlia e madre di tenebre et orrore – diss’ogn’un fatto cieco di repente, – dumque ti piacque cossì fieramente trattar miseri amanti, che ti si fero avanti, facili forse a consecrart’il core?» Ma poi ch’a i lassi fu sedato alquanto quel subito furor, ch’il novo caso porse, ciascun più accolto in sé rimaso, mentr’ira al dolor cede, voltossi alla mercede, con tali accenti accompagnand’il pianto: «Or dumque s’a voi piace, o nobil maga, che zel di gloria forse il cor ti punga, o liquor di pietà il lenisca et unga, farti piatosa a noi co’ medicami tuoi, saldand’al nostro cuor l’impressa piaga; se la man bella è di soccorrer vaga, deh non sia tanto la dimora lunga, che di noi triste alcun a morte giunga pria che per gesti tuoi possiam unqua dir noi: tanto ne tormentò, ma più ne appaga». E lei soggiunse: «O curiosi ingegni, prendete un altro mio vase fatale, che mia mano medesma aprir non vale; per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti i numerosi regni: perché vuol il destin che discuoperto mai vegna, se non quando alta saggezza e nobil castità giunte a bellezza v’applicaran le mani; d’altri i studi son vani per far questo liquor al ciel aperto. All’or, s’avvien ch’aspergan le man belle chiumque a lor per remedio s’avicina, provar potrete la virtù divina: ch’a mirabil contento cangiand’il rio tormento, vedrete due più vaghe al mondo stelle. Tra tanto alcun di voi non si contriste, quantumque a lungo in tenebre profonde quant’è sul firmamento se gli asconde: perché cotanto bene per quantunque gran pene mai degnamente avverrà che s’acquiste. Per quell’a cui cecità vi conduce, dovete aver a vil ogn’altro avere, e stimar tutti strazii un gran piacere; che sperando mirare tai grazie uniche o rare, ben potrete spreggiar ogni altra luce». Lassi, è troppo gran tempo che raminghe per tutt’il terren globo nostre membra son ite, sì ch’al fine a tutti sembra che la fiera sagace di speranza fallace il petto n’ingombrò con sue lusinghe. Miseri, ormai siam (bench’al tardi) avisti ch’a quella maga, per più nostro male, tenerci a bada eternamente cale; certo perché lei crede che donna non si vede sott’il manto del ciel con tanti acquisti. Or benché sappiam vana ogni speranza, cedemo al destin nostr’e siam contenti di non ritrarci da penosi stenti, e mai fermando i passi (benché trepidi e lassi) languir tutta la vita che n’avanza. Leggiadre Nimfe, ch’a l’erbose sponde del Tamesi gentil fate soggiorno, deh, per dio, non abiate (o belle) a scorno tentar voi anco in vano con vostra bianca mano di scuoprir quel ch’il nostro vase asconde. Chi sa? forse che in queste spiaggie, dove con le Nereidi sue questo torrente si vede che cossì rapidamente da basso in su rimonte riserpendo al suo fonte, ha destinat’il ciel ch’ella si trove. Prese una de le Ninfe il vase in mano, e senza altro tentare, offrillo ad una per una, di sorte che non si trovò chi ardisse provar prima: ma tutte de commun consentimento, dopo averlo solamente remirato, il riferivano e proponevano per rispetto e riverenza ad una sola; la quale finalmente non tanto per far pericolo di sua gloria, quanto per pietà e desìo di tentar il soccorso di questi infelici, mentre dubbia lo contrattava, come spontaneamente s’aperse da se stesso. Che volete ch’io vi referisca quanto fusse e quale l’applauso de le Nimfe? Come possete credere ch’io possa esprimere l’estrema allegrezza de nove ciechi, quando udiro del vase aperto, si sentiro aspergere dell’acqui bramate, apriro gli occhi e veddero gli doi soli; e trovarono aver doppia felicitade: l’una della ricovrata già persa luce, l’altra della nuovamente discuoperta, che sola possea mostrargli l’imagine del sommo bene in terra? Come, dico, volete ch’io possa esprimere quella allegrezza e tripudio de voci, di spirto e di corpo, che lor medesimi tutti insieme non posseano esplicare? Fu per un pezzo il veder tanti furiosi debaccanti, in senso di color che credono sognare, et in vista di quelli che non credeno quello che apertamente veggono: sin tanto che tranquillato essendo alquanto l’impeto del furore, se misero in ordine di ruota, dove: Il primo cantava e sonava la citara in questo tenore: O rupi, o fossi, o spine, o sterpi, o sassi, o monti, o piani, o valli, o fiumi, o mari, quanto vi discuoprite grati e cari, ché mercé vostra e merto n’ha fatt’il ciel aperto: o fortunatamente spesi passi. Il secondo con la mandòra sua sonò e cantò: O fortunatamente spesi passi, o diva Circe, o gloriosi affanni; o quanti n’affligeste mesi et anni, tante grazie divine, se tal è nostro fine dopo che tanto travagliati e lassi. Il terzo con la lira sonò e cantò. Dopo che tanto travagliati e lassi, se tal porto han prescritto le tempeste, non fia ch’altro da far oltre ne reste che ringraziar il cielo ch’oppose a gli occhi il velo, per cui presente al fin tal luce fassi. Il quarto con la viola cantò: Per cui present’al fin tal luce fassi, cecità degna più ch’altro vedere, cure suavi più ch’altro piacere; ch’a la più degna luce vi siete fatte duce: con far men degni oggetti a l’alma cassi. Il quinto con un timpano d’Ispagna cantò: Con far men degni oggetti a l’alma cassi, con condir di speranza alto pensiero, fu chi ne spinse a l’unico sentiero, per cui a noi si scuopra de Dio la più bell’opra: cessi fato benigno a mostrar vassi. Il sesto con un laùto cantò: Cossì fato benigno a mostrar vassi; perché non vuol ch’il ben succeda al bene, o presagio di pene sien le pene; ma svoltando la ruota, or inalze, ora scuota: com’a vicenda il dì e la notte dassi. Il settimo con l’arpa d’Ibernia: Come a vicenda, il dì e la notte dassi, mentr’il gran manto de faci notturne scolora il carro de fiamme diurne: talmente chi governa con legge sempiterna supprime gli eminenti, e inalz’ i bassi. L’ottavo con la viola ad arco: Supprime gli eminenti, e inalza i bassi, chi l’infinite machini sustenta: e con veloce, mediocre e lenta vertigine dispensa in questa mole immensa quant’occolto si rende e aperto stassi. Il nono con una rebecchina: Quant’occolto si rend’e aperto stassi, o non nieghi, o confermi che prevagli l’incomparabil fine a gli travagli campestri e montanari de stagni, fiumi, mari, de rupi, fossi, spine, sterpi, sassi. Dopo che ciascuno in questa forma singularmente sonando il suo instrumento ebbe cantata la sua sestina, tutti insieme ballando in ruota e sonando in lode de l’unica Nimfa con un soavissimo concento canta- rono una canzona, la quale non so se bene mi verrà a la memoria. giulia Non mancar (ti priego, sorella) di farmi udire quel tanto che ti potrà sovvenire. laodomia Canzone de gl’illuminati «Non oltre invidio, o Giove, al firmamento,» dice il padre Oceàn col ciglio altero, «se tanto son contento per quel che godo nel proprio impero; Che superbia è la tua? Giove risponde, alle ricchezze tue che cosa è gionta? o dio de le insan’onde, perché il tuo folle ardir tanto surmonta?» «Hai,» disse il dio de l’acqui, «in tuo potere il fiammeggiante ciel, dov’è l’ardente zon’, in cui l’eminente coro de tuoi pianeti puoi vedere. Tra quelli tutt’il mondo admira il sole, qual ti so dir che tanto non risplende quanto lei che mi rende più glorioso dio de la gran mole. Et io comprendo nel mio vasto seno tra gli altri quel paese, ove il felice Tamesi veder lice, ch’ha de più vaghe ninfe il coro ameno. Tra quelle ottegno tal fra tutte belle, i per far del mar più che del ciel amante te Giove altitonante, cui tanto il sol non splende tra le stelle»; Giove responde: O dio d’ondosi mari, ch’altro si trove più di me beato non lo permetta il fato; ma miei tesori e tuoi corrano al pari. Vagl’il sol tra tue ninfe per costei; e per vigor de leggi sempiterne, de le dimore alterne, costei vaglia per sol tra gli astri miei». Credo averla riportata interamente tutta. giulia Il puoi conoscere, perché non vi manca senten- za che possa appartener alla perfezzion del proposito; né rima che si richieda per compimento de le stanze. Or io, se per grazia del cielo ottenni d’esser bella, maggior grazia e favor credo che mi sia gionto: perché qualumque fusse la mia beltadel è stata in qualche maniera principio per far discuoprir quell’unica e di- vina. Ringrazio gli dèi, perché in quel tempo che io fui sì verde, che le amorose fiamme non si posseano accendere nel petto mio, mediante la mia tanto restia quanto semplice et innocente crudeltade, han preso mezzo per concedere incomparabilmente grazie mag- giori a’ miei amanti, che altrimenti avessero possute ottenere per quantunque grande mia benignitade. laodomia Quanto a gli animi di quelli amanti, io ti as- sicuro ancora, che come non sono ingrati alla sua ma- ga Circe, fosca cecitade, calamitosi pensieri et aspri travagli, per mezzo de quali son gionti a tanto bene: cossì non potranno di te esser poco ben riconoscenti. giulia Cossì desidero, e spero. Grice: Agostino da Norcia used to quote from Benedetto da Norcia’s emblematic maxim, praise the lord AND WORK – it rymes in Italian: ORA e LABORA --.  Not to be confused with “Benedetto da Norcia”. Agostino da Perugia. Agostino da Norcia. Norcia. Agostino Colizzi. Giovanni Colizzi. Colizzi. Keywords: implicatura, “De amore fundamenta mundis ac ethicae”, eretici italiani, ortodossi italiani,  dell’infinito, universo e mondi, praxis descensus application entis, amore – l’amore come fondamento del mondo, l’amore come fondamento dalla morale -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colizzi” – The Swimming-Pool Library.

 

Luigi Speranza -- Grice e Colli: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’espressione – scuola di Torino –filosofia torinese – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo torinese. Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Torino, Piemonte. Grice: “I love Colli – his ‘filosofia dell’espressione’ is much more serious than my ramblings, well meant, though, on Peirce! I was only trying to be fashionable! At Oxford, they loved my lecture on ‘meaning,’ which got me into ‘implying,’ and eventually, ‘expressing.’ – My unity developed – Colli was born with it!” Insegna a Pisa. Di una facoltosa famiglia, il padre amministra “La Stampa”, incarico dal quale fu poi estromesso all'indomani della marcia su Roma, su ordine di Mussolini. Studia a Torino, laureandosi sotto Solari con “Politicità ellenica e Platone”. Scorse nella tradizione filosofica classica greco-romana l'autentico "logos" a cui ritornare.  Lo stile di scrittura, profondo e costellato di aforismi taglienti, si caratterizza da un'attenzione maniacale alla musicalità del discorso. Questa dote musicale emerge con chiarezza dalle letture di alcuni passi di Colli recitati da Bene. Il suo saggio principale è “Filosofia dell'espressione” che fornisce, mediante una complessa teoria delle categorie e della deduzione, un'interpretazione della totalità della manifestazione come “espressione” di qualcosa (l'immediatezza) che sfugge alla presa della conoscenza. Comunque, ritiene che sia possibile riguadagnare il fondamento metafisico del mondo portando il discorso filosofico ai suoi estremi limiti e "(di)mostrando" la natura derivata del logos. Importante il suo contributo su i filosofi italici Gorgia, Zenone, e Girgentu, e le figure di Bacco ed Apollo, dismisura e misura. Al tentativo di interpretare gli enigmi di questi culti a-logici, fra i quali quelli oracolari, viene fatta risalire l'origine remota della dialettica. Altre opere: “Filosofia dell'espressione” (Adelphi, Milano); “Dopo Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La nascita della filosofia. Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca” “Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro, Anassimene, Onomacrito” (Adelphi, Milano); “La sapienza greca”; “Eraclito” (Adelphi, Milano); “Nietzsche” (Adelphi, Milano); “La ragione errabonda” (Adelphi, Milano); “Per una enciclopedia di autori classici” (Adelphi, Milano); “La Natura ama nascondersi” (Adelphi, Milano); “Zenone di Velia” (Adelphi, Milano); “Gorgia e Parmenide” (Adelphi, Milano); “Introduzione a Osservazioni su Diofanto di Pierre de Fermat. Bollati Boringhieri, Torino); “Platone politico” (Adelphi, Milano); “Il sovro-umano” (Adelphi, Milano); “Apollineo e dionisiaco” (Adelphi, Milano); “Girgentu” (Adelphi, Milano); “Platone: la lotta dello spirito per la potenza, Einaudi, Torino); Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino); Organon, Einaudi, Torino); Critica della ragion pura, a cura e tr. di Giorgio Colli, Einaudi, Torino); “Simposio” (Adelphi, Milano); Parerga e paralipomena” (Adelphi, Milano); Nietzsche (Classici Adelphi)  Scritti giovanili; La nascita della tragedia; Considerazioni inattuali; La filosofia nell'epoca tragica dei Greci; Frammenti postumi; Wagner a Bayreuth; Considerazioni inattuali, Umano, troppo umano, Aurora; Idilli di Messina; Così parlò Zarathustra; Al di là del bene e del male; Genealogia della morale; Wagner; Crepuscolo degli idoli; L'anticristo; Ecce homo; Nietzsche contra Wagner, Ditirambi di Dioniso e Poesie postume; Epistolario (Adelphi, Milano); Sull'utilità e il danno della storia per la vita (Adelphi, Milano); Sull'avvenire delle nostre scuole” (Adelphi, Milano);  La mia vita (Adelphi, Milano); La nascita della tragedia” Adelphi, Milano); L'uomo di fede e lo scrittore, Adelphi, Milano); Schopenhauer come educatore, tr. di Mazzino Montinari, Adelphi, Milano); “Lettere da Torino” (Adelphi, Milano); “Il servizio divino dei greci” (Adelphi, Milano); Lo Specchio di Dioniso” (Dedalo, Bari); Dizionario biografico degli italiani,  Implicazioni estetiche in C.; Misura e dismisura. Per una rappresentazione di C., ERGA, Genova); L’enigma greco; Apollineo e dionisiaco in C., in Clemente Tafuri e David Beronio, Teatro Akropolis. Testimonianze ricerca azioni, vol II, AkropolisLibri, Genova); I Greci: annotazioni su alcune traduzioni, in "Episteme", Mimesis Edizioni, Milano); Il Girgentu di Colli, Luca Sossella Editore, Roma.  Wikipedia Ricerca Prosimno pastore della mitologia greca Lingua Segui Modifica Prosimno o Polimno (Πρόσυμνος/Πόλυμνος) nella mitologia greca era un pastore che viveva nei pressi del sacro lago di Lerna (in Argolide, sulla costa del golfo di Argo), reputato essere senza fondo e pertanto assai pericoloso per tutti quelli che vi si volevano avventurare in acqua.  Quando il dio del vino Dioniso andò nell'Ade per salvare sua madre Semele, Prosimno lo guidò verso l'ingresso - conducendolo nella sua barca a remi - posto al centro del lago. Il premio richiesto da Prosimno per questo servizio sarebbe stato il diritto a giacere con il giovane Dio. Tuttavia, quando Dioniso tornò sulla terra per una strada diversa, trovò che Prosimno era nel frattempo morto.  Dioniso volle comunque mantenere la sua promessa; intagliò un pezzo di legno di ficus a forma di falloutilizzandolo per adempiere ritualmente all'accordo che aveva in precedenza stipulato con Prosimno: si posizionò sulla sua tomba e ci si sedette sopra, auto-sodomizzandosi. Questo, si dice, è stato dato come spiegazione della presenza di falli di legno di fico tra gli oggetti segreti che venivano "rivelati" nel corso dei Misteri dionisiaci.  Questa storia non è raccontata in pieno da una delle consuete fonti di racconti mitologici greci, anche se molti di loro accennano ad essa. Il fatto si è ricostruito sulla base di dichiarazioni di autori cristiani; questi devono essere trattati quindi con riserva in quanto il loro obiettivo era essenzialmente quello di screditare la mitologia pagana[1].  Riti notturni annuali hanno avuto luogo presso il lago sacro, sulle rive della palude alcionia, ancora in età classica; Pausania il Periegeta si rifiuta però di descriverceli.  Il mito di Prosimno è stato studiato da Bernard Sergentin "L'omosessualità nella mitologia greca", ristampato nella sua "Omosessualità e iniziazione tra i popoli indo-europei". Questo mito è comunque considerato essere il risultato dell'importanza del simbolismo fallico all'interno del culto dionisiaco.  Igino, Astronomy; Clemente di Alessandria, Protreptikos; Arnobio, Against the Gentiles; Dalby, Pausania, Guide to Greece; Plutarco, Iside e Osiride 35; Dalby, Dionisio-Baco, su geocities.com Mitos del cielo: Dioniso, su mitosdelcielo.iespana. Susana Quintanilla, Dioniso en México o cómo leyeron nuestros clásicos a los clásicos griegos. De op. cit.: Calasso "Las bodas de Cadmo y Harmonía", Barcelona, Anagrama( PDF ) [collegamento interrotto], su redalyc.uaemex. Dalby, The Story of Bacchus, London, British Museum Press, Pederastia Pederastia greca Temi LGBT nella mitologia FontiModifica Arnobio, Contro i pagani, Clemente di Alessandria, Esortazione ai Greci (Protrettico). Igino, Astronomia. Pausania, Descrizione della Grecia, Plutarco, Iside e Osiride. Portale LGBT   Portale Mitologia greca Dioniso dio greco del vino, della vendemmia, dei teatri, della fertilità e dell'ubriachezza  Canopo (mitologia) Pederastia tebana. Che l'esclusione di queste potenze ben presenti e Bi  distinte dalla comunità delle figure dominanti, ed .il sus É  sistere della loro venerabilità, pur tacendo .la vastità É  e profondità loro e più ch’ogni altra cosa, l’orrendo fi  mistero del loro essere, provengano da una particola  rissima valutazione e da una volontà risoluta, si app*  lesa evidentissimo nella figura dominante di tutto que  sto ciclo: Dioniso. La sua virilità, come osserva .J. J.  Bachhofen in modo eccellente, trascina irresistibilmente  seco. l’eterno femminino di questa sfera e ne rimane  assolutamente presa. Il suo spirito s’arroventa nell’inebriante beveraggio, che venne chiamato il sangue della  terra. Istinti elementari, frenesie, dissolvimenti della co-  scienza nello sconfinato, assalgono tempestosamente i suoi  adoratori e agli estasiati si schiudon i tesori del regno.  terrestre. Anche intorno a Dioniso accorrono i morti, che  lo seguono a ‘primavera quand’egli porta i fiori. Amore  e selvaggia ebbrezza, gelidi brividi e beatitudini si ten-  gon per mano e gli fan corteo; ciascuno degli antichis-  simi tratti essenziali della divinità della Terra son in  lui accresciuti a dismisura," ma pure infinitamente ap-  profonditi, Questa figura divina che tutto trascina con  sè è ben nota ad Omero, che chiama il dio « forsennato >,  e ha vivo davanti agli occhi l’andar selvaggio delle sue  accompagnatrici che agitano il tirso. Ma tutto. ciò non è  che similitudine, come quando paragona ad una Menade  Andromaca, la quale presa da oscuro presentimento si  precipita fuor dalle sue stanze (Iliade; cfr.  Inno Omer. a Dem.), come pure quando occasional-  mente narra memorabili storie (Iliade.; Odissea). Nel vivo mondo di Omero le Menadi non  trovan posto e pure invano si cerca Dioniso, che non vi  ha parte veruna. Dioniso « dispensator di gioia » (Esio-  do, Erga 614) gli è altrettanto estraneo quanto l’uomo  doloroso annunziatore dell’al di là. L’eccesso, che gli è  proprio, non s’accorda con la chiarezza che contraddi-  stingue qui tutto ciò ch’è realmente divino.   Da questa chiarezza sono assai lontane anche le al-  tre figure del ciclo della Terra. Sian pure intessute. di  dolcissimo incanto, e portin sulla fronte la più sublime  gravità. Il sapere e la sacra legge stanno loro al fianco.  Ma sono.legate alla materia terrestre e partecipano della  sua oscura pesantezza e necessità. La loro benevolenza  è quella dell’elemento materno, ed il loro diritto ha la  rigidità di tutti i legami del sangue. Tutte arrivano  nella notte della morte, o meglio: la morte ed il passato  risalgono grazie a loro nel presente e nell’esistenza dei  viventi. Non v'è un ritrarsi dal teatro del mondo, nè il  trapassare dall’esistenza oggettiva in una sfera inferiore  nè una liberazione del campo di vita e d’azione da ciò  che una volta fu. Tutto ciò che fu rimane per sempre,  ed. eleva la sua esigenza, sempre con la medesima ron.  cretezza, dalla quale non c’è via di scampo. Ed è solo  una conferma di codesto carattere, il predominio ch’'ha  nel mondo delle divinità di questa sfera, il sesso femmi.  nile. Nella cerchia celeste della religione omerica invece  sì trae in disparte in modo tale, che non può essere casuale. Gli dèi che dominano colà, non solo: son di sesso  maschile, sibbene rappresentano decisamente lo spirito  virile. Ed anche quando Atena si unisce ad Apollo e-a  Zeus in suprema trinità, è lei a rinnegare esplicitamente  il femmineo e a farsi genio del mascolino. I -m   Dirisioti ^LT^b  !-' 0' 25outonV %tt^^\t Hitiratp. THE ELEUSINIAN AND BACCHIC MYSTERIES. A DISSERTATION. TAYLOR, TXANSL4TOH OF PLATO. PLOTINTJS," POEPITIllY," lAMBLICHCS." "PEOCI-nS,'  ABISTOTLE," ETC., ETC. EDITED, WITH INTRODUCTION, NOTES, EMENDATIONS, AND GLOSSARY. WILDER.  Ev Tats TEAETAI2 KaOapcrei'; rjyoyi'Tai (cai ncpip-  pai'TTjpia (Cat ayviiTfjiOL, a nof (v aTTOpprjToi; Spuiixeviav,  (tat TT)! TOD Oeiov |U.€T0U(rias yviJifauiiaTa etaiv.   Pkoclus ; Manuscript Commentary upon Plato, I. AMbiadet. WITH 85 ILLUSTRATIONS RAWSON. by  BulI TDN. The DeVinne Press. TO MY OLD FRIEND   ^cniarti OSuatitcl)   THE GREATEST BOOKSELLER OF ANCIENT  OR MODERN TIMES   CbiB Dolttme is reBpcctfuIl? Jeiiicateli   BY THE PUBLISHER Bacchic Ceremonies. Bacchus ami Nymphs. Pluto, Prosevpiua, aud Furies. Eleusinian Prieatesses. Bacchante and Faun. Faun and Bacchus. Fable is Love's World, Poem by Schiller. Eleusinian Mysteries. Bacchic Mysteries. Hymn to Minerva; Orphic Hymns. Hymn of Cleanthes Klensiiiiiiii Mj'steriea. '"Tis not merely  The human breing's pride that peoples space  With life and mystical predominance,  Since likewise for the stricken heart of Love  This visible nature, and this common world  Is all too narrow ; yea, a deeper import  Lurks in the legend told my infant years  That lies upon that truth, we live to learn,  For fable is Love's world, his home, his birthplace ;  Delightedly he dwells 'mong fays and talismans,  And spirits, and delightedly believes  Divinities, being himself divine.  The intelligible forms of ancient poets.  The fair humanities of Old Religion,  The Power, the Beauty, and the Majesty,  That had their haunts in dale or piny motmtain, Or forests by slow stream, or pebbly spring. Or chasms or wat'ry depths;  all these have vanished.  They live no longer in the faith of Eeason,  But still the heart doth need a language ; still  Doth the old instinct bring back the old names. Schiller : The Piccolomini Apollo autl Muaes. ITolM.'tll.MlS. In offering- to the public Taylor's admirable treatise upon the Elensiidan  and Bacchic Mysteries, it is proper to insert a few words of explanation. These observances once represented the spiritual life of (Ireeee, and were considered  for two thousand years and more the appointed means  for regeneration through an interior union with the  Divine Essence. However absurd, or even offensive  they may seem to us, we should therefore hesitate long before we venture to lay desecrating hands on what  others have esteemed holy. We can learn a valuable  lesson in this regard from the Roman philosophers, who had learned to treat the popular religious rites with mirth, but always considered the Eleusinian  Mysteries with the deepest reverence. It is ignorance which leads to profanation. Men  ridicule what they do not properly understand. Alcibiades was drunk when he ventured to touch what his countrymen deemed sacred. The undercurrent of this  worhl is set toward one goal; and inside of human  credulity  call it human weakness, if you please   is a power almost infinite, a holy faith capa))le of  apprehending the siipremest truths of all Existence.  The veriest dreams of life, pertaining as they do to  " the minor mystery of death," have in them more than  external fact can reach or explain; and Myth, however much she is proved to be a child of Earth, is also  received among men as the child of Heaven. The  Cinder- Wench of the ashes will become the Cinderella  of the Palace, and be wedded to the King's Son. The instant that we attempt to analyze, the sensible,  palpable facts upon which so many try to build disappear beneath the surface, like a foundation laid upon  quicksand. " In the deepest reflections," says a distinguished writer, '' all that we call external is only the  material basis upon which our dreams are built; and  the sleep that surrounds life swallows up life,  all  but a dim wreck of matter, floating this way and that,  and forever evanishing from sight. Complete the analysis, and we lose even the shadow of the external  Present, and only the Past and the Future are left  us as our sure inheritance. This is the first initiation,  the vailing [mnesis] of the eyes to the external.  But as epo])fm, by the synthesis of this Past and Future  in a living nature, we obtain a higher, an ideal  Present, comprehending within itself all that can be  real for us within us or without. This is the second initiation in which is uuvailed to us the Present as a  new birth from our own life. Thus the great problem  of Idealism is symbolically solved in the Eleusinia. These were the most celebrated of all the sacred  orgies, and were called, by way of eminence. The  Mysteries. Although exhibiting apparently the features of an Eastern origin, they were evidently copied  from the rites of Isis in Egypt, an idea of which, more  or less correct, may be found in The Mefamotyhoses of APULEIO and The Epicurean by Moore. Every  act, rite, and person engaged in them was symbolical;  and the individual revealing them was put to death  without mercy. So also was any uninitiated person who  happened to be present. Persons of all ages and both  sexes were initiated; and neglect in this respect, as in  the case of Socrates, was regarded as impious and  atheistical. It was required of all candidates that  they should be first admitted at the MiJo'a or Lesser  Mysteries of Agree, by a process of fasting called ^j«f/'/ficafion, after which they were styled mysfce, or initiates. A year later, they might enter the higher degree.  In this they learned the aporrheta, or secret meaning of  the rites, and were thenceforth denominated ephori, or  epoptm. To some of the interior mysteries, however,  only a very select number obtained admission. From  these were taken all the ministers of holy rites. The  Hierophant who presided was bound to celibacy, and  requii'ed to devote his entire life to his sacred office.  Atlantic Monthly, He had three assistants,  the torch-bearer, the lierux or  crier, and the minister at the altar. There were also a  hasileus or king, who was an archon of Athens, four  curators, elected by suffrage, and ten to offer sacrifices. The sacred Orgies were celebrated on every fifth  year; and began on the 15th of the month Boedromiau  or September. The first day was styled the agurmos or  assembly, because the worshipers then convened. The  second was the day of purification, called also alacU  mystaij from the proclamation : ''To the sea, initiated  ones ! " The third day was the day of sacrifices; for  which purpose were offered a mullet and barley from  a field in Eleusis. The officiating persons were forbidden to taste of either; the offering was for Achtheia  (the sorrowing one, Demeter) alone. On the fourth  day was a solemn procession. The JcalafJios or sacred  basket was borne, followed by women, ciske or chests  in which were sesamum, carded wool, salt, pomegranates, poppies,  also thyrsi, a serpent, boughs of ivy,  cakes, etc. The fifth day was denominated the day of  torches. In the evening were torchlight processions  and much tumult.   The sixth was a great occasion. The statue of  lacchus, the son of Zeus and Demeter, was brought  from Athens, by the laccJiogoroi, all crowned with  myrtle. In the way was heard only an uproar of singing and the beating of brazen kettles, as the votaries  danced and ran along. The image was borne " through  the sacred Gate, along the sacred way, halting by the sacred fig-tree (all sacred, mark you, from Eleiisinian  associations), where the procession rests, and then  moves on to the bridge over the Cephissns, where again  it rests, and where the expression of the wildest grief  gives place to the trifling farce,  even as Demeter, in  the midst of her grief, smiled at the levity of lambe  in the palace of Celeus. Through the 'mystical entrance ' we enter Eleusis. On the seventh day games  are celebrated; and to the victor is given a measure  of barley,  as it were a gift direct from the hand of  the goddess. The eighth is sacred to ^sculapius, the  Divine Physician, who heals all diseases; and in the  evening is performed the initiatory ritual.   " Let us enter the m3\stic temple and be initiated,   though it must be supposed that, a year ago, we were  initiated into the Lesser Mysteries at Agrae. We must  have been mystm (vailed), before we can become epoptce  (seers); in plain English, we must have shut our  eyes to all else before we can behold the mysteries.  Crowned with myrtle, we enter with the other initiates  into the vestibule of the temple,  blind as yet, but the  Hierophaut within will soon open our eyes. But first,  for here we must do nothing rashly,  first we must wash in this holy water; for it is with  pure hands and a pure heart that we are bidden to  enter the most sacred enclosure [(xu(rTuoff (f-nxog, tnusfijios  seJcos]. Then, led into the presence of the Hierophaut, In the Oriental countries the designation nns Peter (an interpreter), appears to have been the title of this personage; and he reads to us, from a book of stone [jreTpajfjia, petroma]^  tliiuii's which we must not divulge on pain of death.  Let it suffice that they fit the place and the occasion;  and though you might laugh at them, if they were  spokiMi outside, still you seem very far from that mood  now, as you hear the words of the old man (for old he  he always was), and look upon the revealed symbols.  And very far, indeed, are you from ridicule, when  Demeter seals, by her own peculiar utterance and signals, by vivid coruscations of light, and cloud piled  upon cloud, all that we have seen and heard from her  sacred priest; and then, finally, the light of a serene  wonder fills the temple, and we see the pure fields of  Elysium, and hear the chorus of the Blessed;  then,  not merely by external seeming or philosophic interpretation, but in real fact, does the Hierophant become  the Creator [(hi-^'ovpyo;, demiourgos] and revealer of all  things; the Sun is but his torch-bearer, the Moon his  attendant at the altar, and Hermes his mystic herald *  [>c7]pu|, kerux]. But the final word has been uttered  ' Conx Om pax.' The rite is consummated, and we are  vpoptit forever ! "  Those who are curious to know the myth on which   the petroma consisted, notably enougli, of two tablets of stone.  There is in these facts some reminder of the peculiar circumstances of the Mosaic Law which was so preserved; and also of  the claim of the Pope to be the successor of Peter, the hierophant  or interpreter of the Christian religion.  * Porphyry.     Introduction. 19   the " mystical drama " of the Eleusinia is founded will  find it in any Classical Dictionary, as well as in these  pages. It is only pertinent here to give some idea of  the meaning. That it was regarded as profound is  evident from the peculiar rites, and the obligations imposed on every initiated person. It was a reproach not  to observe them. Socrates was accused of atheism, or  disrespect to the gods, for having never been initiated.*  Any person accidentally guilty of homicide, or of any  crime, or convicted of witcihcraft, was excluded. The  secret doctrines, it is supposed, were the same as are  expressed in the celebrated Hymn of Cleanthes. The  philosopher Isocrates thus bears testimony : " She  [Demeter] gave us two gifts that are the most excellent; fruits, that we may not live like beasts; and that  initiation  those who have part in which have sweeter  hope, both as regards the close of life and for all  eternity." In like manner, Pindar also declares : " Happy  is he who has beheld them, and descends into the Underworld: he knows the end, he knows the origin of life."  The Bacchic Orgies were said to have been instituted, Ancient Sijmhol-Worsliip. "Socrates was not  initiated, yet after drinking the hemlock, he addressed Crito :  ' We owe a cock to ^sculapius.' This was the peculiar offering  made by initiates (now called kerJcnophori) on the eve of the last  day, and he thus symbolically asserted that he was about to receive the great apocalypse. See, also, " Progress of Religious Ideas," by Child; and " Discourses on the Worship of Priapus," by  EiCHARD Payne Knight.  or iiy)re probably reformed T)y Orpheus, a mythical  personage, supposed to have flourished in Thrace.*  The Orphic associations dedicated themselves to the  worship of Bacchus, in which they hoped to find the  gratification of an ardent longing after the worthy and  elevating influences of a religious life. The worshipers  did not indulge in unrestrained pleasure and frantic  enthnsiasni, but rather aimed at an ascetic purity of   * Euripides : Ehaesns. "Orpheus showed forth the rites of  the hidden Mysteries."   Plato : ProUifforas. The art of a sophist or sage is ancient,  but tlie men who proposed it in ancient times, fearing the odium  attached to it, sought to conceal it, and vailed it over, some under  the garb of poetry, as Homer, Hesiod, and Simonides : and others  under that of the Mysteries and prophetic manias, such as Orpheus,  Musseus, and their followers."   Herodotus takes a different view  ii. 49. "Melampus, the son  of Amytheon," he says, "introduced into Greece the name of  Dionysus (Bacchus), the ceremonial of his worship, and the procession of the phallus. He did not, however, so completely apprehend the whole doctrine as to be able to communicate it  entirely : but various sages, since his time, have carried out his  teaching to greater perfection. Still it is certain that Melampus  introduced the phallus, and that the Greeks learnt from him the  ceremonies which they now practice. I therefore maintain that  Melampus, who was a sage, and had acquired the art of divination, having become acquainted with the worship of Dionysus  tln-ough knowledge derived from Eg>ijt, introduced it into Greece,  with a few slight changes, at the same time rhat he brought in  various other practices. For I can by no means allow that it is by  mere coincidence that the Bacchic ceremonies in Greece are so  nearly the same as the Egyptian.  y  r^isi  Etruscan Kleusiniau Ci-renionies.  life and manners. The worship of Dionysus \yas the  center of their ideas, and the starting-point of all their  speculations upon the world and human nature. They  believed that human souls were confined in the body as  in a prison, a condition which was denominated genesis  or generation; from which Dionysus would liberate  them. Their sufferings, the stages by which they  passed to a higher form of existence, their lafharsis  or purification, and their enlightenment constituted the  themes of the Orphic writers. All this was represented  in the legend which constituted the groundwork of the  mystical rites.   Dionysus-Zagreus was the son of Zeus, whom he had  begotten in the form of a dragon or serpent, upon the  person of Kore or Persephoneia, considered by some  to have been identical with Ceres or Demeter, and by  others to have been her daughter. The former idea is  more probably the more correct. Ceres or Demeter  was called Kore at Cnidos. She is called Phersephatta  in a fragment by Psellus, and is also styled a Fury.  The divine child, an avatar or incarnation of Zeus, was  denominated Zagreus, or Chakra (Sanscrit) as being  destined to universal dominion. But at the instigation  of Hera* the Titans conspired to murder him. Ac * Hera, generally regarded as the Greek title of Juno, is not the  definite name of any goddess, but was used by ancient writers as  a designation only. It signifies doniina or lady, and appears to be  of Sanscrit origin. It is applied to Ceres or Demeter, and other  divinities. cordingly, one day while he was contemplating a mirror,* they set upon him, disguised under a coating of  plaster, and tore him into seven parts. Athena, however, rescued from them his heart, which was swallowed  by Zeus, and so returned into the paternal substance,  to be generated anew. He was thus destined to be  again born, to succeed to universal rule, establish the  reign of happiness, and release all souls from the  dominion of death.   The hypothesis of Mi-. Taylor is the same as was  maintained by the philosopher Porphyry, that the  Mysteries constitute an illustration of the Platonic   * The mirror was a part of the symbolism of the Thesmophoria,  and was iised in the search for Atmu, the Hidden One, evidently  the same as Tammuz, Adonis, and Atys. See Exodus xxxviii. 8;  1 Samuel ii. 22; and Esekiel viii. 14. But despite the assertion of  Herodotus and others that the Bacchic Mysteries were in reality  Egyptian, there exists strong probability that they came originally  from India, and were Sivaic or Buddhistical. Core-Persephoneia  was but the goddess Parasu-pani or Bhavani, the patroness of the  Thugs, called also Goree; and Zagi'eus is from Chakra, a country  extending from ocean to ocean. If this is a Turanian or Tartar  Story, we can easily recognize the "Horns" as the crescent worn  by lama-priests : and translating god-names as merely sacerdotal  designations, assume the whole legend to be based on a tale of  Lama Succession and transmigration. The Titans would then be  the Daityas of India, who were opposed to the faith of the northern tribes; and the title Dionysus but signify the god or chiefpriest of Nysa, or Mount Meru. The whole story of Orpheus, the  institutor or rather the reformer of the Bacchic rites, has a Hindu  ring all through.  FILOSOFIA. At first sight, this may l)e hard to believe;  but we must know that no pageant could hold place so  long, without an under-meaning. Indeed, Herodotus  asserts that " the rites called Orphic and Bacchic are in  reality Egyptian and Pythagorean. The influence of  the doctrines of Pythagoras upon the Platonic system  is generally acknowledged. It is only important in  that case to understand the great philosopher correctly;  and we have a key to the doctrines and symbolism of  the Mysteries.   The first initiations of the Eleusinia were called  Telefce or terminations, as denoting that the imperfect  and rudimentary period of generated life was ended  and purged off; and the candidate was denominated a  mijsfa, a vailed or liberated person. The GreaterMysteries completed the work; the candidate was more  fully instructed and disciplined, becoming an epopta  or seer. He was now regarded as having received the  arcane principles of life. This was also the end sought  by philosophy. The soul was believed to be of composite nature, linked on the one side to the eternal  world, emanating from God, and so partaking of The Divine (IL DIVINO). On the other hand, it was also allied to the  phenomenal or external world, and so liable to be  subjected to passion, lust, and the bondage of evils.  This condition is denominated genemtion; and is supposed to be a kind of death to the higher form of life.  Evil is inherent in this condition; and the soul dwells  * Herodotus: ii. 81 in the body as in a prison or a grave. In this state, and  previous to the discipline of education and the mystical initiation, the rational or intellectual element, which  Paul denominates the spiritual, is asleep. The earthlife is a dream rather than a reality. Yet it has  longings for a higher and nobler form of life, and its  affinities are on high. "All men yearn after God,"  says Homer. The object of Plato is to present to us the  fact that there are in the soul certain ideas or principles, innate and connatural, which are not derived  from without, but are anterior to all experience, and  are developed and brought to view, but not produced  by experience. These ideas are the most vital of all  truths, and the purpose of instruction and discipline  is to make the individual conscious of them and  willing to be led and inspired b}^ them. The soul  is purified or separated from evils by knowledge,  truth, expiations, sufferings, and prayers. Our life  is a discipline and preparation for another state of  being; and resemblance to God is the highest motive  of action.*   * Many of the early Christian writers were deeply imbued with  the Eclectic or Platonic doctrines. The very forms of speech were  almost identical. One of the four Gospels, bearing the title " according to John,'''' was the evident product of a Platonist, and  hardly seems in a considerable degree Jewish or historical. The  epistles ascribed to Paul evince a great familiarity with the Eclectic philosophy and the peculiar symbolism of the Mysteries, as  well as with the Mithraic notions that had penetrated and  permeated the religious ideas of the western countries.  Proclus does not hesitate to identify the theological  doctrines with the mystical dogmas of the Orphic  system. He says : '' What Orpheus delivered in hidden  allegories, Pythagoras learned when he was initiated  into the Orphic Mysteries.; and Plato next received a  perfect knowledge of them from the Orphean and  Pythagorean writings."   Mr. Taylor's peculiar style has been the subject of  repeated criticism; and his translations are not accepted  by classical scholars. Yet they have met with favor at  the hands of men capable of profound and recondite  thinking; and it must be conceded that he was endowed  with a superior qualification,  that of an intuitive perception of the interior meaning of the subjects which  he considered. Others may have known more Greek,  but he knew more Plato. He devoted his time and  means for the elucidation and dissemination of the doctrines of the divine philosopher; and has rendered into  English not only his writings, but also the works of  other authors, who affected the teachings of the great  master, that have escaped destruction at the hand of  Moslem and Christian bigots. For this labor we cannot be too grateful.   The present treatise has all the peculiarities of style  which characterize the translations. The principal difficulties of these we have endeavored to obviate  a labor  whicli will, we trust, be not unacceptable to readers.  The book has been for some time out of print; and no  later writer has endeavored to replace it. There are many who still cherish a regard, almost amounting to  veneration, for the author; and we hope that this reproduction of his admirable explanation of the nature and  object of the Mysteries will prove to them a welcome  undertaking. There is an increasing interest in philosophical, mystical, and other antique literature, which  will, we believe, render our labor of some value to a  class of readers whose sympathy, good-will, and fellowship we would gladly possess and cherish. If we have  added to their enjoyment, we shall be doubly gratified.   A. W.  V'euus ami Proserpina iu Hailes. Rape of Proserplua. As there is nothing more celebrated than the Mys- ^l\^ teries of the ancients, so there is perhaps nothingwhich has hitlierto been less solidly known. Of the  trnth of this observation, the liberal reader will, I persnade myself, be fully convinced, from au attentive  perusal of the following sheets; in which the secret  meaning of the Eleusinian and Bacchic Mysteries is unfolded, from authority the most respectable, and from  a philosophy of all others the most venerable and  august. The authority, indeed, is principally derived  from manuscript writings, which are, of course, in the  possession of but a few; but its respectability is no  more lessened by its concealment, than the value of a  diamond when secluded from the light. And as to the  philosophy, by whose assistance these Mysteries are developed, it is coeval with the universe itself; and, however its continuity maybe broken by opposing systems,  it will make its appearance at different periods of time, as  long as the sun himself shall continue to illuminate the world. It has, indeed, and may hereafter, be violently assaulted l)y delusiv^e opinions; but the opposition will be  just as imbecile as that of the waves of the sea against a  temple built on a rock, which majestically pours them   back,   Broken and A^anquish'd, foaming to the main. Pallas, Venus, aud Diaua.  THE ELEUSINIAN AND BACCHIC. Dionysus as God of the Sun.     a. SECTION I. SJ   WARBURTON, in Ms Divine  Legation of Moses, has ingeniously  proved, that the sixth book of Virgil's  ^neid represents some of the dramatic  exhibitions of the Eleusinian Mysteries;  but, at the same time, has utterly failed  in attempting to unfold their latent meaning, and obscure though important end.  By the assistance, howevei", of the Platonic philosophy, I have been enabled to  correct his errors, and to vindicate the  wisdomof antiquity from his aspersions The profounder esoteric doctrines of the ancients were  denominated wisdom, and attevwnrd philosophy, and also the [piosis  or knowledge. They related to the human soul, its divine parentEleiisinian and   by a genuine account of this sublime  institution; of which the foUowing observations are designed as a comprehensive  view.   In the fii'st place, then, I shall present  the reader with two superior authorities,  who perfectly demonstrate that a part of  the shows (or dramas) consisted in a  representation of the infernal regions; authorities which, though of the last consequence, were unknown to Dr. Warbiu'ton  himself. The first of these is no less a  person than the immortal Pindar, in a  fragment preserved by Clemens Alexandrinus : ^' 'A/J.a %at IJtvoapo^ Trspi xcov sv EXsaacvt {Jiua'CTjpuov Xsycov STrcrpspsL OXpcoc, oart? But Pindar, speaking of the Eleusinian  Mysteries, says : Blessed is he who, having   age, its supposed degradation from its high estate by becoming  connected with " generation " or the physical world, its onward  progi-ess and restoration to God by regenerations, popularly supposed to be transmigrations, etc.  A. W.  " Stroma la, book iii.  Bacchic Mysteries. seen those common concerns in the underworld, knows both the end of hfe and its  divine origin from Jupiter." The other of  these is from Prochis in his Commentary  on Plato's Politicus, who, speaking concerning the sacerdotal and symbolical mythology, observes, that from this mythology  Plato himseK establishes many of his own  peculiar doctrines, " since in the Phcedo he  venerates, mtli a becoming silence, the  assertion delivered in the arcane discourses,  that men are placed in the body as in a  prison, secured by a guard, and testifies^  accordlny to the mystic cerem^onies, the different allotments of purified and unpurified souls in Hades, their severed conditions,  and the three-forJicd path from the pecidiar  places where they tcere; and this was shown  accordiny to traditionary institutions; every  part of which is full of a symbolical representation, as in a dream, and of a description which treated of the ascending and  descending ways, of the tragedies of Dionysus (Bacchus or Zagreus), the crimes of  the Titans,, the three ways in Hades, and Eleusinian and   the wandering of everything of a similar  hind.^^  "Ar/Aot 5s sv <l>7.too)vt xov ts sv   6'. avi^pcoTTOi, aiyirj xtj Trps'iro'jar^ cs^3(ov, xai  ■:7.c -csXsrac (lege y.7.o %7.-'y. -ac tsXs-c/.) (JLCtp-:'jpo{Ji£voc xcov ^La'^optov Xr^^scov -r^; ^^T^'^  %£%ai)-ap|i.£VTj; TS %7.c a^a^aptoy zic, o/joo   rj.lZirjOQ1]Z, r.rjX ZIQ ZS GySGSlC, WJ, V:7.C Xa?   xpio^oDc 7.7:0 x(ov ooGKov 7,7/. x(ov (lege %ai  %7.x7. t(ov), Traipi^cov {)-£a{i(ov ':£7,{i7.ipo[icVOc. a  5'^ z-qc, ao{JL[3o)d%7jc dTuavta ^stopta; sari {xsara,   7,7.L t(OV 7C7.p7. TOIC TZOl'flZrjlC, {)-p'jXXo?J{J.£V(OV   rj.yo^my zs 7.7.t 7,ai)-ooo)v, tcov ts $iovyai7.7C(ov  3'jvi)"^{Ji7.tcov, y.rj.1 xcov TiTy-vizfov onxapiYjixa -(OV XSYOJXSVCOV, 'X.7.1 X(OV sv 4^^'-> TpCOOCOV,  7,7.!. XT^C TZKrjyr^C, Y,rjx X(OV T&tOUTCOV d'7L7.VXa)V." *   Ha^dllg iDremised thus much, I now proceed to prove that the th'amatic spectacles .of  the Lesser Mysteries f were designed by the  ancient theologists, their founders, to signify  occultly the condition of the unpurified soul   * Commentary on the Statesman of Plato, page 374.   t The Lesser Mysteries were celebrated at Agrse; and the persons there initiated were denominated Mi/sta: Only such could  be received at the sacred rites at Eleusis.  Bacchic Mysteries. invested with an earthly body, and enveloped in a material and physical nature; or,  in other words, to signify that such a soul in  the present life might be said to die, as far  as it is possible for a soul to die, and that  on the dissolution of the present body, while  in this state of impuiity, it would experience  a death still more permanent and profound.  That the soul, indeed, till purified by philosophy,* suffers death through its union with  the body was obvious to the philologist  Macrobius, who, not penetrating the secret  meaning of the ancients, concluded from  hence that they signified nothing more than  the present body, by their descriptions of  the infernal abodes. But this is manifestly  absurd; since it is universally agreed, that  all the ancient theological poets and philosophers inculcated the doctrine of a future  state of rewards and punishments in the  most full and decisive terms; at the same  time occultly intimating that the death of  the soul was nothing more than a profound  union with the ruinous bonds of the body. FILOSOFIA here relates to discipline of the life. Eleusinian and   Indeed, if these wise men believed in a  future state of retribution, and at the same  time considered a connection with the bodyas death of the soul, it necessarily follows,  that the soul's punishment and existence  hereafter are nothing more than a continuation of its state at present, and a transmigration, as it were, from sleep to sleep, and  from dream to dream. But let us attend  to the assertions of these divine men concerning the soul's union with a material  nature. And to begin with the obscure and  profound Heracleitus, speaking of souls  imembodied: "We live their death, and we  die their life." Z(o{j.£v tov sxslvcov i)-7.v7.':ov,  TsO-vT/Aajisv OS xov £%£lv(ov jiLov. And Empedocles, deprecating the condition termed  " generation," beautifully says of her :   The aspect changing with destruction dread,  She makes the Uv'okj pass into the dead.   Ex \i.z\i yx^ Cojtuv zv.%-1'. VcXpa siOi a|JLj'.j3ojv.   And again, lamenting his connection with  this corporeal world, he pathetically exclaims:     Bacchic Mysteries. 37   For this I weep, for this indulge my woe,   That e'er my soul such novel realms should know.   KXauaa te v.ai xiuxuaot, lowv «afjv*r]i)'sry. ytupov. *   Plato, too, it is well known, considered the  body as the sepulchre of the soul, and in  the Crcifijlus concurs with the doctrine of  Orpheus, that the soul is x>^niished through  its union with body. This was likewise the  opinion of the celebrated Pythagorean, Philolaus, as is evident from the following remarkable passage in the Doric dialect, preserved by Clemens Alexandrinus in Strom at.  book iii. " Map-cupsovra 5s %c/.t oi TcrjXaifx.  tJ-soXoyoc IS y.r/.i \w,vzzic., 6)C, ^la ziyac, xqj-copiac,   £V a(o{i7.ic XGIJ-Ki) zzd-aizza.i.^' i. e. " The ancient  theologists and priests also testify that the  soul is united with the body as if for the  sake of punishment; f and so is buried in  body as in a sepulchre." And, lastly, Py * Greek it-ayxsiq mantels  more properly proi)hets, those filled  by the prophetic mania or eutheasm.   t More correctly  '* The soul is yoked to the body as if by way  of punishment," as culprits were fastened to others or even to  corpses. See PauVs Epistle to the liomans Eleusinian and   thagoras himself confii'ms the above sentiments, when he beautifully observes, according to Clemens in the same book, " that  wild fever tee see when airali'e is death; and  when asleep,- a dreamt brj^rxio;^ sa-rcv, oxoaa   But that the mysteries occultly signified this sublime truth, that the soul by  being merged in matter resides among the  dead both here and hereafter, though it follows by a necessary sequence from the preceding observations, yet it is indisputably confirmed, by the testimony of the great and  truly divine Plotinus, in Ennead I., book viii.  ''When the soul," says he, '*has descended into  generation (from its first divine condition)  she partakes of evil, and is carried a great  way into a state the opposite of her  first purity and integrity, to he entirely  merged in ivhich, is nothing more than to  fall into dark mire.^^ And again, soon after. The soul therefore dies as much as it is possible for the soul to die : and the death to her  is^ while Mptized or immersed in the present     Bacchic Mysteries. 39   hocly^ to descend into matter * and he wholly  subjected hy it; and after departing thence  to lie there till it shall arise and turn  its face away from the abhorrent filth.  This is what is meant hy the falling asleep  in Ifades, of those who have come there.'''' j   * Greek ^^>^'<], matter supposed to contain all the principles the  negative of life, order, and goodness.   tThis passage doubtless alludes to the ancient and beautiful  story of Cupid and Psyche, in which Psyche is said to fall asleep  in Hades; and this through rashly attempting to behold corporeal  beauty : and the observation of Plotinus will enable the profoimd  and contemplative reader to unfold the greater part of the mysteries contained in this elegant fable. But, prior to Plotinus,  Plato, in the seventh book of his Republic, asserts that such as  are unable in the present life to apprehend the idea of the good,  will descend to Hades after death, and fall asleep in its dark  abodes. 'Oq av |n-r] syrj o'.op:::aj9'a', xto Xo-|'to, c/.tzo twv aXXtov  Ttavxojv a-^jXiuv ttjv too a-irj.x}oj) torav, v.r/'. inzr.zp £v It-'^'/'fJ 5oa  Tcavtcov sXsY/tuv o'.tt,nuy, jj.s v.ata oo^av aXka v.ax' ouatav npofl'U^oofjLsvo?  eXeY/s'.v, £V Traat. xooto'-c anxcoT: x«) Xo'^w oioi-opsufjxa'., ooxs awzo xo  cnY'/O'CiV rj'jozv cpYjas'.^ e'.osva: xov o'ixiui^ s^ovxa. oozz aWo o.-^rj.^-rr^  ooojv; a),),' s: TC'f] ^iocuXo'j x'.vo; fiiaz.xz'Z'j:., ooJ-/j o'jy. £i:'.-rf|iJ.-(^  c'^aTiXja&ai; xoci xov vjv fy.vj ovsipciTCoXouvxa, v.ao ijiivtoxovxa, Tip'.v  jvO'ao' E^spY''^^'*' 5 ^-^ aocio TipoxEpov acp:y.o|Ji.svov xsXscoi;  ETTixaxaSapO-aviiv; ». e. "He who is not able, by the exercise  of his reason, to define the idea of the good, separating it from all  other objects, and piercing, as in a battle, through every kind  of argument; endeavoring to confute, not according to opinion,  but according to essence, and proceeding through all these dialectical energies with an unshaken reason;  he who can not     40 Bacchic Mysteries.   TLVojisvcp 5s Yj [i£taAT;'|L;; rjjjxrjj^ Fcrpvciac yap   '^lavta^raacv sv ^(p rr^c avc/{xoco-Y^T;oc zotzco,  evd-rj. ooQ BIZ r/jizr^y siz 'p^ij^o^joy axorstvov  SGzrji 'jisacov.  A'JToD-VTjay.cc o'jv, (o;; 'j'''>Z''i '^•'^  iJ-avof xctL 6 ^avoLTO? ao'Tj, xai szl sv ^(o  GOiixazi p£J37.7uua{JL£VY^, sv 6Xy^ sarc y-c/.-aoovac,  7C/.C 7tXYjai)"^vac aozr^Q. Kai si^s/a^oaaYj; sxst  %£iai)'7.L, £(oc av7.opa{ji'(j y,c/.t rj/^2kr^ tzcoc, xy^v  G?J;tv £% ZOO fiopjSopo'j. Kac to'jto sb-'. to sv  4*^00 sXiJ-ovra sTzi'/.rj.za SapiJ-stv. Here the   aeeomplisli this, would j^ou not say, that he neither knows the  good itself, nor anything which is pi'operly denominated good?  And would you not assert that such a one, when he apprehends  any certain image of reality, apprehends it rather through the  medium of opinion than of science; that in the present life he  is sunk in sleep, and conversant with the delusion of dreams;  and that before he is roused to a vigilant state he will descend  to Hades, and be overwhelmed with a sleep perfectly profound."  Henry Davis ti-anslates this passage more critically: "Is not  the ease the same with i"eference to the good ? Whoever can not  logically define it, abstracting the idea of the good from all  others, and taking, as in a fight, one opposing argument after  another, and can not proceed with unfailing proofs, eager to rest  his ease, not on the ground of opinion, but of true being,  such a  one knows nothing of the r/ood itself, nor of any good whatever;  and should he have attained to any knowledge of the (jood, we  must say that he has attained it by opinion, not by science  {sKizzfiiirj); that he is sleeping and dreaming away his present  life; and before he is roused will descend to Hades, and there  be profoundly and perfectly laid asleep." vii. 14. Bacchic Mysteries. 43   reader may observe that the obsciu'e doctrine of the Mysteries mentioned by Plato  in the Phcedo^ that the nnpurified soul in a  future state lies immerged in mire, is beautifully explained; at the same time that our  assertion concerning their secret meaning  is not less substantially confirmed.* In a  similar manner the same divine philosopher,  in his book on the Beautiful, Ennead^ I., book  vi., explains the fable of Narcissus as an emblem of one who rushes to the contemplation of sensible (phenomenal) forms as if  they were perfect realities, when at the  same time they are nothing more than Uke  beautiful images appearing in water, fallacious and vain. " Hence," says he, " as Narcissus, by catching at the shadow, plunged  himself in the stream and disappeared, so  he who is captivated by beautiful bodies,  and does not depart fi'om their embrace,  is precipitated, not with his body, but with   * Phcedo, 38. " Those who instituted the Mysteries for us appear to have intimated that whoever shall arrive in Hades unptirified and not initiated shall lie in mud; but he who arrives there  purified and initiated' shall dwell with the gods. For there are  many hearers* of the wand or thyrsus, but few who are inspired."     44 Eleusiniari and   his soul, into a darkness profound and repugnant to intellect (the higher soul),* through  which, remaining bhnd both here and in  Hades, he associates with shadows." Tov   T(ov, Tcai [j--^ ojjfiEiQ^ 00 t(o (j{\)\w-i.^ zr^ os '\'y/ri   -iX.rjXOL^O'jezrM^ BIC, axOTTStVa 7.rj.l azsrj'K'fj TO) vco  [5ai)-Tj, SvO-a T'JCpXo? SV O^d^JJ {JL£V(0V, /.oll sv taoi^a %q:x£t a%iat? oovsaTL And what still  farther confirms our exposition is that matter was considered by the Egyptians as a  certain mire or mud. " The Egyptians,"  says Simplicius, " called matter, which they  symbolically denominated water, the dregs  or sediment of the first life; matter being,  as it were, a certain mire or mud.f Aco xat  AiyuTTtioi TTjV Z'qc, xpcoxr^c C(t)'^/C, y^v 'jdcop Gtj\i|5oAt%(oc sxaXofjv, 67roaxai)-{jLT;v rr^v 'jXtjv sXsyov, oiov ihjv ziya ooaav. So that fi*om all   * Intellect, Greek vouc, nous, is the higher faculty of the mind.  It is substantially the same as the pncH))ia, or spirit, treated of in  the New Testament; and hence the term '^ iiifcUectual," as used  in Mr. Taylor's translation of the Platonic writers, may be  pretty safely read as spiritual, by those familiar with the Christian cultus. * A. W.   t Physics of Aristotle.     Bacchic Mysteries. 45   tliat has been said we may safely conclude  with Ficinus, whose words are as express to  our purpose as possible. " Lastly," says he,  "that I may comprehend the opinion of the  ancient theologists, on the state of the soul  after death, in a few words : tlieij considered^  as we have elsewhere asserted, things divine  as the only realities^ and that all others  were only the images and shadows of  truth. Hence they asserted that prudent  men, who earnestly employed themselves in  divine concerns, were above all others in a  vigilant state. But that imprudent [/. e.  without foresight] men, who pursued objects  of a different nature, being laid asleep, as it  were, were only engaged in the delusions  of dreams; and that if they happened to  die in this sleep, before they were roused,  they would be afflicted with similar and  still more dazzling visions in a future state.  And that as he who in this life pursued  realities, would, after death, enjoy the highest truth, so he who pursued deceptions  would hereafter be tormented with fallacies  and delusions in the extreme : as the one  Eleusinian and   would be delighted with true objects of  enjoyment, so the other would be tormented with delusive semblances of reality."  Denique ut priscormn theologorum  sententiam de statu animae post mortem  paucis comprehendam : sola di\ina (ut alias  diximus) arbitrantur res veras existere, rehqua esse rerum verarum imagines atque  umbras. Ideo prudentes homines, qui divinis incumbunt, prae ceteris vigilare. Impmdentes autem, qui sectantur alia, insomniis  omnino quasi dormientes illudi, ac si in  hoc somno priusquam expergefacti fuerint  moriantur similibus post (hscessum et acrioribus visionibus angi. Et sicut emn qui  in vita veris incubuit, post mortem summa  veritate potiri, sic eum qui falsa sectatus  est, fallacia extrema torqueri, ut ille rebus  veris oblectetur, hie falsis vexetur simulachris. But notwithstanding this important truth  was obscurely hinted by the Lesser Mysteries, we must not suppose that it was gen *FiciNUs: De ImmortaL Aniin. book xviii.     Bacchic Mysteries. 47   erally known even to the initiated persons  themselves : for as individuals of almost  all descriptions were admitted to these rites,  it would have been a ridiculous prostitution  to disclose to the multitude a theory so abstracted and sublime.* It was sufficient to  instruct these in the doctrine of a future  state of rewards and punishments, and in  themeans of returning to the principles  from which they originally fell : for this   * We observe in the Netv Testament a like disposition on the part  of Jesns and Paul to classify their doctrines as esoteric and exoteric, ''the Mysteries of the kingdom of God" for the apostles,  and "pai'ables" for the multitude. "We speak wisdom," says  Paul, "among them that are perfect" (or initiated), etc. 1 Corintliians, ii. Also Jesus declares : "It is given to you to know the  Mysteries of the kingdom of heaven, but to them it is not given;  therefore I speak to them in parables : because they seeing, see  not, and hearing, they hear not, neither do they understand."   Matthew xiii., 11-13. He also justified the withholding of the  higher and interior knowledge from the untaught and ill-disposed,  in the memorable Sermon on the Mount.  Matthew vii. : Give ye not that which is sacred to the dogs,  Neither cast ye your pearls to the swine;  For the swine will tread them under their feet  And the dogs will turn and rend you."   This same division of the Christians into neophytes and perfect,  appears to have been kept up for centuries; and Godfrey Higgins  asserts that it is maintained in the Roman Cliurch.  A. W. Eleusinian and   last piece of information was, according to  Plato in the PJuedo, the ultimate design of  the Mysteries; and the former is necessarily  infeiTed from the present discourse. Hence  the reason why it was obvious to none hut  the Pythagorean and Platonic philosophers,  who derived their theology from Orpheus  himseK,* the original founder of these sacred  institutions; and why we meet with no information in this particular in any writer  prior to Plotinus; as he was the first who,  having penetrated the profound interior wisdom of antiquity, delivered it to posterity  without the concealments of mystic symbols  and fabulous narratives. VIBGIL NOT A PLATONIST. Hence too, I think, we may infer, with  the greatest probabihty, that this recondite  meaning of the Mysteries was not known   * Herodotus, ii. 51, 81.   "What Orpheus delivered in hidden allegories Pythagoras  learned when he was initiated into the Orphic Mysteries; and  Plato next received a knowledge of them from the Orphic and  Pythagorean writings."     Bacchic Mysteries. 49   even to VIRGILIO himself, who has so elegantly  described their external form; for notwithstanding the traces of Platonism which are  to be found in the ENEIDE, nothing of any  great depth occurs throughout the whole,  except what a superficial reading of Plato  and the dramas of the Mysteries might easily  afford. But this is not perceived by modern  readers, who, entirely luiskilled themselves in  Platonism, and fascinated by the charms of  his poetry, imagine him to be deeply knowing  in a subject with which he was most hkely  but slightly acquainted. This opinion is still  farther strengthened by considering that the  doctrine delivered in his Eclogues is perfectly  that of THE GARDEN (L’ORTO), which was the fashionable philosophy of the age of OTTAVIANO; and that there  is no trace of Platonism in any other part of  his works but the present book, which, containing a representation of the Mysteries,  was necessarily obliged to display some of  the principal tenets of this FILOSOFIA, so  far as they illustrated and made a part of  these mystic exhibitions. However, on the  supposition that this book presents us with, Eleusinian and   a faithful view of some part of these sacred  rites, and this accompanied with the utmost  elegance, harmony, and purity of versification, it ought to be considered as an invaluable rehc of antiquity, and a precious monument of venerable mysticism, recondite  wisdom, and theological information. This  will be sufficiently e\ddent from what has  been already delivered, by considering some  of the beautiful descriptions of this book in  their natural order; at the same time that  the descriptions themselves will corroborate  the present elucidations.   In the first place, then, when he says,   faeilis descensus Averno. Noetes atque dies patet atra janua ditis :   Sed revoeare gradum, superasqiie evadere ad aiiras,   Hoe opus, hie labor est. Pauei quos sequus amavit   Jupiter, aut ardens evexit ad sethera virtus,   Dis geniti potuere. Tenent media omnia silvae,   Cocytusque siuu labens, circumvenit atro 1   * Ancient Symhol-Worship, page 11, noie.   t Davidson^s Translation.  " Easy is the path that leads down to  hell; grim Pluto's gate stands open night and day : but to retrace  one's steps, and escape to the upper regions, this is a work, this is  a task. Some few, whom favoring Jove loved, or illustrious virtue     Bacchic Mysteries. is it not obvious, from tlie preceding explanation, that by Avernus, in this place, and  the dark gates of Pluto, we mnst understand  a corporeal or external nature, the descent  into which is, indeed, at all times obvious  and easy, but to recall our steps, and ascend'  into the upper regions, or, in other words,  to separate the soul from the body by the  purifying discipline, is indeed a mighty work,  and a laborious task ? For a few only, the favorites of heaven, that is, born with the true  philosophic genius,^ and whom ardent virtue  has elevated to a disposition and capacity for  divine contemplation, have been enabled to  accomplish the arduous design. But when  he says that all the middle regions are  covered with woods, this hkewise plainly intimates a material nature; the word silva^ as  is well known, being used by ancient writers  to signify matter, and implies nothing more  than that the passage leading to the barafh advaneecl to heaven, the sons of the gods, have effected it.  Woods cover all the intervening space, and Cocytus, gliding with  his black, winding flood, surrounds it."   * /. e., a disposition to investigate for the purpose of eliciting  truth, and reducing it to practice. Meusinian and   rum [abyss] of body, /. e. into profound  darkness and oblivion, is throngh the medium of a material nature; and this medium  is surrounded by the black bosom of Cocytus,* that is, by bitter weeping and lamentations, the necessary consequence of the soul's  union with a nature entirely foreign to her  own. So that the poet in this particular perfectly corresponds with EMPEDOCLE DI GIRGENTI in the  line we have cited above, where he exclaims,  alluding to this union.   For this I weej), for this indulge my icoe,   That e'er my soul such novel realms should know.   In the next place, he thus describes the  cave, through which ^neas descended to  the infernal regions :   Spelunea alta fuit, vastoque immanis hiatu,  Scrupea, tuta lacu nigro, raemorumque tenebris :  Quam super hand ulla? poterant impune volantes  Tendere iter pennis : talis sese halitus atris  Faueicus effundens supera ad eonvexa fevebat :  Unde locum Graii dixerimt nomiue Aornum 1   * Coeytus, lamentation, a river in the Underworld.  \ Davidson’s Trnnslation.  "There was a cave profound and  hideous, with wide yawning mouth, stony, fenced by a black lake,     Bacchic Mysteries. 53   Does it not afford a beautiful representation  of a corporeal nature, of which a cave, defended with a black lake, and dark woods,  is an obvious emblem *? For it occultly reminds us of the ever-flowing and obscin*e  condition of such a nature, which may be  said   To roll incessant with impetuous speed,  Like some dai'k river, into Matter's sea.   Nor is it with less propriety denominated  Aornus, i. e. destitute of birds, or a winged  nature; for on account of its native sluggishness and inactivity, and its merged condi and the gloom of woods; over which none of the flying kind were  able to wing their way unliurt; such exhalations issuing from its  grim jaws ascended to the vaulted skies; for w^iich reason the  Greeks called the place by the name of Aornos" (without birds).   Jacob Bryant says: " All fountains were esteemed sacred, but  especially those which had any preternatural quality and abounded  with exhalations. It was an universal notion that a divine energy  proceeded from these effluvia; and that the persons who resided  in their vicinity were gifted with a prophetic quality. The  Ammonians styled such fountains Ain Omphe, or fountains of the  oracle; o|j,<pY], oniphe, signifying ' the voice of God.' These terms  the Greeks contracted to Nofj-'fY], numphe, a nymph."  Ancient  Mythology.   The Delphic oracle was above a fissure, (jnnnous or hocca inferiore, of the earth, and the pythoness inhaled the vapors.  A. W.  Eleiisinian and   tion, being situated in the outmost extremity  of tilings, it is perfectly debile and languid,  incapable of ascending into the regions of  reality, and exchanging its obscure and degraded station for one every way splendid  and divine. The propriety too of sacrificing,  previous to his entrance, to Night and Earth,  is obvious, as both these are emblems of a  corporeal nature.   In the verses which immediately follow,    Ecee autem, priini sub limina solis et ortus,  Sub peclibus mugire solum, et juga eaepta movere  Silvarum, visaque canes ululare per umbram,  Adventante dea *   we may perceive an evident allusion to the  earthquakes, etc., attending the descent of  the soul into body, mentioned by Plato in  the tenth book of his Republic;\ since the   * " So, now, at the fii-st beams and rising of tlie sun, the earth  under the feet begins to rumble, the wooded hills to quake, and  dogs were seen howling through the shade, as the goddess came  hither "   i Republic, x, 16. "After they were laid asleep, and midnight  was approaching, there was thunder and earthquake; and they  were thence on a sudden carried upward, some one way, and  some another, approaching to the region of generation like stars."     Bacchic Mysteries. 55   lapse of the soul, as we shall see more fully  hereafter, was one of the important truths  which these Mysteries were intended to reveal. And the howling dogs are symbols  of material * demons, who are thus denominated by the Magian Oracles of Zoroaster,  on account of then" ferocious and malevolent  dispositions, ever baneful to the felicity of  the human soul. And hence Matter herseK  is represented by Synesius in his first Hymn,  with great propriety and beauty, as barking  at the soul with devoimng rage : for thus he  sings, addressing himself to the Deity :   Maxap 6c x:c popov oImc,  npacpUY^JV o\r/.'(ixa, v-w. yxc,  AvaouCj a/.p.«tt xoo'^po)  lyyoc, £? t^sov v.xo.vjzi.   Which may be thus paraphrased :   Blessed! thrice blessed! who, with winged speed,  From Hyle's t dread voracious bai'kiug flies,   * Material demons are a lower grade of spiritual essences that  are capable of assuming forms which make them perceptible by  the physical senses.  A. W.   t Hijle or Matter. All evil incident to human life, as is here  shown, was supposed to originate from the connection of the soul  to material substance, the latter being regarded as the receptacle     56 EleMsinian and   And, leaving Earth's obscnrity behind,  By a light leap, directs his steps to thee.   And that material demons actually appeared to the initiated previous to the lucid  visions of the gods themselves, is evident  from the following passage of Proclus in  his manuscript Commentary on tlie first  Alcibiades : sv zaic rj.-(iozazaic tcov tsaskov  Tzrjo zr^z GoO'j Tcapo'jaia? daqiovov /iS'Gvuov £%poAat xpocpacvov~ry.t, -Ani rxr.o aov aypavtcov  ayai^cov zic zr^v ohriy 7ipoy,i7.Xou{JLSvaL /. e. In the most interior sanctities of the Mysteries, before the presence of the god, the  rushing forms of earthly demons appear, and  call the attention from the immaculate good  to matter." And Pletho (on the Oracles),  expressly asserts, that these spectres appeared in the shape of dogs.   After this, ^neas is described as proceeding to the infernal regions, through profound  night and darkness :   Ibant obscixri sola sub nocte per iimbram,  Perque domos Ditis vaciias, et inania regna.   of everything evil. But why the soul is thus immerged and punished is nowhere explained.  A. W.     Bacchic Mysteries. Quale per ineertam lunam sub luce maligna  Est iter in silvis : ubi cfehim condidit umbra  Jupiter, et rebus nox abstulit atra colorem.*   And this with the greatest propriety; for  the Mysteries, as is well known, were celebrated by night; and in the Republic of  Plato, as cited above, souls are described as  falling into the estate of generation at midnight; this period being peculiarly accommodated to the darkness and oblivion of a  corporeal nature; and to tliis circumstance  the nocturnal celebration of the Mysteries  doubtless alluded.   In the next place, the following vivid  description presents itself to our view :   Vestibulum ante ipsum, primisqiie in faiicibus Orei  Luctus, et ultrices posuere eubilia Curte :  Pallentesque habitant morbi, tristisque senectus,  Et Metus, et mala suada Fames, ac turpis egestas;   *" They went along, amid the gloom under the solitary night,  through the shade, and through the desolate halls, and empty  realms of Dis [Pluto or Hades]. Such is a journey in the woods  beneath the unsteady moon with her niggard light, when Jupiter  has enveloped the sky in shade, and the black Night has taken  from all objects their color." Eleiisinian and   Terribiles visu forraje; Lethumque Laborque;  Turn consanguineus Lethi Sopor et mala mentis Gaudia, mortiferumqiie adverso in limine bellum  Ferreique Eumenidum thalami et Discordia demons,  Vipereum crinem vittis inuexa cruentis.  In medio ramos annosaque braehia pandit  Ulmus opaca ingens : quam sedem somnia vulgo  Vana tenere feruut, foliisqlie sub omnibus ba?i'ent.  Multaque prseterea variarum monstra f erarum :  Centauri in foribus stabiilant, Scyllseque biforines,  Et centumgeminus Briareus, ac bellua Lernse,  Horrendum stridens, flammisque armata Chimgera,  Gorgones Hai'pyigeque, et foi'mo tricorpoi-is umbrae.* ^   And surely it is impossible to draw a more  lively picture of the maladies with wliich a   * "Before the entrance itself, and in the first jaws of Hell, Grief  and vengeful Cares have placed their couches; pale Diseases inhabit there, and sad Old Age, and Fear, and Want, evil goddess  of persuasion, and unsightly Poverty  forms terrible to contemplate ! and there, too, are Death and Toil; then Sleep, akin to  Death, and evil Delights of mind; and upon the opposite threshold  are seen death-bringing War, and the iron marriage-couches of  the Furies, and raving Discord, with her viper-hair bound with  gory wreaths. In the midst, an Elm dark and huge expands its  boughs and aged limbs; making an abode which vain Dreams are  said to haunt, and under whose every leaf they dwell. Besides all  these, are many monstrous api^aritions of various wild beasts. The  Centaurs harbor at the gates, and double-formed Scyllas, the hundred-fold Briareus, the Snake of Lerna, hissing dreadfully, and  Chimasra armed with flames, the Gorgons and the Harpies, and  the shades of three-bodied form." Bacchic Mysteries. material natui'e is connected; of the sonl's  dormant condition tlirougli its union with  body; and of the various mental diseases to  which, through such a conjunction, it becomes unavoidably subject; for this description contains a threefold division; representing, in the first place, the external evil with  which this material region is replete; in the  second place, intimating that the life of the  soul when merged in the body is nothing but  a dream; and, in the third place, under the disguise of multiform and terrific monsters, exhibiting the various vices of our iiTational and  sensuous part. Hence Empedocles, in perfect  conformity w^th the first part of this description, calls this material abode, or the realms  of generation,  a-c£p:r£.oc /(opov,* a '^joyless  region^   "Where slaiighter, rage, ami countless ills reside;  EvO'a <povo5 Ts %0'zoc, tj v.rv. rj^Xtuv sftvsa llYjpWV   and into which those who fall, This and the other citations from Empedocles are to be found  in the book of Hieroeles on The Golden Verses of Pythagoras. Bacchic Mysteries. Through Ate's meads and dreadful darkness stray."     And hence lie justly says to sncli a soul,  that   "She flies from deity and heav'nly light,  To serve mad Discord in the realms of night." iSf.v.ti ij.a'.vo,asv(t) -tGOvo;. Where too we may observe that the Discordla  demens of Virgil is an exact translation of  the Nsixst {iaivo{j.£vco of Empeclocles.     In the hues, too, which immediately succeed, the sorrows and mournful miseries  attending the soul's union with a material  nature, are beautifully described.   Hinc via, Tartarei quae fert Aeherontis ad nndas;  Turbidus hie caeno vastaque voragine gurges  ^stuat, atque omuem Coeyto eructat arenam. And when Charon calls out to ^neas to "Here is the way whieli leads to the surging billows of Hell  [Acheron]; here an abyss turbid boils up with loathsome mud and  vast whirlpools; and vomits all its quicksand into Cocytus."      IJiaua auct Calisto.     Bacchic Mysteries. 63   desist from entering any farther, and tells  him,   " Here to reside delusive shades delight;   ''F.or nought dwells here but sleep and drowsy night. Umbrarum hie locus est, Somni Noctisque soporse   nothing can more aptly express the condition of the dark regions of body, into which  the soul, when descending, meets with nothing but shadows and drowsy night : and  by persisting in her course, is at length lulled  into profound sleep, and becomes a true inhabitant of the phantom-abodes of the dead.   ^neas having now passed over the Stygian lake, meets with the three-headed monster Cerberus,* the guardian of these infernal  abodes :   Tandem trans fluvium incolumis vatemque virumque  Informi limo glaueaque exponit in ulva. The presence of Cerberus in the ROMAN description  of the underworld shows that the ideas of the poets and mythologists were derived, not only from Egypt, but from the Brahmans  of the far East. Yama, the lord of the Underworld, is attended  by his dog Karharu, the spotted, styled also Trikasa, the three-headed. Meusinian and   Cerberus haec ingens latratu regna trifauci  Personat, adverse recubaus immanis in antro. By Cerberus we must understand the discriminative part of the soul, of which a dog,  on account of its sagacity, is an emblem; and  the three heads signify the triple distinction  of this part, into the intellective [or intuitional], cogitative [or rational], and opinionative powers. With respect f to the three  kinds of persons described as situated on the  borders of the infernal realms, the poet  doubtless intended by this enumeration to  represent to us the three most remarkable  At length across the river safe, the prophetess and the man,  he lands upon the slimy strand, upon the blue sedge. Huge Cerberus makes these realms [of death] resound with barking from his  threefold throat, as he lies stretched at prodigious length in the  opposite cave."   tin the second edition these terms are changed to dianoietic  and doxastic, words which we cannot adopt, as they are not  accepted English terms. The nous, intellect or spirit, pertains  to the higher or intuitional part of the mind; the dianoia or  understanding to the reasoning faculty, and the doxa, or opinionforming power, to the faculty of investigation.  Plotinus, accepting this theory of mind, says: "Knowledge has three degrees   opinion, science, and illumination. The means or instrument of  the first is reception; of the second, dialectic; of the third, intuition." A. W.   Bacchic Mysteries. characters, wlio, though not apparently deserving of punishment, are yet each of them  similarly im merged in matter, and consequently require a similar degree of purification. The persons described are, as is well  known, first, the souls of infants snatched  away by untimely ends; secondly, such as  are condemned to death unjustly; and, thirdly, those who, weary of their lives, become  guilty of suicide. And with respect to the  first of these, or infants, their connection  with a material nature is obvious. The second sort, too, who are condemned to death  unjustly, must be supposed to represent the  souls of men who, though innocent of one  crime for which they were wrongfully punished, have, notwithstanding, been guilty of  many crimes, for which they are receiving  proper chastisement in Hades, i. e, through  a profoiuid union with a material nature.*  And the third sort, or suicides, though ap * Hades, the Underworld, supposed by classical students to be  the region or estate of departed souls, it will have been noticed, is  regarded by Taylor and other Platonists, as the human body,  which they consider to be the grave and place of punishment of  the soul.  A. W. Eleusinian and   parently separated from the body, have only  exchanged one place for another of similar  nature; since conduct of this kind, according  to the arcana of divine philosophy, instead  of separating the soul from its body, only  restores it to a condition perfectly correspondent to its former inchnations and habits,  lamentations and woes. But if we examine  this affair more profoundly, we shall find  that these three characters are justly placed  in the same situation, because the reason of  punishment is in each equally obscure. For  is it not a just matter of doubt why the  souls of infants should be punished? And  is it not equally dubious and wonderful why  those who have been unjustly condemned to  death in one period of existence should be  punished in another? And as to suicides,  Plato in Ms PJicvdo says that the prohibition  of this crime in the aTzorjfjrfa {aporrheta) is a profound doctrine, and not easy to be  Aporrheta, tbe areaue or confidential disclosures made to the  candidate undergoing initiation. In the Eleusinia, these were  made by the Hierophant, and enforced by him from the Book  of InterpretatInterpretation, said to have consisted of two tablets of stone.  This was the petroma, a name usuallj' derived from j^e^ra, a rock, Bacchic Mysteries.  understood.* Indeed, the true cause why  the two first of these characters are in Hades,  can only be ascertained from the fact of a prior  state of existence, in surveying which, the  latent justice of punishment will be manifestly revealed; the apparent inconsistencies  in the administration of Providence fully  reconciled; and the doubts concerning the  wisdom of its proceedings entirely dissolved.  And as to the last of these, or suicides, since  the reason of their punishment, and why an  action of this kind is in general highly  atrocious, is extremely mystical and obscure,  the following solution of this difficulty will,  no doubt, be gratefully received by the Platonic reader, as the whole of it is no where  else to be found but in manuscript. Olym or possibly from iflD, J)eier, an interpreter. See //. Corinthians. A. W.  PJuedo, The instruction in the doctrine given in the  Mysteries, that we human beings are in a kind of prison, and  that we ought not to free ourselves from it or seek to- escape,  appears to me difficult to be understood, and not easy to apprehend. The gods take care of us, and we are theirs."   Plotinus, it will be remembered, perceived by the interior  faculty that Porphyry contemplated suicide, and admonished  him accordingly.  A. W. Eleusinian and   piodorus, then, a most learned and excellent  commentator on Plato, in his commentary  on that part of the PJuedo where Plato  speaks of the prohibition of suicide in the  aporrhefa, observes as follows: "The argument which Plato employs in this place  against suicide is derived fi^om the Orphic  mythology, in which foui" kingdoms are  celebrated; the first of Uranus [Ouranos]  (Heaven), whom Ki'onos or Satm^n assaulted, cutting off the genitals of his  father. But after Saturn, Zeus or Jupiter  succeeded to the government of the world,  having hurled his father into Tartarus. And  after Jupiter, Dionysus or Bacchus rose to  light, who, according to report, was, through  the insidious treachery of Hera or Juno, torn  in pieces by the Titans, by whom he was surrounded, and who afterwards tasted his flesh :  but Jupiter,enraged at the deed, hurled his  thunder at the guilty offenders and consumed  them to ashes. Hence a certain matter beIn the Hindu mythology, from which this symbolism is  evidently derived, a deity deprived thus of the lingam or phallus, parted with his diviue authority.     Bacchic Mysteries. ing formed from the ashes or sooty vapor  of the smoke ascending from their burning  bodies, out of this mankind were produced.  It is unlawful, therefore, to destroy ourselves,  not as the words of Plato seem to unport,  because we are in the body, as in prison,  secured by a guard (for this is evident,  and Plato would not have called such an  assertion arcane), but because our body is  Dionysiacal,* or of the nature of Bacchus :  for we are a part of him, since we are  composed from the ashes, or sooty  vapor of the Titans who tasted his  flesh. Socrates, therefore, as if fearful of  disclosing the arcane part of this narration, relates nothing more of the fable  than that we are placed as in a prison  secured by a guard : but the interpreters relate the fable openly." Koci z^zi zo {j.'ji>c7,ov  s-jrc/sijOT^pioL TGCOUtov. Ilapa tcp Oprpst xsaaaps^  paaiXsiat 'juapa^c^ovxaL Ilptor^ [jisv, rj xo'j  Oopctvoy, Tjv 6 Kpovoc Sis^s^axo, sxtsij-cov xct  atSota zoo 'irairpoc. Msxa qt^ tov Kpovov, 6   * From Dionysus, the Greek name of Bacchus, and usually so  translated.     70 Elensinian and   Ze'jc £p7.3'J.£'j3£v '/.c/.-aTapxapwaac 'uov 7:7.zz[j^j.. Vjizrj. -ov Ac7. ^Ls^scato 6 Atov'jaoc, 6v  (paac '/.at' £i:c[io'jAY^v rr^? 11^7.^ todc :r£pi a'jto'j  TtTavac STrapaTrstv, %7.c tcov aapxtov a'jtcj   £7,cp7.'JV(03£, X7.t £7, "T^? 7.Cl)-7.AY^C '^03V 7.i:{J-C0V  '(OV 7.V7.50i)-£Vr(OV £s 7.'J':C0V, 6aT^s Y£V0{J-£VY^^  YEVEGil-a^ lO'JC 7.V\)-p(OTrO!JC. Ou 0£l GOV ECa^frj.  Y£CV Y/^i.7.;: £7'J-0'J^, O'J/ OZl 0)^ 5o%£l }v£Y£'.V Y^   Xe^iQ, 5io-'. £v Tiv: 5£C[X(o £a{j-£v xc;3 a(0|X7.rr   TO'JTO Y'^-I^ 5y^).0V £C"^ y.7.l 0'J% 7.V 'ZO'JZO 7.7:0pP(J.-0V £X£Y£, 7./X OZl O'J OSl £^7.Y7Y£LV Y^{J.7^  ka.OZ'j'JZ MC, ZO'J (jO)\XazrjC, Y^{X(0V 5i0V'J3C7.%0U  OVrO:;' 'jX£pO^ Y'^-P '^-'J''^'J £3[1£V, £rj'£ £% tYjC   al^•'yXr^z xwv Ti':7.vcov a'JY/.£qJL£i)-7. y^'->^''^-1^*~   V(OV ZiOy a7.p7,(0V XOrjtOy. '0 {JL£V O'JV ]^(07,p7XY;C £pY^!^ '^'^ 7.7U0pp'^I0V 5£l'X,V'JC, XO'J {J-'Ji)-0'J   0'jo£v 7rA£ov TupoaxiiJ-jxat xoo (o? £v xivi rppo'jpa  £a(JL£v. 'Oi 5£ £^YjYYjT;7.i xov jx'jO-ov xpoaxiO-£7a:v £|(oi)-£v. After this he beautifully observes, " That these four governments signify  the different gradations of virtues, according to which oui^ soul contains the symbols  of all the qualities, both contemplative and  purifying, social and ethical; for it either     Bacchic Mysteries. 71   operates acoording to the theoretic or contemplative virtues, the model of which is the  government of Uranus or Heaven^ that we  may begin from on high; and on this account Uranus (Heaven) is so called irctpa  TOO la avco 6pc/.v, from beholding the things  above : Or it lives purely, the exemplar of  which is the Kronian or Satiu^nian kingdom;  and on this account Kronos is named as  Koro-nous, one who perceives through himself. Hence he is said to devour his own  offspring, signifying the conversion of himself into his own substance : or it operates  according to the social virtues, the symbol of which is the government of Jupiter.  Hence, Jupiter is styled the Demiurgus,  as operating about secondary things :  or  it operates according to both the ethical  and physical virtues, the symbol of which  is the kingdom of Bacchus; and on this  account is fabled to be torn in pieces by  the Titans, because the virtues are not cut  off by each other." Aiyozzoyzai (lege aLVL-ctovtat) 5s zo'jc, ocarpspofjc '^jrj.^\i.o'jc, x(ov apsxtov v.rj.d-' ac, -ri fj{X£xspa ^^yji ayjApoXa e'/oo:ja  Bacchic Mysteries.   iraawv tcov apsKov, icov tis O-scopYj'iL'jctov, otat   yap ')C7.-a xa^ {^SfoprjitTca? svspyst cbv Tza^jo.^sr^xc/. Tj xo'j oopavotj pctaLAsta, lv7. avoiii-sv  ap^a{j.£i)-a, 5io y,at orjp7.voc sipr^'a: irapa xo'j  T7. av(o opcjLV. 'H '/c^i^apTi^o)? C'^j? '^jC 'irapaSstyjxa Y; Kpovsia jiaacXstc/., oio %at Kpovoc stp'Ajtai OLOv xopovofjc tic 03V 5ia zo s7.ytov  6pav. Aio y,7/w xaxamveiv ta ocxsia ysw/){laxa Xsysta^ (o? a'jro^ 'jrpoc saozov sTutatpscpcov. 'H 7,7.1:7. X7.C TcoXtttxac tov arj{j.|3oAov, T)   XOU AlOZ ^7.aLX£t7., OLO %7.t $Tj{J.tGfJpYOC 6 ZstJt;,   (0? TuspL t;7 $£'jr£p7. svspYcov. 'H %at7 tac r^^'l %aC %7C CpDa:7,7.? 7.p£'C7.C, tOV aUV^oXoV, Tj tou   A'.ovfjaou paatXsca, 5co y-ai a^apa-Tsrai, 5wti  O'JT, aviate- AooO-o'jaiv aXXr^Xatc 7.t 7.p£X7.i.  And thus far Olympiodorus; in which passages it is necessary to observe, that as the  Titans are the artificers of things, and stand  next in order to their creations, men are  said to be composed from their fragments,  because the human soul has a partial life  capable of proceeding to the most extreme  division united with its proper natiu'e. And  while the soul is in a state of servitude to Kleusinian Mysteries.  Bacchic Mysteries. the body, she hves confined, as it were, in  bonds, througli the dominion of this Titanical life. We may observe farther concerning  these dramatic shows of the Lesser Mysteries, that as they were intended to represent the condition of the soul while  subservient to the body, we shall find that  a liberation from this servitude, through the  purifying disciplines, potencies that separate  from evil, was what the wisdom of the ancients intended to signify by the descent of  Hercules, Ulysses, etc., into Hades, and their  speedy return from its dark abodes. ' ' Hence,"  says Proclus, " Hercules being purified by  sacred initiations^ obtained at length a perfect estabhshment among the gods:"* that  is, well knowing the dreadful condition of  his soul while in captivity to a corporeal  nature, and purifying himself by practice of  the cleansing virtues, of which certain purifications in the mystic ceremonies were symbolical, he at length was freed from the  bondage of matter, and ascended beyond her   Commentary on the Statesman of Plato. Meusinian and   reach. On this account, it is said of him,  that  He dragg'd the three-mouth'd dog to upper day;  intimating that by temperance, continence,  and the other virtues, he drew upwards the  intuitional, rational, and opinionative part of  the soul. And as to Theseus, who is represented as . suffering eternal punishment in  Hades, we must consider him too as an  allegorical character, of which Proclus, in the  above-cited admirable work, gives the following beautiful explanation : " Theseus and  Pirithous," says he, " are fabled to have abducted Helen, and descended to the infernal  regions, i. e. they were lovers both of mental  and visible beauty. Afterward one of these  (Theseus), on account of his magnanimity,  was Hberated by Hercules from Hades; but  the other (Pirithous) remained there, because he could not attain the difficult height  of divine contemplation." This account, indeed, of Theseus can by no means be reconciled with VIRGILIO’s: sedet, seternumque sedebit,   Infelix Theseus. There sits, and forever shall sit, the unhappy Theseus. Bacchic Mysteries. Nor do I see how VIRGILIO can be reconciled  with himself, who, a httle before this, represents him as hberated from Hades. The  conjecture, therefore, of Hyginus is most  probable, that VIRGILIO in this particular committed an oversight, which, had he lived, he  would doubtless have detected, and amended.  This is at least much more probable than the  opinion of Dr. Warbm^ton, that Theseus was  a living character, who once entered into the  Eleusinian Mysteries by force, for which he  was imprisoned upon earth, and afterward  punished in the infernal realms. For if this  was the case, why is not Hercules also  represented as in punishment? and this  with much greater reason, since he actually  dragged Cerberus from Hades; whereas the  fabulous descent of Theseus was attended  with no real, but only intentional, mischief.  Not to mention that Virgil appears to be  the only writer of antiquity who condemns  this hero to an eternity of pain.  Nor is the secret meaning of the fables  concernmg the punishment of impure souls     78 Eleusinian and   less impressive and profound, as the following extract fi'om the manuscript commentary  of Olympiodorus on the GORGIA DI LEONZIO of Plato will  abundantly affirm:  "Ulysses," says he,  " descending into Hades, saw, among others,  Sisyphus, and Tityus, and Tantalus. Tityus  he saw lying on the earth, and a vulture devouring his liver; the liver signifying that  he lived solely according to the principle of  cupidity in his natiu'e, and tln^ough this was  indeed internally prudent; but the earth  signifies that his disposition was sordid. But  Sisyphus, living under the dominion of ambition and anger, was employed in continually  rolling a stone up an eminence, because it  perpetually descended again; its descent implying the vicious government of himself;  and his rolling the stone, the hard, refractory,  and, as it were, rebounding condition of his  hf e. And, lastly, he saw Tantalus extended  by the side of a lake, and that there was a  tree before him, with abundance of fruit on  its branches, which he desired to gather, but  it vanished from his view; and this indeed  indicates, that he lived under the dominion   Bacchic Mysteries.of phantasy; but his hanging over the lake,  and in vain attempting to drink, imphes the  elusive, humid, and rapidly-ghding condition  of such a hfe." '0 O^uaasa? xaxsX^wv sec   cf'^o'j, oiQZ zoy Slgo^'ov, y.rji z^jV Tcc'jov, '/otc  xov TavraXov. Kc/.t tov {xsv TtTuov, st:'. xt^c  yrj? £t§s %£L[X£Vov, vcat oxc xo r^Trajj aoxoo r^aO-tsv  Y'j'|. To {JL£V GOV T^Tuap GTjiJ-aLvst oxt ya-cct xo   STTtiJ'DJJL'/^XL/.OV fJ-SpOC sCTjaS, XOLl §17. XOfJXO £C3(0   cppovxiCs'co. 'H 5s Y'^j OYjiJiaLvst xo yO-ovtov  a'jxoy '-ppovrjiia. 5s -Itaocpoc, 7,axa xo cp^XoxqjLov, y.7.t O-ujJLOscSsi; C'^aa? sy-uXis xov Xcr)-ov,  %at TuaXtv %ax£cp£p£v, £7U£i5£ T:£pi afjxc/. xaxap p£C, 7,7.7,(0^ 'jroXtX£00{JL£VOC. AtO^OV 0£ £7,oXt£,   hirj, XO axXrjpov, %ac avxixuTcov xyjc auxoa C<'>''JCTov o£ T7.vx7.A0v £t.5£v £v Xt{JLV (lege Xqj.virj)   %7.l OXt £V 5£v5pOtC '^a7.V 07:(0p7.'., ■X,7.L T^{)'£X£   xpuyav, X7.t wj^rjyziQ ^^^v/o^zo ai o^copat.   TOUXO 5£ arj{X7.CV£t XTjV 7,7x7. (p7.VX7.ai7.V Cto'^v.   Aox'/j 5£ aTj[j,7.v£t xo oXiaO-'/jpov 7,7.t ^lopyov,  %7t i9'7.xxov7. 'jLO'!77.yo|jL£vov. So that according to the wisdom of the ancients, and the  most sublime philosophy, the misery which  a soul endures in the present life, when giving itself up to the dominion of the irrational     80 Elensinian and   part, is nothing more than the commencement, as it were, of that torment which it  win experience hereafter : a torment the  same in kind though different in degree, as  it will be much more di'eadful, vehement,  and extended. And by the above specimen,  the reader may perceive how infinitely superior the explanation which the Platonic philosophy affords of these fables is to the frigid  and trifling interpretations of Bacon and  other modern mythologists; who are able  mdeed to point out their correspondence to  something in the natui'al or moral world, because such is the wonderful connection of  things, that all things sympathize with all,  but are at the same time ignorant that these  fables were composed by men divinely wise,  who framed them after the model of the  highest originals, from the contemplation of  real and permanent heing, and not from regarding the delusive and fluctuating objects  of sense. This, indeed, mil be evident to  every ingenuous mind, from reflecting that  these wise men universally considered Hell  or death as commencing in the present life  Baccldc Mysteries. 81   (as we have already abundantly proved), and  that, consequently, sense is nothing more  than the energy of the dormant soul, and a  perception, as it were, of the delusions of  di'eams. In consequence of tliis, it is absurd in the highest degree to imagine that  such men would compose fables from the  contemplation of shadows only, without regarding the splendid originals from which  these dark phantoms were produced :  not  to mention that their harmonizing so much  more perfectly with intellectual explications  is an indisputable proof that they were derived from an intellectual [noetic] source.   And thus much for the dramatic shows  of the Lesser Mysteries, or the first part of  these sacred institutions, which was properly  denominated xsXst-r] [telete^ the closing up]  and [vrrpiz Muesis [the initiation], as containing certain perfective rites, symbolical exhibitions and the imparting and reception of  sacred doctrines, previous to the beholding of  the most splendid visions, or ETuoTutsta \epopteia, seership]. For thus the gradation of  Bacchic Mysteries.   the Mysteries is disposed by Proclus in  Theology of Plato, book iv. " The perfective  rite [rsXsrrj, telete],^^ says he, " precedes in order the initiation [\xorpiQ, muesis], and initiation, the final apocalypse, epopteiay npoY^yst STzoiizziaQ.* At the same time it is proper to  observe that the whole business of initiation  was distributed into five parts, as we are  informed by Theon of Smyrna, in Matliematica, who thus elegantly compares philosophy  to these mystic rites : " Again," says he,  " philosophy may be called the initiation into  true sacred ceremonies, and the instruction  in genuine Mysteries; for there are five  parts of initiation : the first of which is the  previous purification; for neither are the  Mysteries communicated to all who are  wilhng to receive them; but there are certain persons who are prevented by the voice  of the crier [%Tjpu^, herux^, such as those  who possess impure hands and an inarticulate voice; since it is necessary that such  as are not expelled from the Mysteries   * Theology of Plato. Bacchic Mysteries. 85   should first be refined by certain purifications : but after purification, the reception of  the sacred rites succeeds. The third part is  denominated epopfeia, or reception.* And  the fourth, which is the end and design of the  revelation, is [the investiture] the binding of  the head and fixing of the crowns. The initiated person is, by this means, authorized  to communicate to others the sacred rites  in which he has been instructed; whether  after this he becomes a torch-bearer, or an  hierophant of the Mysteries, or sustains some  other part of the sacerdotal office. But the  fifth, which is produced from all these, is  friendship and interior commtmion with  God, and the enjoyment of that felicity  which arises from intimate converse with  divine beings. Similar to this is the communication of political instruction; for, in  the first place, a certain purification precedes,   * Theon appears to regard the final apocalypse or epopteia, like  E. Poeocke to whose views allusion is made elsewhere. This  writer says : " The initiated were styled ebaptoi," and adds in a  foot-note  " Avaptoi, literaWj obtaining or getting." According  to this the epopteia would imply the final reception of the interior  doctrines.  A. W. Eleusinian and   or else an exercise in proper matliematical  discipline from early youth. For thus Empedocles asserts, that it is necessary to be  purified from sordid concerns, by drawing  from five fountains, with a vessel of indissoluble brass : but Plato, that purification  is to be derived fi'om the five mathematical  disciplines, namely from arithmetic, geometry, stereometry, music, and astronomy; but  the philosophical instruction in theorems,  logical, pohtical, and physical, is similar to  initiation. But he (that is, Plato) denominates zTzoizzzirj, [or the reveahng], a contemplation of things which are apprehended intuitively, absolute truths, and ideas. But he  considers the binding of the head, and coronation, as analogous to the authority w^hich any  one receives from his instructors, of leading  others to the same contemplation. And the  fifth gradation is, the most perfect fehcity  arising from hence, and, according to Plato,  an assimilation to divinity^ as far as is possible to mankind." But though s'jroTrTS'.a,  or the rendition of the arcane ideas, principally characterized the Greater Mysteries, yet     Bacchic Mysteries. 87   this was likewise accompanied with the [j.uyjGLc, or initiation, as will be evident in the  conrse of this inquuy.   But let US now proceed to the doctrine of  the Greater Mysteries : and here I shall endeavor to prove that as the dramatic shows  of the Lesser Mysteries occultly signified the  miseries of the soul while in subjection to  body, so those of the Grreater obscurely intimated, by mystic and splendid visions, the  felicity of the soul both here and hereafter,  when purified from the defilements of a  material nature, and constantly elevated to  the realities of intellectual [spiritual] vision.  Hence, as the ultimate design of the Mysteries, according to Plato, was to lead us back  to the principles from which we descended,  that is, to a perfect enjoyment of intellectual  [spiritual] good, the imparting of these principles was doubtless one part of the doctrine  contained in the airoppTjia, aporrheta, or secret discourses; * and the different purifica * The apostle Paul apparently alludes to the disclosing of the  Mystical doctrines to the epopts or seers, in his Second Epistle  to the Corinthians, xii. 3, 4: "I knew a certain man,  whether in Eleusinian and   tions exhibited in these rites, in conjunction  with initiation and the epopteia were symbols  of the gradation of virtues requisite to this  reascent of the soul. And hence, too, if this  be the case, a representation of the descent of  the soul [from its former heavenly estate]  must certainly form no inconsiderable part of  these mystic shows; all which the f ollomng  observations will, I do not doubt, abundantly  evince.   In the first place, then, that the shows of  the Greater Mysteries occultly signified the  felicity of the soul both here and hereafter,  when separated from the contact and influence of the body, is evident from what has  been demonstrated in the former part of this  discourse : for if he who in the present life is  in subjection to Ms irrational part is truly  in ITades, he who is superior to its dominion  is liheivise an inhahitayit of a place totally  different from Hades* If Hades therefore   body or outside of body, I know not: God knoweth,  who was  rapt into paradise, and heard appv]xr/. pYjfxata, tilings ineffable,  which it is not lawful for a man to repeat."   *Paul, Epistle to the PhlUpjnans, iii, 20: "Our citizenship is  in the heavens."     Bacchic Mysteries. 89   is the region or condition of punishment and  misery, the purified soul must reside in the  regions of bhss; in a hf e and condition of  purity and contemplation in the present life,  and entheastically,* animated by the divine   * Medical and Surgical Bejiorter Those  who have professed to teach their fellow-mortals new truths eoncerning immortality, have based their authority on direct divine  inspiration. Numa, Zoroaster, Mohammed, Swedenborg, all  claimed communication with higher spirits; they were what the  Greeks called eniheast  'immersed in God'  a sti'iking word  which Byron introduced into our tongue." Carpenter describes  the condition as an automatic action of the brain. The inspired  ideas arise in the mind suddenly, spontaneously, but very vividly,  at some time when tliinhing of some other topic. Francis Galton  defines genius as " the automatic activity of the mind, as distinguished from the effort of the will,  the ideas coming by inspiration." This action, says the editor of the Reporter, is largely  favored by a condition approaching mental disorder  at least by  one remote from the ordinary working day habits of thought.  Fasting, prolonged intense mental action, gi-eat and unusual commotion of mind, will produce it; and, indeed, these extraordinary  displays seem to have been so preceded. Jesus, Buddha, Mohammed, all began their careers by fasting, and visions of devils followed by angels. The candidates in the Eleusinian Mysteries  also saw visions and apparitions, while engaged in the mystic  orgies. "We do not, however, accept the materialistic view of this  subject. The cases are enftieasHe; and although hysteria and  other disorders of the sympathetic system sometimes imitate the  phenomena, we believe with Plato and Plotimis, that the higher  faculty, intellect or intuition as we prefer to call it, the noetic part  of our nature, is the faculty actually at work. "By reflection, Eleusinian and   energy, in the next. This being admitted,  let us proceed to consider the description  which Virgil gives us of these fortunate  abodes, and the latent signification which  it contains, ^neas and his guide, then, having passed tlu^ough Hades, and seen at a distance Tartarus, or the utmost profundity of  a material nature, they next advance to the  Elysian fields :   Devenere locus Isetos, et amaena vireta  Fortunatoi'uin nemorum, sedesque beatas.  Largiov Me campos gether et lumine vestit  Purpureo; solemque suum, sua sidera norunt. * Now the secret meaning of these joyful  places is thus beautifully unfolded by Olympiodorus in his manuscript Commentary on  the Gorgias of Plato. "It is necessary to  know," says he, " that the fortunate islands  are said to be raised above the sea; and   self-knowledge, and intellectual discipline, the soul can be raised  to the vision of eternal truth, goodness, and beauty  that is, to  the vision of God." This is the epopteia.  A. W.  They came to the blissful regions, and delightful gi'eeu retreats, and happy abodes in the fortunate gi'oves. A freer and  purer sky here clothes the fields with a purjile light; they recoguize their own suu, their own stars."     Bacchic Mysteries. 91   hence a condition of being, which transcends  this corporeal hfe and generated existence, is  denominated the islands of the blessed; but  these are the same with the Elysian fields.  And on this account Hercules is said to  have accomphshed his last labor in the Hesperian regions; signifying bythis, that having  vanquished a dark and earthly life he afterward hved in day, that is, in truth and light."  Asc 5s st^svai ozi w. Yfpoi uTTspxu'jrxGoaiv zt^q  i)-aXaaa'rj? avco-cspw otjoai. Tt;v oov Tzokizsiay  XTjV 67:£|v7,u^0Laav too fjioo if.rji z'qc, ysvY^ascoc,  {jLa7,7.p(ov VTjaouc '/.''jXo'JOI. TaoTC/v $£ saxi vcc/.t  xo ^qkocjiw TtS^iov. Airy, zoi zoozo xat 6 'Hpay,Xtj^ zeXeozaioy alJ-Xov sv xo:;; saTTspcocc {xspsatv  s'jTorr^aaxo, 7.vxi xax'^jYcovcaato xov axoxstvov jcai yO-oviov pwv, xai Xotirov sv '^^t^spcf., oaxiv  sv rjXrid-sio^ %rxi rp(oxi sC'^- So that he who  in the present state vanquishes as much  as possible a corporeal life, through the  practice of the piu'ifying virtues, passes in  reahty into the Fortunate Islands of the soul,  and lives surrounded with the bright splendors of truth and wisdom proceeding from  the sun of good.     92 Bacchic Mysteries.   The poet, in describing the employments   of the blessed, says :   Pars in gramineis exereent membra paleestris :  Coutendunt ludo, et f ulva luctantur arena :  Pars pedibus plaudunt choreas, et carmina dicunt.  Nee non Threicius longa cum veste saeerdos  Obloquitur uumeris septem discrimina vocum:  lamque eadem digitis, jam pectiue pulsat eburno.  Hie genus antiquum Teucri, puleherrima proles,  Magnanimi heroes, nati melioribus annis,  Illusque, Assaracusque, et TroJEe Dardanus auctor.  Arma procul, currusque virum miratur inanis.  Stant terra defixse hastse, passimque soluti  Per campum pascuntur equi. Quae gratia curruum  Armorumque fuit vivis, quae cura nitentis  Pascere equos, eadem sequitur tellure repostos.  Conspicit, ecee alios, dextra laevaque per herbam  Vescentis, Isetumque choro Pgeana eanentis.  Inter odoratum lauri nemus : unde superne  Pliu'imus Eridaui per silvam volvitur amnis. Some exercise their limbs upon the grassy field, contend in  play and wrestle on the yellow sand; some dance on the ground  and utter songs. The priestly Thracian, likewise, in his long  robe [Orj^heus] responds in melodious numbers to the seven  distinguished notes; and now strikes them with his fingers, now  with the ivory quill. Here are also' the ancient race of Teucer,  a most illustrious progeny, noble heroes, born in happier j-ears,   II, Assarac, and Dardan, the founder of Troy, ^neas looking  from afar, admires the arms and empty war-cars of the heroes.  There stood spears fixed in the ground, and scattered over the  plain horses are feeding. The same taste which when alive      •'i%^!^mm^      Eleusiuiau Mj'steries.     Bacchic Mysteries. 95   This must not be understood as if the soul  in the regions of fehcity retained any affection for material concerns, or was engaged in  the trifling pursuits of the everyday corporeal life; but that when separated from  generation, and the world's life, she is constantly engaged in employments proper to the  higher spiritual nature; either in divine contests of the most exalted wisdom; in forming  the responsive dance of refined imaginations; in tuning the sacred lyi'e of mystic  piety to strains of divine fury and ineffable  dehght; in giving free scope to the splendid  and winged powers of the soul; or in  nourishing the higher intellect with the substantial banquets of intelligible [spiritual]  food. Nor is it without reason that the  river Eridanus is represented as flowing  through these delightful abodes; and is at   these men had for chariots and arms, the same passion for rearing glossy steeds, follow them reposing beneath the earth. Lo!  also he views others, on the right and left, feasting on the grass,  and singing in chorus the joyful pteon, amid a fragrant grove of  laui'el; whence from above the greatest river Eridanus rolls  through the woods."  A peeon was chanted to Apollo at Delphi every seventh day.     96 Eleusinian and   the same time denominated plurimus (greatest), because a great part of it was absorbed  in the earth without emerging from thence :  for a river is the symbol of hfe, and consequently signifies in this place the intellectual  or spii'ituaJ life, j)roceeding from on liigh, that  is, from divinity itself, and gliding with prolific energy through the hidden and profound  recesses of the soul.   In the following lines he says :   Nulli eerta domus. Lucis habitamus opacis,  Riparumque toros, et prata recentia rivis  Incolimus.*   By the blessed not being confined to a particular habitation, is implied that they are  perfectly free in all things; being entirely  free from all material restraint, and purified  from all inclination incident to the dark  and cold tenement of the body. The shady  groves are symbols of the retiring of the  li     ' No one of us has a fixed abode. We inhabit the dark groves,  and occupy couches on the river-banks, and meadows fresh with  little rivulets."     Bacchic Mysteries. soul to the depth of her essence, and there,  by energy solely divine, establishing herself  in the ineffable principle of things.* And  the meadows are syin])ols of that prolific  power of the gods through which all the  variety of reasons, animals, and forms was  produced, and which is here the refreshing pastui'e and retreat of the hberated  soul.   But that the communication of the knowledge of the principles from which the soul  descended formed a part of the sacred Mysteries is evident from Yirgil; and that this  was accompanied with a vision of these principles or gods, is no less certain, from the  testimony of Plato, Apuleius, and Proclus.  The first part of this assertion is evinced by  the following beautiful lines :   * Plato: BepiihUc, vi. 5. "He who possesses the love of true  knowledge is naturally carried in his aspirations to the real principle of being; and his love knows no repose till it shall have been  united with the essence of each object through that jiart of the soul,  which is akin to the Permanent and Essential; and so, the divine  conjunction having evolved interior knowledge and truth, the  knowledge of being is won." EleiiHinian and   Prineipio cfelum ac tei-ras, eamposque liquentes   Lucentemque globum luuas, Titauiaque astra   Spiritus intus alit, totumque infusa per artus   Mens agitat molem, et magno se corpore miscet.   Inde hominum peeudiimque genus, vitseque volantum,   Et qu£e marmoreo fert monstra sub sequore pontus.   Igneus est oUis vigor, et cselestis origo   Seminibus, quantum non uoxia corpora tardant,   Terrenique hebetant artus, moribundaque membra.   Hinc metiiunt cupiuntque : dolent, gaudentque : neque auras   Despieiunt clausa tenebris et carcere csecc*   For the sources of the soul's existence are  also the principles from which it fell; and  these, as we may learn from the Thnams of  Plato, are the Demiurgus, the mundane soul,  and the junior or mundane gods.f Now, of   * "First of all the interior spirit sustains the heaven and earth  and watery plains, the illuminated orb of the moon, and the Titanian stars; and the Mind, diffused through all the members, gives  energy to the whole frame, and mingles with the vast body [of the  universe]. Thence proceed the race of men and beasts, the vital  souls of birds and the brutes which the Ocean breeds beneath  its smooth surface. In them all is a potency like fire, and a  celestial origin as to the rudimentary principles, so far as they  are not clogged by noxious bodies. They are deadened by earthly  forms and members subject to death; hence they fear and desire,  grieve and rejoice; nor do they, thus enclosed in darkness and  the gloomy prison, behold the heavenly air."   \ Timceus. xliv. "The Deity (Demiurgus) himself formed the  divine; and then delivered over to his celestial offspring [the     Bacchic Mysteries. these, the mundane intellect, which, according to the ancient theology, is represented  by Bacchus, is principally celebrated by the  poet, and this because the soul is particularly distributed into generation, after the  manner of Dionysus or Bacchus, as is evident  from the preceding extracts from Olympiodorus : and is still more abundantly confirmed  by the following curious passage from the  same author, in his comment on the Plicedo of  Plato. " The soul," says he, " descends Corically [or after the manner of Proserpine]  into generation,* but is distributed into generation Dionysiacally,t and she is bound in  body PrometheiacallyJ and Titanically: she  fi'ees herself therefore from its bonds by exercising the strength of Hercules; but she   subordinate or generated gods], the task of creating the mortal.  These subordinate deities, copying the example of their parent,  and receiving from his hands the immortal principles of the human  soul, fashioned after this the mortal body, which they consigned  to the soul as a vehicle, and in which they placed also another  kind of a soul, which is mortal, and is the seat of violent and fatal  passions."   * That is to say, as if dying. Kore was a name of Proserpina.   t /. e. as if divided into pieces.   X I. e. Chained fast.     100 We US in km and   is collected into one through the assistance  of Apollo and the savior Minerva, by philosophical discipline of mind and heart purifying the nature." i)zi /.opr^toc {j.sv sic ysvE^tv   'jTzo zT^z Ysvsascoc' npojXY^O-suo? "^s, v.rj.1 Tiza AttoXXcovoc %ol^ rr^c acorrjpac A\)*T;va?, ':r7.{)-a(vT:L'^(oc -(0 oyzi r5'.Xoaorpo'ja7.. The poet, however,  intimates the other causes of the soul's existence, when he says,   Igneiis est ollis vigor, et coelestis origo  Semiuibus *   which evidently alludes to the sowing of  souls into generation, t mentioned in the  Timmus. And fi'om hence the reader will   * "There is then a certain fiery potency, and a celestial oi'igiu  as to the rudimentary principles." /. e. Restored to wholeness  and divine life.   tl Corinthians, xv. 42-44. "So also is the onafitaHis of the  dead. It is sown in corruption [the material body]; it is raised  in incorruption : it is sown in dishonor; it is raised in gloi-y : it  is sown in weakness; it is raised in power : it is sown a psychical  body; it is raised a spiritual body."     Bacchic Mysteries. 101   easily perceive the extreme ridiculousness of  Dr. Warburton's system, that the grand secret  of the Mysteries consisted in exposing the  errors of Polytheism, and in teaching the  doctrine of the unity, or the existence of one  deity alone. For he might as well have said,  that the great secret consisted in teaching a  man how, by writing notes on the works of  a poet, he might become a bishop ! But it  is by no means wonderful that men who  have not the smallest conception of the true  nature of the gods; who have persuaded  themselves that they were only dead men  deified; and who measure the understandings of the ancients by their own, should be  led to fabricate a system so improbable and  absurd.   But that this instruction was accompanied  with a vision of the source from which the  soul proceeded, is evident from the express  testimony, in the first place, of Apuleius,  who thus describes his initiation into the  Mysteries. " Accessi confinium mortis; et  calcato Proserpinse limine, per omnia vectus  elementa remeavi. Nocte media vidi solem.     102 Meusinicm and   candido coniscantem kimine, deos inferos, et  deos superos. Access! coram, et adoravi de  proximo." * That is, "I approached the  confines of death : and having trodden on  the threshold of Proserpina returned, having  been carried through all the elements. In  the depths of midnight I saw the sun glittering with a splendid light, together with the  infernal and supernal gods : and to these  divinities approaching near, I paid the tribute  of devout adoration." And this is no less  evidently implied by Plato, who thus describes the fehcity of the holy soul prior to  its descent, in a beautiful allusion to the  arcane visions of the Mysteries. Ka/.Ao? 3s   TOIS Y^V tOStV X7.[JLirpOV, OTS GOV £UOaL|J,OVt   )^op(p {j-ay,7.pcctv o^iv zz xac O-sav £:ro{jL£vot jjis'La  [jLsv Aio^ T;tJ-£tc, aXXot o£ \xez aXXoo ^scov, £l§ov  t£ 7.71 BzzKO'jyzo T£X£t(ov YjV 0-£|j.ic Xb^biv {i-7.%a pKOXW.TYjV YjV 0pYl7.C0[J-£V oXoX^Y^pOL {JL£V 7.010^  OVr£C, y,7.l 7.'Jr7.^£tC %7.'5t(OV 037. Y^|X7.C £V 63r£p(p  /p<5V(j) 67C£{X£V£V. '0X07cXy^P7. $£ 7,7.1 TLTiXa %7.C  aTp£(J.Y^ %7.t £u5aqJL0V7. rp7.a{J.7.-7. JJLyG'J{JL£VOt T£  7,71 £TC0TCT:£U0V'C£C £V auyTJ %7.9-7.pq: %7.l)-7.pOl  * The Golden Ass. xi. p. 239 (Bohn).     Bacchic Mysteries. 103     TTSpLrpspovrs? ovofxaCopisv oarpsoa xpo':rov 5s  d£3{jL£ujj-£V0L That is, " But it was tlien lawful to survey the most splendid beauty, when  we obtained, together with that blessed choir,  this happy vision and contemplation. And  we indeed enjoyed this blessed spectacle together with Jupiter; but others in conjunction with some other god; at the same time  being initiated in those Mysteries^ which it  is lawful to call the most blessed of all  Mysteries. And these divine Orgies* were  celebrated by us, while we possessed the  proper integrity of our nature, we were  freed from the molestations of evil which  otherwise await us in a future period of time.  Likewise, in consequence of this divine  initiation, we became spectators of entire,  simple, immovable, and blessed visions, resident in a pure hght; and were ourselves  pure and immaculate, being hberated from  this surrounding vestment, which we denominate body, and to which we are now bound   * The peculiar rites of the Mysteries were indifferently termed  Orgies or Labors, teletai or finishings, and initiations.     10-i Bacchic Mysteries.   like an oyster to its shell."* Upon this  beautiful passage Proclus observes, "That the  initiation and epopfeia [the vailing and the  reveahng] are symbols of ineffable silence,  and of union with mystical natures, through  intelligible \dsions.t Kocl yap -q {xor^zic, v.ai r^   * Phcedriis, 64.   t Proclus : Theology of Plato, book iv. The following reading  is suggested : "The initiation and final disclosing are a symbol  of the Ineffable Silence, and of the enosis, or being at one and  en rapport with the mystical verities through manifestations intuitively comprehended."   The ixv>'f\z<.z, muesis, or initiation is defined by E. Pocoeke as  relating to the "well-known Buddhist Moksha, final and eternal  happiness, the liberation of the soul from the body and its exemption from fvirther transmigration." For all mystcB therefore there  was a certain welcome to the abodes of the blessed. The term  cTTOTrcjioi, epopteia, applied to the last scene of initiation, he derives from the Sanscrit, evaptoi, an obtaining; the epopt being  regarded as having secured for himself or herself divine bliss.   It is more usual, however, to treat these terms as pure Greek;  and to render the mnesis as initiation and to derive epopteia from  STCOrtTopiat. According to this etymology an epopt is a seer or  clairvoyant, one who knows the interior wisdom. The terms inspector and superintendent do not, tome, at all express the idea,  and I am inclined, in fact, to suppose with Mr. Pocoeke, that the  Mysteries came from the East, and from that to deduce that the  technical words and expressions are other than Greek.   Plotinus, speaking of this enosis or oneness, lays down a spiritual  discipline analogous to that of the Mystic Orgies : " Purify your  soul from all undue hope and fear about earthly things; mortify        tl'^     £leii8iiiiau Mysteries. Etruscan.     Bacchic Mysteries. 107   TYjC iTpoc xa {jLoatixa "^ta t(ov vo'/^xcov cpaajjiaxtov svcoascoc;. Now, from all tliis, it may be  inferred, that the most sublime part of the  zTzrj'Kisirx \epoptei(i\ or final revealing, consisted in beholding the gods themselves invested with a resplendent hght; * and that  this was symbohcal of those transporting  visions, which the virtuous soul will constantly enjoy in a future state; and of which  it is able to gain some ravishing glimpses,  even while connected with the cumbrous  vestment of the body.f   the body, deny self,  affections as well as appetites,  and the inner  eye will begin to exercise its clear and solemn vision." " In the  reduction of yonr soul to its simplest principles, the divine germ,  you attain this oneness. We stand then in the immediate presence of God, who shines out from the profound depths of the  soul."- A. W. Apuleius: The Golden Ass. xi. The candidate was instructed  by the hierophant, and permitted to look within the cistn or chest,  which contained the mystic serpent, the phallus, egg, and gi-ains  sacred to Demeter. As the epopt was reverent, or otherwise, he  now "knew himself" by the sentiments aroused. Plato and Alcibiades gazed with emotions wide apart.  A. W.  t Plotinus : Letter to Flaccus. " It is only now and then that  . we can enjoy the elevation made possible for us, above the limits  of the body and the world. I myself have realized it but three  times as yet, and Porphyry hitherto not once."     108 Bacchic Mysteries.   But that this was actually the case, is  evident fi'om the following unequivocal testimony of Proclus : Ev airaac zaic, zsXszaic   TzpozEiyoo(ji [xoryfj.Q^ TToXXa $s G'/r^iiaza s^aXazzoyzzc, rpctcvovroir %ru zoze {j.£v azoizMzov a'jrcov xpojBsjBXrjtac «:p(oc, xors 5s sec c(v{J-pcoTTStov {j-opY'/jv £a/'/j{j.axta[JL£vov, ':o':£ os stc  dXXotov trjTTov ';:po£XY|XfjG(o?. /. ^. " In all  the initiations and Mysteries, the gods exhibit many forms of themselves, and appear  in a variety of shapes : and sometimes, indeed, a formless light ^ of themselves is held  forth to the view; sometimes this hght is  according to a human form, and sometimes  it proceeds into a different shape." f This  assertion of divine visions in the Mysteries,     Porpbyiy afterward declared that he witnessed four times,  when near him, the soul or " intellect " of Plotiiius thns raised up  to the First and Sovereign Good; also that he himself was only  once so elevated to the enosis or union with God, so as to have  glimpses of the eternal world. This did not occur till he was  sixty-eight years of age.  A. W.   * I. e. Si luminous appearance without any defined form or shape  of an object.   \ Commentary upon the Republic of Plato, page 380.      Cupids, Satyr, aud statue of Priapua.     Bacchic Mysteries. Ill   is clearly confirmed by Plotinus.* And, in  short, that magical evocation formed a part  of the sacerdotal office in the Mysteries, and  that this was universally believed by all  antiquity, long before the era of the latter  Platonists,t is plain from the testimony of  Hippocrates, or at least Democritus, in his  Treatise de Morbo Sacro.X For speaking of  those who attempt to cure this disease by  magic, he observes : st yap csayjvtjv ts %aGac Xaaaav arpovov 7.7.1 yqy, zat z'rjXka ta zoiotjzo  zpOTzrj, TTOLVca zizi^z/ovzrji sxiataaO-ai, slis 7cac  STc TEAET12N, scxs xoll Ss aXhric, zivoq yvtofj-Tj?  {xsXsrr^^ cpaatv ocot xs scvai 01 zrjjjza btzizt^^sooyzec, ^uaspsstv sjj-oi ys 5oy.£oaaL y,. X. /. e.  " For if they profess themselves able to draw  down the moon, to obscure the sun, to produce stormy and pleasant weather, as likewise showers of rain, and heats, and to render  the sea and earth barren, and to accomplish   *Ennead, i. book 6; and ix. book 9.   t Plotinus, Porphyry, lamblichus, Proclus, Longinus, and their  associates.  X Epilepsy.     112 Eleusinian and   every thing else of this kind; whether they  derive this knowledge from flie Mysteries^ or  from some other mental effort or meditation,  they appear to me to be impious, from the  study of such concerns." From all which is  easy to see, how egregiously Dr. Warburton  was mistaken, when, in page 231 of his Divine  Legation^ he asserts, " that the light beheld  in the Mysteries, was nothing more than an  illuminated image which the priests had  thoroughly purified."   But he is likewise no less mistaken, in  transferring the injunction given in one of  the Magic Oracles of Zoroaster, to the business of the Eleusinian Mysteries, and in perverting the meaning of the Oracle's admonition. For thus the Oracle speaks :   Myj 'puocojc y.akto'f\c, aoxonxoy a-^aKiw.,   That is, " Invoke not the self -revealing image  of Nature, for you must not behold these  things before your body has received the  initiation." Upon which he observes, " that     Bacchic Mysteries. 113   the self-revealing image ivas only a diffusive  shining light, as the name partly declares^ *  But this is a piece of gross ignorance, from  which he might have been freed by an attentive perusal of Proehis on the Timceus of  Plato : for in these truly divine Commentaries we learn, " that the moonf is the cause  of nature to mortals, and the self -rev eating  image of the fountain of nature.^^ "^.zXriyq {isv  acrca zoic, O-vyjzoi? zr^c, ^fO(jSo:)C, to ayioTitCiV rj^^rjX\i.a.  o'j37. xT^c 'izr^'^fr/.iac, 'f'jasco^. If the reader is  desirous of knowing what we are to understand by the fountain of nature of which the  moon is the image, let him attend to the following information, derived from a long and  deep study of the ancient theology : for from  hence I have learned, that there are many  divine fountains contained in the essence of  the demiurgus of the world; and that among  these there are three of a very distinguished  rank, namely, the fountain of souls, or Juno,   the fountain of virtues, or Minerva  and   * Divine Legation, p. 231.   t /. e. The Mother-Goddess, Isis or Demeter, symbolized as  Selene or the Moon,     114 Eleusinian and   the fountain of nature, or Diana. This last  fountain too immediately depends on the  vilifying goddess Rhea; and was assumed  by the Demiurgus among the rest, as necessary to the prohfic reproduction of liimself.  And this information will enable us besides  to explain the meaning of the following i3assages in Apuleius, which, from not beingunderstood, have induced the moderns to  believe that Apuleius acknowledged but one  deity alone. The first of these passages is  in the beginning of the eleventh book of his  MetamorpJioses, in which the divinity of the  moon is represented as addressing him in  this sublime manner : " En adsum tuis commota, Luci, precibus, rerum Natura parens,  elementorum omnium domina, seculorum  progenies initialis, summa numinum, regina  Manium, prima cai^litum, Deoruni Dearumque facies uniformis : quae cseh luminosa  culmina, maris salubria flamina, inferorum de  plorata silentia nutibus meis dispenso : cu jus  numen unicum, multiformi specie, ritu vario,  nomine multijugo totus veneratur orbis. Me  primigenii Phryges Pessinunticam nominant     Bacchic Mysteries. 115   Deum matrem. Hiiic Autochthones Attici  Cecropiam Minervam; ilhiic fluctuantes Cyprii Paphiam Veiierem : Cretes sagittif eri  Dictjninam Dianam; Sicuh trihngues Stygiam Proserpinam; Eleusinii vetustam Deam  Cererem : Junonem ahi, ahi Bellonam, alii  Hecaten, Rhamnusiam ahi. Et qui nascentis dei Sohs inchoantibus radiis iUustrantur,  ^thiopes, Ariique, priscaque doctrina pollentes ^gyptii cserimoniis me prorsus propriis  percolentes appellant vero nomine reginam  Isidem." That is, " Behold, Lucius, moved  with thy supphcations, I am present; I,  who am Nature, the parent of things, mistress of all the elements, initial progeny of  the ages, the highest of the divinities, queen  of departed spirits, the first of the celestials, of gods and goddesses the sole hkeness  of all : who rule by my nod the luminous  heights of the heavens, the salubrious breezes  of the sea, and the woful silences of the infernal regions, and whose divinity, in itself  but one, is venerated by all the earth, in  many characters, various rites, and different  appellations. Hence the primitive Phry   116 Bacchic Mysteries.   gians call me Pessinuntica, the motlier of  the gods; the Attic Autochthons, Cecropian  Muierva; the wave-siUTOunded Cyprians,  Paphian Venus; the arrow-bearing Cretans,  Dictynnian Diana; the three-tongued Sicilians, Stygian Proserpina; and the inhabitants of Eleusis, the ancient goddess Ceres.  Some, again, have invoked me as Juno, others  as Bellona, others as Hecate, and others as  Rhamnusia; and those who are enlightened  by the emerging rays of the rising sun, the  Ethiopians, and Aryans, and likewise the  Egyptians powerful in ancient learning, who  reverence my divinity with cerenioaies perfectly proper, call me by my true appellation  Queen Isis." And, again, in another place of  the same book, he says of the moon : " Te  Superi colunt, observant Inferi : tu rotas  orbem, luminas Solem, regis mundum, calcas  Tartarum. Tibi respondent sidera, gaudent  numina, redeunt tempora, serviunt elementa,  etc." That is, " The supernal gods reverence  thee, and those in the realms beneath attentively do homage to thy divinity. Thou  dost make the universe revolve, illuminate Bacchic Mysteries the sun, govern the world, and tread on Tartarns. The stars answer thee, the gods rejoice, the houi's and seasons retui*n by thy  appointment, and the elements serve thee."  For all tliis easily follows, if we consider it as  addressed to the fountain-deity of nature,  subsisting in the Demiurgus, and which is  the exemplar of that nature which flourishes  in the lunar orb, and throughout the material world, and from which the deity itself  of the moon originally proceeds. Hence, as  this fountain innnediately depends on the  life-giving goddess Rhea, the reason is obvious, why it was formerly worshiped as the  mother of the gods : and as all the mundane  are contained in the super-mundane gods,  the other appellations are to be considered as  names of the several mundane divinities produced by this fountain, and in whose essence  they are likewise contained.   But to proceed with our inquiry, I shall,  in the next place, prove that the different  purifications exhibited in these rites, in conjunction with initiation and the epopteia  were symbols of the gradation of disciplines     120 Eleusinian and   requisite to the reascent of the soul.* And  the fii'st part, indeed, of this proposition  respecting the purifications, immediately follows from the testimony of Plato in the passage already adduced, in which he asserts  that the ultimate design of the Mysteries was  to lead us back to the principles from which  we originally fell. For if the Mysteries were  symbohcal, as is universally acknowledged,  this must likewise be true of the purifications as a part of the Mysteries; and as inward puiity, of which the external is symbolical, can only be obtained by the exercise  of the virtues, it evidently follows that the  purifications were symbols of the pimfying  moral virtues. And the latter part of the  proposition may be easily inferred, from the  passage ah'eady cited from the Phmdrus of  Plato, in which he compares initiation and  the epopteia to the blessed vision of the  higher intelligible natures; an employment  which can alone belong to the exercise of  contemplation. But the whole of this is  rendered indisputable by the following re */. e. to its former divine condition. Bacchic Mysteries. 121   markable testimony of Olympiodorus, in his  excellent manuscript Commentary on the  PJuedo of Plato.* "In the sacred rites," says  he, "popular pui4fications are in the first  place brought forth, and after these such as  are more arcane. But, in the third place,  collections of various things into one are received; after which follows inspection. The  ethical and political virtues therefore are  analogous to the apparent purifications; the  cathartic virtues which banish all external  impressions, correspond to the more arcane  purifications. The theoretical energies about  intelligibles, are analogous to the collections;  and the contraction of these energies into an   * We have taken the liberty to present the following version of  this passage, as more correctly expressing the sense of the original: "At the holy places are first the public purifications. With  these the more arcane exercises follow; and after those the obligations [-jozzaizz'.z) are taken, and the initiations follow, ending  with the epopiic disclosures. So, as will be seen, the moral and  social (political) virtues are analogous to the public purifications;  the purifying virtues in their turn, which take the place of all  external matters, correspond to the moi'e arcane disciplines; the  contemplative exei'cises concerning things to be known intuitively to the taking of the obligations; the including of them as  an undivided whole, to the initiations; and the simple ocular view  of simple objects to the epoptic revelations."     122 Eleusinian and   indivisible nature, corresponds to initiation.  And the simple self-inspection of simple  forms, is analogous to epoptic vision." 'On   QZIQ. Etra ZTZl ZnjJZrjXZ aTZOrjfjr^ZOZZrjrjr ^xszfj, 5s   za'jzac, QOGzaaeic, Tzarjzhr^x'^jrjyrjyzrj, y-ai siri  zaozruQ ixorpBiQ- £v TsXst 5s siroirrscc/i. xVvc/AoyooaL TGCV'JV ai [J-sv TjO-^xat 7,7.^ 7:o/dziY.'y,i apsxa^ XGtc s[xcpavsai y,7,i)'7.p{j-occ. Ai 5s %7.i)"7pii 7,7^ 0371 77C0a7.SU7.C0Vt7t TZaVZO. Zrj. kY.ZOC, ZOIQ   aTTopp'^ro-spoic. Ai 5s xspt ':7 voriza r^scopYpt%7c TS svspYSi7.i zai^ GOGzaoeaiy. Ac 5s to'jtojv  G'jya.irjSJsiQ sec "co ajispiarov X7cc \vyqGZGiy.   Ai 5s CLTZkr/l X(OV 7.7rAC0V SC5(0V 70X0'V.7C t71C   s7U07ursc7t?. And here I can not refrain from  noticing, with indignation mingled with pity,  the ignorance and arrogance of modern critics, who pretend that this distribution of the  virtues is entirely the invention of the latter  Platonists, and without any foundation in the  writings of Plato.* And among the supporters of such ignorance, I am sovry to find   * The writings of Augustin handed Neo-Platonism down to posterity as the original and esoteric doctrine of the first followers  of Plato. He enumerates the causes which led, in his opinion, to  the negative position assumed by the Academics, and to the con   Bacchic Mysteries. 123   Fabricius, in his prolegomena to the hfe of  Proclus. For nothing can be more obvious  to every reader of Plato than that in his  Laws he treats of the social and political  virtues; in his Phcedo, and seventh book of  the RepiibUc^ of the purifying; and in his  Thceafetus, of the contemplative and sublimer virtues. This observation is, indeed,  so obvious, in the Phcedo, with respect to the  purifying virtues, that no one but a verbal  critic could read this dialogue and be insensible to its truth : for Socrates in the very  beginning expressly asserts that it is the  business of philosophers to study to die, and  to be themselves dead,* and yet at the same  time reprobates suicide. What then can such   eealment of their real opinions. He describes Plotinus as a resuscitated Plato. Against the Academics. Phcedo, 21. Kivoovjooos: y^P o'^o- TOY/_otvou-iv op&to? «t:to|j.evo'.  (pcXoaocp'.a? XsXfj^cVai la? aWooc^, bv. odgsv aXXo aoxo'. ziz'.x-ffitiionz'y  Y) aTCofl-VYjoxstv zt xa: TsS-vava:. /. e. For as many as rightly apply  themselves to philosophy seem to have left others ignorant, that  they themselves aim at nothing else than to die and to be dead.   Elsewhere (31) Socrates says : " While we live, we shall approach nearest to intuitive knowledge, if we hold no communion  with the body, except, what absolute necessity requires, nor suffer  ourselves to be pervaded by its nature, but purify ourselves from  it until God himself shall release us. Eleusinian and   a death mean but symbolical or philosophical  death ? And what is this but the true exercise of the virtues which purify '? But  these poor men read only superficially, or  for the sake of displaying some critical  acumen in verbal emendations; and yet with  such despicable preparations for philosophical discussion, they have the impudence to  oppose their puerile conceptions to the decisions of men of elevated genius and profound investigation, who, happily freed from  the danger and drudgery of learning any  foreign language,* directed all their attention  without restraint to the acquisition of the  most exalted truth.   It only now remains that we prove, in the  last place, that a representation of the descent  of the soul formed no inconsiderable part of  these mystic shows. This, indeed, is doubt * It is to be regretted, nevertheless, that our author had not  risked the " danger and drudgery " of learning Greek, so as to  have rendered fuller justice to his subject, and been of greater  service to his readers. We are conscious that those who are too  learned in verbal criticism are prone to overlook the real purport  of the text. A. W.  Bacchic Mysteries less occultly intimated by Yirgil, when speaking of the souls of the blessed ui Elysium, he  adds,   Has omnes, ubi mille rotam volvere per annos,  Lethaeum ad fluviiim deus evocat agmine magno :  Scilicet immemores supera ut convexa revisant,  Eursus et incipiant iu eorpore velle reverti.*   But openly by Apuleius in the following  prayer which Psyche addresses to Ceres :  Per ego te frugiferam tuam dextram istam  deprecor, per Isetificas messium cserimonias,  per tacita sacra cistarum, et per famulorum  tuorum draconum pinnata cuiTicula, et glebae.  Siculae fulcamina, et currum rapacem, et terram tenacem, et illuminarum Proserpinse  nuptiarum demeacula, et caetera quae silentio  tegit Eleusis, Atticae sacrarium; miserandse  Psyches animse, supplicis fuse, subsiste.f That  is, "I beseech thee, by thy fruit-bearing right   * " All these, after they have passed away a thousand years, are  summoned by the divine one in great array, to the Lethfean river.  In this way they become forgetful of their former earth-life, and  revisit the vatilted realms of the world, willing again to return  into bodies."   t Apuleius : The Golden Ass. (Story of Cupid and Psyche),  book vi. Bacchic Mysteries.   hand, by the joyful ceremonies of harvest, by  the occult sacred rites of thy cistae,* and by  the winged car of thy attending dragons, and  the furrows of the Sicilian soil, and the rapacious chariot (or car of the ravisher), and  the dark descending ceremonies attending the  marriage of Proserpina^ and the ascending  rites which accompanied the lighted return  of thy daughter^ and l)ij other arcana  which Eleusis the Attic sanctuary conceals  in profound silence^ reheve the sorrows of  thy wretched suppliant Psyche." For the  abduction of Proserpina signifies the descent  of the soul, as is e^ddent from the passage  previously adduced from Olympiodorus, in  which he says the soul descends Corically; f  and this is confirmed by the authority of the  philosopher Sallust, who observes, " That the  abduction of Proserpina is fabled to have  taken place about the opposite equinoctial;  and by this the descent of souls [into earth * Chests or baskets, made of osiers, in which were enclosed the  mystical images and utensils which the uninitiated were not permitted to behold.   t /• €. as to death; analogously to the descent of Kore-Persephone to the Underworld. Ceres lends lier ear to Triptolemus. Proserpina and Pluto. Jupiter augry.     Bacchic Mysteries life] is implied." Tlepi ^(oov x'ajv svaviiav lo^q {)-ac, 6 5'^ /.^.O-oSoc soTt tcov '|y/cov.* And as  the abduction of Proserpina was exhibited in  the dramatic representations of the Mysteries, as is clear from Apuleius, it indisputably follows, that this represented the descent  of the soul, and its union with the dark tenement of the body. Indeed, if the ascent and  descent of the soul, and its condition while  connected with a material nature, were represented in the dramatic shows of the Mysteries, it is evident that this was implied by  the rape of Proserpina. And the former  part of this assertion is manifest from Apuleius, when describing his initiation, he says,  in the passage already adduced : "I approached the confines of death, and having  trodden on the threshold of Proserpina,  / returned^ having been carried through all  the elements.^'' And as to the latter part, it  has been amply proved, fi'om the highest  authority, in the first division of this discourse. De Diis et Mundo Meusinian and   Nor must the reader be distiu^bed on finding that, according to Porphyry, as cited by  Eusebius,* the fable of Proserpina alludes to  seed placed in the ground; for this is likewise true of the fable, considered accordingto its material explanation. But it will be  proper on this occasion to rise a httle higher,  and consider the various species of fables,  according to their philosophical arrangement; since by this means the present subject will receive an additional elucidation,  and the wisdom of the ancient authors of  fables will be vindicated from the unjust  aspersions of ignorant declaimers. I shall  present the reader, therefore, with the following interesting division of fables, fi'om  the elegant book of the Platonic philosopher Sallust, on the gods and the universe.  " Of fables," says he, " some are theological,  others physical, others animastic (or relating  to soul), others material, and lastly, others  mixed from these. Fables are theological  which relate to nothing corporeal, but contemplate the very essences of the gods; such as   * Evang. Prcepui Bacchic Mysteries the fable which asserts that Saturn devoured  his children : for it insinuates nothing more  than the nature of an intellectual (or intuitional) god; since every such intellect returns  into itself. We regard fables physically when  we speak concerning the operations of the  gods about the world; as when considering  Saturn the same as Time, and calhng the  parts of time the children of the universe, we  assert that the children are devoiu'ed by their  parent. But we utter fables in a spiritual  mode, when we contemplate the operations  of the soul; because the intellections of our  souls, though by a discursive energy they go  forth into other things, yet abide in their  parents. Lastly, fables are material, such as  the Egyptians ignorantly employ, considering and calling corporeal natures divinities :  such as Isis, earth, Osiris, humidity, Typhon,  heat • or, again, denominating Saturn water,  Adonis, fruits, and Bacchus, wine. And, indeed, to assert that these are dedicated to the  gods, in the same manner as herbs, stones, and  animals, is the part of wise men; but to call  them gods is alone the province of fools and Eleusinian and   madmen; unless we speak in the same manner as when, from estabhshed custom, we call  the orb of the sun and its rays the sun itself.  But we may perceive the mixed kind of  fables, as well in many other particulars, as  when they relate that Discord, at a banquet  of the gods, tlu'ew a golden apple, and that  a dispute about it arising among the goddesses, they were sent by Jupiter to take the  judgment of Paris, who, charmed with the  beauty of Venus, gave her the apple in preference to the rest. For in this fable the  banquet denotes the super-mundane powers  of the gods; and on this account they subsist in conjunction with each other : but the  golden apple denotes the world, which, on  account of its composition from contrary  natures, is not improperly said to be thrown  by Discord, or strife. But again, since different gifts are imparted to the world by different gods, they appear to contest with each  other for the apple. And a soul living according to sense (for this is Paris), not perceiving other powers in the universe, asserts  that the apple is alone the beauty of Venus.     Bacchic Mysteries. 133   But of these species of fables, such as are  theological belong to philosophers; the physical and spiritual to poets; l)ut the mixed to  the first of the initiator i/ rites (ze'kszal(;);  since the intention of all mystic ceremonies  is to conjoin us with the world and the  gods.^''   Thus far the excellent Sallust : from  whence it is evident, that "the fable of Proserpina, as belonging to the Mysteries, is  properly of a mixed nature, or composed  from all the four species of fables, the theological [spiritual or psychical], and material.  But in order to understand this divine  fable, it is requisite to know, that according  to the arcana of the ancient theology, the  Coric * order (or the order belonging to  Proserpina) is twofold, one part of which is  super-mundane, subsisting with Jupiter, or  the Demiurgus, and thus associated with him  establishing one artificer of divisible natures;  but the other is mundane, in which Proser * Coric from KopY], Kore, a name of Proserpina. The name is  derived by E. Pococke from the Sanscrit Goure EJeiisinian and   pina is said to be ravished by Pluto, and to  animate the extremities of the universe.  *' Hence," says Prockis, "according to the  statement of theologists, who dehvered to  us the most holy Mysteries, she [Proserpina]  abides on high in those dwellings of her  mother which she prepared for her in inaccessible places, exempt from the sensible  world. But she likewise dwells beneath  with Pluto, administering terrestrial concerns, governing the recesses of the earth,  supplying life to the extremities of the universe, and imparting soul to beings which  are rendered by her inanimate and dead."  Kai yap yj twv iJ-soXoytov "^'^{J-yj, xwv tac aytcoxata? Y/^iiv £V EXsaacvt tsAs-ca? 7rry.pry.o£0(oy,Gxtov, avco, ji£v OL'jr/jV sv xocc {X'ffrjOQ owoic  JJLSV8CV cp'^acv, O'j^ Yj (J-'^r/jp aur^ y-arsaxsuaCsv  sv a[57'0L? £(;Y^pY;{ji£voac too tz^vzoq. Katco §£  {i£'ca nXoD-covoc xcDV yO-ovuov eizapyeiy^ v.rj.i  zooQ ZTiQ YQC, \Loyofjc £':it'cpo7U£U£tv, vcat Cf«^Y^v  £xop£Y£tv ZOIC eyrj.zoic ^oo xavToc, %at ^^/''i^  {ji£ta5i5ovat rote Trap £rjjjzo)y aj^oyoic, 7.ai V£xpot?.* Hence we may easily perceive that   * Proclus: TJieology of Plato Bacchic Mysteries this fable is of the mixed kind, one part of  which relates to the super-mundane estabhshment of the secondarj^ cause of life,* and the  other to the procession or outgoing of life  and soul to the farthest extremity of things.  Let us therefore more attentively consider  the fable, in that part of it which is symbolical of the descent of souls; in order to  which, it will be requisite to premise an  abridgment of the arcane discourse, respecting  the wanderings of Ceres, as preserved by  Minutius Felix. " Proserpina," says he, " the  daughter of Ceres by Jupiter, as she was  gathering tender flowers, in the new spring,  was ravished from her dehghtful abodes by  Pluto; and being carried from thence  through thick woods, and over a length of  sea, was brought by Pluto into a cavern,  the residence of departed spirits, over whom  she afterward ruled with absolute sway. But   * Plotiuus taught the existence of three hypostases in the Divine  Nature. There was the Demiurge, the God of Creation and  Providence; the Second, the Intelligible, self-contained and immutable Source of life; and above all, the One, who like the  Zervane Akerene of the Persians, is above all Being, a pure will,  an Absolute Love  " Intellect."  A. W. Bacchic Mysteries. Ceres, upon discovering the loss of her daughter, with hghted torches, and begirt with a  serpent, wandered over the whole earth for  the purpose of finding her till she came to  Eleusis; there she found her daughter, and  also taught to the Eleusinians the cultivation  of corn." Now in this fable Ceres represents  the evolution of that intuitional part of our  nature which we properly denominate intellect'^ (or the unfolding of the intuitional  faculty of the mind from its quiet and collected condition in the world of thought);  and Proserpina that living, self -moving, and  animating part which we call sonl. But lest  this comparing of unfolded intellect to Ceres  should seem ridiculous to the reader, unacquainted with the Orphic theology, it is necessary to inform him that this goddess, from  her intimate union with Rhea, in conjunction with whom she produced Jupiter, is Also denominated by Kant, Pure reason, and by Cocker,  Intuitive reason. It was considered by Plato, as  not amenable to  the conditions of time and space, but in a particular sense, as  dwelling in eternity : and therefore capable of beholding eternal  realities, and coming into communion with absolute beauty, and  goodness, and truth  that is, with God, the Absolute Being."  Proserpina. Greek.  Bacclius. India.  Ceres. Roman. Demeter. Ktruscan. Bacchic Mysteries evidently of a Saturnian and zoogonic, or intellectual and vivific rank; and hence, as we  are informed by the philosopher Sallust,  among the mundane divinities she is the  deity of the planet Saturn.* So that in consequence of this, our intellect (or intuitive  faculty) in a descending state must aptly  symbohze with the divinity of Ceres. But  Pluto signifies the whole of a material  natui'e; since the empire of this god, according to Pythagoras, commences downward  from the Gralaxy or milky way. And the  cavern signifies the entrance, as it were, into  the profundities of such a nature, which is  accomplished by the soul's union with this  terrestrial body. But in order to underderstand perfectly the secret meaning of the  other parts of this fable, it will be necessary  to give a more exphcit detail of the particulars attending the abduction, from the beautiful poem of Claudian on this subject. From   * Hence we may perceive the reason why Ceres as well as Saturn was denominated a legislative deity; and why illuminations  were used in the celebration of the Saturnalia, as well as in the  Eleusinian Mysteries Bacchic Mysteries.   this elegant production we learn that Ceres,  who was a&aid lest some violence should be  offered to Proserpina, on account of her inimitable beauty, conveyed her privately to  Sicily, and concealed her in a house built on  purpose by the Cyclopes, while she herself  directs her course to the temple of Cybele,  the mother of the gods. Hej:'e, then, we see  the first cause of the soul's descent, namely,  the abandoning of a life wholly according to  the higher intellect, which is occultly signified by, the separation of Proserpina fi*om  Ceres. Afterward, we are told that Jupiter  instructs Venus to go to this abode, and betray Proserpina from her retirement, that  Pluto may be enabled to carry her away;  and to prevent any suspicion in the virgin's  mind, he commands Diana and Pallas to go  in company. The three goddesses arriving,  find Proserpina at work on a scarf for her  mother; in which she had embroidered the  primitive chaos, and the formation of the  world. Now by Venus in this part of the  narration we must understand desire^ which  even in the celestial regions (for such is the Venus, Diana, and Pallas visit Proserpina Bacchic Mysteries residence of Proserpina till slie is ravished by  Pluto), begins silently and stealthily to creep  into the recesses of the soul. By Minerva  we must conceive the rational power of the  soul, and by Diana, nature^ or the merely  natural and vegetable part of our composition; both which are now ensnared through  the allurements of desire. And lastly, the  web in which Proserpina had displayed all  the fair variety of the material world, beautifully represents the commencement of the  illusive operations through which the soul  becomes ensnared with the beauty of imaginative forms. But let us for a while attend  to the poet's elegant description of her employment and abode :   Devenere locum, Cereris quo tecta nitebant  Cyclopum firmata manu. Stant ardua f erro  Msenia; ferrati postes : immensaqiie nectit  Claustra elialybs. Nullum tanto sudore Pyracmon,  Nee Steropes, eonstruxit opus : nee talibus unquam  Spiravere uotis animge : nee flumine tanto  Incoctum maduit lassa fornaee metallum.  Atria vestit ebur : trabibus solidatur aenis  Culmen, et in eelsas surgunt eleetra eolumnas.  Ipsa domum tenero mulcens Proserpina eantu  Irrita texebat rediturje munera matri.  Hie elementorum seriem sedesque pateruas     144 Eleusinian and   Insignibat aeu : veterem qua lege tutmiltum  Diserevit natiira parens, et semiua jiistis  Diseessere locis : quidquid leve fertiu" iu altum :  111 medium graviora caduut : incaiiduit tether :  Egit flamma polum : fluxit mare •. terra pependit  Nee color uuus inest. Stellas accendit in auro.  Ostro fundit aquos, attollit litora gemmis,  Filaque mentitos jam jam cfelantia liuctus  Arte tumeiit. Credas illidi cautibus algam,  Et raucum bibiilis inserpere murmur arenis.  Addit quinqiie plagas : mediam subtemine rubro  Obsessam fervore notat : squalebat adustus  Limes, et assiduo sitiebant stamina sole.  Vitales utrimque duas; quas mitis oberrat  Temperies habitanda viris. Tum fine supremo  Torpentes traxit geminas, brumaque perenni  Fgedat, et a3terno coiitristat frigore telas.  Nee non et patrui piugit sacraria Ditis,  Fatalesque sibi manes. Nee def nit omen.  Prasscia nam subitis maduerimt fletibus ora.     After this, Proserpina, forgetful of her parent's commands, is represented as venturing  from her retreat, through the treacherous  persuasions of Venus :   Impulit Joiiios pra?misso lumine fluetus  Nondum pura dies : tremulis vibravit in iindis  Ardor, et errantes ludunt per cferula flammfe.  Jamque audax animi, fidseque oblita parentis,  Fraude Dioiifea riguos Proserpina saltus  (Sic Parcse voluere) petit. Bacchic Mysteries And this with the greatest propriety: for  obhvion necessarily follows a remission of  intellectnal action, and is as necessarily attended with the allurements of desire.* Nor  is her dress less symbolical of the acting of When the person turns the back upon his higher faculties, and  disregards the communications which he receives through them  from the world of unseen realities, an oblivion ensues of their  existence, and the person is next brought within the province and  operation of lower and worldly ambitions, such as a love of power,  passion for riches, sensual pleasure, etc. This is a descent, fall,  or apostasy of the soul,  a separation from the sources of divine  life and ravishment into the region of moral death.   In the Pluedras, in the allegory of the Chariot and Winged  Steeds, Plato represents the lower or inferior part of man's nature  as dragging the soul down to the earth, and subjecting it to the  slavery of corporeal conditions. Out of these conditions there  arise numerous evils, that disorder the mind and becloud the reason, for evil is inherent to the condition of finite and multiform  being into which we have "fallen by our own fault." The present earthly life is a fall and a punishment. The soul is now  dwelling in ''the gi-ave which we call the body." In its incorporate state, and previous to the discipline of education, the rationalelement is " asleep." " Life is more of a dream than a reality."  Men are utterly the slaves of sense, the sport of phantoms and  illusions. We now resemble those " captives chained in a subterraneous cave," so poetically described in the seventh book of The  Republic; their backs are turned to the light, and consequently  they see but the shadows of the objects which pass behind them,  and " they attribute to these shadows a perfect reality." Their  sojourn upon earth is thus a dark imprisonment in the body, a  dreamy exile from their proper home."  CucJcer's Greek Philosophy,  Eleiisinian and   the soul in such a state, principally according  to the energies and promptings of imagination and nature. For thus her garments are  beautifully described by the poet : Qiias inter Cereris proles, nunc gloria luatris,  Mox dolor, sequali tendit per gratnina passu,  Nee membris nee honore minor; potuitque  Pallas, si clipeum, si ferret spieula, Phoebe.  CoUeetsB tereti nodantur jaspide vestes.  Peetinis ingenio nunquam felicior arti  Coutigit eventus. Nullse sic consona telae  Fila, nee in tantum veri duxere figuram.  Hie Hyperionis Solem de semine nasei  Fecerat, et pariter, sed forma dispare lunam,  Aurora} noetisque duces. Cunabula Tethys  Praebet, et infantes gremio solatur anhelos,  Cseruleusque sinus roseis radiatur alumnis.  Invalidum dextro portat Titana laeerto  Nondum luce gravem, nee pubescentibus alte  Cristatum radiis : prime clementior sevo  Fiugitur, et tenerum vagitu despiiit ignem.  Lseva parte soror vitrei libaraina potat  Uberis, et parvo signatur tempora cornu.   In which description the sun represents the  phantasy, and the moon, nature, as is well  known to every tyro in the Platonic philosophy. They are likewise, with great propriety, described in their infantine state : for     Bacchic Mysteries. 147   these energies do not arrive to perfection  previous to the sinking of the soul into the  dark receptacle of matter. After this we behold her issuing on the plain with Minerva  and Diana, and attended by a beauteous  train of nymphs, who are evident symbols of  world of generation,* and are, therefore, the  proper companions of the soul about to fall  into its fluctuating realms.   But the design of Proserpina, in venturing  from her retreat, is beautifully significant of  her approaching descent: for she rambles  from home for the purpose of gathering  flowers; and this in a lawn replete with the  most enchanting variety, and exhahng the  most dehcious odors. This is a manifest  image of the soul operatmg principally according to the natural and external life, and  so becoming effeminated and ensnared  through the delusive attractions of sensible  form. Minerva (the rational faculty in this  case), likewise gives herself wholly to the   * Porphyry : Cave of the Nymphs. lu the later Greek, v'j|i.'f rj  sigaified a bride. EJeusinian and   dangerous employment, and abandons the  proper characteristics of her nature for the  destructive revels of desire.   All which is thus described with the utmost elegance by the poet :   Forma loci siiperat flores : eurvata tumore  Pai'vo planities, et moUibus edita clivis  Creverat in eoUem. Vivo de pumice fontes  Roscida mobilibus lambebant gramina rivis.  Silvaque torrentes ramonim fi"igore soles  Temperat, et medio brumam sibi viudicat sestu.  Apta fretis abies, bellis aecomoda eomus,  Quercus arnica Jovi, tumulos tectura cupressus,  Hex plena favis, venturi pra?seia lanrus.  Fluctuat hie denso crispata cacumine buxus,  Hie ederae serpunt, hie pampinus indnit ulmos.  Hand proeul inde laciis (Pergum dixere Sioani)  Panditur, et nemorum frondoso margine cinetus  Vicinis pallescit aquis : admittit in altum  Cernentes oculos, et late perviiis humor  Ducit inoflfensus liquido sub gurgite visus,  Imaque perspicui prodit secreta profundi.   Hue elapsa eohors gaudent per florea rura  Hortarur Cytherea, legant. Nunc ite, sorores,  Dum matutinis prsesudat solibus aer :  Dum meus humectat flaventes Lucifer agros,  Rotanti praevectus equo. Sic fata, doloris  Carpit signa sui. Varios turn cjetera saltus  Invasere eohors. Credas examina fundi  Hyblagum raptura thymum, cum cerea reges     Baccliic Mysteries. 149   Castra movent, fagique cava demissus ab alvo  Mellifer electis exereitus obstrepit lierbis.  Pratorum spoliatur honos. Hac lilia fuseis  Iiitexit violis : banc mollis amaraeus ornat :  Heec graditur stellata rosis; haec alba ligiistris.  Te quoqiie flebilibus mserens, Hyacintbe, figuris,  Narcissumque metunt, nunc inclita germina veris,  Proestantes dim pueros. Tu natus Amyclis :  Hunc Helicon genuit. Te disci perculit error :  Hune fontis decepit amor. Te fronte retusa  Deluis, hiinc fracta Cephissus arundiue luget.  j3^]staat ante alias avido fervore legeudi  Frugiferte spes una Dese. Nunc vimine texto  Eidentes ealatbos spoliis agrestibus implet :  Nunc sociat flores, seseque ignara corouat.  Augurium fatale tori. Quin ipsa tubarum  Armorumque potens, dextram qua fortia turbat  Agmina; qua stabiles portas et msenia vellit,  Jam levibus laxat studiis, hastamque reponit,  Insolitisque docet galeam mitescere sertis.  Ferratus lascivit apex, horrorque recessit  Martins, et cristse pacato fulgure vernant.  Nee quae Parthenium canibus scrutatur odorem,  Aspernata clioros, libertatemque comarum  Injecta tantum voluit freuare corona.   But there is a circumstance relative to the  narcissus which must not be passed over in  silence : I mean its being, according to Ovid,  the metamorphosis of a youth who fell a  victim to the love of his own corporeal  form; the secret meaning of which most admirably accords with the rape of Proserpina, which, according to Homer, was the  immediate consequence of gathering this  wonderful flower.* For by Narcissus falling  in love with his shadow in the limpid stream  we may behold an exquisitely apt representation of a soul vehemently gazing on the  flowing condition of a material body, and in  consequence of this, becoming enamored  with a corporeal life, which is nothing more  than the delusive image of the true man, or  the rational and immortal soul. Hence, by  an immoderate attachment to this unsubstautial mockery and gliding semblance of the  real soul, such an one becomes, at length,  wholly changed, as far as is possible to his  nature, into a vegetive condition of being,  into a beautiful but transient flower, that is,  into a corporeal life, or a life totally consist * Homer: Rymn to Ceres. "We were plucking the pleasant  flowers, the beauteous crocus, and the Iris, and hyacinth, and the  narcissus, which, like the crocus, the wide earth produced. I was  plucking them with joy, when the earth yawned beneath, and out  leaped the Strong King, the Many-Receiver, and went bearing me,  grieving much, beneath the earth in his golden chariot, and I  cried aloud. Pioseipiua gathering Flowers.      Pluto carrj'iiig off Pioserplna.     Bacchic Mysteries, 153   ing in the mere operations of nature. Proserpina, therefore, or the soul, at the very  instant of her descent into matter, is, with  the utmost propriety, represented as eagerly  engaged in pkicking this fatal flower; for  her faculties at this period are entirely occupied with a hf e divided about the fluctuating condition of body.   After this, Pluto, forcing his passage  through the earth, seizes on Proserpina,  and carries her away with him, notwithstanding the resistance of Minerva and  Diana. They, indeed, are forbid by Jupiter,  who in this place signifies Fate, to attempt  her deUverance. By this resistance of Minerva and Diana no more is signified than  that the lapse of the soul into a material  nature is contrary to the genuine wish and  proper condition, as well of the corporeal hfe  depending on her essence, as of her true and  rational nature. Well, therefore, may the  soul, in such a situation, pathetically exclaim  with Proserpina :     154 Bacchic Mysteries.   O male dileeti flores, despeetaque matris  Consilia : O Veneris deprensse serius artes ! *   But, according to Minutius Felix, Proserpina  was carried by Pluto tlu-ough thick woods,  and over a length of sea, and brought into a  cavern, the residence of the dead : where by  'woods a material nature is plainly implied, as  we have already observed in the first part of  this discourse; and where the reader may  likewise observe the agreement of the description in this particular with that of Yvngil in the descent of his hero :   Tenent media omnia silvce  Coeytusque sinuque labens, cireumvenit atro.t   In these words the woods are expressly  mentioned; and the ocean has an evident  agreement with Cocytus, signifying the outflowing condition of a material nature, and  the sorrows and sufferings attending its connection with the soul. Oh flowers fatally dear, and the mother's cautions despised :  Oh cruel arts of cunning Venus !   t " Woods cover all the middle space and Cocytus gliding on,  surrounds it with his dusky bosom. Bacchic Mysteries Pluto hurries Proserpina into the infernal  regions : in other words, the soul is sunk  into the profound depth and darkness of a  material nature. A description of her marriage next succeeds, her union with the dark  tenement of the body:   Jam siius iuferno processerat Hesperus orbi  Ducitur in thalamum virgo. Stat pronuba juxta  Stellautes Nox pieta sinus, tangensque cubile  Omina perpetuo genitalia federe sancit.   Night is with great beauty and propriety introduced as standing by the nuptial couch,  and confirming the oblivious league. For  the soul through her union with a material  body becomes an inhabitant of darkness, and  subject to the empire of night; in consequence of which she dwells wholly with delusive phantoms, and till she breaks her  fetters is deprived of the intuitive perception of that which is real and true. In the next place, we are presented with  the following beautiful and pathetic description of Proserpina appearing in a dream to Eleusinian and   Ceres, and bewailing her captive and miserable condition :   Sed tunc ipsa, sui jam non ambagibus ullis  Nuutia, materna faeies ingesta sopori.  Namque videbatur tenebroso obtecta reeessu  Carceris, et ssevis Proserpina vineta catenis,  Non qualem roseis nuper convallibus ^tnae  Suspexere Dete. Squalebat pulchrior auro  Csesaries, et nox oculorum infeeerat ignes.  Exhaustusque gelu pallet rubor. Die superbi  Flamineus oris honos, et non cessura pruinis  Membra eolorantur pieei caligine regni.  Ergo hanc ut dubio vix tandem agnoseere visu  Evaluit : cujus tot p«n£e criminis ? inquit.  Unde hsec infoi'mis macies ? Cui tanta f acultas  In me ssevitisB est? Eigidi cur vincula ferri  Vix aptanda f eris molles meruere lacerti ?  Tu, mea tu proles I An vana fallimur umbra ?   Such, indeed, is the wretched situation of  the soul when profoundly merged in a corporeal nature. She not only becomes captive  and fettered, but loses all her original splendor; she is defiled with the impurity of matter; and the sharpness of her rational sight  is blunted and dunmed through the thick  darkness of a material night. The reader  may observe how Proserpina, being represented as confined in the dark recess of a Bacchic Mysteries prison, and bound with fetters, confirms the  explanation of the fable here given as symbolical of the descent of the soul; for such,  as we have ah*eady largely proved, is the  condition of the soul from its union with the  body, according to the uniform testimony of  the most ancient philosophers and priests.  After this, the wanderings of Ceres for the  discovery of Proserpina commence. She is  described, by Minutius Fehx, as begirt ^dth  a serpent, and bearing two hghted torches in  her hands; but by Claudian, instead of being  gu^t with a serpent, she commences her  search by night in a car drawn by dragons.  But the meaning of the allegory is the same  in each; for both a serpent and a di'agon are  emblems of a divisible hfe subject to transitions and changes, with which, in this case,  our intellectual (and diviner) part becomes  connected : since as these animals put off  their skins, and become young again, so Manteis, /jLavisic, not bpE'.;;. The term is more commonly translated prophets, and actually signifies persons gifted with divine  insight, through being in an entheastic condition, called also mania  or divine fury. Bacchic Mysteries.   tlie divisible life of the soul, falling into  generation, is rejuvenized in its subsequent  career. But what emblem can more beautifully represent the evolutions and outgoings of an intellectual nature into the  regions of sense than the wanderings of  Ceres by the hght of torches through the  darkness of night, and continuing the pursuit  until she proceeds into the depths of Hades  itself ? For the intellectual part of the soul,*  when it verges towards body, enkindles, indeed, a light in its dark receptacle, but becomes itself situated in obscurity : and, as  Proclus somewhere divinely observes, the  mortal nature by this means participates of  the divme intellect, but the intellectual part  is drawn down to death. The tears and lamentations too, of Ceres, in her coiu'se, are symbolical both of the providential operations of  The soul is a composite nature, is on one side linked to the  eternal world, its essence being generated of that ineffable element which constitutes the real, the immutable, and the permanent. It is a beam of the eternal Sun, a spark of the Divinity, an  emanation from God. On the other hand, it is linked to the phenomenal or sensible world, its emotive part being formed of that  which is relative and phenomenal."  Cocker. Bacchic Mysteries. intellect about a mortal nature, and the miseries with which such operations are (with  respect to imperfect souls like oui's) attended.  Nor is it without reason that lacchus, or  Bacchus, is celebrated by Orpheus as the  companion of her search : for Bacchus is the  evident symbol of the imperfect energies of  intellect, and its scattering into the obscure  and lamentable dominions of sense.   But our explanation will receive additional  strength from considering that these sacred  rites occupied the space of nine days in their  celebration; and this, doubtless, because,  according to Homer,* this goddess did not  discover the residence of her daughter till  the expu-ation of that period. For the soul,  in falling from her original and divine abode  in the heavens, passed through eight spheres, Hymn to Ceres. "For nine days did holy Demeter perambulate  the earth . . and when the ninth shining morn had come, Hecate  met her, bringing news. Apuleius also explains that at the initiation into the Mysteries  of Isis the candidate was enjoined to abstain from luxurious food  for ten days, from the flesh of animals, and from wine.  Golden Ass,  book xi. p. 239 (BoJin). Eleusinian and   namely, the fixed or inerratic sphere, and  the seven planets, assuming a different body,  and employing different faculties in each;  and becomes connected with the sublunary  world and a terrene body, as the ninth, and  most abject gradation of her descent. Hence  the first day of initiation into these mystic  rites was called agurmos^ L e. according to  Hesychius, eM'Jesia et '^rav to ayscpoiJ-svov,  an assembly^ and all collecting fogefher :  and this with the greatest propriety; for,  according to Pythagoras, "the people of  dreams are souls collected together in the  Gralaxy.* Atj[jlo^ 5s ovstpcov 7.a.za noO-ayopav   Jcav.f And from this part of the heavens  souls first begin to descend. After this, the  soul falls from the tropic of Cancer into the  planet Satm'n; and to this the second day  of initiation was consecrated, which they  called AXol5s (j-uarai, [" to the sea, ye initiated ones ! "] because, says Meui'sius, on that   * Only persons taking a view solely external will suppose the  galaxy to be literally the milky belt of stars in the sky.  t Cave of the Xymphs. Bacchic Mysteries day the crier was accustomed to admonisli  the mystte to betake themselves to the sea.  Now the meaning of this will be easily  understood, by considering that, according to  the arcana of the ancient theology, as may be  learned from Proclus, the whole planetary  system is under the dominion of Neptune;  and this too is confirmed by Martianus  Capella, who describes the several planets  as so many streams. Hence when the soul  falls into the planet Saturn, which Capella  compares to a river voluminous, sluggish,  and cold, she then first merges herself into  fluctuating matter, though purer than that  of a sublunary natiu'e, and of which water is  an ancient and significant symbol. Besides,  the sea is an emblem of purity, as is evident  from the Orphic hymn to Ocean, in which that  deity is called {^swv ayvtajxa {xsy^^'^^v, tlieon  agnisma megiston^ i. e. the greatest purifier of  the gods : and Saturn, as we have already  observed, is pure [intuitive] intellect. And  what still more confirms this observation is,  that Pythagoras, as we are informed by Por * Theology of Plato Bacchic Mysteries.   pliyry, in his life of that philosopher, symbolically called the sea a tear of Saturn. But the  eighth day of initiation, which is symbohcal  of the falhng of the soul into the lunar  orb,* was celebrated by the candidates by a  repeated initiation and second sacred rites;  because the soul in this situation is about to  bid adieu to every thing of a celestial natui'e;  to sink into a perfect obhvion of her divine  origin and pristine felicity; and to rush profoundly into the region of dissimilitude,!  ignorance, and error. And lastly, on the  ninth day, when the soul falls into the sublunary world and becomes united with a terrestrial body, a hbation was performed, such  as is usual in sacred rites. Here the initiates,  filling two earthen vessels of broad and spacious bottoms, which were called irX'^fj-o/oat,  plemokhoai^ and y-G-cuXoaTcoL, JcotuIusJioi, the  former of these words denoting vessels of a  conical shape, and the latter small bowls or The Moon typified the mother of gods and men. The soul  descending into the lunar orb thus came near the scenes of earthly  existence, where the life which is transmitted by generation has  opportunity to involve it about.   t The condition most unlike the former divine estate.  Goddess Night.  Three Graces Bacchic Mysteries cups sacred to Bacchus, they placed one  towards the east, and the other towards the  west. And the first of these was doubtless,  according to the interpretation of Proclus,  sacred to the earth, and symbolical of the  soul proceeding from an orbicular figure, or  divine form, into a conical defluxion and terrene situation : * but the other was sacred to  the soul, and symbolical of its celestial origin;  since our intellect is the legitimate progeny  of Bacchus. And this too was occultly signified by the position of the earthen vessels; for, according to a mundane distribution of the divinities, the eastern center of  the universe, which is analogous to fire,  belongs to Jupiter, who likewise governs the  fixed and inerratic sphere; and the western  to Pluto, who governs the earth, because  the west is allied to earth on account of  its dark and nocturnal nature. f   Again, according to Clemens Alexandrinus, the following confession was made by   * An orbicular figure symbolized the maternal, and a cone the  masculine divine Energy.  t Proclus: Theology of Plato Eleusinian and   tlie new initiate in these sacred rites, in answer to the interrogations of the Hierophant :  "I have fasted; I have drank the Cyceon; I have taken out of the Cista, and placed  what I have taken ont into the Calathns;  and alternately I have taken out of the Calathus and put into the Cista." Kcj^a-cc xo  a'jv^r^{xa EXsoaivLcov {xoax-r^puov. EvYja-cwaa*   xtatY^v. But as this pertains to a circumstance attending the wanderings of Ceres,  which formed the most mystic and emblematical part of the ceremonies, it is necessary  to adduce the following arcane narration,  summarily collected from the writings of  Arnobius : " The goddess Ceres, when searching through the earth for her daughter, in the  course of her wanderings arrived at the  boundaries of Eleusis, in the Attic region, a  place which was then inhabited by a people  called Autochthones, or descended fi'om the Homer: Hymn to Ceres. "To her Metaneira gave a cup of  sweet wine, but slie refused it; but bade her to mix wheat and  water with pounded pennyroyal. Having made the mixture, she  gave it to the goddess."     Bacchic Mysteries earth, whose names were as follows : Baubo  and Triptolemus; Dysaules, a goatherd; Eubulus, a keeper of swme; and Eumolpus, a  shepherd, from whom the race of the Eumolpidse descended, and the illustrious name of  Cecropidse was derived; and who afterward  flourished as bearers of the caduceus, hierophants, and criers belonging to the sacred  rites. Baubo, therefore, who was of the  female sex, received Ceres, wearied with  complicated evils, as her guest, and endeavored to soothe her sorrows by obsequious  and flattering attendance. For this purpose  she entreated her to pay attention to the refreshment of her body, and placed before her  a mixed potion to assuage the vehemence of  her thirst. But the sorrowful goddess was  averse from her solicitations, and rejected the  friendly officiousness of the hospitable dame.  The matron, however, who was not easily repulsed, still continued her entreaties, which  were as obstinately resisted by Ceres, who  persevered in her refusal with unshaken persistency and invincible firmness. But when  Baubo had thus often exerted her endeavors  Bacchic Mysteries.   to appease the sorrows of Ceres, but without  any effect, she, at length, changed her arts,  and determined to try if she could not exhilarate, by prodigies (or out-of-the-way expedients), a mind which she was not able to  allure by earnest endeavors. For this purpose she uncovered that part of her body by  which the female sex produces children and  derives the appellation of woman.* This she  caused to assume a purer appearance, and a  smoothness such as is found in the private  parts of a stripling child. She then returns  to the afflicted goddess, and, in the midst of  those attempts which are usually employed  to alleviate distress, she uncovers herself,  and exhibits her secret parts; upon which  the goddess fixed her eyes, and was diverted  with the novel method of mitigating the anguish of soiTow; and afterward, becoming  more cheerful through laughter, she assuages  her thirst with the mingled potion which she  had before despised." Thus far Arnobius;  and the same narration is epitomized by  Clemens Alexandrinus, who is very indignant   * FuvT), (June, woman, from y^juvo;, gounos, Latin ciodiks. Cupifl auil Veuus. Satyr and Goat. Baubo, Ceres, and Nymphs.     Bacchic Mysteries at the indecency as he conceives, in the stoiy,  and because it composed the arcana of the  Eleusinian rites. Indeed as the simple father,  with the usual ignorance of a Christian  priest, considered the fable literally, and as  designed to promote indecency and lust, we  can not wonder at his ill-timed abuse. But  the fact is, this narration belonged to the  aiuoppYjxa, aporrheta^ or arcane discourses, on  account of its mystical meaning, and to prevent it from becoming the object of ignorant  declamation, licentious perversion, and impious contempt. For the purity and excellence of these institutions is perpetually  acknowledged even by Dr. Warburton himseK, who, in this instance, has dispersed, for a  moment, the mists of delusion and intolerant  zeaLf Besides, as lamblichus beautifully observes, t "exhibitions of this kind in the  Mysteries were designed to free us from hcen  Uneandidness was more probably the fault of which Clement  was guilty.   t Divine Legation of Moses, book ii.   I "The wisest and best men in the Pagan world are unanimous  in this, that the Mysteries were instituted pure, and proposed the  noblest ends by the worthiest means. Bacchic Mysteries.   tioiis passions, by gratifying the sight, and  at the same time vanquisliing desire, through  the awful sanctity with which these rites  were accompanied : for," says he, " the proper  way of freeing ourselves from the passions is,  first, to indulge them mth moderation, by  which means they become satisfied; hsten, as  it were, to persuasion, and may thus be entirely removed."* This doctrine is indeed so  rational, that it can never be objected to by  any but quacks in philosophy and rehgion.  For as he is nothing more than a quack in  medicine who endeavors to remove a latent  bodily disease before he has called it forth  externally, and by this means diminished its  fuiy; so he is nothing more than a pretender  in philosophy who attempts to remove the  passions by violent repression, instead of  moderate comphance and gentle persuasion.   But to return from this disgression, the following appears to be the secret meaning of  this mystic discourse : The matron Baubo  may be considered as a symbol of that pas * Mysteries of the Egyptians, Chaldeans, and Assyrians. Bacchic Mysteries. 177   sive, womanish, and corporeal life tlirongh  whicli the soul becomes united with this  earthly body, and through which, being at  first ensnared, it descended, and, as it were,  was born into the world of generation, passing, by this means, from mature perfection,  splendor and reality, into infancy, darkness,  and error. Ceres, therefore, or the intellectual soul, in the course of her wanderings,  that is, of her evolutions and goings-f orth into  matter, is at length captivated with the arts  of Baubo, or a corporeal hf e, and forgets her  sorrows, that is, imbibes oblivion of her  wretched state in the mingled potion which  she prepares : the mingled hquor being an  obvious symbol of such a life, mixed and impure, and, on this account, liable to corruption and death; since every thing pure  and unmixed is incorruptible and divine.  And here it is necessary to caution the  reader from imagining, that because, according to the fable, the wanderings of Ceres  commence after the rape of Proserpina,  hence the intuitive intellect descends subsequently to the soul, and separate from it. Eleusinimi and   Notliing more is meant by this circumstance  than that the diviner intellect, from the superior excellence of its nature, has in cause,  though not in time, a priority to soul, and  that on this account a defection and revolt  (and descent earthward from the heavenly  condition) commences, from the soul, and  afterward takes place in the intellect, yet  so that the former descends with the latter  in inseparable attendance.   From this explanation, then, of the fable,  we may easily perceive the meaning of the  mystic confession, / have fasted; I have  drank a mingled potion, etc.; for by the  former part of the assertion, no more is  meant than that the higher intellect, previous  to imbibing of oblivion through the deceptive arts of a corporeal life, abstains from  all material concerns, and does not mingle  itself (as far as its nature is capable of such  abasement) with even the necessary delights  of the body. And as to the latter part, it  doubtless alludes to the descent of Proserpina to Hades, and her re-ascent to the abodes of her mother Ceres : that is, to the  outgoing and return of the soul, alternately  falhng into generation, and ascending thence  into the intelhgible world, and becoming perfectly restored to her divine and intellectual nature. For the Cista contained the  most arcane symbols of the Mysteries, into  which it was unlawful for the profane to  look : and whatever were its contents, we  learn from the hymn of Callimachus to  Ceres, that they were formed from gold,  which, from its incorruptibihty, is an evident symbol of an immaterial nature. And  as to the Calathus, or basket, this, as we are  told by Claudian, was filled with spoliis agrestibus^ the spoils or fruits of the field, which are  manifest symbols of a life corporeal and  earthly. So that the candidate, by confessing that he had taken from the Cista, and  placed what he had taken into the Calathus, A golden serpent, an egg, and the phallus. The epopt looking upon these, was rapt with awe as contemplating in the»symbols the deeper mysteries of all life, or being of a grosser temper,  took a lascivious impression. Thus as a seer, he beheld with the  eyes of sense or sentiment; and the real apocalypse was therefore  that made to himself of his own moral life and character.  A. W. Eleusinian and   and tlie contrary, occultly acknowledged the  descent of his soul from a condition of being  super-material and immortal, into one material and mortal; and that, on the contrary,  by hving according to the purity which the  Mysteries inculcated, he should re-ascend to  that perfection of his nature, from which he  had unhappily fallen. Exiled from the true home of the spirit, imprisoned in the  body, disordered by passion, and becloixded by sense, the soul has  yet longings after that state of perfect knowledge, and purity, and  bliss, in which it was first created. Its affinities are still on high.  It yearns for a higher and nobler form of life. It essays to rise,  but its eye is darkened by sense, its wings are besmeared by passion and lust; it is ' borne downward until it falls upon and  attaches itself to that which is material and sensual,' and it flounders and grovels still amid the objects of sense. And now, Plato  asks: How may the soul be delivered from the illusions of sense,  the distempering influence of the body, and the disturbances of  passion, which becloud its vision of the real, the good, and the  true?"   " Plato believed and hoped that this could be accomplished by  philosophy. This he regarded as a grand intellectual discipline  for the purification of the soul. By this it was to be disenthralled  from the bondage of sense, and raised into the empyrean of pure  thought, 'where truth and reality shine forth.' All souls have the  faculty of knowing, but it is only by reflection and self-knowledge,  and intellectual discipline, that the soul can be raised to the  vision of eternal truth, goodness, and beauty  that is, to the  vision of God."  Cocker: Christianity and Greek Philosophy Bacchic Mysteries It only now remains that we consider the  last part of this fabulous narration, or arcane  discourse. It is said, that after the goddess  Ceres, on arriving at Eleusis, had discovered  her daughter, she instructed the Eleusinians  in the planting of corn : or, according to  Claudian, the search of Ceres for her daughter, through the goddess, instructing in the  art of tillage as she went, proved the occasion  of a universal benefit to mankind. Now the  secret meaning of this will be obvious, by  considering that the descent of the superior  intellect into the realms of generated existence becomes, indeed, the greatest benefit  and ornament which a material nature is  capable of receiving : for without this participation of intellect in the lowest department  of corporeal life, nothing but the irrational  soul* and a brutal life would subsist in its  dark and fluctuating abode, the body. As the  art of tillage, therefore, and particularly the  growing of corn, becomes the greatest possi * " It is linked to the phenomenal or sensible world, its emotive  part (sTitf)ujj.Y)Tixov) being formed of what is relative and phenomenal. Elensinian and   ble benefit to our sensible life, no symbol can  more aptly represent the unparalleled advantages arising from the evolution and procession of intellect with its divine natui^e into  a corporeal life, than the good resulting from  agriculture and corn : for whatever of horrid  and dismal can be conceived in night, supposing it to be perpetually destitute of the  friendly illuminations of the moon and stars,  such, and infinitely more dreadful, would be  the condition of an earthly nature, if deprived of the beneficent irradiations [irfioo5o J and supervening benefits of the diviner  hfe.   And this much for an explanation of the  Eleusinian Mysteries, or the history of Ceres  and Proserpina; in which it must be remembered that as this fable, according to the  excellent observation of Sallust already adduced, is of the mixed kind, though the  descent of the soul was doubtless principally  alluded to by these sacred rites, yet they  hkewise occultly signified, agreeable to the  nature of the fable, the descending of divinity     Bacchic Mysteries. 183   into the sublunary world. But when we  view the fable in this part of its meaning,  we must 'be careful not to confound the nature  of a partial inteUect like ours with the one universal and divine. As everything subsisting  about the gods is divine, therefore intellect  in the highest degree, and next to this soul,  and hence wanderings and abductions, lamentations and tears, can here only signify  the participations and providential operations of these in inferior natures; and this  in such a manner as not to derogate from  the dignity, or impair the perfection, of the  divine principle thus imparted. I only add,  that the preceding exposition will enable  us to perceive the meaning and beauty of  the following representation of the rape of  Proserpina, from the Heliacan tables of Hieronymus Aleander. Here, first of all, we  behold Ceres in a car drawn by two dragons, and afterwards, Diana and Minerva,  with an inverted calathus at their feet, and  pointing out to Ceres her daughter Proserpina, who is hurried away by Pluto in his KiRCHEB : Obeliscus Famjyhilius Meusinian and   car, and is in the attitude of one struggling  to be free. Hercules is likewise represented  with his club, in the attitude of opposing the  violence of Pluto : and last of all, Jupiter is  represented extending his hand, as if wilhng  to assist Proserpina in escaping from the  embraces of Pluto. I shall therefore conclude this section with the following remarkable passage from Plutarch, which will not  only confirm, but be itself corroborated by  the preceding exposition. 'Ozi [xey o'jv y^ TzaXata ^uaio/voyca, xai Trap EWrpi xai Bappa Tcporpoc, %r/x ix'jaz'qpiMOfic, GooXoyca. Ta ts XrjXo'j[j,£V7. Tcov arj'cojxsvcov Gr//fe::ze[jrj. zoic, izoXXoic syovza. Kat zr/. arj'cojisva tcov AaXoy|jLSV(ov  UTTOTrrorspct. AyjXov sart, pergit, £v tolc OpcptY.01Q s-i^sac, y,ac tote Ar^'oirrtaxoic %ai (j^prrfirjiQ  XojoiQ. MaXcara 5s of 'Jispt try.c xsXszac opytaa{j,oc, y,7.c 1:7. $po){X£V7 a'j|x[BoXi%(oc sv zaiQ  cspoapycaie, xyjv tcov TzrjXrjKov sjxrpacvat $iavoirjy.^ i. e. " The ancient physiology,! both Plutarch : Euseh.   i I. e. Exposition of the laws and oi^erations of Nature. Bacchic Mysteries of the Greeks and the Barbarians^ was nothing else than a discoiu'se on natiu^al subjects,  involved or veiled in fables, conceahng many  things through enigmas and under -meanings,  and also a theology taught, in which, after  the manner of the Mysteries,* the things  spoken were clearer to the multitude than  those dehvered in silence, and the things  delivered in silence were more subject to  investigation than what was spoken. This  is manifest from the Orphic verses^ and the  Egyptian and Phrygian discourses. But the  orgies of initiations^ and the sumbolical ceremonies of sacred rites especiallij, exhibit the  understanding had of them by the ancients,'''' MuaxYjp:tuoTj?, mystery-like. A.IB^ Psyche Asleep in Hades.  River Gortrtesses. :::?   THE Dionysiacal sacred rites instituted  by Orpheus,* depended on the following arcane narration, part of which has been  already related in the preceding section,  and the rest may be found in a variety of  authors. "Dionysus, or Bacchus [Zagreus],  while he was yet a boy, w^s engaged by the  Titans, through the stratagems of Juno, in a  variety of sports, with which that period of Whethei' Orpheus was an actual living person has been questioned by Aristotle; but Herodotus, Pindar, and other writers,  mention him. Although the Orphic system is asserted to have  come from Egypt, the internal evidence favors the opinion that it  was derived from India, and that its basis is the Buddhistic philosophy. The Orphic associations of Greece were ascetic, contrasting markedly with the frenzies, enthusiasm, and license of the  popular rites. The Thracians had numerous Hindu customs.  The name Kox-e is Sanscrit; and Zeus may be the Dyaus of  Hindu story. His visit to the chamber of Kore-Persephoneia  (Parasu-pani) in the form of a dragon or na(ja, and the horns or  crescent on the head of the child, are Tartar or Buddhistic. The Eleusinian and   life is so vehemently allured; and among  the rest, he was particularly captivated with  beholding his image in a mirror; during his  admiration of which, he was miserably torn  in pieces by the Titans; who, not content  with this cruelty, first boiled his members in  water, and afterwards roasted them by the  fire. But while they were tasting his flesh  thus dressed, Jupiter, roused by the odor,  and perceiving the cruelty of the deed,  hurled his thunder at the Titans; but committed the members of Bacchus to Apollo,  his brother, that they might be properly interred. And this being performed, Dionysus (whose heart during his laceration was  snatched away by Pallas and preserved), by  a new regeneration again emerged, and  being restored to his pristine life and integ name Zagreus is evidently Chahra, or ruler of the earth. The  Hera who compassed his death is Aira, the wife of Buddha; and  the Titans are the Daityas, or apostate tribes of India. The doctrine of metempsychosis is expressed by the swallowing of the heart  of the murdered child, so as to reabsorb his soul, and bring him  anew into existence as the son of Semele. Indeed, all the stories  of Bacchus liave Hindu characteristics; and his cultus is a part  of the serpent worship of the ancients. The evidence appears to  us unequivocal. A. W. Bacchic Mysteries rity, he afterwards filled up the number of  the gods. But m the mean time, from the  exhalations arising from the ashes of the  burning bodies of the Titans, mankind were  produced." Now, in order to understand  properly the secret of this naiTation, it is  necessary to repeat the observation already  made in the preceding chapter, "that all  fables belonging to mystic ceremonies are  of the mixed kind " : and consequently the  present fable, as well as that of Proserpina,  must in one part have reference to the gods,  and in the other to the human soul, as the  following exposition will abundantly evince :   In the first place, then, by Dionysus, or  Bacchus, according to the highest conception of this deity, we understand the spiritual  part of the mundane soul; for there are  Various processions or avatars of this god,  or Bacchuses, derived from his essence. But  by the Titans we must understand the mundane gods, of whom Bacchus is the highest;  by Jupiter, the Demiurgus, or artificer of  Plotiuus regarded the Demiurgus, or creator, as the god of  providence, thought, essence, and power. Above him was the Eleusinian and   the universe; by Apollo, the deity of the  Sun, who has both a mundane and supermundane establishment, and by whom the  universe is bound in symmetry and consent,  through splendid reasons and harmonizing  power; and, lastly, by Minerva we must understand that original, intellectual, ruhng,  and providential deity, who guards and preserves all middle lives* in an immutable  condition, through intelhgence and a selfsupporting life, and by this means sustains  them from the depredations and inroads  of matter. Again, by the infancy of Bacchus at the period of his laceration, the  condition of the intellectual natui^e is imphed; since, according to the Orphic theology, souls, under the government of Saturn,  or Kronos, who is pure intellect or spirituality, instead of proceeding, as now, from youth  to age, advance in a retrograde progression  from age to youth.t The arts employed by   deity of " pure intellect," aud still higher The One. These three  were the hypostases. Lives which are not conjoined with material bodies, nor yet  elevated to the lofty state which is the true divine condition.   t Emanuel Swedenborg says: "They who are in heaven are     Bacchic Mysteries. 191   the Titans, in order to ensnare Dionysus, are  symbolical of those apparent and divisible  operations of the mundane gods, through  which the participated intellect of Bacchus  becomes, as it were, torn in pieces; and by  the mirror we must understand, in the language of Proclus, the inaptitude of the universe to receive the plenitude of intellectual  or spiritual perfection; but the symbolical  meaning of his laceration, through the stratagems of Juno, and the consequent punishment of the Titans, is thus beautifully  unfolded by Olympiodorus, in his manuscript  Commentary on the PJi(edo of Plato : " The  form," says he, " of that which is universal is  plucked off, torn in pieces, and scattered into  generation; and Dionysus is the monad of  the Titans. But his laceration is said to  take place through the stratagems of Juno,   continually advancing to the spring of life, and the more thousands of years they live, so much the more delightful and happy is  the spring to which they attain, and this to eternity with increments  according to the progresses and degrees of love, of charity, and of  faith. Women who have died old and worn out with age, yet have  lived in faith on the Lord, in charity toward their neighbor, and in  happy conjugal love with a husband, after a succession of years,  come more and more into the flower of youth and adolescence. Eleusinian and   because this goddess is the supervising  guardian of motion and progression; * and  on this account, in the Iliad, she perpetually  rouses and excites Jupiter to providential  action about secondary concerns; and, in  another respect, Dionysus is the epJiof^us or  supervising guardian of generation, because  he presides over life and death; for he is the  guardian or epliorus of life because of generation, and also of death because wine produces  an enthusiastic condition. We become more  enthusiastic at the period of dying, as Proclus indicates in the example of Homer who  became prophetic [[xavxcxoc] at the time of his  death.f They likewise assert, that tragedy  and comedy are assigned to Dionysus : comedy being the play or ludicrous representation  of life; and tragedy having relation to the   'By progression [7rpoo5oc] is here signified the raying-out, or  issuing forth of the soul; having left the divine or pre -existent  life, and come forth toward the human.   t See also Plato : Phcedrus, 43. " When I was about to  cross the river, the divine and wonted signal was given me  it  always deters me from what I am about to do  and I seemed to  hear a voice from this very spot, which would not suffer me to  depart before I had purified myself, as if I had committed some     Bacchic Mysteries. 193   passions and death. The comic writers,  therefore, do not rightly call in question the  tragedians as not rightly representing Bacchus, saying that such things did not happen  to Bacchus. But Jupiter is said to have  hurled his thunder at the Titans; the thunder signifying a conversion or changing : for  fire naturally ascends; and hence Jupiter,  by this means, converts the Titans to his  own essence." ^TzapazzEzai §£ to xa^oXoo  si^oQ £v zTj ysvsasi, [xovctc 5s Ttxavcov 6 Aiovo aoc. Kctr ZTzi^oohqy ^s zriQ 'Hpac ^lozi -/.i vrpetoc, et^opoc, y; ^-boq %at 'Epoo'^o'j. Aio v.ru  aov£'/(o^ £v TTj Wirj.Gi si^avcaTTjatv aozrj, %ai   OlE^fOpSl TOV 5t7. eiQ TZrjCiyrjirjy XCOV SsOXSpCOV.   Kat ysvsascoc aXX(o? srpopoc sartv 6 AcovDao?,  5wrt %ai Cw^js ^^-t tsXsfjTYjC. Zcc/j? |j-sv yap  srpopG?, STTsid'^ .7,at z^qz ysvsaswc, xsXsutTjC 5s  5^0X1 svO-ouacav 6 otvoc ttocsl Kat ';r£pt xyjv  TsXsuTTjV 5s svO-Guatcta'ccxcotspc/t YtvoiJLSxJ'a, coi;   offense against the Deity. Now I am a prophet, though not a very  good one : for the soul is in some measure prophetic."  See also Shakspere : Henry IV. part 1.   " Oh I could prophesy,  But that the earthy and cold hand of death  Lies on my tongue."     194 Eleiisinian and   StjXol 6 Trap 'OiJi'/jpco UpOTcXoc, (JLavTC%oc ys T'/jv {i£v 7,(o[JL(o5tav Tuaiyvcov o'jaav to'j [3tov  TYjv dc Tpayco^^av 5ca xa 7ta{)-rj, %7.t xr^v xsXs'jI'^v. O'jy, apct %aX(oc of y,co{it7,o^ xoi? xpayLy-oi?  syxaXoaacv, (o:; \rq AtovoataTcoic oyar.^, Asyov  Tsc otc oD^sv zwjzrj, xpo? TGV AiovDaov. Kspau VOt §£ TO'JtOl? 6 ZSD^, TOO %£paOV0'J $TjXoaVZ05   X'^v STiiatpo'fSV xupyap stcl xa oivco zivo'J[X£Vol'  S'lriatpsrpsL O'jv aoroa^ zpoc saoTOv. But by  the members of Dionysus being first boiled  in water by the Titans, and afterward roasted  by the fire, the outgoing or distribution of  intellect into matter, and its subsequent returning from thence, is evidently implied:  for water was considered by the Egyptians,  as we have ah*eady observed, as the symbol  of matter; and fire is the natural symbol of  ascending. The heart of Dionysus too, is,  with the greatest propriety, said to be preserved by Minerva; for this goddess is the  guardian of hfe, of which the heart is a symbol. So that this part of the fable plainly  signifies, that while intellectual or spiritual     Bacchic Mysteries. 195   life is distributed into the universe, its principle is preserved entire by the guardian  power and providence of the Divine intelligence. And as Apollo is the source of all  union and harmony, and as he is called by  Proclus, " the key-keeper of the fountain of  life," * the reason is obvious why the members of Dionysus, which were buried by this  deity, again emerged by a new generation,  and were restored to their pristine integrity  and life. But let it here be carefidly observed, that renovation, when apphed to the  gods, is to be considered as secretly implying  the rising of their proper hght, and its consequent appearance to subordinate natures.  And that punishment, when considered as  taking place about beings of a nature superior  to mankind, signifies nothing more than a  secondary providence over such beings which  is of a punishing character, and which subsists about souls that deteriorate. Hence,  then, from what has been said, we may  easily collect the ultimate design of the first  part of this mystic fable; for it appears to be   * Hymn to the Sun.     196 Bacchic Mysteries.   no other than to represent the manner in  which the form of the mundane intellect is  divided through the universe;  that such an  intellect (and every one which is total) remains entire during its division into parts,  and that the divided parts themselves are  continually turned again to their source,  with which they become finally united. So  that illumination from the liigher reason,  while it proceeds into the dark and rebounding receptacle of matter, and invests its obscurity with the supervening ornaments of  divine light, returns at the same time without interruption to the source or principle  of its descent.   Let us now consider the latter part of the  fable, in which it is said that our souls were  formed from the vapors emanating from the  ashes of the burning bodies of the Titans;  at the same time connecting it with the  former part of the fable, which is also applicable in a certain degree to the condition of  a partial intellect * hke ours. In the first   * Partial, as being parted from the Supreme Mind.  Etruscan Kleusiuiaus.     Bacchic Mysteries. 199   place, then, we are made up from fragments (says Olympiodorus), because, through  faUing into generation, our hf e has proceeded  into the most distant and extreme division;  and from Titanic fragments^ because the  Titans are the ultimate artificers of things,*  and stand immediately next to whatever is  constituted from them. But further, our  irrational life is Titanic, by which the rational  and higher life is torn in pieces. Hence,  when we disperse the Dionysus, or intuitive  intellect contained in the secret recesses of  our nature, breaking in pieces the kindred  and divine form of our essence, and which  communicates, as it were, both with things  subordinate and supreme, then we become  Titans (or apostates); but when we establish  ourselves in union with this Dionysiacal or  kindred form, then we become Bacchuses, or  perfect guardians and keepers of our irrational life : for Dionysus, whom in this respect we resemble, is himself an epJiorus or   * The Demiurge or Creator being superior to matter in which  is concupiscence and all evil, the Titans who are not thus superior  are made the actual artificers. Meusinian and   guardian deity, dissolving at his pleasure the  bonds by which the soul is united to the  body, since he is the cause of a parted hfe.  But it is necessary that the passive or feminine nature of our UTational part, through  which we are bound in body, and which is  nothing more than the resounding echo, as it  were, of soul, should suffer the punishment  incurred by descent; for when the soul casts  aside the [divine] peculiarity of her nature,  she requires her own, but at the same time a  multiform body, that she may again become  in need of a common form, which she has  lost through Titanic dispersion into matter.   But in order to see the perfect resemblance between the manner in which our  souls descend and the dividing of the intuitive intellect by mundane natures, let the  reader attend to the following admirable  citation from the manuscript Commentary  of Olympiodorus on the Phcedo of Plato : It is necessary, first of all, for the soul to  place a hkeness of herself in the body. This  is to ensoul the body. Secondly, it is necessary for her to sympathize with the image, as  being of hke idea. For every external form  or substance is wrought into an identity with  its interior substance, through an ingenerated  tendency thereto. In the third place, being  situated in a divided nature, it is necessary  that she should be torn in pieces, and fall  into a last separation, till, through the action  of a life of puiification, she shall raise herself  from the dispersion, loose the bond of sympathy, and act as of herself without the  external image, having become established  according to the first-created life. The like  things are fabled in the example. For Dionysus or Bacchus because his image was  formed in a mirror, pursued it, and thus  became distributed into everything. But  Apollo collected him and brought him up;  being a deity of puiification, and the true  savior of Dionysus; and on this account he  is styled in the sacred hymns, Dionusites."   sauto'j £v TO) a(ojiatc. Tooxo yap sait f^yycooai TO awjjict. Asorspov 5s afjjJLiraO-stv x(p £l5(oXcj), xctxa z^(]v ojiosL^stav. Ilav yap stSoc sTust Eleusinian and   xcti £Lc Tov ZT/az^jy ST.'JTsastv {j.£{jLa[xov. 'Eco?  av oat TT^i; 7,a{>a[>xiT^%'r]v; C^otj? aavaystpat {xsv  eaoTTjv aiTo xou avcop:rta[xo'j, Xoa'/^ gs tov Ssajj-ov XYji; a^j{iYj7:7.i8'£iac, xpopaXXsiai §£ xvjv avso  xou £co(oAou, xctx)-' Erjjjzr^y iaxtoaav iipcoTO'jpYOV  C(OYjV. 'Oxi ta 6{JL0ta [xuO-sosxai, '>c7.i sv xcp  Tzarjaciei'^ixrj.zi. '0 yap Aiovaaoc, on zo scocoXov svsO-'^xs T(o saoTuTTpto XGU-cp scpsairsto. Kac  ouxd)? eiQ zo Tifjy sjispiaiJ-Yj. ""0 5s AttoXXwv aovaystpst t£ aozoy 7,ac avaysi, xavJ-apiwoc (ov  ^£oc, 'x.ai xo'j AcGvoaoD aojxY^p (oc aXcoO-m?.  Kat 5l7. xodto AcovoaoxY^? av'j(j.£tx7.L Hence,  as the same author beautifully observes, the  soul revolves according to a mystic and  mundane revolution : for flying from an indivisible and Dionysiacal hfe, and operating  according to a Titanic and revolting energy,  she becomes bound in the body as in a prison.  Hence, too, she abides in punishment and  takes care of her partial and secondary  concerns; and being purified from Titanic  defilements, and collected into one, she be   Bacchic Mysteries comes a Bacchus; that is, she passes into the  proper integrity of her nature according to  the divine principle ruhng on high. From all  which it evidently fohows, that he who hves  Dionysiacally rests from labors and is freed  from his bonds; * that he leaves his prison,  or rather his apostatizing life; and that he  who does this is a philosopher purifying himseK from the contaminations of his earthly  life. But farther fi'om this account of Dionysus, we may perceive the truth of Plato's  observation, " that the design of the Mysteries is to lead us back to the perfection from  which, as our beginning, we first made our descent." For in this perfection Dionysus himself subsists, establishing perfect souls in  the throne of his father; that is, in the integrity of a life according to Jupiter. So  that he who is perfect necessarily resides  with the gods, according to the design of  those deities, who are the sources of consummate perfection to the soul. And lastly,   *"We strive toward virtue by a strenuous use of the gifts  which God communicates; but when God communicates himself,  then we can be only passive  we repose, we enjoy, but all operation ceases."     204 Bacchic Mysteries.   the Thyrsus itself, which was used in the  Bacchic procession, as it was a reed full of  knots, is an apt symbol of the diffusion of the  higher nature into the sensible world. And  agreeable to this, Olympiodorus on the Pluedo  observes, " that the Thyrsus * is a symbol of  a forming anew of the material and parted  substance from its scattered condition; and  that on this account it is a Titanic plant.  This it was customary to extend before Bacchus instead of his paternal scepter; and  through this they called him down into our  partial nature. Indeed, the Titans are Thyrsus-bearers; and Prometheus concealed fire  in a Thyi'sus or reed; after which he is considered as bringing celestial light into generation, or leading the soul into the body, or  calling forth the divine illumination, the  whole being ungenerated, into generated existence. Hence Socrates calls the multitude  Thyrsus-bearers Orphically, as hving according to a Titanic life." 'On 6 vapO-rj^ aa[x[5oXov  ZQZi zriz svaXo'j $7j{xtC(0pYtac, %ai {xsptatYjc, 5ta   * The word thyrsus, it will be seen, is here translated from  vapd'Yj^, a rod or ferula. Bacchic Mysteries TY]v [laXtaxa StsaTCapiJ-svYjv aovs/scav, o^sv %at  Tixavtxov xo cprjxov. Kat yap t(p Aiovoacp  Tupoxscvooatv aoto), avcc too 'irarpty.oo axY^irxpofj.  Kai xauTTj irpoxaXoovxai a'jxov zic, xov {xspcxov.  Kat {isvcoi, 'jcc/.i vapi^TjTcocpopooacv oc Tixavs?, %at g   ITpGIJLTjiJ'SaC, £V VapO-YjT.l' 'AkZlZZl TO 'EUp, SLTS XO   oupaviov cp(oc see x'A^v ysvsatv xaxaaTucov, stxs  xr;v 4^yX'/jV £1? xo a(0[jLa xpoaycov, stxs xtjv o^scav  £XXa{i-'];tv oXt^v aysvvTjXOv ouaav, see xtjv ysvsatv TTpoxaXouiisvGC. Ata 5s xorjxo, %at 6 -coy-pax'^C xorj:; ttoXXo'jc "JcolXsl vapi)"f]%ocpopoy? Opcpt7,(oc, co^ C^'^vxac Ttxry.vcy.(oc. And thus much for the secret meaning  of the fable, which formed a principal part of  these mystic rites. Let us now proceed to  consider the signification of the symbols,  which, according to Clemens Alexandrinus,  belonged to the Bacchic ceremonies; and  which are comprehended in the followingOrphic verses :   M7]Xa to )(po-ca y,aXv. trap egtcj^wiuv Xi-p^oivcov.   That is,   A wheel, a pine-nut, and the wanton plays,  Which move and bend the limbs in various ways : Eleusinian and   With these th' Hesperian golden-fruit combine,  Which beauteous nymphs defend of voice divine.   To all which Clemens adds saoTU'pov, esoptroii, a mirror, i:oy.oCj polios, a fleece of wool,  and aa-payaXoc, asfragaios, the anMe-bone.  In the first place, then, wdth respect to the  wheel, since Dionysus, as we have already  explained, is the mimdane intellect, and intellect is of an elevating and convertive nature, nothing can be a more apt symbol of  intellectual action than a w^heel or sphere :  besides, as the laceration and dismemberment  of Dionysus signifies the going-forth of intellectual illumination into matter, and its  returning at the same time to its source, this  too will be aptly symbolized by a wheel. In  the second place, a pine-nut, from its conical  shape, is a perspicuous symbol of the manner  in which intellectual or spiritual illmnination  proceeds from its source and beginning into  a material nature. " For the soul," says Macrobius,* "proceeding from a round figure,  which is the only divine form, is extended  into the form of a cone in going forth."   * In Somnid Scijnonis, xii.     Bacchic Mysteries. 209   And the same is true sjrmbolically of the  higher intellect. And as to the wanton  sports which bend the limbs, this evidently  alludes to the Titanic arts, by which Dionysus  was allured, and occultly signifies the faculties of the mundane intellect, considered as  subsisting according to an apparent and  divisible condition. But the Hesperian  golden-apples signify the pure and incorruptible nature of that intellect or Dionysus, which  is possessed by the world; for a golden-apple,  according to Sallust, is a symbol of the world;  and this doubtless, both on account of its external figui'e, and the incorruptible intellect  which it contains, and with the illuminations  of which it is externally adorned; since gold,  on account of never being subject to rust, aptly  denotes an incorruptible and immaterial nature. The mirror, which is the next symbol,  we have already explained. And as to the  fleece of wool, this is a symbol of laceration,  or distri])ution of intellect, or Dionysus, into  matter; for the verb o'jrapattco, sparaffOy  diJanio, which is used in the relation of the  Bacchic discerption, signifies to tear in pieces     210 Bacchic Mysteries.   like wool : and hence Isidoinis derives the  Latin word laua, wool, from Janiando, as  velliis from vellendo. Nor must it pass unobserved, that Xq^jz^ in Greek, signifies wool,  and Xtjvo;, a wine-press.* And, indeed, the  pressing of grapes is as evident a symbol of  dispersion as the tearing of wool; and this  circumstance was doubtless one principal  reason why grapes were consecrated to Bacchus : for a grape, previous to its pressure,  aptly represents that which is collected into  one; and when it is pressed into juice, it no  less aptly represents the diffusion of that  which was before collected and entu'e. And  lastly, the aarpotyaXoc, astragalos, or anJiJehone, as it is principally subser\dent to the  progressive motion of animals, so it belongs,  with great propriety, to the mystic symbols  of Bacchus; since it doubtless signifies the  going forth of that deity into the department  of physical existence : for nature, or that  divisible life which subsists about the body,   * The practice of punning, so common in all the old rites, is  here forcibly exhibited. It aided to conceal the symbolism and  mislead uninitiated persons who might seek to ascertain the  genuine meaning. i\v>'- .../Mm Hercules Reclining. Bacchic Mysteries and whicli is productive of seeds, immediately depends on Bacchus. And hence we  are informed by Proclus, that the sexual parts  of this god are denominated by theologists,  Diana, who, says he, presides over the whole  of the generation into natural existence,  leads forth into light all natural reasons, and  extends a prolific power from on high even  to the subterranean reahns.* And hence we  may perceive the reason why, in the Orphic  Hjjmn to Nature, that goddess is described as  " turning round silent traces with the anklebones of her feet. ^^   And it is highly worthy our observation that  in this verse of the hymn Nature is celebrated as Fortune, according to that description of the goddess in which she is represented as standing with her feet on a wheel  which she continually turns round; as the  following verse from the same hymn abundantly confirms :   Asvao) axpo'-paXiYY- S'oov po/xa o'.vsooooa. Commentary upon the Timceus Meusinian and   The sense of which is, "moving with rapid  motion on an eternal wheel." Nor ought it  to seem wonderful that Nature should he  celebrated as Fortune; for Fortune in the  Orphic h}Tnn to that deity is invoked as  Diana : and the moon, as we have observed  in the preceding section, is the aoro'iriov  ayaXjia rpyasto?, fJie self-revealing emblem of  Nature; and indeed the apparent inconstancy of Fortune has an evident agreement  with the fluctuating condition in which the  dominions of nature are perpetually involved.  It only now remains that we explain the  secret meaning of the sacred dress with  which the initiated in the Dionysiacal Mysteries were invested, in order to the GpovLajxo^  (fhromsmoSy enthroning) taking place; or  sitting in a solemn manner on a throne,  about which it was customary for the other  initiates to dance. But the particulars of  this habit are thus described in the Orphic  verses preserved by Macrobius : Scojxa ti-£00 ji"/,aTT£'.v s^'.a'j-fooq r^zX'.o'.Q.  * Satunialia Bacchic Mysteries flpwxct;j.Ev ap-p'f :«:? evaXcYxcov «xTtvsaa:v   IIsttUv cpo'.vtxjpov (lege -^otvtxjov) -pottxjXov a^cp-paAEO^oc-.   ii'Jxocp 67ispa-j vsi^poio TiavatoXoo sJpu xa*«-|a'.   ^^plxrx Kfjhjzxi-Azrrj ^vjpoc xaxa Sa^tov Jjjulojv,   Aatpoiv o«-5aXftov;j.i|uh;jl' bpoo xz nolo'.o.   Eka r 6;.jp,<).s vs^pY)? xpt>asov UoxY^pa pocXeaS-at   n«;A'favoaiVTa irsp-^ oxspvuiv cpopjj-v fxsya arj|jia   Eo9-u5 ox' EX Ttspaxwv Tac-r]? (paja-wv avopouaiov   Xpoasiai? axxcat,3(x>.-/j poov Oxsavow,   Auyv] o' atjjTjxo? -f], ava S' Spoaoj a;jLcpt;xtYE:aa   Mapixrxirj-fj o'y-rpvj A:zar>iitY(] maxfj. xoxXov,   Ilpoci&s ^£00. Z(ovf] o' ap OTTO axjpvuiv a/ji£xp7]xu>v   <I>aovjx' ap' ily.zrj.wo Kov.Uq, iityx Oau^' ecowsa^ac.   That is,   He who desires in pomp of sacred dress   The sun's resplendent body to express,   Should first a vail assume of purple bright,   Like fair white beams combin'd with fiery light :   On his right shoulder, next, a mule's broad hide   Widely diversified with spotted pride   Should hang, an image of the pole divine,   And dfBdal stars, whose orbs eternal shine.   A golden splendid zone, then, o'er the vest   He next should throw, and bind it round his breast;   In mighty token, how with golden light.   The rising sun, from earth's last bounds and night   Sudden emerges, and, with matchless force,   Darts through old Ocean's billows in his course.   A boundless splendor hence, enshrin'd in dew,   Plays on his whirlpools, glorious to the view;   While his circumfluent waters spread abroad,   Full in the presence of the radiant god :  Eleusinian and   But Ocean's circle, like a zone of light,   The sun's wide bosom girds, and charms the wond'ring sight.   lu the first place, then, let us consider  why this mystic dress belonging to Bacchus  is to represent the sun. Now the reason of  this will be evident from the following observations : according to the Orphic theology, the divine intellect of every planet is  denominated a Bacchus, who is characterized  in each by a different appellation; so that  the intellect of the solar deity is called Trietericus Bacchus. And in the second place,  since the divinity of the sun, according to  the arcana of the ancient theology, has a  super-mundane as well as mundane establishment, and is wholly of an exalting or intellectual nature; hence considered as supermundane he must both produce and contain  the mundane intellect, or Dionysus, in his  essence; for all the mimdane are contained  in the super-mundane deities, by whom also  they are produced. Hence Proclus, in his  elegant Hijmn to the Sun, says :     Bacchic Mysteries. 217   That is, " they celebrate thee in hymns as the  illustrious parent of Dionysus." And thirdly,  it is through the subsistence of Dionysus in  the sun that that luminary derives its circular  motion, as is evident from the following Orphic verse, in which, speaking of the sun, it  is said of him, that     " He is called Dionysus, because he is carried  with a circular motion through the immensely-extended heavens." And this with the  greatest propriety, since intellect, as we have  already observed, is entirely of a transforming  and elevating nature : so that from all this, it  is sufficiently evident why the dress of Dionysus is represented as belonging to the sun.  In the second place, the vail, resembling a  mixture of fiery light, is an obvious image of  the solar fire. And as to the spotted muleskin,* which is to represent the starry heavens, this is nothing more than an image of Nehris is also a fawn-skin. The Jewish high-priest wore one  at the great festivals. It is rendered *• badger's skin " in the Bible.  In India the robe of Indra is spotted. Bacchic Mysteries.   tlie moon; tMs luminary, according to Proclus on Hesiod, resembling the mixed nature  of a mule; " becoming dark through her participation of earth, and deriving her proper  light from the sun." T-qz [isy s/ooaa xo a%o So that the spotted hide signifies the moon  attended with a multitude of stars : and  hence, in the Oi'phic Hymn to the Moon, that  deity is celebrated "as shining surrounded  with beautiful stars " : v.rjXoic, aaz^jOiGi ppyooarj., and is likewise called aaxpap/Tj, astrarche, or " queen of the starsy   In the next place, the golden zone is the  circle of the Ocean, as the last verses plainly  evince. But, you will ask, what has the  rising of the sun through the ocean, from the  boundaries of earth and night, to do with the  adventures of Bacchus ? I answer, that it is  inpossible to devise a symbol more beautifully accommodated to the purpose : for, in  the first place, is not the ocean a proper  emblem of an earthly nature, whirling and stormy, and perpetually rolling without admitting any periods of repose ? And is not  the sun emerging from its boisterous deeps a  perspicuous symbol of the higher spiritual  nature, apparently rising from the dark and  fluctuating material receptacle, and conferring form and beauty on the sensible universe through its light ? I say apparently  rising, for though the spiritual nature always  diffuses its splendor with invariable energy,  yet it is not always perceived by the subjects  of its illuminations : besides, as psychical natures can only receive partially and at intervals the benefits of the divine irradiation;  hence fables regarding this temporal participation transfer, for the purpose of concealment and in conformity to the phenomena,  the imperfection of subordinate natures to  such as are supreme. This description, therefore, of the rising sun, is a most beautiful  symbol of the new birth of Bacchus, which,  as we have already observed, implies nothing  more than the rising of intellectual light, and  its consequent manifestation to subordinate  orders of existence. Eleusinian and   And thus much for the mysteries of Bacchus, which, as well as those of Ceres, relate  in one part to the descent of a partial intellect into matter, and its condition while  united with the dark tenement of the body :  but there appears to be this difference between the two, that in the fable of Ceres and  Proserpine the descent of the whole rational  soul is considered; and in that of Bacchus  the scattering and going forth of tliat supreme part alone of our nature which we  properly characterize hy the appellation of.  intellect* In the composition of each we  may discern the same traces of exalted wisdom and recondite theology; of a theology  the most venerable for its antiquity, and the  most admirable for its excellence and reahtyo   I shall conclude this treatise by presenting  the reader with a valuable and most elegant  hymn of Proclusf to Minerva, which I have Greek, wn;;, nous, the Intuitive Eeasoii, that faculty of the  mind that apprehends the Ineffable Truth.   t That the following hymn was composed by Proclus, can not  be doubted by any one who is conversant with those already extant of this incomparable man, since the spirit and manner in  both is perfectly the same.     Bacchic Mysteries discovered in the British Museum; and the  existence of which appears to have been  hitherto utterly unknown. This hymn is to  be found among the Harleian Manuscripts,  in a volume containing several of the OrpJiic  liymns^ with which, through the ignorance of  transcriber, it is indiscriminately ranked, as  well as the other four hymns of Proclus,  already printed in the Bihliotlieca Grmca of  Fabricius. Unfortunately too, it is transcribed in a character so obscure, and with  such great inaccuracy, that, notwithstanding  the pains I have taken to restore the text  to its original purity, I have been obUged to  omit two hues, and part of a third, as beyond  my abilities to read or amend; however, the  greatest, and doubtless the most important  part, is fortunately intelhgible, which I now  present to the reader's inspection, accompanied with some corrections, and an Enghsh  paraphrased translation. The original is  highly elegant and pious, and contains one  mythological particular, which is no where  else to be found. It has likewise an evident  connection with the preceding fable of Bac EJeusinian and   chus, as will be obvious from the perusal;  and on tins account principally it was inserted in the present discoui'se.   Ek aohnan.   KATOI fJLcU a'.'(lO/0{.0 OiO? TJXO?' Tj Y£VETY]pO(;   IlTjYf]? oY.Tzpo9-opoooa, v.a'. wxpoxaxY,? ano asipa?  Apo£vod'0|j.3- cpspa^iLf jj.cY«-3'2V;5* o,3p:|i,07tarrjp,*  KiV.Xo&r ov/yozo 3' u;xvov £0'f pov: Tioxvia i)'U^uj   'H aO'^'.Tj? ViZXrj.Zrj.ir/. ^iZOZv/^trxC,] TTuXjUlVa;;.   Ka: "/^O-ovuuv orj.^r/.zrj.zrx Oj(ojxaya (p'j)>a •j-'-Y*  '11 %pa3'.r|V saawaai; ajj-UGXiXsutov J rjyrj.v.xo^  Ai&jpo? sv YU«Xc'-a'. p-ipiCo/J-svoo TcatJ Bav-^ou  l\xav(uv oTzo X.'p"-, TiopcC oj 2 Tiaxpt '|)4po'Joa  Ocppa VEOi; ^ouX'rjatv wtt' appYjxo:at xov.yjo?,  Ev. ScJuisXt]? TCcpt xoa^aov avY]^f]av] Alovuooo?.  'Hi; ttsXsx'.? § 6-rjpiu)V xafjivcuv TCpo^£Xu|Jt.va %apv]va  Ilavojpy.ou? sy.oir^; ir«t)£u>v T|VUOj 'iz'^tifK-qv  'H v.paxQC 'Hpar Oc|xvov eY'P"^- ppcixoiv apjxa'iov  H jjioxov v.QajJLTjaoti; oXov uo/.ojiSi';: zz/yrj.'.c,  Azix:oof'^:xry ojprjv || '{^'j'/at-t ^aXXouaa*   'II Krj./ZQ rxv.pOTZo\'.r/.   So|JLpoXov axpoxarq? ixs'(rj.\-r^q azo ixoxvia 0£tpf]?'   * Lege oPptjULOTraxpT),  t Lege f)joaj,3Eia?.  t Lege a|j.oax'. Xuxoo.  § Lege tceXexu?.  II Lege Op;jL-r]v.     BaccJiic Mysteries. 225   'H x8-ova,3coT:ccvE.pa tpt^aa? fxvjtjpa? p-^Xoiv.   K/.oa-: ixEU Y| <pao? ay^ov aiiaoTpaTrxooaa TrpoatououAo? OS;i.oi oXptov op;j.ov aXiuo/xsva rspo yacav.  Ao? -]/ox-/y Y^-oc, GtYvov air' eo^pjiuv oso |jio{).uiv  Ka: ao-^iY]v -/.at jpcoxoc-,j.svoc S's/J-Tivsoaov jpwTi,  Toaaattov, xac towv, oaov /&ov:ojv ajio xoXttojv  A'^spv-r],rpoc OXd|xkov s? Yjf^sa Traxpo^ £o:o,  Ei5j Ttc «/j.T:Xax:-r];x£* xocx-r] f.tototo Sa/uiaCs;.   IXa9.- /x£:X:xo,3ooXj- aao/i,3potj- /Ji7]5s/JL£aoY)? f   Trcjoavat? TOivatacv eXtup xot: xop/xa Ysvsaaot,   KstfAsvov Ev 8aTT:s5otatv, 61: TcO? so/o/jiac swxr   KsxXofl-: xjxXoO-- xa:;xol iitCu^yiv 00a? 6tox£C.   TO MINEEVA.   Daughter of aegis-bearing Jove, divine,   Propitious to thy votaries' prayer incline;   From thy great father's fount supremely bright,   Like fire resounding, leaping into light.   Shield-bearing goddess, hear, to whom belong   A manly mind, and power to tame the strong!   Oh, sprung from matchless might, with joyful mind   Accept this hymn; benevolent and kind !   The holy gates of wisdom, by thy hand   Are wide unfolded; and the daring band   Of earth-born giants, that in impious fight   Strove with thy fire, were vanquished by thy might.   Once by thy care, as sacred poets sing.   The heart of Bacchus, swiftly-slaughtered king, Lege a|xirXaxY]|ULa.  t Lege iKiy: t^C tr^zr^^^.   Eleusinian and   Was sav'd in ^ther, when, with fnry fired,   Tlie Titans fell against his life conspired;   And with relentless rage and thirst for gore,   Their hands his members into fragments tore :   But ever watchful of thy father's will,   Thy power preserv'd him from succeeding ill.   Till from the secret counsels of his fire,   And born from Semele through heavenly sire,   Great Dionysus to the world at length   Again appeared with renovated strength.   Once, too, thy warlike ax, with matchless sway,   Lopped from their savage necks the heads away   Of furious beasts, and thus the pests destroyed   Which long all-seeing Hecate annoyed.   By thee benevolent great Juno's might   Was roused, to furnish mortals with delight.   And thro' life's wide and various range, 't is thine   Each part to beautify with art divine :   Invigorated hence by thee, we find   A demiurgic impulse in the mind.   Towers proudly raised, and for protection strong.   To thee, dread guardian deity, belong.   As proper symbols of th' exalted height   Thy series claims amidst the courts of light.   Lands are beloved by thee, to learning prone.   And Athens, Oh Athena, is thy own !   Great goddess, hear! and on my dark'ned mind   Pour thy pure light in measure unconfined;    That sacred light, Oh all-protecting queen.   Which beams eternal from thy face serene.   My soul, while wand'ring on the earth, inspire   With thy own blessed and impulsive fire :   And from thy fables, mystic and divine.   Give all her powers with holy light to shine.     Bacchic Mysteries. 227   Give love, give wisdom, and a power to love,  Incessant tending to the realms above;  Such as unconscious of base earth's control  Gently attracts the vice-subduing soul :  From night's dark region aids her to retire,  And once moi'e gain the palace of her sire.  O all-propitious to my prayer incline !  Nor let those horrid punishments be mine  Which guilty souls in Tartarus confine,  With fetters fast'ned to its brazen floors.  And lock'd by hell's tremendous iron doors.  Hear me, and save (for power is all thine own)  A soul desirous to be thine alone. It is very remarkable in this hymn, that  the exploits of Minerva relative to cutting  off the heads of wild beasts with an ax, etc.,  is mentioned by no writer whatever; nor  can I find the least trace of a circumstance  either in the history of Minerva or Hecate  to which it alludes.f And from hence, I   * If I should ever be able to publish a second edition of my  translation of the hymns of Orpheus, I shall add to it a translation  of all those hymns of Proclus, which are fortunately extant; but  which are nothing more than the wreck of a great multitude which  he composed.   t If Mr. Taylor had been conversant with Hindu literature, he  would have perceived that these exploits of Minerva-Athene were  taken from the buffalo-sacrifice of Durga or Bhavani. The whole  Dionysiac legend is but a rendering of the Sivaic and Buddhistic  legends into a Grecian dress. A. W.  Bacchic Mysteries.     think, we may reasonably conclude that it  belonged to the arcane Orphic narrations  concerning these goddesses, which were consequently but rarely mentioned, and this but  by a few, whose works, which might afford  us some clearer information, are unfortunately lost.   Musical Couference.Venus Kisiiig troni the Sea.  Since writing the above Dissertation, I  have met with a curious Greek manuscript entitled: "Of Psellus, Concerning  DcBmons^* according to the opinion of the  GreeJiS " : zoo WeWoo xivct Tuspt ^aqiovcov  So^aCooacv 'EXXtjvs? : In the course of which  he describes the machinery of the Eleusinian  Mysteries as follows :  'A oe ys [lo^jzr^iAa xooT(ov, oiov aaxi^a ta EXsuatvia, xov [xod-i^ov  OTUOTcpivsrac 3ia {i^iyvo^ASVov xifj Stjgi, t] "cyj Atjix'/jx£pL, xctt XT] OoYatspsL Tc/.ux'A]? Ospas^axxTj xt]  xctt Kop'^. Etcsiotj 5s sjjisXXov %7.t acppoStaiot  sict XT] {JiaYjGst ytvsa^at aujJi'jrXoxac, avaSostat  iro)? Y] ArppoScx'rj airo xtvcov 'jrsTuXaajj.svwv (JL'rjSs * Daemons, divinities, spirits; a term formerly applied to all  rational beings, good or bad, other than mortals.   229     230 Appendix,   (ov TusAayw^. Etta 5s yafJiYjXioc S'Jrt 'Ctj Kopifj  6[JL£vaio?. Kat s'^a^ouatv of t£Xou{i.£VOC, sx to[jlTuavou scpayov £% %o{Ji[57.X(ov sttiov, sxtpvo'fop'^aa (lege s^spvocpopr^cc/.) utto tov xoLarov  siasouv. TTroT-pcvstaL $£.%at ta^ Stjooc (o^iva?.   Ttat xapocaXytaL Erp' otc ^oii tpaYoa^sXsc {Jtt{x-^{ia TTOLO-atvojxsvov xspi roi? ^l^'jjxo^c' otc xsp   TSpayou (lege Tpayou) opyscc aTrorsjKov, to)  x-oXiro) xauxT^c xaxsO-e'co, (oairsp 5yj y,7.c saotou.  Etc^ xaatv c/i xoy AtovoaoD xqiat, y,at yj xrjauc,  y,ai T7. iroXyoix'-paXa TuoTrava, ^ai of x(o }:^apa CtCO XSXO'JJXSVOC, %X'^50V£C '^2 ^^-^ {XC{J-aA(OV£C, %at   zic, rf/iny XsfJr^Q O£a'jrp(ox£toc y-^M A(o5(ovctcov  yaXv.ziov, -/.rji KopyjBctc aXXo? xai 7,0'jp'rj^ £X£poc, 5at{JL0V(ov {xc{JLYj|jL7.xa. Ecp' ot? Yj Bapfoxooc  (lege Y^ Baupfo xo^c) {J-'^pooc avaaopojj.£V7j, xat  6 yovaixo? %x£ic> oozio yap ovo{xaCoDaL xy^v  ai5(o aia/ovo[JL£VOL Kai ouxco? £v ata/pco xy^v  x£X£X7]v %7.xa)jjo'jacv. /. e. " The Mysteries  of these demons, such as the Eleusinia, consisted in representing the mythical narration of Jupiter mingling mth Ceres and her  daughter Proserpina (Phersephatte). But as     Appendix. 231   venereal connections are in the initiation,* a  Venus is represented rising from the sea, from  certain moving sexual parts : afterwards the  celebrated marriage of Proserpina (with  Pluto) takes place; and those who are  initiated sing : Out of the drum I have eaten,  Out of the cymbal I have drank,  The mystic vase I have sustained,  The bed I have entered.'   The pregnant throes likewise of Ceres [Deo]  are represented : hence the supphcations of  Deo are exhibited; the drinking of bile,  and the heart-aches. After this, an effigy  with the thighs of a goat makes its appearance, which is represented as suffering vehemently about the testicles : because Jupiter,  as if to expiate the violence which he had  offered to Ceres, is represented as cutting off  the testicles of a goat, and placing them on  her bosom, as if they were his own. But  after all this, the rites of Bacchus succeed; the Cista, and the cakes with many  bosses, Uke those of a shield. Likewise the  /. e. a representation of them. mysteries of Sabazius, divinations, and the  mimalons or Bacchants; a certain sound of  the Thesprotian bason; the Dodonsean brass;  another Corybas, and another Proserpina,   representations of Demons. After these succeed the uncovering of the thighs of Baubo,  and a woman's comb (lie is), for thus, through  a sense of shame, they denominate the sexual  parts of a woman. And thus, with scandalous exhibitions, they finish the initiation."   From this curious passage, it appears that  the Eleusinian Mysteries comprehended those  of almost all the gods; and this account will  not only throw hght on the relation of the  Mysteries given by Clemens Alexandidnus,  but likewise be elucidated by it in several  particulars. I would willingly unfold to the  reader the mystic meaning of the whole of  this machinery, but this can not be accomphshed by any one, without at least the possession of all the Platonic manuscripts which  are extant. This acquisition, which I would  infinitely prize above the wealth of the Indies, will, I hope, speedily and fortunately  Jupiter disguised as Diana, and Calisto. Hercules, Deianeira and Nessus.     Appendix. 235   be mine, and then I shall be no less anxious  to communicate this arcane infoiTQation,  than the liberal reader will be to receive it.  I shall only therefore observe, that the mutual communication of energies among the  gods was called by ancient theologists c'spo^  yafiGc, hieros gcimos, a sacred marriage;  concerning which Proclus, in the second  book of his manuscript Commentary on the  Parmenides, admirably remarks as follows:   TaUTTTJV $£ tTjV 7.0tV(l>VtaV, TTOrS {1£V £V ZOIQ GO Gzor^oic, 6p(oac d-zoic, (oi {^ooXoyot) %at vcaXooat  Ya{j.ov 'Hpoic y-^J-i Aloc, Ojpavoo %ac TqQ, Kpovoo v.0.1 Tsac* '7L0ZS §£ ttov T-ara^ssarspcov TzpOQ  xa xpsLtto), %ai v^aXooGi ya^ioy Aco? y-ac AtjjxtjTpac* irors 5s xai £{jL'3r7.Xtv xcov xpsiTiKovcov  xpo? xa 6rp£t[j,£V7., %7.i Xsyouat Atoc %ct: KopTj?  Ya{xov. Etcsl^'A] tcov 0£(ov aXXat jj-sv staiv af  irpoc X7. GDGZoiya 7,oiva)vi7,c, 7.XX7.1 5s at 'jrpoi;  xa xpo 7.'jx(ov' aXXat 5s 7.c xpo? xa |X£X7. xa^)xa.  Kai dsL XYjV £%7.axTj? i5lgxyjx7. /,7.xavo£iv y,7C {j.£ XaY£tV 7.7r0 X(OV 0£(OV £Xt X7. £C57J X'^V XCiC7.0X7]V   dta'jiXoxYjV. /. ^. " Theologists at one time  considered this communion of the gods in  divinities co-ordinate with each other; and     236 Appendix.   then tliey called it the mamage of Jupiter  and Jiino, of Heaven and Earth [Uranos and  Gre], of Saturn and Rhea : but at another  time, they considered it as svibsisting between subordinate and superior divinities;  and then they called it the marriage of Jupiter and Ceres; but at another time, on the  contrary, they beheld it as subsisting between superior and subordinate divinities;  and then they called it the marriage of Jupiter and Kore. For in the gods there is one  kind of communion between such as are of  a co-ordinate nature; another between the  subordinate and supreme; and another again  between the supreme and subordinate. And  it is necessary to understand the peculiarity  of each, and to transfer a conjunction of this  kind froin the gods to the communion of  ideas with each other." And in Tim (mis ^  book i., he observes : y.rj.i zo rrjv wjzr^v (supple   /. e. '' And that the same goddess is conjoined  with other gods, or the same god with many  goddesses, may be collected fi'om the mystic discourses, and those marriages which are  called in the Mysteries Sacred Marriages.''^  Thus far the divine Proclus; from the first  of which passages the reader may perceive  how adultery and rapes, as represented in the  machinery of the Mysteries, are to be understood when apphed to the gods; and that  they mean nothing more than a communication of divine energies, either between a superior and subordinate, or subordinate and  superior, divinity. I only add that the apparent indecency of these exhibitions was, as I  have already observed, exclusive of its mystic  meaning, designed as a remedy for the passions  of the soul : and hence mystic ceremonies  were very properly called a%£7., akea, medicines,  by the obscure and noble Heracleitus. Iamblichus : De Mijsteriis. Saciifice of a Pig. Hercules Drunk. ORPHIC HYMNS.     I shall utter to whom it is lawful; but let the doors be closed,  Nevertheless, against all the profane. But do thou hear,  Oh Musseus, for I will declare what is true. He is the One, self -proceeding; and from him all things proceed,  And in them he himself exerts his activity; no mortal  Beholds Him, but he beholds all.   There is one royal body in which all things are enwombed,  Fire and Water, Earth, ^ther, Night and Day,  And Counsel [Metis'], the first producer, and delightful Love,   For all these are contained in the great body of Zeus.     Zeus, the mighty thunderer, is first; Zeus is last;  Zeus is the head, Zeus the middle of all things;  From Zeus were all things produced. He is male, he is female;  Zeus is the depth of the earth, the height of the starry heavens;   238     Appendix. 239   He is the breath of all things, the force of untamed fire;  The bottom of the sea; Sun, Moon, and Stars;  Origin of all; King of all;  One Power, one God, one Great Ruler.   HYMN OF CLEANTHES.   Greatest of the gods, God with many names,   God ever-ruling, and ruling all things !  Zeus, origin of Nature, governing the universe by law,  All hail ! For it is right for mortals to address thee;  For we are thy offspring, and we alone of all <   That live and creep on earth have the power of imitative speech.  Therefore will I praise thee, and hymn forever thy power.  Thee the wide heaven, which surrounds the earth, obeys :  Following where thou wilt, willingly obeying thy law.  Thou boldest at thy sei'vice, in thy mighty hands,  The two-edged, flaming, immortal thunderbolt.  Before whose flash all nature trembles.  Thou rulest in the common reason, which goes through all.  And appears mingled in all things, great or small,  Which filling all nature, is king of all existences.  Nor without thee. Oh Deity, does anything happen in the world.  From the divine ethereal pole to the great ocean,  Except only the evil preferred by the senseless wicked.  But thou also art able to bring to order that which is chaotic.  Giving form to what is formless, and making the discordant   friendly;  So reducing all variety to imity, and even making good out of evil.  Thus throughout nature is one great law  Which only the wicked seek to disobey.  Poor fools ! who long for happiness.  But will not see nor hear the divine commands. Greek, Aaifxov, Demon. [In frenzy blind they stray a\v;iy from good,   By thii'st of glory tempted, or sordid avarice,   Or pleasures sensual and joys that fall.]   But do thou, Oh Zeus, all-bestower, cloud-compeller!   Ruler of thunder ! guard men from sad error. Father ! dispel the clouds of the soul, and let us follow   The laws of thy great and just reign !   That we may be honored, let us honor thee again,   Chanting thy great deeds, as is proper for mortals,   For nothing can be better for gods or men   Than to adore with hymns the Universal King. Rev. J. Freeman Clarke, whose version is here copied, renders  this phrase "the law common to all." The Greek text reads:  " 7] xoivov a;c vojAciv £v v.-A-Q u/ivstv,"  the term vojj.oc:, nomos, or  Law, being used for King, as Love is for God.  A. W.  Proserpina Enthroned in Hades.  Nymphs and Centaurs.  AporrJieta, Greek aiioppTjTa  The instructions given by the  hierophant or interpreter in the Eleusinian Mysteries, not to  be disclosed on pain of death. There was said to be a synopsis of them in the i^etroma or two stone tablets, which, it  is said, were bound together in the form of a book.   Apostatise  To fall or descend, as the spiritual part of the soul is  said to descend from its divine home to the world of nature.   Cathartic  Purifying. The term was used by the Platonists and  others in connection with the ceremonies of purification before initiation, also to the corresponding performance of rites  and duties which renewed the moral life. The cathartic  virtues were the duties and mode of living, which conduced  to that end. The phrase is used but once or twice in this  edition.   Cause  The agent by which things are generated or produced.   Circulation  The peculiar spiral motion or progress by which the  spiritual nature or "intellect" descended from the divine  region of the universe into the world of sense.   Cogitative  Relating to the understanding: dianoetic.   Conjecture, or Opinion  A mental conception that can be changed  by argument.   Core  A name of Ceres or Demeter, applied by the Orphic and  later writers to her daughter Persephone or Proserpina. She  was supposed to typify the spiritual nature which was abducted by Hades or Pluto into the Underworld, the figure  signifying the apostasy or descent of the soul from the higher  life to the material body.   CoricaUy  After the manner of Proserpina, i. e., as if descending  into death from the supernal world.   D(emoii  A designation of a certain class of divinities. Different  authors employ the term differently. Hesiod regards them as  the souls of the men who lived in the Golden Age, now acting as guardian or tutelary spirits. Socrates, in the CratyJus,  says " that daemon is a term denoting wisdom, and that every  good man is dsemonian, both while living and when dead, and  is rightly called a daemon." His own attendant spirit that  checked him whenever he endeavored to do what he might  not, was styled his Daemon. lamblichus places Daemons in  the second order of spiritual existence.  Cleanthes, in his  celebrated Hymn, styles Zeus oatfiov (daimon).   Demiurgiis  The creator. It was the title of the; chief-magistrate  in several Grecian States, and in this work is applied to Zeus  or Jupiter, or the Euler of the Universe. The latter Platdnists, and more especially the Gnostics, who regarded matter  as constituting or containing the principle of Evil, sometimes  applied this term to the Evil Potency, who, some of them  affirmed, was the Hebrew God.   Distrihuted  'SiQ(hxc&^ from a whole to parts and scattered. The  spiritual nature or intellect in its higher estate was regarded  as a whole, but in descending to worldly conditions became  divided into parts or perhaps characteristics.   Divisible  Made into parts or attributes, as the mind, intellect, or  spiritual, first a whole, became thus distinguished in its descent. This division was regarded as a fall into a lower plane  of life.   Energise, Greek z^z^^-^zw  Ho operate or work, especially to  undergo discipline of the heart and character. Glossary. Energy  Operation, activity.   Eternal  Existing through all past time, and still continuing.   Faith  The correct conception of a thing as it seems,  fidelity.   Freedom  The ruling power of one's life; a power over what pertains to one's self in life.   Friendship  Union of sentiment; a communion in doing well.   Fury  The peculiar mania, ardor, or enthusiasm which inspired  and actuated prophets, poets, intei'preters of oracles, and  others; also a title of the goddesses Demeter and Persephone  as the chastisers of the wicked,  also of the Eumenides.   Generation, Greek Y^^'^t?  Generated existence, the mode of  life peculiar to this world, but which is equivalent to death,  so far as the pure intellect or spiritual nature is concerned;  the process by which the soul is separated from the higher  form of existence, and brought into the conditions of life  upon the earth. It was regarded as a punishment, and according to Taylor, was prefigured by the abduction of  Proserpina. The soul is supposed to have pre-existed with  God as a pure intellect like him, but not actually identical   at one but not absolutely the same.   Good  That which is desired on its own account.   Hades  A name of Pluto; the Underworld, the state or region of  departed souls, as understood by classic writers; the physical  nature, the corporeal existence, the condition of the soul  while in the bodily life.   Herald, Greek y.7]po4  The crier at the Mysteries.   Hierophant  The interpreter who explained the purport of the  mystic doctrines and dramas to the candidates.   Holiness, Greek ooioty]?  Attention to the honor due to God.   Idea  A principle in all minds underlying our cognitions of the  sensible world.   Imprudent  Without foresight; deprived of sagacity.   Infernal regions  Hades, the Underworld.   Instruction  A power to cure the soul.     244 Glossary.   Intellect, Greek voo?  Also rendered j)?^re reason, and by Professor  Cocker, intuitive reason, and the rational soul; the spiritual  nature. " The organ of self-evident, necessary, and universal  truth. In an immediate, direct, and intuitive manner, it takes  hold on truth with absolute certainty. The reason, through  the medium of ideas, holds communion with the world of real  Being. These ideas are the light y^\\\(^\i reveals the world of  unseen realities, as the sun reveals the world of sensible forms.  ' The Idea of the good is the Sun of the Intelligible World;  it sheds on objects the light of truth, and gives to the soul  that knows the power of knowing.' Under this light the eye  of reason apprehends the eternal world of being as truly, yet  more truly, than the eye of sense appi'ehends the world of  phenomena. This power the rational soul possesses by virtue  of its having a nature kindred, or even homogeneous with  the Divinity. It was ' generated by the Divine Father,' and  like him, it is in a certain sense ' eternal.' Not that we  are to understand Plato as teaching that the rational soul had  an independent and underived existence; it was created or  'generated' in eternity, and even now, in its incorporate state,  is not amenable to the condition of time and space, but, in a  peculiar sense, dwells in eternity : and therefore is capable of  beholding eternal realities, and coming into communion with  absolute beauty, and goodness, and truth  that is, with God,  the Absolute Being."  Christianity and Greek Philosophy, Intellective  Intuitive; perceivable by spiritual insight.   Ititelligihle  Eelating to the higher reason.   Interpreter  The hierophant or sacerdotal teacher who, on the last  day of the Eleusinia, explained the petroma or stone book to  the candidates, and unfolded the final meaning of the representations and symbols. In the Phoenician language he was  called ins, peter. Hence the petroma, consisting of two  tablets of stone, was a pun on the designation, to imply the     Glossary. Interpreter  continued.   wisdom to be uiit'olcled. It has been suggested by the Rev,  Mr. Hyslop, that the Pope derived his claim, as the successor  of Peter, from his succession to the rank and function of  the Hierophant of the Mysteries, and not from the celebrated  Apostle, who probably was never in Rome.   Just  Productive of Justice.   Justice  The harmony or perfect proportional action of all the  powers of the soul, and comprising equity, veracity, fidelity,  usefulness, benevolence, and purity of mind, or holiness.   Judgment  A. peremptory decision covering a disputed matter;  also o'.avoLa, dianoia, or understanding.   Knowledge  A comprehension by the mind of fact not to be overthrown or modified by argument. o   Legislative  Regulating.   Lesser Mysteries  The TsXeia:, teletai, or ceremonies of purification, which were celebrated at Agrae, prior to full initiation  at Eleusis. Those initiated on this occasion were styled  fJLuaxai, mystcB, from (xoto, muo, to vail; and their initiation  was called (jiuYjat?, muesis, or vailing, as expressive of being  vailed from the former life.   Magic  Persian mag, Sanscrit maha, great. Relating to the order  of the Magi of Persia and Assyria.   Material do'mons  Spirits of a nature so gross as to be able to  assume visible bodies like individuals still living on the Earth.   Matter  The elements of the world, and especially of the human  body, in which the idea of evil is contained and the soul  incarcerated. Greek oXt], Hule or Hyle.   Muesis, Greek iinrioiq, from ixotn, to vail  The last act in the  Lesser Mysteries, or rsXtza:, teletai, denoting the separating of  the initiate from the former exotic life.   Mysteries  Sacred dramas performed at stated periods. The  most celebrated were those of Isis, Sabazius, Cybelfe, and  Eleusis. Mystic  Relating to the Mysteries: a person initiated in the  Lesser Mysteries  Greek jj.u3Totu   Occult  Arcane; hidden; pertaining to the mystical sense. Orgies, Greek opY-'^'  The peculiar rites of the Bacchic Mysteries. Opinion  A hypothesis or conjecture. Partial  Divided, in parts, and not a whole.   Philologist  One pursuing literature.   Philosopher  One skilled in philosophy; one disciplined in a right  life.   Philosophise  To investigate final causes; to undergo discipline  of the life.   Philosophy  The aspiration of the soul after wisdom and truth,  " Plato asserted philosophy to be the science of unconditioned  being, and asserted that this was known to the soul by its  intuitive reason (intellect or spiritual instinct) which is the  organ of all philosophic insight. The reason perceives substance; the understanding, only phenomena. Being (xo ov),  which is the reality in all actuality, is in the ideas or thoughts  of God; and nothing exists (or appears outwardly), except  by the force of this indwelling idea. The word is the true  expression of the nature of every object : for each has its divine  and natural name, besides its accidental human appellation.  Philosophy is the recollection of what the soul has seen of  things and their names." (J. Freeman Clarke.)   Plotinus  A philosopher who lived in the Third Century, and revived the doctrines of Plato.   Prudent  Having foresight.   Purgation, purification  The introduction into the Teletce or Lesser  Mysteries; a separation of the external principles from the soul.   Punishment  The curing of the soul of its errors.   Prophet, Greek \i.rj.^x'.c,  One possessing the prophetic mania, or  inspiration.   Priest  Greek \xrjyz'.c,  A prophet or inspired person, ispjuc  a  sacerdotal person. Revolt  A rolling away, the career of the soul in its descent from  the pristine divine condition.   Science  The knowledge of universal, necessary, unchangeable,  and eternal ideas.   Shows  The peculiar dramatic representations of the Mysteries.   Telete, Greek tjXext]  The finishing or consummation; the Lesser  Mysteries.   Theologist  A teacher of the literatiu-e relating to the gods.   Theoretical  Perceptive.   Torch bearer  A priest who bore a torch at the Mysteries.   Titans  The beings who made war against Kronos or Saturn. E.  Poeoeke identifies them with the Daittjas of India, who resisted  the Brahmans. In the Orphic legend, they are described as  slaying the child Bacchus-Zagreus.   Titanic  Eelating to the nature of Titans.   Transmigration  The passage of the soul from one condition of  being to another. This has not any necessary reference to  any rehabilitation in a corporeal nature, or body of flesh and  blood. See I Corinthians, Virtue  A good mental condition; a stable disposition.   Virtues  Agencies, rites, inflluences. Cathartic Virtues  Purifying rites or influences.   Wisdom  The knowledge of things as they exist; " the approach  to God as the substance of goodness in truth."   World  The cosmos, the universe, as distinguished from the earth  and human existence upon it. Eleusinian Priest and Assistants. Fortune and the Three Fates.  LIST OF ILLUSTRATIONS. Drawm from the antique. A. L. RAWSON.     A DESCRIPTION of tlie illustrations to this volume properly  includes the two or three theories of human life held by the  ancient Greeks, and the beautiful myth of Demeter and Proserpina, the most charming of all mythological fancies, and  the Orgies of Bacchus, which together supplied the motives  to the artists of the originals from which these drawings  were made.   From them* we learn that it was believed»that the soul is a  part of, or a spark from, the Great Soul of the Kosmos, the Central Sun of the intellectual universe, and therefore immortal;  has lived before, and will continue to hve after this '' body  prison " is dissolved; that the river Styx is between us and  the unseen world, and hence we have no recollection of any  former state of existence; and that the body is Hades, in  which the soul is made to suffer for past misdeeds done in the  unseen world.   Poets and philosophers, tragedians and comedians, embellished the myth with a thousand fine fancies which were List of Illustrations woven into the ritual of Eleusis, or were presented in the  theaters during the Bacchic festivals.   The pictures include, beside the costumes of priests, jiriestesses, and their attendants, and of the fauns and satjrrs, many  of the sacred vessels and implements used in celebrating the  Mysteries, in the orgies, and in the theaters, all of which were  drawn by the ancient artists from the objects represented,  and their work has been carefully followed here. Frontispiece. Sacrifice to Ceres. Denhndler, sculptur.  The goddess stands near a serpent-guarded altar, on which a  sheaf of grain is aflame. Worshipers attend, and Jupiter  approves. Decoratinq a Statue of Bacchus Bom. Campana.  The priest wears a lamb-skin skirt, the thyrsus is a natural  vine with grape clusters, and there are fruit and wine bearers.   3. Bacchantes with Thyrsus and Flute 4   Two fragments. Bom. Camp. Symbolical Ceremony.Bom. Camp Torch and thyrsus bearers and faun. See cut No. 40, and page for reference to pine nut. Bacchus and Nymphs Pluto, Proserpina, and Furies 5    Galerie des Peintres.  The Furies were said to be children of Pluto and Proserpina;  other accounts say of Nox and Acheron, and Acheron was a son  of Ceres Avithout a father. Priestess with Amphora and Sacred Cake Priestess with Musical Instruments 6   9. Faun Kissing Bacchante.  Bourbon Mus Faun and Bacchus.  Bourbon Mus List of Ilhistrations. Etruscan Y A^Y^.MilUngen See drawings on page lOG. Mercury Presenting a Soul to Pluto Pict. Ant. Sep. Nasonion, pi. Mystic Rites.  Arhniranda, tav. Eleusinian Ceremony.  Oes^. Benk. Alt. Kimst, Bacchic Festival. JSarto?*, Admiranda, Probably a stage scene. The cliaracters are the king, who was  an archon of Athens; a thyrsns bearer, musician, wine and  fruit bearers, dancers, and Pluto and Proserpina. A boy removes the king's sandal. Apollo and the Muses.  Florentine Museum The muses were the daughters of Jupiter and Mnemosyne;  that is, of the god of the present instant, and of memory.  Their office was, in part, to give information to any inquiring  soul, and to preside over the various arts and sciences. They  were called by various names derived from the places where  they were worshiped : Aganippides, Aonides, Castalides,  HeUconiades, Lebetheides, Pierides, and others. Apollo was  called Musagetes, as their leader and conductor. The palm  tree, laurel, fountains on Helicon, Parnassus, Pindus, and  other sacred mountains, were sacred to the muses. Prometheus Forms a Woman Visconti, Mus. Fio. Clem. Mercury, the messenger of the gods, brings a soul from  Jupiter for the body made by Prometheus, and the three Fates  attend. The Athenians built an altar for the worship of Prometheus in the grove of the Academy.   18. Procession of Iacchus and Phallus 16    Montfaucon.  From Athens to Eleusis, on the sixth day of the Eleusinia.  The statue is made to play its part in a mystic ceremony, typifying the union of the sexes in generation. Attendant priestesses bear a basket of dried flgs and a phallus, baskets of fruit,  vases of wine, with clematis, and musical and sacrificial instniments. None but women and children were permitted to take  part in this ceremony. The wooden emblem of fecundity was  an object of supreme veneration, and the ceremony of placing  and hooding it. was assigned to the most highly respected  woman in Athens, as a mark of honor. Lucian and Plutarch   Illustrations. say the phallus bearers at Rome carried images (phalloi) at the  top of long poles, and their bodies were stained with wine lees,  and partly covered with a lamb-skin, their heads crowned with  a wreath of ivy. From Etruscan Vases  Florentine Museum. Human sacrifice may be indicated in the lower group. Venus and Proserpina in Hades 28    Galerie des Peintres.  The myth relates that Venus gave Proserpina a pomegranate  to eat in Hades, and so made her subject to the law which required her to remain four months of each year with Pluto in  the Underworld, for Venus is the goddess who presides over  birth and growth in all cases. Cerberus keeps  guard, and one of the heads holds her garment, signifying that  his master is entitled to one-third of her time.   23. Rape of Proserpina. Carried Down to Hades   (Invisibility)  Flor. Mus, Pallas, Venus, and Diana Consulting Gal. des Peint.  Jupiter ordered these divinities to excite desire in the heart of  Proserpina as a means of leading her into the power of the  richest of all monarchs, the one who most abounds in treasures Dionysus as God op the Sun 31    Pit. Ant. Ercolmio.  Dionysus  Bacchus  symbolizes the sun as god of the seasons; rides on a panther, pours wine into a drinking-horn held  by a satyr, who also carries a wine skin bottle. The winged genii  of the seasons attend. Winter carries two geese and a cornucopia; Spring holds in one hand the mystical cist, and in the  other the mystic zone; Summer bears a sickle and a sheaf  of grain; and Autumn has a hare and a horn-of-plenty full of  fruits. Fauns, satyrs, boy-fauns, the usual attendants of  Bacchus, play with goats and panthers between the legs of the  larger figures. Herse and Mercury Pit. Ant. Ercolano.  A fabled love match between the god and a daughter of Cecrops,  the Egyptian who founded Athens, supplied the ritual for  the festivals Hersephoria, in which young girls of seven  to eleven years, from the most noted families, dressed in  List of Illustrations.   Pwhite, carried the sacred vessels and implements used in the  Mysteries in procession. Cakes of a peculiar form were made  for the occasion. Narcissus Sees His Image in Water P. Ovid. Naso.  The son of Cephissus and Liriope, an Oceanid, was said to be  very beautiful. He sought to win the favor of the nymph of  the fountain where he saw his face reflected, and failing, he  drowned himself in chagrin. The gods, unwilling to lose so  much beauty, changed him into the flower now known by his  name. Jupiter as Diana, and Calisto.  P. Ovid. Naso The supreme deity of the ancients, beside numerous marriages,  was credited with many amours with both divinities and mortals. In some of those adventures he succeeded by using a  disguise, as here in the form of the Queen of the Starry  Heavens, when he surprised Calisto (Helice), a daughter of  Lycaon, king of Arcadia, an attendant on Diana. The companions of that goddess were pledged to celibacy. Jupiter, in  the form of a swan, surprised Leda, who became mother of the  Dioscuri (twins).   29. Diana and Calisto.  Ovid. Naso, Neder 62   The fable says that when Diana and her nymphs were bathing   the swelling form of Calisto attracted attention. It was reported to the goddess, when she punished the maid by changing her into the form of a bear. She would have been torn in  pieces by the hunter's dogs, biit Jupiter interposed and translated her to the heavens, where she forms the constellation  The Great Bear. Juno was jealous of Jupiter, and requested  Thetis to refuse the Great Bear permission to descend at night  beneath the waves of ocean, and she, being also jealous of  Poseidon, complied, and therefore the dipper does not dip,  but revolves close around the pole star.  Bacchantes and Fauns Dancing A stage ballet.  Bom. Campana Hercules, Bull, and Priestess.  Bom. Camp 74   Bacchic orgies.   32. Fruit and Thyrsus Bearers.  Boiir. Mm Torch-Bearer as Apollo.  Bourbon Mits Eleusinian Mysteries.  Florence 3Ius List of Illustrations. Etruscan Mystic Ceremony. i?oH«. Camp 94   36. Etruscan Altar Group. JPtor. Mus 106   The mystic cist with serpent coiled around, the sacred oaks,  baskets, drinking-horns, zones, f estoou of branches and flowers,  make very pretty and impressive accessories to two handsome  priestesses. Etruscan Bacchantes. JfiZZm^en 106   These two groups were drawn from a vase which is  a very fine work of art. The drapery, .decoration, symbols,  accessories, and all the details of implements used in the celebration of the Mysteries are very carefully drawn on the vase,  which is well preserved. This vase is a strong proof of the  antiquity of the orgies, for the Etruscans, Tyrrheni, and  Tusci were ancient before the Romans began to build on the  Tiber.   38. Etruscan Ceremony.- m7fo><r/m 106   39. Satyr, Cupid and Venus. ilfo>i?/a«cow; SculpUre . 110   Some Roman writers affirmed that the Satyr was a real animal,  but science has dissipated that belief, and the monster has  been classed among the artificial attractions of the theater  where it belongs, and where it did a large share of duty in the  Mysteries. They were invented by the poets as an impersonation of the life that animates the branches of trees when the  wind sweeps through them, meaning, whistling, or shrieking  in the gale. They were said to be the chief attendants on  Bacchus, and to delight in revel and wine.   40. Cupids, Satyr, and Statue of ^niwvs^.Montfaucon The many suggestive emblems in this picture form an instructive group, symbolic of Nature's life-renewing power. The  ancients adored this power under the emblems of the organs  of generation. Many passages in the Bible denounce that worship, which is called " the grove," and usually was an iipright  stone, or wooden pillar, plain or ornamented, as in Rome,  where it became a statue to the waist, as seen in the engraving. The Palladium at Athens was a Greek form. The  Druzes of Mount Lebanon in Syria now dispense with emblems of wood and stone, and use the natural objects in their  mystic rites and ceremonies.   41. Apollo and Daphne, Galerie des Peint 118   The rising sun shines on the dew-drops, and warming them as  they hang on the leaves of the laurel tree, they disappear,     254 List of lUiisfrations.   Page.   leaving the tree; and it is said by the poet that Apollo loves and  seeks Daphne, striving to embrace her, when she flies and is  transformed into a laurel tree at the instant she is embraced by  the sun-god.   42. Diana and Endymion.  Bourbon 3Ius 118   Diana as the queen of the night loves Endymion, the setting  sun. The lovers ever strive to meet, but inexorable fate as ever  prevents them from enjoying each other's society. The fair  huntress sometimes is permitted, as when she is the new moon,  or in the first quarter, to approach near the place where her  beloved one lingers near the Hesperian gardens, and to follow  him even to the Pillars of Hercules, but never to embrace him.  The new moon, as soon as visible, sets near but not with the sun.  Endymion reluctantly sinks behind the western horizon, and  would linger until the loved one can be folded in his arms,  but his duty calls and he must turn his steps toward the  Elysian Fields to cheer the noble and good souls who await  his presence, ever cheerful and benign. Diana follows closely  after and is welcomed by the brave and beautiful inhabitants  of the Peaceful Islands, but while receiving their homage her  lover hastens on toward the eastern gates, where the golden  fleece makes the morning sky resplendent.   43. Ceres and the Car op Treptolemus 127   P. Ovid. Naso, Neder.  Triptolemus (the word means three plowings) was the founder  of the Eleusinian Mysteries, and was presented by Ceres with  her car drawn by winged dragons, in which he distributed seed  grain all over the world.   44. Pluto Marries Proserpina 127    P. Ovid. Naso, Neder.  Jupiter is said to have consented to request of Pluto that Proserpina might revisit her mother's dwelling, and the picture represents him as very earnest in his appeal to his brother. Since  then the seed of grain has remained in the ground no longer  than four months; the other eight it is above, in the regions of  light. In the engraving a curtain is held up by bronze figures.  This seems conclusive that it was a representation of a dramatic scene. (See pp. 159, 186.)   45. Proserpina, according to the Greeks.  Heck... 138   46. Bacchus after the Visit to India.  Heck 138   A Roman Figure of Geres. Heck 138    Demeter, from Etruscan Vase. IfecZ; 138   49. Venus, Pallas, and Dlana Inspecting the   Needlework of Proserpina. Galerie des Peini . 142   50. Proserpina Exposed to Pluto 152    Ovid. Naso, Neder.  There may have been a mild sarcasm in this artist's mind when  he drew the maid as dallying with Cupid, and the richest monarch in all the earth in the distance, hastening toward her. He  succeeded, as is shown in the next engraving.   51. Pluto Carrying Off Proserpina 152    P. Ovid. Naso, Neder.  Eternal change is the universal law. Proserpina must go down  into the Underworld that she may rise again into light and life.  The seed must be planted under or into the soil that it may  have a new birth and growth.   52. Proserpina in Pluto's Court.  Montfaucon 156   As a personation she was the "Apparent Brilliance" of all  fruits and flowers.   53. Ceres in Hades.  Montfaucon 162   54. Bacchus, Fauns, and Wine Jars.  Montfaucon .... 168   55. Tragic KQTOn.^Bourhon Museum 168   56. A Group of Deities.  Heck 168   Pan and Dionysus, Hygeia, Hermes, Dionysus and Faunus,  and Silenus.   57. Night with Her Starry Canopy.  Heck 168   58. The Three Graces.  Heck 168   59. Cupid Asleep in the Arms of Venus 174    Galerie des Peint.   60. Prize Dance between a Satyr and a Goat 174   Anticld.   61. Baubo and Ceres at Eleusis.  Galerie des Peint. 174  See page 232.     256 List of Illustrations.   Page.   62. Psyche Asleep in Hades 186    From the ruins of the Bath of Titus, Rome.  See page 45.   63. Nymphs of the Four Rivers in Hades 187    Tomb of the Nasons.  "It was easy for poets and mythographers, when they had  once started the idea of a gloomy land watered with the rivers  of woe, to place Styx, the stream which mates men shudder, as  the boundary which separates it from the world of Uving men,  and to lead through it the channels of Lethe, in which all  things are forgotten, of Kokytos, which echoes only with  shrieks of pain, and of Pyiyphlegethon, with its waves of fire."  Acheron, in the early myths, was the only river of Hades.   64. Etruscan Vase Group.  MilUngen Dancers, ETRUscANS.~i¥i//M?, 1 pJ. 27 198   66. Greek Convivial Scene.  Millin, 1 ^9^ 38 198   67. Faun and Bacchante.  Bour. Mus 206   68. Thyrsus-Bearer.  Bourbon Museum 206   69. Bacchante and Faun. 5o«r. Mus 206   These three verj' graceful pictures were drawn from paintings  on walls in Herculaneum.  KiN<T, Torch, Fruit, and Thyrsus Bearer 212   71. Hercules RECLiNiNG.^.^oe5f«, Bassirilievi, 70 212   Here is an actual ceremony in which many actors took parts;  with an altar, flames, a torch, tripod, the kerux (crier), bacchantes, fauns, and other attendants on the celebration of the  Mystei'ies, including tlie role of an angel with wings. Marriage (or Adultery) or Mars and Venus 220    Montfaucon.  See pages 231-2.37. If this is from a scene as played at the  Bacchic theaters, those dramas must have been very popular,  and justly so. To those theaters, which were supported by the  government in Athens and in many other cities througliout  Greece, we owe the immortal works of ^schylus and Sophocles.  Page.   73, Musical Conference (Epithalamium) 228   S. Bartoli, Admiranda, pi. 62,  Written music was evidently used, for one of the company is  writing as if correcting the score, and writing with the left  hand. Venus Rising from the QEA.Ovid. Naso, Verburg.This goddess was called Venus Anadyomene, for the poets said  she rose from the sea  the morning sunlight on the foam of  the sea on the shore of the island Cythera, or Cyprus, or  wherever the poet may choose as the favored place for the  manifestation of the generative power of nature, and wherever  flowers show her footprints. The loves bear aloft her magic  girdle, which Juno borrowed as a means of winning back  Jupiter's affection. The rose and the myrtle were sacred to  her. Her worship was the motive for building temples in Cythera and in Cyprus at Amathus, Idalium. Golgoi, and in many  other places. (See engravings, Jupiter Disguised as Diana, and Calisto Ovid. Naso, Neder.  The gods were said to have the power, and to practice assuming the form of any other of their train, or of any animal.  In these disguises they are supposed to play tricks on each  other as here. Diana is the queen of the night sky, Calisto is  one of her attendants, and many white clouds float over the  blue ether (Jupiter), and are chased by the winds (as dogs).   76. Hercules, Deianeira, and Nessus 234    Ovid. Naso, Neder.  The sun nears the end of the day's journey; he is aged and  weary; dark clouds obscure his face and obstruct his way, but  stUl Hercules loves beautiful things, and Deianeira, the  fair daughter of the king of ^tolia, retires with him into exile.  At a ford the hero entrusts his bride to Nessiis the Centaur, to  carry across the river. The ferryman made love to the lady,  and Hercules resented the indiscretion, and wounded him by  an arrow. Dying Nessus tells Deianeira to keep his blood as a  love charm in case her husband should love another woman.  Hercules did love another, named lole, and Deianeira dipped  his shirt in the blood of Nessus  the crimson' and scarlet  clouds of a splendid sunset are made glorious by the blood of  Nessus, and Hercules is burnt on the funeral pyre of scarlet  and crimson sunset clouds.  Illustrations. The Sacrifice.  Herculaneum, Hercules Drunk. Zoegciy BassirilievU tav. Proserpina Enthroned in Hades-  Archdol. Zeit. 240   The principle of growth rules the Underworld.   80. Bacchante and Centaur.  Bourbon Mus .Bacchante and Cbntauress. Bourbon Mus Eleusinian Priest and Assistants 247   83. The Fates.  Zoeya, Bassirilievi, tav. 46 248   84. Supper Scene 258   85. Bacchic Bull.  Antichi Ou cover. Suppei- Scene.  The Eleusinian and Bacchic mysteries.     Princeton Theological Semmary-Speer Library  PHALLIC WORSHIP: A DESCRIPTION OF THE MYSTERIES   OF THE   SEX WORSHIP OF THE ANCIENTS   WITH THE HISTORY OF   THE MASCULINE CROSS AN ACCOUNT OF   PRIMITIVE SYMBOLISM, HEBREW PHALLICISM,  BACCHIC FESTIVALS, SEXUAL RITES, AND  THE MYSTERIES OF THE ANCIENT FAITHS, LONDON. The present somewhat slight sketch of a most interesting subject, whilst not claiming entire originality, yet embraces  the cream, so to speak, of various learned works of great cost, some of which being issued for private circulation only, are almost  unobtainable.  During the past few years several philophical  have been written  upon ancient Roman Phallicism in conjunction with other kindred matters f  but not devoting themselves entirely to one ancient mystery y  the writers have only partially ventilated the subject. The  present work seeks to obviate this failing by confining its  attention entirely to the Sex Worship or Phallicism of the  ancient world. Many of the topics have received only slight treatmenty  being little more than indicated; but the work will enable the  reader to understand and possess the truth concerning the  Phallic Worship of the Ancients .   Those who desire to know more, or to authenticate the  statements and facts given in this book, should consult the large  and important works of Payne Knight, Higgins, Dulaure,  Rolky Inman, and other writers .   It was intended to give with this volume a list of works  and miscellaneous pieces written on the subject, but the length  of the list prevented its being added. Sex Worship has prevailed among all peoples of ancient  times, sometimes contemporaneous and often mixed with  Star, Serpent, and Tree Worship. The powers of nature  were sexualised and endowed with the same feelings,  passions, and performing the same functions as human  beings. Among the ancients, whether the Sun, the Serpent, or the Phallic Emblem was worshipped, the idea was the  same  the veneration of the generative principle. Thus  we find a close relationship between the various  mythologies of the ancient nations, and by a comparison  of the creeds, ideas, and symbols, can see that they spring  from the same source, namely, the worship of the forces  and operations of nature, the original of which was doubtless Sun worship. It is not necessary to prove that in  primitive times the Sun must have been worshipped  under various names, and venerated as the Creator,  Light, Source of Life, and the Giver of Food.   In the earliest times the worship of the generative  power was of the most simple and pure character, rude  in manner, primitive in form, pure in idea, the homage  of man to the supreme power, the Author of life.   Afterwards the worship became more depraved, a  religion of feeling, sensuous bliss, corrupted by a priesthood who were not slow to take advantage of this state  of affairs, and inculcated with it profligate and mysterious  ceremonies, union of gods with women, religious prostitution and other degrading rites. Thus it was not long before the emblems lost their pure and simple meaning and became licentious statues and debased objects. Hence we have in Rome the depraved ceremonies at the worship  of BACCO, who became, not only the representative  of the creative power, but the god of pleasure and  licentiousness. The corrupted religion always found eager votaries, willing to be captives to a pleasant bondage by the  impulse of physical bliss, as was the case in among the Romans. Sex worship personifies became the supreme and  governing deity, enthroned as the ruling God over all;  dissent therefrom was impious and punished. The priests  of the worship compelled obedience. Monarchs complied  to the prevailing faith and became willing devotees to the  shrines of VENERE on the one hand, and of BACCO  and PRIAPO on the other, by appealing to the most  animating passion of nature. This is the worship of the reproductive powers, the  sexual appointments revered as the emblems of the divine creator. The one male, the active creative power;  the other the female or passive power; ideas which were  represented by various emblems in different countries.These emblems were of a pure and sacred character,  and used at a time when the prophets and priests spoke  plain speech, understood by a rude and primitive people;  although doubtless by the common people the emblems  were worshipped themselves, even as at the present day  in Roman Catholic countries the more ignorant, in many  cases, actually worship the images and pictures themselves,  while to the higher and more intelligent minds they are  only symbols of a hidden object of worship. In the  same manner, the concealed meaning or hidden truth  was to the ignorant and rude people of early times entirely  unknown, while the priests and the more learned kept  studiously concealed the meaning of the ceremonies and  symbols. Thus, the primitive idea became mixed with  profligate, debased ceremonies, and lascivious rites,  which in time caused the more pure part of the worship  to be forgotten. But Phallicism is not to be judged  from these sacred orgies, any more than Christianity  from the religious excitement and wild excesses of a few  Christian sects during the Middle Ages.   In a work on the  Worship of the Generative Powers  during the Middle Ages,” the writer traces the superstition  westward, and gives an account of its prevalence throughout Southern and Western Europe during that period.   The worship was very prevalent in Italy, and was  invariably carried by the Romans into the countries they  conquered, where they introduced their own institutions  and forms of worship. Accordingly, in Britain have  been found numerous relics and remains; and many  of our ancient customs are traced to a Phallic origin.   When we cross over to Britain,” says the writer,  we  find this worship established no less firmly and extensively  in that island; statuettes of Priapus, Phallic bronzes. pottery covered with obscene pictures, are found wherever  there are any extensive remains of Roman occupation,  as our antiquaries know well. The numerous Phallic  figures in bronze found in England are perfectly identical  in character with those that occur in France and Italy.”   All antiquaries of any experience know the great number  of obscene subjects which are met with among the fine  red pottery which is termed Samian ware, found so  abundantly in all Roman sites in our island.  They  represent erotic scenes, in every sense of the word, with  figures of Priapus and Phallic emblems. The Phallus, or Lingam, which stood for the image  of the male organ, or emblem of creation, has been  worshipped from time immemorial. Payne Knight  describes it as of the greatest antiquity, and as having  prevailed in Egypt and all over Asia.   The women of the former country carried in their religious processions, a movable Phallus of disproportionate  magnitude, which Deodorus Siculus informs us signified  the generative attribute. It has also been observed  among the idols of the native Americans and ancient  Scandinavians, while the Greeks represented the Phallus  alone, and changed the personified attribute into a distinct  deity, called Priapus.   Phallus, or privy member ( membrum virile ), signifies,   he breaks through, or passes into.” This word survives  in German pfabl, and pole in English. Phallus is supposed     Phallic Worship    ii    to be of Phoenician origin, the Greek word pallo> or  phallo,  to brandish preparatory to throwing a missile,”  is so near in assonance and meaning to Phallus, that one  is quite likely to be parent of the other. In Sanskrit  it can be traced to phal>  to burst,”  to produce,”  to  be fruitful ”; then, again, phal is  a ploughshare,” and  is also the name of Siva and Mahadeva, who are Hindu  deities. Phallus, then, was the ancient emblem of  creation : a divinity who was companion to Bacchus.   The Indian designation of this idol was Lingam, and  those who dedicated themselves to its service were to  observe inviolable chastity.  If it were discovered,”  says Crawford,  that they had in any way departed from  them, the punishment is death. They go naked, and  being considered as sanctified persons, the women  approach without scruple, nor is it thought that their  modesty should be offended by it.”  SYMBOLS OR EMBLEMS   The Phallus and its emblems were representative of the  gods Bacchus, Priapus, Hercules, Siva, Osiris, Baal, and  Asher, who were all Phallic deities. The symbols were  used as signs of the great creative energy or operating  power of God from no sense of mere animal appetite,  but in the highest reverence. Payne Knight, describing  the emblems, says: Forms and ceremonials of a religion are not always  to be understood in their direct and obvious sense, but are to be considered as symbolical representations of some  hidden meaning extremely wise and just, though the  symbols themselves, to those who know not their true  signification, may appear in the highest degree absurd  and extravagant. It has often happened that avarice  and superstition have continued these symbolical representations for ages after their original meaning has  been lost and forgotten; they must, of course, appear  nonsensical and ridiculous, if not impious and extravagant.  Such is the case with the rite now under consideration,  than which nothing can be more monstrous and indecent,  if considered in its plain and obvious meaning, or as part  of the Christian worship; but which will be found to be  a very natural symbol of a very natural and philosophical  system of religion, if considered according to its original  use and intention.”   The natural emblems were those which from their  character were most suitable representatives; such as  poles, pillars, stones, which were sacred to Hindu,  Egyptian, and Jewish divinities.   Blavalsky gives an account of the Bimlang Stone, to  be found at Narmada and other places, which is sacred  to the Hindu deity Siva; these emblem stones were  anointed, like the stone consecrated by the Patriarch  Jacob.   Blavalsky further says that these stones are  identical  in shape, meaning, and purpose with the ‘ pillars ’ set up  by the several patriarchs to mark their adoration of the  Lord God. In fact, one of these patriarchal lithoi might  even now be carried in the Sivaitic processions of Calcutta  without its Hebrew derivation being suspected. The Pole was an emblem of the Phallus, and with the  serpent upon it, was a representative of its divine wisdom  and symbol of life. The serpent upon the tree is the same  in character, both are representative of the tree of life.  The story of Moses will well illustrate this, when he  erected in the wilderness this effigy, which stood as a  sign of hope and life, as the cross is used by the Catholics  of the present day; the cross then, as now, being simply  an emblem of the Creator, used as a token of resurrection  or regeneration. iEsculapius, as the restorer of health,  has a rod or Phallus with a serpent entwined.   The Rev. M. Morris has shown that the raising of the  May-pole is of Phallic origin, the remains of a custom of  India or Egypt, and is typical of the fructifying powers  of spring. The May festival was carried on with great licentiousness by the Romans, and was celebrated by nearly all  peoples as the month consecrated to Love. The May-day  in England was the scene of riotous enjoyment, very  nearly approaching to the Roman Floralia. No wonder  the Puritans looked upon the May-pole as a relic of  Paganism, and in their writings may be gleaned much  of the licentious character of the festival.   Philip Stubbes, a Puritan writer in the reign of Elizabeth,  thus describes a May-day in England :  Every parishe,  towne, and village assemble themselves together, bothe  men, women, and children, olde and younge even indifferently; and either goyng all together, or devidyng  themselves into companies, they go some to the woods  and groves, some to one place, some to another, where  thei spend all the night in pleasant pastymes; and in the     14 Phallic Worship   mornyng they returne, bryngyng with them birch bowes  and branches of trees, to deck their assemblies withall. But their cheerest jewell thei bryng from thence  is their Maie pole, whiche thei bryng home with great  veneration, as thus : thei have twentie or fortie yoke  of oxen, every oxe havyng a sweet nosegaie of flowers  placed on the tippe of his homes, and these oxen drawe  home this Maie pole (this stinckyng idoll rather), which  is covered all over with flowers and hearbes, bound  rounde aboute with strynges from the top to the bottome,  and sometyme painted with variable colours, with two  or three hundred men, women, and children, folio wyng  it with great devotion. And thus beyng reared up, with  handekerchiefes and flagges streamyng on the top, thei  strawe the grounde aboute, binde greene boughes aboute  it, sett up sommer haules, bowers, and arbours hard by  it. And then fall thei to banquet and feast, to leape and  daunce aboute it, as the heathen people did at the dedication  of their idols, whereof this is a perfect patterne, or rather  the thyng itself.” The ceremony was almost identical with the Roman  festival, where the Phallus was introduced with garlands.  Both were attended with the same licentiousness, for  Stubbes gives a further account of the depravity attending  the festivities. PILLARS   Another type of emblem was the stone pillar, remains of  which still exist in the British Isles. These pillars or so  called crosses generally consist of a shaft of granite with a carved head. In the West of England crosses are very  common, standing in the market and receiving the name  of  The Cross.”   These stone pillars were first erected in honour of the  Phallic deity, and on the introduction of Christianity  were not destroyed, but consecrated to the new faith,  doubtless to honour the prejudices of the people. These  monolisks abound in the Highlands, they are stones set  up on end, some twenty-four or thirty feet high, others  higher or lower and this sometimes where no such stones  are to be quarried.   We learn that the Bacchus of the Thebans was a pillar.  The Assyrian Nebo was represented by a plain pillar,  consecrated by anointing with oil. Arnobius gives an  account of this practice, as also does Theophrastus, who  speaks of it as a custom for a superstitious man, when  he passed by these anointed stones in the streets to take  out a phial of oil and pour it upon them and having  fallen on his knees to make his adorations, and so depart.   In various parts of the Bible the Pillar is referred to as  of a sacred character, as in Isaiah,  In that  day shall there be an altar to Jehovah in the midst oi the  land of Egypt, and a pillar at the border thereof to Jehovah,  and it should be for a sign and a witness to the Lord.”   The Orphic Temples were doubtless emblems of the  same principle of the mystic faiths of the ancients, the  same as the Round Towers of Ireland, a history of which  was collected by O’Brien, who describes the Towers as   Temples constructed by the early Indian colonists  of the country in honour of the Fructifying principle of  nature, emanating as was supposed from the Sun, or the  deity of desire instrumental in that principle of universal  generativeness diffused throughout all nature. According to the same author these towers were very  ancient, and of Phoenician origin, as similar towers have  been found in Phoenicia.  The Irish themselves,” says  O’Brien,  designated them ‘ Bail-toir,’ that is the tower  of Baal. Baal was the name of the Phallic deity, and the  priest who attended them ‘ Aoi Bail-toir ’ or superintendent of Baal tower.” This Baal was worshipped  wherever the Phoenicians went, and was represented by  a pillar or stone or similar objects. The stone that  Jacob set up, and anointed as a rallying place for worship,  became afterwards an object of worship to the Phoenicians.   The earliest navigators of the world were the Phoenicians,  they founded colonies and extended their commerce  first to the isles of the Mediterranean, from thence to  Spain, and then to the British Isles. Historians have  accorded to them the settlements of the most remote  localities. They formed settlements in Cyprus, and  Atticum, according to Josephus, was the principal settlement of the Tyrians upon this island. Strabo’s testimony  is, that the Phoenicians, even before Homer, had possessed  themselves of the best part of Spain.   Where the Phoenicians settled, there they introduced  their religion, and it is in these countries we find the  remains of ancient stone and pillar worship. LOGGIN STONES, ETC.   Loggin stones are by Payne Knight considered as  Phallic emblems.  Their remains,” he says,  are still  extant, and appear to have been composed of a crone set  into the ground, and another placed upon the point of  it and so nicely balanced that the wind could move it,  though so ponderous that no human force, unaided by  machinery, can displace it; whence they are called  * logging rocks * and * pendre stones/ as they were  anciently * living stones * and 4 stones of God/ titles  which differ very little in meaning from that on the  Tyrian coins. Damascius saw several of them in the  neighbourhood of Heliopolis or Baalbeck, in Syria,  particularly one which was then moved by the wind;  and they are equally found in the Western extremities  of Europe and the Eastern extremities of Asia, in Britain,  and in China.”   Bryant mentions it as very usual among the Egyptians  to place with much labour one vast stone upon another  for a religious memorial.   Such immense masses, being moved by causes seeming  so inadequate, must naturally have conveyed the idea of  spontaneous motion to ignorant observers, and persuaded  them that they were animated by an emanation of the  vital spirit, whence they were consulted as oracles, the  responses of which could always be easily obtained by  interpreting the different oscillatory movements into  nods of approbation or dissent.   Phallic emblems abounded at Heliopolis in Syria, and  many other places, even in modern times. A physician,  writing to Dr. Inman, says :  I was in Egypt last winter  (1865-66), and there certainly are numerous figures of  gods and kings, on the walls of the temple at Thebes,  depicted with the male genital erect. The great temple  at Karnak is, in particular, full of such figures, and the  temple of Danclesa likewise, though that is of much later  date, and built merely in imitation of old Egyptian art.  The same inspiring bas-reliefs arc pointed out by Ezek. I remember one scene of a king (Rameses II)  returning in triumph with captives, many of whom were  undergoing the process of castration.”   Obelisks were also representative of the same emblem.  Payne Knight mentions several terminating in a cross,  which had exactly the appearance of one of those crosses  erected in churchyards and at cross roads for the adoration  of devout persons, when devotions were more prevalent  than at present. Stones, pillars, obelisks, stumps of  trees, upright stones have all the same signification, and  are means by which the male element was symbolised. TRIADS   The Triune idea is to be found in the system of almost  every nation. All have their Trinity in Unity, three in  one, which can be distinctly recognised in the cross.  The Triad is the male or triple, the constitution of the  three persons of most sacred Trinity forming the Triune  system. In the analysis of the subject by Rawlinson,  we find the Trinity consisted of Asshur or Asher, associated  with Anu and Hea or Hoa. Asshur, the supreme god of  the Assyrians, represents the Phallus or central organ  or the Linga, the membrum virile . The cognomen Anu  was given to the right testis, while that of Hea designated  the left.   It was only natural that Asshur being deified, his  appendages should be deified also.  Beltus,” says  Inman,  was the goddess associated with them, the four  together made up Arba or Arba-il, the four great gods,”  the Trinity in Unity. The idea thus broached receives great confirmation when we examine the particular stress  laid in ancient times respecting the right and left side of  the body in connection with the Triad names given to  offspring mentioned in the scriptures with the titles given  to Anu and Hea. The male or active principle was typified  by the idea of solidity ” and  firmness,” and the  females or passive by the principles of  water,”  softness,” and other feminine principles. Thus the goddess  Hea was associated with water, and according to Forlong,  the Serpent, the ruler ot the Abyss, was sometimes represented to be the great Hea, without whom there was no  creation or life, and whose godhead embraced also the  female element water.   Rawlinson also gives a similar conclusion, and states  as far as he could determine the third divinity or left side  was named Hea, and he considered this deity to correspond  to Neptune. Neptune was the presiding deity of the deep,  ruler of the abyss, and king of the rivers. As Darwin  and his coadjutors teach, mankind, in common with all  animal life, originally sprung from the sea; so physiology  teaches that each individual had origin in a pond of water.  The fruit of man is both solid and fluid. It was natural  to imagine that the two male appendages had a distinct  duty, that one formed the infant, the other water in which  it lived, that one generated the male, the other the female  offspring; and the inference was then drawn that water  must be feminine, the emblem of all possible powers of  creation.   It will be seen that the names and signification of the  gods and their attributes had no ideal meaning. Thus in  Genesis xxx. 13, we find Asher given as a personality,  which signifies  to be straight,”  upright,”  fortunate,”    happy.” Asher was the supreme god of the Assyrians,  the Vedic Mahadeva, the emblem of the human male  structure and creative energy. The same idea of the  creator is still to be seen in India, Egypt, Phoenicia, the  Mediterranean, Europe, and Denmark, depicted on stone  relics.   To a rude and ignorant people, enslaved with such a  religion, it was an easy step from the crude to the more  refined sign, from the offensive to a more pictured and  less obnoxious symbol, from the plain and self-evident  to the mixed, disguised, and mystified, from the unclothed  privy member to the cross. The Triad, or Trinity, has been traced to Phoenicia,  Egypt, Japan, and India; the triple deities Asshur, Anu,  and Hea forming the  tau.” This mark of the Christians,  Greeks, and Hebrews became the sign or type of the  deities representing the Phallic trinity, and in time became  the figure of the cross. It is remarked by Payne Knight  that  The male organs of generation are sometimes found  represented by signs of the same sort, which properly  should be called the symbol of symbols. One of the most  remarkable of these is a cross, in the form of the letter  (T), which thus served as the emblem of creation and  generation before the Church adopted it as a sign of  salvation.”   Another writer says,  Reverse the position of the  triple deities Asshur, Anu, Hea, and we have the figure  of the ancient tau of the Christians, Greeks, and ancient  Hebrews. It is one of the oldest conventional forms of  the cross. It is also met with in Gallic, Oscan, Arcadian,  Etruscan, original Egyptian, Phoenician, Ethiopic, and  Pelasgian forms. The Ethiopic form of the * tau ’ is the  exact prototype and image of the cross, or rather, to state  the fact in order of merit and time, the cross is made in  the exact image of the Ethiopic * tau.’ The fig-leaf,  having three lobes to it, became a symbol of the triad.  As the male genital organs were held in early times  to exemplify the actual male creative power, various  natural objects were seized upon to express the theistic  idea, and at the same time point to those parts of the human  form. Hence, a similitude was recognised in a pillar,  a heap of stones, a tree between two rocks, a club between  two pine cones, a trident, a thyrsus tied round with two  ribbons with the two ends pendant, a thumb and two  fingers, the caduceus. Again, the conspicuous part of  the sacred triad Asshur is symbolised by a single stone  placed upright  the stump of a tree, a block, a tower,  spire, minaret, pole, pine, poplar, or palm tree, while  eggs, apples, or citrons, plums, grapes, and the like  represented the remaining two portions, altogether called  Phallic emblems. Baal-Shalisha is a name which seems  designed to perpetuate the triad, since it signifies c my  Lord the Trinity,’ or ‘ my God is three.’ ”   We must not omit to mention other Phallic emblems,  such as the bull, the ram, the goat, the serpent, the torch,  fire, a knobbed stick, the crozier; and still further personified, as Bacchus, Priapus, Dionysius, Hercules,  Hermes, Mahadeva, Siva, Osiris, Jupiter, Moloch, Baal,  Asher, and others.   If Ezekiel is to be credited, the triad, T, as Asshur,  Anu, and Hea, was made of gold and silver, and was in  his day not symbolically used, but actually employed; for he bluntly says  whoredom was committed with the  images of men/’ or, as the marginal note has it, images  of  a male (Ezek.). It was with this god-mark   a cross in the form of the letter T  that Ezekiel was  directed to stamp the foreheads of the men of Judaea  who feared the Lord (Ezek. ix. 4).   That the cross, or crucifix, has a sexual origin we  determine by a similar rule of research to that by which  comparative anatomists determine the place and habits of  an animal by a single tooth. The cross is a metaphoric  tooth which belongs to an antique religious body physical,  and that essentially human. A study of some of the  earliest forms of faith will lift the veil and explain the  mystery.   India, China, and Egypt have furnished the world with  a genus of religion. Time and culture have divided and  modified it into many species and countless varieties.  However much the imagination was allowed to play upon  it, the animus of that religion was sexuality  worship  of the generative principle of man and nature, male and  female. The cross became the emblem of the male  feature, under the term of the triad  three in one. The  female was the unit; and, joined to the male triad, constituted a sacred four. Rites and adoration were sometimes  paid to the male, sometimes to the female, or to the two  in one.   So great was the veneration of the cross among the  ancients that it was carried as a Phallic symbol in the  religious processions of the Egyptians and Persians.  Higgins also describes the cross as used from the earliest  times of Paganism by the Egyptians as a banner, above  which was carried the device of the Egyptian cities.   The cross was also used by the ancient Druids, who held it as a sacred emblem. In Egypt it stood for the signification of eternal life. Schedeus describes it as customary  for the Druids  to seek studiously for an oak tree, large  and handsome, growing up with two principal arms in  the form of a cross, besides the main stem upright. If  the two horizontal arms are not sufficiently adapted to  the figure, they fasten a cross-beam to it. This tree they  consecrate in this manner : Upon the right branch they  cut in the bark, in fair characters, the word ‘ Hesus ’;  upon the middle, or upright stem, the word ‘ Taranius 9;  upon the left branch * Belenus *; over this, above the  going off of the arms, they cut the name of the god Thau;  under all, the same repeated, Thau ”    YONI   There is in Hindostan an emblem of great sanctity,  which is known as the  Linga-Yoni.” It consists of  a simple pillar in the centre of a figure resembling the  outline of a conical ear-ring. It is expressive of the female  genital organ both in shape and idea. The Greek letter   Delta ” is also expressive of it, signifying the door of a  house.   Yoni is of Sanskrit origin. Yanna, or Yoni, means the vulva, the womb, the place of birth, origin, water, a mine, a hole, or pit. As Asshur  and Jupiter were the representatives of the male potency,  so Juno and Venus were representatives of the female  attribute. Moore, in his  Oriental Fragments,” says :   Oriental writers have generally spelled the word,  * Yoni/ which I prefer to write ‘ IOni/ As Lingam     24 Phallic Worship   was the vocalised cognomen of the male organ, or deity,  so IOni was that of hers.” Says R. P. Knight :  The  female organs of generation were revered as symbols  of the generative powers of nature or of matter, as those  of the male were of the generative powers of God. They  are usually represented emblematically by the shell  Concha Veneris, which was therefore worn by devout  persons of antiquity, as it still continues to be by the  pilgrims of many of the common people of Italy ” ( On  the worship of Priapus,” p. 28).   If Asshur, the conspicuous feature of the male Creator,  is supplied with types and representative figures of himself,  so the female feature is furnished with substitutes and  typical imagery of herself.   One of these is technically known as the sistrum of  Isis. It is the virgin’s symbol. The bars across the  fenestrum> or opening, are bent so that they cannot be  taken out, and indicate that the door is closed. It signifies  that the mother is still virgo intacta  a truly immaculate  female  if the truth can be strained to so denominate  a mother . The pure virginity of the Celestial Mother  was a tenet of faith for 2,000 years before the accepted  Virgin Mary now adored was born. We might infer  that Solomon was acquainted with the figure of the  sistrum, when he said,  A garden enclosed is my spouse,  a spring shut up, a fountain sealed ” (Song of Sol. iv. 12).  The sistrum, we are told, was only used in the worship  of Isis, to drive away Typhon (evil).   The Argha is a contrite form, or boat-shaped dish or  plate used as a sacrificial cup in the worship of Astarte,  Isis, and Venus. Its shape portrays its own significance.  The Argha and crux ansata were often seen on Egyptian  monuments, and yet more frequently on bas-reliefs. Equivalent to Iao, or the Lingam, we find Ab, the  Father, the Trinity; Asshur, Anu, Hea, Abraham, Adam,  Esau, Edom, Ach, Sol, Helios (Greek for Sun), Dionysius,  Bacchus, Apollo, Hercules, Brahma, Vishnu, Siva, Jupiter,  Zeus, Aides, Adonis, Baal, Osiris, Thor, Oden; the cross,  tower, spire, pillar, minaret, tolmen, and a host of others;  while the Yoni was represented by IO, Isis, Astarte, Juno,  Venus, Diana, Artemis, Aphrodite, Hera, Rhea, Cybele,  Ceres, Eve, Frea, Frigga; the queen of Heaven, the oval,  the trough, the delta, the door, the ark, the ship, the  chasm, a ring, a lozenge, cave, hole, pit. Celestial Virgin,  and a number of other names. Lucian, who was an  Assyrian, and visited the temple of Dea Syria, near the  Euphrates, says there are two Phalli standing in the porch  with this inscription on them,  These Phalli I, Bacchus,  dedicate to my step-mother Juno.”   The Papal religion is essentially the feminine, and built  on the ancient Chaldean basis. It clings to the female  element in the person of the Virgin Mary. Naphtali  (Gen. xxx. 8) was a descendant of such worshippers,  if there be any meaning in a concrete name. Bear in mind,  names and pictures perpetuate the faith of many peoples.  Neptoah is Hebrew for  the vulva,” and, A1 or El being  God, one of the unavoidable renderings of Naphtali is  the Yoni is my God,” or I worship the Celestial  Virgin.” The Philistine towns generally had names  strongly connected with sexual ideas. Ashdod, aisb or  esby means  fire, heat,” and dod means  love, to love,”   boiled up,”  be agitated,” the whole signifying  the  heat of love,” or  the fire which impels to union.”  Could not those people exclaim, Our God is love?  (John). The amatory drift of Solomon’s song is undisguised.     26 Phallic Worship   though the language is dressed in the habiliments of seeming decency. The burden of thought of most of it bears  direct reference to the Linga-Yoni. He makes a woman  say,  He shall lie all night betwixt my breasts ” (S. of S.  i. 1 3). Again, of the Phallus, or Linga, she says,  I  will go up the palm-tree, I will take hold of the boughs  thereof ” (vii. 8). Palm-tree and boughs are euphemisms  of the male genitals. The nations surrounding the Jews practising the  Phallic rites and worshipping the Phallic deities, it is not  to be supposed that the Jews escaped their influence.  It is indeed certain that the worship of the Phallics was a  great and important part of the Hebrew worship.   This will be the more plainly seen when we bear in  mind the importance given to circumcision as a covenant  between God and man. Another equally suggestive  custom among the Patriarchs was the act of taking the  oath, or making a sacred promise, which is commented  upon by Dr. Ginsingburg in Kitto’s Cyclopadia. He says :   Another primitive custom which obtained in the  patriarchal age was, that the one who took the oath put  his hand under the thigh of the adjurer (Gen.). This practice evidendy arose from the  fact that the genital member, which is meant by the euphemistic expression thigh, was regarded as the most sacred  part of the body, being the symbol of union in the tenderest  relation of matrimonial life, and the seat whence all issue proceeds and the perpetuity so much coveted by the  ancients. Compare Gen; Exod.; Judges. Hence the creative organ became the symbol  of the Creator, and the object of worship among all  nations of antiquity. It is for this reason that God  claimed it as a sign of the covenant between himself  and his chosen people in the rite of circumcision. Nothing  therefore could render the oath more solemn in those days  than touching the symbol of creation, the sign of the  covenant, and the source of that issue who may at any  future period avenge the breaking a compact made with  their progenitor.” From this we learn that Abraham,  himself a Chaldee, had reverence for the Phallus as an  emblem of the Creator. We also learn that the rite of  circumcision touches Phallic or Lingasic worship. From  Herodotus we are informed that the Syrians learned  circumcision from the Egyptians, as did the Hebrews.  Says Dr. Inman : I do not know anything which  illustrates the difference between ancient and modern  times more than the frequency with which circumcision is  spoken of in the sacred books, and the carefulness with  which the subject is avoided now.”   The mutilation of male captives, as practised by Saul  and David, was another custom among the worshippers  of Baal, Asshur, and other Phallic deities. The practice  was to debase the victims and render them unfit to take  part in the worship ?nd mysteries. * Some idea can be  formed of the esteem in which people in former times  cherished the male or Phallic emblems of creative power  when we note the sway that power exercised over them.  If these organs were lost or disabled, the unfortunate one  was unfitted to meet in the congregation of the Lord,  and disqualified to minister in the holy temples. Excessive punishment was inflicted upon the person who had the  temerity to injure the sacred structure. If a woman were  guilty of inflicting injury, her hand was cut off without  pity (Deut.). The great object of veneration  in the Ark of the Covenant was doubtless a Phallic  emblem, a symbol of the preservation of the germ of  life.   In the historical and prophetic books of the Old  Testament we have repeated evidence that the Hebrew  worship was a mixture of Paganism and Judaism, and  that Jehovah was worshipped in connection with other  deities. Hezekiah is recorded in 2 Kings xviii. 3, to  have  removed the high places, and broken the images,  and cut down the groves (Ashera), and broken in pieces  the brazen serpent that Moses had made, for unto those  days the children of Israel did burn incense to it.” The  Ashera, or sacred groves here alluded to are named  from the goddess Ashtaroth, which Dr. Smith describes  as the proper name of the goddess; while Ashera is the  name of the image of the goddess. Rawlinson, in his  Five Great Monarchies of the Ancient World, describes  Ashera to imply something that stood straight up, and  probably its essential element was the stem of a tree,  an analogy suggestive of the Assyrian emblem of the  Tree of Life of the Scriptures. This stem, which stood  for the emblem of life, was probably a pillar, or Phallus,  like the Lingi of the Hindus, sometimes erected in a grove  or sacred hollow, signifying the Yoni and Lingi. We  read in 2 Kings xxi. 7, that Manasseh  set up a graven  image in the grove,” and, according to Dr. Oort, the older  reading is in 2 Chron. xxxiii. 7, 15, where it is an image  or pillar. During the reigns of the Jewish kings, the  worship of Baal, the Priapus of the Romans,  was extensively practised by the Jews. Pillars and  groves were reared in his name.   In front of the Temple of Baal, in Samaria, was erected  an Ashera (i Kings xvi. 31, 32) which e ven survived  the temple itself, for although Jehu destroyed the Temple  of Baal, he allowed the Ashera to remain (2 Kings x.  18, 19; xiii. 6). Bernstein, in an important work on  the origin of the legends of Abraham, Isaac, and Jacob,  undoubtedly proves that during the monarchial period  of Israel, the sanguinary wars and violent conflicts between  the two kingdoms of Judah and Israel were between  the Elohistic and Jehovahic faiths, kept alive by the  priesthood at the chief places of worship, concerning the  true patriarch, and each party manufacturing and inserting  legends to give a more ancient and important part to its  own faith.   It is not at all improbable that the conflict was between  the two portions of the Phallic faith, the Lingam and  Yoni parties. The cause of this conflict was the erection  of the consecrated stones or pillars which were put up  by the Hebrews as objects of Divine worship. The altar  erected by Jacob at Bethel was a pillar, for according  to Bernstein the word altar can only be used for the erection  of a pillar. Jacob likewise set up a Matzebah, or pillar  of stone, in Gilead, and finally he set one up upon the  tomb of Rachel.   A great portion of the facts have been suppressed by  the translators, who have given to the world histories  which have glossed over the ancient rites and practices  of the Jews.   An instance is given by Forlong on the important  word  Rock or Stone,” a Phallic emblem to which the  Jews addressed their devotions. He says, It should not be, but I fear it is, necessary to explain to mere English  readers of the Old Testament that the Stone or Rock Tsur  was the real old god of all Arabs, Jews, and Phoenicians,  that this would be clear to Christians were the Jewish  writings translated according to the first ideas of the  people and Rock used as it ought to be, instead of ‘ God/  * Theos/ ‘ Lord,’ etc., being written where Tsur occurs .  Numerous instances of this are given in Dr. Ort’s worship  of Baal in Israel, where praises, addresses, and adorations  are addressed to the Rock, instance, Deut. xxxii. 4, 18.  Stone pillars were also used by the Hebrews as a memorial  of a sacred covenant, for we find Jacob setting up a pillar  as a witness, that he would not pass over it. Connected  with this pillar worship is the ceremony of anointing  by pouring oil upon the pillar, as practised by Jacob  at Bethel. According to Sir W. Forbes, in his Oriental  Memoirs, the  pouring of oil upon a stone is practised  at this day upon many a shapeless stone throughout  Hindostan.”   Toland gives a similar account of the Druids as practising  the same rite, and describes many of the stones found in  England as having a cavity at the top made to receive the  offering. The worship of Baal like the worship of  Priapus was attended with prostitution, and we find the  Jews having a similar custom to the Babylonians.   Payne Knight gives the following account of it in his  work :  The women of every rank and condition held  it to be an indispensable duty of religion to prostitute  themselves once in their lives in her temple to any stranger  who came and offered money, which, whether little or  much, was accepted, and applied to a sacred purpose.  Women sat in the temple of Venus awaiting the selection  of the stranger, who had the liberty of choosing whom he liked. A woman once seated must remain until she  has been selected by a piece of silver being cast into her  lap, and the rite performed outside the temple. Similar customs existed in Armenia, Phrygia, and even  in Palestine, and were a feature of the worship of Baal  Peor. The Hebrew prophets described and denounced  these excesses which had the same characteristics as the  rites of the Babylonian priesthood. The identical  custom is referred to in 1 Sam. ii. 22, where  the sons of  Eli lay with the women that assembled at the door of the  tabernacle of the congregation.”   Words and history corroborate each other, or are apt  to do so if contemporaneous. Thus kadesh, or kaesb,  designate in Hebrew  a consecrated one,” and history  tells the unworthy tale in descriptive plainness, as will  be shown in the sequel.   That the religion was dominating and imperative is  determined by Deut. xvii. 12, where presumptuous  refusal to listen to the priest was death to the offender.  To us it is inconceivable that the indulgence of passion  could be associated with religion, but so it was. Much  as it is covered over by altered words and substituted  expressions in the Bible  an example of which see men  for male organ, Ezek. xvi. 17  it yet stands out offensively  bold. The words expressive of  sanctuary,”  consecrated,” and  Sodomite,” are in the Hebrew essentially  the same. They indicate the passion of amatory devotion.  It is among the Hindus of to-day as it was in Greece and  Italy of classic times; and we find that  holy women ”  is a title given to those who devote their bodies to be used  for hire, the price of which hire goes to the service of the  temple.   As a general rule, we may assume that priests who make or expound the laws, which they declare to be from God,  are men, and, consequently, through all time, have  thought, and do think, of the gratification of the masculine  half of humanity. The ancient and modern Orientals  are not exceptions. They lay it down as a momentous  fact that virginity is the most precious of all the possessions  of a woman, and, being so, it ought, in some way or  other, to be devoted to God.   Throughout India, and also through the densely  inhabited parts of Asia, and modern Turkey there is a  class of females who dedicate themselves to the service  of the deity whom they adore; and the rewards accruing  from their prostitution are devoted to the service of the  temple and the priests officiating therein.   The temples of the Hindus in the Dekkan possessed  their establishments. They had bands of consecrated  dancing-girls called the Women of the Ido/, selected in their  infancy by the priests for the beauty of their persons, and  trained up with every elegant accomplishment that could  render them attractive.   We also find David and the daughters of Shiloh performing a wild and enticing dance; likewise we have the  leaping of the prophets of Baal.   It is again significant that a great proportion of Bible  names relate to  divine,” sexual, generative, or creative  power; such as Alah,  the strong one ”; Ariel,  the  strong Jas is El”; Amasai, Jah is firm”; Asher,  <c the male ” or  the upright organ ”; Elijah,  El is  Jah ”; Eliab,  the strong father ”; Elisha, iC El is  upright ”; Ara,  the strong one,”  the hero ”; Aram,  " high,” or,  to be uncovered ”; Baal Shalisha,  my  Lord the trinity,” or  my God is three ”; Ben-zohett,  M son of firmness ”; Camon,  the erect One ”; Cainan, he stands upright ”; these are only a few of the many  names of a similar signification.   It will be seen, from what has been given, that the Jews,  like the Phoenicians (if they were not the same), had the  same ceremonies, rites, and gods as the surrounding  nations, but enough has been said to show that Phallic  worship was much practised by the Jews. It was very  doubtful whether the Jehovah-worship was not of a  monotheistic character, but those who desire to have a  further insight into the mysteries of the wars between the  tribes should consult Bernstein’s valuable work. EARTH MOTHER  The following interesting chapter is taken from a  valuable book issued a few years ago anonymously: Mother Earth ” is a legitimate expression, only of  the most general type. Religious genius gave the female  quality to the earth with a special meaning. When once  the idea obtained that our world was feminine, it was  easy to induce the faithful to believe that natural chasms  were typical of that part which characterises woman.  As at birth the new being emerges from the mother,  so it was supposed that emergence from a terrestrial  cleft was equivalent to a new birth. In direct proportion  to the resemblance between the sign and the thing signified  was the sacredness of the chink, and the amount of virtue  which was imparted by passing through it. From natural  caverns being considered holy, the veneration for apertures  in stones, as being equally symbolical, was a natural transition. Holes, such as we refer to, are still to be seen  in those structures which are called Druidical, both in  the British Isles and in India. It is impossible to say  when these first arose; it is certain that they survive in  India to this day. We recognise the existence of the  emblem among the Jews in Isaiah li. i, in the charge to  look  to the hole of the pit whence ye are digged.” We  have also an indication that chasms were symbolical  among the same people in Isaiah lvii. 5, where the wicked  among the Jews were described as  inflaming themselves  with idols under every green tree, and slaying the children  in the valleys under the clefts of the rocks.” It is possible  that the  hole in the wall ” (Ezek. viii. 7) had a similar  signification. In modern Rome, in the vestibule of the  church close to the Temple of Vesta, I have seen a large  perforated stone, in the hole of which the ancient Romans  are said to have placed their hands when they swore a  solemn oath, in imitation, or, rather, a counterpart, of  Abraham swearing his servant upon his thigh  that is  the male organ. Higgins dwells upon these holes, and  says :  These stones are so placed as to have a hole under  them, through which devotees passed for religious  purposes. There is one of the same kind in Ireland,  called St. Declau’s stone. In the mass of rocks at Bramham  Crags there is a place made for the devotees to pass  through. We read in the accounts of Hindostan that  there is a very celebrated place in Upper India, to which  immense numbers of pilgrims go, to pass through a place  in the mountains called  The Cow’s Belly.” In the  Island of Bombay, at Malabar Hill, there is a rock upon  the surface of which there is a natural crevice, which  communicates with a cavity opening below. This place  is used by the Gentoos as a purification of their sins.     Phallic Worship 35   which they say is effected by their going in at the opening  below, and emerging at the cavity above   born again.”  The ceremony is in such high repute in the neighbouring  countries that the famous Conajee Angria ventured by  stealth, one night, upon the Island, on purpose to perform  the ceremony, and got off undiscovered. The early  Christians gave them a bad name, as if from envy; they  called these holes  Cunni Diaboli ” (. Atiacalypsis)    BACCHANALIA AND LIBERALIA FESTIVALS   The Romans called the feasts of Bacchus, Bacchanalia  and Liberalia, because Bacchus and Liber were the names  for the same god, although the festivals were celebrated  at different times and in a somewhat different manner.  The latter, according to Payne Knight, was celebrated  on the 17th of March, with the most licentious gaiety,  when an image of the Phallus was carried openly in  triumph. These festivities were more particularly celebrated among the rural or agricultural population, who,  when the preparatory labour of the agriculturist was over,  celebrated with joyful activity Nature’s reproductive  powers, which in due time was to bring forth the fruits.  During the festival a car containing a huge Phallus was  drawn along accompanied by its worshippers, who indulged in obscene songs and dances of wild and extravagant character. The gravest and proudest matrons  suddenly laid aside their decency and ran screaming  among the woods and hills half-naked, with dishevelled  hair, interwoven with which were pieces of ivy or vine. The Bacchanalian feasts were celebrated in the latter part  of October when the harvest was completed. Wine and  figs were carried in the procession of the Bacchants, and  lastly came the Phalli, followed by honourable virgins,  called canephora, who carried baskets of fruit. These were  followed by a company of men who carried poles, at the  end of which were figures representing the organ of  generation. The men sung the Phallica and were crowned  with violets and ivy, and had their faces covered with  other kinds of herbs. These were followed by some  dressed in women’s apparel, striped with white, reaching  to their ancles, with garlands on their heads, and wreaths  of flowers in their hands, imitating by their gestures the  state of inebriety. The priestesses ran in every direction  shouting and screaming, each with a thyrsus in their  hands. Men and women all intermingled, dancing and  frolicking with suggestive gesticulations. Deodorus says  the festivals were carried into the night, and it was then  frenzy reached its height. He says,  In performing  the solemnity virgins carry the thyrsus, and run about  frantic, halloing ‘ Evoe ’ in honour of the god; then  the women in a body offer the sacrifices, and roar out the  praises of Bacchus in song as if he were present, in imitation  of the ancient Maenades, who accompanied him.” These  festivities were carried into the night, and as the celebrators  became heated with wine, they degenerated into extreme  licentiousness.   Similar enthusiastic frenzy was exhibited at the Lupercalian Feasts instituted in honour of the god Pan (under  the shape of a Goat) whose priests, according to Owen in  his Worship of Serpents, on the morning of the Feast ran  naked through the streets, striking the married women  they met on the hands and belly, which was held as an omen promising fruitfulness. The nymphs performing  the same ostentatious display as the Bacchants at the  festival of Bacchanalia.   The festival of Venus was celebrated towards the beginning of April, and the Phallus was again drawn in a car,  followed by a procession of Roman women to the temple  of Venus. Says a writer,  The loose women of the town  and its neighbourhood, called together by the sounding  of horns, mixed with the multitude in perfect nakedness,  and excited their passions with obscene motions and  language until the festival ended in a scene of mad revelry,  in which all restraint was laid aside.”   It is said that these festivals took their rise from Egypt,  from whence they were brought into Greece by Metampus,  where the triumph of Osiris was celebrated with secret  rites, and from thence the Bacchanals drew their original;  and from the feasts instituted by Isis came the orgies of  Bacchus. DRUID AND HEBREW FAITHS   It seems not at all improbable that the deities worshipped by the ancient Britons and the Irish, were no  other then the Phallic deities of the ancient Syrians and  Greeks, and also the Baal of the Hebrews. Dionysius  Periegites, who lived in the time of Augustus Csesar,  states that the rites of Bacchus were celebrated in the  British Isles; while Strabo, who lived in the time of  Augustus and Tiberius, asserts that a much earlier writer  described the worship of the Cabiri to have come originally from Phoenicia. Higgins, in his History of the Druids,  says, the supreme god above the rest was called Seodhoc  and Baal. The name of Baal is found both in Wales,  Gaul, and Germany, and is the same as the Hebrew Baal.   The same god, according to O’Brien, was the chief deity  of the Irish, in whose honour the round towers were  erected, which structures the ancient Irish themselves  designated Bail-toir, or the towers of Baal. In Numbers,  xxii, will be found a mention of a similar pillar consecrated  to Baal. Many of the same customs and superstitions  that existed among the Druids and ancient Irish, will  likewise be found among the Israelites. On the first  day of May, the Irish made great fires in honour of Baal,  likewise offering him sacrifices. A similar account is  given of a custom of the Druids by Toland, in an account  of the festival of the fires; he says :   on May-day eve  the Druids made prodigious fires on these earns, which  being everyone in sight of some other, could not but  afford a glorious show over a whole nation.” These  fires are said to be lit even to the present day by the  Aboriginal Irish, on the first of May, called by them  Bealtine, or the day of Belan’s fire, the same name as  given them in the Highlands of Scotland.   A similar practice to this will be noticed as mentioned in  the II Book of Kings, where the Canaanites in their worship  of Baal, are said to have passed their children through the  fire of Baal, which seems to have been a common practice,  as Ahaz, King of Israel, is blamed for having done the  same thing. Higgins in his Anacalypsis y says this superstitious custom still continues, and that on  particular  days great fires are lighted, and the fathers taking the  children in their arms, jump or run through them, and  thus pass their children through them; they also light two fires at a little distance from each other, and drive  their cattle between them.” It will be found on reference  to Deuteronomy, that this very practice is specially forbidden. In the rites of Numa, we have also the sacred  fire of the Irish; of St. Bridget, of Moses, of Mithra,  and of India, accompanied with an establishment of  nuns or vestal virgins. A sacred fire is said to have been  kept burning by the nuns of Kildare, which was established  by St. Bridget. This fire was never blown with the  mouth, that it might not be polluted, but only with  bellows; this fire was similar to that of the Jews, kept  burning only with peeled wood, and never blown with  the mouth. Hyde describes a similar fire which was kept  burning in the same way by the ancient Persians, who  kept their sacred fire fed with a certain tree called Hawm  Mogorum; and Colonel Vallancey says the sacred fire  of the Irish was fed with the wood of the tree called  Hawm. Ware, the Romish priest, relates that at Kildare,  the glorious Bridget was rendered illustrious by many  miracles, amongst which was the sacred fire, which had  been kept burning by nuns ever since the time of the  Virgin.   The earliest sacred places of the Jews were evidently  sacred stones, or stone circles, succeeded in time by  temples. These early rude stones, emblems of the  Creator, were erected by the Israelites, which in no way  differed from the erections of the Gentiles. It will be  found that the Jews to commemorate a great victory,  or to bear witness of the Lord, were all signified by stones :  thus, Joshua erected a stone to bear witness; Jacob  put up a stone to make a place sacred; Abel set up the  same for a place of worship; Samuel erected a stone as  a boundary, which was to be the token of an agreement  made in the name of God. Even Maundrel in his travels  names several that he saw in Palestine. It is curious that  where a pillar was erected there, sometime after, a temple  was put up in the same manner that the Round Towers  of Ireland were,  always near a church, but never formed  part of it. We find many instances in the Scriptures of the  erection of a number of stones among the early Israelites,  which would lead us to conclude that it was not at all  unlikely that the early places of worship among them, were  similar to the temples found in various parts of Great  Britain and Ireland. It is written in Exodus xxiv. 4,  that Moses rose up early in the morning, and builded  an altar under the hill, and twelve pillars, according to  the twelve tribes of Israel, were erected. It is also  given out that when the children of Israel should pass  over the Jordan, unto the land which the Lord giveth  them, they should set up great stones, and plaster them  with plaster, and also the words of the law were to be  written thereon. In many other places stones were  ordered to be set up in the name of the Lord, and repeated  instances are given that the stones should be twelve  in number and unhewn.   Stone temples seem to have been erected in all countries  of the world, and even in America, where, among the  early American races are to be found customs, superstitions,  and religious objects of veneration, similar to the  Phoenicians. An American writer says :   There is  sufficient evidence that the religious customs of the  Mexicans, Peruvians and other American races, are  nearly identical with those of the ancient Phoenicians. We moreover discover that many of their religious terms  have, etymologically, the same origin.” Payne Knight,  in his Worship of Priapus, devotes much of his work to show that the temples erected at Stonehenge and other  places, were of a Phoenician origin, which was simply  a temple of the god Bacchus. STONEHENGE A TEMPLE OF BACCHUS   Of all the nations of antiquity the Persians were the  most simple and direct in the worship of the Creator.  They were the puritans of the heathen world, and not  only rejected all images of God and his agents, but also  temples and altars, according to Herodotus, whose  authority we prefer to any other, because he had an  opportunity of conversing with them before they had  adopted any foreign superstitions. As they worshipped  the ethereal fire without any medium of personification  or allegory, they thought it unworthy of the dignity of  the god to be represented by any definite form, or circumscribed to any particular place. The universe was  his temple, and the all-pervading element of fire his only  symbol. The Greeks appear originally to have held  similar opinions, for they were long without statues  and Pausanias speaks of a temple at Siciyon, built by  Adrastus  who lived in an age before the Trojan war   which consisted of columns only, without wall or roof,  like the Celtic temples of our northern ancestors, or the  Phyrcetheia of the Persians, which were circles of stones  in the centre of which was kindled the sacred fire, the  symbol of the god. Homer frequently speaks of places  of worship consisting of an area and altar only, which were  probably enclosures like those of the Persians, with an altar in the centre. The temples dedicated to the creator  Bacchus, which the Greek architects called hypathral,  seem to have been anciently of this kind, whence probably  came the title ( surround with columns ”) attributed  to that god in the Orphic litanies. The remains of one of  these are still extant at Puzznoli, near Naples, which the  inhabitants call the temple of Serapis; but the ornaments  of grapes, vases, etc., found among the ruins, prove it  to have been of Bacchus. Serapis was indeed the same  deity worshipped under another form, being usually a  personification of the sun. The architecture is of the  Roman times; but the ground plan is probably that of a  very ancient one, which this was made to replace  for  it exactly resembles that of a Celtic temple in Zeeland,  published in Stukeley’s Itinerary. The ranges of square  buildings which enclose it are not properly parts of the  temple, but apartments of the priests, places for victims  and sacred utensils, and chapels dedicated to the subordinate deities, introduced by a more complicated and  corrupt worship and probably unknown to the founder  of the original edifice. The portico, which runs parallel  with these buildings, encloses the temenss, or area of  sacred ground, which in the pyratheia of the Persians was  circular, but is here quadrangular, as in the Celtic temple  in Zeeland, and the Indian pagoda before described.  In the centre was the holy of holies, the seat of the god,  consisting of a circle of columns raised upon a basement,  without roof or walls, in the middle of which was probably  the sacred fire or some other symbol of the deity. The  square area in which it stood was sunk below the natural  level of the ground, and, like that of the Indian pagoda,  appears to have been occasionally floated with water;  the drains and conduits being still to be seen, as also several fragments of sculpture representing waves, serpents, and  various aquatic animals, which once adorned the basement.  The Bacchus here worshipped, was, as we learn from the  Orphic hymn above cited, the sun in his character of  extinguisher of the fires which once pervaded the earth.  He is supposed to have done this by exhaling the waters  of the ocean and scattering them over the land, which was  thus supposed to have acquired its proper temperature  and fertility. For this reason the sacred fire, the essential  image of the god, was surrounded by the element which  was principally employed in giving effect to the beneficial  exertion* of the great attribute.   From a passage of Hecatasus, preserved by Diodorus  Siculus, it seems evident that Stonehenge and all the monuments of the same kind found in the north, belong to the  same religion which appears at some remote period to  have prevailed over the whole northern hemisphere.  According to that ancient historian, the Hyperboreans  inhabited an island beyond Gaul, as large as Sicily, in which  Apollo was worshipped in a circular temple considerable for  its si^e and riches. Apollo, we know, in the language of  the Greeks of that age, can mean no other than the sun,  which according to Caesar was worshipped by the Germans,  when they knew of no other deities except fire and the  moon. The island can evidently be no other than Britain,  which at that time was only known to the Greeks by the  vague reports of the Phoenician mariners; and so uncertain  and obscure that Herodotus, the most inquisitive and  credulous of historians, doubts of its existence. The  circular temple of the sun being noticed in such slight and  imperfect accounts, proves that it must have been something singular and important; for if it had been an  inconsiderable structure, it would not have been mentioned     44    Phallic Worship    at all; and if there had been many such in the country,  the historian would not have employed the singular  number.   Stonehenge has certainly been a circular temple, nearly  the same as that already described of the Bacchus at  Puzznoli, except that in the latter the nice execution and  beautiful symmetry of the parts are in every respect the  reverse of the rude but majestic simplicity of the former.  In the original design they differ but in the form of the  area. It may therefore be reasonably supposed that we  have still the ruins of the identical temple described by  Hecataeus, who, being an Asiatic Greek, might have  received his information from Phoenician merchants, who  had visited the interior parts of Britain when trading there  for tin. Anacrobius mentions a temple of the same kind  and form, upon Mount Zilmissus, in Thrace, dedicated  to the sun under the title of Bacchus Sebrazius. The  large obelisks of stone found in many parts of the north,  such as those at Rudstone, and near Boroughbridge, in  Yorkshire, belong to the same religion; obelisks being,  as Pliny observes, sacred to the sun, whose rays they  represented both by their form and name .  Payne Knight* s  Worship of Priapus.    BUNS AND RELIGIOUS CAKES   Says Hyslop :   The hot cross-buns of Good Friday,  and the dyed eggs of Pasch or Easter Sunday, figured in  the Chaldean rites just as they do now. The buns known,  too, by that identical name, were used in the worship of the Queen of Heaven, the goddess Easter (Ishtar or Astarte),  as early as the days of Cecrops, the founder of Athens,  1,500 years before the Christian era.”  One species of  bread,” says Bryant,  ‘ which used to be offered to the  gods, was of great antiquity, and called Bonn. 9 Diogenes  mentioned they were made of flour and honey. It  appears that Jeremiah the Prophet was familiar with this  lecherous worship. He says:   The children gather  wood, the fathers kindle the fire, and the women knead  the dough to make cakes to the Queen of Heaven (Jer.  vii., 18). Hyslop does not add that the  buns ” offered  to the Queen of Heaven, and in sacrifices to other deities,  were framed in the shape of the sexual organs, but that  they were so in ancient times we have abundance of  evidence.   Martial distinctly speaks of such things in two epigrams,  first, wherein the male organ is spoken of, second, wherein  the female part is commemorated; the cakes being made  of the finest flour, and kept especially for the palate of the  fair one. Wilford (Asiatic Researches)  says:   When the people of Syracuse were sacrificing to  goddesses, they offered cakes called mullot, shaped like the  female organ, and in some temples where the priestesses  were probably ventriloquists, they so far imposed on the  credulous multitude who came to adore the Vulva as to  make them believe that it spoke and gave oracles.”   We can understand how such things were allowed in  licentious Rome, but we can scarcely comprehend how  they were tolerated in Christian Europe, as, to all innocent  surprise we find they were, from the second part of the   Remains of the Worship of Priapus ” : that in Saintonge,  in the neighbourhood of La Rochelle, small cakes baked in     46    Phallic Worship    the form of the Phallus are made as offerings at Easter,  carried and presented from house to house. Dulare  states that in his time the festival of Palm Sunday, in the  town of Saintes, was called le fete des pinnes  feast of the  privy members  and that during its continuance the  women and children carried in the procession a Phallus  made of bread, which they called a pinne, at the end of their  palm branches; these pinnes were subsequently blessed  by priests, and carefully preserved by the women during  the year. Palm Sunday 1 Palm, it is to be remembered,  is a euphemism of the male organ, and it is curious to see  it united with the Phallus in Christendom. Dulare also  says that, in some of the earlier inedited French books on  cookery, receipts are given for making cakes of the  salacious form in question, which are broadly named. He  further tells us those cakes symbolized the male, in Lower  Limousin, and especially at B rives; while the female  emblem was adopted at Clermont, in Auvergne, and other  places. THE ARK AND GOOD FRIDAY The ark of the covenant was a most sacred symbol in  the worship of the Jews, and like the sacred boat, or  ark of Osiris, contained the symbol of the principle of  life, or creative power. The symbol was preserved with  great veneration in a miniature tabernacle, which was  considered the special and sanctified abode of the god.  In size and manner of construction the ark of the Jews  and the sacred chest of Osiris of the Egyptians were     Phallic Worship    47   exactly alike, and were carried in processions in a similar  manner   The ark or chest of Osiris was attended by the priests,  and was borne on the shoulders of men by means of  staves. The ark when taken from the temple was placed  upon a table, or stand, made expressly for the purpose,  and was attended by a procession similar to that which  followed the Jewish ark. According to Faber, the ark  was a symbol of the earth or female principle, containing  the germ of all animated nature, and regarded as the  great mother whence all things sprung. Thus the ark,  earth, and goddess, were represented by common symbols,  and spoken of in the old Testament as the  ashera.”   The sacred emblems carried in the ark of the Egyptians  were the Phallus, the Egg, and the Serpent; the first  representing the sun, fire, and male or generative principle   the Creator; the second, the passive or female, the  germ of all animated things  the Preserver; and the  last the Destroyer : the Three of the sacred Trinity.  The Hindu women, according to Payne Knight, still  carry the lingam, or consecrated symbol of the generative  attribute of the deity, in solemn procession between two  serpents; and in a sacred casket, which held the Egg  and the Phallus in the mystic processions of the Greeks,  was also a Serpent. The ark,” says Faber,  was reverenced in all the  ancient religions.” It was often represented in the form of  a boat, or ship, as well as an oblong chest. The rites of  the Druids, with those of Phoenicia and Hindostan, show  that an ark, chest, cell, boat, or cavern, held an important  place in their mysteries. In the story of Osiris, like that  of the Siva, will be found the reason for the emblem being  carried in the sacred chest, and the explanation of one of the mysteries of the Egyptian priests. It is said that  Osiris was tom to pieces by the wicked Typhon, who  after cutting up the body, distributed the parts over the  earth. Isis recovered the scattered limbs, and brought  them back to Egypt; but, being unable to find the part  which distinguished his sex, she had an image made of  wood, which was enshrined in an ark, and ordered to  be solemnly carried about in the festivals she had instituted  in his honour, and celebrated with certain secret rites.   The Egg, which accompanied the Phallus in the ark was  a very common symbol of the ancient faiths, which was  considered as containing the generation of life. The  image of that which generated all things in itself. Jacob  Bryant says :   The Egg, as it contained the principles  of life was thought no improper emblem of the ark,  in which were preserved the future world. Hence in the  Dionysian and in other mysteries, one part of the nocturnal  ceremony consisted in the consecration of an egg.”  This egg was called the Mundane Egg.   The ark was likewise the symbol of salvation, the place  of safety, the secret receptacle of the divine wisdom.  Hence we find the ark of the Jews containing the tables  of the law; we find too that the Jews were ordered to  place in the ark Aaron’s rod, which budded, conveying  the idea of symbolised fertility : showing that the ark  was considered as the receptacle of the life principle  as  an emblem of the Creator.   With the Egyptians Osiris was supposed to be buried in  the ark, which represented the disappearance of the deity.  His loss, or death, constituted the first part of the mysteries,  which consisted of lamentations for his decease. After the  third day from his death, a procession went down to the  seaside in the night, carrying the ark with them. During the passage they poured drink offerings from the river, and  when the ceremony had been duly performed, they raised a  shout that Osiris had again risen  that the dead had been  restored to life. After this followed the second or joyful  part of the mysteries. The similarity of this custom with  the Good Friday celebrations of the death of Jesus, and the  rejoicings on account of his resurrection on Easter Sunday,  will be at once observed. It is further said that the missing  part of Osiris was eaten by a fish, which made the fish a  sacred symbol. Thus we have the Ark, Fish, and Good  Friday brought together, also the Egg, for the origin of  the Easter eggs is very ancient. A bull is represented as  breaking an egg with his horn, which signified the  liberating of imprisoned life at the opening or spring of  the year, 'which had been destroyed by Typhon. The  opening of the year at that time commenced in the spring,  pot according to our present reckoning; thus, the Egg  was a symbol of the resurrection of life at the spring, or  our Easter time. The author of the  Worship of the  Generative Powers,” describes the origin of the hot crossbun at Easter, which is a further parallelism of the Christian  and Pagan festivals. The author also draws a further  conclusion  that the cakes or buns have in reality a  Phallic origin, for in France and other parts, the Easter  cakes were called after the membrun virile. The writer  says :   In the primitive Teutonic mythology, there  was a female deity named in old German, Ostara, and in  Anglo-Saxon, Eastre or Eostre; but all we know of her  is the simple statement of our father of history, Bede,  that her festival was celebrated by the ancient Saxons in  the month of April, from which circumstance that month  was named by the Anglo-Saxons, Easter-mona or Eostermona, and that the name of the goddess had been frequently given to the Paschal time, with which it was identical. The  name of this goddess was given to the same month by  the old Germans and by the Franks, so that she must have  been one of the most highly honoured of the Teutonic  deities, and her festival must have been a very important  one and deeply implanted in the popular feelings, or the  Church would not have sought to identify it with one of  the greatest Christian festivals of the year. It is understood that the Romans considered this month as dedicated  to Venus, no doubt because it was that in which the  productive powers of nature began to be visibly developed.  When the Pagan festival was adopted by the Church, it  became a moveable feast, instead of being fixed to the  month of April. Among other objects offered to the  goddess at this time were cakes, made no doubt of fine  flour, but of their form we are ignorant. The Christians  when they seized upon the Easter festival, gave them the  form of a bun, which indeed was at that time the ordinary  form of bread; and to protect themselves and those who  ate them from any enchantment  or other evil influences  which might arise from their former heathen character   they marked them with the Christian symbol  the cross.  Hence we derived the cakes we still eat at Easter under  the name of hot cross-buns, and the superstitious feelings  attached to them; for multitudes of people still believe  that if they failed to eat a hot cross-bun on Good Friday,  they would be unlucky all the rest of the year.” ARCHITECTURAL PILLARS DEVISED FROM THE  LOTUS   The earliest capital seems to have been the bell or  seed vessel, simply copied without alteration, except a  little expansion at the bottom to give it stability. The  leaves of some other plant were then added to it, and  varied in different capitals according to the different  meanings intended to be signified by the accessory symbols.  The Greeks decorated it in the same manner, with the  foliage of various plants, sometimes of the acanthus and  sometimes of the aquatic kind, which are, however,  generally so transformed by excessive attention to elegance,  that it is difficult to distinguish them. The most usual  seems to be the Egyptian acacia, which was probably  adopted as a mystic symbol for the same reasons as the  olive, it being equally remarkable for its powers of  reproduction. Theophrastus mentions a large wood of  it in the “ Thebaid,” where the olive will not grow, so  that we reasonably suppose it to have been employed by  the Egyptians in the same symbolical sense. From  them the Greeks seem to have borrowed it about the  time of the Macedonian conquest, it not occurring in any  of their buildings of a much earlier date; and as for the  story of the Corinthian architect, who is said to have  invented this kind of capital from observing a thorn  growing round a basket, it deserved no credit, being fully  contradicted by the buildings still remaining in Upper  Egypt.   The Doric column, which appears to have been the  only one known to the very ancient Greeks, was equally  derived from the Nelumbo; its capital being the same  •eed-vessel pressed flat, as it appears when withered and dry  the only state probably in which it had been seen in  Europe. The flutes in the shaft were made to hold  spears and staves, whence a spear-holder is spoken of in  the  Odyssey ” as part of a column. The triglyphs and  blocks of the cornice were also derived from utility,  they having been intended to represent the projecting  ends of the beams and rafters which formed the roof.   The Ionic capital has no bell, but volutes formed in  imitation of sea-shells, which have the same symbolical  meaning. To them is frequently added the ornament which  architects call a honeysuckle, but which seems to be  meant for the young petals of the same flower viewed  horizontally, before they are opened or expanded. Another  ornament is also introduced in this capital, which they  call eggs and anchors, but which is, in fact, composed of  eggs and spear-heads, the symbols of female generation  and male destructive power, or in the language of  mythology, of Venus and Mars. Payne Knight .  BELLS IN RELIGIOUS WORSHIP   Stripped, however, of all this splendour and magnificence it was probably nothing more than a symbolical  instrument, signifying originally the motion of the  elements, like the sistrum of Isis, the cymbals of Cybele,  the bells of Bacchus, etc., whence Jupiter is said to have  overcome the Titans with his aegis, as Isis drove away  Typhon with her sistrum, and the ringing of the bells  and clatter of metals were almost universally employed  as a means of consecration, and a charm against the destroying and inert powers. Even the Jews welcomed  the new moon with such noises, which the simplicity of  the early ages employed almost everywhere to relieve  her during eclipses, supposed then to be morbid affections  brought on by the influence of an adverse power. The  title Priapus y by which the generative attribute is distinguished, seems to be merely a corruption of Briapuos  (clamorous); the beta and pi being commutable letters,  and epithets of similar meaning, being continually applied  both to Jupiter and Bacchus by the poets. Many  Priapic figures, too, still extant, have bells attached to  them, as the symbolical statues and temples of the Hindus  are; and to wear them was a part of the worship of  Bacchus among the Greeks : whence we sometimes find  them of extremely small size, evidently meant to be worn  as amulets with the phalli, lunulas, etc. The chief priests  of the Egyptians and also the high priests of the Jews,  hung them as sacred emblems to their sacerdotal garments;  and the Brahmins still continue to ring a small bell at the  interval of their prayers, ablutions, and other acts of  devotion; which custom is still preserved in the Roman  Catholic Church at the elevation of the host. The  Lacedaemonians beat upon a brass vessel or pan, on the  death of their kings, and we still retain the custom of  tolling a bell on such occasions, though the reason of it  is not generally known, any more than that of other  remnants of ancient ceremonies still existing . 1 It will  be observed that the bells used by the Christians very  probably came direct from the Buddhists. And from the  same source are derived the beads and rosaries of the  Roman Catholics, which have been used by the Buddhist   1 The above description is from Payne Knight's "Symbolical  Language of ancient Art and Mythology."  monks for over 2,000 years. Tinkling bells were  suspended before the shrine of Jupiter Ammon, and  during the service the gods were invited to descend upon  the altars by the ringing of bells; they were likewise  sacred to Siva. Bells were used at the worship of Bacchus,  and were worn on the garments of the Bacchantes, much  in the same manner as they are used at our carnivals and  masquerades. HINDU PHALLICISM The following curious fable is given by Sir William  Jones, as one of the stories of the Hindus for the origin of  Phallic devotion : Certain devotees in a remote time had  acquired great renown and respect, but the purity of the  art was wanting, nor did their motives and secret thoughts  correspond with their professions and exterior conduct.  They affected poverty, but were attached to the things of  this world, and the princes and nobles were constantly  sending their offerings. They seemed to sequester themselves from this world; they lived retired from the towns;  but their dwellings were commodious, and their women  numerous and handsome. But nothing can be hid from  their gods, and Sheevah resolved to put them to shame.  He desired Prakeety (nature) to accompany him; and  assumed the appearance of a Pandaram of a graceful  form. Prakeety was herself a damsel of matchless worth.  She went before the devotees who were assembled with  their disciples, awaiting the rising of the sun, to perform  their ablutions and religious ceremonies. As she advanced the refreshing breeze moved her flowing robe, showed  the exquisite shape which it seemed intended to conceal.  With eyes cast down, though sometimes opening with a  timid but tender look, she approached them, and with a  low enchanting voice desired to be admitted to the sacrifice.  The devotees gazed on her with astonishment. The  sun appeared, but the purifications were forgotten;  the things of the Poo j ah (worship) lay neglected; nor  was any worship thought of but that of her. Quitting the  gravity of their manners, they gathered round her as  flies round the lamp at night  attracted by its splendour,  but consumed by its flame. They asked from whence  she came; whither she was going. ‘ Be not offended  with us for approaching thee, forgive us our importunities.  But thou art incapable of anger, thou who art made to  convey bliss; to thee, who mayest kill by indifference,  indignation and resentment are unknown. But whoever  thou mayest be, whatever motive or accident might have  brought thee amongst us, admit us into the number of  thy slaves; let us at least have the comfort to behold  thee.’ Here the words faltered on the lip, and the soul  seemed ready to take its flight; the vow was forgotten,  and the policy of years destroyed. Whilst the devotees were lost in their passions, and  absent from their homes, Sheevah entered their village  with a musical instrument in his hand, playing and singing  like some of those who solicit charity. At the sound of his  voice, the women immediately quitted their occupation;  they ran to see from whom it came. He was as beautiful  as Krishen on the plains of Matra. Some dropped their  jewels without turning to look for them; others let  fall their garments without perceiving that they discovered  those abodes of pleasure which jealousy as well as decency had ordered to be concealed. All pressed forward with  their offerings, all wished to speak, all wished to be taken  notice of, and bringing flowers and scattering them before  him, said  ‘ Askest thou alms ! thou who are made to  govern hearts. Thou whose countenance is as fresh as  the morning, whose voice is the voice of pleasure, and  they breath like that of Vassant (Spring) in the opening of  the rose I Stay with us and we will serve thee; nor  will we trouble thy repose, but only be zealous how to  please thee/ The Pandaram continued to play, and sung  the loves of Kama (God of Love), of Krishen and the  Gopia, and smiling the gentle smiles of fond desire. But the desire of repose succeeds the waste of pleasure.  Sleep closed the eyes and lulled the senses. In the  morning the Pandaram was gone. When they awoke  they looked round with astonishment, and again cast  their eyes on the ground. Some directed to those who  had formerly been remarked for their scrupulous manners,  but their faces were covered with their veils. After  sitting awhile in silence they arose and went back to their  houses, with slow and troubled steps. The devotees  returned about the same time from their wanderings after  Prakeety. The days that followed were days of embarrassment and shame. If the women had failed in their  modesty, the devotees had broken their vows. They  were vexed at their weakness, they were sorry for what  they had done; yet the tender sigh sometimes broke  forth, and the eyes often turned to where the men first  saw the maid  the women, the Pandaram.   But the women began to perceive that what the  devotees foretold came not to pass. Their disciples,  in consequence, neglected to attend them, and the offerings  from the princes and nobles became less frequent than before. They then performed various penances; they  sought for secret places among the woods unfrequented  by man; and having at last shut their eyes from the  things of this world, retired within themselves in deep  meditation, that Sheevah was the author of their  misfortunes. Their understanding being imperfect,  instead of bowing the head with humility, they were  inflamed with anger; instead of contrition for their  hypocrisy, they sought for vengeance. They performed  new sacrifices and incantations, which were only allowed  to have effect in the end, to show the extreme folly of  man in not submitting to the will of heaven.    Their incantations produced a tiger, whose mouth  was like a cavern and his voice like thunder among the  mountains. They sent him against Sheevah, who with  Prakeety was amusing himself in the vale. He smiled  at their weakness, and killing the tiger at one blow with  his club, he covered himself with his skin. Seeing themselves frustrated in this attempt, the devotees had recourse  to another, and sent serpents against him of the most  deadly kind; but on approaching him they became  harmless, and he twisted them round his neck. They  then sent their curses and imprecations against him, but  they all recoiled upon themselves. Not yet disheartened  by all these disappointments, they collected all their  prayers, their penances, their charities, and other good  works, the most acceptable sacrifices; and demanding  in return only vengeance against Sheevah, they sent a  fire to destroy his genital parts. Sheevah, incensed at  this attempt, turned the fire with indignation against the  human race; and mankind would soon have been  destroyed, had not Vishnu, alarmed at the danger,  implored him to suspend his wrath. At his entreaties Sheevah relented; but it was ordained that in his temples  those parts should be worshipped \ which the false doctrines  had impiously attempted to destroy.”    THE CROSS AND ROSARY   The key which is still worn with the Priapic hand, as an  amulet, by the women of Italy appears to have been an  emblem of the equivocal use of the name, as the language  of that country implies. Of the same kind, too, appears to  have been the cross in the form of the letter tau> attached  to a circle, which many of the figures of Egyptian deities,  both male and female, carry in their left hand; and by the  Syrians, Phoenicians and other inhabitants of Asia,  representing the planet Venus, worshipped by them as the  emblem or image of that goddess. The cross in this  form is sometimes observable on coins, and several of  them were found in a temple of Serapis, demolished at the  general destruction of those edifices by the Emperor  Theodosius, and were said by the Christian antiquaries  of that time to signify the future life. In solemn sacrifices, all the Lapland idols were marked with it from the blood  of the victims; and it occurs on many Runic ornaments  found in Sweden and Denmark, which are of an age  long anterior to the approach of Christianity to those  countries, and probably to its appearance in the world.  On some of the early coins of the Phoenicians, we find it  attached to a chaplet of beads placed in a circle, so as to  form a complete rosary, such as the Lamas of Thibet  and China, the Hindus, and the Roman Catholics now  tell over while they pray. Beads were anciently used to reckon time, and a circle,  being a line without termination, was the natural emblem  of its perpetual continuity; whence we often find circles  of beads upon the heads of deities, and enclosing the  sacred symbols upon coins and other monuments.  Perforated beads are also frequently found in tombs, both  in the northern and southern parts of Europe and Asia,  whence are fragments of the chaplets of consecration  buried with the deceased. The simple diadem, or fillet,  worn round the head as a mark of sovereignty, had a  similar meaning, and was originally confined to the statues  of deities and deified personages, as we find it upon the  most ancient coins. Chryses, the priest of Apollo, in  the  Iliad,” brings the diadem, or sacred fillet, of the  god upon his sceptre, as the most imposing and invocable  emblem of sanctity; but no mention is made of its being  worn by kings in either of the Homeric poems, nor of any  other ensign of temporal power and command, except the  royal staff or sceptre. The double sex typified by the Argha and its contents is  by the Hindus represented by the  Mymphcea ” or  Lotus, floating like a boat on the boundless ocean, where  the whole plant signifies both the earth and the two  principles of its fecundation. The germ is both Meru and  the Linga; the petals and filaments are the mountains which encircle Meru, and are also a type of the Yoni;  the leaves of the calyx are the four vast regions to the  cardinal points of Meru; and the leaves of the plant are  the Dwipas or isles round the land of Jambu. As this  plant or lily was probably the most celebrated of all the  vegetable creation among the mystics of the ancient world,  and is to be found in thousands of the most beautiful and  sacred paintings of the Christians of this day  I detain  my reader with a few observations respecting it. This is  the more necessary as it appears that the priests have now  lost the meaning of it ; at least this is the case with everyone  of whom I have made enquiry ; but it is like many other  very odd things, probably understood in the Vatican,  or the crypt of St. Peter’s. Maurice says that among the  different plants which ornament our globe, there is not  one which has received so much honour from man as  the Lotus or Lily, in whose consecrated bosom Brahma  was born, and Osiris delighted to float. This is the  sublime, the hallowed symbol that eternally occurs in  oriental mythology, and in truth not without reason, for it  is itself a lovely prodigy. Throughout all the northern  hemispheres it was everywhere held in profound  veneration, and from Savary we learn that the veneration  is yet continued among the modern Egyptians. And  we find that it still continues to receive the respect if  not the adoration of a great part of the Christian world,  unconscious, perhaps, of the original reason of this  conduct. Higgins’s Anacalypsis.   The following is an account given of it by Payne  Knight, in his curious dissertation on Phallic Worship : The Lotus is the Nelumbo of Linnaeus. This plant  grows in the water, among its broad leaves puts forth  a flower, in the centre of which is formed the seed vessel. shaped like a bell or inverted cone, and perforated on the  top with little cavities or cells, in which the seeds grow.  The orifices of these cells being too small to let the seeds  drop out when ripe, they shoot forth into new plants in  the places where they are formed : the bulb of the vessel  serving as a matrix to nourish them, until they acquire  such a degree of magnitude as to burst it open and release  themselves, after which, like other aquatic weeds, they  take root wherever the current deposits them. This  plant, therefore, being thus productive of itself, and  vegetating from its own matrix, without being fostered  in the earth, was naturally adopted as the symbol of the  productive power of the waters, upon which the active  spirit of the Creator operated in giving life and vegetation,  to matter. We accordingly find it employed in every  part of the northern hemisphere, where the symbolical  religion, improperly called idolatry, does or ever did prevail.  The sacred images of ihe Tartars, Japanese, and Indians  are almost placed upon it, of which numerous instances  occur in the publications of Kcempfer, Sonnerat, etc. The Brahma of India is represented as sitting upon his  Lotus throne, and the figure upon the Isaaic table holds the  stem of this plant surmounted by the seed vessel in one  hand, and the Cross representing the male organs of  generation in the other ; thus signifying the universal  power, both active and passive, attributed to that goddess.”   Nimrod says : The Lotus is a well-known allegory,  of which the expansive calyx represents the ship of the  gods floating on the surface of the water ; and the erect  flower arising out of it, the mast thereof. The one was  the galley or cockboat, and the other the mast of cockayne ;  but as the ship was Isis or Magna Mater, the female  principle, and the mast in it the male deity, these parts of the flower came to have certain other significations, which  seem to have been as well known at Samosata as at Benares.  This plant was also used in the sacred offices of the Jewish  religion. In the ornaments of the temple of Solomon,  the Lotus or lily is often seen.”   The figure of Isis is frequently represented holding the  stem of the plant in one hand, and the cross and circle  in the other. Columns and capitals resembling the  plant are still existing among the ruins of Thebes, in  Egypt, and the island of Philce. The Chinese goddess,  Pussa, is represented sitting upon the Lotus, called in  that country Lin, with many arms, having symbols  signifying the various operations of nature, while similar  attributes are expressed in the Scandinavian goddess  Isa or Disa.   The Lotus is also a prominent symbol in Hindu and  Egyptian cosmogony. This plant appears to have the  same tendency with the Sphinx, of marking the connection  between that which produces and that which is produced.  The Egyptian Ceres (Virgo) bears in her hand the blue  Lotus, which plant is acknowledged to be the emblem of  celestial love so frequently seen mounted on the back of  Leo in the ancient remains. The following is a translation  of the Purana relating to the cosmogony of the Hindus,  and will be found interesting as showing the importance  attached to the Lotus in the worship of the ancients : We find Brahma emerging from the Lotus. The whole  universe was dark and covered with water. On this  primeval water did Bhagavat (God), in a masculine  form, repose for the space of one Calpho (a thousand  years) ; after which period the intention of creating  other beings for his own wise purposes became predominant in the mind of the Great Creator . In the first place, by his sovereign will was produced the flower  of the Lotus, afterwards, by the same will, was brought  to light the form of Brahma from the said flower ; Brahma,  emerging from the cup of the Lotus, looked round on all  the four sides, and beheld from the eyes of his four heads  an immeasurable expanse of water. Observing the whole  world thus involved in darkness and submerged in water,  he was stricken with prodigious amazement, and began  to consider with himself, ‘ Who is it that produced me ?  whence came I ? 9 ' and where ami? Brahma, thus kept two hundred years in contemplation, prayers, and devotions, and having pondered in  his mind that without connection of male and female an  abundant generation could not be effected  again entered  into profound meditation on the power of the Supreme,  when, on a sudden by the omnipotence of God, was  produced from his right side Swayambhuvah Menu, a man  of perfect beauty ; and from the Brahma’s left side a  woman named Satarupa. The prayer of Brahma runs  thus : O Bhagavat 1 since thou broughtest me from  nonentity into existence for a particular purpose,  accomplish by thy benevolence that purpose.’ In a  short time a small white boar appeared, which soon  grew to the size of an elephant. He now felt God in all,  and that all is from Him, and all in Him. At length the  power of the Omnipotent had assumed the body of Vara.  He began to use the instinct of that animal. Having  divided the water, he saw the earth a mighty barren  stratum. He then took up the mighty ponderous globe  (freed from the water) and spread the earth like a carpet  on the face of the water ; Brahma, contemplating the  whole earth, performed due reverence, and rejoicing  exceedingly, began to consider the means of peopling the renovated world.” Pyag, now Allahabad, was the  first land said to have appeared, but with the Brahmins  it is a disputed point, for many affirm that Cast or Benares  was the sacred ground. MERU   The learned Higgins, an English judge, who for some  years spent ten hours a day in antiquarian studies, says  that Moriah, of Isaiah and Abraham, is the Meru of the  Hindus, and the Olympus of the Greeks. Solomon  built high places for Ashtoreth, Astarte, or Venus, which  because mounts of Venus, mons veneris  Meru and Mount  Calvary  each a slightly skull-shaped mount, that might  be represented by a bare head. The Bible translators  perpetuate the same idea in the word  calvaria.” Prof.  Stanley denies that  Mount Calvary ” took its name  from its being the place of the crucifixion of Jesus.  Looking elsewhere and in earlier times for the bare calvaria,  we find among Oriental women, the Mount of Venus,  mons veneris > through motives of neatness or religious  sentiment, deprived of all hirsute appendage. We see  Mount Calvary imitated in the shaved poll of the head of  a priest. The priests of China, says Mr. J. M. Peebles,  continue to shave the head. To make a place holy,  among the Hindus, Tartars, and people of Thibet, it  was necessary to have a mount Meru, also a Linga-Yoni,  or Arba. LINGAM IN THE TEMPLE OF ELORA This marvellous work of excavation by the slow process  of the chisel, was visited by Capt. Seeley, who afterwards  published a volume describing the temple and its vast  statues. The beauty of its architectural ornaments, the  innumerable statues or emblems, all hewn out of solid  rock, dispute with the Pyramids for the first place among  the works undertaken to display power and embody  feeling. The stupendous temple is detached from the  neighbouring mountain by a spacious area all round, and  is nearly 250 feet deep and 150 feet broad, reaching to the  height of 100 feet and in length about 145 feet. It has  well-formed doorways, windows, staircases, upper floors,  containing fine large rooms of a smooth and polished  surface, regularly divided by rows of pillars ; the whole  bulk of this immense block of isolated excavation being  upwards of 500 feet in circumference, and having beyond  its areas three handsome figure galleries or verandas  supported by regular pillars. Outside the temple are  two large obelisks or phalli standing,  of quadrangular  form, eleven feet square, prettily and variously carved, and  are estimated at forty-one feet high ; the shaft above the  pedestal is seven feet two inches, being larger at the base  than Cleopatra’s Needle.” In one of the smaller temples was an image of Lingam, covered with oil and red ochre, and flowers were daily  strewed on its circular top. This Lingam is larger than  usual, occupying with the altar, a great part of the room.  In most Ling rooms a sufficient space is left for the votaries  to walk round whilst making the usual invocations to the  deity (Maha Deo). This deity is much frequented by  female votaries, who take especial care to keep it clean washed, and often perfume it with oderiferous oils and  flowers, whilst the attendant Brahmins sweep the apartment  and attend the five oil lights and bell ringing.” This oil  vessel resembled the Yoni (circular frame), into which the  light itself was placed. No symbol was more venerated  or more frequently met with than the altar and Ling, Siva,  or Maha Deo.  Barren women constantly resort to it to  supplicate for children,” says Seeley. The mysteries  attended upon them is not described, but doubtless they  were of a very similar character to those described by the  author of the  Worship of the Generative Powers of  the Western Nations,” showing again the similarity of  the custom with those practised by the Catholics in France.  The writer says: Women sought a remedy for barrenness by kissing the end of the Phallus ; sometimes they  appear to have placed a part of their body, naked, against  the image of the saint, or to have sat upon it. This latter  trait was perhaps too bold an adoption of the indecencies  of Pagan worship to last long, or to be practised openly ;  but it appears to have been innocently represented by  lying upon the body of the saint, or sitting upon a stone,  understood to represent him without the presence of the  energetic member. In a corner in the church of the  village of St. Fiacre, near Monceaux, in France, there is a  stone called the chair of St. Fiacre, which confers fecundity  upon women who sit upon it ; but it is necessary nothing  should intervene between their bare skin and the stone.  In the church of Orcival in Auvergne, there was a pillar  which barren women kissed for the same purpose and  which had perhaps replaced some less equivocal object.” The principal object of worship at Elora is the stone, so  frequently spoken of ;  the Lingam,” says Seeley, and he  apologises for using the word so often, but asks to be excused,  is an emblem not generally known, but as  frequently met with as the Cross in Catholic worship.”  It is the god Siva, a symbol of his generative character,  the base of which is usually inserted in the Yoni. The  stone is of a conical shape, often black stone, covered  with flowers (the Bella and Asuca shrubs). The flowers  hang pendant from the crown of the Ling stone to the  spout of the Argha or Yoni (mystical matrix) ; the same  as the Phallus of the Greeks. Five lamps are commonly  used in the worship at the symbol, or one lamp with five  wicks. The Lotus is often seen on the top of the Ling.VENUS-URANIA. THE MOTHER GODDESS  The characteristic attribute of the passive generative  power was expressed in symbolical writing, by different  enigmatical representations of the most distinguished  characteristic of the female sex : such as the shell or  Concha Veneris, the fig-leaf, barley corn, and the letter  Delta, all of which occur very frequently upon coins and  other ancient monuments in this sense. The same  attribute personified as the goddess of Love, or desire,  is usually represented under the voluptuous form of a  beautiful woman, frequently distinguished by one of these  symbols, and called Venus, Kypris, or Aphrodite, names  of rather uncertain mythology. She is said to be the  daughter of Jupiter and Dione, that is of the male and  female personifications of the all-pervading Spirit of the  Universe ; Dione being the female Dis or Zeus, and therefore associated with him in the most ancient oracular temple of Greece at Dodona. No other genealogy appears  to have been known in the Homeric times ; though a  different one is employed to account for the name of  Aphrodite in the  Theogony ” attributed to Hesiod.   The Genelullides or Genoidai were the original and  appropriate ministers or companions of Venus, who was  however, afterwards attended by the Graces, the proper  and original attendants of Juno ; but as both these  goddesses were occasionally united and represented in  one image, the personifications of their respective subordinate attributes were on other occasions added :  whence the symbolical statue of Venus at Paphos had a  beard, and other appearances of virility, which seems to  have been the most ancient mode of representing the  celestial as distinguished from the popular goddess of that  name  the one being a personification of a general  procreative power, and the other only of animal desire or  concupiscence. The refinement of Grecian art, however,  when advanced to maturity, contrived more elegant  modes of distinguishing them ; and, in a celebrated work  of Phidias, we find the former represented with her foot  upon a tortoise ; and in a no less celebrated one of Scopas,  the latter sitting upon a goat. The tortoise, being an  androgynous animal, was aptly chosen as a symbol of  the double power ; and the goat was equally appropriate  to what was meant to be expressed in the other.   The same attribute was on other occasions signified by a  dove or pigeon, by the sparrow, and perhaps by the  polypus, which often appears upon coins with the head  of the goddess, and which was accounted an aphrodisiac,  though it is likewise of the androgynous class. The fig  was a still more common symbol, the statue of Priapus  being made of the tree, and the fruit being carried with the Phallus in the ancient processions in honour of Bacchus,  and still continuing among the common people of Italy  to be an emblem of what it anciently meant : whence  we often see portraits of persons of that country painted  with it in one hand, to signify their orthodox elevation to  the fair sex. Hence, also arose the Italian expression far la  fica, which was done by putting the thumb between the  middle and fore-fingers, as it appears in many Priapic ornaments extant ; or by putting the finger or thumb into the  corner of the mouth and drawing it down, of which there  is a representation in a small Priapic figure of exquisite  sculpture, engraved among the Antiquities of Herculaneum. LIBERALITY AND SAMENESS OF THE  WORLD-RELIGIONS   The same liberal and humane spirit still prevails among  those nations whose religion is founded on the same  principles.  The Siamese,” says a traveller of the  seventeenth century,  shun disputes and believe that  almost all religions are good Journal du Voyage de  Siam. When the ambassador of Louis XIV asked their  king, in his master’s name, to embrace Christianity, he  replied,  that it was strange that the king of France  should interest himself so much in an affair which concerns  only God, whilst He, whom it did concern, seemed to  leave it wholly to our discretion. Had it been agreeable  to the Creator that all nations should have had the same  form of worship, would it not have been as easy to His  omnipotence to have created all men with the same send- merits and dispositions, and to have inspired them with the  same notions of the True Religion, as to endow them with  such different tempers and inclinations ? Ought they  not rather to believe that the true God has as much pleasure  in being honoured by a variety of forms and ceremonies,  as in being praised and glorified by a number of different  creatures ? Or why should that beauty and variety,  so admirable in the natural order of things, be less  admirable or less worthy of the wisdom of God in the  supernatural ? The Hindus profess exactly the same opinion.  They  would readily admit the truth of the Gospel,” says a very  learned writer long resident among them,  but they  contend that it is perfectly consistent with their Shastras.  The Deity, they say, has appeared innumerable times in  many parts of this world and in all worlds, for the salvation  of his creatures ; and we adore, they say, the same God, to  whom our several worships, though different in form, are  equally acceptable if they be sincere in substance.”   The Chinese sacrifice to the spirits of the air the  mountains and the rivers ; while the Emperor himself  sacrifices to the sovereign Lord of Heaven, to whom all  these spirits are subordinate, and from whom they are  derived. The sectaries of Fohi have, indeed, surcharged  this primitive elementary worship with some of the  allegorical fables of their neighbours ; but still as their  creed  like that of the Greeks and Romans  remains  undefined, it admits of no dogmatical theology, and of  course no persecution for opinion. Obscure and  sanguinary rites have, indeed, been wisely prescribed on  many occasions ; but still as actions and not as opinions.  Atheism is said to have been punished with death at  Athens ; but nevertheless it may be reasonably doubted Phallic Worship  whether the atheism, against which the citizens of that  republic expressed such fury, consisted in a denial of the  existence of the gods ; for Diagoras, who was obliged  to fly for this crime, was accused of revealing and calumniating the doctrines taught in the Mysteries ; and from  the opinions ascribed to Socrates, there is reason to believe  that his offence was of the same kind, though he had not  been initiated. These were the only two martyrs to religion among the  ancient Greeks, such as were punished for actively violating  or insulting the Mysteries, the only part of their worship  which seems to have possessed any vitality ; for as to  the popular deities, they were publicly ridiculed and  censured with impunity by those who dared not utter a  word against the populace that worshipped them ; and  as to the forms and ceremonies of devotion, they were  held to be no otherwise important, then as they were  constituted a part of civil government of the state ; the  Phythian priestess having pronounced from the tripod,  that whoever performed the rites of his religion according to the  laws of his country, performed them in a manner pleasing to the  Deity . Hence THE ROMANS made no alterations in the  religious institutions of any of the conquered countries ;  but allowed the inhabitants to be as absurd and extravagant  as they pleased, and to enforce their absurdities and  extravagances wherever they had any pre-existing laws  in their favour. An Egyptian magistrate would put  one of his fellow-subjects to death for killing a cat ora  monkey ; and though the religious fanaticism of the  Jews was too sanguinary and too violent to be left entirely  free from restraint, a chief of the synagogue could order  anyone of his congregation to be whipped for neglecting  or violating any part of the Mosaic Ritual. The principle underlying the system of emanations  was, that all things were of one substance, from which they  were fashioned and into which they were again dissolved,  by the operation of one plastic spirit universally diffused  and expanded. The polytheist ot ancient Greece and  Rome candidly thought, like the modern Hindu, that all  rites of worship and forms of devotion were directed  to the same end, though in different modes and through  different channels. <c Even they who worship other gods, says  Krishna, the incarnate Deity, in an ancient Indian poem  ( 'Bhagavat-Gita ), c< worship me although they know it not.   Knight.  Giorgio Colli. Colli. Keywords: espressione,  L’Apollo romano, L’appollo d’etruria, La mesura d’Apollo, la dismisura di Bacco; l’enigma filosofico, Bacco, Nietzsche, Girgentu, Velia, Crotone, Gorgia, Zenone di Velia, l’implicatura di Prosimno, l’implicatura di Bacco e Prosimno. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colli: l’implicatura di Bacco e Prosimno”, misterio bacchico, bacchic mystery, the fig tree branch, phallus, self-sacrifice, self-sodomisation, not without pain, even with pleasure – Higinus., symbolism, the old shepherd erastes eromenos, Bacchus eromenon, the symbolism of the promise, to rescue her mother from hell the role of the widow, female widow, Bacco’s duty to keep his promise. The echo of the sentence, ‘you probably passed it’ – ‘the lake’ the grave. Colli.

No comments:

Post a Comment