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Thursday, June 19, 2025

GRICE E SINI

 FILOSOFICA 9 UNIVERSIT DEGLI STUDI DI MILANO FACOLT DI LETTERE E FILOSOFIA CATTEDRA DI FILOSOFIA TEORETICA Il CARLO SINI SEMIOTICA ED ERMENEUTICA NEL PENSIERO CONT EMPORANEO N edizioni libreria Cortina Milano FILOSOFICA J PROPRIET LETTERARIA RISERVATA UNIVERSIT DEGLI STUDI DI MILANO FACOLT DI LETTERE E FILOSOFIA CATTEDRA DI FILOSOFIA TEORETICA Il CARLO SINI SEMIOTICA ED ERMENEUTICA NEL PENSIERO CONTEMPORANEO CORSO DI FILOSOFIA TEORETICA 11 PER L ANNO ACCADEMICO 1977 - 1978 dizioni IS libreria Cortina ( Milano L.go Richini 1 INDICE Premessa. ........... bios dai ia ea 1 I, De:S aussi i Pel O n ra 5 WWHusserk sanare fora alain 35 DI: Hedesstrosurnraalaaadresna 45 IV. Peirce Premessa Il tema del corso monografico (Semiotica ed ermeneutica nel pensiero contemporaneo) prende spunto da Nietzsche, cio dal lavo- ro dedicato lo scorso anno a questo autore e dalle conclusioni di quel lavoro (1). Riformulandone qui, in modo autonomo, la questione po- tremmo osservare: tutte le vie del pensiero conducono oggi al linguag- gio e al problema del segno. Oggi? Non potremmo applicare anche al passato tale osservazione? In parte  cos. Afferma ad esempio Fou- calt: tra Esiodo e Platone si determin, nella cultura occidentale, una partizione decisiva; quella partizione riguarda appunto il linguaggio (logos). Il linguaggio, scrive Foucault, non  pi l'oggetto desiderabile, che assegna la themis e si trama col destino, che assegna il potere che gli uomini volentieri riconoscono (il sofista  cacciato); diviene invece la partizione del vero e del falso che assegna il valore di verit e che muove dal profondo quella volont di verit che  insieme la volont di potenza, l'enigma del potere oggi. Vedremo che tale indicazione ci condurr sulle tracce del sofista; e ci chiederemo: chi  Hermes? Quale dike porta fra gli uomini? O ancora: qual  il logos di Aret? Quale il logos di Kaka? E come Eracle (l'uomo) pu scegliere? (2) Foucault solleva a suo modo tutte queste domande, in quanto egli indaga il rapporto fra le parole e le cose. Ma prima di lui tale rap- porto era gi stato esplicitamente, e ben pi profondamente, posto da Heidegger. Il rapporto fra la parola e la cosa, egli scrive, in certo senso 1) La presente Dispensa fornisce un riassunto schematico delle lezioni. Alcuni argomenti, come verr indicato, vanno integrati col vol. C. Sini, Semiotica e filosofia, Il Mulino, Bologna 1978. 2) Questo argomento  svolto in Semiotica e fil. cit., pp. 277-99 (Eracle al bivio). N la loro identit (e la loro non-identit) sorpresero il pensiero sin dalle origini; e lo sorpresero con tale stupore, che tale rapporto si disse con un termine solo; esso suona: logos. Da allora quel rapporto  in un pen- samento che  sempre sulla via di sciogliersi, e che insieme non si scio- glier mai. Come vedremo, il rapporto fra la parola e la cosa implica in Hei- degger anche il riferimento ai segno (lermeneutica, potremmo dire, implica la semiotica). Dice Peirce: il pensiero e il segno che il pensiero usa sono la stessa cosa; e per di pi: l'uomo  un segno in un universo di segni, in cui ogni cosa  l dove funziona (come segno). Nel contem- po per il segno e.la cosa, oltre che identici, sono anche diversi, sebbene la loro differenza non sia dell'ordine della logica (della dialettica) o dei fatti reali. Vedremo a suo tempo ci che questo significa. Potrem- mo ora accennare, con Derrida, che in queste affermazioni di Peirce si disegna, si scava, quella differenza (differance) di cui, nel par- lare, non resta fraccia, ma che  la condizione di ogni traccia, cio di ogni parola e di ogni segno. Abbiamo in tal modo richiamato alcuni autori ai quali chiederemo lumi per la nostra ricerca (3). Le loro posizioni, se da un lato ci rinviano ai primordi del pensiero occidentale, nel contempo delineano, per cos dire, l'orizzonte conclusivo del nostro pensiero: ci che Heidegger de- finisce, sulla scorta di Nietzsche, come la fine della metafisica e Derrida come la decostruzione della filosofia. Dobbiamo per aggiungere che al problema del linguaggio conducono oggi numerose altre posi- zioni di pensiero. Non soltanto letmeneutica di Heidegger, Gadamer e Ricoeur, o la semiotica di De Saussure e di Peirce, ma anche le cor- renti post-strutturalistiche (Lacan, Foucault, Derrida, Althusser, e prima ancora Lvi-Strauss), la logistica e gli analisti del linguaggio (da Wittgenstein a Strawson, ecc.), e via dicendo. Confrontando la semio- tica e lermeneutica noi ci proponiamo di affrontare la questicne alle radici, cio di indagarla nei suoi nessi teoretici fondamentali. Con un 3) Nelle intenzioni iniziali il corso avrebbe dovuto affrontare anche la Grammatologia di Derrida. Ragioni di tempo hanno per impedito tale ulteriore sviluppo dell'argomento, approfondimento, di cui daremo le ragioni, noi vogliamo prendere al varco tutte queste linee di pensiero confrontandole con il concetto di segno. In tutte le questioni circa il linguaggio ne va del segno. Che ne  del segno? Ecco la nostra domanda. Di fatto essa circola, anche se talora in modo inavvertito. Di fatto, poi,  stata posta (da Peirce). Noi vogliamo vedere dove.ci conduce. E perch (come) sorge. T. De Saussure Nel 1916 usciva a Parigi il Cours de linguistique gnrale di Fer- dinand De Saussure. Opera postuma, curata dagli allievi, essa raccoglie- va le lezioni di linguistica generale tenute da Saussure tra il 1907 e il 1911 (Saussure, come si sa, mor nel 1913). Per varie ragioni il Cours impieg quarant'anni a imporsi come unopera capitale. Fu intorno al 1956 che Merleau-Ponty, Lvi-Strauss e Roland Barthes comincia- rono ad attirare, su tale libro, lattenzione del mondo culturale. In effetti il Cours  unopera rivoluzionaria che ha influito in modo straor- dinario, non solo sulla linguistica, ma anche sulla filosofia, sulle scien- ze umane, ecc., sino a ispirare tutto il movimento dello strutturalismo. Che cera di cos rivoluzionario nel Cours? Si potrebbe innanzi tutto osservare che una scienza linguistica vera e propria, prima di Saussure, non era ancora nata. Essa cominci a delinearsi quando si pose il problema della vita della lingua: allora, non si scorse pi nella lingua, scrive Saussure, un organismo che si sviluppa per se stesso, ma un prodotto dello spirito collettivo dei gruppi linguistici. Restava nondimeno il problema pi generale e insieme pi specifico: qual  l'oggetto della linguistica? Il problema si presenta. par- ticolarmente difficile. Che  una parola? E un suono? E lespressione di un'idea? O altro ancora? I punti di vista possibili sono molti e so- prattutto sono tali da determinare proprio quelloggetto che noi cer- chiamo: Loggetto stesso, lungi dal precedere il punto di vista (come avviene perle altre scienze), si direbbe creato dal punto di vista (Corso di linguistica generale, trad.it. a -cura di T. De Mauro, Laterza, Bari 1970, p. 17). Da qualunque punto di vista ci si voglia collocare, il fenomeno linguistico  comunque ambiguo; esso presenta sempre due facce: 1) vi  differenza radicale tra le impressioni acustiche percepite dallorecchio (il suono di una parola) e larticolazione boccale, o l'organo vocale che emette il suono; tuttavia non potremmo avere un fenomeno senza laltro. 2) Vi differenza radicale fra suono e idea; il suono non fa da solo il linguaggio, esso  piuttosto lo strumento del pensiero. E tuttavia la corrispondenza fra suono e idea costituisce ununit complessa, dif- ficilmente disgiungibile. 3) Vi differenza radicale fra il lato individuale del linguaggio e quel- lo sociale; e tuttavia non si pu concepire luno senza laltro. 4) Vi differenza radicale tra il linguaggio inteso come sistema sta- bile di regole, istituzione attuale, e il linguaggio inteso come prodotto del passato in continua evoluzione. Eppure, a ogni istante, il linguaggio  sia luna cosa sia laltra. Il problema della origini del linguaggio e il problema delle sue condizioni permanenti non differiscono, ma co- stituiscono anzi il medesimo circolo problematico. Dai quattro punti elencati deriva che la vita della lingua  un feno- meno complesso (per questo varie scienze, come la psicologia, la socio- logia, l'antropologia, la filologia, ecc., tendono ad annettersi il problema del linguaggio). La domanda sulla vita della lingua si approfondisce non appena Saussure passa alla domanda circa la vita dei segni. Qui incon- triamo subito due aspetti essenziali. 1) La vita dei segni sfugge alla volont individuale e sociale. In altri termini: noi siamo collocati in essa. Un individuo o una societ sono funzioni della vita dei segni. Potremmo anche dire: non c un pensiero, individuale o collettivo, che sceglie i segni, che li inventa; al contrario, il pensiero emerge entro la vita dei segni. 2) I segni, anche se nonsonoscelti da una decisione del corpo collet- tivo o sociale, sono tuttavia fenomeni essenzialmente sociali; essi in- fatti sono arbitrari, convenzionali. Ci che funziona come segno  ar- bitrario, rispetto al significato che trasmette. Saussure insiste parecchio su questo secondo aspetto. Ma che si- gnifica che i segni sono arbitrari, sono convenzioni sociali? Qui Saussu- re sfiora una profonda verit, ma rimane sostanzialmente cieco a essa. Egli, per dirla con Aristotele, ragiona rozzamente (a proposito del segno). Egli pensa che il segno sia arbitrario rispetto alla cosa che significa (per es. la parola cavallo  arbitraria, rispetto al cavallo reale, tant' vero che posso anche dire equus, horse, ecc.), Ve- dremo molto pi avanti che la questione del segno, rispetto alla real- t, non va posta in questi termini. Ma intanto notiamo che per Saus- sure, affinch sia possibile afferrare loggetto della linguistica, bisogna rivolgersi innanzi tutto al segno. La lingua  un sistema di segni espri- menti idee e, pertanto,  confrontabile con la scrittura, l'alfabeto dei sordomuti, i riti simbolici, le forme di cortesia, i segnali militari, ecc. ecc. Essa  semplicemente il pi importante di tali sistemi (p. 25). Da tali osservazioni Saussure ricava lidea della possibilit di una nuova grande scienza, che egli chiama semiologia: Si pu concepire una scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale; essa potrebbe formare una parte della psicologia sociale e, di conse- guenza, della psicologia generale; noi la chiameremo semiologia (dal greco semion segno). Essa potrebbe dirci in che consistono i segni, quali leggi li regolano. Poich essa non esiste ancora non possiamo dire che cosa sar; essa ha tuttavia diritto a esistere e il suo posto  deter- minato in partenza. La linguistica  solo una parte di questa scienza generale, le leggi della semiologia saranno applicate alla linguistica e questa si trover collegata a un dominio ben definito nell'insieme dei fatti umani (p. 26). Nel farsi profeta della scienza semiologica, o se- miotica, Saussure naturalmente ignorava che tale scienza era gi stata scoperta e avviata, da vari decenni, da Charles Sanders Peirce (il lavoro di Peirce doveva per rimanere ancora a lungo sconosciuto). Ma qui soprattutto importa sottolineare lacume delle osservazioni di Saussure (divenute oggi di pregnante attualit). Egli scrive: il problema lingui- stico  anzitutto semiologico e tutti i nostri successivi ragionamenti traggono il loro significato da questo fatto importante. Se si vuol capire la vera natura della lingua, bisogna afferrarla anzitutto in ci che essa ha di comune con tutti gli altri sistemi del medesimo ordine; e fattori linguistici che appaiono a tutta prima importanti (come il ruolo dellap- parato di fonazione) devono essere considerati soltanto in seconda linea, qualora non servano che a distinguere la lingua da altri sistemi. Per que- sta via non soltanto si chiarir il problema linguistico, ma noi pensiamo che considerando i riti, i costumi ecc, come segni, tali fatti appariranno in unaltra luce, e si sentir allora il bisogno di raggrupparli nella semio- logia e di spiegarli con le leggi di questa scienza (p. 27). Questo inserimento della linguistica nella semiologia riguarda dunque il futuro; ma si pu dire che esso contribuisca gi in parte a in- dirizzare Saussure verso la soluzione di quelle ambiguit del linguaggio che abbiamo in precedenza elencato. Le difficolt si risolvono, dice Saussure, se noi ci poniamo immediatamente sul terreno della lingua (langue) e la prendiamo come norma di tutte le varie manifestazioni del linguaggio. Ma che cos' la lingua? Per noi, scrive Saussure, essa non si confonde col linguaggio; essa non ne  che una determinata par- te, quantunque,  vero, essenziale. Essa  al tempo stesso un prodotto sociale della facolt del linguaggio e un insieme di convenzioni neces- sarie, adottate dal corpo sociale per consentire lesercizio di questa fa- colt negli individui. Preso nella sua totalit il linguaggio  multiforme ed eteroclito; a cavallo di parecchi campi, nello stesso tempo fisico, fisiologico, psichico, esso appartiene anche al dominio individuale e al dominio sociale; non si lascia classificare in alcuna categoria di fatti umani, poich non si sa come enucleare la sua unit. La lingua, al con- trario,  in s una totalit e un principio di classificazione (19). Questi caratteri le derivano dal fatto di essere una convenzione: la natura del segno sul quale si conviene  indifferente. Proprio per ci la lingua  essenzialmente una istituzione sociale, Ci comporta la decisiva e fondamentalissima distinzione saussu- riana tra lingua e parole (termine, questultimo, divenuto ormai di uso universale e che perci non si traduce). Per prima cosa Saussure osserva che la facolt di articolare paroles non si esercita se non merc lo strumento creato e fornito dalla collet- tivit; non  dunque chimerico dire che  la lingua che fa lunit del linguaggio (p. 20). Poi rileva che latto individuale che articola la parole  soltanto l'embrione del linguaggio, la cui comprensione  impossibile senza abbordare il fatto sociale che  alla base del lin- guaggio stesso (p. 23). Il termine parole indica dunque quellesecuzione che  sempre individuale; l'individuo ne  sempre padrone. La lingua, invece,  la somma delle immagini verbali imma- gazzinate in tutti gli individui (questa somma  in sostanza, il le- game sociale che costituisce la lingua). In altri termini:  un tesoro depositato dalla pratica della parole nei soggetti appartenenti a una stessa comunit, un sistema grammaticale esistente virtualmente in ciascun cervello o, pi esattamente, nel cervello dun insieme di indi vidui, dato che la lingua non  completa in nessun singolo individuo, ma esiste perfettamente soltanto nella massa (ivi). Separando la lingua dalla parole, dice Saussure, si separa al tempo stesso: 1) ci che  sociale da ci che  individuale; 2) ci che  essen- ziale da ci che  accessorio e pi o meno accidentale. Se la parole  un atto individuale di volont, la lingua, al con- trario, non  una funzione del soggetto parlante:  il prodotto che lindividuo registra passivamente (pp. 23-24). (Quest'ultima osserva- zione riveste importanza decisiva per comprendere talune ragioni di fon- do della ricerca strutturale in genere e di quella foucaultiana in parti- colare; va perci tenuta ben presente). Secondo il commento del De Mauro al Corso: la parole  un singolo atto espressivo, sempre differente (da individuo a individuo, nonch per lo stesso individuo nelle diverse circostanze e occasioni del suo par- lare) e perci irripetibile. Ma questo variare costante della parole, per essere rilevato, deve potersi commisurare e confrontare con qualcosa che non varia; e del resto, pur nel variare della parole (che non  mai la stessa), i parlanti si intendono; ovvero si comunicano qualcosa di ab- bastanza costante per potersi intendere. Questo qualcosa di costante  appunto la lingua, come principio di classificazione, o totalit convenzionale del segno linguistico. La parole ha una sostanza fonica (per es. il suono della parola albero) e una sostanza psicologica (limmagine mentale corrispon- dente al suono). Queste due sostanze variano, o differiscono, in ogni singolo atto espressivo (il suono non  mai lo stesso; limmagine mentale, dipendendo dai contesti discorsivi ed extra-discorsivi, dalle intenzioni espressive, ecc., non  mai la stessa). Non  dunque ponendosi dal punto di vista di ci che i parlanti fanno che coglieremo quellinivariante che rende possibile la parole. Linvariante  ci che i parlanti sanno. E questa  appunto ia lingua. (Un sapere, naturalmente, che i par- lanti registrano e usano passivamente, conformandosi di fatto, negli atti individuali del loro parlare, all'istituzione sociale, collettiva, del segno linguistico). Se il linguaggio, dunque,  eterogeneo, la lingua non lo . Essa  di natura omogenea:  un sistema di segni in cui essenziale  soltan- to l'unione del senso e dell'immagine acustica ed in cui le due parti del segno sono egualmente psichiche (p. 24) (Il senso preciso di queste affermazioni si chiarir in seguito). La lingua, dunque,  un sistema di segni esprimenti delle idee. Per ci che si  detto, lo studio del linguaggio comporta dunque due parti: luna, essenziale, ha per oggetto la lingua, che nella sua es- 10 senza  sociale e indipendente dallindividuo; questo studio  unica- mente psichico; laltra, secondaria, ha per oggetto la parte individuale del linguaggio, vale a dire la parole, ivi compresa la fonazione; essa  psicofisica. Senza dubbio, i due oggetti sono strettamente legati e si presuppongono a vicenda: la lingua  necessaria perch la parole sia intelligibile e produca tutti i suoi effetti; ma la parole  indispensabile perch la lingua si stabilisca; storicamente, il fatto di parole precede sempre. Come verrebbe in mente di associare unidea a un'immagine verbale se non si cogliesse tale associazione anzitutto in un atto di parole? D'altra parte, solo ascoltando gli altri apprendiamo la nostra lingua materna; essa giunge a depositarsi nel nostro cervello solo in se- guito a innumerevoli esperienze. Infine,  la parole che fa evolvere la lingua: sono le impressioni ricavate ascoltando gli altri che modificano le nostre abitudini linguistiche. V dunque interdipendenza tra la lin- gua e la parole; la prima  nello stesso tempo lo strumento e il prodotto della seconda. Ma tutto ci non impedisce che esse siano due cose asso- lutamente distinte. La lingua esiste nella collettivit sotto forma duna samma di impronte depositate in ciascun cervello, a un di presso come un dizionario del quale tutti gli esemplari, identici, siano ripartiti tra gli individui. E dunque qualche cosa che esiste in ciascun individuo pur essendo comune a tutti e collocata fuori della volont dei deposi- tari (p. 29).  o Nel brano ora letto sono contenute affermazioni assai importanti per la nostra ricerca (per es. lesser la lingua contemporaneamente strumento e prodotto; linterdipendenza e insieme indipendenza di lingua e parole, cio di legge ed evento), ma sarebbe ora prematuro ap- profondirle. Dobbiamo vedere invece come Saussure affronta il pro- blema del segno linguistico. Saussure si preoccupa innanzi tutto di definire il segno linguistico. Esso unifica, non una cosa e un nome (come si potrebbe pensare a li- vello di riflessione ingenua), ma un concetto e un'immagine acustica. Per immagine acustica non si deve poi intendere il suono materiale, il suo carattere di evento fisico, ma la rappresentazione interna, la trac- cia psichica di questo suono. Il carattere psichico delle nostre imma- gini acustiche - scrive Saussure - appare bene quando noi osserviamo il nostro linguaggio. Senza muover le labbra n la lingua possiamo parlare tra noi o recitarci mentalmente un pezzo di poesia (p. 84). Si era gi li osservato, del resto, che il senso (o significato) e limmagine acustica so- no le due parti del segno e che sono entrambe psichiche. Tale preceden- te affermazione saussuriana si viene ora chiarendo. Il segno linguistico, dunque,  una entit psichica a due facce (il concetto e limmagine acustica), dove bisogna osservare che le due facce sono intimamente compenetiate. L'immagine acustica non  il mero rivestimento di un concetto (il quale starebbe anche prima e a s rispetto allimmagine acustica). Arbor  una parola della lingua latina, e cio  un segno, solo in quanto esso porta il concetto albero, in modo che lidea della parte sensoriale implica quella del totale (p. 85). Per evitare le ambiguit della terminologia sopra usata, Saussure ne propone una migliore. Chianieremo perci significato il concetto e significante limmagine acustica; chiameremo segrio la combinazione del significante e del significato. Cos definito, il segno linguistico possiede due caratteri primor- diali: larbitrariet. e la linearit (del significante). Lo studio di tali caratteri introduce nei primi fondamenti della linguistica generale. 1) Arbitrariet del segno. Il nesso che unisce il significante al significato  arbitrario. Ne consegue che anche la totalit del nesso, cio il segno linguistico,  arbitrario. Infatti, non vi  alcun rapporto tra lidea di albero e la sequenza dei suoni a-r-b-o-r, 0 t-r-e-e- (come si direbbe in inglese), o a-l-b-e-r-o (in italiano) ecc. Talora si usa la parola simbolo al posto di segno (specie per indicare il significante). Ci non  esatto, in quanto il simbolo ha per carattere di non essere mai completamente arbitrario: non  vuoto, implica un rudimento di legame naturale tra il significante e il signifi- cato. Il simbolo della giustizia, la bilancia, non potrebbe essere sosti- tuito da qualsiasi altra cosa, per es. da un carro (pp. 86-87). Ma che significa arbitrario? Non si deve assolutamente inten- dere come se la scelta del significante dipendesse dalla libera volont del soggetto parlante (che  invece sempre sottomesso alle regole del gruppo linguistico). Arbitrario significa invece immotivato, ovvero ar- bitrario in rapporto al significato, col quale (il segno) non ha nella real- t alcun aggancio naturale (p. 87). N valgono come esempi contrari le onomatopee o le esclamazioni, per ragioni che Saussure espone e che noi dobbiamo tralasciare per brevit. 12 | Il segno linguistico possiede dunque una arbitrariet assoluta e pro- prio per ci esso pu servire da modello generale di ogni semiologia (pur essendo la lingua un caso particolare allinterno di questa scienza). Inoltre, dalla arbitrariet del segno linguistico, che  fenomeno incon- testabile e ben noto, derivano conseguenze innumerevoli e di tale por- tata da giustificare l'importanza di principio primordiale attribuita per la prima volta da Saussure a questo carattere. Tali conseguenze si vedran- no in seguiro. 2) Carattere lineare del significante. Scrive Saussure: Il significan- te, essendo di natura auditiva, si svolge soltanto nel tempo ed ha i ca- ratteri che trae dal tempo: a) rappresenta una estensione, e b) tale estensione  misurabile in una sola dimensione:  una linea (p. 88). Anche qui si tratta di un principio cos evidente la cui importan- za non  per mai stata considerata prima di De Saussure. Eppure, come egli dice, tutto il meccanismo della lingua ne dipende (...) i significanti acustici non dispongono che della linea del tempo: i loro elementi si presentano luno dopo laltro; formano una catena. Tale carattere appare immediatamente non appena li si rappresenti con la scrittura e si sosti- tuisca la linea spaziale dei segni grafici alla successione nel tempo (ivi). Posti i due caratteri primordiali sopra illustrati, Saussure ne trae una serie di conseguenze. Innanzi tutto il significant:  immotivato e arbitrario ed appare perci scelto liberamente; in rapporto alla comu- nit linguistica che lo impiega il significante non  libero, ma  imposto. La massa sociale, dice Saussure, non viene affatto consultata e in qual- siasi epoca, per quanto nei possiamo risalire indietro, la lingua appare sempre come un'eredit dellepoca precedente. Noi diciamo albero perch, c solo perch, prima di noi si  detto albero e non vi  altro da aggiungere in proposito. Il vero oggetto reale della linguistica non  dunque il problema relativo allorigine del linguaggio: suo unico oggetto  la vita normale e regolare di un idioma gi costituito (pp. 89-90). Del resto, la riflessione non interviene nella pratica di un idioma; i soggetti sono, in larga misura, incoscienti delle leggi della lingua; e, se non se ne rendono conto, come potrebbero modificarle? (pp. 90-91). Ma, approfondendo ulteriormente il problema, vediamo che proprio il carattere della arbitrarist del segno, lungi dal favorire il cambiamento, mette la lingua al riparo da ogni tentativo tendente a modificarla. La 13 massa, anche se fosse pi cosciente di quel che , non potrebbe discuter- ne. Perch, per mettere in questione una cosa,  necessario che questa sia fondata su una norma ragionevole (...) per la lingua, sistema di segni arbitrari, questa base fa difetto e con essa ci  sotratto ogni terreno solido di discussione; non c nessun motivo per preferire soeur a sister, Ochs a boeuf (p. 91). La lingua inoltre, costituisce un sistema (come si vedr meglio in seguito) e anzi un meccanismo assai compiesso che il parlante ignora quasi del tutto (fatta eccezione per i linguisti, i grammatici, ecc.). Mo- dificare una lingua  cos un fatto troppo complesso perch un comune parlante possa realizzarlo o (nel caso sia un linguista) imporlo a tutti gli altri parlanti. Ci conduce infine alla considerazione per cui la lingua, essendo in ogni momento una faccenda di tutti, un fenomeno che fa corpo con la vita della massa sociale, oppone vittoriosamente linerzia della collettivit sociale ad ogni trasformazione. La lingua  situata nel tempo: in ogni istante la solidariet col passato prevale sulla libert di scelta. A ben guardare, la convenzione arbitraria in virt della quale la scelta pu apparire idealmente libera e il tempo storico grazie al quale la scelta si trova di fatto sempre fissata, non sono due principi antinomici, ma due aspetti correlativi del segno linguistico: Proprio perch arbitrario il segno non conosce altra legge che quella della tradizione, e proprio perch si fonda sulla tradizione pu essere artitrario (p. 92). Commenta bene il De Mauro: Se i significati riflettessero distinzioni oggettive pre- esistenti ad essi, se i significanti avessero una data conformazione per cause inerenti alla sostanza acustica, se il legame tra i significati e i si- gnificanti dipendesse dalle analogie tra gli uni e gli altri, se, insomma, i segni non fossero radicalmente arbitrari, la tradizione potrebbe atteg- giarli in modo solo superficialmente diverso, ma i segni nella loro strut- tura profonda non avrebbero niente a che fare con la storia (cos  pos- sibile che si sia camminato in modo diverso sulle palafitte, sui ciottoli della Via Sacra e sulle moderne strade asfaltate: ma si tratta di diversit superficiale, che non incide sulla meccanica fondamentale del movimen- to). Se i segni non fossero arbitrari, sarebbero naturali e, quindi, al di qua della storia. E, allinverso, proprio il fatto che le discriminazioni del- le significazioni in significati, le distinzioni delle fonie in significanti, le associazioni di significati e significanti siano fenomeni poggianti su 14 nient'altro che su scelte storiche, e cio temporalmente, geograficamen- te, socialmente definite, proprio la radicale storicit dei segni li rende altrettanto radicalmente arbitrari (pp. 420-421). Dunque: immutabilit della lingua. Ma Saussure inverte ora la sua conclusione: poich limmutabilit  un effetto del tempo storico (la tradizione) essa  anche e contemporaneamente aperta alla mutabilit. Il tempo, insomma, ha due funzioni, fra loro apparentemente contrad- dittorie: da un lato assicura la continuit della lingua dallaltro altera pi o meno rapidamente i segni linguistici (p. 92). La contraddizione  in effetti il risultato di due fatti fra loro solidali: il segno  in condi- zione di alterarsi in quanto si continua. Ci che domina in ogni altera- zione  la persistenza della materia antica; linfedelt al passato non  che relativa. Ecco perch il principio di alterazione si fonda sul princi- | pio di continuit (p. 93). Si consideri inoltre che ogni alterazione provoca uno spostamento entro lintero sistema della lingua (appunto perch la lingua, essendo un sistema, non pu modificarsi in qualche sua parte senza coinvolgere in qualche misura il tutto). Ne consegue che la lingua, fondata com' su segni radicalmente arbitrati,  anche radicalmente impotente. a difen- dersi contro i fattori che spostano ad ogni istante il rapporto tra signi- ficato e significante (p. 94). Le altre istituzioni umane, sebbene esse pure soggette al mutamento storico, incontrano un limite nella trasfor- mazione proprio per il loro basarsi, sia pure in gradi diversi, sui rapporti naturali delle cose e sui fini ai quali esse istituzioni sono ordinate come mezzi. La lingua  invece il campo della arbitrariet assoluta (e in ci si distingue da qualsiasi altra istituzione sociale), sicche per lei lalterazione  fatale quanto continua: non vi sono esempi di lingua che vi resista. Bisogna concludere che la continuit del segno nel tempo, legata alla alterazione nel tempo,  un principio della semiologia generale, princi- pio che la lingua incarna in tutta la sua portata. Come e perch avviene il mutamento? A questa domanda non si pu rispondere n in generale n a priori. Bisogna invece analizzare a po- steriori tutti i casi di mutamento e raccoglierne le tipicit. Le cause della continuit sono enunciabili a priori, in quanto basate sui principi generali della lingua, principi direttamente accessibili all'osservazione riflessiva. Le cause dalterazione attraverso il tempo, pur trovando la loro ragione in quegli stessi principi, possono scoprirsi nel loro come solo 15 mediante unanalisi storico fattuale. Ci comporta due conseguenze importanti. La prima  che lo studio della lingua deve distinguersi in due branche separate e anzi opposte. La prima studia gli stati di lingua (linguistica statica o linguistica sincronica) e la seconda i fenomeni di evoluzione (linguistica evolutiva o linguistica diacronica). In ci la linguistica si mostra simile alle scienze economiche: anchesse sono costituite da due discipline fra loro nettamente separate quali l'economia politica e la storia economica, la prima delle quali nor- mativa, la seconda evolutiva (per rinnovare un contratto di lavoro non  necessario e non selve conoscere la storia dei sindacati; serve conoscere le forze economiche che sono di fatto operanti nel presente; cos per pronunziare un discorso basta conoscere le regole della lingua attual- mente parlata, mentre non  necessario conoscere la storia della lingua italiana, l'etimologia delle parole impiegate, ecc.). La vicinanza di econo- mia e linguistica  dovuta al fatto che  in entrambe le discipline,  di fronte alla nozione di valore (p. 99). Di tale concetto Saussure for- nir in seguito unampia disamina. si Seconda conseguenza importante: la distinzione tra sincronia e diacronia (in linguistica)  sia metodologica, sia rispondente alla diversa natura dei fenomeni studiati. E metodologica in quanto essa indica i due diversi punti di vista a partire dai quali il linguista aggredisce il suo oggetto di studio (o la lingua come sistema attuale, fatta astrazione dai mutamenti che in essa sono sempre operanti; o la lingua in quanto suc- cessione di mutamenti storici, fatta astrazione dai mutamenti di sistema che tali mutamenti introdurranno; bisogna per sottolineare la priorit metodologica del primo punto di vista, senza del quale il secondo non potrebbe venir posto in maniera scientifica; in altri termini devo pos- sedere una base invariante per poter calcolare la variazione). Ma si trat- ta anche di una distinzione che obbedisce alla diversa e anzi opposta na- tura dei fenomeni linguistici: i fatti sincronici -scrive Saussure - quali che siano, presentano una certa regolarit, ma non hanno alcun carat- tere imperativo; i fatti diacronici, al contrario, si impongono alla lingua, ma non hanno niente di generale (p. 115). Cio: i fatti sincronici sono generali, in quanto semplice espressione di un ordine esistente (p.112), ordine che regola in maniera generale tutti i fatti linguistici relativi ad uno stato di lingua. Non sono per imperativi (non possono evitare che il mutamento si insinui di continuo nella lingua). I fatti diacronici, in- 16 vece, sono avvenimenti (eventi) particolari, che colpiscono, senza alcuna generalit, questo o quellaspetto della lingua. E tuttavia si im- pongono alla lingua in modo tale da costringerla a modificare la gene- ralit delle sue leggi sistemiche. Cogliere il senso profondo di questo nesso problematico  per noi importante. Esso mostra, innanzi tutto, che non bisogna conside- rare lopposizione tra sincronia e diacronia come lopposizione tra ci che sarebbe metastorico (o addirittura antistorico: il sistema, la legge, la struttura) e ci che sarebbe storico (il mutamento, il divenire). In tale equivoco cadono molti critici di Saussure e dello strutturalismo. In un certo senso tutto  storico. Ovvero, il problema del mutamento storico concerne al tempo stesso la struttura (il sistema) e levento, in un rapporto correlativo e coimplicante. La struttura non  senza lirru- zione degli eventi. La lingua  la totalit di ci che fanno i parlanti de- gli eventi temporali delle paroles. Senonch, ci che fanno i parlanti d luogo a un sistema, a un sapere del quale essi non sono consapevoli e che tuttavia usano per potersi intendere. La diacronia colpisce sempre la parole (Nella parole si trova il germe di tutti i cambiamenti, p. 118). Da questo punto di vista la parole  fuori del sistema. Essa, nella sua libert,  un evento fuori della struttura. D'altra parte la parole non pu accadere senza la struttura della lingua. Essa  pronunziabile solo a partire da una lirigua gi costituita in modo sistematico e la sua even- tuale novit costituisce a sua volta un nuovo sistema di lingua, una nuo- va sincronia. Sicch il luogo della parole  come un punto senza di- mensioni autonome fra due stati di lingua, fra due sincronie. E proprio in questo nulla, in questo vuoto, in questa trasparenza o inconsistenza della autonomia della parole, che si verifica per il movimento, il muta- mento fra stati di lingua storicamente successivi. Si potrebbe parlare di ambiguit dellevento (linguistico) in quanto esso  fuori del sistema (visto che lo modifica con la sua irruzione) e insieme  sempre dentro la sistematicit della lingua in generale (senza della quale levento non ha n collocazione n identificazione possibili). In conclusione: Saussure ha operato una duplice distinzione: tra lingua e parole, e tra sincronia e diacronia. Si tratta di due distinzioni decisive in quanto rendono possibile per la prima volta il dispiegarsi autentico di una scienza linguistica generale. La scienza del linguaggio si configura allora secondo il seguente schema: 17 ... sincronia ... lingua ... diacronia linguaggio ... parole Non bisogna poi dimenticare, alla base, il fondamento semiologico, come terreno generale entro il quale si iscrive il linguaggio. In quanto partecipe della natura del segno, la lingua  un sistema di arbitrariet radicali. Ovvero essa  una convenzione sociale. Convenzione non vuol dire per contratto (nel senso di accordo cosciente stipulato dagli individui). La convenzione  tradizione, e cio storia. Essa si impone agli individui e anzi li forma come parlanti. La logica del sistema lingui- stico  cos, e al tempo stesso, il prodotto degli eventi storici. Si tratta di una logica, la cui generalit (indubbia) non  per necessit:  una logica che non ha ragioni per mutare, cos come non ha ragioni per conservarsi. Ci conduce, si potrebbe dire, ad un mutamento condi- zionato. Vi sono condizioni (e condizioni a priori, come si  visto) che rendono possibile il mutamento; ma al tempo stesso (e questo  difficile da comprendere)  il mutamento (levento linguistico con la sua intrusione imprevedibile e incondizionata) che d luogo alle con- dizioni, cio al sistema apriorico della lingua. Peirce diceva: luomo  il suo linguaggio. Nella misura in cui ci  vero, gli enigmi della lingua sono gli enigmi delluomo e della sua costitutiva, quanto ambigua, storicit. E in questo spazio di am- biguit, in questa zona dombra della riflessione delluomo su se stesso, che si inseriscono, per es. le analisi storiche di Foucault. Secondo Saussure bisogna dunque studiare la lingua sotto due ri- spetti: 1) studio degli stati della lingua (linguistica statica o sincronica); 2) studio dei fenomeni di evoluzione della lingua (linguistica evolu- tiva o diacronica). Dovremo ora inoltrarci, per qualche tratto, nella linguistica sincro- nica o idiosincronica. L'oggetto della linguistica sincronica generale - scrive Saussure -  stabilire i principi fondamentali di ogni sistema idiosincronico, i fat- tori costitutivi di qualsiasi stato di lingua (p. 123). Un sistema idiosin- 18 cronico, ovvero uno stato di lingua, non costituisce ovviamente un pun- to spazio-temporale; si tratta invece di uno spazio di tempo pi o meno lungo durante il quale la somma delle modificazioni sopravvenute  minima, e si tratta altres di una zona geografico-linguistica i cui con- fini sono tracciabili assai imperfettamente e mediante una semplifica- zione. La nozione di stato di lingua non pu essere che approssima- tiva: in linguistica statica, come nella maggior parte delle scienze, nes- suna dimostrazione  possibile senza una semplificazione convenzio- nale dei dati (p. 124). i La lingua studia, come sappiamo, i segni linguistici. sai sono le sue entit concrete, i suoi oggetti reali. Lentit linguistica presenta due caratteri: 1. L'entit linguistica non esiste che per l'associazione del significan- te e del significato. Suoni e concetti sono fatti fisici e psicologici, se presi separati, Il proprio della lingua  appunto che essa non li prende separati, ma nella loro connessione originaria (tale cio che precede ogni possibilit di astratta separazione successiva). Nella lingua un concetto  una qualit della sostanza fonica, cos come una determinata sonorit  una qualit del concetto (p. 125). 2. Lentit linguistica  determinata in quanto  delimitata, ovvero in quanto  separata da tutto ci che la circonda nella catena fonica. La catena fonica  lineare,  un nastro continuo (se ascoltiamo una lingua a noi sconosciuta, i suoni si succedono per noi senza alcuna divi- sione del senso, delle parti del discorso, delle entit grammaticali e sintattiche). Sul piano fonico niente indica le entit della lingua (len- tit non ha alcun carattere fonico speciale): solo quando noi sappiamo quale senso e quale ruolo bisogna attribuire a ciascuna parte della ca- tena, allora vediamo queste parti staccarsi le une dalle altre, e il nastro amorfo dividersi in frammenti (p. 126). Per poter operare tale analisi, ci occorre quindi una unit di misura. Ma qual  in generale lunit di misura delle entit linguistiche? Lunica definizione che ne possiamo dare a questo punto  la seguente: lunit linguistica  una porzione di sonorit che , ad esclusione di ci che precede e di ci che segue nella catena parlata, il significante di un certo concetto (ivi). 19 Se ora ci chiediamo a cosa corrisponda tale porzione di sonorit, il problema si complica. Le varie soluzioni tradizionali (lunit  la pa- rola, oppure la frase, ecc.) sono tutte insoddisfacenti. Esaminate da vi- cino, come Saussure mostra con vari esempi, danno luogo ad inconve- nienti. La lingua - dice Saussure - presenta questo carattere strano e stupefacente di non offrire entit percepibili immediatamente, senza che si possa dubitare tuttavia che esse esistono e che proprio il loro gioco costituisce la lingua. In ci vi  senza dubbio un tratto che la di- stingue da tutte le altre istituzioni semiologiche (p. 130). Non  peral- tro possibile compiere un solo passo innanzi nella definizione di una scienza sincronica della lingua senza possedere la soluzione del problema delle unit linguistiche. Ci si pu dimostrare affrontando i problemi cor- relativi delle nozioni di identit, di realt e di valore. E proprio affron- tando tali problemi che anche la questione dellunit potr giungere, come vedremo, a soluzione. A. Identit sincronica In che senso diciamo che un elemento della lingua  sempre uno stesso elemento? Per es. noi diciamo non lo so e non ditelo: Non, diciamo , nei due casi, lo stesso elemento perch una stessa porzione | di sonorit (non)  rivestita della medesima significazione. Ci  quanto mai inesatto e insufficiente. In adottare una moda e in adottare un bambino la significazione, il senso, cambiano profondamente; eppure noi sappiamo di riferirci ad una stessa entit. E cos lesclamazione Si- gnori!, pronunziata pi volte, nel corso di una conferenza, non pre- senta mai unidentica sonorit (ma anzi differenze cos rimarchevoli che, in altri casi, sarebbero sufficienti a distinguere parole diverse fra loro, come ir francese pomme e paume, o fuir e fouir). Eppure, anche qui, noi sappiamo di riferirci alla stessa entit. Il problema dell'identit linguistica non  certo secondario: Il meccanismo linguistico ruota tutto intero su idertit e differenze, que- ste non essendo altro che la controparte di quelle (p. 132). Si tratta dunque di un punto essenziale che deve venir chiarito. Ne va della possibilit stessa della linguistica sincronica e della decifrazione delle sue unit ed entit costitutive. 20 Rifacciamoci con De Saussure ad alcuni esempi. Esempio del treno: noi parliamo del direttissimo Roma-Milano delle 13,40. Si tratta, per noi, dello stesso treno, anche se ci riferiamo a giorni diversi. Ogni treno parte, rispetto allaltro dello stesso orario, a 24 ore di distanza; tutto in esso pu essere mutato (le carrozze, il personale di servizio, la locomotiva, ecc.). Eppure  per noi lo stesso treno, quello delle13,40V Roma-Milano. Esempio della strada: noi parliamo della via Aurelia antica; sappiamo bene che nulla della via antica si  conservato; non una pietra del sel- ciato, non un albero. AI posto di essa la strada ricostruita recentemente non ha nulla in comune con quella. Eppure noi diciamo che si tratta della stessa strada. Esempio del vestito: supponiamo invece che un abito mi venga rubato. Un giorno mi capita di ritrovare un abito in tutto simile al banco di un rigattiere di roba usata. A questo punto non posso accontentarmi di provarlo e, trovandolo adeguato alla mia misura, dichiarare che. si tratta proprio dello stesso vestito. Qui  decisiva la qualit materiale dellog- getto. Sar proprio lo stesso abito solo se posso dimostrare che si tratta della stessa stoffa (per es. se ritrovo una bruciatura di sigaretta che mi ero fatto su una manica o un mio biglietto da visita nella tasca della giaccia).  Ora, lidentit linguistica non  quella dellesempio dellabito;  quella dell'esempio del treno e della strada: lentit costituita da questi due esempi non  puramente materiale; tale entit  basata su certe condizioni alle quali la sua materia occasionale  estranea, come, per esempio, la sua posizione rispetto alle altre (...) ci che costituisce il treno  lora della sua partenza, il suo itinerario e in genere tutte le circostanze che lo distinguono da altri treni. Tutte le volte che si rea- lizzano le stesse condizioni si ottengono le stesse entit. E tuttavia que- ste non sono astratte, poich una strada o un treno non si concepiscono fuori di una realizzazione materiale (p. 132). Il fatto  che ogni volta che impiego Signori! (nellesempio della conferenza) ne rinnovo la materia;  un nuovo atto fonico e un nuovo atto psicologico. Il legame tra i due impieghi della stessa parola non poggia n sullidentit n sulla 21 esatta somiglianza dei sensi, ma su elementi che occorrer cercare e che ci faranno arrivare assai vicino alla effettiva natura delle unit lingui- stiche (pp.132-133). B. Realt sincronica Quali sono gli elementi reali della lingua? Si potrebbe pensare alle distinzioni tra sostantivi, aggettivi, verbi, ecc. In effetti una siffatta classificazione sarebbe ambigua e insufficiente. Da un lato la distinzione delle parole in sostantivi, verbi, aggettivi ecc. non  una realt lingui- stica inconfutabile; da un altro lato tale distinzione  astratta, mero ri- sultato del lavoro riflessivo dei grammatici. Si tratta insomma di classi- ficazioni che, per valere, devono mostrare la loro base reale nella lingua (dove le realt, come sappiamo, non sono mere astrazioni, ma si riferi- scono, anche, ad esempio, ad un corrispettivo fonico). Sicch non si pu partire dalle astratte classificazioni dei grammatici, ma, al contra- rio, bisogna scoprire le entit reali proprio per poter ben classificare. Senonch, come gi si  detto, le entit concrete della lingua non si presentano da se stesse alla nostra osservazione (p. 133). Bisogna cercarle, e, al punto in cui siamo, riesce ancora difficile percepirle. Il problema della realt sincronica resta pertanto insoluto, sebbene ora sappiamo dove non dovremo cercarne la soluzione. C. Valori sincronici Le due nozioni di identit e di realt non differiscono da ci che gi si  chiamato valore (a proposito della somiglianza problematica tra la linguistica e l'economia). Esempio del gioco degli scacchi: in tale gioco esiste un pezzo detto ca- vallo. Tale pezzo, nella sua materialit (oggetto di legno o di avorio lavorato in modo da rappresentare una testa di cavallo, o il cavallo tutto intero, ecc., secondo i casi), preso in s, come pezzo isolato,  forse un elemento del gioco? No di certo. Esso non rappresenta nulla di per s, a meno che non sia collocato sulla scacchiera e qui rivesta il valore che il 22 gioco gli assegna (si potrebbe fare un paragone, invero pi complesso, con la banconota o con lassegno bancario). La materialit  cos poco importante che, se durante il gioco il pezzo venisse smarrito o andasse distrutto, esso potrebbe essere sostituito da qualsiasi altro oggetto di fortuna, purch i giocatori convengano di attribuire a tale sostituto il medesivo valore che nel gioco il pezzo perduto rappresentava. Si vede dunque - ne conclude Saussure - che nei sistemi semiologici, come la lingua, in cui gli elementi si tengono reciprocamente in equilibrio secondo regole determinate, la nozione di identit si confonde con quella di valore e viceversa (p. 134). In altri termini: Quando si cerca di de- terminare lunit, la realt, lentit concreta o il valore, si torna sempre a porre lo stesso interrogativo centrale che domina tutta la linguistica statica, Unit, realt, entit concreta, valore sono come i diversi aspetti  di uno stesso problema riguardante i fondamenti della linguistica sincro- nica. La proposta di De Saussure  quella di approfondire la nozione di valore test emetsa, in quanto via d'accesso pi diretta per la soluzione degli interrogativi sin qui emersi: malgrado limportanza capitale delle unit,  preferibile abbordare il problema dal lato del valore, perch  questo, a nostro avviso, il suo aspetto primordiale (p. 135). Il valore linguistico Ci che caratterizza il valore linguistico  la sua collocazione fra il pensiero e i suoni vocali, prima che essi si sintetizzino in un fatto lin- guistico. Scrive Saussure: Preso in se stesso il pensiero  come una ne- bulosa in cui niente  necessariamente delimitato. Non vi sono idee prestabilite, e niente  distinto prima dellapparizione della lingua. D'altro canto, anche la sostanza fonica non  n pi fissa n pi rigida; non  un calco di cui pensiero debba necessariamente sposare le forme, ma una materia plastica che si divide a sua volta in parti distinte per for- nire i significanti di cui il pensiero ha bisogno (p. 136). Ci chiarisce il ruolo caratteristico della lingua di fronte al pensiero. Tale ruolo non consiste nel creare un mezzo fisico materiale per le- spressione delle idee, ma servire da intermediario tra pensiero e suono, in condizioni tali che la loro unione sbocchi necessariamente in delimi- tazioni reciproche di unit. Il pensiero, caotico per sua natura,  forzato a precisarsi decomponendosi. Non vi  dunque n materializzazione dei pensieri, n spiritualizzazione dei suoni, ma si tratta del fatto, in qualche DR 23 misura misterioso, per cui il pensiero-suono implica divisioni e per cui la lingua elabora le sue unit costituendosi tra due masse amorfe (p. 137). La lingua si precisa cos come il regno delle articolazioni. Ogni termine linguistico, dice Saussure,  un membretto, un articulus in cui un'idea si fissa in un suono ed un suono diviene il segno dellidea (in latino articulus significa membro, parte, suddivisione in una sequenza di cose, donde il senso dellespressione linguaggio articolato). La lingua, come fatto semiologico,  un fenomeno originario. Il pensiero non si articola prima del linguaggio (assumendo poi i termini del lin- guaggio come veicoli espressivi dei pensieri). E piuttosto vero il con- trario:  il linguaggio che articola il pensiero (e ovviamente, anche se Saussure non lo dice, anche la realt cui il pensiero-linguaggio si riferisce con i suoi atti intenzionali di significazione). Linguaggio e pensiero ar- ticolato (cio pensiero in senso stretto e proprio) sono un medesimo fenomeno (Peirce si chiedeva:E possibile pensare senza segni? e ri- spondeva negativamente; perci alla base della logica e della realt egli poneva il fenomeno originario del pensiero-segno). Da tali osservazioni potrebbero facilmente trarsi alcuni interrogativi pressanti per il pensiero contemporaneo. Ad esempio:  possibile porre oggi il problema della logica senza affrontare, in prima istanza o in modo essenziale, il pro- blema del linguaggio o, pi esattamente, il problema del segno, di una possibile scienza semiologica? E quali conseguenze ne derivano per il nostro comune concetto di realt? O ancora:  possibile porre il pro- blema di una scienza delluomo (delle cosiddette scienze umane) senza porre, in'tutta la sua pregnanza, il problema del linguaggio (pro- blema del quale si sono indicate le connessioni psico-sociali e in ultima istanza storiche)? Alle prime due domande ha dato un certo tipo di risposta (oggi quanto mai attuale) Peirce; alla terza domanda rispondono, in modi affini e insieme diversi, le varie correnti dello strutturalismo, Foucault compreso. Ma torniamo a Saussure, La lingua  il regno delle articolazioni; e insieme (come gi detto e pi volte osservato) essa, nel suo articolare, presenta un fenomeno a doppia faccia. Ponendosi originariamente tra le due' masse amorfe del pensiero e del suono non ancora articolati (e cio non ancora divenuti linguaggio, pensiero in senso proprio, segno linguistico), la lingua  paragonabile a un foglio di carta: Il pensiero 24  il recto ed il suono  il verso; non si pu ritagliare il recto senza rita- gliare nello stesso tempo il verso; similmente nella lingua, non si po- trebbe isolare n il suono dal pensiero n il pensiero dal sucno; non vi si potrebbe giungere che per unastrazione il cui risultato sarebbe fare della psicologia pura o della fonologia pura (p. 137). La linguistica, dunque, lavora sul terreno limitrofo in cui gli ele- menti dei due ordini si combinano. Ma ci che importa soprattutto sottolineare  che il risultato di tale combinazione produce una forma, non una sostanza (ivi). Vedremo che tale conclusione, combinandosi con il problema del valore, condurr a soluzione anche il problema del- lunit linguistica. Intanto consideriamo lapprofondirsi della nozione di arbitrariet del segno linguistico (nozione gi definita fondamentale per la linguistica) come conseguenza delle osservazioni test avviate. 1) Non solo i due campi limitrofi del pensiero e del suono sono confusi e amorfi prima che il fatto linguistico li ponga in una relazione originaria e indisgiungibile, ma, inoltre, la loro combinazione non pos- siede alcuna motivazione preventiva. Non vi  nulla nel campo del pen- siero che determini alla scelta di questa porzione di sonorit, a diffe- renza di unaltra, per la combinazione del segno linguistico; e viceversa. Sicch la combinazione e larticolazione introdotte dalla lingua sono ap- punto arbitrarie nel senso pi profondo e pi originario. 2) Proprio questa radicale arbitrariet conferma ci che gi si era osservato in linea generale, e cio che soltanto il fatto sociale pu creare un sistema linguistico (La collettivit  necessaria per stabilire dei valori la cui unica ragione dessere  nelluso e nel consenso gene- rale; lindividuo da solo  incapace di fissarne alcuno) (p. 138). 3) Considerando la cosa dal puntodi vista del valore, che ora ci interessa, possiamo dire, allora, che nessun elemento  imposto al valore dallesterno: i valori restano interamente relativi (come dev'essere affinch la nozione di valore non perda qualcosa del suo essenziale carat- tere). Nulla di esterno, per es. di materiale o di concettuale, li determina: il valore linguistico  un luogo ideale allinterno del sistema (linguistico), cio  un incontro, un nodo di relazioni, tale per cui esso  ci che  in riferimento a tutti gli altri (per inclusione e insieme esclusione di 3 SI i 4  | ; ss 25 tutti gli altri). Nello stesso modo il pezzo del cavallo ha un valore (al- linterno del giuoco degli scacchi), non per la materia di cui  fatto, n per il simbolo che rappresenta (in una versione moderna della scac- chiera il cavallo potrebbe essere sostituito da un carro armato o da un elicottero, ovviamente senza pregiudizio per l'andamento del gioco), ma in riferimento al valore degli altri pezzi (pedine, torri, alfieri, ecc.). E cos per ogni pezzo. Si ribadisce in tal modo il nesso essenziale tra arbitrariet e valore, e cio tra storicit-tradizione e sistema: i valori linguistici sono relativi (nel senso che si delimitano reciprocamente e correlativamente, for- mando, tutti insieme, un sistema; si pensi alla dialettica platonica tra identico e diverso nel Sofista). Proprio per ci il nesso tra significante e significato (suono e idea)  arbitrario. Ma, daltro canto, il nesso tra suono e idea  arbitrario in quanto fondato unicamente sul fatto sto- rico-sociale (su una convenzione trasmessaci dalla tradizione: diciamo albero, si era osservato, solo perch prima di noi si  detto albero, e non vi  altro da aggiungere). Il fatto storico-sociale, nella sua con- venzionalit arbitraria, rende possibile la lingua come sistema, ovvero come legge, come principio di classificazione. Ci significa che, nel campo del linguaggio,  possibile una legge (sincronica) perch vi  una storia (diacronica); ma, daltra parte, vi  una storia (diacronica) solo some successione di sistemi e di leggi correlative (sincroniche). Tutte queste considerazioni ci avvicinano peraltro alla soluzione del problema del valore linguistico: lidea di valore cos determinata, scrive Saussure, mostra che  una grande illusione considerare un ter- mine soltanto come lunione dun certo suono con un certo concetto. Definirlo cos, sarebbe isolarlo dal sistema di cui fa parte; sarebbe cre- dere che si possa cominciare con i termini e costruire il sistema facen- done la somma, mentre, al contrario,  dalla totalit solidale che occor- re partire per ottenere, merc lanalisi, gli elementi che contiene (p.138). Si viene cos precisando in che senso la lingua, combinando le zone amorfe e prelinguistiche del pensiero e del suono, produca una forma (e non una sostanza): forma nel senso di sistema e di totalit. Ci pren- der ulteriore luce se considereremo il valore, come ora faremo, dai suoi tre possibili punti di vista: dal punto di vista del significato o concetto; dal punto di vista del significante o suono; dal punto di vista del segno totale (ovvero della unit di significante e significato). 26 A) Il valore linguistico considerato nel suo aspetto concettuale Considerando la cosa dal punto di vista del significato, il valore linguistico  determinato da due parametri: 1)  una significazione, e cio la contropartita dell'immagine uditiva; 2)  la contropartita degli altri segni della lingua (la lingua  un sistema in cui tutti i termini sono solidali ed in cui il valore delluno non risulta che dalla presenza simultanea degli altri) (p. 139). Ad esempio, il valore della parola cavallo  la contropartita concettuale del suono psichico corrispon- dente (il suono c-a-v-a-ll-0 come suo significante). Ricordando la immagine del foglio di carta:  il recto di quel verso che  appunto il significante. Ma, nello stesso tempo, il significato della parola ca- vallo, il suo valore concettuale,  anche definito dalla totalit dei significati della lingua (cavallo  unimmagine concettuale definita perch si rapporta e si distingue da cavallinit, cavallino, eque- stre, ungulato, cavaliere, cavalcavia, ecc.; e poi per i suoi usi come andare a cavallo, siamo a cavallo, a cavallo del ponte, ecc.). I due parametri che definiscono il valore concettuale appaiono cos eterogenei (in un caso la relazione tra un concetto e un suono; nellaltro caso la relazione di un concetto con la totalit dei concetti in uno stato di lingua). Come rapportare fra loro questi due parame- tri? E come daltronde non rapportarli, visto che insieme costituiscono il valore linguistico nel suo aspetto concettuale (dal punto di vista, cio, del significato)? Ecco ci che Saussure definisce laspetto pa- radossale della questione. Si pu tuttavia osservare che anche fuori della lingua tutti i valori sembrano retti da: questo principio paradossale (p. 140). Ogni valore, insomma,  sempre costituito: a) da una cosa dissimile suscettibile desser scambiata con quella di cui si deve determinare il valore (per es., il valore di una moneta da 50 lire  determinato dalla quantit di pane che si pu acquistare con essa). b) da cose simili che si possono confrontare con quella di cui  in causa il valore (per es., determinando il valore di una moneta % i i  $ I eee 27 da 50 lire mediante il confronto con una moneta da 10 lire o da 100 lire, o con una moneta da un dollaro, ecc.). Similmente, scrive Saussure, una parola pu esser scambiata con qualche cosa di diverso: un'idea; inoltre, pu venir confrontata con qualche cosa di egual natura: unaltra parola. Il suo valore non  dun- que fissato fintantoch ci si limita a constatare che pu esser scam- biata con questo o quel concetto, vale a dire che ha questa o quella significazione; occorre ancora confrontarla con i valori similari, con le altre parole che le sono opponibili. Il suo contenuto non  veraraen- . te determinato che dal concorso di ci che esiste al di fuori. Facendo parte di un sistema, una parola  rivestita non soltanto di una signifi- cazione, ma anche e soprattutto dun valore, che  tuttaltra cosa (p. 140). Non vi sono, insomma, idee (contenuti concettuali) date preli- minarmente (il pensiero  in s amorfo, prima dellarticolazione del segno linguistico, come sappiamo), ma valori promananti dal sistema. I concetti (i significati) sono puramente differenziali, definiti non po- sitivamente mediante il loro contenuto, ma negativamente, mediante il loro rapporto con gli altri termini del sistema. La loro pi esatta ca- ratteristica  di essere ci che gli altri non sono (p. 142; viene ancora spontaneo il riferimento alla dialettica del Sofista di Platone, nonch al sillogismo disgiuntivo hegeliano). E per questo, ad esempio, che la traduzione di un termine da una lingua ad unaltra pone spesso tanti problemi: non vi  esatta corrispondenza tra la parola sole e la pa- rola che dovrebbe corrisponderle in una lingua dove, secondo un esem- pio De Saussure, non  possibile usare la locuzione sedersi al sole. Le parole non rimandano a idee precostituite, ma, a valori allinterno di un sistema linguistico definito. Le parole, in conclusione, non sono incaricate di rappresentare dei concetti dati preliminarmente; se cos fosse, ciascuna avrebbe, da una lingua allaltra, dei corrisponden- ti esatti per il senso; ma non  affatto cos (p. 141). In tal modo si toglie la paradossalit dapprima rilevata: sebbene un significato o concetto trovi in un suono la sua incarnazione (il suo analogon materiale, si dovrebbe dire, ricordando la terminologia sar- triana nellImmaginare), tuttavia esso trova il suo vero valore in qual- cos'altro e cio nella sua collocazione allinterno di un sistema dia- 28 lettico (nel senso platonico o hegeliano). Una moneta da 50 lire si pu scambiare con una forma di pane, non perch vale di per s una forma di pane, ma per il valore che tale moneta riveste allinterno di un sistema monetario definito; solo per questo vale anche una forma di pa- ne, o altro ancora. B) Il valore linguistico considerato nel suo aspetto materiale Anche considerando il valore linguistico dal punto di vista del significante si vede subito che ci che importa non  il suono in se stesso, ma le differenze foniche; sono tali differenze, dice Saussure, che portano la significazione e consentono di distinguere una paro- la da tutte le altre. Qualsiasi frammento di lingua, dunque, si basa esclu- sivamente sulla sua non-coincidenza col resto. Esso  arbitrario e, al tempo stesso, differenziale; anzi: arbitrario e differenziale sono due qualit correlative (p. 143). Il suono in s  indifferente alla lingua i cui valori non si con- fondono mai con lelemento tangibile esterno. Ci chiarisce ulterior- mente la natura del significante linguistico: nella sua essenza esso non  affatto fonico,  incorporeo, costituito non dalla sua sostanza materiale, ma unicamente dalle differenze che separano la sua immagine acustica da tutte le altre (p. 144). Da ci deriva il fenomeno della latitudine di pronunzia una certa libert di pronunzia solo nei casi in cui non sussiste possi- bilit di confusione circa il senso (riferendoci ad un esempio di Saus- sure: mentre in italiano nulla vieta che un soggetto pronunci la t come t, cio come t palatizzata, tale libert  impossibile in russo dove i due suoni sono previsti e utilizzati e dove perci c' differenza di senso tra gorovit che significa parlare, e gorovit, che significa egli parla; vi sar invece maggiore libert tra # e tl, ovvero # aspirata, perch que- st'ultimo suono non  previsto tra i fonemi russi, e cos via). La cosa pu essere ulteriormente chiarita con un riferimento all'esempio della scrittura. Anche qui vi  totale arbitrariet tra i segni grafici e i suoni che essi designano, sicch il valore delle lettere  puramente ne- gativo e differenziale. La forma della t  unicamente fondata sulla sua non-coincidenza con tutte le altre lettere. Da ci una certa latitudine 5), e x vie 29 di scrittura. Ognuno di noi scrive la t secondo varianti molteplici e talora anche lontane; la sola cosa essenziale  che tale segno non si confonda sotto la sua penna con quello di /, ecc. (p. 145). Anche dal punto di vista del significante, dunque, il valore lin- guistico  puramente differenziale, e cio formale. C) Il valore del segno considerato nella sua totalit Da tutto quanto si  detto emerge allora la conclusione secondo la quale nella lingua non vi sono se non differenze. Si tratta di diffe- renze senza termini positivi, perch n idee n suoni preesistono al sistema linguistico. Le differenze concettuali e foniche sono interne al sistema ed escono dal sistema, ovvero ne derivano. Significante e si- gnificato non sono termini positivi e non contengono alcun riferimento positivo, la loro definizione  puramente negativa (nel senso che ogni significante, oppure ogni significato,  se stesso esattamente in quanto non  tutti gli altri). Ogni significante si pone nel nastro del discorso in quanto si differenzia da tutti gli altri suoni; ogni significato si pone nella totalit dei significati per la sua differenza specifica rispetto a tutti gli altri significati. Ma se ora consideriamo il segno nella sua totalit (e cio nel suo essere lunione del significante e del significato) ci troviamo di fronte a un qualcosa di positivo nel suo ordine. In altri termini: la combi- nazione di significante e significato (i quali, ognun per s, sono pura- mente differenziali e negativi) d luogo a un fatto positivo, e cio ap- punto al segno: Ci pu apparire contraddittorio solo a chi consideri il segno come la semplice somma del significante e del significato (sor- ge allora la domanda: come due componenti negative possono gene- rare, unite insieme, un fatto positivo?). Ma il segno non  una semplice somma perch, come pi volte si  ripetuto, il significante e il signifi- cato non preesistono al segno linguistico stesso, ma si costituiscono in esso e per esso. Possiamo ora comprendere ci che Saussure afferma varie volte e cio che le due classi del significante e del significato sono in s astratte; astratte cio dalla parole. Il segno, invece,  un sistema di valori che sta nella parole. Il segno  un rapporto tra due ordini di differenze 30 (cio tra il significante e il significato, ognuno dei quali  un fenomeno differenziale). Esso per non  un altro fatto (fonico o concettuale) accanto ai fatti della parole, ma  il valore della e nella parole; il segno cio,  quel valore per il quale una parole  tale ed  possibile; esso, facendo tutt'uno con lei, costituisce la totalit implicita di ci che sappiamo nella parole, cio costituisce la lingua implicita nella parole concretamente parlata. Estraendo dalla parole concretamente parlata le sue due componenti astratte del significante e del significato ed esi- bendole come componenti ideali del valore totale del segno linguistico, si vede appunto che la parole ha un valore (e cio  un segno lingui- stico) e che tale valore  di natura differenziale (indica un luogo, ad esclusione di tutti gli altri, nella catena dei suoni e dei significati che, tutti insieme e sistematicamente, costituiscono la lingua). Perci la lingua  una forma e non una sostanza. Tale  anche, per riprendere un esempio gi utilizzato,la moneta o la banconota. Essa  un fatto po- sitivo ( un oggetto materiale e non una semplice astrazione); ma la sua natura non le deriva dalla materialit che la costituisce, la quale  estranea al fenomeno economico cos come la materialit del suono  estraneo al fenomeno linguistico. La banconota  piuttosto un segno, il che significa che essa  portatrice di un valore; e il valore  una forma differenziale, un sistema di relazioni negative (nel senso che ogni valore  se stesso non essendo tutti gli altri, differenziandosi da tutti gli altri). Ora, ci che  vero del valore  vero anche dellunit (p. 147). Il problema dellunit linguistica giunge cos a soluzione e, con esso, giunge a soluzione il problema della fondazione della linguistica sin- cronica. Tenuto conto di quanto  stato detto a proposito del valore, possiamo ora definire lunit linguistica un frammento di catena par- lata corrispondente a un concetto, dove luno e laltro sono di na- tura puramente differenziale (p. 147). Lunit, cio, non  un fatto positivo o una sostanza: essa  esattamente definita dai caratteri che la costituiscono e tali caratteri (come per il valore) sono relazio- nali, differenziali, negativi; in una parola: complessi (Nella lingua, come in ogni sistema semiologico, ci che distingue un segno, ecco tutto ci che lo costituisce. La differenza fa il carattere, cos come fa il valore e lunit). i La lingua, dice Saussure, , per cos dire, unalgebra che riconosce soltanto termini complessi. Il gioco delle opposizioni linguistiche  31 presente in ogni punto o elemento della lingua, sicch nella lingua, da qualunque lato la si abbordi, non si trover mai niente di sempli- ce (ivi). La lingua, cio,  un sistema formale dove ogni suo mem- bro contiene in s lintero delle relazioni o positive o negative. Secondo un esempio di Saussure: lunit a partire dalla quale  possibile misurare un fatto grammaticale quale quello della formazione del plurale tedesco nel caso Nacht: Naechte  di tipo complesso e rela- zionale. Tale unit non concerne tanto o soltanto i due vocaboli esem- plificati, ma tutto quel gioco di opposizioni linguistiche che concerne la classe dei vocaboli simili, la classe delle a che divengono ae (0 a con Umlaut), la classe delle determinazioni plurali in e, ecc., in relazione di differenza, o di opposizione, con le classi divergenti per ci che si riferisce alla formazione del plurale. Si  cos definito il carattere sistemico della lingua, ovvero il ca- rattere sincronico delle sue leggi. Tale carattere consente ulteriori ap- profondimenti nellanalisi dei rapporti sintagmatici e dei rapporti as- sociativi, sino alla comprensione del meccanismo della lingua (pp. 154-61). Ne tralasciamo qui la disamina. Ci accontentiamo di ricor- dare come, studiando il meccanismo della lingua e la funzione che in essa esplicano le unit secondo rapporti sintagmatici e associativi, lar- bitrariet linguistica si riveli, non tanto assoluta, quanto relativa. Se tutto nella lingua  immotivato e irrazionale, nondimeno lo spirito rie- sce a introdurre un principio d'ordine e di regolarit in certe parti della massa dei segni, ed  in ci il ruolo del relativamente motivato (p. 159). Il bambino che, a partire dalla parola nascondo, costruisce linfini- to nascondare, cos come da amo, amare, manifesta nel suo errore, la tendenza dello spirito alla costruzione relativamente moti- vata; in una parola: la tendenza alla sistematicit. Cos ogni lingua  oscilla tra i due estremi del minimo di organizzazione e del minimo di arbitrariet, tendendo, secondo un modo e un livello dordine pecu- liari e storicamente determinati, alla massima semplificazione possibile, e cio alla massima intelligibilit, date certe condizioni storiche di partenza. E la linguistica diacronica che esamina poi i principi dordine suc- cessivi, fissando la sua attenzione principalmente ed essenzialmente sulla fonetica, cio su quegli eventi che colpiscono i suoni e trasmettono le modificazioni allintero sistema linguistico secondo modalit (premi nentemente associative) che qui dobbiamo interamente trascurare. Ricapitoliamo, toccando alcuni punti per noi essenziali. Il nesso sincronico-diacronico istituito da Saussure  di importan- za capitale. Esso  per molto spesso frainteso. Viene infatti letto come un'opposizione pura tra metastorico e storico. Per Saussure invece (e cos pure per Foucault che Piaget, non capendone nulla, accusa di ignorare la storia) in un certo senso tutto  storico. Il problema del mutamento storico investe anche la struttura, poich essa non ci sarebbe senza lir- ruzione di eventi. Come abbiamo visto, il linguaggio  la totalit di ci che fanno i parlanti (mentre la lingua  la totalit di ci che sanno); ma non c sapere senza fare, leggi senza eventi. Bisogna dire, incidentalmente, che questo  proprio ci che insegna la massima prag- matica di Peirce, come vedremo. | Per di pi: 1) ci che fanno i parlanti d luogo a un sapere del quale per essi non sono consapevoli, sebbene lo usino per intendersi; 2) (ed  ancora pi importante) la diacronia colpisce sempre la parole (Nella parole si trova il germe di tutti i cambiamenti) Ci significa che, da questo punto di vista, la parole  fuori del sistema. La parole, nella sua libert,  un evento estraneo alla struttura. Nondimeno: 3) la parole non pu accadere senza la struttura (della lingua); essa  pro- nunziabile solo a partire dalla lingua gi costituita. Qual  dunque il luogo della parole? (Abbiamo qui la radice di Foucault, e anche di ci che Derrida chiamer traccia). Il luogo della parole  un nulla, un punto senza dimensioni. E per  proprio in questo nulla, in questa trasparenza, in questo non- luogo che ha luogo il movimento, il mutamento fra stati di lingua sto- ricamente successivi. Tutto ci, come  chiaro, coinvolge il pi grande problema del mutamento storico in generale, nonch il problema del rap- porto istituzioni-eventi, significati (come struttura dei segni sociali) e praxis. Scopriamo cos che gli enigmi del linguaggio contengono gli enigmi della storicit delluomo (cio delluomo tutto intero, se luomo  storico per essenza) (4). 4) Cfr. Semiotica e fil. cit., pp. 215-28 (Scienze decisive, enigma della storia e linguag- gio). RRRVI] 33 Un altro punto importante che va ribadito  che, in Saussure, la lingua  qualcosa di reale-non reale (il rapporto tra segno e realt  uno dei grandi temi del nostro corso). Il fatto  che si continua a riferirsi al concetto di realt in un modo che  gravato da troppo ingenui pre- giudizi. Si potrebbe ricordare, come esempi, il recente dibattito epi- stemologico in Italia (in cui  certo significativo che Peirce e Foucault risultino del tutto assenti, come punti di riferimento); inoltre la difesa, puramente retorica e ideologica, del concetto di materia da parte dei marxisti ortodossi. Tornando a noi: in Saussure gli elementi reali della lingua sono, come si  visto, i valori linguistici. Essi si realizzano congiungendo significante e significato, ma questo congiungere non va preso ingenuamente. La lingua non crea un mezzo fisico, materiale, per esprimere idee, perch le idee non ci sono prima (e neppure il significante). Saussure si riferisce a un pensare caotico che si preci- serebbe scomponendosi, articolandosi, proprio mediante la lingua. La lingua gioca in Saussure una funzione mediatrice analoga, per certi aspetti, allo schematismo trascendentale kantiano (e come in Kant resta misterioso come possa farlo, ma qui importa che lo fa). Sicch solo al linguaggio articolato corrisponde un pensiero articolato. Ci significa che, per Saussure, la lingua, come fatto semiologico,  un fenomeno originario: il pensiero non si articola prima del linguaggio (assumendo poi delle porzioni foniche come veicoli espressivi del pen- siero). E infatti proprio il linguaggio che articola il pensiero. Saussure avrebbe per dovuto avere pi coraggio e trarre un 'ulte- riore conseguenza dalle premesse sopra ricordate (ma egli era un lin- guista, non un filosofo); avrebbe dovuto aggiungere che  il linguaggio che articola la realt (a questa conclusione giunger in certo modo Hjelmslev, ma in un modo filosoficamente del tutto insufficiente e superficiale). Da tutto ci si dovrebbe allora concludere che l'evento della lingua  qualcosa di reale che precede la realt. La lingua  un evento semiologico che non  predeterminato da pensieri (gi arti-. colati) e da suoni (gi articolati):  la lingua che li pone in essere, in maniera autonoma, cio arbitraria, cio sociale. Si ricordi: Soltanto il fatto sociale pu creare un sistema linguistico (...) La collettivit  necessaria per stabilire dei valori la cui unica ragion dessere  nell'uso e nel consenso generale. Lindividuo da solo  incapace di fissarne al- cuno (ci, come si vedr, corrisponde esattamente alla affermazione 34 di Peirce: la verit  pubblica; lindividuo  soltanto idiosincrasia ed errore). Nulla di positivo, dunque, precede la lingua. Significante e signi- ficato sono forme, strutture differenziali, nodi di relazioni interne. Tuttavia, come abbiamo visto, quando noi consideriamo il segno nella sua totalit (cio come unione di significante e di significato), ci trovia- mo di fronte a qualcosa di positivo nel suo ordine. Donde il para- dosso del segno linguistico: la somma di due elementi differenziali, puramente negativi, formali (irreali), d luogo a un fatto positivo (a un segno reale). Questo paradosso  una delle apparenti contrad- dizioni della semiotica (evento che  dentro e fuori della struttura; valore che  reale e non  nulla di reale); vedremo a suo tempo come esso, sulla scorta di Peirce, vada affrontato e sciolto. Per ora osservia- mo che il paradosso  innanzi tutto determinato dal nostro modo in- genuo di pensare la sintesi di significante e significato: in effetti, come gi si  detto, non si tratta per nulla di una mera somma (come se dices- simo: zero + zero = a uno). Come si  visto, il significante e il significato non preesistono al segno linguistico, ma si costituiscono in esso e per esso. Il segno linguistico, insomma, indica sempre un luogo, una collo- cazione differenziale. Quali siano le conseguenze di tale conclusione dovremo vedere in seguito, del tutto indipendentemente da Saussure, che non se ne occup (n sarebbe stato in grado di farlo, data limpli- cita filosofia kantiana che sta alla base della sua linguistica). Ne vedre- mo per es. qualcosa in Heidegger (5). 5) Sul problema del luogo cfr, Semiotica e fil. cit., pp. 262-99, passim. Sii ei A tie died aa i iii 35 II. Husserl Prima di affrontare Heidegger (cio laspetto ermeneutico del problema del linguaggio e del segno) facciamo una breve incursione in Husserl. La posizione di Husserl  per certi aspetti antipodale rispetto a De Saussure; per altri aspetti le  molto vicina (sono entrambi sostan- zialmente kantiani). Per di pi Husserl costituisce il punto di parten- za di Heidegger: un punto di partenza che Heidegger rovescer quasi totalmente. i i Ci riferiremo qui alle Ricerche logiche (1900-01) di Husserl, e in particolare alla prima Ricerca logica, che si intitola Espressione e significato. Nella Introduzione a questa Ricerca Husserl osserva che  bene, in logica, prendere le mosse da discussioni linguistiche. Husserl mira alla definizione della logica pura; potremmo anche dire: alla pura es- senza del significato logico. A tale essenza inerisce in qualche modo il linguaggio. Come vi inerisce? Husserl riconosce lesistenza di un certo parallelismo tra pensiero e parola. E continua: Tutti sappiamo che le parole significano qualcosa e che in linea generale parole diverse e- sprimono significati diversi. Se potessimo considerare come perfetta e data a priori questa corrispondenza, o meglio: se in virt di essa le categorie di significato (logico) trovassero nelle categorie grammaticali il loro perfetto .rispecchiamento, in tal caso una fenomenologia delle forme linguistiche includerebbe una fenomenologia dei vissuti di si- gnificato (del pensiero, del giudizio, ecc.), mentre lanalisi dei signifi- cati verrebbe, per cos dire, a coincidere con lanalisi grammaticale (Ricerche logiche, trad. it. a cura di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 1968, vol. I, p. 278). Le cose per non stanno in questo modo; diffe- renze di significato, espressioni sinonimiche ecc., impediscono di con- siderare il linguaggio come un perfetto calco del pensiero. Di qui la necessit, per Husserl, di portare a chiarezza analitica il rapporto tra 36 espressione e significato (p. 279); la necessit cio di chiarire il rappor- to tra lespressione linguistica e il puro significato logico o pensiero. Come si deve intendere dunque lespressione? La prima Ricerca logica muove da questa domanda e Husserl osserva subito che i ter- mini espressione e segno vengono non di rado trattati come se avessero lo stesso senso (p. 291). Il problema del linguaggio si incontra dunque col problema del segno sin dall'inizio; non per per mostrare una loro congruenza (come in Saussure), ma anzi, per Husserl, una loro essenziale discrepanza. Ogni segno, scrive Husserl,  segno di qualche cosa, ma non ogni segno ha un significato, un senso che in esso si esprime. In quanto segnali (Anzeichen: segni di riconoscimento, segni distin- tivi, ecc.) i segni non esprimono nulla; la loro funzione  semplice- mente quella di indicare. L'essenza del segno sta dunque nella in- dicazione. In questo senso, il marchio  il segno degli schiavi, la ban- diera  segno della nazione, ecc. In senso proprio, qualcosa deve es- sere definito segnale, se e quando serve effettivamente a un essere pen- sante come indicazione di una cosa qualsiasi. Quindi, se vogliamo co- gliere laspetto che resta sempre comune, dobbiamo riandare ai casi in cui si svolge questa funzione vivente. Ora, come aspetto comune, troviamo qui il fatto che oggetti o stati di cose qualsiasi indicano, a chi ha conoscenza attuale del loro sussistere, la sussistenza di certi al- tri oggetti o stati di cose, nel senso che la convinzione dellessere dei primi  da lui vissuta come motivo (e precisamente come inotivo non evidente) per la convinzione o la supposizione dell'essere dei secondi (...) Certe cose debbono o possono esistere poich sono date certe al- tre cose (pp. 292-3). Perch come motivo non evidente? Perch lindicazione non pone un rapporto necessario tra ci che indica e la cosa indicata: Quan- do diciamo che lo stato di cose A  un segnale dello stato di cose B, che lessere dell'uno rimanda all'essere dellaltro, possiamo anche es- sere del tutto certi che la nostra aspettazione di trovare realmente questultimo sar soddisfatta; ma con ci non vogliamo dire che esista un rapporto di connessione evidente e obiettivamente necessaria tra A e B; i contenuti del giudizio non si trovano di fronte a noi in un rap- porto di premesse e conclusioni (p. 294). Il segno indica dunque in ma- niera presuntiva e probabile; magari anche in modo altamente proba- bile; ma levidenza piena, lintuizione diretta di ci che viene indicato 37 dal segno non  per essenza attualmente presente (se cos fosse, infatti, non avremmo bisogno del segno). Passiamo ora alle espressioni, cio al linguaggio (ogni discorso, ogni parte del discorso, cos come qualsiasi altro segno essenzialmente dello stesso genere). Abbiamo visto che ci che  proprio dei segni intesi come segnali  lindicazione; Husserl conia dunque per essi la definizione di segni indicativi. Essi, sappiamo anche, non trasmettono il significato. Ci che caratterizza invece le espressioni  proprio il fatto che esse trasmettono il significato. Husserl le definisce quindi segni significativi. Ora, nei segni significativi, o espressioni, bisogna distinguere due aspetti: 1. L'espressione considerata nel suo aspetto fisico (il segno sensibile, il complesso fonetico articolato, il segno scritto sulla carta, ecc.); 2. un certo complesso di vissuti psichici che, collega- ti associativamente all'espressione, la rendono espressione di qualche cosa (pp. 298-9). Come si vede, la distinzione che Husserl propone  assai simile alla distinzione saussuriana tra significante e significato (ma Husserl la definisce anche insufficiente e in parte scorretta, per ragioni che qui non interessano e che trascuriamo). Ci che interessa  che la definizione test offerta dei segni significativi o espressioni  tale da distinguerli nettamente dai segni indicativi o segnali. Le cose per non sono cos semplici. Consideriamo lespressione nella sua funzione comunicativa, fun- zione che essa  destinata originariamente ad assolvere: avremo allora la sorpresa di scoprire che, in tale funzione, le espressioni, o segni signi- ficativi, divengono in certo modo segnali, segni indicativi. Leggiamo Husserl: La complessione fonetica articolata (il segno scritto, ecc.) si trasforma in parola parlata, in discorso comunicativo, in generale per il solo fatto che colui che parla la produce con lintento di pronunciarsi su qualche cosa, cio conferisce a essa, in certi atti psichici, un senso che intende comunicare allascoltatore. Questa comunicazione diventa tutta- via possibile perch lascoltatore comprende anche lintenzione di colui che parla. Ed egli pu far questo in quanto coglie colui che parla come una persona che non produce meri suoni, ma che gli rivolge la parola, e che quindi, insieme ai suoni, compie anche certi atti di conferimento di senso: egli vuole rendergli noti questi atti o comunicargli il loro senso. Ci che rende anzitutto possibile la frequentazione spirituale e che fa s che il discorso che stabilisce un collegamento sia discorso, risiede in 38 questa correlazione, mediata tra gli aspetti fisici del discorso, tra i vis- suti fisici e psichici, reciprocamente inerenti, delle persone che si fre- quentano. Vi  una coordinazione reciproca tra il parlare e lascoltare, tra linformare su certi vissuti psichici nel parlare e lassumere questa informazione nellascolto. Se si considera questo nesso nel suo insieme, si riconosce immediatamente che, nel discorso comunicativo, tutte le espressioni fungono da segnali. Allascoltatore essi servono come segni dei pensieri di chi parla, cio dei suoi vissuti psichici significanti (do- tati di significato) (...) L'ascoltatore percepisce che chi parla manifesta certi vissuti, ma egli non li vive, non ha di essi una percezione in- terna, ma esterna. Si tratta della grande distinzione tra lappren- sione effettiva di un essere in unintuizione adeguata e lapprensione presuntiva di un essere in una rappresentazione intuitiva, ma inade- guata. Nel primo caso abbiamo un essere vissuto, nel secondo un essere meramente supposto  (pp. 299-301). Nella comunicazione, dunque, le espressioni si intrecciano con i segnali (i segni significativi si intrecciano con i segni indicativi): le prime, per cos dire, si abbassano ai secondi, Questo rapporto fra segni indicativi e segni significativi o espressioni  di tipo particolare. I segni indicativi abbracciano un campo assai pi ampio che non quello delle espressioni (che comprendono in sostanza solo i segni del linguaggio scritto o parlato), ma, come dice Husserl, il significare non  una specie dell'essere segno, intendendo il segno come indicazione (p. 291); cio le espressioni, i segni significativi, non costituiscono una parte dei segni indicativi. Nella comunicazione i segni significativi si abbassano a segni indicativi o segnali, ma i segni significativi o espressioni svol- gono la loro funzione significante (che trasmette il significato) anche nella vita psichica isolata dove non fungono pi come segnali. 1 due concetti di segno (significativo e indicativo) non si trovano dunque per nulla in un rapporto di maggiore o minore estensione. Ma vediamo in che senso, secondo Husserl, le espressioni, fuori del rapporto comunicativo, nella vita psichica isolata o solitaria, non fungono pi come segnali o segni indicativi. Finora, dice Husserl, abbiamo considerato le espressioni nella loro funzione comunicativa. Essa si fonda essenzialmente sul fatto che le espressioni operano qui come segnali. Ma un ruolo notevole  assegnato alle espressioni anche nel caso della vita psichica che non entra in rapporto comunicativo. 39 E chiaro che questa modificazione di funzione lascia intatto ci che fa s che le espressioni siano tali. Come in precedenza, esse hanno i loro significati - gli stessi che detengono nel discorso dialogico. La pa- rola cessa di essere parola solo quando il nostro interesse si rivolge e- sclusivamente al sensibile, alla parola come mera formazione fonetica. Ma nel momento in cui viviamo nella sua comprensione, essa esprime, ed esprime la stessa cosa, sia che ci si rivolga a qualcuno o no. Appare dunque chiaro che il significato dellespressione, e anche tutto ci che gli appartiene per essenza, non pu identificarsi con'la sua funzione informativa. O forse con lespressione rendiamo noto qualcosa anche nella vita psichica isolata con la sola differenza che in questo caso non ci rivolgiamo a nessuno? Dovremmo forse dire che colui che parla da solo parla a se stesso e anche a lui le parole servono come segni, cio come segnali dei propri vissuti psichici? Non credo che una simile con- cezione sia sostenibile. E vero che qui, come sempre, le parole fungono da segni; e noi possiamo sempre parlare di un rinviare (...) Ma questo rinvio non  un'indicazione nellaccezione da noi discussa. L'esistenza del segno non motiva lesistenza, o pi esattamente, la nostra convinzio- ne dellesistenza del significato. Ci che deve servirci come segnale (segno distintivo) deve essere da noi percepito come esistente. Questo  vero per le espressioni nel discorso comunicativo, ma non per le espressioni nel discorso isolato. Nel discorso isolato la parola  silenziosa, il suo suono  fantasticato, inesistente. Ma, continua Husserl, linesistenza della parola non ci disturba. E inoltre non ci interessa. Infatti essa non ha alcun rilievo in rapporto alla funzione dellespressione come espres- sione. L dove assume rilievo, alla funzione significante (che trasmette il significato) si collega appunto quella informativa: in tal caso il pen- siero non sar espresso soltanto come significato, ma sar anche comu- nicato per mezzo dellinformazione; cosa che naturalmente  possibile solo nel parlare e nellascoltare reale (...) Nel discorso monologico le parole non possono avere per noi funzione di segnali dellesistenza di atti psichici, perche questa indicazione sarebbe del tutto priva di scopo. Gli atti in questione sono infatti vissuti da noi stessi nel medesimo istante (pp. 302-3).  Cerchiamo dunque di orientarci e di ricapitolare. Husserl si occupa del linguaggio nellambito della ricerca logica (vi  un certo paralle- lismo tra pensiero e linguaggio). Ma cos' il linguaggio? Per rispondere 40 bisogna distinguere tra segni indicativi e segni significativi (o espressioni). I primi designano, ma non significano (non trasmettono la Bedeutung, il significato); i segni indicativi sono segnali (Anzeichen). (Qualcosa deve essere definito segnale se e quando serve effettivamente a un essere pensante come indicazione di una cosa qualsiasi; pi esattamente: oggetti o stati di cose qualsiasi indicano, a chi ha conoscenza attuale del loro sussistere, la sussistenza di certi altri oggetti o stati di cose). . Il segno indicativo, dunque, rimanda. Questo rimandare, o rinviare,  sempre presuntivo, cio non possiede l'evidenza intuitiva di ci che  vissuto direttamente, nella presenza attuale, n levidenza di una di- mostrazione necessaria. I segni significativi (espressioni) sono invece costituiti dal discorso. in ogni sua parte (si noti: Husserl parla di sprechen, di Rede, mai di Sprache: il piano  quello della parole, del linguaggio vivente in prima persona, non della langue). Diciamo cos: lespressione  un segno abitato. Abitato da chi? Dalla intenzionalit di una coscienza sogget- tiva che parla, si esprime. L'espressione  un voler dire. Ne consegue che il modo di ragionare di Husserl non  il seguente: partiamo dalla categoria generale del segno e indichiamo nel segno indicativo e nel segno significativo le sue sottospecie. E non ragiona neppure in questo modo: i segni indicativi costituiscono una categoria pi ampia di cui i segni espressivi sono una parte. Egli dice espressa- mente che tra segni indicativi e significativi non c' congruenza n omogeneit. Per Husserl, dunque, una semiotica, nel senso di Saussure,  assolutamente impossibile. Questo perch i segni indicativi sono cose, eventi, stati di cose, cio fatti e non atti; ad essi non inerisce alcuna intenzionalit della coscienza soggettiva. Certo, noi possiamo assu- merli come segni, cio possiamo animarli (parola significativa!) con un atto della coscienza e cos inglobarli nella nostra vivente intenzio- nalit. Ma lintenzionalit della coscienza non abita in essi; per ci essi sono presuntivi e non evidenti, non sono interni, ma meramente esterni, Facciamo un breve parallelo con Saussure. Il punto di partenza di Husserl  kantiano: se voglio indagare la logica, devo studiare il pen- siero. Ragionare vuol dire pensare. La domanda allora : come pensia- mo? Per rispondere mi devo rivolgere, descrittivamente (cio fenome- nologicamente), alla coscienza pensante, ai suoi atti di pensiero. Che 41 vi  di essenziale in un atto di pensiero della coscienza? Che la coscienza  sempre coscienza di qualche cosa (cio coscienza intenzionale: la coscienza intenziona sempre qualcosa nei suoi atti: nel percepire il percepito, nel ricordare il ricordato, nel fantasticare il fantasticato, ecc.; questi contenuti sono i significati che latto intenzionale della coscienza intuisce nella immediata evidenza della sua interiorit). Gli oggetti logici, i significati, sono dunque, per Husserl, innanzi tutto dei vissuti psichici. Questi vissuti psichici costituiscono il nocciolo delle espressioni, le quali, nella comunicazione, aggiungono laspetto fisico del linguaggio, il segno sensibile, il complesso fonetico articolato, o i segni della scrittura. Questi ultimi sono un mero rivestimento esterno del significato logico. Per questo Husserl distingue s, come Saussure, il significante dal significato, nel segno linguistico; ma non come due parti congruenti e corrispondenti, bens come un interno e un esterno, un pi vero (i vissuti psichici intenzionali) e un meno vero (gli aspetti fisici delle espressioni). La differenza nasce dal fatto per cui Husserl muove dalla parole, Saussure dalla langue. Saussure cerca le leggi obiettive del segno linguistico, cio della langue entro cui sta la parole. La parole  latto individuale del parlante reso possibile dalla langue (anche se ci, come abbiamo visto,  problematico). Husserl invece bada alla parole; non per in quanto essa appartiene alla langue, ma in quanto essa trasmette i significati logici intenzionati dagli atti della coscienza: la parole di cui tratta Husserl  trascendentale,  coscienza trascendentale, Torniamo a noi. Se i segni indicativi sono fatti, le espressioni invece sono atti; o meglio: sono segni speciali abitari da atti. Comin- ciamo a capire perch Husserl non possa classificare i segni indicativi e i segni significativi sotto il concetto generale di segno. Egli pro- cede dallinterno allesterno. Il senso di questo cammino prefigura la celebre distinzione husserliana tra Seele, Leib, K6rper. La Seele  lani- ma, latto interiore intuitivo della coscienza. Il Leib  il corpo vivente, animato dalla Scele. Il Krper  il corpo-cosa, privo di intenzionalit cosciente, inanimato. I tre momenti si intrecciano avendo nel medio (il Leib) il loro perno. Il Leib  corpo, ma insieme  animato. In questo medio sta il linguaggio (e nella Appendice II della Crisi delle scienze europee Husserl parler infatti di Sprachleib: corpo vivente linguistico). Esso trasmette la Scele, abbassandosi a corporeit. Per me che parlo 42 il linguaggio  un corpo vivente, animato dalle mie intenzionalit espres- sive; ma per chi ascolta diviene corpo inanimato, puro segnale che pre- suntivamente rinvia a una Seele che vuole esprimersi, che vuol dire. Nel definire il luogo del linguaggio Husserl  coerente con Kant, quando questi osservava, nella Antropologia pragmatica, che la defini- zione delluomo come animale razionale  impropria: non esiste per noi un genere razionale in cui inserire luomo come specie (fra altre pure razionali). Lunica possibile definizione di uomo  ancora quella del neoplatonico Pico della Mirandola: luomo, come espressamente dice Kant,  razionabile, non razionale; cio luomo non  n bru- to n angelo, ma  fra questi estremi, con la responsabilit di scegliere verso quale estremo tendere (6). Cos il linguaggio (che infatti carat- terizza l'uomo fra tutti gli animali) pu dar luogo a due possibilit: come corpo visibile del pensiero pu consentire la comprensione o la riattivazione delle intenzionalit spiriturali originarie; ma pu anche abbassarsi a pura corporeit, alla perdita delle intenzionit spirituali, alla alienazione dell'anima nel mondo (7). Per Husserl, quindi, prima del linguaggio comunicativo (il Leib, lo Sprachleib) c il linguaggio immediato dellanima sola con se stessa (la Seele). Per ci la funzione comunicativa non  per Husserl lultima essenza del linguaggio. Quando siamo soli, noi non abbiamo pi bisogno della parola (n nel senso del Leib, n, tanto meno, nel senso del Krper, della parola fisica, pronunciata con la voce). Qui la Seele intuisce diret- tamente se stessa e i propri contenuti intenzionali: non ha nulla da co-. municarsi n nulla da indicarsi, poich  in una vivente e immediata unit con i significati. E impossibile non ricordare Agostino: Redi in te ipsum, in interiore homine habitat veritas. E dietro Agostino, Platone: l'anima vedeva le idee, ie essenze di tutte le cose; poi  caduta nel corpo e ha dimenticato, si  alienata nelloblio. Cos il suo linguaggio da intui- tivo (nous)  diventato discorsivo (diandia): riflesso e ombra della ve- rit. (E infatti anche Husserl perverr alle idee, come contenuto ideale 6) Sulla definizione dell'uomo come animal rationale cfr. Semiotica e fil., cit., pp. 245-62 (L'antiumanesimo in Lvi-Strauss e in Heidegger"). 7) Questi temi, come si sa, sono sviluppati da Husserl nella Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Su tale base Enzo Paci ha poi dato vita allincontro tra fenomenologia e marxismo (cfr. Semiotica e fil. cit., pp 215-28). 43 obiettivo dei significati logici). Il pensiero puro deve dunque co- gliere le idee; la sua traduzione nel linguaggio (nei meri complessi fonetici, veicoli sensibili e accidentali del significato)  anche un tra- dimento. Il pensiero puro non discorre, ma intuisce. Tuttavia, noi potremmo chiedere: e se il pensiero non fosse nulla senza il linguaggio? Se i meri complessi fonetici, i veicoli sensibili del significato, i segni insomma (e magari proprio tutti i segni, non soltan- to le espressioni), non fossero per nulla accidentali, ma essenziali per il pensiero? Saussure, la cui filosofia inconscia non era diversa da quella che domina l'occidente da Platone in poi, e dunque da quella stessa di Husserl, aveva fatto proprio questa straordinaria scoperta (solo ora cominciamo a comprendere a fondo che cosa cera di rivoluzionario nel Cours): che la langue domina il pensiero, che noi pensiamo entro leggi e strutture di cui la coscienza intenzionale non sa nulla. In questo modo la sua scoperta si allinea con quella di Marx (la coscienza  un riflesso delle strutture sociali) e con quella di Freud (la coscienza  un riflesso dellinconscio); e poi ancora con quella di Niexzsche, il grande affossatore del platonismo-cristianesimo. E appunto su questa linea nicciana che noi incontriamo Heidegger. Se per Husserl la realt del mondo, il carattere di realt di tutto ci che  mondano, riceve il suo senso dessere dagli atti intenzionali della coscienza, per Heidegger  piuttosto vero il contrario: il mondo  coestensivo alla coscienza, il mondo  un fenomeno originario. Per questa via il problema del linguaggio e del segno vengono radicalmente reinterpretati, dando vita alla prospettiva ermeneutica. 45 II. Heidegger Abbiamo esaminato ii problema del linguaggio e del segno secondo due prospettive: la linguistica di De Saussure (che implica idealmente una semiologia del linguaggio) e la fenomenologia di Husserl (che la e- sclude di principio). Dobbiamo ora affrontare una terza via: la prospet- tiva ermeneutica. Essa ha nella fenomenologia la sua premessa (poich Heidegger era allievo di Husserl), ma conduce anche a un ribaltamento del rapporto uomo-mondo-linguaggio, rispetto alle Ricerche logiche di Husserl. La nostra meta sono i paragrafi 31-34 di Sein und Zeit, nei quali Heidegger sviluppa una nuova teoria della comprensione, della interpretazione (Auslegung) e infine del linguaggio (passan- do a sua volta attraverso la questione del segno). In quei paragrafi cru- ciali, cio, vengono poste le basi dellatteggiamento ermeneutico. Non ci occuperemo poi degli ulteriori sviluppi del problema del linguaggio in Heidegger (nel cosiddetto secondo Heidegger, dopo la svolta successiva a Sein und Zeit); di questi sviluppi tratta, almeno in parte, il seminario del dott. DAlessandro. Come pervenire ai paragrafi 31-34 di Sein und Zeit? Come aprirci una via nella ingens sylva di quest'opera complessa, difficile, talora anche enigmatica, e tuttavia capitale per tutto il pensiero contempo- raneo? Come dominare la materia trattata nei primi 30 paragrafi di que- stopera? Dovremo non perdere di vista il punto di arrivo, e gli scopi che ci dirigono a esso entro il fine pi generale del nostro corso, in modo da percorrere i primi 30 paragrafi sulla scorta di una prospet- tiva; essa ci suggerir il modo dellavvicinamento al testo, ove seguir- lo passo passo e ove prendere il volo per visioni dinsieme meno ana- litiche. Cominciamo col dire che il problema di Sein und Zeit riguarda il senso. dellessere (evidentemente in rapporto al tempo, se il ti- tolo dellopera suonaEssere e tempo). Perch il senso dellessere? 46 Non si  da sempre indagata la filosofia circa il senso dellessere? Sein und Zeit si apre con una pagina che, dopo essersi riferita al Sofista di Platone (244 a), dice: Abbiamo noi oggi una risposta alla domanda intorno a ci che propriamente intendiamo con la parola essente? Per nulla. E dunque necessario riproporre il problema del senso dellessere. Ma siamo almeno in uno stato di perplessit per il fatto di non comprendere lespressione essere? Per nulla. E dunque necessario cominciare col ridestare la comprensione del senso di questo problema. Lo scopo del presente lavoro  quello della elaborazione del problema del senso dell'essere. Il suo traguardo provvisorio  linter- pretazione del tempo come orizzonte possibile di ogni comprensione dellessere in generale. (Trad. di P. Chiodi, Utet, Torino 1969, p. 50). Pi avanti Heidegger dir anche che da Platone e Aristotele sino alla Logica di Hegel il problema dellessere ha taciuto. Affermazione stu- pefacente quanto temeraria. Non possiamo affrontare qui la questione della fondatezza o meno di questa presa di posizione radicale, da parte di Heidegger, nei confronti di tutta la tradizione filosofica occidentale. Vediamo piuttosto in che senso, secondo Heidegger, il problema del- l'essere viene eluso dal pensiero moderno. Esso  eluso in tre sensi. 1. L'essere  di tutti il concetto pi generale, e perci vuoto; per- tanto su di esso non vi  nulla da dire (non vi sono contenuti da esplicitare). 2. Essere  un concetto indefinibile; infatti non possiamo attri- buirgli predicati ontici (ontico= relativo allente; ontolo- gico= relativo allessere); non possiamo cio dire: lEssere  questo o quello. Fra laltro nel tentare di definire lessere me- diante un predicato gi diciamo , gi implichiamo l'essere. Conclusione: non ha senso voler definire lessere; cio, di nuovo, dellessere non c nulla da dire. 3. Essere  un concetto ovvio, che gi sempre utilizziamo e sul quale  evidente che gi ci intendiamo abbastanza bene. Il suo senso dunque  noto e non val la pena di indagare oltre. Ma a-queste risposte Heidegger obietta a sua volta: 1. Se  vero che essere  il pi generale di tutti i concetti, ci non significa che sia il pi chiaro. Anzi,  il pi oscuro. 2. Limpossibilit di definire lessere dice solo questo: che essere 47 non  qualcosa come ente. Dunque, ancor pi urge il problema di chiarire questo concetto. 3. Il fatto che noi viviamo gi in una pre-comprensione dellessere non ci esime dalla comprensione del suo senso, anzi la richiede. Che cosa pre-comprendiamo gi? Che cosa sappiamo senza pro- priamente saperlo? Con queste obbiezioni Heidegger pone chiaramente fuori causa i giochi della logica formale (antica e contemporanea): essi assumono tacitamente la pre-comprensione e, semplicemente, formalizzano un uso. Ma donde venga questo uso (il giudizio, il sillogismo, ecc.) e che senso abbia, resta inindagato. Non fa meraviglia poi se la logica viene assunta come un puro mezzo tecnico (e cos il logos, il discor- so) di cui si pu fare un uso buono o cattivo, a seconda delle inten- zionalit della coscienza (per es. la logica pu servire a costruire delle macchine cibernetiche; queste poi possono servire a scopi pacifici o bel- lici, costruttivi o distruttivi, a seconda dellintenzionalit, direbbe Hus- serl, che guida limpiego; tutto ci rientra nel grande problema della tecnica di cui ci siamo in parte occupati lo scorso anno). Bisogna dunque riproporre il problema del senso dellessere. La domanda : che significa che l'ente , ed  cos? (la domanda concer- ne il che- dellente e il suo esser-cos come ). Ci gi indica che l'essere va preso unitamente allente; il suo esser altro' dallente non significa che per indagare lessere dobbiamo operare una fuga dal- l'ente. Perche? Perch in questo modo noi finiremmo proprio per en- tificare lessere, intendendolo come lEnte Sommo, o Supremo, o Spi- rituale; con ci ricadremmo in quella teologia e metafisica platonica che  caratterizzata proprio dall'oblio dellessere. E vi ricadiamo ugual- mente quando diciamo che luomo, lessere razionale,  un ente spe- ciale; oppure quando diciamo che vi  una classe che  una classe spe- ciale: in questo modo di ragionare rimaniamo sul terreno della meta- fisica e del platonismo. Come risponderemo alla domanda: che significa che lente  ed  cos? Assumeremo un ente qualsiasi come esempio e interlocutore? Assumeremo a caso questa o quella categoria di enti come filo condut- tore della ricerca? Potremmo osservare che in maniera simile si muoveva la metafisica 48 aristotelica. Aristotele chiedeva: che  lente in quanto tale? Cio: qual  lessere dellente in generale? (Emerge la genericit, il ge- nerale: ci che fa dellente un ente; ci che fa s che lente sia, e sia ap- punto un ente). Aristotele rispondeva: lente  innanzi tutto ousia, sostanza, cio principio di unit, forma organica che permane. Lente  perci l'individuo organico. E luomo? Anche luomo  ousia, ma  una sostanza speciale. La specialit sta in ci: che luomo  dotato di logos; meglio: che  un animale che ha il linguaggio. Questa  ap- punto la sua differenza specifica (8). Linterpretazione cristiana di questa posizione condurr a ci: che luomo  corpo + anima (anima- le + razionale, diceva Hobbes). Abbiamo visto che su questa tacita in- terpretazione metafisica si basa la teoria del linguaggio, sino a Saussure e a Husserl. | Ma torniamo a noi. Ponendo il problema del senso dell'essere Hei- degger osserva che dellessere noi abbiamo gi sempre una pre-compren- sione, una comprensione media. Non sappiamo che cosa  essere, ma poich nella domanda gi diciamo , noi ci troviamo gi in qualche modo inseriti nel problema che poniamo, nel suo orizzonte di senso (ne facciamo uso inconsapevolmente). Vi siamo inseriti in modo non concettuale. Ora, proprio la tendenza alla posizione esplicita del proble- ma, che Heidegger rivendica, ci  suggerita appunto dal nostro inseri- mento pre-comprensivo, Potremmo dire cos: vi  un cercato (che  lessere, e anzi il suo senso); e vi  anche un cercante: noi stessi, in quanto, pre-compren- dendo l'essere, poniamo il problema di questa pre-comprensione stessa. Ma si diceva che lessere (ci che determina lente in quanto tale; ci rispetto a cui lente, comunque discusso,  sempre compreso)  s dif- ferente dallente (lessere dell'ente non  esso stesso un ente, nemmeno Sommo, cio. Dio, ecc.), ma anche va cercato nellente, riguardo all'ente. E lente che va interrogato circa il suo essere. E si aggiungeva: quale ente? Un ente a caso? Ora abbiamo la risposta: lente che va in- dagato per snidare il cercato (l'essere)  lo stesso cercante, poich esso si riporta gi da sempre all'essere mediante la pre-comprensione. 8) Su questa definizione cfr. le indicazioni della nota 6. 49 Noi dunque dobbiamo render trasparente quellente che nai stessi, i cercanti, gi sempre siamo; dobbiamo renderlo trasparente nel suo essere. Noi, i cercanti, in qualche modo, e pi o meno esplicitamente, ci comprendiamo nel nostro essere. Questo nostro poterci riportare, in un modo o in un altro, e anzi questo nostro riportarci sempre di fatto al nostro essere,  ci che Heidegger chiama esistenza (si faccia attenzione a questa definizione, perch il suo oblio o il suo frainten- dimento ha dato luogo alle indebite interpretazioni esistenzialistiche di Heidegger, interpretazioni che Heidegger stesso ha esplicitamente rifiutato, ma che ora corrono per il mondo e sono anzi le pi frequenti; in base a esse, poi, si leggono le numerose critiche a Heidegger, spesso una pi assurda dellaltra). Quanto a noi, i cercanti, lente indagato circa il senso dellessere, Heidegger propone di designarci col termine esserci (Dasein). L'espressione Dasein designa un ente che non  determinabile per un suo contenuto reale; lessere del Dascin con- siste piuttosto nellaver sempre da essere il suo essere (sein) in quanto suo (Heidegger dice anche: lesserci  l'ente di cui ne va del suo esse- re). Con ci Heidegger ha gi fissato due punti fondamentali: 1. che lessenza del Dasein  di tipo interpretativo, cio ermeneutico ( l'ente che deve sempre comprendersi, e che anzi gi sempre si comprende; sebbene in due modi: a) mediante la pre-comprensione non concettuale; b) mediante la comprensione autentica, resa pos- sibile dal cammino di pensiero aperto da Sein Zeit; di qui la celebre distinzione heideggeriana tra esistenza autentica e inau- tentica); 2. che l'essenza del Dascin  storica. Con ci per Heidegger non ha affatto detto che noi dobbiamo indagare il soggetto piuttosto che loggetto; soggetto e oggetto sono determinazioni ontiche (non ontologiche) e perci non originarie, ma gi ricavate dalla pre-comprensione. In tal modo Heidegger ha messo fuori gioco tutta l'impostazione trascendentale della filosofia (con una mossa che  analoga e corrispondente a quella che ha posto fuori causa la logica formale: trascendentalismo e formalismo logico sono le due facce, le due strategie, direbbe Foucault, del pensiero meta- fisico). i 50 Ci che  indagato  invece il carattere ermeneutico che caratte- rizza lessere di quellente che noi, cercanti, sempre siamo, sia che lo vogliamo (e lo sappiamo) o no. In certo modo, la funzione ermeneu- tica precede i soggetti, proprio come la langue precede (rende pos- sibile) la parole. Per di pi, proprio nella Introduzione generale a Sein und Zeit, Heidegger puntualizzer, in riferimento a Husserl e anzi contro Hus- serl, che allesserci appartiene in linea essenziale di essere in un mon- do: la comprensione dellessere propria dellesserci concerne co-ori- ginariamente la comprensione di qualcosa come il mondo e la com-. prensione dellessere dellente allinterno del mondo. Lungi dall'essere un fenomeno della mia coscienza, o il prodotto dei miei atti inten- zionali, il mondo  lorizzonte che sempre si presenta unitamente al- lesserci. Lesserci non ci- (non  qui: Da, di Da-sein) senza il mon- do. Sicch indagare quellente che noi, i cercanti, gi sempre siamo si- gnifica indagare, in certo modo, proprio lente in generale, come voleva Aristotele, senza distinguere tra oggetti e soggetti, intendendo i primi in funzione dei secondi o viceversa. Il modo dell'indagine viene successivamente chiarito da Heidegger come fenomenologico, Abbiamo analizzato a lezione i paragrafi de- dicati a questo tema in Sein und Zeit, mostrando come la fenome- nologia di Heidegger differisca da quella di Husserl, innanzi tutto proprio per la sua ispirazione ermeneutica. Qui per accantoniamo l'argomento, per non appesantire ulteriormente lo studio, certo gi arduo, di queste Dispense. Riprendiamo dunque da queste due proposizioni: lesserci  un ente che comprendendosi nel suo essere si rapporta gi sempre a que- sto essere (concetto formale di esistenza); lesserci  lente che io stes- so sempre sono (condizione di possibilit dellesistenza autentica e inau- tentica). Ora per dobbiamo aggiungere; per quanto si  detto prima, che queste determinazioni dessere dellesserci vanno riportate a quel fondamento che  la costituzione dessere indicata daila espressione essere-nel.mondo (In-der-Ielt-sein). Questa espressione designa un tutto unitario, un fenomeno unitario, ancorch complesso (complesso nei suoi aspetti, unitario nel suo senso). Suo perno  il concetto di mondo, cio lesser mondo del mondo (la mondit del mondo), di cui si dir. Ma nellespressione citata noi dobbiamo anzitutto chiarire 51 in (in-der-Welt-sein); cio: lin-essere come tale. Che significa in-essere?? In-essere non equivale a esser dentro (come lacqua  nel bic- chiere, il pesce  nellacqua o la chiave  nella toppa). Questo esser-den- tro designa lesser uno dentro laltro delle cose, degli enti, del mondo, presi nella loro semplice presenza; cio  il modo in cui noi incon- triamo empiricamente gli enti nel mondo (nel mondo  mondano, come direbbe Husserl, e anche Heidegger; cio nel mondo ovvio della nostra esperienza quotidiana aproblematica e prefilosofica). Nel- lin-essere, invece,  proprio in questione lessere degli enti presi come semplici presenze e che stanno nel mondo mondano. Ora, lin-essere nel mondo del Dasein non  mai una semplice presenza (un ente fra gli enti che stanno nel mondo). Lin-essere, dice Heidegger,  un esisten- ziale, perch fa parte della costituzione dessere dellesserci. Andiamo pi a fondo: lin-essere  lespressione formale ed esi- stenziale dellessere dellesserci, che ha la costituzione essenziale del- lessere-nel-mondo, cio che ha il mondo come ci che gli  familiare, in cui soggiorna e abita, in cui @. Questo essere-presso (nel) mondo dellesserci non  un essere pre- senti insieme, lessere luno accanto allaltro di un ente chiamato es- serci e di un ente chiamato mondo. Lesserci  un ente che sempre si comprende come legato, nel suo destino, allessere dell'ente che in- contra allinterno del proprio mondo. Lin-essere, scrive Heidegger, non  quindi una propriet che lesserci abbia talvolta s e talvolta no e senza la quale egli potrebbe essere com' n pi n meno che avendola. Non  che luomo sia e, oltre a ci, abbia un rapporto col mondo, occasionale e arbitrario. Lesserci non  innanzitutto, per cos dire, un ente senza in-essere, a cui ogni tanto, passa per la testa di assumere una relazione col mondo. Questa assunzione di relazio- ne col mondo  possibile soltanto in quanto lesserci  ci che  solo in quanto essere-nel-mondo. Questa costituzione dessere non sorge perche, oltre allente avente il carattere dellesserci,  presente anche l'ente difforme dallesserci e lesserci lo incontra. Questaltro ente pu incontrarsi con lesserci solo perch  tale da poter manifestarsi da se stesso allinterno di un mondo. Laffermazione, oggi molto in uso, che l'uomo ha il suo mondo-ambiente, non significa nulla ontologica mente finch questo avere rimane indeterminato. Quanto alla sua 52 stessa possibilit, l'avere  fondato nella costituzione esistenziale dellin-essere. Soltanto perche in possesso di questa essenziale costi- tuzione, lesserci pu scoprire esplicitamente lente che incontra nel mondo-ambiente, saperne qualcosa, disporne e avere il mondo (p. 127). Lavere un mondo, un mondo-ambiente (Umwelt) costituisce dun-. que, da un punto di vista ontologico, un problema. Un problema che di solito non viene avvertito. Da parte di sociologi, antropologi (anche filosofi) si assume il mondo come un ente semplicemente presente in relazione con un altro ente (luomo, lanima, il cervello, la comunit sociale, ecc.). Da questa ingenuit deriva tutta la cosiddetta teoria del conoscere e la distinzione usuale fra soggetto e oggetto. Non ci si avvede che solo la pre-comprensione ontologica del fenomeno mondo (il fatto per cui questo fenomeno, in qualche modo,  gi sempre vi- sto), rende possibile anche la questione del mondo come ente sem- plicemente presente. Questa comune incomprensione deriva del resto essa stessa da una peculiarit essenziale dellessere dellesserci: Lesserci comprende on- tologicamente se stesso (e quindi anche il proprio esser-nel-mondo) innanzi tutto a partire dallente (e dallessere di esso) che esso non  e che esso incontra allinterno del suo mondo. Lesserci si compren- de a partire dallente; egli viene al pi prossimo (a se stesso) muoven- do dal pi lontano (lente). i Le considerazioni sin qui svolte ci consentono finalmente di por- re il problema centrale dellessere-nel-mondo; questo problema riguarda il momento strutturale mondo, cio la mondit del ' mondo. Come affrontare questo problema? Dove cogliere la mondit(lesser mondo) del mondo? Diciamo anzitutto come non bisogna procedere. Non si tratta di enumerare gli enti del mondo e di descriverli (atteg- giamento comune delle scenze empirico-descrittive); questa descrizio- ne, infatti, resterebbe sul piano ontico, laddove noi miriamo allonto- logico (all'essere); e ogni descrizione ontica presuppore ovviamente, senza indagarlo, lessere del mondo, la sua mondit. Non si tratta neppure di svelare l'essere dellente presente nel mondo (l'essenza o la sostanzialit delle cose): questo procedimento  certo ontologico (cor- risponde ad es. alla me*afisica classica), poich mira allessere, e pi precisamente all'essere di ci che si suol chiamare natura; tuttavia, anche la natura  un ente che si incontra allinterno del mondo, il 53 quale, nella sua mondit, viene anche qui presupposto. Bisogna invece ricordare che la mondit  un concetto ontolo- gico che denota la struttura di un momento costitutivo dellessere- nel-mondo da parte dellesserci. Infatti lessere-nel-mondo  un esi- stenziale o un carattere dessere dellesserci. Quindi, possiamo con- cludere, indagare ontologicamente il mondo, la sua mondit, signi- fica proprio condurre unanalitica dellesserci. Il mondo  lin-essere dellesserci. E analizzando questo modo dessere (lin-essere) che tro- viamo anche il mondo. i Come si  visto, mondo  un'espressione ambigua che va chiari- ta. Essa pu significare: 1) la totalit dell'ente semplicemente presente allinterno del mondo (concetto ontico di mondo); 2) l'essere dellen- te semplicemente presente allinterno del mondo (concetto ontolo- gico di mondo); 3) ci in cui un esserci effettivo vive come tale (significato preontologicamente esistentivo, da cui si sviluppa il con- cetto ontologico esistenziale della mondit). Noi assumiamo dunque questo terzo significato. Punto di partenza dellindagine  ci che Heidegger definisce la quotidianit media, cio il modo dessere pi prossimo e pi co- mune dellesserci (come lesserci  innanzi tutto e per lo pi). Ora, il mondo pi prossimo allesserci quotidiano  il mondo-ambiente (Umwelt). Come si d, innanzi tutto e per lo pi, il mondo-ambiente allesserci? Il quotidiano essere-nel-mondo dellesserci  un aver com- mercio col mondo e con gli enti intramondani, Come si verifica il commercio con gli enti intramondani? Non mediante il conoscere per- cettivo (come si  soliti pensare, ingannati da una secolare tradizione filosofica, cio dal gnoseologismo metafisico e scientifico); il commer- cio si manifesta innanzi tutto nel prendersi cura maneggiante e usan- te. Lesserci, dice Heidegger, in ogni momento si' gi da sempre di- sperso in una molteplicit di modi del prendersi cura. Il prendersi cura  un essere rivolti allente (alle cose); ma lente qui  il pre-tematico e il con-tematico. Non interessa cio alla nostra indagine quali enti; interessa che il modo del prendersi cura apre la via a quellessere del- lesserci che  il vero preso di mira. Sappiamo che lesserci  un ente che sempre si comprende come legato, nel suo destino, allessere del- lente intramondano; lesserci si comprende innanzi tutio a partire dal- lente che esso non  e che incontra allinterno del suo mondo. Quindi 54 linterpretazione (dellessere dellesserci, ovvero lanalitica dellesserci) ha a che fare con lente, ma non per rimanere allente bens per rivolger- si allessere dellesserci. Un primo aspetto di questo rapporto (che les- serci intrattiene originariamente con lente)  appunto il prendersi cura maneggiante e usante, Alle origini del pensiero, osserva Heidegger, questa via era stata adeguatamente aperta (ma poi venne subito richiusa e obliata): i Greci chiamavano le cose prgmata (ci con cui si ha a che fare nel commer- cio prendente cura: praxis). Tuttavia essi stessi oscurarono il senso pragmatico della questione, riducendo i pragmata a semplici cose (9). Noi ci atteniamo invece proprio a ci che il commercio prendente cura  per se stesso. Per questa ragione chiamiamo lente che viene in- contro nel prendersi cura il mezzo (il mezzo per cui), Lente che viene incontro, innanzi tutto e per lo pi, riveste dun- que il modo dessere del mezzo. Che significa mezzo? Qual  la sua specifica essenza? Ecco il problema che ora dobbiamo affrontare. Heidegger comincia con losservare che non si d mai un mezzo iso- lato: lessere del mezzo appartiene sempre alla totalit dei mezzi. Il mezzo  sempre qualcosa per..., che rinvia a un ulteriore qualcosa per..., ecc. Il per contiene implicitamente un rimandare di qualco- sa a qualcos'altro (da queste espressioni possiamo intuire che ci stia- mo avvicinando al problema del segno; ma la via da percorrere  an- cora lunga). Scrive Heidegger: Il mezzo, per la sua stessa natura,  sempre tale a partire dalla sua appartenenza ad altri mezzi: scrittoio, penna, inchiostro, carta, cartella, tavola, lampada, mobili, finestre, porte, camera. Queste cose non si manifestano innanzi tutto isolata- mente, per riempire successivamente una stanza come una somma di reali. Ci che si incontra per primo, anche se non tematicamente cono- sciuto,  la camera, e questa, di nuovo, non come ci che  racchiuso fra quattro pareti in senso spaziale e geometrico, ma come mezzo di abitazione. E a partire da essa che si rivela l'arredamento e in questo, a sua volta, il singolo mezzo. Prima del singolo mezzo  gi scoperta una totalit di mezzi (p. 141). 9) Sul concetto di pragmata cfr. Semiotica e fil. cit., p. 291 sgg. 55 Il prendersi cura del mezzo, poi, non  n conoscitivo, n contem- plativo (nel commercio usante, il prendersi cura sottost al per costi- tutivo di ciascun mezzo): Quanto meno il martello  oggetto di con- templazione, quanto pi adeguatamente viene adoperato, e tanto pi originario si fa il rapporto a esso e maggiore il disvelamento in cui esso ci viene incontro in ci che , cio come mezzo. E il martellare a sco- prire la specifica usabilit del martello. Il modo di essere del mezzo, in cui questo si manifesta da se stesso, lo chiamiamo utilizzabilit. Solo perch il mezzo possiede questo essere in s* e non  qualcosa di sem- plicemente presente, esso  maneggiabile e disponibile nel senso pi la:go (...) Il commercio col mezzo sottost alla molteplicit dei riman- di costitutivi del per. La visione connessa a un processo del genere  la visione ambientale preveggente. Il comportamento pratico non  ateoretico nel senso che sia privo di visione, e il suo differenziarsi dal comportamento teoretico non consiste solo nel fatto che nel primo si agisce e nel secondo si contempla, cosicch lagire, per non rimanere cieco, dovrebbe applicare il conoscere teoretico; al contrario, il contem- plare  originariamente un prendersi cura, allo stesso modo che lagire ha un suo proprio modo di vedere. Il comportamento teoretico  un limitarsi a contemplare, senza visione ambientale preveggente (pp. 141-2). In secondo luogo Heidegger osserva che ci con cui il commercio quotidiano ha innanzi tutto a che fare non sono i mezzi per attuare lopera, ma  lopera stessa. La cosa da fare  l'oggetto primo del prendersi cura e costituisce quindi lutilizzabile primario. In terzo luogo, anche lopera da fare (come a-che del martel- lo, ecc.) riveste essa stessa il carattere di mezzo (La scarpa  costruita per portarla -  mezzo per camminare -, l'orologio  fabbricato per leggervi lora, ecc.). Con lanalisi della utilizzabilit (qui molto rapidamente sinte- tizzata) noi abbiamo s condotto una prima interpretazione dell'ente intramondano nel suo originario manifestarsi allesserci, ma in tutta questa analisi il fenomeno mondo  stato, ancora una volta, presup- posto. Noi sappiamo per che con lente si illumina contemporanca- mente lessere. Come si illumina? Come possiamo coglierlo pedinando l'ente intramondano di cui ci prendiamo cura? Ci accade in virt di un'esperienza che spesso siamo condotti a fare nel nostro prenderci 56 cura e nella visione ambientale preveggente. Questa espreienza viene spe- cificata da Heidegger in tre modalit che egli chiama la sorpresa, limportunit, l'impertinenza. Cerchiamo di chiarire. Lesserci  sempre legato,nella sua quotidianit media, alla visione ambientale preveggente volta allutilizzabile (e pi esattamente allope- ra come la cosa da fare, dove poi lopera riveste essa stessa il carattere di mezzo). Lin-cui dellessere-nel-mondo (lin-essere) non  pertan- to mai tematizzato (noi non lo teniamo di mira, volti come siamo alla opera), anche se esso  pre-compreso e come tale accompagna ogni incontro con lutilizzabile intramondano (cio con ogni mezzo). (Ve- dremo che non solo accompagna ogni incontro, ma anzi lo rende pos- sibile). In questa non-tematizzazione la mondit del mondo resta nascosta, non appare, non diviene fenomeno, come dice Heidegger. Ma vi sono casi in cui, bruscamente, in forza di un'esperienza, il na- scosto, il latente, si manifesta (almeno in parte). Noi scopriamo ad es. che lutilizzabile  inidoneo (donde la sorpresa): il martello  rotto, o troppo pesante, ecc. Oppure lutilizzabile  mancante (donde limpor- tunit); o infine lutilizzabile si rivela un ostacolo che ci si rivolta con- tro con impertinenza. In questa triplice esperienza va in certo modo perduta lutilizzabilit dellutilizzabile. Ora,  solo cozzando contro linutilizzabile, che noi siamo risve- gliati dalla ovviet della visione preveggente volta allutilizzabile. Il prendersi cura maneggiante e usante viene sospeso, e allora emerge una nuova consapevolezza: si fa esplicito il carattere di rimando che  proprio di ogni utilizzabile in quanto mezzo; e anzi la totalit dei rimandi e dellesser rimandati. E con questa totalit che finalmente si annuncia la mondit del mondo. Lintera officina, scrive Heideg- ger, allora viene in chiaro, e precisamente come ci in cui il prendersi cura soggiorna gi da sempre. La totalit che viene in luce  quella del rimando, della totalit dei rimandi. Nella visione ambientale preveggente questa totalit dei rimandi deve restare non tematica: Il non-annunciarsi-del-mondo  la condizione della possibilit da par- te dellutilizzabile di non suscitare sorpresa. Correlativamente, con l'apparire della sorpresa (linutilizzabile) compare anche il mondo: esso si stacca dallo sfondo come un tutto gi costantemente visto sin dal principio nel corso della visione ambientale preveggente: visto in maniera non tematica, pre-compreso. Dobbiamo ora aggrapparci a que- 57 sta manifestazione del mondo per renderne tematico il contenuto. La via d'accesso  quella del rimando. Il mondo compare dap- prima come la totalit dei rimandi (questa totalit  in certo modo co- stitutiva della mondit). Ma che significa propriamente rimando? Per rispondere Heidegger si riferisce a un esempio tipico di rimando: esso  il segno. I segni, scrive Heidegger, sono in primo luogo mezzi, il cui spe- cifico carattere di mezzo consiste nellindicare. Qual  lindicare pro- prio del segno? Per rispondere esaminiamo qual  la modalit dellave- re-a-che-fare con un segno: questa modalit si rivela nel comportamen- to. Che tipo di comportamento? Ci che indica non ci rivolge sem- plicemente alloggetto (e tantomeno il segno rivolge la nostra atten- zione a se stesso; al contrario, esso rimanda ad altro); ci che indica esige da noi un peculiare colpo docchio: Questo colpo docchio ambientale non mira a comprendere lutilizzabile. Esso si propone un orientamento nel mondo ambiente (...) Il segno non  una cosa che stia con unaltra cosa nella relazione dellindicare; esso  invece un mezzo che, nella visione ambientale preveggente, fa emergere esplici- tamente un complesso di mezzi, in modo tale che, nel contempo, si annuncia la conformit al mondo propria dellutilizzabile. Nei sintomi e nei presagi viene indicato ci che sta venendo; ma non si tratta sem- plicemente di qualcosa che sopravviene in aggiunta alle cose gi pre- senti. Ci che sta venendo  qualcosa a cui ci prepariamo, o a cui non eravamo preparati perch ci occupavamo daltro. Dalle tracce la visio- ne ambientale preveggente capisce come sono andate le cose, cosa  successo. Il contrassegno indica con che cosa si ha a che fare. I segni indicano sempre e in primo luogo dove si vive, ci presso cui il pren- dersi cura si sofferma, come stanno le cose (pp. 155-6). Questa indicazione ha inoltre il carattere essenziale della sorpre- sa: il segno  un mezzo utilizzabile che, in virt del suo carattere di mezzo, assume il compito di far s che lutilizzabile desti sorpresa (proprio per ci i segni sono sempre collocati, posti in bella vista, ecc.). Questa funzione della sorpresa attesta il fatto correlativo: che lutilizzabile pi prossimo non desta sorpresa. Con la sorpresa, dun- que, il segno apre la via al palesarsi dell'essere del mondo (prepara con ci la via anche al palesarsi del linguaggio? Lo vedremo). Il segno, dunque, nun soltanto  utilizzabile assieme agli altri mezzi, ma la 58 sua utilizzabilit rende il mondo-ambiente esplicitamente accessibile alla visione ambientale preveggente. Il segno  un utilizzabile ontico che, in quanto  questo determinato mezzo, funge nel contempo da qualcosa che rende manifesta la struttura ontologica dellutilizzabilit, della totalit dei rimandi e della mondit. E qui che si fonda la peculia- rit di questo utilizzabile allinterno del mondo-ambiente di cui ci si prende cura nella visione ambientale preveggente. Il rimando, in quan- to fondamento ontologico del segno, non pu quindi esser concepito esso stesso come un segno. Il rimando non  la determinazione ontica di un utilizzabile, visto che  ci che costituisce lutilizzabilit stessa (p. 159). Che lessere dellutilizzabile abbia la struttura del rimando signi- fica: lutilizzabile ha in se stesso il carattere dellesser-rimandato. Lo ente che innanzi tutto ci viene incontro  rimandato a qualcosa. Che vuol dire esser rimandato a qualcosa? Significa che ogni ente (ogni utilizzabile intramondano) ha con s, presso qualcosa, il suo appaga- mento. Heidegger allora conclude: Ci che caratterizza lesser del- lutilizzabile  lappagativit. E ancora: Lappagativit  lessere dell'ente intramondano, ci a cui esso  gi sempre innanzi tutto ri- messo. Potremmo dire, per esempio, che lappagativit del martello  il martellare; ma ogni appagativit si inserisce in una catena di ap- pagativit: martellare per costruire, costruire per edificare, edificare per ripararsi dalle intemperie, ecc. La catena delle appagativit mette capo, infine, alla totalit di appagativit. Circa questa totalit dobbiamo distinguere: 1) lin-vista-di-cui; 2) il presso-che.. Lin-vista-di-cui  sempre lesserci, lente a cui, nel suo essere, ne va sempre di questo essere stesso. Nellesserci non sussiste pi alcuna appagativit, poich lesserci non  un utilizzabile. Ci che caratteriz- za lesserci in quanto in-vista-di-cui della appagativit  di lasciar essere lappagativit medesima (lasciar appagare). Lesserci, cio, manifesta qui il suo carattere rivelativo e interpretativo: nel prendersi cura les- serci scopre nella sua utilizzabilit qualcosa come essente (essente nel mondo del rimando e del mezzo). Questo scoprire, aprire, lasciare,  la condizione ontologica della possibilit che lutilizzabile sia incon- trato (ovvero: la condizione ontologica dellente intramondano). Po- tremmo dire: lesserci  il luogo in cui lutilizzabile si manifesta nella 59 sua catena di appagativit (come ci che  rimandato a...); lesserci infatti  gi da sempre in una pre-comprensione dellessere che gli ap- partiene; ma a questo essere appartiene co-originariamente lavere un mondo, lessere-nel-mondo; sicch nellesserci il mondo  co-origina- riamente aperto alla appagativit dei suoi rimandi. Il lasciar appagare pu poi essere immediato o mediato (mediato quando, nel prenderci cura, non lasciamo essere lente scoperto cos com', ma lo lavoriamo, lo scomponiamo, lo miglioriamo). Vediamo ora il presso-che dellappagativit. Ci equivale a chie- dersi: in base a che (in-che) lesserci pu lasciar essere lappagativit? La risposta (un po semplificata)  gi stata accennata sopra: in base allaver gi sempre pre-compreso il mondo come ci in-cui lesserci ha da essere. Questo aver gi sempre pre-compreso  lintimit col mon- do dellessere dellesserci. Finalmente: questa intimit  (in generale) la mondit del mondo. Detto in altri termini: Vaver gi sempre inter- pretato il mondo, come carattere esistenziale dellesserci,  quelloriz- zonte implicito (pre-compreso) che rende possibile lappagativit del- lutilizzabile e anzi il venire allo scoperto dellutilizzabile medesimo. Come si era detto, mondo non  contenente generale delle cose (sicch lesserci non sta nel mondo come il pesce nellacqua ecc.): esso  lorizzonte ermeneutico stesso. Lesserci  sempre in una inter- pretazione di s, cio del suo mondo, del suo essere-nel-mondo. Les- serci, interpretandosi nel suo essere,  sempre intimo con un presso cui che costituisce il suo orientamento, il suo abitare. Questa inti- mit  dunque un interpretare, un comprendere (un aver sempre gi interpretato e compreso il mondo). Possiamo allora dire che, andando pi a fondo,  la comprensione del mondo la mondit del mondo. Que- sta comprensione rivela la catena del rimandare, i suoi rapporti entro la totalit di appagativit. Questi rapporti, dice Heidegger, costituisco- no la significativit del mondo (che  un modo ulteriore per esprimere la mondit del mondo). Scrive Heidegger: Il carattere di rapporto di questi rapporti propri del rimandare lo indichiamo col termine signi- ficare. Nellintimit con questi rapporti, lesserci significa a se stesso che ha da conoscere originariamente il suo essere e il suo poter-essere a partire dal suo essere-nel-mondo. L'in-vista-di-cui significa un per, questo un a-che, la-che un presso che del lasciar appagare e que- sto un con-che dellappagativit. Questi rapporti sono fra di loro con- 60 nessi in una totalit originaria; essi sono ci che sono in quanto signifi- cano ci in cui lesserci d preliminarmente a conoscere se stesso: il suo essere-nel-mondo. La totalit dei rapporti di questo significare  ci che noi indichiamo col termine significativit. Essa esprime la strut- tura del mondo, ossia ci in-cui lesserci, in quanto tale, gi sempre . Lesserci, nella sua intimit con la significativit,  la condizione on- tica della possibilit della scopribilit dellente che si incontra nel mon- do nel modo d'essere dellappagativit (utilizzabilit); questo ente, in tal modo, si d a conoscere nella sua inseit. Lesserci, come tale,  sempre questo o quello, e nel suo essere  gi sempre scoperto un com- plesso di utilizzabili. Lesserci, in quanto ,  gi sempre rinviato a un mondo che gli viene incontro. Al suo essere appartiene, in linea essen- ziale, lesser-rinviato. La significativit, in cui lesserci  gi sempre im- medesimato, porta con s la condizione ontologica della possibilit che lesserci che comprende possa, interpretando, aprire qualcosa come i significati, i quali, a loro volta, fondano la possibilit della parola e del linguaggio (p. 165). Con questa pagina straordinaria di Heidegger siamo finalmente arrivati in prossimit della nostra meta: il linguaggio. Proprio il segno ci ha condotti a esso (quel segno in cui  coinvolto lesserci, cui ap- partiene in linea essenziale, come ora abbiamo letto, 1esser-rinvia- to;  come dire, nei termini di Peirce, che luomo  un segno; ma ci a pi tardi). Ci che ora dobbiamo fare : 1) chiarire la compren- sione (e la significativit); 2) vedere come in essa si fondi la pos- sibilit della parola e del linguaggio. La comprensione tuttavia esige: a) un chiarimento preliminare del suo luogo; b) la presa datto di un altro atteggiamento che le  coessenziale e che Heidegger chiama situazione emotiva, o 1 a Il luogo della comprensione offre un approfondimento della espressione esserci (Dasein), la cui scelta, da parte di Heidegger, costituisce un elemento essenziale per la comprensione del cammino di Sein und Zeit. Egli scrive: Lente la cui essenza  costituita del- lessere-nel-mondo  il suo Ci. Nel suo significato pi comune il Ci indica un qui o un l. Il qui di un io qui  sempre compreso a partire da un l utilizzabile, nel senso di un essere-per questo utiliz- zabile, essere-per che si prende cura, orienta e disallontana. La spazia- lit esistenziale dellesserci, che ne determina il posto, si fonda nel. 61 lesser-nel mondo. Il l  la determinazione di un ente che  incontra- to come intramondano. Qui e l sono possibili solo in un Ci, cio solo se esiste un ente che, in quanto essere del Ci, ha aperto la spa- zialit. Nel suo essere pi proprio questo ente ha il carattere della non- chiusura. L'espressione Ci significa. appunto questa apertura essenzia- le. Attraverso di essa, questo ente (lesserci) Ci  per se stessa in una con lesser-ci del mondo (p. 223). Il luogo della comprensione  dun- que la stessa cosa dellapertura dellesserci (del suo lasciar essere lappagativit): lesserci  la sua apertura, scrive Heidegger, il che si- gnifica: lessere, in virt del quale per questo ente ne va del suo essere,  laver-da-essere il suo Ci. Che lesserci ci  significa che esso  il principio dellorientamento (qui e l). In ogni orientamento  implicato il gioco del rimando: lesserci si comprende a partire dal l (lente intramondano incontrato come utilizzabile); ma il l si manifesta a partire dallesser-ci dellesserci, dal suo essere aperto ad accogliere il l (che ci  lesserci  tutt'uno con lesser-ci del mon- do: i due poli di questa correlazione si rapportano luno allaltro e rinviano luno allaltro) (10). I! modo poi di questa correlazione  la comprensione : laver-da-essere il suo Ci dellesserci significa propriamente che lesserci deve interpretarsi nel suo essere; cio deve interpretare il suo essere-nel-mondo. E questa originaria interpretazio- ne (quale si manifesta nella pre-comprensione) che assegna il qui e il l del mondo. Loriginaria interpretazione apre l'orientamento (quellorientamento che, come abbiamo visto, viene risvegliato dal modo di rimandare del segno; questo aspetto per Heidegger lascia nello sfondo: egli non conduce abbastanza a fondo la riflessione sul segno). Vediamo ora la situazione emotiva. Scrive Heidegger: Ci che in sede ontologica designamo' con lespressione situazione emotiva  onticamente notissimo e quotidianissimo sotto il nome di tonalit emotiva, umore. Ci proponiamo ora di esaminare questo fenomeno come esistenziale fondamentale e di fissarlo nella sua struttura al di fuo- 10) Cfr. Semiotica e fil. cit., pp. 262-77 (Segno e distanza). 62 ri di ogni elaborazione psicologica che, del resto, manca del tutto. La equanimit serena e il malumore inibente del prendersi cura quotidiano, il loro alternarsi, il cedimento al malumore, non sono ontologicamente insignificanti, anche se questi fenomeni passano spesso inosservati perch ritenuti qualcosa di estremamente indifferente e labile nelles- serci. Che le tonalit emotive possano mutare o capovolgersi sta solo a significare che lesserci  sempre in uno stato emotivo. Lindifferenza emotiva, sovente persistente, uniforme e diafana - e tuttavia non con- fondibile col malumore -  cos poco un niente che proprio in essa lo esserci  di peso a se stesso. Lessere si  rivelato come un peso. Perch? Non si sa. E lesserci non pu sapere queste cose perch le possibilit rivelatrici del conoscere sono inadeguate rispetto allapertura origina- ria propria delle tonalit emotive in cui lesserci  posto innanzi al suo essere in quanto Ci. Certamente una tonalit emotiva euforica pu li- berarci dal peso dellessere; ma questa stessa possibilit emotiva rivela - sia pure liberandocene - il carattere di peso dellesserci. La tonalit emotiva rivela come va e come andr; mediante questo come va lo stato emotivo insedia lessere nel suo Ci (pp. 225-6). Lesserci  dunque sempre emotivamente aperto (il che non significa riconosciuto come tale:  emotivamente aperto, ma questo faito non  oggetto di un sapere specifico, non  tematizzato). Lorien- tamento, il luogo della pre-comprensione, esaminato prima,  sem- pre emotivamente determinato (qui e l non sono dislocazioni contemplative dellesserci, puramente conoscitive o percettive; sono dislocazioni emotive). Per andare subito al nocciolo della que- stione, diciamo in che consiste, nella sua essenza, lessere emotivamen- te aperto; esso consiste in ci: che lesserci  un esser-gettato (Gewor- fenheit) di questo ente nel suo Ci. Lesserci  un. gettato nel senso che c' e che ha da essere, restando per nascosti il donde e il dove. Certamente, noi possiamo nutrire varie opinioni circa il don- de e il dove (cio circa il senso dellessere dellesserci; nei termini comuni: chi  luomo, perch , a che scopo esiste, ecc.): possiamo ap- pellarci a una fede, oppure a una teoria scientifica (che  poi una altra fede, in cui mutano solo gli elementi di prova ritenuti validi e, appunto, probanti). Ma queste opinioni e credenze restano sul piano autosentimento situazionale che 10 ontico cio vengono dopo quell  un carattere ontologico dellesserci: prima lesserci  gettato (sic- 63 ch si trova a essere in una situazione emotiva); poi, eventualmente, pu dare spiegazioni e giustificazioni del suo essere gettato. Pi in generale, o innanzi tutto e per lo pi, lesserci non sa di trovarsi originariamente in una situazione emotiva; la tonalit emo- tiva non apre lesser-gettato alla comprensione, limitandosi a esibir- lo. Anzi, innanzi tutto e per lo pi, lesserci, nella quotidianit media,  nellatteggiamento della evasione e della fuga: lesserci fa ricorso alla volont e al sapere per padroneggiare le proprie emozioni (il tema  tipicamente nicciano: la volont di sapere sorge per sopprimere la paura) (11). In ogni caso, per, e non ostante le nostre fughe, la tonalit emotiva ha gi sempre aperto lessere-nel-mondo nella sua totalit, rendendo cos possibile un dirigersi verso... (cio un riempimento del Ci, una sua autointerpretazione: il lattante si dirige verso il seno con amore - perch c - o con rabbia - perch gli sfugge - e cos riempie il suo esser-ci, il modo del suo che  e ha-da-essere, appunto come lattante, gettato in questa sua situazione emotiva). In tal modo lesserci, aperto al mondo nella sua situazione emotiva, viene affetto dall'ente: Il lasciar-venire-incontro  preveggente am- bientalmente e non semplicemente sensoriale e contemplativo. Il lasciar- venire-incontro preveggente ambientalmente e prendente cura ha il carattere dellaffezione, carattere che ora siamo in grado di vedere pi chiaramente in virt della situazione emotiva. Quando siamo af- fetti dallinutilit dalla resistenza e dalla minacciosit dellutilizzabile, la cosa  ontologicamente possibile solo perch lin-essere come tale  determinato esistenzialmente in modo siffatto che, incontrandosi con l'ente intramondano, pu esserne colpito. Questa possibilit di essere affetto si fonda nella situazione emotiva come quella che, ad esempio, pu rivelare la minacciosit del mondo. Solo un ente che  nella situa- zione emotiva della paura o dellintrepidezza pu scoprire lente intra- mondano come minaccioso. Laffettivit propria della situazione emo- tiva  un elemento esistenziale costitutivo dell'apertura dellesserci al mondo (pp. 229-30). Solo per tale apertura, fra laltro, i sensi sentono e subiscono affezioni o sensazioni: il sentire  origi- nariamente emotivo, e non contemplativo-conoscitivo. 11) Cfr. Semiotica fil. cit., Capitolo II, pp. 105-55. 64 Queste osservazioni heideggeriane aprono gi il successivo appro- fondimento della situazione emotiva. Tale approfondimento esamina un suo modo determinato, che  la paura (analisi decisiva, poich antici- pa la scoperta dellesperienza dellangoscia che costituisce il nodo fondamentale del cammino di Sein und Zeit verso il tema risolutivo del- lessere per la morte; ma non  a questi temi che va linteresse della nostra lettura). In breve: la paura ha un suo davanti-a-che: ci che fa paura  sempre un ente che si incontra nel mondo (sia esso un utiliz- zabile, una semplice presenza o un altro esserci, cio un con-esserci). Il carattere di questo davanti-a-che  la minacciosit; lappagativit di un ente che viene incontro come minaccioso  poi la dannosit. Les- serci, come si dice, ne  spaventato. Esso  spaventato poich  quel- lente a cui nel suo essere ne va di questo essere stesso: Laver paura, scrive Heidegger, apre questo ente al rischio, al suo esser-abbandonato a se stesso. La paura rivela sempre lesserci nellessere del suo Ci, anche se in gradi diversi di esplicitezza. In tal modo abbiamo anche determi- nato il per-che della paura: il per-che  lente stesso che ha paura, les- serci: questi ha paura per questo o per quello; ma prima ancora ha paura per il suo essere-presso il mondo. L'intimit col mondo comporta un vicino-lontano, una spazialit esistenziale (come abbiamo visto) e cio un orientamento. Nella paura ci che si avvicina  minaccioso (pu es-  sere minaccioso) inquanto dannoso al Ci dellesserci (al suo essere qui, presso, ecc.). La minacciosit dipende dunque, ontologicamente, dalla struttura dellesserci cui  essenziale lessere aperto al mondo come co- lui che  situato: situato nel suo orientarsi, cio nel suo interpretarsi nel suo Ci. Ne deriva anche che lesserci, come per-che della paura, cio sentendosi minacciato, si trova paralizzato: egli perde la testa, si dis-orienta, e deve, come dice Heidegger, prima di tutto ritrovare se stesso. I momenti costitutivi della paura, tome fenomeno globale, posso- no variare. Abbiamo ad es. lo spavento (qualcosa di minaccioso nella forma del per ora non ancora, ma tuttavia in qualsiasi momento piomba allimprovviso sullesser-nel-mondo prendente cura; si noti che la formula per ora non ancora ecc. designer pi avanti langoscia per la morte, che  lesperienza fondamentale dellesserci); quindi lo orrore (se ci che  minaccioso non  un davanti-a-che noto e fami- liare, ma ha il carattere della estraneit pi completa); infine il terrore 65 (se ci che  orribile si presenta contemporaneamente con i caratteri dello spaventoso; cio un davanti-a-che estraneo e per di pi subitaneo). Inoltre, il timore, la timidezza, linquietudine, lo stupore, ecc. In con- clusione: lesserci, in quanto essere-nel-mondo,  spaurito. Esso  sem- pre costitutivamente di fronte allenigma indecifrabile del suo esser- gettato: il donde e il dove restano oscuri, ma lesserci ha comunque da sopportare il peso del suo che (che c), ha da essere il suo Ci, e nell'aver da essere ne va, come sappiamo, del suo essere. Questo es- sere  legato al destino dellente intramondano che lesserci incontra coessenzialmente maneggiando e usando (cio interpretando, cio comprendendo, o meglio, pre-comprendendo). Delacaa la situazione emotiva, veniamo finalmente alla com- prensione, struttura coessenziale dellesserci essa stessa. Bisogna su- bito notare che la situazione emotiva ha sempre la sua comprensione (anche se tende a deprimerla e a nasconderla con la volont e il sapere): la comprensione, cio,  sempre emotivamente tonalizzata. La compren- sione non  una spiegazione, un sapere concettuale, ma un origi- nario volgersi dellesserci al suo essere che gi sempre.interpreta (volgen- dosi appunto interpreta). Abbiamo chiamato ci pre-comprensione (del mondo) ed ora siamo in grado di vedere pi a fondo in tale mo- mento strutturale. Scrive Heidegger: Che lesserci, esistendo, sia il suo Ci, significa in primo luogo: il mondo Ci , ed il suo esser-Ci  lin-essere. Tale in-essere, a sua volta, ci  come ci in-vista-di-cui lesserci , Nellin-vista-di-cui, lessere-nel-mondo esistente  aperto come tale, e questa apertura venne da noi definita come comprensio- ne. Nella comprensione dellin-vista-di-cui  con-aperta la significativit che in esso si fonda. Lapertura della comprensione, in quanto apertura dellin-vista-di-cui e della significativit, concerne cooriginariamente lintero essere-nel-mondo. La significativit  ci rispetto-a-cui il mon- do  aperto coine tale. Che lin-vista-di-cui e la significativit siano aperti nellesserci significa che lesserci  un ente per cui, in quanto essere-nel-mondo, ne va di se stesso (pp. 236-7). Tutto ci definisce lesserci come possibilit (categoria tipica. mente kierkegaardiana): lesserci, in quanto comprende,  un es- ser capace, un saper fare; in una parola: un poter essere. L'es- serci non  una semplice presenza che in pi possiede il requisito di po- tere qualche cosa; al contrario:  prima di tutto un esser-possibile. 66 Lesserci  una possibilit gettata da cima a fondo: egli ha da essere il suo Ci; in questa possibilit pu smarrirsi e misconoscersi (e in certo modo, in quanto gettato, si  gi sempre smarrito e misconosciuto); ma proprio per ci pu anche ritrovarsi. E qui la radice della esistenza inautentica e di quella autentica, che sono per temi che noi lasciamo nello sfondo. i Piuttosto, dobbiamo ribadire che la comprensione scopre lutiliz- zabile nella sua impiegabilit, e poi anche nella sua dannosit. La to- talit di appagativit degli utilizzabili si rivela come il tutto della pos- sibilit di un insieme di utilizzabili. Rivolgersi a questo tutto della possibilit significa progettare: il progetto  la struttura profonda della comprensione (lesserci, in quanto gettato,  gettato nel modo di essere del progettare). Progetto non significa fare piani per...; lo esserci, comprendendo, pu dire a se stesso (niccianamente) divieni ci che sei. Cio, il progetto  un pro-getto, un modo dellesser get- tato:  il destino dellesserci che non pu non comprendersi nel suo essere, cos come esso Ci . Scrive Heidegger: L'ente che ha il modo di essere essenziale della progettazione dellessere-nel-mondo porta con s la comprensione dellessere come costitutiva del suo es- sere (...) Situazione emotiva e comprensione caratterizzano, come esistenziali, lapertura originaria dellessere-nel-mondo. E in uno sta- to emotivo che lesserci vede le possibilit in base alle quali esso . Lapertura progettante di queste possibilit  gi sempre tonalizzata emotivamente. La progettazione del poter-essere pi proprio  conse- gnata al fatto che lesserci  gettato nel Ci. Ma lesplicazione della co- stituzione esistenziale dellessere del Ci, quale progetto gettato, non fa dellessere dellesserci una specie di enigma? Infatti. Ma  proprio questa enigmaticit totale dellesserci ci che dobbiamo esaminare (...) (pp. 242-3). Lesame essenzialmente si sviluppa passando dalla comprensione alla interpretazione (Auslegung). Tocchiamo cos lapprodo finale del nostro cammino che ha per suo oggetto lermeneutica heideggeriana e, al suo interno, il problema del linguaggio. Linterpretazione  la elaborazione delle possibilit progettate nel- la comprensione. (Si noti: non  la comprensione che deriva dallinter- pretazione, ma il contrario: avendo pre-compreso, noi possiamo inter- pretare, cio elaborare la pre-comprensione; ma la questione  assai sot- 67 . tile e trover solo nel circolo ermeneutico la sua risoluzione). Scrive Heidegger: Muovendo dalla significativit, aperta nella comprensione del mondo, il prendente cura esser-presso lutilizzabile giunge a cono- scere quale appagativit possa aver luogo con lente che via via si incon- tra. Che la visione ambientale preveggente scopra, significa che essa interpreta il mondo gi compreso. Lutilizzabile accede esplicitamente alla visione comprendente. Ogni apprestare, ordinare, assestare, mi- gliorare, completare, si realizza in modo tale che lutilizzabile ambien- tale sia esplicitato nel suo per e divenga oggetto del prendersi cura proprio in base a questa esplicitazione (p. 244). Lesplicitazione del per mette in luce la struttura del qualcosa in quanto qualcosa, cio qualcosa per...; tale qualcosa per... viene interpretato come in quanto: Il commercio con lutilizzabile intramondano, guidato dalla visione ambientale preveggente e caratterizzato dal vedere ambien- talmente lutilizzabile in quanto tavolo, porta, vettura, ponte, non deve necessariamente rendere esplicito in una asserzione determinata ci che esso interpreta ambientalmente. La pi semplice visione pre-  predicativa dellutilizzabile  gi in se stessa comprendente-interpre- tante (p. 245). Linterpretazione, dunque, rende esplicita la com- prensione, ma non necessariamente e non originariamente nella for- ma della predicazione, cio del giudizio e del linguaggio. Piuttosto, linterpretazione esige sempre due condizioni prelimi- nari: 1) essa ha luogo a partire da una totalit di appagativit pre-com- presa (c una pre-disponibilit che  il fondamento essenziale della interpretazione quotidiana, ambientalmente preveggente); 2) lo sve- be) lamento e lappropriazione del compreso si realizza sotto la guida di una prospettiva che stabilisce la direzione in cui il compreso deve es- sere interpretato. Queste due condizioni dicono che linterpretazione esige qualcosa come una pre-cognizione, Linterpretazione, dice Hei- degger, non  mai lapprendimento neutrale di qualcosa di dato. Questa supposta neutralit  solo un sogno ingenuo dello storicismo e dello scientismo moderni. Ogni cosiddetto dato immediato,  nullaltro che lovvia e indiscussa assunzione dellinterpretante, assunzione ne- cessariamente implicita in ogni procedimento interpretativo come ci che  gi posto a base di ogni interpretazione (p. 247). | Che cosa  posto a base di ogni interpretazione? Ci che  posto a base  il senso, laver senso dellessere (dellesserci). Il problema del 68 senso dellessere dal quale eravamo partiti giunge finalmente a un suo primo chiarimento (sufficiente per i nostri scopi; non sufficiente per lindagine complessiva di Heidegger, che, come sappiamo, mira al tempo come luogo in cui reperire, pi in profondit, il senso delles- sere). Il problema del senso dellessere si pone perch noi siamo sem- pre nella pre-comprensione dellessere. Essere in questa pre- comprensione equivale a essere-nel-mondo. Ma come siamo nel mondo? Ci siamo in quanto gettati: noi abbiamo sempre da essere il nostro Ci, in quanto per lesserci ne va sempre del suo essere. In che modo abbiamo da essere il Ci? Nel modo della tonalit emotiva e della com- prensione. La tonalit emotiva nel suo pro-gettare e la comprensione nel suo interpretare aprono l'orizzonte del mondo, ovvero la mondit del mondo. Questa mondit  la significativit (sicch l'orizzonte del mondo coincide con lo stesso orizzonte interpretativo o ermeneutico; in altri termini:  quella pre-comprensione dalla quale partimmo). La apertura dell'orizzonte ermeneutico equivale al lasciar essere lappa- gativit dellente intramondano. Lasciandola essere noi ci imbattiamo originariamente con lutilizzabile. Esso, nella tonalit emotiva della com- prensione, viene assunto dal nostro prender cura ambientalmente preveg- gente. Pi esattamente: lutilizzabile  assunto come un mezzo per, come un rimando entro la catena delle appagativit. Questo rimando svela, attraverso il segno, la totalit dei rimandi, cio la significativit del mondo. Il mondo, cio, acquista un senso che  implicito nella comprensione e si fa esplicito nella interpretazione. Ora, ogni inter- pretazione, deve avere gi compreso linterpretando, cio deve in qual- che modo gi avere interpretato per poter interpretare. Cade cos sul tappeto il problema del circolo ermeneutico.  Esso insegna che ogni interpretazione mette in campo una pro- spettiva, un punto di vista. La prospettiva  la pre-cognizione di ci che si deve interpretare (laver gi, oscuramente, interpretato: proprio nella interpretazione si vede che ognuno diviene ci che , pro-getta il suo esser gi gettato nella interpretazione del suo essere). Vi  dun- que un circolus vitiosus: si presuppone ci che si vorrebbe dimostrare. La mentalit scientifica moderna recalcitra di fronte a questa circola- rit viziosa, tanto pi che la comprensione presupposta  costituita dalle convinzioni ordinarie degli uomini e del mondo in cui vivono. Proprio per ci la storiografia viene distinta dalle scienze rigorose 69 o esatte: la storiografia non  compiutamente scienza, poich il suo peculiare lavoro interpretativo non pu mai sfuggire del tutto al cir- colo ermeneutico (lo storico, nel conferire senso al passato, non pu mai evitare del tutto le sue prospettive, la scelta di punti di vista per- sonali, o soggettivi, insomma i pregiudizi suoi e del suo tempo). Scrive Heidegger: Poich il costituirsi del circolo  un fatto che non pu essere eliminato, la storiografia finisce per doversi accontentare di procedimenti conoscitivi meno rigorosi. Si crede di poter in qual- che modo ovviare a questa mancanza di rigore facendo appello al 'si- gnificato spirituale dei suoi oggetti. Anche secondo lopinione dello storiografo, lideale sarebbe, certo, che il circolo potesse essere evita- to e trovasse fondamento la speranza di poter un giorno costruire una storiografia indipendente dallautore, come si presume lo sia la scienza della natura. Ma se si vede in questo circolo un circolo vizioso e se si mira a evitarlo o semplicemente lo si sente come unirrimediabile im- perfezione, si fraintende la comprensione da capo a fondo (pp. 249- 50). Che vuole dire Heidegger? Rifiutando il circolo, il pensiero mo- derno assume labito conoscitivo delle scienze naturali (che  poi esso stesso uninterpretazione), un abito, cio derivato e non originario, e fallisce perci proprio il chiarimento della comprensione originaria. L'importanza, dice Heidegger, non sta nelluscir fuori dal circolo, ma nello starvi dentro nella maniera giusta. Il circolo, infatti, appar- tiene alla struttura del senso, che  un fenomeno radicato nella costi- tuzione esistenziale dellesserci, nella comprensione interpretante. Lente per cui, in quanto esser-nel-mondo, ne va del suo essere stesso, ha una struttura circolare di carattere ontologico (p. 251). Ma come si pu stare nel circolo nella maniera giusta? In generale non lascian- do che esso venga istituito sulla base dei nostri personali pregiudizi, delle opinioni comuni (il si dice), ecc.; piuttosto linterpretazione deve lasciare che la prospettiva emerga da se stessa, come appunto la cosa che ci caratterizza nel nostro esser gettati, ovvero destinati. Questa distinzione heideggeriana corrisponde esattamente alla distin- zione di Peirce fra verit privata e verit pubblica come vedremo. Analizziamo ora come linterpretazione articola il senso. Questo articolarsi equivale allarticolarsi dei significati. resi possibili, come sappiamo, dalla significativit generale dellesser-nel-mondo. Linter- 70 pretazione, tuttavia, articola senza ricorrere propriamente a giudizi (al logos): La mancanza di parole non sta a significare la mancanza di uninterpretazione, dice Heidegger. Piuttosto, nella visione am- bientale preveggente linterpretazione accoglie o rifiuta lutilizzabile. D'altra parte,  proprio sullinterpretazione che si fonda la possibilit del linguaggio e della parola (della articolazione linguistica). Ci  esa- minato dapprima da Heidegger sotto il profilo dellasserzione: Las- serzione  una manifestazione che determina e comunica (p. 254). Asserzione  per un termine ambiguo; Heidegger ne distingue tre accezioni. In senso pi originario asserzione significa manifestazione (logos come apfansis):  la manifestazione dellutilizzabile nella sua utilizzabilit. In secondo luogo asserzione significa determinazione mediante un predicato (per es. pesante detto del martello). Ab- biamo cos il giudizio. Questa accezione non  per originaria. Las- serzione come giudizio scioglie dalla sua inesplicitezza il predicato rinchiuso nellente, ma per far ci deve assumere preliminarmente una pre-visione, un punto di vista sullente. Il giudizio ha dietro di s linterpretazione e la sua prospettiva (la tipica circolarit ermeneuti- ca). Si vede bene allora che tutta la logica (e la metafisica che su di essa si fonda) sbaglia, quando assume il giudizio come luogo autenti- co e primario della verit; il giudizio  solo un luogo derivato. In que- sto errore la logica coinvolge anche la moderna logistica, in cui il giu- dizio  risolto in un sistema di correlazioni e diviene oggetto di calcoli. La logistica crede di porre in modo rigoroso il problema della verit; in realt lo pone solo in modo non genuino, ingenuo, non originario. Ignorando la prospettiva ermeneutica, la logistica rimane in superfi- cie, catturata dalloblio del problema del senso dell'essere, oblio che  proprio di tutta la tradizione metafisica. La logistica, che si crede tanto critica nei confronti della metafisica, non ne  che l'estrema propag- gine (cos come ne  lestrema propaggine la tecnica: argomento af- frontato lo scorso anno). Infine asserzione significa comunicazione, espressione (si ricordi Husserl). In quanto tale, essa eredita i primi due significati. La comunicazione partecipa allaltro un comune essere per il manifestato (nellasserzione). Tuttavia la comunicazione spes- so ricopre l'ente e si sostituisce a esso con un dire che , pi propria- mente, un sentito dire. Anche per Heidegger, come per Husserl, nella comunicazione il linguaggio perde la sua forza originaria. In con- 71 clusione, attraverso lasserzione Heidegger ha finalmente trovato la parola (il logos), ma in una forma non originaria. Come reperire la forma originaria del linguaggio? Ecco la domanda alla quale tenta di rispondere il paragrafo 34, lultimo che interessa la nostra indagine. La risposta, come ora vedremo, sar per essenzialmente problema- tica. Filo conduttore della ricerca  proprio il concetto di comunica- zione, preso per nella sua forma originaria. Qui Heidegger capovolge la posizione di Husserl: Nella comunicazione si costituisce lartico- lazione dellessere-assieme comprendente. Essa realizza la comparte- cipazione della situazione emotiva comune e della comprensione del con-essere. La comunicazione non  il trasferimento di esperienze vis- sute, di opinioni o di desideri, dall'interno di un soggetto allinterno di un altro. Il con-esserci (lintersoggettivit)  gi essenzialmente ri- velato nella situazione emotiva comune e nella comprensione comu- ne, Nel discorso il con-essere viene partecipato espressamente; dun- que esso  gi, ma non  ancora partecipato perch non  ancora af- ferrato e appropriato (...) Parlando, lesserci si esprime; non perch sia dapprima incapsulato in un dentro contrapposto a un fuori, ma perch esso, in quanto essere-nel-mondo, comprendendo,  gi fuori. Ci che viene espresso  proprio lesser-fuori, il modo particolare del- la sua situazione emotiva (p. 262). Ma come  possibile lesprimersi, il parlare? In generale il linguag- gio  lespressione del discorso (logos: non a caso i Greci, che ragiona- vano in modo pi originario di noi, non possedevano un termine equi valente a linguaggio, ma usavano il termine logos, che significa ap- punto discorso). Che cos' il discorso? Il discorso  un esistenzia- le cooriginario alla situazione emotiva e alla comprensione. Il discor- so  l'articolazione della comprensibilit (del senso) e sta perci alla base dellinterpretazione e dellasserzione. Esso articola la compren- sibilit del Ci nei sensi o significati che caratterizzano appunto il Ci dellesserci. Lesserci emotivamente situato comprende interpretan- do; in tal modo la totalit dei significati della comprensione accede alla parola. I significati sfociano in parole (p. 261). Come sfociano? Come accedono? Heidegger non lo dice. Egli sottolinea soltanto che non abbiamo da un lato i significati e dal- laltro delle parole-cose (analogamente De Saussure osservava che 72 il significante e il significato non pre-esistono al segno linguistico). Da altra parte, poich il discorso diviene parola, cio diviene linguag- gio, comunicazione, allora il discorso acquista un essere mondano, cio viene a essere disponibile come un ente intramondano, come un utilizzabile (nel che  da vedere piuttosto una vicinanza di Hei- degger con Husserl). Il linguaggio pu essere frantumato in parole- cose semplicemente presenti (p. 261). In verit, la natura profon- da del discorso resta oscura. Heidegger ne offre, di scorcio, solo due possibilit esistenziali che da esso dipendono: lascoltare (lo stare ad ascoltare comprendendo gli altri) e il tacere (come quellaver da dire pi profondo che mette a tacere la chiacchiera del linguag- gio inautentico). Heidegger osserva che bisogna riesaminare la lin- guistica a partire da fondamenti ontologici pi originari (...) Bisogna istituire unindagine intorno alle forme fondamentali che rendono pos- sibile ogni articolazione del comprensibile in significati, senza limitar- si all'esame dellente intramondano risultante alla considerazione teo- retica ed espresso in proposizioni (...) L'indagine filosofica dovr pur decidersi una buona volta a chiedere quale sia, in generale, il modo di essere del linguaggio; dovr pur dire se il linguaggio ha il modo di essere dellutilizzabile intramondano o il. modo di essere dellesserci, o di nessuno dei due, Come dev'essere lessere del linguaggio perch si possa parlare di un linguaggio morto? Che significa, ontologicamen- te, che un linguaggio si sviluppa o decade? C' una linguistica: e tut- tavia lessere dellente che essa ha per tema continua a restare oscuro; non solo, ma lo stesso orizzonte di questa scienza  buio. E forse a caso che i significati sono innanzi tutto e per lo pi mondani, prescrit- ti dalla significativit del mondo e addirittura prevalentemente spa- ziali? O si tratta di un fatto fornito di necessit ontologico-esisten- ziale? E perch? (p. 267). Si pu dire tranquillamente che la linguistica contemporanea non ha risposto a nessuno di tali interrogativi. Essa non  nenpure in condizione di abbordarli, di prestar loro ascolto e di compren- derli, mancando della necessaria consapevolezza ontologica (filosofica) e ignorando totalmente la portata della scoperta heideggeriana del circolo ermeneutico. A tali problemi si dirige invece, a suo modo, la semiotica di Peirce, senza peraltro che la linguistica contemporanea, che a Peirce pure si richiama, ne abbia adeguata consapevolezza. 73 IV. Peirce Sin dal 1867 Peirce sostenne che luomo nella sua essenza  un simbolo, cio un segno. Lessenza vitrea (glassy essence), cio tra- sparente, delluomo fa s che egli non differisca sostanzialmente dalla parola: luomo e la parola posseggono una comune natura e un co- mune destino; entrambi, infatti, si rivolgono a un interpretante futu- ro dal quale dipende il loro significato. Un anno pi tardi (1868) Peirce mostret, in un saggio capitale (Question Concerning Certain Faculties Claimed for Man), 1. che noi non abbiamo alcun potere di intuizione, ma che ogni conoscenza  determinata logicamente da conoscenze precedenti; 2. che noi non abbiamo alcun potere di introspezione, ma che ogni conoscenza del mondo interno  derivata con un'inferenza ipotetica dalla nostra co- noscenza dei fatti esterni; 3. ch noi non abbiamo alcun potere di pen- sare senza segni; 4. che noi non abbiamo alcun concetto dellassoluta- mente inconoscibile (essere ed esser conoscibile, cio rivestire un si- gnificato, fanno tutt'uno). Da queste proposizioni si ricava, non solo che luomo  un segno, ma che tutta la realt  un segno. Come lo si ricava? Prima chiediamoci: che significa segno in Peirce? La definizione classica che Peirce ci offre  la seguente: il segno  qualcosa che per qualcuno sta al posto di qualcos'altro, sotto qualche rispetto o capacit. Il qualcosa  il segno stesso (o ci che funge come segno); il qualcuno  lInterpretante del segno; il qual- cos'altro  lOggetto al quale il segno rimanda; sotto qualche rispetto o capacit  ci che Peirce definisce anche ground, cio il terreno, larea, il rispetto, il punto di vista in base al quale ci che funge come segno rimanda allOggetto per lInterpretante. Se comprendiamo questa. definizione in profondit, dobbiamo rifiutare una concezione ingenuamente naturalistica del segno. Non possiamo dire semplicisticamente: segno  questo o quello (le parole, 74 i cartelli stradali, ecc.). Il primo problema della semiotica non  la clas- sificazione dei vari possibili segni (come intende ingenuamente la se- miotica contemporanea), ma la comprensione adeguata del rimandare del segno. Lingenuit dei moderni semiotici sta in ci: che essi esa- minano varie categorie di segni; ma come possono analizzarle, e anzi come possono scegliere i loro oggetti (cio come possono sapere ci che sarebbe segno e ci che non lo sarebbe) senza aver prima chiarito che significhi esser segno? E evidente che essi sanno oscuramente ci che significa esser segno (il rimandare del segno), hanno una pre- comprensione del segno (come ognuno di noi); non ne hanno per una autentica comprensione, La definizione di Peirce non si limita per ad esibire un sempli ce schema empirico per identificare i segni e poi classificarli. Essa in-' segna invece che segno equivale a una relazione segnica fra tre verti- ci della relazione stessa (ci che funge da segno, lOggetto e lInter- pretante), secondo un punto di vista determinato. Per comprendere la natura di questa relazione noi dobbiamo in- nanzi tutto chiederci, non che cosa  il segno, ma che cosa fa. Che fa dunque il segno? Il segno rimanda qualcosa a qualcos'altro in un de- terminato modo. Qui per si annida la possibilit di un altro frainten- dimento naturalistico; quello cio di prendere il rimando come un nesso che collega il qualcosa e il qualcos'altro, dove questi due sono ancora intesi come entit a s, gi costituitesi prima e fuori del se- gno (della relazione segnica). Anche in questo caso viene presupposto noto il rimandare, che  lessenza del segno. Per non cadere in altri inganni, riferiamoci allora a una definizione un po astrusa. Diciamo ad es. che il segno va sempre pensato come una relazione segnica: il segno rimanda (nel modo che si  detto) e nello stesso tempo fa la re- lazione segnica stessa. La fa nel senso che essa pone i termini stessi della relazione. La relazione segnica  una relazione che ha di pecu- liare ci: che essa pone e delimita i termini stessi della relazione (po- tremmo anche riassumere tutto ci dicendo che il segno  una fun- zione relazionale di rimando). Queste definizioni suonano assai stra- ne; eppure noi ne facciamo costantemente lesperienza. In ogni co- mune relazione i termini sono determinati dalla relazione medesima. Se A entra in rapporto con B (per es. A sposa B), A  determinato dalla relazione stessa (egli diviene sposo di B in forza della relazione; prima, 75 evidentemente, non lo era). Solo che nellesempio (e in ogni nostra comune esperienza) i termini che entrano in relazione sono gi deter- minati per loro conto anche prima e fuori della relazione, sebbene, certo, in modo diverso da come saranno determinati in forza della nuova relazione intervenuta. Prima di essere sposo di B, A era figlio di C, era scapolo, abitava con lamico D, ecc. La relazione segnica, in- vece, colta nella sua originariet, pone assolutamente dei termini, cio pone termini in relazione che, prima della relazione, non sussi- stevano sotto alcun altro rapporto. i i Vediamo ora di chiarire, in modo originario, che cos una re- lazione segnica. In generale essa  un comportamento (pragma: si ricordi Heidegger). Secondo Peirce un comportamento  un abito di risposta: di fronte a x noi ci comportiamo nel modo y. Un abito di risposta, poi, non  che un significato incarnato: nel rispondere (il cielo si annuvola, prendiamo l'ombrello; lacqua bolle, abbassiamo il gas, ecc.) noi riveliamo il nostro comune commercio pratico col mondo, il nostro maneggiare e usare. Con queste azioni noi rendiamo palesi i significati del mondo. Venendo da Heidegger tutto ci ci suona particolarmente facile e familiare: la significativit del mondo  aperta dal prender cura quotidiano dellutilizzabile inteso come mez- zo (cio come rimando, cio come segno). Il prender cura ambiental- mente preveggente, maneggiante e usante, sono i comportamenti, gli abiti di risposta di Peirce. Giungiamo allora a questa stupefacente con- clusione: lanalitica esistenziale di Heidegger e la massima pragmatica di Peirce sono affini, Cosa dice la massima pragmatica di Peirce? Nella sua prima ver- sione (1878) essa suona cos: Considerate quali effetti, che possono concepibilmente avere portate pratiche, noi pensiamo che loggetto della nostra concezione abbia. Allora la nostra concezione di questi effetti  lintera nostra concezione delloggetto. Peirce cos commen- ta: Per sviluppare il significato di una cosa non dobbiamo far altro, dunque, che determinare quali abitudini essa produce, giacch quello che una cosa significa equivale a quali abiti essa comporta (...) Dobbia- mo scendere al tangibile e al pratico (concepibile) per trovare la radice di ogni vera distinzione di pensiero per sottile che sia; e non vi  di- stinzione di significato, per fine che sia, che possa consistere in altro che in una possibile differenza pratica. 76 Con ci Peirce ha detto che la radice di ogni significato logico non  di tipo contemplativo, ma  di tipo pratico; questo  il suo modo per dire che la verit logica non deve ridursi al formalismo della pura adeguazione tra la rappresentazione e la cosa, intesa come semplice presenza. Cos Peirce realizzava, nella sua chiave, quella rivoluzione totale dei comuni concetti di verit e di realt che si trova ana- logamente svolta in Sein und Zeit (questo nesso  per a tutt'oggi an- cora del tutto ignorato). Cerchiamo di comprendere questa rivoluzione sulla scorta del concetto di segno, che  il nostro costante punto di ri- ferimento. Che cos una risposta (un abito di risposta) dal punto di vista del segno? Una risposta  la manifestazione di una relazione segnica incarnata (con la sua pre-comprensione interpretante). Nel prendere l'ombrello mentre sto per uscire, poich vedo il cielo annuvolarsi, io manifesto una concreta relazione segnica: le nuvole sono il segno che rimandano me (lInterpretante) allOggetto minaccia di pioggia, sul- la base di quella pre-comprensione dei fenomeni atmosferici che  familiare agli esseri umani (si noti il circolo ermeneutico implicato nellesempio: so che le nubi portano la pioggia; ma ci sono le nubi; dunque verr la pioggia. Il che richiama la forma del sillogismo stoico, ma di ci non possiamo ora trattare). Chiediamoci ora: in una relazione segnica, dov' la realt? Do- ve si colloca? La risposta comune  che la realt sia lOggetto che viene indicato, o a cui siamo rimandati. Bisogner per ammettere che anche il segno che significa lOggetto  in qualche modo reale. Ma reale  poi anche lInterpretante. Infine, anche il rispetto o punto di vista, in base al quale il segno viene assunto come rinviante allogget- to,  qualcosa di reale. Come si vede, affrontato alla luce della rela- zione segnica il concetto di realt manifesta una sua ambiguit e ambivalenza. Scrive Peirce: La realt, come ogni altra qualit, con- siste nei particolari effetti sensibili che le cose che partecipano a essa producono. L'unico effetto che le cose reali hanno  di causare la cre- denza (belief), poich tutte le sensazioni che esse eccitano emergono nella coscienza sotto forma di credenze. La questione, dunque,  co- me distinguere la vera credenza (o credenza nel reale) dalla falsa cre- denza (o credenza nella finzione). Non c realt, dunque, che non sia in rapporto con una credenza (che  poi un abito di risposta, 77 cio uninterpretazione). La realt  dunque un segno per un altro segno che la interpreta. Non c realt fuori della interpretazione, il che Peirce esprime dicendo che non c una realt che non sia in rap- porto con il pensiero in generale (thought in general). Il pensiero in generale non  il mio, tuo, suo pensiero, non  cio un pen- siero individuale e particolare: la verit non  privata, ma pubbli ca. La verit pubblica  la somma delle interpretazioni dellintera comunit umana, e anzi la serie successiva e infinita delle interpreta- zioni (la catena degli Interpretanti). Cominciamo a comprendere in che senso luomo  un segno e la realt stessa  un segno. Uomo e mondo sono poli di una relazione segnica. Si pu tuttavia osservare: se tutto  segno, che cosa non  segno? Non cadiamo cos in un pansemioticismo assurdo? Dire che tutto  segno non  come dire che nulla  segno, che il segno ncn possiede alcuna specificit o peculiarit? La questione cos sollevata ci pone in imbarazzo; ma essa vien meno se consideriamo non solo ci che  e ci che fa un segno, ma anche come  fatto. Quali sono, cio, i caratteri del segno? Peirce elenca tre caratteri: 1. la Qualit materiale; 2. la Pura ap- plicazione dimostrativa (o denotativa); 3. il Significato (che  poi, come sappiamo, un abito di risposta). La Qualit materiale del segno  ci che il segno  per se stesso, indipendentemente dalla cosa che rappresenta (per es. la parola uomo ha quattro lettere, ecc.). La Pura applicazione dimostrativa del segno  la connessione reale o fi- sica che esso ha con la cosa denotata, alla quale si riferisce per lo pi tramite la mediazione di un altro segno (c una connessione reale o fisica tra il dipinto di uomo e l'uomo reale, sebbene solo attraver- so un segno mentale che associa i tratti fisici delle due cose, malgrado le differenze che intercorrono fra un dipinto e un uomo in carne e ossa). La vera e propria funzione rappresentativa del segno, per, non consiste n nella sua qualit materiale, n nella sua applicazione di- mostrativa o denotativa, perch tale funzione rappresentativa, scrive Peirce,  qualcosa che il segno , non in se stesso, o in una reale re- lazione ai suo oggetto, ma per un pensiero; i due primi caratteri del segno, invece, appartengono al segno indipendentemente dal suo indirizzarsi a un pensiero. Per il pensiero il segno riveste dunque il carattere di significato, 78 Torniamo ora al nostro problema. La realt  un segno (tutto  segno). Le perplessit che prima nascevano avevano la loro origine dal- la riduzione del segno al solo carattere del significato. La parola real- t  indubbiamente un significato. Essa designa, come sappiamo, lo accordo pubblico delle menti e cio linsieme degli abiti di risposta sociali. Ci  vero, senza residui, per qualsiasi comunit sociale data. Ma se  vero che reale, realt,  un significato, non  poi vera n valida lasserzione, per dir cos, reciproca che si potrebbe essere in- dotti erroneamente a trarre, e cio che il significato  tutta la realt. Un conto  porre il problema della realt sotto il profilo del significa- to (e cio chiedersi che cosa significa realt), un altro conto  ad es. quello di porre il problema della realt del significato, ovvero del- la rea!t del segno. Il significato non  una qualit accanto ad altre qualit, o un fatto accanto ad altri fatti, ma  una relazione tra qua- lit e fatti, e cio un'attivit di interpretazione simbolica. Le qualit materiali dei segni sono solo potenzialmente dei significati. Cos il fatto di una Pura applicazione dimostrativa (per es. il fatto per cui la Qualit materiale di una certa esclamazione pu indicare un peri- colo, ovvero funzionare da Indice nei confronti di un pericolo)  solo potenzialmente un significato. Solo nel momento in cui la relazione tra qualit e fatti viene tradotta in una risposta effettiva, in una forma definita di comportamento, abbiamo il significato, e sia le Qualit materiali, sia le Pure applicazioni dimostrative acquistano rilevanza segnica. Solo allora, da potenziali propriet segniche esse divengono effettive realt segniche. Con la parola significato non facciamo altro che designare tale avvenuto passaggio (e non una cosa diversa e ulteriore rispetto alle qualit e ai fatti) e cio lanimazione simbo- lica delle qualit nei fatti, ovvero la loro utilizzazione in un processo interpretativo. Sintende che qualit e fatti divengono tali per noi (e cio pro- prio quelle qualit e proprio quei fatti) solo nella forma del signifi cato: solo allora li percepiamo praticamente e possiamo designgili mediante segni intellettuali. Ma questa avvenuta traduzione nella for- ma del significato (questa interpretazione; potremmo anche dire: questa nostra impossibilit di riferirci a qualit e a fatti se non in quan- to rappresentati simbolicamente e cio gi da sempre inseriti nel- larea del significato) non ha il senso di una riduzione, che sarebbe 79 del tutto indebita, dellintera realt al significato. Se  vero che in ogni nostro atto intelligente, espresso o meno in simboli intellettuali, ma- nifestiamo il nostro totale inserimento nellarea del significato,  an- che vero che la possibilit di tale inserimento dipende dalla non-coin- cidenza di principio dellarea dei significato con la totalit del reale. Parafrasando un celebre motto aristotelico, potremmo dire che, per Peirce, reale si dice in pi sensi: in quello del significato (reale, cio,  un significato), ma anche in quello della qualit e del fatto (qua- lit e fatti sono in un qualche senso reali, prima di essere, a loro val- ta, significati, ovvero prima di essere inseriti nellarea del significato). Questa verit  stata espressa da Peirce mediante la sua fenome- nologia (o faneroscopia). La faneroscopia studia infatti i caratteri di ogni cosa che appare (di ogni fenomeno), cio di ogni realt. Tali caratteri corrispondono a tre categorie, alle quali Peirce ha dato pi nomi, ma che noi qui chiameremo, per brevit, Possibilit, Esistenza e Legge. La Qualit materiale di un segno  appunto una Possibilit (non questa o quella qualit, per es. rosso, poich ci  gi un si- gnificato; piuttosto, la pura possibilit che un carattere qualsivo- glia divenga segno per qualcosaltro); la Pura applicazione dimostra- tiva di un segno  unEsistenza (non questa o quella cosa esistente, ma la presenza di un nesso possibile fra una Qualit materiale e qual- che altra cosa); il Significato, infine,  una Legge, cio una norma di comportamento che stabilisce un rapporto effettivo tra una qualit e un fatto (per es.: il rapporto tra il colore nero delle nubi e il loro presentarsi nel cielo induce al comportamento esprimibile nella nor- ma: se il cielo si copre di nuvole nere,  bene prendere l'ombrello, poich piover). Colleghiamo queste osservazioni con la massima pragmatica, e- nunciata sopra. La massima pragmatica definisce il reale come ci che ha conseguenze pratiche e sensibili. D'altro lato Peirce sostiene anche, a pi riprese, che reale  l'accordo pubblico delle menti. Le due definizioni in effetti si integrano; esse affermano la stessa cosa considerata da punti di vista differenti. Bisogna ricordare infatti che Peirce considera la mente come un'attivit segnica, cio come una attivit interpretativa. La mente  un comportamento intelligente, un abito di risposta. Essa non  distinta dall'organismo, ma nomina l'insieme dei comportamenti intelligenti dell'organismo stesso, ovvero. 80 i suoi atti finalizzati, capaci di produrre il significato. In questo sen- so, il mondo reale  il mondo delloperare intersoggettivo umano secondo significati pubblici, e cio sociali. Potremmo dire:  pro- prio nelloperare, nella messa in atto di quegli abiti pratici che hanno conseguenze sensibili, che manifestiamo che cosa per noi  reale. Linsieme delle risposte sociali manifesta, daltro canto, l'accordo pub- blico delle menti e tale accordo, in quanto abito pratico incarnato, coincide con ci che per noi vale come reale. Per fare un solo esem- pio, nei processi per stregoneria nel medio evo, le streghe, o suppo- ste tali, non erano oggetti immaginari, ma oggetti dotati di valore e significato reali per la comunit sociale del tempo. Rivolgiamoci ora, invece, al concetto comune, o volgare, di realt (concetto del quale neppure le pi raffinate scienze sembrano volersi liberare). Reale, dice il senso comune,  ci che si tocca, si vede, si sente (cio reale  ci che sta di fronte nella sua semplice pre- senza). Per anch'io (che vedo, tocco, sento) sono reale, negli atti del mio vedere, toccare, sentire. Quindi ci sono due realt: una ester- na e una interna; e la verit consiste nellaccordo dellinterno con lo esterno. E poich linterno  mutevole (sogno, prendo abbagli, ecc.: tutta lantica questione dagli scettici greci a Cartesio e oltre), devo ammettere che, delle due realt, quella esterna  pi vera o pi certa. E noto che cosa oppone la filosofia a questo modo di ragionare co- mune. Come possiamo conoscere la realt esterna? (tesi scettica) Che bisogno c di una realt esterna? (tesi idealistica). La discussione  continuata per 2500 anni; e non  ancora conclusa. Ma i due poli della discussione stessa sono in verit appartenenti a ununica strategia (come direbbe Foucault): la strategia del pensare metafisico che parte dalla realt intesa come semplice presenza e dalla verit come adeguazione della rappresentazione con la cosa semplicemente pre- sente (si ricordi Heidegger). Metafisica e gnoseologismo fanno cos tutt'uno. Questa strategia  stata perfettamente espressa da Kant, quan- do si chiedeva:  la nostra rappresentazione che si deve conformare alloggeto o  loggetto che si deve conformare alla nostra rappresen- tazione? Egli credeva di porre in tal modo una questione radicale e di rivoluzionare tutta la tradizione metafisica (rivoluziore copernica- na). In realt egli non faceva che esplicare sino in fondo un polo (quel- lo soggettivo) della medesima strategia del pensare metafisico. 81 Questa strategia non vede che reale  la relazione interpretativa (nelle sue tre componenti), e cio la relazione segnica. Dopo il cam- mino compiuto sin qui possiamo ora rispondere, in modo pi appro- fondito, alla domanda: in che senso la relazione segnica  reale? Dove  il reale in essa? Per ci che si  detto, la relazione segnica sar reale in tre sensi: come Qualit materiale, come Pura applicazione dimo- strativa e come Significato. Il primo termine indica ci che potrebbe fungere come segno (ogni qualit possibile dell'universo pu diventare un segno per qualcos'altro). Il secondo termine indica lOggetto, cio il rapporto di fatto che potrebbe istituirsi tra una qualit assunta come segno e ci a cui essa rimanda. Il terzo termine indica lInterpretante, cio quel segno gi attivato (il punto di vista o rispetto; la pre-com- prensione di Heidegger) che traduce la possibilit segnica in una re- lazione segnica effettiva. La realt  dunque un segno, ma non in un senso univoco (cio nel senso del significato, della mediazione: questo, dice Peirce,  l'errore di Hegel). Oltre ai significati (il linguaggio, i comportamen- ti), ci sono anche ci che il comune opinare chiama le qualit sensi- bili e le cose esistenti (i fatti). Solo che lopinare comune ragiona rozzamente, nei termini dellingenuit naturalistica. E utile per noi riferirci ancora una volta allopinione del senso comune. Essa di- ce: ci sono le cose (indipendentemente da noi). Le. cose colpi- scono i sensi (che sono poi altre cose). Allora sorgono per noi (esseri senzienti e razionali) le rappresentazioni qualitative (soggetti ve? Oggettive? Primarie? Secondarie? Ecco di nuovo il luo- go metafisico di tutte le tradizionali questioni gnoscologiche). Noi designamo le cose sulla base delle rappresentazioni e mediante segni convenzionali che sarebbero poi le parole (altre cose). Tutto, nel pensare comune (che ha le sue radici nel pensare metafisico),  ridotto dunque a una relazione tra cose. Naturalmente tutto diviene cos molto oscuro, un incomprensibile enigma. Noi invece, sulla scor- ta di Peirce, poniamo come reale la relazione segnica, in quanto essa attiva i significati (le interpretazioni, gli abiti di risposta). Ma atten- zione: la realt del significato (che di per s non  nulla di fisico: non  n una qualit materiale n un fatto esistente; non  qualcosa che il segno  per se stesso, o una sua parte-componente) consiste pro- prio nel collegare le Qualit materiali e i fatti o Pure applicazioni di- 82 mostrative. Questi ultimi, tuttavia, presi esternamente al significato, non sono a loro volta nulla di fisico o di determinato. La realt del significato (che non  nulla di fisico) consiste dunque nel render reali i due elementi che esso media, che, indipendentemente dal si- gnificato, non sono essi stessi nulla di fisico. La relazione segnica, dunque, media gli estremi e nel far ci, insieme, li pone. Questo, si era detto,  il proprium della relazione segnica, il punto pi arduo da capire. Noi diciamo ad es. che il significato del sogno  di promuovere la realizzazione fantastica di un desiderio. Il significato rinvia a qua- lit (desiderio) e a fatti (realizzazione). Ma quando diciamo deside- rio e realizzazione fantastica, diciamo ancora dei significati. Come si era visto, noi siamo condannati al significato, come Mida era con- dannato a trasformare in oro tutto ci che toccava. La parola, diceva Hegel, ha il potere di trasformare ogni cosa in un universale (in un concetto, cio in un significato). Cos per noi sorge una qualit materiale determinata (per es. nero) solo quando io la riconosco come tale, e cio la inserisco in uninterpretazione, in un significato. Ma noi non dobbiamo confondere la Qualit materiale di un segno in quanto sta nel significato con la Qualit materiale della relazione segnica, in quanto possibilit esterna al significato. Tutto per noi  significato (in quanto noi siamo inseriti nella catena infinita degli Interpretanti, nella semiosi infinita) (12), tranne la possibilit e la pura esistenza del significato stesso. Diciamo, con una sola parola, l'evento del significato. Tale evento non dipende da noi; noi anzi sia- mo Interpretanti per lui (anche se quando lo interpretiamo, o nellin- terpretarlo, lo diciamo, e non possiamo altrimenti, come significato). Lopinare comune vuole acchiappare le cose fuori del signi- ficato e non vede che proprio le cose sono nel significato (nel nel senso dellin-essere heideggerianoi cio: le cosc sono prgmata; si veda sopra). Tuttavia il senso comune, lopinare comune, ha a suo modo ragione di intuire oscuramente che realt non  = a signi ficato (a pensiero o interpretazione). Ma cade poi in errore quan- 12) Sul tema della semiosi infinita (che verr pi avanti ripreso) Cfr. Sen.iotica e fil. cit., pp. 11-59 (La semiosi infinita"). 83 do, sulla base di un antico vizio metafisico, concepisce le cose reali come semplici presenze, come la semplice presenza di ci che si vede, si tocca, si sente (che son poi tutti segni, e anzi significati). Do- vrebbe invece sollevarsi a comprendere che reale  il risultato di una funzione relazionale che conferisce realt segnica al possibile e alle- sistente, che sono a loro volta e a loro modo realt segniche. Quan- do invece siamo di fronte a una semplice presenza, gi tutto  stato fat- to: la relazione segnica ha gi operato silenziosamente in noi. E infatti, siamo di fronte a un segno. Se vogliamo esprimere il punto di partenza veramente originario, dovremmo dire: c un punto di vista possibile che potrebbe determinarsi come Qualit materiale in relazione (Pura applicazione dimostrativa) a un fatto (per es. il rosso come rimando al fatto del fuoco). Questo c (o, meglio, potrebbe esserci)  a suo modo reale quanto il risultato che dice: se c del rosso  segno che c del fuoco, e che lo dice, naturalmente, sul piano della realt del significato. In una parola: noi dobbiamo distinguere la real- t dellevento (del significato) dalla realt del significato (dellevento). Ma tutto ci ci riporta, ancora una volta, a Heidegger: non c un uomo reale che sta in un mondo reale, come il pesce sta nel- lacqua o la chiave nella toppa; c un essere-nel-mondo, cio un es- serci che ha da essere il suo Ci, ovvero che ha da interpretarsi nel suo essere e che anzi si  gi sempre interpretato e continua a inter- pretarsi. Dove  questa interpretazione, l, anche,  il reale. Nei termini di Heidegger questa interpretazione esige un segno come In- terpretante (esige una pre-comprensione, una prospettiva:  il circolo ermeneutico che corrisponde compiutamente alla semiosi infinita di Peirce); poi esige la sua peculiare tonalit emotiva (cio, in Peirce, la Qualit materiale); e infine esige lOggetto, la significativit, sciolta dallimplicito e recata allesplicito del linguaggio. D'altra parte, ci che in Peirce si sottrae allinterpretazione (e insieme la rende possibile)  la Qualit materiale e il fatto; ci che in Heidegger si sottrae allinterpretazione (e insieme la rende possibile)  lessere (o il senso dellessere). Chiamiamo questa situazione even- to: l'evento apre lo spazio allinterpretazione (al significato). In ter- mini heideggeriani, l'evento non  altro dal farsi mondo (mondano) della. mondit (cfr. sopra). L'evento  il luogo senza spazio di ogni possibile luogo, di ogni possibile aver luogo. Noi diciamo il luogo 84 del mondo nello spazio del significato; ma lo spazio del significato  il non-luogo dellevento. Si chiarisce qui, finalmente, lenigma di De Saussure: l'enigma della parole il cui non-luogo costituisce per la possibilit del luogo della langue. Col che  anche compiuto, forse, un primo passo per rispondere agli interrogativi heideggeriani circa la natura del linguaggio: essa deriva dalla natura del segno, della re- lazione segnica. Abbiamo visto in che senso vada intesa la relazione segnica, non- ch il suo rappo:to con i concetti di realt e di verit. Abbiamo visto i caratteri generali di tutti i segni (Qualit materiale, Pura applicazio- ne dimostrativa, Significato). Dobbiamo ora approfondire i tre poli della relazione segnica (ci che Peirce chiama: il segno in relazione a se stesso; il segno in relazione allOggetto; il segno in relazione al- lInterpretante). Di qui una celebre classificazione dei segni: A) Ilsegnoin relazione a se stesso o Representamen (E' come chiedersi: quali elementi entrano nella costituzione di un segno? Ricordiamo: ogni cosa  un segno, purch stia. al posto di, purch rimandi) Qualisegno (o tone) ( la pura possibilit della qualit di un segno; per es. una possibile sfumatura di colore) i Sinsegno (o token) ( un singolo fatto esistente che incarna la qualit segnica; per es. proprio questa bandierina colorata) Legisegno (o type) ( la legge o il codice duso del segno; per es. il rosso su questa bandierina sulla spiag- | gia significa mare agitato) (Tutto ci non  che la possibilit di una relazione segnica). B) Ilsegno in relazione allOggetto | (E' come chiedersi: in che modo il segno rimanda? Ricordiamo che Husserl e poi anche Heidegger si limitano al caso dellindica- re, all'indice; Peirce invece articola la questione secondo le sue tre categorie fenomenologiche o faneroscopiche); Icona (tra il segno e lOggetto deve potersi porre una qualche somiglianza, una possibilit di 85 somiglianza;  la possibilit di qualcosa di comune, di simile, che apre la possibilit stessa del rapporto, cio del rimando del se- gno allOggetto) Indice (tra il segno e lOggetto si pone di conse- guenza una relazione di fatto, una connes- sione fisica). Simbolo (il fatto viene sollevato a norma, a legge: il fatto che il fumo rimandi al fuoco divie- ne simbolico: il fumo  segno del fuoco) (Tutto ci non  che la semplice esistenza di una relazione segnica). C) Ilsegno in relazione allInterpretante (E come chiedersi: come si specifica lo spazio di risposta al segno, il luogo della sua interpretazione? Non invece: chi interpreta? Que- sta  una domanda non originaria; chi interpreta  solo un caso incarnato di Interpretante) Rhema ( lo spazio dorigine della parole, lapertura della sua possibilit: la possibilit di un se- gno interpretante. Se volessimo seguire le indicazioni di Heidegger dovremmo dire che  lo spazio silenzioso (= a possibilit non ancora incarnata) dell'ascolto) Dicisegno ( il luogo dellasserzione, del giudizio: il rhema diviene un esistente, un predicato concreto che dice: levento  rosso) Argomento ( il ragionamento dispiegato, il sillogismo, cio linterpretazione esplicitata nel di- scorso 0 logos) Sulla base di questo schema possiamo anche dire che lInterpre- tante designa il campo dei significati; ma la loro possibilit  gi in cammino nel Representamen e nellOggetto. Inoltre lInterpretante determina anche il campo dei rispetti e capacit sotto i quali  pos- sibile istituire una relazione segnica. Il rispetto e capacit della definizione del segno di Peirce equi- vale a ci che in Heidegger  la pre-comprensione (del senso dell'essere; 86 cio del significato dellevento). Il che significa che anche in Peirce  operante il circolo ermeneutico: vi  unassunzione preliminare, una prospettiva, che rende possibile linterpretazione. Interpretare, dunque, non significa riprodurre loriginario. Ci  impossibil. Non perch noi non possiamo farlo, in quanto finiti, ecc., bens per- ch loriginario non esiste (posizione radicalmente anti-husserliana e anti-metafisica). Ci equivale a dire: 1. che non ci sono cose extra interpretationem; 2. che noi non possediamo unintuizione che ci ponga al cospetto della cosa in carne e ossa (lintuizione  una fa- colt che luomo, dice Peirce, non possiede; crede di possederla, scambiando limmediatezza di certe sue interpretazioni, immediatez- za dovuta allabitudine ripetuta di certi atti interpretativi, per una co- noscenza diretta, intuitiva, della cosa; lintuizione  una mera cre- denza psicologica; la parola intuizione designa questa nostra cre- denza e non il modo in cui noi ci riportiamo di fatto al mondo, in- terpretando). La natura della verit  dunque interpretativa, non intuitiva. E interpretare implica per essenza il circolo ermeneutico (per interpre- tare bisogna gi sempre avere interpretato; oppure, nei termini di Peir- ce: un segno rimanda sempre a un altro segno, allinfinito: semiosi infinita). Ma ricordiamoci dellavvertimento heideggeriano: bisogna, non rifiutare il circolo (come fanno la logica e le scienze, e, sul loro esempio, anche la storia e le altre scienze umane); bisogna invece sa- pervi stare in modo adeguato. In tal caso si rivelano conseguenze van- taggiose. Chiediamoci ora? quali conseguenze? Non le coglie chi in- tende il circolo ermeneutico e la semiosi infinita come forme di sog- gettivismo o di idealismo, contrapposte alloggettiviimo dogma- tico e ingenuo (nel senso, per es., della lotta di Husserl contro 1'o- biettivismo naturalistico). Heidegger e Peirce sono al di l di tali di- stinzioni e contrapposizioni (ancora metafisiche). Il soggetto, il pen- siero sono funzioni circoscritte e determinate entro la relazione segni- ca. A noi  assegnato di esser soggetti (assegnato appunto dalla rela- zione segnica). Quali dunque le conseguenze? Indichiamone almeno due: 1. la coincidenza di verit e realt (coincidenza peculiare, poich comporta, nella coincidenza, anche una non-coincidenza); 2. l aprirsi di una possibilit di superamento del nichilismo (ul- 87 tima propaggine della metafisica). Con le parole di Nietzsche il nichilismo dice: Dio  morto (13); cio: tutti i valori, tut- ti i significati sono caduti; niente ha senso. Il superamen- to qui indicato apre il varco al recupero del senso {si ricordi che il problema di Heidegger  appunto quello del senso del- lessere). Vediamo il punto 1. Esso coincide con la semiosi infinita e col circolo ermeneutico. Detto in altri termini, esso insegna che la verit non  un possesso, e che la realt non  un semplice fatto (extra inter- pretationem). La verit non  un possesso perch noi (come interpre- tanti) siamo destinati a incarnare la verit, ma non possiamo, a no- stro talento, produrre la verit (produrre levento del significato). Si ricordi Peirce: la verit mia, tua, ecc.  solo idiosincrasia ed errore; la verit  pubblica; cio,  un processo pubblico di interpre- tazioni, una catena infinita di interpretanti. Noi, dunque, siamo col- locati dalla parte del significato, della realt come significato: questa  la nostra collocazione entro la relazione segnica che ci istituisce co- me interpretanti e che ci assegna il destino del significato.. Ora, la verit non  qualcosa che deve trovare laccordo (ladae- quatio) con la realt (gnoseologismo metafisico). La verit  gi sem- pre in accordo con la realt, poich  lo stesso processo della realt, presa appunto come significato. In questo senso la verit della rivolu- zione francese (per usare un esempio di Lvi-Strauss)  quella del san- culotto e quella dellaristocratico. Questa  anche la sua realt (ove le due verit, infatti, interagiscono luna sullaltra e determinano il corso degli avvenimenti). Ma noi sappiamo che la realt non si esau- risce nel significato, sebbene si manifesti sempre nei significati. Sic- ch il sanculotto e laristocratico non possiedono .la verit, sebbene la incarnino, Come si pu incarnare qualcosa senza possederla? In quan- to verit e realt, nel mentre si donano, anche si ritraggono. Cio in quanto vera e reale, nel pi alto senso,  la relazione segnica, e non questo o quel polo di essa. Il sanculotto e laristocratico sono i poli 13) Cfr. Semiotica fil. cit., pp. 134-55 (Il nostro nuovo infinito "). 88 di una strategia storica che, presi per s, sono soltanto idiosincrasia ed errore. Essi sono destinati, gettati, dalla loro collocazione entro la relazione segnica; ma la verit che essi incarnano (cio la loro stessa realt di interpretanti)  affidata al significato pubblico in cammino. Ponendosi da un punto di vista determinato (in una peculiare pre-com- prensione che dipende dal loro modo di essere-nel-mondo, di interpre- tare i prgmata, emotivamente collocati), essi sono anche destinati alla loro condanna: sono condannati a quel processo infinito di inter- pretazioni che va sotto il nome di Rivoluzione francese, la cui real. t cammino, il sanculotto e laristocratico non posseggono la verit, ma  tuttora in cammino e non  destinata ad arrestarsi mai. In questo piuttosto la trasmettono, interpretandosi nel loro Ci. | Si comprende meglio allora la peculiarit della relazione tra ve- rit e realt: relazione di coincidenza e insieme di non coincidenza. Tutto ci che  (come diceva Enzo Paci) vive nella verit (Paci per lo diceva in senso husserliano, non heideggeriano), vive nel processo della verit (cio nel processo del significato). Ma perch vi sia un pro- cesso della verit, del significato, il reale deve anche, per principio, sfuggire alla verit e al significato, distanziarsi da esso nel momento. stesso in cui si dona in esso. Questo darsi al significato e perci distan- ziarsene  ci che noi chiamiamo evento, Levento non  il miste- ro, l'aldil, il mistico:  nella natura della relazione segnica il darsi ritraendosi al significato e dal significato. Cio, questa esperien- za che noi sempre facciamo dell'evento (del significato) non  che lapprofondimento della affermazione peirceiana secondo la quale il reale  un segno (una relazione segnica). Ci che  rimanda. Questo rimandare  lo stesso evento del segno. Vediamo ora il punto 2. Noi siamo nel rimandare, nel mondo come rimando e segno; vi siamo come gettati. Il nostro esser gettati (Geworfenheit) sta in ci: che' abbiamo da essere ci a cui il segno rimanda. Per es.: abbiamo da essere ci a cui invia il no- stro tempo. Averlo da essere nor significa che  in nostro potere esser- lo o non esserlo: gi da sempre noi lo siamo nei nostri abiti di rispo- sta. E noi rispondiamo a un gi in cammino che ci precede e ci col- loca nel nostro ruolo di interpretanti. In molti modi noi rispondiamo: noi ci inseriamo in trame di pensiero (cio di abiti dazione), in catene di interpretanti che, tutte insieme, disegnano la strategia del no- 89 stro tempo (del nostro essere-nel-mondo interpretandoci nel nostro Ci). L'invio della gettatezza  una trama nella quale ognuno svolge la sua parte destinata (o le sue parti, poich la nostra stes- sa soggettivit  un nodo di questa trama molteplice). Ma a che invia, a che rimanda il nostro tempo?  qui che si apre labito di risposta del filosofo e in generale della cultura, la sua fun- zione interpretante; funzione tanto pi importante e genuina quan- do la cultura sappia tacere e ascoltare per fare spazio alleven- to che intanto fatalmente (come direbbe Peirce) e-viene. (Cio quan- do la cultura non si abbassi a chiacchiera e a curiosit, a un altro modo della prassi inconsapevole, al dire e ridire ideologico e confor- mistico, schiavo della semplice violenza del fatto senza significato). Il compito della cultura  portare al significato esplicito ci che  im- plicito nei prgmata. In questo modo, da sempre la cultura d la realt del significato a ci cui il segno rimanda (il che equivale a SABLE  esplicitamente la relazione segnica; ci  per anche un aprire una nuova relazione segnica). Il significato, infatti,  un nuovo segno cui  essenziale, come sempre e di nuovo, il rimandare, laver-da-essere. Entrati nel rimando, cio nel segno (e noi non abbiamo altra real- t che il segno, la relazione segnica), noi siamo da sempre e per sem- pre collocati nella semiosi infinita (Heidegger direbbe: nella storia Geschichte). Per questo noi dobbiamo sempre di nuovo domandare a che il segno rimanda. Pi esattamente: che cosa esso annunzia; pur sapendo che ci che il segno annunzia anche lo distanzia e sem- pre di nuovo ce lo sottrae. Sin dal primo segno noi siamo diretti all'Oggetto. E posto che per un individuo umano il primo segno sia lannunciarsi del seno ma- terno (e non il seno materno, che non esiste), noi siamo poi continua- mente diretti a questo Oggetto, mai posseduto e mai catturabile (Og- getto che prende in seguito molti nomi: tutti quelli che gli conferisce il nostro desiderio, cio la Qualit materiale del nostro modo di esser segni, il nostro esser gi sempre emotivamente collocati nella nostra funzione di interpretazione comprendente). Ma lOggetto non  altro che ci che si annuncia nel segno.e che nel segno si eclissa. E' questo movimento del significare che rimanda (ed  in questo movimen- to, come vedremo, che si annida la possibilit del senso"). La com- prensione di questo legame potrebbe forse essere ci che Heidegger 90 chiama esistenza autentica (ma il tema non  stato affrontato in questo corso). i Coloro che conoscono Sein und Zeit sanno che lesistenza au- tentica si caratterizza nellessere-per-la-morte; cio all'esistenza au- tentica appartiene la decisione anticipatrice che comprende sino in fondo il per-ora-non-ancora, e tuttavia in qualsiasi momento (lo comprende, cio lo vive esistenzialmente). Allora, alla luce del no- stro esempio, il primo Oggetto che d la vita (il seno materno), anche la sottrae, inviandoci alla morte come al nostro pi vero destino (si ricordi limmagine nicciana di Dioniso nello Zarathustra: il signore. dell'oro della vita che ha in mano il falcetto di diamante della morte, circondato da tutte le guizzanti cose delluniverso, cio da- gli enti intramondani) (14). . Queste considerazioni consentono lo sviluppo del secondo punto (la possibilit di un recupero del senso al di l del nichilismo). E necessario limitarci qui a un cenno, data la complessit e oscurit del problema che tutti oggi ci coinvolge. Il tema deriva a sua volta dalla capacit di stare nel circolo ermeneutico (il quale dice: la natura del- la verit  interpretativa; non ci sono cose extra interpretationem; lo originario non esiste). Caratterizziamo il nichilismo con una battuta. Esso dice: nulla su questa terra ha senso, niente  destinato a durare; tutto  imperfetto e caduco; il mondo non  come dovrebbe essere: esso  la valle di lacrime. Ma allora il nichilismo, inavvertitamente, anche dice: ci che vale  ci che dura (che non  soggetto alla leg- ge del tempo, secondo il motto di Anassimandro); ma ci che dura non  di questo mondo. Perci il nichilismo, non ostante tutte le sue negazioni, dice ancora, ostinatamente, che ci che vale  il sopra- sensibile, leternamente presente, l'Ente Sommo, l'Assoluto. Nietzsche platonismo e anche cristianesimo. Nella storia dell'occidente il platonismo  la storia della caduta di tutti i valori soprasensibili la sua conclusione  che Dio  morto, non ci sono valori, niente ha senso. Questa conclusione per (lateismo, il ma- terialismo, lo scientismo, ecc.)  solo in apparenza la negazione del platonismo (15); in realt  il mero capovolgimento di una medesima  chiama questa posizione 14) Cfr. Semiotica e fil. cit., p. 153. 15) Cfr. Semioticae fil. cit., p. 252-3. 91 strategia di pensiero. Essa dipende. interamente dallaver concepito assoluti. Attribuirne il possesso a Dio, oppure alluomo dellumanismo trionfante (all'uomo del progresso, dellet della scienza e della tecnica) non  diverso. Cos poco diverso che noi pos- siamo assistere a un compromesso fra le due posizioni (cosa non nuova: nel medio evo limperatore Federico II, il diabolus in politicis, poteva accordarsi col successore di Pietro: alluno il governo delle ani- me per laldil; allaltro il governo dei corpi per laldiqua; ma poich non ci sono anime e corpi in questa accezione metafisica, laccordo poi, come  noto, non funzionava; levento irridente continuava a fun- zionare a modo suo, determinando il corso del mondo, come direb- be Hegel, al di l delle buone o non buone interzioni di coloro che noi chiamiamo protagonisti). La relazione segnica dice invece che noi non abbiamo il possesso. Cio, che non esiste lassoluto. Ma  proprio perch non esiste lasso- luto che  aperta a noi la possibilit del senso(16). Non leterno ha senso, ma proprio il caduco nella sua caducit. Solo lacqua del fiume in cui, secondo Eraclito, non ci potremo bagnare due volte, ha senso. i valori come In altri termini: il senso deve accettare la morte come sua condizione. (Hegel ne aveva ben visto qualcosa nella dialettica servit-signoria, ma non possiamo aprire qui questo discorso). In termini semiotici: il si- gnificato deve accettare levento. Anzi: il significato  una continua domanda circa levento. Heidegger ha scritto che il domandare  la piet del pensiero. In che senso piet? Piet di che? Alla luce del nostro cammino, proviamoci a rispondere. Diciamo: una duplice piet. Innanzi tutto la piet verso il significato, poich es- so, come da sempre dice la poesia, nellattimo in cui brilla, gi tramon- ta e declina (i poeti chiamano il significato bellezza, amore, fe- licit, gloria, speranza, e cos via). Esserne pietosi vuol dire: lasciar essere (ora questa espressione heideggeriana comincia forse a comprendersi nel profondo), custodire (come, secondo un esem- pio di Heidegger, la zolla custodisce il seme; oppure come la memoria 16) Cfr. questa posizione a proposito di Protagora in Semiotica e fil. cit., pp. 294-5. 92 custodisce i ricordi). E significa anche alimentare e proteggere (come noi nutriamo e proteggiamo i nostri piccoli, pur sapendo che non sono eterni). In secondo luogo, la piet verso levento. Qui nel senso preciso di pietas: il senso che levento (levento del significato) ci sovrasta e ci invia; che noi siamo in lui, nel senso dellin-essere: o ancora nel senso in cui Peirce dice che noi siamo nel pensiero (cio nella catena destinata degli interpretanti in cammino), e non che i pensieri sono in noi. Qui, ancor pi, la pietas  il silenzio di fronte allineffabile, che tuttavia sempre di nuovo attraverso noi, e in grazia del nostro silen- zioso ascolto, si dice,  stato detto, verr detto, La risposta al nichilismo pu allora essere che il senso, il va- lore, sono di questa terra (come annunziava lo Zarathustra di Nietz- sche). Ma la terra non  limmota sostanza semplicemente presen- te in cui noi siamo al modo del pesce nellacqua e della chiave nella toppa. La terra  il gioco del significato che trae alimento dalle- vento. La terra  linsensato che rende possibile il senso. La devasta- zione che essa porta in tutti i nostri sensi (sino alla morte, come in- sensato ultimo e sovrano)  la stessa qualit materiale di cui si com- pongono da sempre tutti i nostri possibili sensi. In questa luce, lincontro di semiotica e di ermeneutica, sulla base del concetto di segno, incontro che in questo corso abbiamo de- lineato, mostra di poter essere altro che non una semplice curiosit culturale. Forse in quell incontro  racchiuso un destino, al quale il segno del tempo ci invia. Finito di stampare nel giugno 1978 dal Centro Stampaa Rozzano per conto della LIBRERIA CORTINA SpA Milano L. 3.000 (2.830)

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